Dai numeri di Antigone alla Costituzione inattuata: perché la galera non basta di Alessandra Servidori ilsussidiario.net, 10 agosto 2025 La situazione nelle carceri italiane è drammatica e rischia di essere particolarmente grave per i più giovani. Tutti i giorni sono segnati da tragedie di uomini che uccidono donne e poi recentemente la situazione si è aggravata con alcuni di essi che, incarcerati, si tolgono la vita Non sapremo mai se è il rimorso che li devasta o sono le condizioni di carcerati che li portano al suicidio, sappiamo solo, nell’ultimo episodio, che il giovane era stato sottoposto a vigilanza continua e che il suo avvocato aveva chiesto una perizia psichiatrica che non è stata eseguita in tempo utile. Vero è che le condizioni delle carceri italiane sono caratterizzate da un sovraffollamento e da una carenza di risorse che incidono negativamente sulla vita dei reclusi e anche del personale costretto a turni pesantissimi. Eventi causati dal degrado e da mancanza di manutenzione portano ad atti di autolesionismo devastante. L’Associazione Antigone ha pubblicato il suo report a fine 2024, dove denuncia che a fronte di 47.000 posti disponibili il tasso di sovraffollamento contava 62.153 unità con 88 suicidi e 243 decessi totali. Il reato di femminicidio di recente sottoposto a reato con aggravante, ma questo non pare essere un disincentivo all’accanimento che si perpetua sulle donne, anche perché la cosiddetta prevenzione è fatto con strumenti come il braccialetto elettronico, che a volte addirittura non funziona o non viene segnalato come attivato nonostante varie denunce effettuate dalle vittime. Il fatto vero è che la cultura della soppressione della donna non accondiscendente è una costante che ammorba la quotidianità e sono indispensabili interventi concreti da parte delle istituzioni, della scuola, poiché la società e la cultura ancora molto maschiliste e oggi poi molto violente, insieme alla scarsa tutela della donna in molti ambiti e la rappresentanza in ambito familiare e soprattutto nel lavoro sempre troppo precario non restituiscono alla figura femminile il ruolo reale che svolgiamo nella comunità. La funzione del carcere sancita dall’art 27 della Costituzione prevedrebbe il reinserimento sociale del condannato con strumenti e percorsi che favoriscono il cambiamento del suo comportamento e il rispetto della società attraverso un trattamento rieducativo come l’istruzione e il lavoro e l’accesso a misure alternative alla detenzione per riconquistare una vita fuori dal carcere. Ma così non è il più delle volte e ci appare un’utopia il raggiungimento di tale obiettivo a sistema anche perché manchiamo di risorse adeguate. Per la verità alcune lodevoli eccezioni all’interno delle carceri sono rappresentate da attività che promuovono il reinserimento graduale nella società come ad esempio la possibilità di dedicarsi allo studio e, secondo Antigone, sono 796 gli studenti universitari in carcere iscritti in 30 università e molte aziende e fondazioni offrono l’impiego costruttivo e diversificato delle giornate nel contesto carcerario in ambito artigianale e alimentare. Ma altrettanto vero è che a chi esce dal contesto carcerario non viene in realtà offerta una reale e concreta possibilità per lo stigma che lo accompagna all’emarginazione sociale a cui è destinato. E altrettanto vero è che sempre l’Associazione Antigone dichiara che il 13% dei detenuti presenta una diagnosi di disturbo psichico grave. E per i giovani la situazione è veramente gravissima perché la criminalità giovanile - in particolare per i crimini violenti - è in drammatica ascesa con bande di gruppi devianti che sovente si uniscono per rafforzare il loro desiderio insano di violenza verbale, psicologica, fisica, sessuale fino ad arrivare all’omicidio. Spesso sono i social network che diventano amplificatori di azioni riprovevoli che assumono il profilo di atti radicalizzati, esaltanti, illeciti da emulare con linguaggi aggressivi nei confronti dei più deboli. Addirittura in alcune serie tv o brani musicali si trova una narrazione che quasi normalizza o esalta la violenza e l’abuso di sostanze che svuotano di valore e senso la vita. In questa emergenza educativa prima di arrivare al carcere quelli che servono sono appunto percorsi di prevenzione, ascolto, approfondimento su argomenti come le dipendenze, la cultura sociale, la solidarietà. Doglio: “Non costruiremo solo celle, sarà anche una valorizzazione immobiliare su vasta scala” di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2025 Intervista al commissario straordinario all’edilizia penitenziaria: la misura servirà a “recuperare dignità, sicurezza e funzionalità. Valutiamo lo spostamento dei detenuti in siti più moderni”. Lo paragona ad una “matrioska”, un incastro di interventi vecchi e nuovi, “in collaborazione con Dap, Giustizia Minorile e Mit, sotto la regia di Palazzo Chigi”. Per “una risposta strutturale al sovraffollamento”. Atteso da mesi, preceduto e seguito da critiche, il piano per l’edilizia penitenziaria approda in Consiglio dei Ministri con l’ambizione di “non costruire solo celle, ma recuperare dignità, sicurezza e funzionalità”, assicura il commissario straordinario all’edilizia penitenziaria, Marco Doglio. Lo paragona ad una “matrioska”, un incastro di interventi vecchi e nuovi, “in collaborazione con Dap, Giustizia Minorile e Mit, sotto la regia di Palazzo Chigi”. Per “una risposta strutturale al sovraffollamento”. Atteso da mesi, preceduto e seguito da critiche, il piano per l’edilizia penitenziaria approda in Consiglio dei Ministri con l’ambizione di “non costruire solo celle, ma recuperare dignità, sicurezza e funzionalità”, assicura il commissario straordinario all’edilizia penitenziaria, Marco Doglio. Anche “attraverso una valorizzazione immobiliare su vasta scala”, scandisce a IlSole24ore il manager chiamato da Cassa Depositi e Prestiti per accelerare le procedure. Commissario, facciamo chiarezza sui numeri dei posti disponibili subito e sui costi? 9.696 nei prossimi tre anni in 60 interventi edilizi, per un costo stimato in 758 milioni, in larga parte già coperto. A questi si aggiungono ulteriori 5.000 posti previsti con operazioni di valorizzazione e trasformazione degli istituti non più funzionali, con l’obiettivo di creare nuovi posti tramite la costruzione di nuove carceri o l’ampliamento di quelli attuali, portando la risposta complessiva al fabbisogno a circa 15.000 posti detentivi. Nuove carceri, da costruire dove? Si ipotizza anche la vendita di istituti storici? Idea esaminata in passato da Cdp? Si parla di valorizzazione e trasformazione, non di vendita. Stiamo realizzando un censimento- ad esempio dei vincoli catastali - per carceri importanti in centro città o con vista mare, potenzialmente oggetto di valorizzazione urbanistica. Stiamo poi valutando la possibilità di spostare i detenuti in siti più moderni, limitrofi ad altri istituti. Noi prepariamo il terreno, il resto in un secondo momento. Anche una riflessione sui fondi immobiliari: come esistono per studentati e Rsa, potrebbero esserci per le carceri. Intanto quali e quanti saranno i posti disponibili subito, previsti nei 21 interventi programmati su 60? Nel primo semestre 2025 sono stati già recuperati 305 posti, entro la fine dell’anno saranno 1.472. I 60 interventi saranno 37% al Nord 37%, 22% al Centro, 42% al Sud. I principali interventi sono di ampliamento di strutture esistenti a San Vito al Tagliamento (PN), Forlì e Roma Rebibbia (Mit), Napoli Poggioreale (Dap) e Reggio Calabria Arghillà, programmazione del Commissario. Ma anche Monza, Pavia, Voghera ecc. Un piano per più posti, ma il carcere non è solo contenitore, come ha ricordato il Presidente della Repubblica… Il piano tiene conto anche degli spazi trattamentali, lavorativi, educativi. Tuttavia, la priorità richiesta è emergenziale ed è quella di permettere ai detenuti di vivere in un ambiente dignitoso. Nel medio periodo, la strategia del piano è realizzare strutture modulari, sicure e moderne, dove gli spazi per la rieducazione siano parte integrante. È stata criticata la previsione di prefabbricati negli spazi aperti degli istituti, per lo più dedicati allo sport... Le critiche sono comprensibili, ma spesso basate su esperienze passate in cui non vi era sufficiente controllo qualitativo. I moduli previsti oggi sono evoluti, testati, dotati di tutte le garanzie igienico-sanitarie, di sicurezza e durata. Si tratta di una soluzione pragmatica per risposte rapide, senza rinunciare alla qualità. I moduli saranno collocati entro i perimetri esistenti, con l’obiettivo di garantire gli spazi vitali secondo gli standard internazionali. Servirà personale in più… È oggetto di confronto con il Dap. Il piano era atteso da mesi. Perché questo ritardo? È stato oggetto di una ricognizione tra diversi soggetti attuatori. Si sono poi delineate le linee operative di intervento attraverso la collaborazione con Invitalia, Cdp e Anac. Inoltre, l’approvazione del programma, avvenuta il 9 luglio, ha scontato le tempistiche consuete per l’acquisizione dei concerti delle amministrazioni. Oggi siamo orgogliosi di presentare un piano concreto, attuabile in tempi brevissimi. Ha visitati degli istituti penitenziari? Sono stato in quelli del Lazio e della Lombardia: il confronto con le strutture penitenziarie ha permesso di raccogliere osservazioni preziose per l’allocazione fisica dei nuovi posti. In sintesi, ristrutturazioni, nuovi moduli e valorizzazione immobiliare? Il sistema penitenziario italiano ha un deficit strutturale di 15.700 posti. Il piano punta a colmare questo gap con 9.696 posti da realizzare nel triennio (1.472 nel 2025, 5.914 nel 2026 e 2.310 nel 2027). A questi si aggiungono 5.000 ulteriori posti grazie alla valorizzazione e trasformazione di istituti nelle principali città. L’approccio è: nuovi moduli, ampliamenti, ristrutturazioni e operazioni immobiliari su larga scala. Riforma della giustizia? Un misto di sgangheratezza e aggressione di Alessandro Bozzano trucioli.it, 10 agosto 2025 Sentire più campane può essere utile. A leggere i quotidiani filo governativi (tre ha anno come editore un parlamentare della Lega con vasti interessi in cliniche private convenzionate con le Asl), a seguire telegiornali e approfondimenti delle Tv berlusconiane il giudizio è tranciante. In aiuto ora ci sono pure le televisioni di Stato. Ovvero la riforma della giustizia è sempre stata invocata dal padre nobile Silvio Berlusconi, è necessaria per snellire i processi e le inchieste, la separazione della carriera tra magistrati inquirenti (PM) e giudicanti è una garanzia per il cittadino. Diciamo solo che in Italia il 25 % e anche meno dei cittadini sono seguono con attenzione le problematiche della giustizia viste da destra, da sinistra, dalla magistratura, dagli avvocati, dagli operatori di giustizia e dai loro rappresentanti sindacali. Piccolo particolare ma diffuso. Quante volte abbiamo sentito dire da amici, conoscenti, parenti, nei bar, in strada, nei comizi: “Le forze dell’ordine li arrestano, i giudici li liberano il giorno dopo”. Ebbene. Primo: le leggi non le fanno i giudici ma applicano quelle che sono approvate da deputati e senatori a maggioranza. Secondo: molto più banale, ma non meno reale e plateale. Da 30-40 anni leggiamo, ascoltiamo, che le carceri sono super affollate, ben oltre la capienza. Cinque, sei detenuti laddove ne sono previsti tre. Negli ultimi anni c’è un vertiginoso aumento di tentati suicidi e suicidi, rivolte, aggressioni, stupri tra gli stessi detenuti maschi, incendi, devastazioni, impegno oltre ogni limite umano della Polizia penitenziaria. La pianta organica prevede 34.162 agenti, mentre quelli effettivamente in servizio sono 30.964. Questa differenza corrisponde alla carenza del 16%. Il 30 giugno 2025, in Italia, si contavano 62.728 detenuti, a fronte di 46.730 posti disponibili negli istituti penitenziari. Questo significa che il tasso di sovraffollamento è molto elevato, con un numero di detenuti superiore di circa 16.000 unità rispetto alla capienza regolamentare. Ebbene i media non lo scrivono, ma capita sempre più spesso che il giudice si trova di fronte all’impossibilità di incarcerare un arrestato per reati non gravissimi, o gravi (vedi furti, violenza a pubblico ufficiale, scippi, risse con feriti, danneggiamenti, lesioni gravi) perché in carcere non c’è posto. Tanto per non andare lontano la situazione in Liguria è al limite della civiltà, aggiungiamo decenza. La provincia di Savona è l’unica in Italia senza carcere perché quello ufficialmente chiamato Carcere Sant’Agostino è stato chiuso nel 2016, dopo essere stato in funzione per oltre due secoli. Motivo della chiusura invocata a furor di popolo le condizioni igieniche ed ambientale, sia per i detenuti, sia per le guardie carcerarie, oltre ai limiti strutturali di sicurezza. La Liguria, la provincia di Savona, hanno sottosegretari di Stato, parlamentari, assessori regionali, politici professionisti o meno che a seguire i loro post giornalieri su Facebook sono super impegnati, da mattino a sera, cene incluse, per questa o quelle inaugurazione o appuntamento, feste patronali. Provate a cercare, con nomi e cognomi, via internet quante volte si sono occupati del nuovo carcere a Savona o in Val Bormida. Prima era tutta colpa del ministero e del governo di centro sinistra, ora che la destra al governo la colpa è della burocrazia. Poi ci si chiede perché sempre più cittadini disertano le urne e cresce la sfiducia verso i cosiddetti politici di casa nostra, regionali e nazionali. Ustica, 45 anni di storia contro le falsificazioni di Daria Bonfiletti* Il Manifesto, 10 agosto 2025 45 anni da Ustica. Molto materiale non è ancora uscito dagli archivi per essere messo a disposizione degli studiosi e dei cittadini “San Lorenzo io lo so” da questo incipit pascoliano, che in qualche modo ci rimanda a Pasolini, partiamo ogni anno a Bologna, attorno al Museo per la Memoria di Ustica, per una serata di poesia che ci conduce ad esplorare la memoria dei viaggi, di percorsi, di speranze, avendo sempre nel cuore il volo incompiuto del DC9 Itavia. Quest’anno ci affidiamo alla sensibilità artistica di Edoardo Purgatori, come a richiamare anche le descrizioni, le immagini che ci ha consegnato Andrea Purgatori sulla carta stampata e nelle immagini cinematografiche. Si chiudono con questa serata le iniziative per il 45º anniversario della strage di Ustica: abbiamo cercato di ripetere forte il bisogno di verità completa sulla strage e sugli autori materiali. Abbiamo denunciato la richiesta di archiviazione della Procura della Repubblica di Roma, una richiesta che concludeva, senza apparente successo, le indagini iniziate dalle dichiarazioni del presidente Cossiga che incolpavano i francesi per la strage di Ustica. Una richiesta di archiviazione che ha però mostrato che i giudici hanno individuato nuovi elementi per confermare le conclusioni a cui era già arrivata, tanti anni or sono, la Sentenza ordinanza del giudice Priore: il DC9 è stato abbattuto all’interno di un episodio di guerra aerea. Le nuove indagini hanno accertato infatti, la presenza di una portaerei