Carceri minorili. Luigi Pagano riflette su disagio, violenze e riforme mancate di Cristina Giudici Il Foglio, 9 settembre 2024 Disagio, sovraffollamento e suicidi. Il carcere minorile è diventato un inferno e la soluzione non è chiuderlo come dicono Ilaria Salis e i Radicali, ma rieducare i ragazzi e dare loro un futuro. Forse più che la rivolta al Beccaria è il dibattito esploso successivamente che ci fa vivere sempre nel Giorno della marmotta. E non perché non siamo consapevoli del disagio giovanile profondo soprattutto fra gli “utenti” degli istituti penali minorili, in maggioranza stranieri che vengono dalla strada. E neanche perché siamo indifferenti alle violenze subite dai baby detenuti da parte degli agenti penitenziari ed emerse nell’aprile scorso. Ma le sparate dell’eurodeputata Ilaria Salis e le provocazioni dei Radicali che invocano la chiusura degli istituti penali minorili ci ricordano solo che dopo mezzanotte è sempre buio. “E invece bisognerebbe focalizzarsi sull’incapacità di creare di sistemi detentivi che siano rieducativi, come auspica la Costituzione. Da quanti anni ne parliamo?”, si chiede con un’amara domanda retorica l’icona di un garantismo non peloso, e paladino di una pena umanizzata, Luigi Pagano: ex direttore del carcere fra i più sovraffollati d’Italia, il San Vittore che ha diretto per 15 anni in una fase convulsa della storia italiana, prima di diventare provveditore del Dap in Lombardia. E dato che le patologie degli istituti di pena minorili - le troppe ore di chiusura in cella senza poter accedere ad alcuna attività rieducativa, il sovraffollamento e l’alta percentuale di quelli che potrebbero uscire se avessero una comunità adatta ad accoglierli - sono comuni a quelle delle carceri “adulte”, l’analisi di Pagano serve a rammentarci che la situazione è sempre uguale ma incancrenita. “Molti non sanno che le misure alternative applicate a migliaia di detenuti funzionano”, spiega al Foglio. “Quello che non funziona è la governabilità degli istituti di pena perché un terzo dei reclusi sono in attesa di giudizio, il sovraffollamento porta a una promiscuità delle categorie dei detenuti e a un approccio securitario che non garantisce la rieducazione mentre la ‘vigilanza dinamica’ che avevo costruito per creare percorsi ad hoc e migliorare il rapporto fra agenti e detenuti è naufragata. Mi chiedo fra l’altro se sia una scelta adeguata quella di mettere sempre alla guida del Dap un magistrato, perché se mi si rompe la macchina io non vado da un gelataio…”, ironizza Pagano con il suo humor napoletano. Rispetto al problema dei minorili, Pagano ribadisce che la soluzione è una sola: “r-i-e-d-u-c-a-z-i-o-n-e”. “Chi ne chiede la chiusura, non capisce che la sfida più difficile è la costruzione delle opportunità, perché il carcere deve offrire speranza non dannazione. Alle solite malattie croniche su cui dibattiamo da decenni, si aggiunge la prevalenza degli stranieri che pur potendo uscire non hanno un luogo dove andare. “Nel 1989 a San Vittore rappresentavano il 5%, ora sono la maggioranza. La società è cambiata ma gli schemi per gestire la detenzione sono rimasti immutati. Pochi sanno che i tossicodipendenti, a meno di aver commesso reati gravi, non sono costretti a stare in carcere sebbene non ci siano luoghi adatti per accoglierli. Pochi sanno che in carcere si entra anche per poche ore con buona pace di chi chiede di ricorrere alla detenzione come extrema ratio. Ma il nodo del problema è la governance del sistema penitenziario”, chiosa. “Ci vuole un progetto per rendere l’espiazione della pena un percorso che serva alla rieducazione, sia per gli adulti sia per i minori. E invece oggi più che mai gli istituti di pena sono delle discariche sociali”, conclude Pagano che è stato anche l’ideatore della casa di reclusione modello di Bollate. “Il Beccaria non è un’isola in mezzo al mare, fa parte di un arcipelago: presenta le criticità di tutti gli altri istituti per i minorenni, specchio di un sistema che andrebbe riformato”, ha detto il Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano, il magistrato Francesco Maisto. Don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria che accoglie nella sua comunità Kayros tanti ragazzi che escono, sottolinea che oltre al combinato disposto di estate afosa, meno attività e celle affollate e chiuse che hanno innescato la polveriera c’è il sospetto “che tanti ragazzi facciano parte di una rete criminale, soprattutto egiziana, su cui bisognerebbe indagare”. E lo dice un educatore che ha coniato il motto “Non esistono ragazzi cattivi”. Morale: smettete di usare gli slogan politici e ascoltate chi si sporca le mani la realtà. Suicidi in carcere, Sant’Egidio: “La morte di Youssef a 18 anni è un grido di denuncia” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 9 settembre 2024 “Non basta un sussulto di sdegno passeggero, sul dramma delle carceri serve un cambio di passo”. È l’appello alle istituzioni lanciato dalla comunità di Sant’Egidio dopo la tragedia di Youssef Mokhtar Loka Barsom, il diciottenne morto tra il 5 e il 6 settembre nell’incendio scoppiato nella sua cella di San Vittore a Milano: “Non possiamo permetterci di perdere altri Youssef, la civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri”. La Comunità di Sant’Egidio ha espresso il suo profondo dolore davanti alla morte di Youssef Mokhtar Loka Barsom, ragazzo diciottenne che nella notte tra il 5 e il 6 settembre ha perso tragicamente la vita nell’incendio scoppiato nella cella in cui era detenuto nel carcere di San Vittore a Milano. È solo l’ultima, forte, presa di posizione tra le tante espresse ormai da tempo dalla società civile - nella foto il presidio della scorsa primavera davanti al Palazzo di Giustizia a Milano - sulle condizioni attuali dei detenuti in Italia. “La morte di Youssef è un grido di dolore non isolato - si legge in una nota della Comunità - che emerge dalle carceri italiane, una evidenza che è impossibile non ascoltare e una denuncia drammatica rivolta all’intero Paese per le condizioni che molti uomini e donne stanno vivendo”. E la nota prosegue: “Sovraffollamento oltre ogni limite accettabile, chiusure dei detenuti nel celle invece che sorveglianza diffusa, dilagante disagio psichiatrico come causa ed effetto delle condizioni penose, uso e abuso spregiudicato di psicofarmaci, carenza cronica di personale della polizia penitenziaria che soffre anche di inadeguata formazione a fronte dei mutamenti della popolazione carceraria, ambienti inadatti e squallidi come quelli di San Vittore e di altre carceri italiane, scarsità di occasioni educative e percorsi lavorativi soprattutto nella delicata fase della scarcerazione per tutte le detenute e i detenuti. Sono alcuni dei mali cronici del sistema detentivo in Italia che producono solo disperazione, non senso della vita, sfiducia nel futuro, discriminazione, dolore e rabbia. Sentimenti che non possono che esacerbare la vita di chi è detenuto, pregiudicare le scelte di chi torna a vivere nella società dopo il carcere e accrescere la distanza tra carcere e società”. “La sofferenza psichica - scrivono i rappresentanti di sant’Egidio - che ha ingabbiato la giovane vita di Youssef è simile a quella di tanti altri detenuti di cui la Comunità si occupa, e si è intrecciata a quella provocata da condizioni penose di vita, che non dovrebbero avere a che fare con la detenzione”. “Serve una svolta” - E a questo punto la richiesta alle istituzioni: “Il dolore per la morte di un ragazzo non può rimanere un sussulto momentaneo o un moto passeggero di sdegno. Chiediamo con forza che questa tragica vicenda segni un cambio di passo nella consapevolezza e di responsabilità, un impegno fattivo delle tante componenti sociali che possono interagire con il carcere, ma soprattutto generi velocemente azioni decisive ed efficaci di sistema. Lo chiediamo con forza alle istituzioni competenti perché non possiamo permetterci di perdere altri Youssef, perché il livello di civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri”. Mariateresa Di Lascia ha portato la vita dove prima regnava la morte di Giuseppe Lucchese* L’Unità, 9 settembre 2024 Il 30 agosto nella Casa di Reclusione di Opera, nel Teatro intestato a Marco Pannella, si è svolto un ricordo di Mariateresa Di Lascia, a settant’anni dalla sua nascita, a trenta da quando è venuta a mancare. In un carcere, nel primo luogo, forse, dove la fondatrice di Nessuno tocchi Caino avrebbe voluto essere ricordata, gli interventi che le sarebbero forse piaciuti di più sono stati quello di un detenuto e quello di un “detenente”. Sia il condannato al “fine pena mai” Giuseppe Lucchese sia il Direttore del carcere Silvio Di Gregorio sono rimasti incantati, l’uno dalla “immortalità”, l’altro dalla “compresenza” di Mariateresa di Lascia, ancora viva per entrambi nell’opera ultratrentennale della sua creatura politica e civile: Nessuno tocchi Caino. Questa settimana, proponiamo in questa pagina l’intervento del condannato all’ergastolo. Mariateresa Di Lascia verrà ricordata di nuovo il 7 settembre presso l’Auditorium Santa Chiara a Foggia, nella sua terra d’origine che ispirò il romanzo “Passaggio in ombra”, il capolavoro letterario con cui Mariateresa vinse nel 1995, postumo, il Premio Strega. Nel corso della giornata, oltre a dirigenti e militanti dell’Associazione radicale, interverranno coloro che l’hanno conosciuta, scoperta, letta, amata. Parliamoci chiaro, non sono bravo con le parole, ma oggi cercherò di fare del mio meglio. Al Presidente di My Life Design, Nico Caiazza, dico pubblicamente quello che gli ho detto poc’anzi in privato, cioè che se io avessi incontrato tantissimi anni fa persone come lui, come Cristina e come Candida, sicuramente, non sarei qui, come un ergastolano, questo è poco ma sicuro. Libri. Oggi mi hanno regalato un libro. In carcere si vive di libri, si legge tanto, si legge di tutto, ma soprattutto libri. E durante le mie letture mi capita di incontrare certi personaggi descritti dalla storia come degli immortali per avere realizzato cose importantissime durante la loro avventura terrena. Che ne so, Wagner e Beethoven per la musica, per l’arte Caravaggio o Michelangelo. Sicuramente, la Maddalena Penitente di Caravaggio è un’opera eccezionale come gli affreschi realizzati da Michelangelo all’interno della Cappella Sistina. Contengono la loro anima, non c’è dubbio, però non hanno mai salvato vite umane. Quelle opere non hanno mai salvato vite umane e mai lo faranno. Sono belle, riempiono gli occhi e il cuore. Mentre la storia racconta di due giovani con delle idee rivoluzionarie che secondo me sono più immortali degli altri. Hanno impegnato la loro esistenza a salvare vite umane. L’hanno fatto con impegno, l’hanno fatto con intelligenza e l’hanno fatto con ingegno. Uno di questi è Cesare Beccaria che scrive nel 1764 il suo saggio “Dei delitti e delle pene”. Cesare Beccaria, in quell’opera, in qualità di giurista, ma anche di economista, si rivolge alle folle e si rivolge ai sovrani per spiegare che l’intensità della pena, quindi, la pena di morte, non è un buon deterrente contro il crimine. Non risolve nulla, anzi - parole sue - si fa un favore al condannato perché finisce di soffrire. E propone, invece, l’estensione della pena, cioè la pena dell’ergastolo. Che l’omicida venga