francese, la Foch, nel mare di Napoli, sbugiardando quindi ogni affermazione ufficiale che voleva le navi francesi non operative, in rada nei porti del sud della Francia. Nuove indagini e nuove testimonianze hanno portano a individuare anche, a conferma dello scenario di guerra, un’operazione nei cieli, interessante la base aerea di Grazzanise nel rilevarlo, di aerei francesi e americani ben seguiti e orientati dai radar anche dei comandi Nato di Bruxelles. Davanti a queste nuove acquisizioni i giudici però denunciano di non poter procedere verso la completa verità, di non poter scrivere l’ultimo pezzo di una storia terribile, per l’assoluta mancanza di collaborazione internazionale: Stati amici e alleati rispondono con menzogne o insufficientemente alle rogatorie della nostra magistratura. Contro questa resa/sconfitta, contro l’offesa della non collaborazione abbiamo cercato in questo anniversario di alzare la voce, chiedendo soprattutto alla Presidente del Consiglio un impegno per la verità, a difesa della memoria delle povere vittime, ma soprattutto a difesa delle dignità nazionale, la dignità di un paese colpito da un atto di guerra non dichiarata che ha violato confini e diritti. Ma se con la serata del 10 agosto, con le emozioni che trasmetterà la poesia e la sensibilità dell’attore Edoardo Purgatori, finiscono le iniziative per l’anniversario, subito dopo deve ricominciare l’impegno per la verità. E l’Associazione riprenderà la sua attività innanzitutto con il coinvolgimento degli studenti, delle giovani generazioni, di chi non era ancora nato in quei terribili anni 80. Intanto si deve denunciare che il Ministro dell’Istruzione, Valditara, dopo avere in questi anni, nei fatti, non applicato il Protocollo di intesa con le Associazioni delle Vittime del terrorismo per le attività nelle scuole, ora non ha intrapreso nessuna azione per il necessario rinnovo. Il protocollo era proprio strumento per portare anche nelle scuole il racconto di tante vicende tragiche della storia del nostro paese, per ricordare la storia e dare ai giovani un messaggio d’impegno sociale nel rispetto dei valori della democrazia costituzionale. Uno strumento innanzitutto di educazione e formazione. L’Associazione ha in programma per il mese di ottobre un convegno storico sulle vicende legate a Ustica, un convegno che dopo le riflessioni sui panorami internazionali e nazionali degli anni ottanta, ritornerà a parlare in particolare della tragedia e di come è stata vissuta nei primi mesi da governo e Parlamento, dalla magistratura, dalle forze politiche e dalla società civile. C’è davvero bisogno di storia contro le falsificazioni e i tentativi di riscrittura! Ed ancora: c’è molto da operare per la effettiva attuazione della direttiva Renzi-Draghi, che deve permettere la pubblicazione e l’accesso di tutta la documentazione delle amministrazioni dello Stato riguardanti le stragi e il terrorismo di tale matrice. E proprio il Comitato consultivo per l’attuazione delle direttive, nel documento conclusivo dei lavori del 2024, sottolinea da una parte la mole della documentazione messa a disposizione, ma continua dall’altra, a segnalare molte ombre: molto materiale non è ancora uscito dagli archivi per essere messo a disposizione degli studiosi e dei cittadini. Ci sono intoppi per la consultazione, negli Archivi dello Stato della documentazione che viene dai processi, sono negate informative sulle attività, le schede personali, di militari, anche condannati. Può essere il dato più clamoroso per l’opinione pubblica: viene denunciata la scomparsa degli archivi del Ministero dei Trasporti, intendiamo l’attività dei ministri e dei loro gabinetti, per tutti gli anni delle stragi. E pensiamo a quante stragi hanno interessato i trasporti, treni, stazioni, aerei! E oggi dobbiamo aggiungere che è proprio l’ultima sentenza ordinanza della Procura di Roma, in questo suo denunciare la mancanza di documentazione, che muove rilievi negativi anche sugli esiti della Direttiva, mettendo sotto accusa, ad esempio, la mancanza di materiale archivistico rispetto all’attività di un capo dei Servizi, nel caso specifico l’ammiraglio Martini, che tante volte ai giudici nel corso della inchiesta ha confermato l’attenzione dei Servizi sulla strage di Ustica. E poi ci sono i rilievi che ha sempre mosso in questi anni l’Associazione dei parenti di Ustica: manca molta documentazione coeva ai fatti e ad esempio manca ogni documentazione della Marina Militare dagli anni che vanno al 1980 al 1986. Con il 10 agosto l’arte chiude il suo discorso di memoria e verità ma deve riprendere lo sforzo della politica: voglio chiedere, ancora una volta, alle forze politiche, alla società civile di pretendere con più determinazione un impegno del governo, della Presidente del Consiglio per la verità, per il rispetto della dignità nazionale per poter scrivere, contro ogni tentazione di revisionismo, una pagina definitiva della storia del nostro Paese. *Presidente Associazione Parenti Vittime Strage di Ustica. Liguria. Più tutele per la salute in carcere con l’accordo integrativo per la medicina penitenziaria di Carlotta Nicoletti telenord.it, 10 agosto 2025 La Regione uniforma l’assistenza sanitaria negli istituti di detenzione e valorizza il lavoro dei medici penitenziari. La Giunta regionale della Liguria ha approvato l’Accordo Integrativo Regionale per la medicina penitenziaria, con l’obiettivo di rafforzare e uniformare l’assistenza sanitaria nelle carceri liguri, riconoscendo un ruolo centrale ai medici che vi operano. Obiettivi - Il nuovo testo, frutto di un confronto tra la delegazione pubblica e le rappresentanze sindacali, si inserisce nell’Accordo Collettivo Nazionale della Medicina Generale 2019-2021. Tra le priorità: garantire le prestazioni incluse nei livelli essenziali di assistenza (Lea), migliorare la continuità terapeutica e favorire il reinserimento sociale del paziente-detenuto. Valorizzazione - “Con questo provvedimento - ha spiegato l’assessore regionale alla Sanità, Massimo Nicolò - vogliamo garantire ai detenuti un’assistenza sanitaria efficace, nel rispetto del diritto alla salute. L’accordo valorizza il lavoro dei medici di assistenza penitenziaria, che operano in contesti spesso complessi e delicati”. Attività aggiuntive - L’intesa prevede mansioni supplementari rispetto a quelle stabilite dall’Accordo Collettivo Nazionale, comprendendo aspetti clinici, relazionali e organizzativi. I medici riceveranno una quota oraria regionale aggiuntiva, a riconoscimento dell’impegno richiesto. Il provvedimento punta a rendere omogeneo il modello di assistenza sanitaria in tutti gli istituti di detenzione liguri, rafforzando anche il monitoraggio clinico dei pazienti e le procedure per la presa in carico personalizzata. Torino. Detenuto suicida, la famiglia chiede un’inchiesta: “Era un uomo fragile” di Caterina Stamin La Stampa, 10 agosto 2025 Il 45enne era nel padiglione C per furto e ricettazione. La Garante: “Sovraffollamento al 130%. D’estate la situazione delle carceri si aggrava”. Ha preso il lenzuolo bianco dal letto ed è entrato nel bagno della sua cella. Ha aspettato di essere da solo e si è tolto la vita. Aveva 45 anni, era stato condannato per furto e ricettazione e da poco tempo la sua pena era diventata definitiva. È il 53esimo suicidio nelle carceri italiane, il secondo a Torino da inizio anno. “Una tragedia senza fine” dice la garante dei detenuti, Monica Gallo. Il 45enne era residente a Genova ed era “un ragazzo fragile - spiega l’avvocata Roberta Di Meo, che lo assisteva - Delle sue fragilità era stata informata dalla famiglia la direzione del carcere. Chiederemo al magistrato di fare accertamenti per verificare eventuali responsabilità e negligenze e tuteleremo la sua memoria e quella dei suoi familiari”. D’estate è peggio - L’uomo era detenuto nel Padiglione C del Lorusso e Cutugno. “Dove il sovraffollamento raggiunge il 130%” sottolinea Gallo. Un dato a cui si aggiungono la solitudine e il disagio. Lo spiega la garante: “D’estate la situazione delle persone detenute si aggrava perché si va in vacanza: diminuiscono gli agenti, gli educatori, gli psicologi. In più, il padiglione C ha delle condizioni strutturali fatiscenti: da anni si attende una ristrutturazione completa, promessa dal Dipartimento”. Punta dell’iceberg - Per il sindacato di polizia Osapp “il 53esimo morto in carcere per suicidio pone in dubbio la stessa organizzazione dell’amministrazione penitenziaria: sosteniamo che sia solo una delle punte dell’iceberg penitenziario, che comprende risse e aggressioni, traffici di telefoni e di sostanze stupefacenti, sindromi psichiatriche e assenza di assistenza sanitaria per i malati. Tutto gestito da personale di polizia penitenziaria privo di mezzi e di organici e su cui pende la costante spada di Damocle dei procedimenti disciplinari e penali”. Sciopero della fame - “È una spirale senza fine” dichiara anche l’avvocato Roberto Capra, che ha iniziato un digiuno proprio per denunciare i suicidi in carcere, aderendo a una campagna lanciata a livello nazionale. “Il problema è che chi dovrebbe prendere delle decisioni non lo fa e quindi noi urliamo ma nessuno ascolta - aggiunge il presidente della Camera penale Vittorio Chiusano -Continuiamo a vedere la gente che si toglie la vita a un metro da noi, ma immagino che a qualcuno vada bene così”. Messina. Sette indagati per il suicidio in cella di Stefano Argentino di Davide Varì Il Dubbio, 10 agosto 2025 La procura indaga per accertare eventuali responsabilità nel caso del 27enne reo confesso dell’omicidio di Sara Campanella. Il legale: “Sarebbe dovuto stare in una Rems”. Sono sette le persone indagate dalla procura di Messina per la morte di Stefano Argentino, il 27enne reo confesso dell’omicidio della collega di Università, Sara Campanella, che si è suicidato nel carcere di Messina Gazzi il 6 agosto. La procura ha notificato sette avvisi di garanzia in vista dell’autopsia sul corpo del ragazzo. L’incarico sarà conferito il 12 agosto al medico legale Daniela Sapienza e in quella occasione gli indagati potranno nominare i propri consulenti. I sette indagati dalla procura di Messina per il suicidio di Stefano Argentino sono la direttrice e la vice direttrice del carcere di Gazzi, l’addetto ai servizi trattamentali, lo psichiatra e gli psicologi che hanno avuto in cura il 27enne. L’inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore Annamaria Arena, vuole accertare eventuali responsabilità nel suicidio di Stefano che, mercoledì 6 agosto, si è impiccato in carcere. Il giovane si sarebbe tolto la vita isolandosi dal resto dei compagni di cella. Una fattispecie di reato omissivo e la morte come conseguenza di altro reato, sono le ipotesi dell’inchiesta. Il ventisettenne, che aveva manifestato più volte la volontà di togliersi la vita, era stato sottoposto fino a due settimane prima della sua morte a un regime di sorveglianza. Poi 15 giorni fa era stato trasferito in detenzione ordinaria, il giovane infatti aveva ripreso a mangiare dopo un periodo che aveva rifiutato il cibo. Stefano era in carcere per aver confessato l’omicidio di Sara Campanella, una sua collega di Università che aveva stalkerizzato per mesi e poi accoltellato alla gola in pieno centro il 31 marzo scorso. “Sette indagati è già presagio di plurime responsabilità, probabilmente fra loro correlate”, commenta l’avvocato Giuseppe Cultrera, legale di Stefano Argentino. “Al momento è troppo presto e si possono fare soltanto supposizioni - aggiunge - auspico soltanto che, almeno stavolta, le indagini siano approfondite e possano portare a risultati concreti. Stefano avrebbe dovuto essere rinchiuso in una Rems o in un istituto a custodia attenuata. Il suo stato mentale, venuto a galla anche dalle indagini degli inquirenti, non era compatibile con la custodia in carcere”. Genova. Torturato e abusato in cella a Marassi, arrestati quattro detenuti ansa.it, 10 agosto 2025 Gip, accanimento indicativo spirito di crudeltà. A giugno la rivolta nel carcere genovese. Quello subito dal detenuto di 18 anni, seviziato e torturato da quattro compagni di cella a Marassi, è stato un accanimento del tutto ingiustificato, indicativo di uno spirito di crudeltà e di totale incapacità di autocontrollo. Per questo la Procura di Genova ha chiesto e ottenuto l’arresto per il gruppo: si tratta di tre egiziani di 21, 23 e 26 anni, e di un italiano di 41 anni. Sono accusati di tortura e violenza sessuale di gruppo. L’ordinanza, emessa dalla giudice per le indagini preliminari Camilla Repetto, è stata eseguita sabato 9 agosto 2025. I quattro, dopo le violenze che avevano anche provocato una dura rivolta nella casa circondariale, erano stati trasferiti in altre città. L’aggressione sarebbe iniziata l’1 giugno ed è andata avanti almeno fino al 2. Il 3 le condizioni del ragazzo sarebbero peggiorate così tanto che gli stessi aggressori avrebbero avvisato gli agenti dicendo che aveva fatto tutto da solo. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, coordinati dal pm Luca Scorza Azzarà, a scatenare la brutalità sarebbe stato il rifiuto, da parte della vittima, di dire ai compagni di cella il motivo del suo arresto. A quel punto, si sarebbero inseguite voci di un suo coinvolgimento in un giro di cessione di droga a minori in cambio di sesso. Non solo. Uno dei detenuti lo avrebbe accusato di avere rubato il cellulare a una sua cugina, pure minorenne. Voci completamente infondate ma che hanno spinto i quattro alla violenza cieca. Per non fare scoprire agli agenti quanto fatto, i quattro lo avrebbero costretto a mettersi a letto e a coprirsi fingendo di dormire. Il racconto della vittima (assistito dall’avvocata Celeste Pallini) è stato confermato da un altro compagno di cella che ha assistito a tutto senza partecipare. “Non ho parlato per paura che facessero le stesse cose a me”, aveva detto nel corso delle indagini. Il detenuto lo avrebbe anche nutrito la notte perché gli aguzzini gli avevano anche tolto il cibo. Dopo che si era saputo delle violenze, gli altri detenuti avevano inscenato una protesta, distruggendo alcune celle e aule studio: per quella vicenda sono circa 80 le persone indagate per devastazione e rivolta. Milano. Il carcere minorile Beccaria oltre l’inchiesta per torture sui detenuti di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 10 agosto 2025 “Ora una guida stabile e progetti”. L’istituto per minori è tornato nel mirino dopo la nuova fase dell’indagine che ha fatto emergere pestaggi e omissioni. L’associazione Antigone: la situazione è drammatica. Valeria Verdolini, dell’associazione Antigone, parla di un “interregno post traumatico”, all’interno del quale si è “rotta la fiducia” tra i ragazzi e l’istituzione che dovrebbe proteggerli. Federico Papa, presidente della Camera penale di Milano, spiega che “siamo spaventati e preoccupati da quello che sta diventando la giustizia minorile”, e dice che “il Beccaria ha bisogno di una guida stabile e progetti a lungo termine”. A settembre dovrebbe essere nominato il nuovo direttore (o direttrice) dell’istituto minorile travolto da un’inchiesta che vede oltre 42 indagati, fra agenti penitenziari, ex vertici del carcere, medici e infermieri. Le accuse: torture, maltrattamenti, omissioni, falsi. Pestaggi e risate - Sono tredici le accuse di tortura - le più pesanti - nei confronti degli agenti, come si legge nella richiesta di incidente probatorio firmata dalle pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena e dall’aggiunta Letizia Mannella, che hanno coordinato il lavoro della Squadra mobile. Come le botte, nella primavera del 2023, al giovane I.A., portato in un seminterrato perché si taglia per il rifiuto dei poliziotti di dargli un pezzo di cioccolata, e preso a schiaffi mentre un infermiere gli somministra un farmaco contro l’asma, con un’altra divisa a fianco che “rideva”. Nelle carte c’è la storia di S.Z,, aggredito da ben sette agenti: uno gli sputa, un altro gli dà un calcio nelle parti intime, gli dicono di lavarsi la faccia sanguinante e lo chiudono in una cella d’isolamento per dieci giorni senza materasso e lenzuola. Nel dicembre del 2022, A.C. ha i segni di uno scarpone in testa dopo un “violento pestaggio” che s’interrompe soltanto “per l’arrivo della direttrice che vedeva il detenuto a terra sanguinante e ordinava di togliere le manette”. Nel gennaio 2024 A.E.M. viene gettato a terra “e ammanettato dietro la schiena per circa quattro ore senza acqua e cibo nonostante urlasse chiedendo aiuto”. Due mesi dopo, il raid contro A.A. s’interrompe solo perché due agenti sentono le sue grida e fermano i colleghi. Quando tutti questi fatti sono avvenuti, le vittime non avevano nemmeno 18 anni. Le violenze sono legate da diversi punti in comune: una situazione problematica, una protesta, una rimostranza; il recluso che viene portato in una stanza senza telecamere; l’aggressione di gruppo, col detenuto ammanettato, spesso lasciato nudo per terra. Botte di ogni tipo. Referti falsi per mascherare i segni. E nessuno vede. Farmaci e sovraffollamento - I fatti contestati vanno dal 2021 alla primavera del 2024. Cos’è cambiato? Oggi, riporta Antigone, il Beccaria ha un sovraffollamento del 150%. Lo scorso giugno la direttrice reggente Teresa Mazzotta, che col suo lavoro cerca di ridare normalità all’istituto, parla di 64 ragazzi per 53 posti. In 44 casi, si tratta di minori stranieri non accompagnati, con trascorsi traumatici e dipendenze da farmaci. Nell’aprile 2024, la prima tranche dell’inchiesta porta all’arresto di 13 agenti e alla sospensione di altri 8. Le indagini ricevono impulso anche dalle denunce del dipartimento per la giustizia minorile guidato da Antonio Sangermano. Dai suoi uffici partono in seguito i finanziamenti per la formazione degli agenti e il reclutamento di educatori, nonché le disposizioni per rinnovare l’intera catena di comando e le mosse per cercare di cambiare nel profondo il carcere Beccaria. Tra luci e ombre - Il lavoro dei pm parte dalle iniziali denunce dell’ex consigliere comunale David Gentili e del garante dei detenuti Francesco Maisto. Quest’ultimo dice: “Il Dap ha messo a fuoco la necessità di riorganizzare i vertici. Ora bisogna chiarire se si sia tenuto conto della necessità di tutelare le vittime - che hanno raccontato i fatti - da possibili intimidazioni. E non abbiamo ancora risposta dal Comune alla domanda se intenda o meno costituirsi parte civile”. Dall’aprile 2024 a oggi Maisto ha segnalato altri episodi in procura: gli ultimi per presunte intimidazioni verso i detenuti. Pur sottolineando la presunzione d’innocenza, il presidente della Camera penale Papa lancia l’allarme: “Oggi i minori sono destinatari di un diritto penale ideato come punizione. Stiamo rinunciando a salvare anche i poveri ragazzi”. Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, dice: “Con questo governo c’è stata un’inversione di tendenza. Nei minorili la situazione è drammatica. I ragazzi stanno male. Si faccia luce in fretta su quello che è successo al Beccaria”. Milano. Il Garante dei detenuti: “Stop agli esposti. Ma restano le criticità” di Andrea Gianni Il Giorno, 10 agosto 2025 “Sovraffollamento, inasprire le pene è antiscientifico”. Le indagini hanno fatto emergere una situazione “gravissima”, in un istituto penale per i minorenni che sconta ancora criticità legate al “sovraffollamento dovuto anche al decreto Caivano” e al giro di vite su alcuni reati. Un carcere minorile dove vivono una settantina di detenuti giovanissimi, con alle spalle storie di disagio e violenza. Francesco Maisto, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano, trasmettendo alla Procura le segnalazioni ricevute su quanto avveniva al Beccaria, ha contribuito a dare il via alle indagini a carico di agenti della polizia penitenziaria, ex dirigenti e personale sanitario. Le ex direttrici Cosima Buccoliero e Maria Vittoria Menenti sono accusate di non aver impedito “le condotte reiterate violente e umilianti” commesse dagli agenti ai danni di detenuti... “Bisogna considerare che le due ex direttrici erano distaccate, e quindi non lavoravano tutti i giorni nella struttura. I magistrati verificheranno se qualcosa non ha funzionato nella catena di comando, ma in ogni caso all’epoca era emersa una situazione gravissima. Una situazione che ci era stata segnalata non solo da detenuti ma anche da educatori, operatori del carcere e varie fonti informative. Segnalazioni che noi abbiamo trasmesso alla Procura”. Dall’arresto dei 13 agenti, che l’anno scorso ha fatto esplodere il caso, avete ricevuto altre segnalazioni? “Non abbiamo ricevuto altri esposti e, per quello che possiamo osservare come soggetti che non sono fisicamente dentro il carcere, la situazione sotto questo punto di vista è migliorata. Credo che il Dipartimento della giustizia minorile abbia messo a fuoco la situazione, mettendo in campo un assetto organizzativo che sembra rispondere alle esigenze emerse dopo le indagini. Noi continuiamo a vigilare, ascoltando persone e cercando di captare i segnali”. Quali criticità restano al Beccaria? “Oltre al sovraffollamento, peggiorato in seguito al decreto Caivano, notiamo il continuo trasferimento di detenuti in istituti fuori regione, anche a centinaia di chilometri di distanza dal luogo di residenza. Questo è un fatto grave, che riguarda non solo minori non accompagnati senza legami in Italia, ma anche ragazzi con una famiglia alle spalle. I trasferimenti rendono quindi sempre più difficoltose le visite e i contatti. In generale, nel mondo delle carceri, agosto è un mese critico, perché vengono sospese le attività esterne. La necessità di inserire rapidamente nuovo personale di rinforza porta inoltre ad accorciare i corsi di formazione”. Sugli episodi avvenuti al Beccaria hanno influito anche lacune nella formazione degli agenti? “Direi che dalle indagini sono emersi fatti che vanno ben oltre un semplice deficit nella formazione, che in ogni caso dovrebbe essere potenziata. In questi mesi è emersa anche una circostanza che mi ha stupito”. Quale? “Il Comune, che ha investito tanto sul Beccaria, non ha attivato l’avvocatura per costituirsi come persona offesa. Noi abbiamo chiesto delucidazioni, senza ricevere risposte. Spero che faccia questo passo, doveroso non solo per le vittime ma anche per gli interessi dell’amministrazione”. Matteo Salvini, nei giorni scorsi, ha proposto un inasprimento delle pene per i minorenni, equiparandoli agli adulti. Che cosa ne pensa? “La proposta non trova alcun fondamento scientifico, sia nelle scienze psicologiche, sia nel diritto penale, sia nelle politiche criminali, oltre che nella Costituzione. Rispetto alle nuove tipologie di adolescenti arrestati, inoltre, non sarebbe un deterrente”. Firenze. “Scarcerato” da tre settimane, ma il braccialetto elettronico non c’è di Stefano Brogioni La Nazione, 10 agosto 2025 Lo scorso 21 luglio il giudice ha firmato l’ordinanza che gli concede gli arresti domiciliari con il dispositivo elettronico, ma a causa della carenza di apparecchi è ancora dentro. La famiglia scrive al gestore. “Prigioniero” del braccialetto elettronico. È la paradossale odissea di un detenuto di Sollicciano che, nonostante un’ordinanza di alleggerimento della misura firmata dal giudice tre settimane fa, si trova ancora dietro le sbarre per la mancata disponibilità del dispositivo elettronico che dovrà vigilarlo ai domiciliari. Un problema noto, quello della carenza di dispositivi, ma che si ripropone puntualmente. E che non può essere ignorato negli innumerevoli dibattiti sulle condizioni delle carceri, visto che situazioni come questa influiscono sull’affollamento e sulle condizioni dei reclusi. “Si arriva all’assurdo che stabilire chi sta in carcere o fuori dal carcere, dopo una decisione dell’autorità giudiziaria, dipende da una compagnia telefonica”, commenta amara l’avvocato Sabrina Del Fio, la cui istanza, sebbene accolta, non ha ancora avuto esecuzione. E’ la Fastweb, in virtù di un contratto d’appalto con il Ministero (rinnovato per il trienno 2023-2025 a 15,6 milioni di euro), a fornire i braccialetti, che per funzionare hanno bisogno di wi-fi e di un installatore che colleghi il dispositivo alle centrali di polizia e carabinieri che vengono allertate automaticamente in caso di allontanamento o di manomissione. Il contratto include anche i dispositivi anti-stalking, altra nota dolente. Una novità, quella del ‘codice rosso’ che se da un lato ha introdotto una misura a garanzia delle vittime, dall’altro ha contribuito ad allungare i tempi di attivazione. Il passaggio dal carcere ai domiciliari del detenuto di Sollicciano sarebbe dovuto avvenire il 21 luglio. Ma da quel giorno è invece cominciato un calvario di triangolazioni telefoniche, e l’ordinanza del giudice resta disattesa. Una parente del detenuto, ha scritto una Pec direttamente a Fastweb: “Ci è stato comunicato che per il momento non ci sono quantità disponibili del dispositivo e che è necessario aspettare. Vi chiedo cortesemente di verificare questa situazione e darci supporto immediato, la famiglia e il ragazzo aspettano da troppo tempo e sono molto preoccupati”. “Il contratto con il Ministero dell’Interno prevede l’attivazione in media di 1.000 braccialetti elettronici al mese con punte fino a 1.200 - risponde Fastweb, da noi contattata -. Nel corso degli anni Fastweb ha sempre provveduto a dare regolare esecuzione a tutte le richieste di attivazione ricevute ma a seguito di modifiche intervenute nel quadro legislativo, le richieste di attivazione sono aumentate in modo esponenziale, determinando la rapida e sistematica saturazione delle attuali soglie contrattuali e rendendo impossibile soddisfare tutte le esigenze, nonostante Fastweb nel corso degli ultimi mesi in spirito di massima collaborazione abbia attivato costantemente oltre 1.200 dispositivi al mese. Fastweb si è resa disponibile fin da subito con il Ministero a rinegoziare il numero di dispositivi da fornire, così da adeguarlo alle nuove e mutate circostanze”. E il braccialetto atteso? “Fastweb opera esclusivamente come fornitore tecnico del servizio - la risposta -: tempi e modalità di installazione dei dispositivi sono stabiliti dalle Forze dell’Ordine, che definiscono gli appuntamenti per l’attivazione secondo i termini contrattuali. Fastweb esegue gli ordini sulla base di tali programmazioni e, per ragioni di tutela della privacy, non conosce l’identità dei destinatari del provvedimento, né può quindi intervenire direttamente sulle tempistiche o sui singoli casi”. Intanto, a Sollicciano, i quaranta gradi di oggi sono molti di più. Troppi per qualsiasi essere umano, e ancor più insopportabili per chi - indipendentemente da eventuali colpe - non dovrebbe essere lì. Bologna. La giudice rigetta il ricorso sulla sezione giovani in carcere alla Dozza di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 10 agosto 2025 “Ci sono criticità, ma è una misura d’emergenza”. A spiegarlo la magistrata nel provvedimento con cui rigetta il ricorso, “in via preliminare ammissibile”, di cinque detenuti contro il trasferimento. Fonti del ministero garantiscono che la sezione sarà chiusa tra settembre e ottobre- “È indubbio che il trasferimento dei giovani detenuti” nella sezione minorile della Dozza abbia comportato “una situazione disagevole e per molti aspetti peggiorativa rispetto a quella di provenienza”. Lo scrive la magistrata Francesca Salvatore, perché lo ha constatato con i suoi occhi nel corso di numerosi accessi, nel provvedimento con cui risponde al reclamo presentato da cinque giovani detenuti contro il trasferimento, per la sua presunta illegittimità. Come i ricorrenti, già il garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri, nonché quello comunale Antonio Ianniello e le associazioni di penalisti, avevano fatto notare che la scelta ministeriale avrebbe violato il principio di separatezza dalla detenzione adulti che deve regolare quella per i minori e il principio di territorialità della pena. Su questi punti la magistrata ammette che “il ricorso appare in via preliminare ammissibile”, ma lo rigetta perché, scrive, “la garanzia di temporaneità” fornita dall’amministrazione “è garanzia di salvaguardia dei diritti degli interessati”, risultati lesi, quindi, solo in via provvisoria e per bilanciarli con la necessità di ridurre il sovraffollamento delle carceri minorili che pure lede diritti costituzionalmente tutelati. Una provvisorietà che, garantiscono fonti del ministero della Giustizia, sarà rispettata: a settembre, al più tardi in ottobre, la sezione giovani adulti della Dozza chiuderà, visto che il 2 agosto è stato inaugurato il nuovo Ipm a L’Aquila e presto sarà pronto quello di Lecce. “La chiusura che auspichiamo - commenta Cavalieri - oltre a porre fine a tutte le criticità di quella sezione, libererebbe 100 posti per gli adulti, visto che sappiamo che anche i penitenziari ordinari sono allo stremo”. Criticità su cui concorda la magistrata di Sorveglianza, tant’è che le mette in fila una per una nel suo provvedimento: i giovani detenuti, spostati alla Dozza pur avendo commesso reati da minori, hanno trovato “spazi comuni inospitali, acusticamente confusivi, privi di mobilio adeguato, disorganizzati, con area esterna molto limitata e chiusa tra muri; la presenza di sola acqua fredda nel bagno; il servizio di rifornimento dei pasti da ditte esterne non adeguato; risorse professionali ivi comandate in condizioni difficili; la iniziale completa assenza di progettazione educativa e di attrezzature”. Occasionalmente i giovani a contratto con i detenuti adulti - Sebbene le condizioni iniziali siano migliorate, soprattutto sotto il profilo dei percorsi rieducativi, per alcuni dei ricorrenti il trasferimento ha comportato l’allontanamento dai familiari, mentre per altri, accomunati con detenuti coinvolti in episodi critici negli istituti di provenienza, “influenze negative e tensioni, oltre ad agiti autolesionistici”. A ciò si aggiunge che occasionalmente i giovani detenuti vengono in contatto con i ristretti adulti e che uno dei ricorrenti, un neo 18enne tunisino, l’unico a non aver ancora ottenuto il trasferimento o i domiciliari, ha dovuto rinunciare alla licenza media per la quale si stava preparando nell’Ipm di Torino. Criticità che Cavalieri aveva più volte sottolineato. La sezione ospita al momento 22 detenuti, numero