relegato all’interno di una prigione vita natural durante e che - Beccaria usa queste parole - “il reo venga ridotto in bestia di servigio” per ricompensare con le sue fatiche quella società che ha offeso. Cioè, musica, musica per le piazze, musica per i sovrani. Nel giro di pochi anni, in effetti, in molti paesi europei, viene abolita la pena di morte. Poi, per due secoli, il deserto, il silenzio. Fino a quando, nel 1993, entra in scena Maria Teresa di Lascia che fonda l’associazione Nessuno tocchi Caino. L’anno dopo, nel 1994, con un’intelligenza ancora più sottile di Beccaria, attenzione alle parole, propone non l’abolizione della pena di morte nel mondo, propone una sorta di trattato di pace. Tradotto: una moratoria universale della pena di morte. Proposta che è stata accolta nel 2007 e votata da 104 paesi mondiali. Ora, quello che cerco di dire dall’inizio… Ci rendiamo conto che qui ci troviamo di fronte a un’opera superiore a quella di Beethoven. Perché, Maria Teresa di Lascia porta la cultura della vita dove prima regnava la cultura della morte. *Detenuto all’ergastolo nel carcere di Opera Cnel-Teha: solo il 33% dei detenuti coinvolto in attività lavorative agi.it, 9 settembre 2024 Attualmente, solo il 33% dei detenuti in Italia è coinvolto in attività lavorative, di cui l’85% alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, spesso in ruoli 2 a basso valore aggiunto. La promozione della reintegrazione sociale dei detenuti attraverso l’istruzione, la formazione e l’accesso al lavoro è quindi più urgente che mai secondo quanto emerge dal Paper “Recidiva Zero. Istruzione, Formazione e Lavoro in Carcere: dalle esperienze progettuali alle azioni di sistema”, realizzato da TEHA per conto del CNEL - Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, presentato a Cernobbio. L’assenza di opportunità lavorative per i detenuti priva lo Stato di un possibile ritorno sul PIL, spiega lo studio, fino a 480 milioni di Euro. Secondo le proiezioni di TEHA, in un primo scenario ipotetico, mantenendo invariato il numero di detenuti, se la percentuale di detenuti occupati in attività lavorative aumentasse dal 33% attuale al 60%, con l’85% di essi ancora impiegato presso l’Amministrazione Penitenziaria in attività a basso valore aggiunto, il ritorno sul PIL ammonterebbe a 288 milioni di Euro. In un secondo scenario ipotetico, se la percentuale di detenuti occupati in attività lavorative aumentasse dall’attuale 33% all’80%, con tutti gli extra-lavoratori impiegati presso imprese o cooperative in attività a maggior valore aggiunto, il ritorno sul PIL raggiungerebbe i 480 milioni di Euro. Queste stime mettono in evidenza il potenziale impatto positivo sul PIL derivante dall’incremento delle opportunità lavorative per i detenuti, soprattutto se orientate verso settori ad alto valore aggiunto e promosse attraverso Partnership Pubblico-Private. Nelle carceri italiane esistono spazi per il lavoro e la formazione che sono ad oggi inutilizzati, a causa della carenza di infrastrutture e opportunità per attività di riabilitazione e reinserimento sociale. Nel 2022, su 164 istituti, solo il 58% degli spazi dedicati a tali attività erano attivi, mentre il restante 42% risultava non utilizzato. Per migliorare la situazione attuale, il PNRR ha stanziato 132,9 milioni di Euro entro il 2026 per costruire e ottimizzare padiglioni e spazi all’interno delle carceri, creando 640 nuovi posti detentivi e favorendo attività lavorative per ridurre i tassi di sovraffollamento e recidiva. Giustizia, arrestare ora è più difficile. L’indagato va avvisato prima di Paolo Moretti La Provincia di Como, 9 settembre 2024 Custodia cautelare. In vigore le nuove norme della riforma voluta dal ministro Carlo Nordio. Il presidente delle Camere Penali: “Giusto avere più garanzie”. Arrestare diventa più difficile. O, meglio, prima di procedere all’arresto d’ora in avanti bisognerà informare l’indagato che su di lui pende una richiesta di custodia cautelare e interrogarlo. E solo dopo, nel caso, procedere all’arresto. Una riforma, voluta dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, che fa discutere. E, soprattutto, rischia di creare non poco scompiglio nelle Procure, in particolare per le indagini con più indagati. Proviamo a sintetizzare. Fino a qualche giorno fa, a parte gli arresti in flagranza di reato, il giudice delle indagini preliminari emetteva le ordinanze di custodia cautelare su richiesta del pubblico ministero ovviamente all’insaputa dell’indagato, in caso di pericolo di fuga, di inquinamento probatorio e pure di reiterazione del reato. Ora, invece, se esiste solo il rischio di reiterazione la persona che si vuole arrestare dev’essere prima interrogata. E nell’avviso di convocazione per l’interrogatorio, informata dell’intenzione della Procura di volerlo arrestare. La novità non riguarda i reati violenti e di maggior pericolo, ma altre tipologie gravi come - ad esempio - tutti quei reati contro la pubblica amministrazione, corruzione in testa. I pro e i contro - Come detto il problema sorge soprattutto in presenza di più indagati, magari alcuni da arrestare perché sussiste il pericolo di fuga o di inquinamento delle prove. I quali potrebbero sapere, dal coindagato con il “solo” pericolo di reiterazione, dell’indagine a loro carico. “Credo che questa riforma debba essere letta con due tipologie diverse di “occhiali” - è l’opinione dell’avvocato Edoardo Pacia, presidente delle Camere Penali di Como e Lecco - Se utilizziamo quelli per guardare da “vicino”, non si possono non riconoscere degli elementi positivi”. Sull’interrogatorio preventivo: “Non si può evitare di sottolineare il tema della carcerazione preventiva è altamente delicato, conducendo in carcere non pochi soggetti che, poi, verranno assolti. Appare corretto incrementare la possibilità di difesa anticipata, tenuto conto, comunque, che questo interrogatorio preventivo è escluso allorché le esigenze cautelari consistano nel pericolo di fuga, in quello di inquinamento probatorio o anche in quello di reiterazione dei reati più gravi e, quindi, nella maggior parte dei casi e in tutti quelli di “allarme sociale”“. Più giudici per l’arresto - Ma la stessa riforma Nordio introduce anche un’ulteriore novità, che però entrerà in vigore tra due anni quando la custodia cautelare dovrà essere decisa da tre giudici e non uno solo. Considerando che il Tribunale di Como ha soltanto quattro giudice delle indagini preliminari, il rischio è la paralisi della giustizia. “La previsione della collegialità del giudice che deve applicare la misura cautelare - afferma ancora l’avvocato Pacia - è una forma di garanzia in quanto la condivisione di una scelta così delicata non può che essere valutata positivamente”. Ma c’è un però: “Se si guarda la situazione da più “lontano”, vi è il drammatico problema del conflitto tra quadro normativo e realtà giudiziaria. La collegialità del giudice finisce con il generare una serie di incompatibilità all’interno del processo che, nelle sedi giudiziarie medio-piccole, come la nostra, potrebbero paralizzare i processi, o, peggio”. Relazione sull’attuazione della riforma Cartabia. Più spazio alle pene pecuniarie di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2024 La relazione della Giustizia al Parlamento misura l’impatto delle novità introdotte dalla riforma Cartabia per migliorare l’effettività delle sanzioni patrimoniali, dirette o sostitutive. Le pene pecuniarie guadagnano spazio e inizia a migliorare la loro effettività. Lo rivelano le statistiche pubblicate dal ministero della Giustizia che, nella relazione presentata nelle scorse settimane al Parlamento sullo stato dell’esecuzione delle pene pecuniarie, misura l’impatto delle novità introdotte dalla riforma Cartabia (decreto legislativo 150/2022) per migliorare l’effettiva esecuzione delle sanzioni patrimoniali. Si tratta di una prima ricognizione, che sconta il limite di un’applicazione temporale contenuta: la riforma si applica ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore, avvenuta ilio dicembre 2022. Tuttavia, alcuni segnali di miglioramento già si vedono. I nodi e la riforma Del resto, il sistema precedente alla riforma non si è dimostrato in grado di assicurare l’effettività delle pene pecuniarie, dato che la stragrande maggioranza delle sanzioni comminate negli anni passati non è stata riscossa dallo Stato. È la stessa relazione del ministero a parlare della “farraginosità e sostanziale inefficacia” del sistema pre-riforma, in cui, in pratica, le pene pecuniarie venivano trattate come i crediti di natura non penale maturati dallo Stato verso terzi. Per le somme non pagate dai condannati si procedeva infatti con la riscossione mediante ruolo, affidata a Equitalia Giustizia. Sistema che ha però dato ampia prova di inefficacia: tra i12018 e il 2022 è stato riscosso appena il 2,9% delle pene pecuniarie affidate (137 milioni su 4,7 miliardi, al netto delle pene sospese). Per superare questa impasse, lari - forma Cartabia ha provato a razionalizzare il procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie, eliminando proprio il meccanismo (civilistico) della riscossione del credito: ora l’ordine di esecuzione viene emesso dal pubblico ministero e al mancato pagamento (entro 90 giorni) segue la conversione della pena pecuniaria, non solo in caso di insolvibilità (vale a dire impossibilità di pagare, come accadeva anche in precedenza), ma anche di insolvenza (cioè se manca la volontà). In parallelo, la riforma ha introdotto le nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi (semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria sostitutiva): sono queste le pene in cui si convertono anche le sanzioni pecuniarie non pagate. I primi effetti - La relazione del ministero raccoglie i primi dati sull’applicazione delle nuove misure. Così, emerge che, per i reati commessidal3o dicembre 2022, sono state emesse 4.431 condanne definitive a pena pecuniaria nel 2023 e 2.033 fino al lo luglio di quest’anno; l’importo delle pene comminate nel 2024 (12 milioni di euro, di cui 2,8 milioni per pene sospese) supera però già quello di tutto il 2023 (9,9 milioni di euro, di cui 632mila euro sospesi). Anche le sanzioni pecuniarie sostitutive sono in aumento:414 condanne sostituite con pene pecuniarie per 24omila euro nel 2023 e 551 condanne sostituite con 306.440 euro totali nella prima metà del 2024. Più bassi i numeri delle altre sostitutive: nel 2024, 332 condanne sono state sostituite con il lavoro di pubblica utilità, 229 con la detenzione domiciliare e appena 3 con la semilibertà. Quanto ai provvedimenti di conversione della pena pecuniaria per mancato pagamento, la relazione ne registra solo quattro, per condanne del 2023 e per 15.500 euro di importo. Dato, questo, su cui si fa sentire in modo particolare il fatto che le norme si applichino solo ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della riforma. Sono ancora più limitate nel tempo le rilevazioni sul gettito, perché il decreto ministeriale che attiva il nuovo canale per i pagamenti delle pene pecuniarie (PagoPa) è stato adottato solo un anno fa. Le somme già registrate dalla Ragioneria generale dello Stato ammontano a 223.724 euro nel 2023 e a1,6 milioni nel 2024 fino aio luglio. Il ministero apre anche una finestra sul tasso