rimasto stabile da marzo anche per la difficoltà a reperire personale. Bologna. L’appello degli infermieri “reclusi” in carcere “Qui stress e burnout” di Daniela Corneo Corriere di Bologna, 10 agosto 2025 Appello dei sanitari alla Dozza: il lavoro qui va incentivato, scappano tutti. In un momento di grave carenza degli infermieri, da quelli che lavorano in carcere alla Dozza arriva il grido d’allarme: “Siamo reclusi anche noi, dopo anni non si agevola la mobilità, è un lavoro usurante”. La storia di Anna: “Lavoro lì da tre anni, non ce la faccio più”. Le denunce di Nursind e Ordine. La Ausl: “Disponibili al confronto, misure in arrivo per il benessere degli infermieri”. Nessuno ci vuole andare. E quelli che accettano di lavorare lì, poi sentono di non avere vie d’uscita. “Il carcere alla fine diventa un carcere anche per noi”. A lanciare un grido d’aiuto sono gli infermieri che lavorano alla Dozza, alcuni dei quali lavorano lì da anni, senza però avere una prospettiva d’uscita, nonostante le richieste di mobilità. Anna (nome di fantasia, ndr), è una giovane infermiera appena trentenne. Lavora con i detenuti da tre anni. Per scelta. “Ma adesso non ce la faccio più. Ho chiesto la mobilità due volte, ma senza risultati. Il carcere è un posto dovesi potrebbe star bene, sei lavoratori fossero più ascoltati, ma alla fine non si sta bene per niente. C’è chi scappa dopo un solo giorno, chi si mette in malattia appena arrivato, chi resiste ma è in burn out”. Ma il problema è che, essendoci un turn over praticamente nullo, nonostante gli infermieri alzino bandiera bianca e chiedano di poter cambiare prospettiva, di prospettive di fatto non ne hanno. I lavoratori richiedono da tempo attraverso i sindacati che nei confronti di chi lavora alla Dozza ci sia un occhio di riguardo. “Il carcere ha dinamiche tutte sue - racconta Anna-che impari con il tempo, ma all’inizio può essere scioccante”. Perché gli infermieri non devono solo preparare tra le 100 e le 150 terapie psichiatriche ogni giorno, ma si trovano anche a gestire situazioni molto delicate. “All’inizio - dice Anna - può essere una doccia fredda, c’è chi tra i detenuti si taglia, chi ingoia lamette, chi si fa male. Non capita tutti i giorni, ma quando succede si è davanti a scene forti e servirebbe un periodo di affiancamento più lungo per chi entra a lavorare lì come infermiere”. “Sul carcere - spiega Antonella Rodigliano, segretaria provinciale e regionale del sindacato Nursind - chiediamo un cambiamento da diversi anni. Poche persone accettano di andare a lavorare là, ma poi si fa fatica a uscire. Bisognerebbe incentivare un lavoro di questo tipo e poi dare a questi infermieri una priorità in uscita. Non c’è gestione del personale da parte della Ausl e si perdono risorse importanti, i giovani se ne stanno andando”. In carcere attualmente, secondo dati forniti ai sindacati dall’azienda qualche settimana fa, “lavorano 26 infermieri, un coordinatore infermieristico, 5 Oss, 4 tecnici della riabilitazione psichiatrica e un educatore”, spiega il Nursind. Ma non bastano, secondo gli addetti ai lavori. Mara Fuzzi, 54 anni, 34 di lavoro alle spalle di cui quattro alla Dozza dal 2020 al 2024, è una dirigente del Nursind che la situazione del carcere la conosce bene. “Il carcere -racconta Fuzzi - è un luogo si per sé particolare, si vede il cielo con le sbarre per tutto il turno, si vive reclusi e con un carico di lavoro intenso. Non si viene quasi mai accontentati sui turni, che spesso sono in carenza di personale, e la conciliazione con la vita privata è pressoché impossibile”. Fuzzi ha chiesto di uscire dopo quattro anni di lavoro e l’anno scorso è stata accontentata: “Un miracolo, non succede mai”, dice lei. Che spiega: “Quello del carcere è un lavoro stimolante, ma ci si usura molto anche a livello emotivo, si va in burnout. Servirebbe un supporto psicologico”. Una situazione nota anche all’Ordine degli infermieri di Bologna: “Tra tutti gli avamposti - dice il presidente Pietro Giurdanella - quello del carcere è tra i più a rischio. C’è una carenza di 3-4 unità, perché nessuno è incentivato ad andare. Bisognerebbe sedersi a un tavolo con la Ausl e provare ad affrontare i problemi in modo strutturale. Cosa mettiamo in campo per incentivare gli infermieri a restare o ad andare a lavorare in luoghi sensibili come il carcere che portano a un logoramento maggiore?”. La Ausl di Bologna, attraverso Stefania Dal Rio, direttrice assistenziale, si dice disponibile al confronto. “La grave carenza di personale infermieristico - spiega Dal Rio - influenza anche l’ambito del carcere. Nel 2024 non c ‘è stata alcuna richiesta di mobilità, mentre quest’anno ci sono state due domande per lavorare alla Dozza che ci consentiranno di valutare le mobilità in uscita”. Per Dal Rio “in questo momento in carcere non abbiamo particolari carenze, ma siamo certo nel momento delle ferie estive”. In ogni caso la Ausl promette: “Verrà presto proposto agli infermieri - dice Dal Rio - un percorso di benessere organizzativo per affrontare con la massima disponibilità il tema dei turni e le questioni di sovraccarico”. Insomma, conclude Dal Rio: “Il tema è alla nostra attenzione, siamo disponibili al confronto”. Piacenza. L’ex Garante: “Investire sui detenuti è una speranza per la società” di Marcello Tassi Libertà, 10 agosto 2025 “Di che cosa parliamo quando parliamo di diritti in carcere?”. A questa e ad altre domande ha dato risposta il convengo “Il tempo del carcere”, ospitato martedì 26 marzo all’Open Space 360° di via Scalabrini e organizzato da Comune con Asp Città di Piacenza. Un pianeta sconosciuto ai più, un luogo che - troppo spesso - preferiamo mantenere nell’ombra. I cittadini non conoscono realmente il carcere: la vita del tenuto, la sua rieducazione e formazione, il lavoro che non sempre - per varie ragioni - è presente nelle strutture carcerarie italiane. Tematiche finite al centro del convegno, dove tra performance teatrali e interventi di numerosi esperti e realtà che lavorano a stretto contatto con il mondo delle strutture carcerarie, si è arrivati al tema portante dell’incontro: far luce su quelle persone aventi il peso della pena da scontare, ma che al tempo stesso hanno diritti da far valere. “Queste due polarità, la pena e i diritti dei detenuti, vanno tenute insieme” ha spiegato durante il suo intervento Mauro Palma, ex garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. “La Costituzione ci dice che la pena è un atto dovuto da parte dello Stato, ma al tempo stesso ci dice che le pene non devono essere offensive della dignità della persona e che devono tendere al reinserimento sociale dei detenuti. Al momento in Italia le carceri contengono circa 61mila detenuti e le pene inferiori ai cinque anni sono più della metà. Questo significa che entro cinque anni tali persone torneranno alla società: è interesse loro, ma anche della società stessa che esse ritornino ‘alla vita di tutti i giorni’ in modo diverso. È un investimento positivo pensare che la pena non sia soltanto privazione, ma che abbia un aspetto di riaccompagnamento”. “Tornando ai numeri - ha quindi proseguito l’ex garante dei diritti dei detenuti - anche se, come detto, i detenuti attuali in Italia sono circa 61mila, i posti regolamentari realmente disponibili sarebbe meno di 49mila. Un carcere avente meno attività per problemi di mantenimento della sicurezza tende a contenere le persone nei loro ambienti, restituendo un mondo sovraffollato e chiuso, che spesso equivale ad un mondo di disperazione: di poco investimento sul proprio futuro e di forte stress per chi in carcere lavora”. Pistoia. La Camera penale visita il carcere di Santa Caterina: “Numeri insostenibili” di Alessandro Benigni La Nazione, 10 agosto 2025 L’allarme: “Presenti il doppio dei detenuti rispetto alla capienza totale”. Presto la struttura potrebbe allargarsi: nuovo locale per i semiliberi. Anche la Camera Penale di Pistoia è intervenuta sul tema del sovraffollamento della casa circondariale di Pistoia. Dopo l’allarme lanciato dal garante dei detenuti Tommaso Sannini, che nei giorni scorsi sulle nostre colonne denunciava una situazione “diventata insostenibile dallo scorso giugno, con 86 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 43 posti”, si alza la voce del mondo dell’avvocatura. “Aderendo all’iniziativa ‘Ristretti in agosto’, promossa su tutto il territorio nazionale dall’Unione Camere Penali Italiane - spiegano alla sezione pistoiese - lo scorso 6 agosto, una nostra delegazione composta per l’occasione dagli avvocati Daria Bresciani, Lorenzo Cerri e Maurizio Bozzaotre (rispettivamente presidente, vicepresidente e segretario della Camera Penale di Pistoia, ndr), ha fatto visita alla Casa Circondariale Santa Caterina di Pistoia”. “Il primo dato da riscontrare è che, purtroppo, la situazione in termini di presenze è assai peggiorata - confermano -. Attualmente i detenuti sono oltre ottanta (di cui circa la metà in attesa di giudizio), con un notevole incremento verificatosi negli ultimi tempi a causa del generale sovraffollamento carcerario. Per ospitare i nuovi arrivi sono stati aggiunti posti letto nelle varie stanze - rimarcano -, in alcuni casi fino a giungere a sei persone per stanza”. Numeri che la dicono lunga sulla situazione emergenziale che si vive in Santa Caterina in Brana. “È evidente che tutto ciò non può essere ulteriormente sostenibile - mette in chiaro la Camera Penale -, non solo per i detenuti ma anche per il personale di polizia penitenziaria (quest’ultimo invece, manco a dirlo, sottodimensionato). E dunque è necessario che ci si attivi urgentemente nelle sedi competenti per alleggerire il sovrannumero di cui soffre il Santa Caterina”. C’è però anche una notizia positiva, con la ventilata possibilità dell’apertura di nuovi locali a disposizione dei cosiddetti ‘semiliberi’. “In tale direzione - rivelano - entro la fine dell’anno dovrebbe (ma il condizionale sembra d’obbligo) essere inaugurata la nuova sede destinata ai detenuti ‘semiliberi’, ossia coloro ammessi al beneficio di uscire durante il giorno ed essere ristretti solo per la notte, nell’ex convento francescano di via degli Armeni”. “Altra nota positiva - aggiungono - consiste nelle molteplici attività di carattere culturale e rieducativo portate avanti da assistenti sociali e funzionari socio-pedagogici (purtroppo anch’essi sotto organico rispetto alle presenze e all’importante lavoro da svolgere). A tale proposito, all’interno e attorno al ‘pianeta carcere’, abbiamo avuto il piacere di incontrare e conoscere tante persone (agenti e ufficiali di polizia penitenziaria, personale sanitario, funzionari, assistenti sociali, volontari ‘esterni’) che ogni giorno, nonostante le grandi difficoltà logistiche e pratiche, svolgono il loro lavoro con dedizione e passione, cercando meritoriamente di attuare quel principio rieducativo che la nostra Costituzione pone necessariamente quale scopo ultimo della sanzione penale. Per parte nostra - conclude Il consiglio direttivo della Camera Penale di Pistoia - continueremo a monitorare la situazione e non esiteremo a denunciarne le criticità”. Aosta. Brissogne, visita ispettiva: “Servono più risorse e dignità per il sistema penitenziario laprimalinea.it, 10 agosto 2025 Nella mattinata di venerdì 8 agosto la senatrice Elisa Pirro (M5S) e la consigliera regionale Erika Guichardaz (Pcp) hanno effettuato una visita ispettiva alla Casa circondariale di Brissogne, accompagnate dalla direttrice, Velia Nobile Mattei e dal sostituto commissario della Polpen facente funzioni di comandante. L’ispezione, durata dalle 9 alle 13, ha permesso di verificare da vicino le condizioni della struttura e le criticità che riguardano sia i detenuti sia il personale. Durante il sopralluogo è stato svolto un controllo congiunto anche in un’area utilizzata come discarica interna (vicenda portata alla luce da Laprimalinea.it) la cui rimozione - secondo quanto riferito - sarebbe già stata assicurata dalla Direzione dell’istituto. Sul fronte della popolazione detenuta, Pirro e Guichardaz hanno rilevato la necessità di potenziare le attività formative, lavorative e trattamentali, strumenti fondamentali per dare un senso rieducativo alla pena e favorire il reinserimento sociale. Quanto al personale, è stata denunciata la grave carenza di agenti di Polizia penitenziaria e di impiegati amministrativi, con ripercussioni pesanti sull’organizzazione e sulla qualità del lavoro. Ripercussioni peraltro più volte evidenziate dal sindacato Osapp, che ha chiesto di verificare se vi siano state oltre 4.000 ore di lavoro straordinario accumulate e circa 720 riposi settimanali non goduti dagli agenti in servizio a Brissogne. Circostanze che fanno il paio con le dimissioni inoltrate (e sempre segnalate dall’Osapp) pochi mesi fa da un giovane agente della Penitenziaria, che aveva parlato di “ambiente tossico” e impossibilità di gestire serenamente il lavoro. Altro nodo irrisolto è la mancanza di alloggi adeguati per il personale proveniente da fuori regione, che rende ancora più difficile la permanenza e la stabilità di chi lavora nell’istituto. La visita avviene in un momento delicato per il carcere di Brissogne, dove è in corso un’indagine sulla morte di un detenuto trovato privo di vita nella propria cella nelle scorse settimane. Gli inquirenti stanno accertando se si sia trattato di un suicidio o di un tragico incidente legato a una pratica per procurarsi lo “sballo” inalando gas con un sacchetto in testa. “Queste problematiche - ha annunciato la consigliera Guichardaz - saranno al centro della proposta politica di Valle d’Aosta Aperta”, coalizione che riunisce anche Adu, Area Democratica, Uniti a sinistra e il Movimento 5 Stelle valdostano. La senatrice Pirro e la consigliera Guichardaz hanno ribadito l’impegno a portare le istanze raccolte durante la visita nelle sedi parlamentari e presso gli organi competenti, “per restituire dignità e risorse a un comparto fondamentale per la legalità e la sicurezza del nostro territorio”. Pozzuoli (Na). “Un futuro alle detenute restituisco alla città quello che mi ha dato” di Bruno Majorano Il Mattino, 10 agosto 2025 Marco Maria Mazio dagli studi legali tra Bruxelles e Milano all’azienda tessile Paligen con le donne del carcere di Pozzuoli. Partire per poi tornare. Questione di priorità. Questione di desideri. Forti. Fortissimi. Merito di un legame con la terra di origine che alla fine vince su tutto e su tutti. Ecco il mondo secondo Marco Maria Mazio, 36enne napoletano con una laurea in giurisprudenza conseguita brillantemente alla Luiss a Roma, esperienza internazionale a Bruxelles nell’ambito delle istituzioni europee e con un futuro apparentemente già scritto nel mondo del business legato al diritto. Apparentemente, appunto. Perché un’esperienza formativa nella sua terra gli ha riacceso quel desiderio irrefrenabile di tornare. “Tornare per fare - spiega Marco Maria Mazio - fare qualcosa per la mia terra, qualcosa per la mia Napoli. Volevo restituire a questa città tutto quello che mi ha insegnato prima che partissi, quel bagaglio di esperienze che mi è stato così importante durante il percorso di formazione lontano da casa. Glielo dovevo, perché Napoli avrebbe potenzialità maggiori di tante altre città che invece semplicemente si vendono meglio”. Detto, fatto. È così che è nata Palingen: Srl tutta “made in Napoli” che nasce dal desiderio di un ragazzo di mettere insieme il business, la tradizione sartoriale campana e un gruppo di detenute del carcere femminile di Pozzuoli. “Il progetto è nato nel 2021 dopo un’esperienza personale all’interno del carcere femminile di Pozzuoli durante il tirocinio forense. Due mesi che di fatto hanno formato anche me perché ho notato che quelle detenute potevano essere reinserite nel sistema produttivo tramite il lavoro. D’altra parte il lavoro ti consente di abbattere la recidiva, ti da motivazioni e stimoli diversi. E poi c’è l’aspetto di legame con il territorio: la sartoria è parte del nostro patrimonio culturale. Per noi è motivo di orgoglio formare personale specializzato e qualificato per un settore produttivo che ha scarsità di risorse”. E così nasce l’idea di Palingen “Da Palingenesi: un concetto spirituale, sinonimo di rinascita e nuove opportunità”, insomma: un nuovo inizio, per le detenute e per Marco Maria Mazio che insieme al suo socio Massimo Telese trasforma l’idea in realtà. “All’epoca vivevo a Milano dove lavoravo in uno studio prettamente incentrato sul diritto internazionale, le istituzioni e le commissioni europee”. Nel 2023, però, arriva la svolta. “Mi reso conto che serviva da parte mia una dedizione full time. Non ci ho pensato due volte e mi sono trasferito nuovamente nella mia Napoli. Ho messo in stand-by tutto il resto altrimenti non ci sarebbe stato modo di crescere”. E invece la crescita è arrivata, eccome. Lo dimostrano le collaborazioni attualmente in essere con brand locali (Gay Odin, la Federico II o ancora l’Ipogeo dei cristallini) ma anche internazionali (come Uniqlo e Ikea). “Tutto è nato dalle mascherine per combattere il Covid - racconta ancora Mazio - le realizzavamo per la comunità di Sant’Egidio. E poi ci siamo poco alla volta allargati sempre più”. Il claim è forte e chiaro e Marco Maria Mazio lo ripete senza sosta: “Tutto è incentrato sul territorio: produzione e manodopera”. Nel maggio 2024 il bradisismo ha imposto la chiusura del carcere di Pozzuoli. “E in quel momento il progetto rischiava di arenarsi”, ma Palingen è riuscita a rialzarsi con ancor più forza. “Se non avessimo avuto un laboratorio esterno e già avviato con detenute in affidamento in prova, ci saremmo dovuti fermare e non avremmo potuto evadere tutte le commesse che avevamo. Invece il laboratorio esterno ci ha permesso di gestire l’interruzione parziale e continuare. Una delle nostre dipendenti aveva difficoltà a trovare un nuovo domicilio e così siamo riusciti ad ospitarla in una struttura in modo da poterle garantire il posto di lavoro”. Il progetto non si ferma, anzi continua e si espande. “Facciamo formazione all’interno del carcere di Secondigliano e poi proponiamo l’assunzione all’esterno. Facciamo da ponte tra mondo detentivo e mondo del lavoro. È il modo ideale per creare inclusione”. Roma, Bruxelles e Milano sembrano essere alle spalle. “Avendo lavorato in studi legali internazionali dove il ritmo lavorativo è molto serrato, si sta sempre sotto pressione, oggi riesco a trasmettere una mentalità molto imprenditoriale e aziendalistica anche dentro Palingen fissando traguardi molto alti”. Roma. Il cappellano pellegrino con i detenuti: ripensare il carcere come luogo di speranza di Antonella Palermo vaticannews.va, 10 agosto 2025 Don Massimo Cadamuro racconta l’esperienza di cammino giubilare fino in Vaticano e all’incontro con Leone XIV, insieme a tre ristretti della Casa di Reclusione S. Maria Maggiore, a Venezia. “Una risposta concepita solo in termini repressivi non è feconda. Bisogna fare prevenzione dove è molto aumentata la tossicodipendenza, e garantire percorsi di pena alternativa” Ieri, 9 agosto, la porta del carcere si è chiusa di nuovo. È quella della Casa circondariale Santa Maria Maggiore, a Venezia, dove rientrano i tre detenuti che, in permesso speciale, hanno potuto compiere nei giorni scorsi il pellegrinaggio giubilare fino a Roma suggellato, il 7 agosto, dall’incontro in Vaticano con Papa Leone XIV. “Speriamo che nel loro cuore ci sia questo semino di speranza e che sia più forte del rumore della porta blindata che si spranga alle proprie spalle”, dice ai media vaticani il cappellano del penitenziario don Massimo Cadamuro che ripercorre il percorso fatto. Poche ore di libertà hanno riacceso il desiderio - “L’abbiamo pensato quando Papa Francesco ha indetto il Giubileo. Ci sembrava importante vivere l’esperienza del cammino. Un’esperienza molto bella e l’arrivo a Roma è stato il coronamento”, racconta il sacerdote. Parla di vera “grazia” e accenna alle pagine del diario di viaggio su cui a fine giornata i pellegrini hanno scritto emozioni e riflessioni, diario che hanno regalato al Papa. Ne sono affiorate tante, insieme a desideri, progetti. Perché dentro una cella anche il desiderio si spegne e, se si spegne, è finita. “Ogni giorno, la sera, facevamo il punto. Condividevamo le nostre impressioni, ristretti e non. Emergeva il senso di familiarità vissuto da persone che non venivano identificate in base al reato commesso, ma venivano considerati uomini amati per quello che sono”. Assaporare la libertà, anche se per poco, ha innescato la voglia di ricostruirsi, una volta usciti dal carcere. “E poi la presenza di Dio nella propria vita, riscoprire un Dio che non è un giudice ma è un Dio che ti dona una vita più autentica. Hanno intuito che Gesù dona loro la speranza legata alla fiducia. L’hanno recuperata come l’alimento della propria vita. In Gesù diventa possibilità concreta”. I detenuti si incoraggiavano l’un l’altro. Alla vista di un torrente, racconta don Massimo, facevano a gara anche solo per poter fare due passi”. Emergevano ricordi di una gioventù lontana. E poi mangiare insieme, condividere il pasto con molta pace. Il carcere sia un luogo che educa alla speranza - A concorrere al benessere psico-fisico di chi, a piedi da Terni a Roma per cinque giorni, ha camminato in condizioni non comode, è stato l’obiettivo, avere una meta fissata. Cosa che il tempo in prigione vanifica, nella ripetitività di gesti, nell’annichilimento e nel degrado che in tante realtà carcerarie si sperimenta. “Papa Leone, incontrandoci, ci ha davvero sorpreso, ci ha accolto con molta mitezza e disponibilità e, soprattutto, ci ha detto ‘anch’io ho bisogno di speranza’. E poi ha aggiunto il suo grazie per la nostra presenza perché, ha detto ‘voi siete un seme di speranza’. Ci ha confermato dunque nella strada che abbiamo intrapreso e nella strada di ripensare anche la dimensione del carcere, affinché sia un luogo che possa educare alla speranza”, spiega don Massimo. Ricorda la fatica del camminare, la associa alla fatica del carcere, in qualche modo uguale e contraria. L’una che si sopporta meglio perché punta a una finalità fatta di pacificazione e riconciliazione; l’altra che il più delle volte fa implodere in sé stessi e, in troppi casi, induce anche al suicidio. Considerare percorsi di pena alternativa - In Italia in questa settimana si è consumato il 53.mo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno. “Il fatto è che a volte il carcere ti toglie la speranza e si arriva fino a questi gesti estremi che noi conosciamo molto bene anche alla Casa di reclusione S. Maria Maggiore. Per fortuna la cosa si è ricomposta da noi. Il carcere è troppo faticoso”. Sovraffollamento, stato di sotto organico della Polizia penitenziaria... temi ben noti da lungo tempo ma che si sono ormai incancreniti. Il cappellano elogia gli agenti i quali, ammette, “fanno un lavoro encomiabile, ma bisogna ripensare il sistema”. I tossicodipendenti, gli psichiatrici... Bisogna considerare per costoro delle comunità di pena alternativa, è l’appello di Cadamuro, dovrebbero essere accompagnati in altri percorsi. “Il Giubileo può accendere una luce”. Una risposta solo repressiva non è feconda - “Non mi pare che una risposta concepita solo in termini repressivi e punitivi sia una risposta feconda”, insiste. “Bisogna riattivare percorsi di prevenzione, di animazione dei quartieri. Noi registriamo una grossissima ripresa, per esempio, della tossicodipendenza tra i giovani. È lì che bisogna fare un’opera educativa, culturale, sportiva”, aggiunge. Dal suo punto di osservazione guarda alla crisi generalizzata che pervade tessuti urbani e non e che “accende tutta questa problematicità, compresa l’aggressività. Però - precisa - c’è anche tantissimo bene che viene fatto nelle nostre società e che ha una potenza veramente indiscutibile”. Il pellegrinaggio giubilare, reso possibile da una sinergia virtuosa che ha messo in campo tanti volontari, è stato emblematico. C’erano dei rischi, tutti ne erano consapevoli, ma ha prevalso la scommessa in una buona causa: “Io ero abbastanza sereno e devo dire che sono molto contento di come è andata. Nessuno era forzato a far nulla. Ciò che abbiamo raccolto ci dice che l’intuizione era quella giusta, rischio compreso, perché il rischio fa parte della vita”. La villa-manicomio diventerà Uffizi di Simone Innocenti La Lettura - Corriere della Sera, 10 agosto 2025 Costruita dai Medici a Montelupo Fiorentino a fine Cinquecento, l’Ambrogiana versa in abbandono. Manca la firma del ministro perché entri nel circuito del museo diffuso: “la Lettura” l’ha visitata. Qui continuano a chiamarlo manicomio perché “avranno pure tolto la targa ma tanto noi altri siamo un po’ tutti matti”, dice Andrea Ragionieri che, nato da queste parti, porta avanti la tradizione bottegaia di famiglia. Qui è Montelupo e più precisamente Villa dell’Ambrogiana che il 7 febbraio 2017 ha smesso di essere “ospedale psichiatrico giudiziario” quando l’ultimo paziente ha lasciato la struttura di proprietà del Demanio. “Macché villa e villa: quello per noi è il manicomio”, chiosa ridendo Massimiliano Monti, consapevole - come tutti i montelupini - che qualcosa sta cambiando. Quel qualcosa è ancora chiuso al pubblico ma “questo edificio sta a Firenze come Versailles sta a Parigi: è la sua reggia. E come tale la stiamo ipotizzando”, annuncia Samuele Lastrucci, direttore del Museo dei Medici ma soprattutto, in questo caso, consigliere speciale per la Villa. Incredibilmente unica a non essere stata riconosciuta patrimonio dell’Unesco. L’idea della “reggia” è ambiziosa ed è a un passo dalla realizzazione: riportarne alla luce la bellezza architettonica e valorizzare gli ambienti carcerari. Per poi - in 8 mila metri di strutture e altri 8 mila di verde - calare un progetto che porti il marchio degli Uffizi Diffusi: sale espositive, laboratori per l’Opificio delle Pietre dure, cinema, sala convegni, spazio presentazioni, palcoscenici per teatro, lirica e danza. E - perché no? - “inaugurazione di una scuola per i futuri dirigenti del ministero della Cultura così come a Scandicci è stato fatto per la scuola della magistratura”, azzarda il soprintendente di Siena, Gabriele Nannetti, responsabile unico del progetto di Villa dell’Ambrogiana, l’uomo che di fatto ha il potere su tutto. Che cosa manca allora? “La firma del ministero”, riassume Nannetti. A che cosa serva la firma lo ha detto il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, durante una visita a Montelupo dove è arrivato anche grazie alla mediazione del consigliere comunale Federico Pavese (FdI), all’opposizione in Comune e meloniano della prima ora. “Qua non ci sono colori politici: è una cosa importante da fare per il Paese”, spiega Pavese. “L’impegno da parte del Mic è confermato, ci sono 12 milioni impegnati (oltre a 2 milioni già stanziati, ndr )e altrettanti da parte della Regione: adesso si procede spediti”, ha promesso il ministro Giuli. Subito dopo nascerà una Fondazione: come enti fondatori governo, Regione Toscana e Comune di Montelupo. “A quel punto troviamo soci sostenitori. Poi nascerà un Comitato tecnicoscientifico che individuerà le aree di intervento: questi ulteriori soldi - annuncia il sovrintendente Nannetti - vanno spesi, intanto, per la riduzione della vulnerabilità strutturale e l’adeguamento sismico. Poi per le coperture e i solai. A spanne ci restano altri 20 milioni utilizzabili, tra l’altro, per il ripristino dei giardini, dello spazio della palla a corda e anche per il “mini-Vasariano”“. Tutto entro il 2028. Visitare questo luogo, ora, è un privilegio: la bellezza è come un fuoco che crepita sotto le ceneri, in attesa di riprendere vigore. E poco importa se il verde è lasciato a sé stesso e se - tolto l’appartamento nobiliare - tutto sembra in abbandono. “È uno spazio meraviglioso che ha una storia immensa”, spiega Simone Loni (Pd), al primo anno come sindaco. La storia della villa inizia per volere di Ferdinando I de’ Medici granduca di Toscana (1587-1589). Fa parte delle residenze di campagna nate ai piedi del Monte Albano e ha una caratteristica che la rende unica: il porto che è impreziosito da una grotta artificiale, recentemente restaurata. Tra rimaneggiamenti vari - la villa viene rialzata con l’aggiunta del secondo piano e del piano “delle Soffitte” a tetto che ne trasforma l’originaria morfologia tardo cinquecentesca - si ha una certezza: Cosimo III de’ Medici, granduca di Toscana, ne fa la sua “dimora” prediletta con affreschi e statue. E - sulla scorta del Corridoio Vasariano di Firenze - fa collegare gli appartamenti nobiliari alla chiesa dei Santi Quirico, Lucia e Pietro d’Alcantara, fondata nel 1678 dai Frati Alcantarini: un passaggio interno - impreziosito dalle tele di Giovanni Cinqui raffiguranti la vi La ristrutturazione sarà attenta “perché è chiaro che il passato non va obliterato, neppure quello del carcere”, promette il sovrintendente Nannetti. La villa, nel tempo, è stata infatti molte cose. Sotto i Lorena viene abbandonata come residenza e nel 1849 diventa Ospedale fiorentino del Bonifazio. Il 12 agosto 1854 nuova permuta: è Stabilimento provvisorio per i primi 12 detenuti che arrivano da Firenze, dal Carcere Centrale delle Murate. Nel 1886 diventa il primo manicomio criminale del Regno d’Italia. Nel 1900 è manicomio giudiziario. Dal 1975 i suoi locali ospitano l’ospedale psichiatrico giudiziario fino al 2017. E siamo a oggi, in un paese che - pur vantandosi di essere distretto della ceramica - non è riuscito a replicare i successi di ceramisti come Aldo Londi o Ettore Sottsass: negli ultimi 16 anni il Comune non è riuscito a valorizzare a livello nazionale questo settore. Non è un caso che il governatore della Toscana, Eugenio Giani, dica: “Un ambiente come la villa può richiamare turisti e cittadini. È un modo per restituire alla collettività un luogo per troppo tempo chiuso”. Chiuse sono ancora le celle della seconda e della terza sezione. E chiusi sono gli ambulatori medici, la radiologia, il gabinetto odontoiatrico, i locali di medicina legale, gli spazi dedicati al sopravvitto e gli archivi dei detenuti. “Qui negli anni Settanta ci venivano i camorristi che si facevano passare per pazzi - ricorda Falsetti - ma accanto a questi criminali, c’erano i reclusi, quelli che chiamavano matti. Alcuni di loro