di adempimento: da settembre 2023 a giugno 2024 è stato pagato il 37,8% delle somme richieste per pene pecuniarie con gli avvisi pagoPa in fase di cognizione (3,1 milioni di euro versati sul totale di 8,2 milioni comminati). Soffre invece l’esecuzione, con per ora solo lo 0,8% delle somme pagate (1,2 milioni di euro su 147 milioni comminati), su cui occorre verificare come impatterà il meccanismo di conversione della pena. Valori che segnano, si legge nella relazione, una “positiva tendenza”, che però dovrà essere valutata sul lungo periodo, “una volta raggiunta la piena e capillare operatività del sistema”. Relazione sull’attuazione della riforma Cartabia. Privilegiate le soluzioni che limitano meno la libertà di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2024 La relazione al Parlamento sull’attuazione della riforma Cartabia in materia di pene pecuniarie consente - pur alla luce della necessariamente limitata serie storica dei dati resi disponibili dalla rilevazione statistica - di abbozzare alcune prime osservazioni. Anzitutto, il trend in rapida ascesa del totale delle condanne a pena sostitutiva pare confermare le potenzialità applicative delle nuove sanzioni introdotte dal 3o dicembre 2022 e, in prospettiva, la loro efficacia anche sul versante deflattivo del carico processuale dei tribunali, mentre aumenterà specularmente quello gravante sugli uffici di sorveglianza, incaricati della gestione di un numero sempre maggiore di esecuzioni. Il rischio, se non si provvederà a un deciso irrobustimento degli organici di magistrati e cancellieri, è che la sorveglianza non riesca a gestire efficacemente le dinamiche esecutive delle nuove pene. Dal punto di vista statistico, queste ultime sembrano allinearsi secondo una prevedibile scala che privilegia l’applicazione prioritaria delle misure meno incidenti sulla libertà personale: la pena sostitutiva più frequentemente applicata resta quindi quella pecuniaria, seguita dal lavoro di pubblica utilità (che può contare su una più consolidata presenza nell’ordinamento penale), quindi la detenzione domiciliare, mentre resta del tutto residuale e sostanzialmente disapplicato il ricorso alla semilibertà sostitutiva. È ancora molto difficile intravedere delle linee di tendenza consolidate, tuttavia è prevedibile che la panoplia sanzionatoria introdotta dal decreto legislativo 150/2022 nella prassi operativa si concentrerà sul lavoro di pubblica utilità e sulla pena pecuniaria. La semilibertà sconta infatti la scarsa appetibilità, trattandosi di modalità punitiva che implica il contatto con l’istituzione carceraria e assumerà sempre più la funzione di alternativa gradata, in sede di eventuale conversione di altra pena sostitutiva, rispetto alla soluzione carceraria. Mentre le potenzialità espansive della detenzione domiciliare appaiono incerte, per le problematiche connesse alla scarsa disponibilità di soluzioni abitative idonee da parte di molti condannati, appartenenti a fasce sociali marginali o recentemente immigrati e privi di rete sul territorio. In questa prospettiva, le ancora troppo limitate iniziative - già in parte abbozzate nel decreto “carcere sicuro” 92/2024 - volte a implementare i progetti di housing e di collocamento comunitario di persone condannate potrebbero costituire un importante volano per il decollo della pena domiciliare. La trappola della mezzamafia e l’esempio da dare nelle scuole di Antonella Di Bartolo* Il Foglio, 9 settembre 2024 Commemorare gli eroi uccisi nella guerra ai boss non basta. Le strade di Palermo abbandonate dallo Stato. La prospettiva di una preside di Sperone, quartiere piagato da illegalità e spaccio. Ci sono almeno tre modi diversi per parlare dell’inizio di un nuovo anno scolastico. Uno scaturisce dai ricordi, dalla nostalgia per il batticuore ogni anno diverso perché diverse ne erano le ragioni, dal ritrovare lo sguardo del compagno o della compagna di cui eravamo innamorati o le attese per tutto il nuovo da venire. Un altro approccio fa leva sulle “emergenze”, in realtà mali incancreniti che puntualmente si ripropongono ogni anno. E poi ce n’è uno, quello che sento più mio, che affonda da qualche parte tra la testa e lo stomaco. Perché è lì dentro che sento una stretta davanti a un nuovo anno scolastico. Sarà il mio dodicesimo anno da preside dell’istituto comprensivo Sperone-Pertini, sette plessi di scuola d’infanzia, elementare e media per 1.200 alunni dai tre ai quattordici anni nella periferia sud-est di Palermo. Nei quartieri Brancaccio e Sperone precisamente. Brancaccio feudo dei fratelli Graviano, implicati nelle più gravi stragi mafiose e mandanti dell’omicidio di padre Puglisi; lo Sperone - Brancaccio vista mare - è oggi un grande supermercato della droga a cielo aperto, attivo 24 ore su 24, 365 giorni su 365, con un giro di affari di 1,8 milioni di euro all’anno. Se è vero che la scuola è fondamentale dappertutto per la portata del suo mandato educativo e sociale, qui la scuola ha dei doveri speciali, deve essere di più, deve orientare vite, essere luce. Io lo so bene. Sarà per questo che sento la morsa dentro, una specie di richiamo, di esortazione costante a fare vicino e a guardare lontano. Con questo stato d’animo affronto le carte. A scuola settembre è un secondo capodanno. Con la certezza che Pasqua sarà sempre di domenica, scorro il calendario per fissare l’inizio delle lezioni, abbozzare quello che in scuolese si chiama “il piano delle attività” con tutte le riunioni possibili e nemmeno immaginabili, e con un lieve senso di colpa quasi di nascosto a me stessa vado alla ricerca di ponti interessanti, verso una nuova vacanza. Torno al calendario con un’altra ricerca in mente. Da qualche tempo ho sviluppato una particolare forma di ipersensibilità, come accade quando si è troppo spesso esposti a fattori ambientali irritanti. A quando la prossima commemorazione? Il 3 settembre: quarantadue anni fa Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto dei 100 giorni a Palermo, fu ucciso insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Scendo con lo sguardo verso i giorni seguenti: il 15 settembre quest’anno viene di domenica, saranno trentuno anni dall’omicidio di padre Puglisi. Né trenta, né trentacinque: val bene una messa - manco cantata - qualche post con poche e nemmeno tanto sentite parole, una citazione attinta frettolosamente dal web. E già la sera del 15 converrà sgattaiolare via, Dio non voglia che venga fuori che a Brancaccio della chiesa e dell’asilo nido fatti toccare con mano - anzi con rendering - a Papa Francesco nel 2018 non c’è nemmeno la prima pietra. Il 15 settembre come il 19 luglio, il 23 maggio e via scorrendo il calendario somigliano a grani di rosari per recitare (mai parola fu più adatta) orazioni di circostanza. Sì, perché in Italia, e a Palermo in particolare, abbiamo un calendario tutto nostro: non quello dell’avvento né quello lunare, ma quello dei morti ammazzati dalla mafia. O insieme alla mafia. Solo del giorno della morte eh, che su ciò che è successo intorno e in seguito meglio glissare: le voragini di Capaci e via D’Amelio sono forse troppo vaste e profonde per essere scandagliate nelle aule di giustizia. Del resto il ricordo della morte è facile: una foto, una frase dedicata e il gioco è fatto, domani è un altro giorno, un altro morto. Il ricordo della vita invece, quello è impegnativo. Scava, approfondisce, ricostruisce scenari, soprattutto rilancia temi, valori, intuizioni investigative, modi di essere e di lavorare che - oggi come trent’anni fa e più - sono scomodi perché rigorosi, inflessibili, coerenti. In questa amnesia selettiva le cerimonie in memoria delle morti sono diventate fiere delle vanità, un red carpet di presenzialisti di morettiana memoria. Perché la tensione morale che andava all’unisono con il presidio delle strade durante i vespri siciliani del post stragi non si sente più? È forse l’effetto della cattura di quel manipolo di utili manovratori di tritolo e telecomandi, ultimi capi morti-in-vita di una mafia morta? Sarà l’amara constatazione del sacrificio di tante verità alle carriere? Oppure di un certo modo di fare antimafia. L’antimafia poi… Quale? Tra mafia, antimafia e mafia nell’antimafia quest’ultima ha commesso il peccato imperdonabile di aver infranto la speranza, di avere lordato il sacrificio dei giusti, di avere iniziato il moto perpetuo del ballo in maschera in cui davvero è difficile capire la vera identità di chi sta sotto. Perché l’antimafia farlocca può assumere tanti volti e tante voci, come in una gigantesca messinscena, in cui bambini e bambine vengono usati come comparse. Ne sanno qualcosa gli alunni di una nostra prima media di qualche anno fa: l’approssimarsi del 23 maggio, un concorso del ministero dell’Istruzione dedicato agli agenti di scorta, la vittoria con un videoclip e una canzone inedita, un premio pazzesco, nientepopodimeno che un viaggio negli Stati Uniti, a Quantico, la sede dell’Fbi. Cantano in diretta dall’aula bunker, viene ribadito il premio, i rappresentanti istituzionali su Rai 1 fanno addirittura a gara su chi di loro li accompagnerà. E poi? Niente premio, abbiamo scherzato. A esser precisi, lo stato ha scherzato. E non con ragazzini di un quartiere qualunque, siamo a Brancaccio, allo Sperone. Molti degli alunni di quella prima media avevano parenti in carcere, arrestati dai poliziotti a cui loro avevano dedicato una canzone. Ci avevano creduto, per una volta, insieme agli insegnanti e anche ai genitori più recalcitranti. Lo Stato non ci ha fatto una gran figura, prestando il volto alle maschere dell’antimafia fasulla. The show must go on, si troveranno altre comparse. E’ forse arrivato il momento di smontare palcoscenici, e anche di rivedere il modo di affrontare il tema del contrasto alla criminalità organizzata, a partire dal linguaggio, specialmente con i più giovani. Come vanno le cose adesso, l’inizio è già la fine: la morte al centro del ricordo, e tutto intorno l’insostenibile pesantezza di marcette in re minore. La vita delle persone di cui si ricorda la morte interessa ancora a qualcuno? Quel testimone di studio, di impegno, di perseveranza, di ostinazione nel contrasto alle mafie davvero sta a cuore passarlo? O è più comodo tenere i santi laici sugli altari, per accendere un cero una volta all’anno, poi solo fiori di plastica. Se li chiamiamo eroi è pure meglio: loro erano eroi, dunque creature provviste di doti speciali, di super poteri. Loro sì che potevano ingaggiare - e a tratti perfino vincere - una reale battaglia contro la criminalità organizzata, contro il malaffare, contro chi detta la legge della sopraffazione. Potevano perfino tenere in considerazione e accettare il rischio di morire per la causa. Noi comuni mortali no. E così, santificando ma non onorando i morti, si crea una generale assoluzione per i vivi, e una deresponsabilizzazione perché - si sa - siamo umani, deboli e fallaci. A distanza di più di trent’anni dalla macelleria di Palermo, dove furono trucidati poliziotti, giornalisti, giudici, carabinieri, perfino un prete forse la consegna per chi è rimasto è proprio fare scendere questi giusti dagli altari e farli camminare ancora tra di noi, soprattutto tra coloro che non erano nati negli anni Ottanta e i primi anni Novanta. Almeno a scuola, lontano da telecamere e da fotoreporter, forse si può ancora provare a non indossare maschere, e avere l’onestà di portare ai più giovani una narrazione lontana dall’epica degli eroi irraggiungibili, senza macchia e senza paura. Ancora, osare essere in controtendenza rispetto al mainstream e smontare dall’interno delle aule scolastiche la mitizzazione del male, dalle serie televisive ai documentari su capi, capetti, padrini e dittatori. Forse vale la pena dircelo e ripetercelo pure che questi prodotti, fruibili a qualsiasi ora su qualsiasi dispositivo, hanno una pericolosa forza attrattiva, suscitano curiosità, interesse, spesso ammirazione per i protagonisti, esaltandone lusso, vantaggi personali, esercizio del potere. Con onestà, almeno a scuola dirselo che l’antimafia reale si può fare dando opportunità di cultura, di sport, di viaggi, di socialità sana piuttosto che partecipando a parate e incontri ormai sempre più spesso occasioni per polemizzare su chi va, su chi non va, su chi è il vero antimafioso doc e chi lo è un po’ meno, manifestando la divisione civile che è lo specchio di conflitti sociali e rendite di posizione o di ruoli da cui non ne esce bene proprio nessuno (e che esempio diamo ai piccoli?). Guardiamo nelle pieghe: quale credibilità ha una scuola che si trova in una delle molteplici sacche di illegalità dei centri e delle periferie urbane se da un lato parla a bambini e ragazzi di rispetto della dignità propria e altrui, di diritti, di stato e poi quegli stessi bambini e ragazzi ogni giorno lungo il percorso casa-scuola devono abbassare testa e sguardo davanti ai pusher schierati lungo la strada. Non sono situazioni ipotetiche: basta condividere il percorso di Gaia, Vincenzo, Kevin, Sofia in un giorno qualunque in un quartiere qualunque tra quelli definiti “a rischio”. C’è dell’eroismo nel rimanere bambini, preservare l’innocenza, coltivare i propri sogni di futuro e credere a quello che si ascolta a scuola più che a quello che si vede per strada. Il rischio dell’incoerenza è giusto a poche fermate del tram. Cosa penserà Christian, o Paola, oppure Gabriele rientrando nel proprio quartiere al ritorno da una manifestazione, una di quelle che si fanno in centro città? In loro si anniderà il convincimento che tra la legalità e l’illegalità, tra la scuola e la realtà, tra la libertà e il giogo mafioso c’è la vita, la vita quotidiana. E la strada. Non quella che si riempie di un corteo festante, ma quella che percorrono ogni giorno. Finché Gaia, Vincenzo, Kevin, Sofia, e ancora Christian, Paola, Gabriele saranno considerati solo figli degli altri, non ci graffieranno dentro e saranno vittime inevitabili di una evidente sospensione delle ostilità tra lo stato e l’antistato. Perché se quello che accade per le strade si conosce, non far nulla per cambiarlo sa tanto di abbandono, di rinuncia, di resa. Nelle estese waste land d’Italia, in cui spesso l’ultima frontiera etica è la scuola, come è possibile parlare a bambini e ragazzi che se la mafia dei pezzi da novanta non ce l’hanno a casa, di certo hanno una certa familiarità con una specie di “mezzamafia”, di manovalanza di bassa ma costante forza, di mafiosità che costituisce l’habitat domestico e ambientale? Palermo, e non solo allo Sperone, a Brancaccio o allo Zen, è più di quanto siamo disposti ad ammettere quella che nel 2017, a 25 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, Franco Maresco decise di raccontare in La mafia non è più quella di una volta: indifferente, a tratti irriverente, se non apertamente ostile nei confronti dei giudici uccisi e dei poliziotti delle scorte. La scuola non rischia di fare un flebile controcanto a quanto percepito, respirato tutto intorno? Forse. Ma se anche fosse, val bene provarci. Perché la sua voce secondaria ma non sottoposta, in bocca a insegnanti credibili e autorevoli perché coerenti, può farsi spazio e indebolire le fondamenta della mafiosità come un fiume sotterraneo. Bene l’aveva capito il boss di Brancaccio Maurizio Di Fede che nel 2019 voleva impedire che la nipote di 7 anni partecipasse con i compagni a un’iniziativa in memoria della strage di Capaci. “Se gli mandi la bambina sei una sbirra” disse urlando alla mamma della piccola. “Noi non ci immischiamo con Falcone e Borsellino… queste vergogne… alla Magione, là sono nati. Non ti permettere”. Chissà se Di Fede avrebbe mai immaginato che le sue parole sono la risposta più efficace sull’irrinunciabilità a parlare di mafia, a evidenziare e contrastare tutte le offese alla dignità e a non permettere l’oblio sui caduti. A una condizione: più strade, meno altari. Perché di antimafia in auto blu, di strade di quartiere troppo diverse da quelle percorse in corteo e di santini da venerare a parole una volta l’anno e poi rinnegare nei fatti nella quotidianità, tutte e tutti - bambini e bambine in testa - possiamo farne a meno. *Dirigente scolastica A Palermo, tra le strade di don Puglisi: sfregi e degrado non piegano chi resiste di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 9 settembre 2024 Camminarci è un’esperienza. Soprattutto se tra marciapiedi un po’ reali e un po’ immaginari guidi una quarantina di studenti in fila indiana, che visibilmente con il quartiere non c’entrano nulla. E soprattutto se dalle strade che fanno e da chi li affianca è facile capire che cosa vogliono, con chi sono venuti a parlare. Molti zaini e poche foto. Sono qui per il centro “Padre Nostro”, un luogo che ha fatto la storia: padre Pino Puglisi, Brancaccio, Palermo e Cosa Nostra. Il sangue arrivò dopo la celebre scomunica di Giovanni Paolo II nella valle dei Templi. Il prossimo 15 sarà l’anniversario dell’assassinio. Valentina, la volontaria che accoglie gli studenti, manda in onda la registrazione del racconto fatto al processo dai due sicari che gli tesero l’agguato per conto dei fratelli Graviano: Gaspare Spatuzza che lo indicò al killer (il famoso “padre, questa è una rapina”) e Salvatore Grigoli che lo ammazzò. Le immagini, il suono delle parole, le brevi interviste immortalate da frammenti di tivù locali, restituiscono più di trent’anni dopo il senso di un insanabile conflitto di civiltà. Della linea che divide, sempre e comunque, bene e male. In tutti passa un filo elettrico di commozione. Valentina, uno strepitoso accento palermitano, in quel quartiere ci è nata. E visibilmente lo ama, e tanto, a dispetto di tutto. Anche quando racconta dei combattimenti di cani organizzati negli scantinati di un palazzo lì accanto, con i resti di quelle lotte dati ai ragazzini per vivisezionarli o buttarli giù dai terrazzi come la spazzatura. Anche quando ricorda il destino da vita maledetta di un suo compagno di scuola. Perciò chiede agli studenti di interrogarsi seriamente se stiano mettendo a frutto quella “botta di c.” che ha consentito loro di nascere in un altro contesto sociale. Ma Brancaccio lo ama tanto anche padre Maurizio (non “don”, qui è espressione “equivoca”), che oggi vi svolge il ruolo che fu di padre Pino. Accoglie con parole non gridate, dicendo cose profonde. Difficile prendere appunti. Quel che hai intorno è talmente grande e fitto che lo puoi al massimo imprigionare nelle sensazioni. Ma una cosa è, quella sì, indimenticabile. Ossia la prima uscita dal Centro. Sono da poco passate le undici. Padre Maurizio procede vicino alla strada. In direzione opposta arriva uno scooter con due giovani sopra, niente casco naturalmente perché qui vanno tutti senza casco, anche sul piazzale del Palazzo di Giustizia. Due sole parole vengono urlate da chi guida. Tanghere, berce. Una bestemmia. Chiara, compiaciuta. In sfregio al prete, a questi preti che non l’hanno ancora capito che qui sono sgraditi, specie se parlano coi forestieri (anche se non abbiamo detto una parola, per strada sanno già chi sono quegli studenti e chi li guida). Padre Maurizio resta apparentemente imperturbabile. In fondo è il suo paesaggio quotidiano. Procede spiegando che ci sono stati dei miglioramenti. Sì, la scuola elementare è una specie di discarica (“perché qui quel che è pubblico deve apparire brutto”). Ma la scuola media tanto voluta da padre Puglisi, quella si è fatta, almeno. A ogni anniversario vengono a promettere ? cose nuove (“è da tre amministrazioni che questo spazio qui dovrebbe essere bonificato”). Passiamo, perché quello vuole la strada, sotto la casa dei Graviano, i due fratelli che durante il 41 bis hanno entrambi avuto figli. Valentina e Padre Maurizio prendono tra le braccia un po’ di bambini che arrivano dalla strada. In mezzo ai detriti di una casa scomposta dal tempo si erge al primo piano un meraviglioso giardino di fichi d’India. Spontaneo, come forza di una poesia superiore che si impone alle brutture. Valentina, padre Maurizio, i fichi d’India, immagini degne di Letizia Battaglia scattate da un fotografo locale, testimoniano che non esiste violenza in grado di uccidere la speranza. Dice che prima era molto peggio. E dunque crediamoci. Milano. Ipm Beccaria, tre detenuti evasi in un solo giorno di Pierpaolo Lio Corriere della Sera, 9 settembre 2024 Per il carcere minorile Beccaria di Milano è l’ennesimo episodio dopo la maxi fuga del Natale 2022. Proteste, rivolte, evasioni riuscite o tentate e l’inchiesta per maltrattamenti con 13 agenti arrestati. L’altra volta, tre mesi fa, il più piccolo s’era quasi trovato sorpreso dall’occasione. E s’era fiondato oltre le mura (fuga durata poi neanche 12 ore) con un altro detenuto, ma senza il fratello maggiore. Per il resto, sempre insieme. Durante la rapina alla sala slot nel Comasco. Al momento dell’arresto. A passare le giornate tra i corridoi del carcere. E ad agitare le ultime rivolte. Ieri, la coppia di fratelli, A.F. e W.F., 16 e 17 anni, nati a Como da genitori marocchini, erano di nuovo fianco a fianco nell’ultima evasione dal Beccaria. Con loro c’era un terzo. È un 17enne italiano, che viene bloccato e riportato dentro. Ma non s’arrende. In serata, mentre sono in corso le ricerche dei due, ci riprova, e riesce. Per l’istituto minorile milanese è l’ennesimo grano di un rosario di sventure che inizia almeno dalla maxi fuga del 2022. Proteste, rivolte, evasioni. E un’inchiesta, ancora in corso, che ha quasi azzerato gli agenti della Penitenziaria in servizio e ha lambito gli ex vertici del carcere. Guai che si sommano a un quadro già al limite, fatto di numeri esplosivi, profili sempre più difficili dei detenuti, personale a ranghi ridotti, carenze strutturali e cantieri infiniti. La fuga - Sono le 15.45 quando i fratelli - dentro per rapina - spariscono dai radar. Sfruttano quel po’ di libertà in più a loro consentita dal far parte di quei detenuti che possono partecipare a corsi di formazione, e per questo soggetti a meno restrizioni. Ieri, sarebbero usciti dalla portineria. Avrebbero scavalcato il muro di cinta. E sarebbero scomparsi sotto la pioggia. I ragazzi non avrebbero lasciato tracce: hanno evitato il vicino metrò, dribblando la marcatura delle telecamere. Il terzo che era con loro, ma è stato subito bloccato, sparirà giusto qualche ora dopo. I sette di Natale - I primi quattro giorni di passione, però, il Beccaria li vive ormai due anni fa, mentre il resto della città si gode i regali provando a rifiatare dalla maratona di pranzi e cenoni. È il Natale del 2022. E sono in sette - quattro 17enni, due 18enni e un 19enne - a cercare libertà, approfittando