potevano uscire per alcune ore durante il giorno ma c’erano situazioni disperate: io ho fatto il militare qua dentro e ho visto molte cose”. Molte di quelle cose rimangono nell’aria e tra le mura delle celle, dove ancora ci sono scritte e disegni. O collage che si trovano all’esterno, nella zona dell’aria dove i reclusi avevano i colloqui con i familiari. È una storia, quella della villa, che si lega indissolubilmente a Montelupo. In passato, ad esempio, dopo l’alluvione del 1966 “diverse famiglie del paese furono ospitate dentro le mura perché avevano perso casa”, conclude Falsetti. Nel futuro, invece, c’è la prospettiva di vedere la bellezza e la cultura che rilanciano il paese e la villa. Proprio con gli stessi strumenti che furono usati nell’ultimo periodo per reinserire i “matti”: libri, quadri, teatro, cinema. Le disuguaglianze, l’eclissi del Welfare e il mito fragile del merito di Vittorio Pelligra Avvenire, 10 agosto 2025 Ci piace l’idea che il successo sia il riflesso del talento e della fatica, la giusta ricompensa per chi ha saputo impegnarsi. Ma quando le disparità crescono, il racconto vacilla. C’è un racconto che amiamo sentirci ripetere. Un racconto che accarezza il nostro orgoglio e ci solleva dal peso della sorte. È il mito del merito: l’idea che il successo sia il riflesso limpido del talento e della fatica, la giusta ricompensa per chi ha saputo impegnarsi, l’esito naturale di un gioco equo dove le regole valgono per tutti allo stesso modo. Questo racconto è radicato a fondo nelle società occidentali, ma con differenze significative. Negli Stati Uniti, per esempio, il mito fiorisce come un vero e proprio dogma laico: chi ha, ha meritato; chi non ha, non ha fatto abbastanza. Nell’Europa nordica, invece, il merito convive con un senso più ampio di giustizia: anche chi è caduto merita cura, e chi ha corso più veloce, spesso, lo può fare perché c’è qualcun altro che gli ha spianato la strada. La questione centrale è che l’adesione al mito non ha una valenza puramente individuale. Come hanno mostrato Alberto Alesina e George-Marios Angeletos, in un celebre studio, infatti, la fede più o meno convinta nella meritocrazia modella le scelte politiche: quanto più crediamo che il mercato premi il merito, tanto meno siamo disposti a tassare chi ha di più per sostenere chi ha di meno. Le nostre credenze non fotografano il mondo in maniera obiettiva: lo costruiscono e lo plasmano. Se penso che il sistema sia giusto, accetterò le sue disuguaglianze. Se le accetto, non vorrò cambiarlo. Così, il mito del merito diventa una profezia che si autoavvera - e lo Stato sociale, lentamente, svanisce. Come è stato possibile smontare così facilmente il Reddito di cittadinanza, o bloccare un’iniziativa legislativa sul salario minimo, ignorare il fatto che i lavoratori poveri sono raddoppiati negli ultimi dieci anni e far uscire del tutto il tema delle povertà dal dibattito politico? Eppure, anche i miti, a volte, si incrinano. Quando la disuguaglianza cresce troppo, e i più ricchi sembrano vivere in un altro mondo, il racconto vacilla. Uno studio recente di Sánchez Rodríguez e colleghi (2023) ha mostrato che l’aumento eccessivo delle diseguaglianze può ridurre la fede nella meritocrazia. Quando il divario si fa troppo ampio e diventa impossibile giustificarlo con l’impegno e il talento, le persone aprono gli occhi e iniziano a dubitare. Che il merito sia un’illusione ben confezionata? Gli esseri umani non sono né perfettamente egualitari né fanatici del merito. Cercano un equilibrio. Desiderano che le opportunità siano distribuite con equità, ma accettano che i risultati differiscano - a patto che le regole del gioco siano chiare e il campo non sia truccato. È un equilibrio sottile, fragile. Basta un’ombra - la corruzione, il nepotismo, il razzismo sistemico - e tutto si incrina. Il messaggio che ci consegnano questi studi e questi autori è semplice ma profondo: le credenze meritocratiche non sono neutrali. Non sono solo una lente attraverso cui guardiamo il mondo: sono il telaio su cui costruiamo le nostre politiche, i nostri giudizi morali, il nostro consenso allo Stato. Ma sono anche vulnerabili. E quando si spezzano, ci lasciano nudi di fronte alla diseguaglianza, senza più le parole per giustificarla, né la forza per combatterla. Con i divari che crescono e il Welfare che arretra, la sfida oggi non è solo redistribuire risorse. È riformare il nostro immaginario. Ricostruire una narrazione della giustizia che tenga insieme la valorizzazione del talento e il riconoscimento dei limiti, il premio all’impegno e la cura per chi è rimasto indietro. Perché nessuno prospera da solo e nessuno si salva da solo. Una società giusta non è quella in cui ognuno riceve in base a ciò che ha dato, ma quella in cui ognuno può dare ciò che ha, senza che la sorte o il privilegio decidano in partenza chi può contribuire e chi no. Cacciare i “cattivi maestri” e tornare alla scuola dei bei tempi andati? di Roberto Contessi* Corriere della Sera, 10 agosto 2025 In realtà siamo fermi ai metodi del passato: lezioni, compiti, interrogazioni. La narrazione corrente attribuisce alla scuola progressista i pessimi risultati degli studenti. Ma la maggior parte dei docenti ancora oggi insegna come facevano i prof quando loro erano alunni. Più e più volte ritorna nella discussione intorno ai mali della scuola italiana, la tesi secondo la quale a partire dagli anni Sessanta e Settanta si sarebbe diffuso tra i docenti di ogni grado scolastico un metodo di insegnamento, definito “progressista”, che si sarebbe concentrato sulle attività pratiche più che su quelle teoriche. Fa parte di questa narrazione, la tesi secondo la quale le aule delle scuole elementari, medie e superiori si sarebbero riempite di maestri e docenti portatori del verbo di un prete toscano, Lorenzo Milani, e di uno studioso campano, Tullio De Mauro, che avrebbero indotto a trasformare l’istruzione in una diffusione di tecniche pratiche e di attività di apprendimento collettivo, con il risultato nefasto di abbassare le capacità astrattive dei ragazzi e tollerare comportamenti di ribellione, in una sorta di permissivismo e buonismo generalizzato. Se le cose stessero così, i sostenitori di questa tesi auspicano il ritorno di un apprendimento dagli aspetti teorici e astratti più spiccati, condotto, se possibile, attraverso la centralità delle ore di lezione svolte in classe, o, al massimo, in un laboratorio scolastico. Insomma, bisognerebbe mettere al bando i fronzoli di metodi di apprendimento partecipato (qualsiasi cosa questa espressione voglia dire), restituendo dignità al maestro o al professore in cattedra. In sostanza, il metodo aureo sarebbe: libro, appunti, spiegazione, studio a casa, interrogazione o verifica scritta. Agli eventuali studenti ribelli, oppure a disagio, bisogna applicare strumenti di contenzione: note disciplinari, uso del voto di condotta come strumento di controllo, prova orale obbligatoria all’Esame di Stato. La debolezza questa narrazione sta nel fatto che il sistema scolastico italiano si è sempre fondato, in linea di massima, sulla centralità delle nozioni teoriche e sul metodo spiegazione-studio-interrogazione. Ecco perché questa narrazione è una montatura. E’ ben vero che, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, alcuni docenti o studiosi di pedagogia hanno proposto e sperimentato tecniche di insegnamento alternativo, che, se vogliamo, possiamo anche definire “progressiste”: ma tali tecniche non si sono mai diffuse. Mai. I libri che le sostenevano sono spesso il racconto di felici avventure, che di tanto in tanto sono state applicate prendendo una cosa qua e una cosa là, ma, come hanno sempre confermato tutte le sacrosante indagini concrete come la Timss, oppure le indagini sostenute dalla Fondazione Agnelli o anche dallo stesso Ministero competente, non tanto i maestri di scuola elementare, ma soprattutto i docenti di scuola media e superiore non si sono mai mossi dal metodo cui loro stessi erano stati sottoposti nella loro adolescenza. L’effetto “imprinting”, quello che evidenziò molto bene Konrad Lorenz con le sue paperelle, è il migliore sistema di apprendimento possibile. Io imparo imitando quello che fa la mia guida: e se la mia professoressa insegna grosso modo come insegnava la professoressa dei miei genitori e dei miei nonni, tutti ci ritroviamo nello stesso metodo, parliamo la stessa lingua, usiamo lo stesso codice. Quindi è una grossa montatura sostenere che la scuola sia stata invasa da un sistema di insegnamento “progressista”, perché non è il dato storico rilevabile. Nessuna statistica si può portare a supporto, se escludiamo alcune scuole o alcuni istituti dello Stivale che godono storicamente di una tradizione di qualità e che hanno mantenuto tale tradizione pur modificando parzialmente la didattica. Ma quello è un altro discorso: sono isole felici. Ogni montatura, però, è costruita con uno scopo. In questo caso, il fine è quello di addossare i mali della scuola del 2025 ad una supposta rivoluzione di mentalità accaduta intorno a dei libri e a delle comunità di docenti che vi hanno creduto, pur se quelle comunità sono rimaste chiuse e non si sono diffuse, purtroppo o per fortuna. A pensare bene e senza malizia, chi sostiene questa montatura è un ingenuo, vittima di un inganno. Molti insegnanti e anche molte riforme della scuola in effetti hanno lasciato la facoltà di poter insegnare in modo “progressista”. I docenti sono bravi, e lo so bene io per primo, ad affermare sulla carta qualcosa e, invece, a fare ben altro in classe: compilare una bella proclamazione di intenti ad inizio anno, spesso ha un valore solo burocratico, e non indica un mutamento di metodo. Se quegli intenti non vengono applicati, la dichiarazione può dare l’impressione che stia cambiando qualcosa, mentre nella sostanza nulla è diverso. A pensar male e con un po’ di malizia, ogni narrazione che esprime una montatura, secondo una brillante intuizione dello storico Marc Bloch, è una “propaganda”, cioè serve a deresponsabilizzare una comunità, addossando la croce ad alcuni maestri, appunto i citati Lorenzo Milani e Tullio de Mauro, per invitare tutti a fare un bagno di sano realismo. A quel punto, don Milani e De Mauro, sono presi e strumentalizzati, immaginando un Eden scolastico prima del loro arrivo. Attenzione però: non esiste una medicina che, con uno schiocco di dita, risolva la debolezza culturale di una parte dei giovani e degli adulti del nostro Paese, debolezza che è sotto gli occhi di tutti. Inoltre, abbiamo oggi una certezza quantitativa che di nuovo smentisce la propaganda: nel 2025 la parte culturalmente più debole della popolazione è proprio quella adulta over 50, che dunque non è stata bene formata dalla scuola dei bei tempi andati. Quella scuola aveva il grosso limite di abbandonare al loro destino i suoi studenti: i pochi forti erano promossi, i tanti deboli erano bocciati. Oggi non possiamo più permetterci lo stesso errore. *Docente e scrittore Lite sulla sentenza per i migranti in coda, il Viminale fa ricorso contro la condanna di Eleonora Camilli La Stampa, 10 agosto 2025 Sui permessi di soggiorno la Questura di Torino si difende: “Da mesi adottate migliorie”. Il Viminale è pronto a fare appello contro la sentenza di Torino sui migranti: “Il contenuto è al vaglio, daremo mandato all’Avvocatura di Stato”. Parte l’effetto “emulazione”, pronti a fare ricorso collettivo anche in altre città. Come anticipato su La Stampa, il Tribunale civile del capoluogo piemontese ha condannato il Ministero dell’Interno per le code e le attese di chi vuole chiedere protezione internazionale: il giudice ha parlato di “prassi discriminatoria” e “condizioni mortificanti”, oltre che di “criteri” di ingressi agli sportelli “oscuri”. La Questura di Torino dovrà cambiare sistema - Poi, ha obbligato la Questura di Torino a cambiare organizzazione, ispirandosi al modello di prenotazione online di Milano. La decisione è arrivata dopo il ricorso collettivo di 18 richiedenti asilo insieme all’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione: nel mirino l’obbligo, per i migranti, di attendere ore davanti agli uffici senza ricevere mai un appuntamento. Ogni giorno, su un centinaio di persone, ne vengono fatte entrare dagli agenti una decina in media. E così nell’attesa di poter far domande, che dura mesi, chi è scappato dal proprio Paese perde i diritti sanciti dall’Europa: quello di avere un medico, un aiuto per la casa, un lavoro. È la prima volta che si arriva nel merito di un ricorso anti-discriminatorio, e la sentenza può diventare modello per le altre città. “Come rete di amministratori locali (la Rami, ndr)- spiega il consigliere di Bologna Siid Negash -abbiamo intenzione di fare anche noi varie class action con l’aiuto dell’Asgi”. Di “una vittoria storica per chi da anni denuncia prassi illegittime e disumane” parla Marco Grimaldi di Avs. “Non ci sono alibi: né la carenza di personale né il disordine organizzativo possono giustificare la violazione dei diritti fondamentali. Lo Stato ha il dovere di garantire dignità, non di calpestarla”. Anche per il segretario di +Europa Riccardo Magi “siamo di fronte a una vera e propria discriminazione di Stato” che rappresenta una prassi consolidata: “Il governo fa propaganda su legge e ordine ma sono proprio Meloni e Piantedosi a muoversi nell’illegalità e a creare caos - aggiunge -. Peraltro tutto ciò è assurdo se pensiamo che lo stesso governo dice di voler aumentare il numero di cittadini stranieri regolari”. La vicepresidente del Senato, Anna Rossomando (Pd), depositerà un’interrogazione a Palazzo Madama per conoscere “quale organizzazione sia stata approntata per garantire i diritti dei richiedenti asilo e quali saranno i correttivi”. Diametralmente opposto il commento di Augusta Montaruli di Fratelli d’Italia: “Non penso che si possa ritenere discriminatorio il comportamento della questura, gli operatori lavorano a ritmi intensi anche per risolvere una questione ereditata dopo anni di lassismo”. Per la deputata oggi le procedure sono decisamente più rigorose rispetto al passato “a dimostrazione di un evidente miglioramento”. A questo va aggiunto che “la stragrande maggioranza delle richieste d’asilo viene respinta”. Ma quelle dei 18 ricorrenti, ora, verranno passate al vaglio: “Sono stati già tutti ricevuti presso i nostri uffici - spiegano dalla questura di Torino - e hanno potuto presentare le istanze di protezione internazionale. La situazione complessiva è in costante miglioramento; rispetto al passato sono attive procedure che consentono percorsi facilitati per la presentazione delle istanze da parte degli stranieri”. Migranti. “Comune e Ministero hanno ignorato il problema”, la difesa dei sindacati sulle code di Caterina Stamin La Stampa, 10 agosto 2025 Dopo la bocciatura del tribunale che ha definito “discriminatorie” le file davanti all’ufficio stranieri, Siulp, Siap e Fsp difendono la questura condannata. I sindacati di polizia reagiscono alla sentenza del Tribunale di Torino, che ha condannato la questura cittadina e il Ministero dell’Interno per la gestione delle cosiddette “code della vergogna” e