dei lavori in cortile (conclusi solo l’anno scorso, dopo 16 anni d’attesa). La fuga sarà però “maxi” nei numeri e “mini” nei risultati: due (uno convinto dalla ramanzina della sorella) saranno catturati già in serata; gli altri saranno beccati a casa di parenti e amici, o si consegneranno nei giorni successivi. Le “sommosse” - Negli ultimi mesi la situazione diventa incandescente. A maggio un detenuto tenta l’evasione ma viene pizzicato appena fuori. A fine mese sono in settanta ad asserragliarsi per ore in un’ala dell’istituto. Ad accendere la miccia sono i controlli dei cani antidroga tra le celle. Ci vorranno gli agenti in tenuta antisommossa per placare gli animi. A metà giugno, si fa subito notare A.F., il più piccolo dei due fratelli spariti oggi. È entrato al Beccaria da tre giorni, e già scappa, con un coetaneo, usando un palo a mo’ di scala per scavalcare. Sarà riacciuffato (prima del compare) in piena notte alla stazione di Gallarate. L’estate è segnata dalle rivolte. A luglio un incendio ferisce due ragazzi e ne intossica quattro. Stessa scena ad agosto: soccorsi cinque agenti e tre detenuti. Neanche dieci giorni fa, poi, proprio i due fratelli ora in fuga sono segnalati tra i promotori dei disordini che agevolano l’evasione tentata da altri quattro, subito ripresi. L’inchiesta - Un mese prima di questi ultimi episodi, ad aprile, c’è stato il terremoto giudiziario che ha investito l’istituto. E che qualcosa ha smosso negli equilibri interni. L’inchiesta della procura s’abbatte sul Beccaria con l’arresto di 13 agenti, la sospensione di altri otto (tra cui l’allora comandante) e l’iscrizione tra gli indagati di due ex direttrici. Gravissime le accuse: tortura, maltrattamenti, lesioni, falso. Dopo un ventennio di reggenti, s’è intanto insediato un nuovo direttore a tempo pieno, sono arrivati rinforzi e oggi è il giorno del nuovo comandante della Penitenziaria. Molto è cambiato. Non il clima. Rimini. Emergenza carceri: le forze di maggioranza portano proposte in Consiglio comunale altarimini.it, 9 settembre 2024 Si discuterà domani sera in Consiglio comunale a Santarcangelo il documento di denuncia sulla drammatica situazione delle carceri italiane, proposto dalle forze di maggioranza. Il Partito Democratico, con il consigliere Alessandro Astolfi in prima linea, ha presentato un ordine del giorno urgente, sottoscritto da Più Santarcangelo e PenSa-Una Mano per Santarcangelo, per richiedere un intervento immediato del Governo sulla crisi del sistema carcerario nazionale, sempre più caratterizzato da sovraffollamento, condizioni di vita inaccettabili e suicidi tra i detenuti. La proposta prende forma a partire da una recente iniziativa promossa da Jacopo Vasini, segretario dei Radicali di Rimini, e chiede l’adozione di misure concrete e rapide da parte delle istituzioni nazionali. Secondo il documento, infatti, il sistema carcerario italiano è ormai al collasso: al 18 agosto 2024, i detenuti nelle carceri italiane erano 61.465, a fronte di una capienza regolamentare di 51.282 posti e una disponibilità effettiva di soli 46.898. “Questo crea un sovraffollamento di oltre 14.500 persone, che si traduce in condizioni di vita insostenibili per i detenuti e di lavoro proibitive per gli agenti di Polizia penitenziaria” si legge nel documento. Particolarmente drammatica la questione dei suicidi, arrivati a 70 dall’inizio dell’anno: il 20% dei detenuti fa uso di psicofarmaci, e il 50% dei suicidi avviene nei primi sei mesi di detenzione. Tra le vittime, spesso persone con patologie psichiatriche o senza fissa dimora, la situazione è aggravata dalla carenza di personale: mancano infatti oltre 18.000 agenti rispetto al fabbisogno stimato, con turni che arrivano fino a 24 ore consecutive, come denunciato dal segretario della UIL Polizia Penitenziaria, Gennarino De Fazio. Il documento, che domani sera sarà oggetto di discussione in Consiglio, chiede interventi mirati per affrontare l’emergenza umanitaria nelle carceri e garantire i diritti fondamentali dei detenuti. Viene inoltre sollecitata “una revisione culturale e politica della gestione del sistema penale, sottolineando l’urgenza di soluzioni che non si limitino alla costruzione di nuovi spazi detentivi, ma che affrontino anche la questione delle pene detentive per reati minori, che contribuiscono al sovraffollamento”. Tra le proposte, si chiede al Governo di aumentare gli organici della Polizia penitenziaria e migliorare l’assistenza sanitaria all’interno delle strutture, molte delle quali in condizioni fatiscenti, e di avviare una riflessione più ampia sull’uso della detenzione per reati di lieve entità. L’inadeguatezza dell’attuale piano di assunzioni previsto dal Decreto Carceri (D.L. n. 92/2024), che prevede l’assunzione di 1.000 agenti, ma con tempi troppo dilatati (500 nel 2025 e altrettanti nel 2026), viene considerata insufficiente a rispondere all’emergenza in atto. Il documento ricorda poi che “il problema riguarda, con gravità differenti, tutto il territorio italiano, inclusa la casa circondariale di Rimini, che presenta anch’essa condizioni minime sanitarie insufficienti e carenza di organico” e chiede al Governo Italiano: “Cosa intende fare per affrontare le violazioni di diritti umani che ogni giorno si verificano nelle nostre strutture detentive. Di impiegare tutti gli strumenti politici per porre un argine al vertiginoso numero di morti in carcere, al sovraffollamento, al numero insufficiente di agenti e alle condizioni fatiscenti degli edifici detentivi. Una svolta culturale e politica, oltre che normativa, che rifletta sulle pene detentive, e che non si limiti alla realizzazione di ulteriori spazi di detenzione, in ogni caso necessaria. In particolare si segnala un aggravamento del sovraffollamento nelle carceri a seguito del maggior numero di incarcerazioni per reati di lieve entità”. E impegna in conclusione il sindaco e la giunta comunale “a farsi interpreti di tali istanze, ad attivarsi per un’azione di sensibilizzazione delle rappresentanze politiche parlamentari e a dare oltretutto massima diffusione dell’ordine del giorno alla cittadinanza, alle associazioni e ad inoltrarlo al Presidente del Parlamento Europeo, al Presidente della Repubblica Italiana, al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministero della Giustizia, ai presidenti del Senato e della Camera dei deputati e ai Presidenti dei Gruppi Parlamentari”. Cuneo. Da rapinato ad aiutante dei detenuti nell’orto del carcere: la storia di Dino Rossetti di Sandro Marotta laguida.it, 9 settembre 2024 Una storia di crimine subito e di fede nella riabilitazione dei detenuti attraverso il lavoro. Dopo la violenta rapina che subì negli anni 80, adesso collabora con i detenuti per la riabilitazione dei detenuti attraverso il lavoro: questa la storia di Dino Rossetti, che in questi giorni si trova allo stand del progetto “Liberi di coltivare” in via Roma, a Cuneo; è qui perché fino a domani ci sarà la fiera Art.27-Expo. “Nel 1982 sono stato imbavagliato e rapinato. A 31 anni mi sono ritrovato con un’invalidità fisica - racconta Rossetti. Dopo ho creato un’associazione, ho avviato il premio alla buona volontà, dove vado a premiare associazioni che si occupano di donne e detenuti. Una volta a settimana vado nel supercarcere di Cuneo e seguo dei detenuti nella coltivazione dell’orto. Questi prodotti vengono poi venduti al Baladin. Sono gli stessi prodotti che trovate al Baladin di Cuneo e dintorni”. Video: https://www.youtube.com/watch?v=1kCIzyMnwJo Bologna. I condannati nelle Comunità educanti. Una mostra in Assemblea legislativa di Alice Pavarotti Il Resto del Carlino, 9 settembre 2024 Mostra fotografica racconta il progetto di recupero dei detenuti della Comunità Papa Giovanni XXIII. Esposizione in corso all’Assemblea Legislativa della Regione Emilia-Romagna. Un carcere senza sbarre, una comunità che mira al recupero dei detenuti e al loro reinserimento nella società. È il progetto portato avanti dalla Comunità riminese Papa Giovanni XXIII, che viene raccontato in una mostra fotografica esposta nell’Assemblea Legislativa della Regione fino al 13 settembre. “Dall’amore nessuno fugge”, questo il titolo dell’esposizione, narra l’esperienza dell’Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati (Apac) nata in Brasile e portata in Emilia-Romagna negli anni 2000, grazie a Don Oreste Benzi e alla Comunità Papa Giovanni XXIII (da lui fondata nel 1968). Promossa dalla presidente dell’Assemblea Legislativa Emma Petitti e dalla consigliera regionale Valentina Castaldini, in collaborazione con Giorgio Pieri, coordinatore delle Comunità educanti carcerarie (Cec), e con il Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri, la mostra è visitabile dalle 9 alle 18 dal lunedì al venerdì. C’è anche la possibilità di partecipare a visite guidate gestite dai detenuti, dalle 12 alle 16, scrivendo a: alcerimoniale@regione.emilia-romagna.it. “I detenuti hanno un legame stretto con il territorio, collaborano con le cooperative per imparare mestieri, e vengono seguiti in percorsi di presa di coscienza degli errori”, afferma Petitti. Le Cec, dieci in tutto il Paese, quattro in Emilia-Romagna, hanno ottenuto risultati importanti: in Italia il tasso di recidiva è circa del 70%, mentre solo il 12% di coloro che intraprendono questi percorsi commette nuovamente un reato. Antonio, uno dei detenuti da tre anni in Cec, spiega il motivo per cui il progetto ha successo: “Ho ritrovato l’importanza delle relazioni, che avevo perso”. Al momento le Comunità sopravvivono solo grazie ai volontari: “Spero che possano essere riconosciute a livello istituzionale, visto il problema di sovraffollamento delle carceri”, si augura Pieri. Il 12 settembre alle 16 c’è anche il convegno “L’uomo non è il suo errore. Percorsi di rinascita”. Milano. Da Correggio a San Vittore, per raccontare la città carcere di Chiara Sorrentino temponews.it, 9 settembre 2024 S’intitola “Una guida impossibile di San Vittore”: un racconto sulla città-carcere la tesi di laurea magistrale in Interior & Space Design scritta da Camilla Marani, correggese classe 1997, che racconta, umanizzandola, una realtà sconosciuta per quella che è veramente. Per cinque mesi, due volte alla settimana, Camilla Marani, classe 1997, progettista interdisciplinare specializzata in grafica e allestimenti, è entrata nel penitenziario San Vittore di Milano, per lavorare alla sua tesi di laurea in Interior & Space Design al Politecnico di Milano nell’ambito del gruppo di ricerca Laboratorio Carcere del Politecnico di Milano, con l’obiettivo di raccontare attraverso un approccio multidisciplinare, scientifico ed auto-etnografico, il funzionamento della vita quotidiana della Casa Circondariale di San Vittore di Milano. Cosa ha rappresentato per te questa esperienza? “Il mio interesse per il mondo degli istituti penitenziari nasce molto tempo fa, ma è diventato di maggiore rilievo nel 2023 quando, durante un evento di Zerocalcare, Luigi Manconi e Luca Misculin a Festivaletteratura, mi sono scontrata con dati disumani sulla situazione carceraria italiana d’oggi, dove si è circondati da cronache di suicidi tra detenuti e polizia penitenziaria, di dati ai massimi storici per il sovraffollamento e la qualità degli spazi, totalmente fuori norma. L’urgenza di vedere un cambiamento mi ha investito di una responsabilità personale e professionale che mi ha portata ad approfondire dubbi e incognite che non si riescono a capire da soli, facendomi intraprendere un viaggio di lunghe attese, nuovi incontri, racconti ed esperienze con gli spazi detentivi di San Vittore e i detenuti del Settore Giovani Adulti. Sono entrata nel gruppo di ricerca di Off Campus San Vittore del Politecnico di Milano grazie all’incontro con professoresse e dottorande che, in uno spazio all’interno della Casa Circondariale di Milano, dal 2022 fanno attività con l’area educativa del carcere”. Come è nata la metafora del carcere come città? “È nata vivendo due giorni alla settimana per cinque mesi dentro e fuori dalle mura del carcere, conoscendo le persone che la abitano, parlando con i vari enti che lavorano e transitano all’interno e facendo esperienza degli spazi. In questo modo si è formata la mia domanda di ricerca: ‘in mancanza di aiuti istituzionali come si può ricostruire un immaginario corrotto, proporre una nuova narrativa e riconnettere il carcere alla città?’ e si sono definiti gli obiettivi della ricerca: demistificare il soggetto e cambiare e trasformare l’immaginario collettivo corrotto che si è formato con gli anni; raccontare e umanizzare una realtà sconosciuta per quella che è veramente, sì complessa, contraddittoria e delicata ma anche simile alle dinamiche sociali esterne in diversa scala; creare dei ponti e delle connessioni tra la città e il carcere, che rimane un servizio creato dalla nostra società e per la nostra società. La metafora del tessuto urbano è stata utilizzata per analizzare l’istituto penitenziario da intendersi come una città, con i suoi luoghi, le sue dinamiche e i suoi abitanti, ovvero tutti i soggetti che per qualche motivo transitano dentro le sue mura. I raggi formano i quartieri, i piani dei raggi i suoi palazzi, le celle gli appartamenti. Il richiamo all’immaginario urbano ha consentito l’adozione di uno stile narrativo più accessibile, utilizzando un linguaggio che si muove tra l’ironico e il romanzato, tipico dei manuali per esploratori”. È un progetto concluso o aperto a nuovi sviluppi? “Il progetto è nato in San Vittore ma vorrebbe espandersi e proporre un’analisi di tutti i diversi istituti penitenziari italiani e non per costruire una collana di libri che raccontano del funzionamento delle carceri, dei loro abitanti, dando una voce e una prospettiva interna. Questo metodo narrativo e illustrativo funziona come ponte, connettore della società al servizio carcere, ricostruendo un dialogo aperto per contrastare gli enormi problemi che sono nati dal distacco e dal disinteresse totale nei suoi confronti. Il tutto con un pizzico di ironia, che rimane il filo conduttore di tutta la ricerca e che permette di affrontare questo enorme tema con un briciolo di leggerezza. Un’ironia che, come insegnano molto detenuti che ho incontrato, serve per tenere alta l’asticella dell’umanità in un contesto dove manca. Con questa ricerca non c’è la pretesa di risolvere problemi che l’istituzione penitenziaria ha, ma piuttosto l’intento è quello di fare qualcosa dal basso, dunque raccontare, comunicare, rendere più trasparente alla popolazione civile cosa si cela dietro le grandi mura degli istituti penitenziari”. Per giustizia e umanità. L’accoglienza dei migranti di Mauro Magatti francescomacri.wordpress.com, 9 settembre 2024 Il film “La zona di interesse”, Oscar come miglior film straniero e vincitore del premio speciale della giuria di Cannes, racconta la vita quotidiana del comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, e della sua famiglia. La villetta con il giardino dove l’ufficiale tedesco vive con la moglie e i figli confina con il campo dove arrivano i deportati ebrei. Ma il piano della vita famigliare e quello del campo di sterminio sono completamente separati. Binari paralleli destinati a non incontrarsi. Sandra Huller, l’attrice protagonista è particolarmente efficace nel mostrare la distanza siderale tra due mondi fisicamente vicinissimi ma di fatto abissalmente lontani, diametralmente antitetici. Il regista riprende i temi di cui si sono occupati autori come Hannah Arendt (La banalità del male) e Zygmunt Bauman (Modernità e olocausto): quando diventa sistema, il male è capace di installarsi nella quotidianità fino a diventare invisibile. In tutte le epoche, in qualsiasi società - anche nella raffinata Germania - la vita di tutti i giorni può imparare a convivare con il male estremo, lasciato fuori dall’uscio di casa. Nella più totale e fredda indifferenza. La nostra generazione si trova a dover fare i conti con l’enorme dramma umano dell’emigrazione (secondo l’Oim, l’agenzia dell’Omu per le migrazioni, sono 281 milioni i migranti a livello globale, a cui si devono aggiungere 117 milioni di persone in movimento a causa di conflitti, violenze, disastri). Effetto dell’accelerata globalizzazione degli ultimi decenni - che ha unito il mondo dal punto di vista della tecnologia, della mobilità, della comunicazione lasciando però enormi differenze dal punto di vista delle concrete possibilità di vita - i fenomeni migratori costituiscono uno dei grandi snodi della contemporaneità. Nessuno sa esattamente come gestire gli squilibri strutturali che ne sono all’origine. Ma sta di fatto che dietro a questi numeri si consumano vite concretissime, ormai sradicate dai vecchi equilibri della sussistenza senza però essere ammesse al banchetto della società del benessere. Voce di uno che grida nel deserto, le parole di Papa Francesco sulla necessità di non assumere come inevitabile l’inaccettabile strage di coloro che cercano di raggiungere l’Europa non sono state granché riprese dal circuito dell’informazione. Atterrato ieri a Giacarta, prima tappa del suo viaggio in Asia e Oceania, il Pontefice ha scelto di incontrare subito in nunziatura malati e rifugiati bambini rifugiati. C’è un evidente imbarazzo nella nostra cultura di fronte a un problema che inquieta. È chiaro che non si può accogliere tutti. Ma è altrettanto chiaro che non si può far finta che la cosa non ci riguardi. Né si può accettare di cancellare il senso della sacralità di ogni singola vita umana, che è uno dei capisaldi della nostra cultura. Eppure, la nostra società si rifiuta di guardare in faccia la realtà. Quasi che si trattasse di un capriccio di gente che vuole lasciare la propria terra per venire a godersi i piaceri di quella società del benessere che abbiamo sbandierato in tutto il mondo. E che poi un Bengodi non è, dati i tanti problemi anche di chi vive in Occidente. Il senso di giustizia si alimenta della reazione empatica di cui l’uomo è capace. È perché siamo capaci di sentire il dolore dell’altro che l’umanità ha potuto avanzare sulla strada della civiltà. Ma se noi non siamo più scossi davanti ai barconi che affondano nel mare Mediterraneo, e se, anzi, abbiamo programmaticamente deciso di non parlarne più per non farci inquietare, che cosa resta della nostra umanità? Non rischiamo di essere un po’ come la famiglia del comandante Rudolf Hoss che non voleva sapere cosa accadeva al di là del muro di confine con il campo? D’altra parte, non ci sarà alcuna politica che avrà il coraggio di affrontare seriamente la questione se dall’opinione pubblica non si eleverà un grido di giustizia e umanità. Non dimentichiamo che lo stato di diritto e la stessa democrazia sono sorti esattamente per la spinta ideale di tanti visionari che poi hanno fatto la storia. Ecco perché il richiamo del Papa è tutt’altro che retorico. Al contrario, le parole di Francesco hanno il timbro della concretezza e del realismo. Ognuno di noi ha la possibilità di farsi interrogare da questa enorme questione: è proprio la consapevolezza di non avere la soluzione che reclama il contributo di tanti uomini e donne di buona volontà capaci di spingere avanti la macchina lenta della politica e della burocrazia. Forse tutta questa indifferenza rivela solo paura: basta guardare le previsioni demografiche per capire come andranno le cose. Da qui al 2050 l’Africa crescerà di 700 milioni di persone, arrivando a 2,5 miliardi di abitanti, mentre l’Europa resterà più o meno stazionaria attorno ai 450 milioni. Uno squilibrio destinato a creare una pressione enorme. Pensare di risolvere il problema semplicemente bloccando gli ingressi non ha senso. Per la nostra dignità e per il futuro dei nostri figli, partiamo dalla parola di Francesco. E rimettiamoci in cammino. Il male che ci appartiene e non capiremo mai di Maurizio Maggiani La Stampa, 9 settembre 2024 Non ci sono risposte all’orrore dei delitti in famiglia. E ciò che ci terrorizza è proprio la mancanza di controllo. Vorrei proporvi una poesia, il suo autore è Bertolt Brecht, e il titolo è “Jacob Apfelböck o il Giglio dei campi”. Questa poesia è stata pubblicata per la prima volta nel 1927, cento anni or sono, e si riferisce a un fatto di cronaca nera, nerissima, che evidentemente aveva molto colpito il drammaturgo. Così come ci ha molto colpito l’analogo fatto dei giorni scorsi e quelli degli anni appena passati. Ci ha molto colpito e molto ci ha interrogato e ancora continua a interrogarci. Evidentemente molto ha interrogato anche Brecht, ma delle sue domande non ne ha fatto un dramma teatrale, ma una poesia; e se il teatro è da sempre un potente risponditore, gli ateniesi ne hanno fatto uno straordinario strumento di soluzione dei conflitti più drammatici, appunto, addirittura il luogo di una psicoterapia di massa, la poesia no, la poesia non sa dare risposte, la poesia sa fare soltanto domande. E Brecht, che non può non farsi domande, accetta l’evidenza di non potersi dare risposte, lui, il creatore del Teatro Didattico, o sì, una risposta se la dà, ed è la stessa di Jacob, non lo so. Noi questo non lo accettiamo, noi siamo straziati dall’angoscia alla ricerca di una risposta, vogliamo sapere e capire e ne siamo ossessionati, interpelliamo chiunque reputiamo adatto a una risposta, psichiatri, psicoterapeuti e psicoanalisti, giudici e procuratori, opinionisti con figli e opinionisti, più fortunati, che non ne hanno. E ognuno dice la sua, tutte cose interessanti e opinabili, ma in definitiva nessuna vera, riposante risposta, a parte quella per niente tranquillizzante dei più sinceri, che è la stessa di Jacob e di Brecht, non lo so. E questo proprio no, non ci va giù, perché se c’è una cosa che ci terrorizza è la mancanza di controllo. Abitiamo un sistema di vita e di relazioni enfio di dissennati squilibri, e se riusciamo a viverci è solo perché siamo indotti a credere che comunque sia alla fine è tutto sotto controllo. No, non è tutto sotto controllo, abbiamo disseminato la nostra vita di milioni di telecamere, ci sono almeno tre satelliti per lo smartphone che abbiamo in tasca che ci seguono nei nostri movimenti con la precisione di mezzo metro, e ancora non abbiamo inventata una telecamera buona da incistare nel cuore di un adolescente, non un satellite abbastanza performante da rilevare le vibrazioni della sua mente. Non tutto è controllabile, non tutto prevedibile, non tutto governabile, non tutto decifrabile, neppure in un perfetto sistema totalitario; ci sono profondità nell’animo di ognuno di noi che nessuna telecamera è capace di esplorare, nessun sistema educativo di colmare, nessuna consulenza spirituale