delle procedure relative alle richieste di asilo e rinnovo dei permessi di soggiorno. La posizione del Siulp - “Pur condividendo le legittime preoccupazioni espresse dalla magistratura - dice Eugenio Bravo, segretario generale del Siulp di Torino - va ricordato che denunciamo da anni le condizioni assurde in cui sono costretti ad attendere gli stranieri, tutti regolari e in attesa di verifica o rinnovo del permesso di soggiorno”. Una situazione che si è ripercossa, sottolinea il sindacato, anche sugli agenti degli sportelli dell’Ufficio immigrazione: “Abbiamo segnalato più volte negli anni le difficoltà non solo degli utenti, ma anche dei poliziotti impegnati nelle pratiche, costretti a operare in ambienti inidonei, prima tra tutti la sede di corso Verona: una struttura pericolante e insalubre, che metteva a rischio sia la salute dei lavoratori che la dignità delle persone in coda per ore e ore”. Dalla sede di corso Verona a corso Bolzano - Oggi corso Verona non esiste più. Dallo scorso marzo l’Ufficio Immigrazione si è spostato in corso Bolzano, a pochi passi dalla questura di corso Vinzaglio. Nuovi sportelli a cui si aggiungono quelli attivi in via Dorè, in via Botticelli, oltre a quelli nei commissariati di Bardonecchia, Ivrea e Rivoli. “Il Comune è arrivato persino a ridurre lo spazio esterno peggiorando la situazione, per aprire un cantiere per una palestra adiacente - continua il sindacato - Questo in contraddizione alla sbandierata solidarietà espressa più volte dal sindaco di Torino”. E conclude: “Oggi la situazione potrà migliorare solo grazie all’impegno del questore, che ha individuato una nuova sede e introdotto procedure online, nonostante la riduzione di organico imposta dal Ministero”. La posizione del Siap - Lo stesso per il sindacato Siap, che parla di una “situazione kafkiana”. Spiega il segretario Pietro Di Lorenzo: “Dopo aver “condannato” la Questura e il Ministero dell’Interno, ci chiediamo se il prossimo passo sarà quello di condannare penalmente qualche singolo poliziotto. In una situazione kafkiana, invece di prendere provvedimenti affinché del problema utenza straniera agli sportelli se ne facciano carico Regioni, Comuni, enti e sindacati, così bravi a criticare, si colpisce l’anello debole della catena: i poliziotti”. Il carico di lavoro degli agenti - Anche Di Lorenzo sottolinea il carico di lavoro degli agenti dell’Ufficio Immigrazione: “Tutti sanno che per un’affluenza così alta in tutta Italia il personale non solo non basta ma nemmeno c’è. Nessun ufficio pubblico sarebbe in grado di rispondere in maniera adeguata a tale richiesta ed invece alla polizia chiediamo forse di lasciare da parte ogni attività di prevenzione e contrasto al crimine, impiegare ogni singolo poliziotto a ricevere le istanze e magari destinare tutti i locali di polizia a sportelli per gli stranieri. Incredibile ma vero”. La posizione di Fsp - “Apprendiamo con sdegno le accuse rivolte agli operatori dell’ufficio immigrazione che riteniamo ingiuste ed infondate, i colleghi fanno un lavoro eccezionale se paragoniamo in numero delle pratiche trattate con il personale a disposizione” commenta anche il segretario generale Fsp Polizia Torino, Luca Pantanella. E aggiunge: “Proprio l’ultimo anno ha visto triplicarsi il numero delle pratiche trattate, gli operatori sono da sempre in prima linea su vari fronti. Le domande di asilo politico vengono accolte e trattate nei tempi previsti dalla legge e mai si è registrata alcuna discriminazione, in quanto tutte le etnie possono far accesso all’iter di protezione internazionale. L’ufficio inoltre accoglie da sempre le istanze di vulnerabilità segnalate dagli enti e dall’associazioni”. Anche Pantanella sottolinea come non sia “affatto aumentato l’organico a disposizione, il chè fa evincere il grande sacrificio di chi lavora in questo ufficio, spesso anche in condizioni precarie e presso strutture provvisorie, tanto che da anni vi era l’allarme per la ricerca di una nuova sede per dare dignità ai colleghi ed alle persone in coda, cosa rimasta per anni inascoltata dal Comune di Torino ed accolta invece dalla Curia. La polizia farà ricorso perché è nell’assoluta buona fede, ci auguriamo che la verità emerga”. Chi vuole la pace deve costruire la democrazia di Gianfranco Pasquino* Il Domani, 10 agosto 2025 “Si vis pacem, para bellum”. Crediamo tutti di sapere che cosa significa questa frase latina. È il chiaro invito ad armarsi per rendere noto e evidente a tutti i potenziali aggressori che il nostro paese, pardon, la nostra nazione è pronta, forse non solo militarmente, a difendersi. Qualcuno pensa, a mio parere correttamente, che prepararsi alla guerra non voglia dire preparare la guerra, che la difesa richieda non solo armamenti, ma convinzioni, condivisioni e motivazioni, che, concretamente, più di quarant’anni (1946-1989) di preparazione alla guerra sul continente europeo abbiano garantito la pace. Certo, l’equilibrio del terrore fu il prodotto della (rin)corsa agli armamenti fra le due superpotenze: Usa e Urss, e anche della consapevolezza di entrambe che un bellum nucleare avrebbe significato il loro reciproco annientamento. Insomma, in qualche modo, prepararsi alla guerra in maniera visibile contribuì a mantenere la pace (almeno sul continente europeo). Che in materia di preparazione attiva e consapevole si possa scrivere molto altro è pacifico (sic), another time another place. Ma queste considerazioni mi paiono sufficienti a delineare in maniera non fumosa il problema e la soluzione che viene proposta. Pace senza complessità - Si vis pacem, para pacem è quel che, senza nessuna elaborazione, alcuni politici e intellettuali, non soltanto italiani contrappongono a chi indica la strada della preparazione alla/della guerra. Credo che sarebbe opportuno soffermarsi a pensare non soltanto quale pace dovremmo preparare, ma soprattutto in che modo, delineandone tempi, ritmi, strumenti, protagonisti. “Svuotare gli arsenali e colmare i granai”, come suggerito da Sandro Pertini nel suo primo discorso da presidente della Repubblica italiana (1978-1985), è una bella frase ad effetto che riecheggia quanto auspicato dal profeta Isaia: “Spezzare le spade per farne aratri, trasformare le lance in falci”. Con la stessa logica, ma non vorrei proprio essere blasfemo, chi sostiene, in Italia sono molti collocati a sinistra, che le spese per le armi vanno a scapito di quelle per la sanità, dovrebbe volere trasformare i carri armati e i droni in autoambulanze, perorando e agendo affinché, condizione essenziale, lo facessero tutti gli stati. Rimane più che lecito chiedere a chi non vuole che l’Italia partecipi al riarmo dell’Unione europea quale contributo alternativo la nostra nazione dovrebbe impegnarsi a dare per la difesa degli stati membri dell’Ue. Preparare la pace significa anche, preliminarmente, riflettere sulle cause delle guerre, proporre spiegazioni storico-comparate, segnalare le modalità con le quali un certo numero di guerre sono state prevenute e impedite. Non vedo nulla di tutto questo nei discorsi di coloro che dicono di voler preparare la pace. La democrazia . Si vis pacem, para democratiam. Nelle relazioni internazionali una generalizzazione molto robusta e finora non smentita è che le democrazie non si fanno la guerra fra di loro. È vero che le democrazie sono entrate e continuano a entrare in guerra per una pluralità di motivi, ma l’avversario, il nemico è regolarmente, provatamente uno stato, una nazione non democratica. Al proposito, fa la comparsa in tutta la sua pregnanza e lungimiranza la lezione del grande filosofo illuminista tedesco Immanuel Kant (1724-1804). La sua tesi è che la pace perpetua è conseguibile ampliando l’area delle Repubbliche, termine usato allora per definire i paesi governati, non nell’oppressione e nella repressione, ma con il consenso, e procedendo alla costruzione di una Federazione di Repubbliche. L’Unione europea ne è un ottimo esempio. Qui si pone il problema di come preparare la democrazia. Troppo facile sostenere che non è possibile esportare la democrazia chiavi in mano. Piuttosto le democrazie e i democratici, soprattutto coloro che vogliono la pace, hanno il dovere politico e morale di favorire e incoraggiare tutti quei molti comportamenti che nei differenti paesi vanno nel senso della protezione e promozione dei diritti civili e politici, sostenendo coloro che se ne fanno portatori e difensori. La diplomazia, vigorosa, insistente e generosa, delle idee e delle risorse è il modo migliore per fare sbocciare i fiori democratici. Ne concludo che chi vuole la pace deve coerentemente e insistentemente operare per portare, piantare, innaffiare quei fiori democratici a cominciare dai paesi responsabili di operazioni militari più o meno speciali e affini. Hic et nunc. Il resto sono chiacchiere. *Accademico dei Lincei A Gaza un genocidio sì o no? Ma il vero crimine è disumanizzare di Pasquale de Sena Avvenire, 10 agosto 2025 Dibattere sulla qualificazione dei massacri in corso non è inutile, ma neppure è sufficiente. Va ribadito che tali massacri restano comunque il frutto di crimini gravissimi. Divampa, da qualche giorno, essenzialmente sulle pagine di Repubblica, ma non solo, una discussione sulla questione se i massacri di civili, in corso a Gaza, siano qualificabili come genocidio. Tutti oramai conoscono le posizioni di Grossman e Segre. Posizioni contrastanti, a questo riguardo, ma sostanzialmente coincidenti nel derivare da un peculiare punto di vista; ossia, quello proprio della comune appartenenza al popolo ebraico di chi le ha espresse. Su di esse non voglio qui tornare, anche se, dinanzi all’enormità di quanto è già accaduto, e di quel che ancora si prospetta (con la ripresa annunciata dell’occupazione militare della striscia), forti perplessità si sono diffuse, nell’opinione pubblica, sull’”utilità” di questo dibattito. Ma è davvero inutile confrontarsi su tale problema, oggi? E ancora: è a ciò che bisogna limitarsi, o gli eventi in corso ci dicono qualcosa di più ampio, cui pure occorre rivolgere l’attenzione? Quando si parla di genocidio a proposito dei massacri in corso a Gaza, non bisogna mai dimenticare che questo crimine è stato invocato anzitutto dalle vittime civili, residenti nella Striscia, e da alcuni movimenti palestinesi indipendenti, non legati ad Hamas. Uso politico del termine? Sì, d’accordo; ma in modo analogo a quanto già è avvenuto, in passato, da parte delle vittime civili di altri massacri, per attirare l’attenzione sulla loro condizione. Di sicuro più ampio, rispetto al passato, è invece l’uso che ne è stato fatto da movimenti politici, non direttamente collegati alle vittime. Non mi sembra, però, che quest’ultimo fenomeno costituisca semplicemente un sintomo di antisemitismo, rectius, antiebraismo. Perlomeno dal mio punto di vista (di giurista), in esso si esprime una forma di denuncia della macroscopica insufficienza delle posizioni assunte dalla comunità internazionale (intesa come comunità interstatale), dinanzi alla macroscopica devianza, rispetto a norme fondamentali del diritto internazionale, della risposta israeliana ai tremendi crimini del 7 ottobre. Ma il crimine di genocidio resta, prima di tutto, una figura giuridica, mi si dirà. Anche qui, non vi è dubbio. Dovrà essere la Corte internazionale di giustizia (Cig), che si sta occupando del caso, ad accertarne la sussistenza, sul piano della responsabilità di Israele come Stato. E dovrà farlo, a differenza di quanto si è sostenuto, in via del tutto indipendente dall’assimilabilità (o meno) della situazione di Gaza alla Shoah. Vale a dire, in attuazione di quelle stesse norme, e dei medesimi principi, applicati alla tragedia ruandese nonché a quella di Srebrenica, e derivanti dalla Convenzione sul genocidio del 1948, di cui sono parte, oggi, ben 153 Stati. Finché quelle norme saranno vigenti, esse sono applicabili a qualsiasi ipotesi di genocidio, anche quando questa riguardi solo una parte di una certa popolazione. Quale che sia la sentenza cui giungerà la Corte, se ne potrà discutere, naturalmente, ma quanto precede non è discutibile. Né sono discutibili gli obblighi di prevenzione che detta Convenzione pone a carico, si badi bene, anche di Stati terzi rispetto al conflitto, come chiarito dalla stessa Cig. Obblighi, questi ultimi, sistematicamente violati da Israele, e sulla cui osservanza, da parte di detti Stati (in primis, quelli europei), vi sono dubbi pesantissimi. Se, dunque, dibattere sulla qualificazione dei massacri in corso non è inutile, neppure è sufficiente. Si configurino, o meno, come frutto di un genocidio, va invece ribadito che tali massacri restano comunque il frutto di crimini gravissimi, contro l’umanità, o di guerra, compiuti sistematicamente, per di più da truppe di uno Stato che si dice liberal-democratico. E va detto, forte e chiaro, che il tutto è occorso, e occorre, in aperto dispregio del divieto - inderogabile - di commettere violazioni di diritti umani fondamentali, foss’anche a titolo di reazione a violazioni dello stesso tipo, come gli omicidi di massa, la presa (e il mantenimento) di ostaggi, o anche l’uso di scudi umani, da parte di Hamas. Insomma: il contributo così dato alla disumanizzazione dei civili palestinesi sembra configurarsi come uguale e contrario a quello derivante da atti di terrorismo, ai danni dei civili israeliani. Anche questo va, tristemente, visto nel prisma del diritto. Ciò perché il divieto in questione non è altro che una conquista fondamentale del diritto internazionale contemporaneo. Limitarsi alle dichiarazioni, evitare atti concreti, netti, inequivocabili, di opposizione alla deriva in corso, significa contribuire allo smantellamento, in senso tecnico, di una simile conquista. Una scelta sbagliata e miope, i cui effetti potrebbero riguardarci, prima o poi. Gaza, documento di nove paesi contro l’occupazione. C’è anche Roma di Davide Varì Il Dubbio, 10 agosto 2025 La dichiarazione congiunta firmata dai ministri degli Esteri denuncia la “catastrofe umanitaria” nella Striscia. Al via la consegna degli aiuti italiani. Anche i ministri degli Esteri di Canada, Francia, Austria e Norvegia si sono uniti alla dichiarazione congiunta firmata da Italia, Australia, Germania, Nuova Zelanda e Regno Unito per respingere “fermamente la decisione del Gabinetto di Sicurezza israeliano dell’8 agosto di lanciare un’ulteriore operazione militare su larga scala a Gaza”. Al momento i Paesi che hanno aderito alla dichiarazione sono nove. Intanto è decollata questa mattina la seconda fase dell’iniziativa umanitaria ‘‘Solidarity Path Operation’’, missione della Difesa italiana volta alla realizzazione di un ponte aereo tra la Giordania e la Striscia di Gaza con l’obiettivo di garantire la consegna di aiuti umanitari vitali per la popolazione civile. Il primo aviolancio è stato effettuato oggi da velivoli militari italiani, carichi di generi di prima necessità destinati alle aree più isolate e difficilmente raggiungibili della Striscia. L’intera operazione è stata concepita dallo Stato Maggiore della Difesa che tramite il Comando Operativo di Vertice Interforze (Covi), in stretta collaborazione con la Royal Air Force