di addomesticare, nessuna forza di polizia di prevenire. Abissi ignoti a noi stessi; l’io non è padrone in casa sua, è una delle constatazioni cliniche più sagge di Sigmund Freud, che per altro al tempo della poesia esercitava non troppo lontano da Bertolt Brecht. Nei giorni scorsi, in una delle rare splendide mattine di questa estate, a una solitaria fermata del bus di un ridente paesello apuano ho incontrato un ragazzino. Era seduto a terra, lo zainetto poggiato ai piedi, il suo cellulare posato sull’asfalto, la testa tra le mani. E piangeva, piangeva con grandi e lacerati singhiozzi, piangeva senza un filo di tregua per respirare. Io e mia moglie, noncuranti delle regole intorno alla privatezza, ci siamo avvicinati e abbiamo rispettosamente chiesto se avesse bisogno di qualcosa. Il ragazzino piangeva, piangeva da strapparti via i sentimenti, e non rispondeva. Vuoi un po’ d’acqua? Il ragazzino piangeva, ancora e ancora, ma infine, senza sollevare la testa dalle mani, ha sussurrato, no, grazie. Così che ce ne siamo andati per la nostra strada, perché non c’era niente che potessimo fare, niente da dire, niente di niente. Ma per la nostra strada è venuto anche quel ragazzino, ed è ancora qui, ancora con noi con il suo pianto, il suo pianto e l’incommensurabile dolore che portava con sé, un dolore a cui non abbiamo potuto portare alcun rimedio, un dolore che non abbiamo avuto modo di lenire, un dolore di cui nulla sapevamo, troppo grande anche solo per immaginarlo, ma solo constatarne l’irrimediabile. Ne siamo stati testimoni e non possiamo che portarlo con noi, caricato nei nostri cuori, un peso aggiunto al peso dell’incommensurabile dolore che incontriamo giorno per giorno nelle immagini e nei suoni che ci vengono dal mondo. Ma con una grande differenza, quel ragazzino non è un’immagine, non è un racconto, sia pure raccapricciante, è carne che avrei potuto toccare con le mie mani, è lacrime che con le mie mani avrei volentieri asciugato se non ci fosse stato quel no, grazie. E io sono quel ragazzino, io sono quelle sue lacrime e quello sconosciuto dolore, perché c’è stato un tempo che anch’io ho pianto a quel modo, anch’io ho provato uno strazio mortale, così abissale che non riesco neppure a ricordarne la precisa ragione, sempre che ci fosse stata. Alla mia fermata sono salito sul bus e sono arrivato fin qui, a questa pagina, vivendo assieme a quello che sono stato, al mio pianto, al mio dolore. Nel frattempo non ho sgozzato mio padre, mia madre e mia sorella, e ho buone ragioni statistiche per credere che non lo farà neppure quel ragazzino. Ma so anche che sarebbe potuto accadere; anche se con una probabilità infima, sarebbe potuto accadere che sul bus non avrei avuto la forza di salire, che non avrei avuto la forza di essere presente al mondo abbastanza da rispondere no, grazie, che il mio dolore mi avrebbe straziato a tal punto da darmi invece la forza inumana per fare l’impensabile e l’indicibile. Né io, né voi, né il ragazzino siamo un altro Jacob giglio dei campi, ma, e parlo a noi adulti, a noi che pensiamo di avere le chiavi per tutto comprendere, tutto contenere, tutto controllare, siamo testimoni e portatori di abissi di dolore incontenibili, incomprensibili e incontrollabili. Da adulti dovremmo avere almeno il coraggio e la sensibilità, e il buon senso, di saper vivere con questa coscienza. E non porre troppa fiducia sulle telecamere e i satelliti, e, con tutto il rispetto, neppure sui delegati alle risposte, quando l’unica, ragionevole risposta è non lo so. Jacob Apfelböck o il Giglio dei campi di Bertolt Brecht In mite luce Jacob Apfelböck uccise il padre e la madre suoi li chiuse tutti due nell’armadio e restò nella casa solo lui. Correvano a nuoto nubi sotto il cielo e intorno alla casa il mite vento estivo soffiava e nella casa c’era lui solo; sette giorni prima era ancora un bambino. Passavano i giorni, passava anche la notte, e nulla era diverso, o parecchie cose. Vicino ai genitori Jacob aspettava, così, accada quello che vuole. Disse il giornalaio che veniva ogni giorno: “Che odore è questo? Sento un puzzo che ammorba!”. Con mite voce disse Jacob: “È la biancheria, dentro il guardaroba”. Disse un di’ il lattaio che veniva ogni giorno: “Che odore è questo? Si sente un puzzo di morte!”. Con occhi miti disse Jacob: “È il vitello, che in dispensa si corrompe”. E quando nell’armadio gli guardarono in mite luce stava Jacob Apfelböck, e quando chiesero perché l’avesse fatto Jacob rispose: “Non lo so” Sharon Verzeni, da zio e cugina lettera all’assassino: “Ci hai condannati all’ergastolo” di Fabio Paravisi Corriere della Sera, 9 settembre 2024 I parenti della vittima hanno partecipato al presidio contro la violenza sulle donne. Da inizio anno ci sono state 830 chiamate ai centri antiviolenza della provincia di Bergamo. C’erano anche uno zio e una cugina di Sharon Verzeni al presidio organizzato oggi in Largo Rezzara dalla “Rete bergamasca contro la violenza di genere”. Entrambi hanno letto degli interventi rivolgendosi direttamente all’assassino. Ernesto Verzeni ha prima parlato a Sharon: “Quella notte uno sconosciuto ha voluto porre fine alla tua esistenza assassinandoti brutalmente. Un vile, perché solo i vili prendono le persone alle spalle. Un uomo, se così si può chiamare, senza valori civili, che non dà importanza alla vita altrui”. Poi si è rivolto a Moussa Sangare, arrestato per il delitto, leggendo con una voce tremante e qualche pausa per la commozione: “Mi domando: perché l’hai fatto? Cosa volevi provare a te stesso, che ti sentivi maschio? Che dovevi prevalicare su una donna inerme? Volevi ucciderla per vedere l’effetto che ti faceva? Sentire il calore del suo sangue? E il respiro che le stavi togliendo? Sharon aveva un futuro e dei progetti con il suo compagno Sergio. Ti, piccolo uomo, le hai tolto il futuro e la vita. È inutile ora che cerchi in tutti i modi di giustificare quello che hai fatto. Non ti sei mai pentito ma ha voluto fare il furbo nascondendo le prove e andando in giro con gli amici. Con il tuo omicidio, piccolo uomo insignificante, non solo hai tolto la vita a Sharon ma hai condanno tutti noi familiari all’ergastolo vita. Spero che la giustizia deli uomini ti faccia pagare per quello che hai fatto”. Ernesto Verzeni ha quindi ringraziato i carabinieri e gli inquirenti e ha concluso: “Mi rivolgo ai cittadini: dobbiamo esser liberi di camminare nelle nostre vie in qualsiasi momento e in qualsiasi ora, non dobbiamo avere paura di fare uscire le nostre figlie, le nostre fidanzate, le nostre mogli, dobbiamo riprenderci le nostre strade, affinché quello che è successo non succeda mai più . Sharon ora sei la stella che brilla per noi”. Il secondo intervento è stato di Irene Verzeni, cugina di Sharon, con un intervento fatto da frasi che iniziavano con le parole “non basta”: “Non basta chiedere scusa per avere spezzato i sogni di una persona, per avere fatto una cosa così terribile, non basta fare la vittima, dare colpa a un raptus. Non basta chiedere scusa alla stampa o a Sharon prima di compiere quel gesto che volevi fare e hai fatto. Spero che tu sconti lo stesso ergastolo che stiamo scontando noi familiari. Non dobbiamo mai essere indifferenti a niente”. La legge del taglione non riporta Natasha di Elvira Serra Corriere della Sera, 9 settembre 2024 L’aggressione che si è consumata mercoledì scorso a Foggia è l’ennesimo dissuasore a chi è cresciuto sognando di indossare il camice bianco. Quel che George Clooney ha costruito, il Policlinico Riuniti di Foggia lo ha distrutto. L’aggressione che si è consumata mercoledì scorso, contenuta dalla reazione disperata di medici e infermieri che si sono asserragliati in una stanza mentre fuori almeno venti persone infuriate tentavano di entrare, è l’ennesimo dissuasore a chi è cresciuto sognando di indossare il camice bianco, magari guadando una serie tv come E.R. - Medici in prima linea. Se nulla si può aggiungere al dolore della famiglia che ha perso Natasha Pugliese, una ragazza di ventidue anni, qualcosa si può dire sul modo di reagire a una tragedia del genere. Ognuno di noi può raccontare un caso di malasanità vissuto nell’ultimo anno, per esperienza diretta o indiretta. Nessuno è autorizzato a reagire come nel Far West. Eppure nel 2023 le aggressioni ai medici sono state sedicimila. La sorella di Natasha ha scritto su Facebook: “La mia famiglia ha fatto la guerra peggio di Gomorra perché mia sorella è stata uccisa da loro, dovevano trasferirla con urgenza, visto che era così grave”. Un Tribunale stabilirà chi ha sbagliato, non si può fare sui social. “Non c’è più alcuna fiducia nel sistema, il patto sociale è saltato”, ha detto a Giovanni Viafora sul Corriere Fabio De Iaco, presidente nazionale dei medici di Emergenza e urgenza. Colpa del Covid, che ha alimentato la rabbia dei no vax? Colpa di Internet, dove chiunque si sente più preparato del suo medico di base? Colpa di un’arroganza diffusa, sempre meno rispettosa dei ruoli (pensate al percorso a ostacoli che devono fare ogni giorno gli insegnanti per arrivare indenni a fine lezione)? Eppure fare il medico per molti resta una missione. Inopinatamente, a giudicare dai turni, dagli stipendi, dal baronato che non è stato ancora estirpato del tutto da ospedali e università. Per non dire di chi ha mancato di rispetto perfino da morto a Vito Procacci, medico simbolo durante la pandemia, scomparso a Gallipoli mentre faceva il bagno. Nel gruppo di operatori sanitari aggrediti da parenti e amici di Natasha Pugliese - un’armata Brancaleone composta da cinquanta di persone - c’erano specializzandi e uno studente: il futuro della professione di medico. Natasha non tornerà. Questo, purtroppo, è irreversibile. Ma se cominciamo a farci giustizia da soli, così si torna alla legge del taglione. Tajani torna a spingere sullo Ius scholae: “No ad un centrodestra oscurantista” di Emilio Pucci Il Messaggero, 9 settembre 2024 I meloniani lavorano da pontieri tra FI e Lega: l’ipotesi del taglio dei tempi per la cittadinanza agli studenti stranieri. “Guai se abbiamo paura di concedere diritti meritati: saremmo un centrodestra oscurantista che non si rende conto dei cambiamenti della società”. Antonio Tajani, alla festa di Forza Italia Giovani a Bellaria, è tornato a rilanciare il tema dello Ius scholae. Attribuire la cittadinanza dopo dieci anni di scuola per integrare figli di persone immigrate regolari o persone rifugiate come ucraini: la proposta di legge, annunciata nelle scorse settimane, dovrebbe essere presentata entro fine mese. Ma la posizione di FI, confermata ieri dal segretario azzurro, fa capire che non c’è alcun arretramento in vista. Anche se Raffaele Nevi, portavoce del partito, sottolinea che non è una priorità al momento, si penserà prima all’economia e alla legge di bilancio. Soltanto che i toni del ministro degli Esteri sono perentori e hanno dato non poco fastidio alla Lega. Il numero due del partito di via Bellerio, Andrea Crippa, ha subito chiarito che non se ne parla, la legge va bene così com’è. “Il diritto a diventare cittadino italiano grazie alla formazione e allo studio è sacrosanto - ha detto il responsabile della Farnesina. Chi si è conquistato il diritto di essere italiano meriti di esserlo, non conta il colore della pelle”. “L’Italia è il Paese in Europa che ogni anno concede più cittadinanze in tutta Europa agli stranieri. E la cittadinanza - gli ha replicato il fedelissimo di Salvini - si conquista con un percorso di vita e di integrazione nella società e di rispetto nei nostri valori storici e culturali. La cittadinanza non si regala”. Gli ex lumbard rilanciano pure un sondaggio secondo il quale gli italiani (per il 53,6%) siano contrari a cambiare le carte in tavola. Martedì parte la discussione sul ddl sicurezza alla Camera e il tema dovrebbe essere rilanciato dall’opposizione, anche se ogni tipo di emendamento in Aula sulla questione dovrebbe essere dichiarato inammissibile e comunque FI non è disponibile a fare da sponda. Solo che, come dice anche un esponente di Fdi, bisognerebbe cominciare a parlarne, proprio perché Tajani non molla e il centrodestra rischia di spaccarsi. I pontieri nell’alleanza ipotizzano un compromesso, ovvero di permettere la presentazione della domanda dopo l’obbligo scolastico, a 16 anni, non una concessione anticipata ma un taglio sui tempi in modo che a 18 anni possa essere subito riconosciuta la cittadinanza, magari con il silenzio-assenso. In FI si ipotizza anche di attribuire la cittadinanza dopo un esame di italiano. La Lega comunque fa muro, anzi sulla scia del caso dell’assassinio di Sharon Verzeni, dovrebbe presentare un emendamento per sospendere la cittadinanza agli stranieri per reati gravi. Si prevede dunque fibrillazione nella coalizione di governo, anche perché Fi presenterà un emendamento sulle detenute madri (non si esclude che si voti a scrutinio segreto) e c’è maretta sullo stop alla cannabis light, l’esecutivo potrebbe aprire ad una modifica della proposta approvata in commissione per le proteste della filiera della canapa. Ma la querelle è soprattutto sullo Ius scholae, con Fratelli d’Italia che non chiude alla battaglia di FI ma ritiene che i tempi non siano maturi per una discussione e che comunque vada trovata una soluzione adeguata. “Nessuno sbandamento a sinistra. Dobbiamo avere un centrodestra moderno”, insiste Tajani. “Sappiamo bene che non rappresenta un punto dell’azione di governo ma all’interno del dibattito parlamentare continueremo a portare avanti la nostra posizione”, afferma il forzista Alessandro Cattaneo. “È una questione delicata che vogliamo approfondire”, spiega Nevi. “È una battaglia sacrosanta”, dice anche l’azzurro Flavio Tosi. Mentre il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, attacca la sinistra: “Fino a qualche mese fa la formula più ricorrente era lo Ius soli. La verità è che è alla ricerca di posizionamenti senza avere un’idea precisa di che cosa vuole”. “Il referendum è l’unica via se la politica non se ne occupa”, rileva Riccardo Magi, segretario di +Europa. Sulla stessa lunghezza d’onda Benedetto Della Vedova: “Dobbiamo investire sull’arrivo e l’integrazione dei migranti”. “Serve nuova cittadinanza, per il lavoro e per pagare le pensioni. Ma nulla accade”, attacca il leader di Azione Carlo Calenda. Il governo fa muro sulla Bossi-Fini di Camilla Conti La Verità, 9 settembre 2024 Per il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, la Bossi-Fini “non è modificabile” prima di tutto “perché è una regola europea che è valida in tutti gli Stati europei e non solo europei” e poi perché “l’esperienza pratica ci induce a ritenere che l’alternativa per molti giovani sia venire qui soprattutto attratti dalla prospettiva economicamente più vantaggiosa di fare le sentinelle delle zone di spaccio”. Lo ha sottolineato ieri al forum Thea di Cernobbio anche in replica alle richieste della sinistra, evidenziando che “il sistema dell’ingresso con i contratti di lavoro ha segnato una qualche difficoltà, pure un qualche fallimento. Ecco perché Meloni parla di modifiche alla Bossi Fini”, perché il sistema previsto si prestava ad alcune elusioni. Abbiamo capito che dobbiamo correggere il tiro e mirare meglio la predisposizione degli accessi ai flussi regolari, modificando in parte la normativa e in parte con degli adempimenti organizzativi che avvicinino molto più e molto meglio la domanda all’offerta”, evidenzia Piantedosi. Bisogna “tarare meglio per aree geografiche e settori produttivi, coinvolgendo le organizzazioni datoriali. Quello del coinvolgimento del mondo del lavoro è uno dei temi più importanti”, conclude il ministro. Che poi è tornato sullo ius scholae: “È un tema di grande delicatezza che non va risolto con formule sbrigative. Fino qualche mese fa la formula più ricorrente era lo ius soli. Adesso si è trasformato nello ius scholae. L’anno prossimo ci sarà qualche altro tema. Questo segna il fatto che forse si è alla ricerca di posizionamenti da parte dell’opposizione senza avere un’idea precisa”, ha aggiunto. Con Piantedosi, ieri a villa d’Este, hanno partecipato ai panel i colleghi Paolo Zangrillo (Pa), Anna Maria Bernini (Università), Giuseppe Valditara (Istruzione) e Marina Calderone (Lavoro). Il ministro dello Sviluppo Economico, Adolfo Urso, ha annunciato la presentazione di una proposta per anticipare alla prima parte del 2025 la revisione dello stop alla produzione di auto termiche entro il 2035. “Ho intenzione di parlarne nel meeting che la presidenza di turno ungherese ha organizzato per il 25 settembre a Bruxelles sul settore e il giorno successivo la presenterò al consiglio sulla competitività”. Alla domanda se ha consultato altri ministri Urso replica: “Ho intenzione di farlo, ma aspetto l’insediamento del nuovo governo francese”. Poi è intervenuto sul tema dell’energia nucleare: “Entro la fine di quest’anno il governo presenterà un quadro normativo e sta lavorando a una Newco italiana, con una partnership tecnologica straniera, che consenta di produrre a breve in Italia il nucleare di terza generazione avanzata. Produrre i reattori in Italia per poi essere installati dove vengono richiesti nel mondo e certamente anche in Italia”, ha annunciato. Sul nucleare ha acceso un faro anche il ministro delle infrastrutture Matteo Salvini invocando il referendum: “Sono convinto che se ci fosse una possibilità di fare un referendum la maggioranza degli italiani direbbe sì al ritorno del nucleare. Il ministero sta collaborando per riportare l’Italia nel contesto dei Paesi civili e sviluppati altrimenti è una resa incondizionata”. Davanti alla platea di Cernobbio Salvini ha presentato una serie di slide che riassumono l’attività svolta sin qui dal suo ministero. “Nel 2023 ci sono 11,2 miliardi di appalti avviati e, al momento, 22 miliardi di lavori in corso. Un miliardo corrisponde a 17.00o posti di lavoro. Quindi il record di occupati in Italia deriva anche dalle infrastrutture su cui stiamo lavorando”. Ha detto spiegando di essersi dato come orizzonte temporale il 2032. Quanto al Ponte sullo Stretto, “dicono che è un ponte sovranista, di Salvini e di destra. No, è un ponte è un ponte e questo sarà il ponte a campata unica più lungo al mondo, lo facciamo noi italiani”. “Anche la Cupola del Brunelleschi”, ha evidenziato il ministro, “non aveva precedenti nella storia dell’architettura. La storia si ripete, anche allora c’erano i no Cupola che dicevano c’è vento, c’è il terremoto”. Poi, parlando con gli imprenditori, ha spiegato che visti i risultati positivi ottenuti dalla flat tax fino a questo momento la Lega ragiona se innalzare il tetto rispetto gli 85.00e euro e se applicarla anche agli straordinari”. Migranti. Cpr in Albania, la denuncia: “Spese folli, è paradossale” di Marco Pili lanazione.it, 9 settembre 2024 Secondo Gennarino de Fazio, del sindacato Uil-pa Polizia penitenziaria, la sproporzione rispetto agli istituti penitenziari in Italia costituisce uno spreco di denaro pubblico. Carceri e immigrazione, alla luce degli attuali movimenti intra-parlamentari che stanno quotidianamente balzano agli onori della cronaca, costituiscono due tematiche particolarmente calde tra quelle affrontate dall’opinione pubblica italiana. E il Cpr annunciato da Giorgia Meloni e Edi Rama nei mesi scorsi su suolo albanese, in seguito alla denuncia di Gennarino de Fazio, riesce ad unire a pieno questi due argomenti, innestandosi nel complesso alveo dei diritti dei carcerati e degli immigrati. I costi per il Cpr in Albania - Il segretario del sindacato Uilpa polizia penitenziaria, nel corso di un’intervista a La Stampa, ha rivelato alcuni dei costi che la pubblica amministrazione dovrà sostenere per il solo comparto relativo alle forze dell’ordine chiamate a garantire la sicurezza delle strutture edificate appositamente a Shengjin (San Giovanni Medua), al confine col Montenegro. Un caso definito dal Gip di Roma “un vero e proprio rebus giuridico”, che per mesi ha fatto discutere maggioranza e opposizione e che, in seguito alle dichiarazioni di de Fazio, è destinato a far spendere ancora più parole sulla pelle dei migranti i quali, nei piani, dovrebbero iniziare a fluirvi nei prossimi mesi. Un’apertura del sindacato e destinata, come già detto, a far discutere ancora una volta a causa del peso dell’iniziativa sulle casse dello Stato. Un vero e proprio paradosso, vista la procedura di infrazione alla quale il nostro Paese è già stato sottoposto dall’Unione Europea per non riuscire a garantire i diritti dei detenuti sul suolo italiano. Ma il Cpr sul suolo albanese da 1120 posti, coadiuvato da una struttura carceraria in grado di porre in custodia fino a 24 persone e un hotspot sulla costa da 300 posti, richiederà ben 300 funzionari e membri tra forze dell’ordine e di polizia per prendere il via. Il costo, relativo alle sole retribuzioni e indennizzi di rientro, è stato stimato attorno a 30mila euro al giorno, per un totale di ben 900mila euro al mese. Una somma che, a regime, supererà facilmente il milione di euro, considerando tutte le voci ancora escluse dal computo presentato da de Fazio ai giornalisti. Lo status delle carceri italiane e il paradosso albanese - Ciò che ha scaturito la reazione dei sindacalisti, però, non è il Cpr in sé, tema alquanto dibattuto e considerato dall’opposizione un mero diversivo, ma l’errato impiego di risorse fondamentali per contribuire a risolvere la difficile situazione che presentano le carceri italiane. “Se in Italia c’è un poliziotto ogni tre reclusi, circa 25mila per oltre 61mila persone, lì ce ne saranno tre per ogni detenuto” dichiara de Fazio, supportato dalle parole di Aldo di Giacomo, segretario generale Spp, Sindacato Polizia Penitenziaria: “Un errore di comunicazione può causare problemi seri, ma nessuno di noi è stato formato sul come porsi con queste persone”. Le dichiarazioni di de Fazio e di Giacomo, riferite alla struttura carceraria destinata a detenere coloro che causeranno problematiche durante l’iter presso il Cpr, accendono nuovamente un faro nel buio delle carceri italiane, spesso sovraffollate e dimenticate, nonché ritenute luoghi ormai impossibilitati alla riabilitazione in società del detenuto. Ma in giorni come questi, contraddistinti da un’importante sequenza di interrogativi in merito ai diritti dei detenuti e dei migranti, una parte del Parlamento a trazione forzista sembra - finalmente - voler destinare una maggior attenzione al tema. La consueta speranza è che interessi di partito o di coalizione in merito, in particolar modo, a tematiche quali carceri, immigrazione e Ius Scholae, non finiscano per prevaricare sui diritti e sull’accoglienza.