giordana e con l’impegno congiunto dell’Esercito Italiano e dell’Aeronautica Militare, ha coordinato e diretto l’operazione. Le missioni proseguiranno nei prossimi giorni con altri aviolanci, fino alla completa distribuzione degli aiuti forniti dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e da altri donor italiani. La dichiarazione congiunta - L’operazione nella Striscia, si legge nel documento, “aggraverà la catastrofica situazione umanitaria, metterà in pericolo la vita degli ostaggi e aumenterà il rischio di un esodo di massa dei civili”. I piani in questo senso “rischiano di violare il diritto internazionale umanitario. Qualsiasi tentativo di annessione o espansione degli insediamenti viola il diritto internazionale”, si legge nel testo della Dichiarazione. “Esortiamo le parti e la comunità internazionale a compiere ogni sforzo per porre finalmente termine a questo terribile conflitto ora, attraverso un cessate il fuoco immediato e permanente che consenta la fornitura di un’assistenza umanitaria massiccia, immediata e senza ostacoli, poiché a Gaza si sta verificando lo scenario peggiore, quello di una carestia. Hamas deve rilasciare tutti gli ostaggi senza ulteriori ritardi o precondizioni e deve garantire che questi vengano trattati in modo umano e non siano soggetti a crudeltà e umiliazioni”, aggiungono i ministri. “La situazione umanitaria a Gaza rimane catastrofica. Chiediamo al Governo israeliano di trovare con urgenza soluzioni per modificare il suo recente sistema di registrazione delle organizzazioni umanitarie internazionali, al fine di garantire che questi attori fondamentali per l’aiuto umanitario possano continuare il loro lavoro essenziale, in linea con i principi umanitari, per raggiungere i civili bisognosi a Gaza. La loro esclusione sarebbe un segnale grave”. “Siamo uniti nel nostro impegno a favore dell’attuazione di una soluzione a due Stati negoziata, quale unico modo per garantire che israeliani e palestinesi possano vivere fianco a fianco in pace, sicurezza e dignità. Una risoluzione politica basata su una soluzione negoziata a due Stati richiede la totale smilitarizzazione di Hamas e la sua completa esclusione da qualsiasi forma di governo nella Striscia di Gaza, dove l’Autorità Palestinese deve avere un ruolo centrale”, conclude la Dichiarazione congiunta. Kenya. “L’istruzione è un atto sovversivo”: le scuole d’eccellenza negli slums di Eleonora Chioda La Stampa, 10 agosto 2025 Nicolò Govoni, 32 anni, cresciuto a Cremona, bocciato due volte a scuola, vive in Kenya dove ha fondato la prima scuola al mondo certificata IB in una delle baraccopoli più difficili dell’Africa. Attivista, imprenditore sociale, fondatore di Still I Rise, Govoni ha costruito un modello educativo gratuito e d’eccellenza per i bambini più poveri. “Cambiare il mondo si può. Basta smettere di chiedere il permesso” dice. Ha fondato una scuola rivoluzionaria nel cuore di Mathare, una delle baraccopoli più difficili e sovraffollate dell’Africa, alla periferia di Nairobi, in Kenya. La prima scuola al mondo certificata IB (International Baccalaureate) nata in un contesto simile. Istruzione d’eccellenza che ovunque è privata e riservata a chi può pagare migliaia di dollari. Qui è gratuita e aperta a bambini profughi ed emarginati. Nicolò Govoni, ha 32 anni, vive e lavora in Kenya da cinque. La certificazione IB è arrivata ad aprile 2024. Pochi giorni fa è stato invitato dal Vaticano a parlare davanti a oltre 40mila giovani provenienti da tutto il mondo in Piazza San Pietro, al Giubileo. Il suo appello: “Siate sovversivi, abbiate speranza”. Una storia che sembra un film. Di Cremona, adolescente ribelle e senza paura del rischio, a scuola viene bocciato due volte. “Mi ero quasi arreso, da adolescente, all’eventualità di non fare nulla nella vita”. A vent’anni, dopo aver letto Shantaram, il romanzo cult di Gregory David Roberts, parte per l’India. Zaino in spalla, dentro delusioni e desideri confusi. “Sono fuggito in India senza obiettivi né piani se non cercare me stesso”. Ed è proprio lì, in un orfanotrofio sperduto, che incontra un bambino, Anthony, e un sistema sbagliato che lo segneranno per sempre. Non è un missionario, non è un prete: Govoni è un imprenditore sociale, attivista, scrittore. Nel 2018 ha fondato Still I Rise, un’organizzazione no profit che offre gratuitamente istruzione di eccellenza ai bambini più vulnerabili, con un duplice approccio educativo che in alcuni Paesi prevede il prestigioso percorso IB. “Siamo i primi al mondo”. Sei le scuole già aperte, oltre a quella in Kenya: Grecia, Siria, Congo, Yemen, Colombia. “Quello che facciamo è democratizzare un’istruzione che fino a poco fa era considerata per l’élite: solo lo 0,1% dei bambini del mondo ha accesso a un’istruzione di eccellenza. Gli altri devono accontentarsi delle briciole”. Negli ultimi mesi la sua storia è diventata anche un documentario prodotto da Groenlandia e Rai Cinema. Non voluto dalla grande distribuzione e partito in sordina a fine giugno, School of Life sta diventando il più visto tra i documentari. “Ci hanno snobbato e abbiamo fatto di tutto per conquistarci un posto al sole”. Govoni sui social ha una community pazzesca. Su Instagram, nella bio del profilo, scrive: “When you’re going to change the world, don’t ask for permission”. A Nairobi c’è la scuola di punta dell’organizzazione. “Ottenere la certificazione è stata la cosa più difficile e più bella della mia vita. Un percorso lungo: per tre anni non abbiamo superato l’ispezione. Nel 2019 avevamo fatto questa grande promessa: riusciremo a democratizzare il baccalaureato internazionale. Tutto girava intorno a quella promessa. Se non fossimo riusciti, la nostra esistenza non avrebbe avuto più senso”. Poi aggiunge: “Nel mondo esistono circa 4.258 scuole certificate IB. In Italia le scuole IB sono 44, tra cui l’American School of Milan, la Marymount, la St. Louis, l’International School of Turin e quella di Bologna. In Kenya siamo in sette a offrire il programma IB, ma le nostre “cugine” arrivano a costare fino a 37 mila dollari l’anno”. Come si costruisce una scuola IB nel cuore di una baraccopoli? “Non possiamo competere sulle infrastrutture: le altre hanno quasi sempre piscine olimpioniche, campi da tennis, edifici enormi. Né possiamo competere sulla preparazione di partenza: accogliamo studenti di 9 anni che spesso hanno un livello di prima elementare. Ma c’è una cosa in cui siamo molto forti: la cultura scolastica. Ed è quella che ha convinto gli ispettori a darci l’accreditamento IB. Ogni persona che lavora a Still I Rise, dagli insegnanti ai cuochi, dai bidelli ai guardiani notturni, sa perché è lì. Sappiamo qual è il nostro mandato. Camminiamo tutti nella stessa direzione. I nostri studenti sanno cosa significa, “cambiare il mondo”. Prima di entrare ogni docente deve affrontare, solo il primo anno, 100 ore di formazione. “Abbiamo codificato tutto: cosa significa disciplina, cosa si intende per progetto individuale, come comportarsi in ogni situazione”, racconta. “Le regole sono create insieme a studenti e insegnanti, riviste ogni anno da un comitato. È un processo partecipativo che fa sentire tutti parte della scuola”. 13 i valori fondamentali. “Il più importante per me è il coraggio. Che per noi significa saper mettere la collettività prima di noi stessi. Se puoi scegliere tra qualcosa che fa bene a te e qualcosa che fa bene a tanti, il tanti viene sempre prima”. Per Govoni tutto si impara. Tutto può essere insegnato. “Quello che noi facciamo non è carità, è un investimento. Noi stiamo replicando qualcosa che già c’è, rendendolo gratuito. È un servizio che esiste, noi gli cambiamo la natura elitaria rendendolo accessibile a bambini molto svantaggiati”. Sul sito si legge che il 100% delle donazioni viene devoluto a programmi e attività e lo 0% ai costi di gestione e raccolta. “Dal 2024 abbiamo potuto applicare il modello 100% grazie al supporto di una fondazione familiare” Rewind. In quel primo viaggio in India, a 20 anni, Govoni vede da vicino il mondo del volontariato e inizia a guardarlo con spirito critico. “Mi sono reso conto che c’è una macchina dietro al volontariato, per cui tu paghi 1.200 euro e vieni mandato a fare come esperienza qualcosa che non sai fare, senza essere formato. Mi sono ritrovato immerso in una realtà pazzesca, un orfanatrofio, senza essere pronto. E come spesso accade in questi contesti, si creano dei legami molto forti con i bambini dell’orfanotrofio e che così quando riparti si sentono abbandonati per una seconda volta. Anthony era distrutto da questa separazione e io mi sentivo la causa del suo dolore. Sono rientrato, mi è partito l’embolo (dice proprio così ndr) e mi sono detto: ‘devo a tutti i costi rimediare a questo danno.’ Decide così di ripartire per l’India, si iscrive alla Symbiosis University, a Pune, si laurea in giornalismo. “E ogni tanto andavo a trovare Anthony..,” Dopo 4 anni torna a Cremona, è luglio 2017. Ha un piano: frequentare un master in relazioni internazionali a New York. “La mia laurea coincideva con l’inizio dell’università di Anthony: lui aveva ormai 18 anni e un ciclo si stava concludendo. Potevo tornare”. Ma quando rientra in Italia, si ritrova profondamente cambiato. A Cremona in quell’agosto inizia a cercare una fellowship per il master, ma non arriva. “Ero in un limbo. In India mi ero appassionato alle tematiche di migrazione e quel tempo la crisi migratoria con la C maiuscola era in Siria. Ho iniziato a mandare richieste in giro, e sono finito a Samos in Grecia a fine agosto”. Arrivato, Govoni rimane folgorato. “Non ci credevo che sul suolo europeo esistesse un campo profughi simile. Una struttura fatta per 650 persone che in alcuni momenti aveva circa 8.000 persone imprigionate con disagi incredibili. Sono rimasto sei mesi, rimandando continuamente il master, la mia famiglia era molto perplessa. Ero un volontario, senza un reddito, sopravvivevo con i pochissimi risparmi. Lì ho conosciuto Giulia e Sara e nove mesi dopo insieme abbiamo fondato insieme “Still I Rise” e aperto la prima scuola. Era una scuola di emergenza. L’abbiamo chiama MAZI, che in greco significa insieme”. La scuola resterà aperta dal 2018 al 2022: “Dopo anni di interrogazioni parlamentari e il coinvolgimento della Corte Europea, Giulia è riuscita a far chiudere quel che era il campo profughi originale con la collaborazione anche di altre organizzazioni operative sull’isola. E lo scorso anno la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha condannato la Grecia per le condizioni di quel luogo a Samos”. Govoni ha incontrato Papa Francesco. “Abbiamo parlato di inquietudine e di educazione. Credo che ad aprile in Sud Sudan, un paese cattolico ma anche un osso duro, mi abbia in qualche modo salvato la vita: sono fermato da alcuni militari, quasi minacciato. Un mio collega ha fatto vedere loro la mia foto con Papa Francesco, che era mancato da poco, dicendo: “erano amici”. E il clima è cambiato” La paura? Sembra non conoscerla. “Non ho paura per la mia incolumità fisica. Ho paura di fallire. Di non essere all’altezza. Le cose cominciano a diventare grandi. Abbiamo 150 dipendenti, persone con contratto di lavoro, l’anno scorso abbiamo raccolto 3,5 milioni di euro. Ho le paure di un leader che sta imparando a fare il leader, che fa tanti errori e quando li fa non li paga da solo, ma mette a rischio tutti”. La lezione più dura? La Turchia. “Doveva essere la prima scuola internazionale di Still I Rise, il fiore all’occhiello con il Baccalaureato. Ma si è trasformata in un fallimento. Ci siamo trovati catapultati in un contesto opaco, con dinamiche politiche e strutturali difficili da decifrare. Siamo finiti in un sistema dove la linea tra governo e interessi privati era troppo sottile. Otto mesi infernali, sotto pressioni crescenti da quella che in Italia chiameremmo criminalità organizzata. E ciò ci ha portato a una scelta netta: levare le tende e non aprire la scuola. Ammettere il fallimento è stata una prova durissima, pensavo di aver perso la fiducia di tutti, ma lo abbiamo fatto in modo trasparente. E invece è stata una lezione enorme: le persone si fidano se dici loro la verità”. Negli anni Govoni ha superato tante avversità. “Mi sono però convinto di una cosa: quando mi succede qualcosa di brutto, di spiacevole, la mia domanda è sempre: ‘perché doveva accadere?’ Cos’è che l’universo, Dio, la vita, l’esistenza mi vuole far capire?” Le cose accadono perché devono accadere. E se succede è perché ti devono insegnare qualcosa”. La sua posizione nei confronti della scuola tradizionale è critica. Se gli chiedi cos’è per lui, risponde: “Qui divento cinico”. E aggiunge: “La scuola è un luogo in cui si cresce, in cui si diventa di più di quello che si è quando si è entrati. La scuola deve costruire, non distruggere. Ma troppo spesso accade il contrario. Vedo bambini spegnersi tra dinamiche tossiche, competizioni sterili, ostilità con gli insegnanti. La scuola dovrebbe infondere speranza, non spegnerla. Io credo nella scuola pubblica. Ma deve essere all’altezza del compito”. Poi spiega: “Lo Stato italiano investe circa 9.000 euro l’anno per studente: parliamo di un investimento e come tale deve generare un ritorno, altrimenti è uno spreco. La scuola dovrebbe formarti per il futuro. Deve creare cittadini che in qualche modo aiuteranno poi il Paese a diventare più prospero. La scuola deve educare alla speranza, all’ottimismo. Se i docenti non hanno fiducia nel futuro, dovrebbero essere messi fuori. Non bastano le nozioni, serve una formazione del carattere, bisogna lavorare sulla tenacia, sull’autostima, sull’autorealizzazione. La scuola, intesa come Sistema, a me ha tolto. Ero un bambino creativo, curioso. Alle elementari mi piaceva perfino la matematica. Poi l’ho odiata, perché è stata svuotata di significato, insegnata in modo asettico, sradicato dalla realtà. A scuola ho avuto una sola fortuna: quella di incontrare la mia professoressa d’italiano, Nicoletta, una scheggia luminosa in un sistema che tende a marginalizzare chi ama davvero gli studenti. Infondere ottimismo e speranza serve a farti muovere: se sei pessimista, sei immobile”. Lui ottimista lo è. “Abbiamo mille motivi per essere ottimisti. Il mondo sta migliorando e non è una bugia bianca. È meno povero di vent’anni fa, meno violento, anche se stiamo vivendo guerre importanti, più istruito, l’accesso alla sanità è più diffuso. Non è vero che i sogni non si possono realizzare, non è vero che bisogna fare quei 10-15 lavori che ti danno reddito e gli altri non valgono nulla. Si può fare dei propri talenti la propria vita”. E come in ogni storia forte, c’è uno Ying e uno Yang. Govoni ha anche dei detrattori che gli rinfacciano troppa esposizione. “Io non mi fermo, continuo a raccontare quello che facciamo per garantire la trasparenza con i nostri sostenitori e raccogliere fondi per i nostri progetti”. “Oggi sogno di farmi una famiglia, adottare anche un bambino bisognoso, e aprire altre scuole d’eccellenza dedicate a loro. Ne abbiamo tre in cantiere: Sud Sudan, India e Italia. Sì, anche in Italia una scuola così avrebbe molto senso. Darebbe una scossa a un sistema stagnante”.