Le carceri sono una polveriera. Rivolte, detenuti psichiatrici e senza dimora: la crisi inizia fuori di Andrea Nobili* Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2024 “Le carceri italiane sono una polveriera”. Un’affermazione che definisce il drammatico stato del nostro sistema penitenziario, con il suo inaccettabile numero di detenuti suicidi, e che, tuttavia, rischia di essere poco più di un grido nel vento, se non si accompagna a una ponderata analisi della situazione, finalizzata a comprendere le cause del degrado, nel tentativo di provare a individuare i possibili rimedi. Purtroppo, non sempre si parla di carcere con cognizione di causa, soprattutto nel contesto politico, ove, spesse volte, emerge un approccio ideologico bipolare che non aiuta ad affrontare il problema. Un tema così delicato richiede, invece, competenza ed equilibrio. Elementi assenti nel dibattito estivo che ha accompagnato l’adozione di provvedimenti poco incisivi, incautamente definiti da qualcuno “svuota carceri”; provvedimenti che non hanno contribuito ad alleggerire le tensioni presenti negli istituti penitenziari. Una lettura circostanziata del fenomeno carcerario suggerisce di prendere in considerazione alcuni punti critici. A partire dal dato relativo al mutamento della popolazione detenuta, che presenta profili di maggiore complessità e vulnerabilità, rispetto al passato. Non solo a seguito delle ripercussioni di dinamiche migratorie o del progressivo smantellamento del nostro sistema di welfare. Ma anche per il combinato disposto dell’adozione di leggi che hanno reso la nostra giustizia severa con i reietti sociali e indulgente con chi ha maggiori possibilità economiche e relazionali. Come scriveva il noto filosofo Zygmunt Bauman, le carceri sono sempre più una discarica sociale. Emerge, poi, l’assenza di una seria riflessione sulle strutture carcerarie, veri non luoghi che, in Italia, sono spesso risalenti nel tempo e in condizioni di degrado. Di certo non aiuta il loro miglioramento la farraginosa burocrazia penitenziaria, che impone tempi dilatati per realizzare persino i più semplici interventi di manutenzione. Se le nostre carceri sono invivibili, non è solo per il sovraffollamento, ma anche per la carenza di spazi adeguati, necessari, tra l’altro, per favorire i percorsi trattamentali di reinserimento sociale. Perché la qualità della vita dei soggetti detenuti, le loro prospettive di risocializzazione, sono connesse anche allo svolgimento di attività che svolgono una funzione rieducativa. Tuttavia, il tema relativo agli interventi di edilizia carceraria incontra molte resistenze in sede politica, non tanto per la cronica carenza di risorse, quanto per un diffuso pregiudizio ideologico riguardo la realizzazione di nuove strutture carcerarie, anche se finalizzata a garantire condizioni di vita più adeguate. Il numero di detenuti in Italia è sostanzialmente in linea con quello degli altri paesi europei, dove però le condizioni sono meno scadenti. E forse per questo, all’estero, non si invocano soluzioni tampone, come l’adozione di provvedimenti di natura clemenziale, che mettono in discussione il principio della certezza della pena e rischiano di provocare cortocircuiti giuridici e sociali. Parlare di diritti dei detenuti significa però anche affrontare il tema della qualità del lavoro degli operatori carcerari, a partire dagli appartenenti alla Polizia penitenziaria, perché carenza di organico e gestione di detenuti particolarmente impegnativi determinano fenomeni di burnout tutt’altro che trascurabili. La valutazione delle falle del sistema penitenziario non può non affrontare un’emergenza specifica: la devianza criminale da parte di persone affette da patologie psichiatriche. Troppi i reati commessi da soggetti psicologicamente instabili, troppi i detenuti malati mentali. Patologie che non trovano adeguata risposta nelle attività dei presidi sanitari di tutela della salute mentale. La crisi del carcere inizia fuori dal carcere, con le carenze di un sistema sanitario che non è in grado di prevenire e intervenire, nonostante l’intensificarsi di problematiche sempre più complesse. Il rischio è quello di consegnarsi all’idea di un carcere extrema ratio, dove collocare persone malate, di cui si accerta la pericolosità solo dopo la commissione di reati, anche gravi. Con la conseguenza che le nostre carceri, perennemente in debito di psicologi e psichiatri (ma anche di educatori), sono sottoposte ad un ulteriore elemento di stress, ospitando persone sofferenti che dovrebbero essere collocate in strutture sanitarie appropriate. Si aggiunga che la capienza nelle REMS (le strutture sanitarie deputate che hanno preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari) risulta gravemente insufficiente. La questione è delicata e non può certo essere liquidata con poche battute. Ma va detto che la legge Basaglia, vera conquista di civiltà, richiede interventi di manutenzione straordinaria con l’adozione di nuovi paradigmi. Paradigmi che consentano di pensare a misure contenitive per quei soggetti psichiatrici pericolosi per evitare che siano proprio i loro familiari, disperati, a sollecitare provvedimenti restrittivi da parte della magistratura. Considerazioni analoghe per quanto riguarda i SERD, Servizi relativi alle dipendenze, in affanno con le “prese in carico” delle persone che hanno problemi con gli stupefacenti. Limitata la disponibilità all’accoglienza nelle comunità terapeutiche e urgente la necessità di potenziare i percorsi di sostegno che vadano oltre la somministrazione del metadone. Senza addentrarsi sul versante del difficile operato della magistratura di sorveglianza e degli uffici periferici ministeriali ausiliari (gli Uffici di esecuzione penale esterna), questi ultimi chiamati a svolgere un lavoro al di sopra delle loro forze, un accenno sulle possibilità di adottare alcune misure alternative alla detenzione, evocate dal Ministro della Giustizia. Difatti, il ministro Nordio, in uno dei suoi interventi, dedicati al contrasto al sovraffollamento nelle carceri, ha implicitamente accennato alle previsioni contenute nella Legge 199/2010, ipotizzando l’individuazione di spazi ove scontare pena inferiore a diciotto mesi, soprattutto per quei detenuti, stranieri, privi di dimora. Una proposta, che seppur mossa da buoni propositi, appare di non facile realizzabilità, ciò a prescindere dal problema dell’individuazione delle strutture, dei costi e dei controlli e dei rischi connessi. Va tenuto conto del fatto che i detenuti che potevano usufruire di tale possibilità lo hanno già fatto e che coloro che non la hanno richiesta o ottenuta non è solo per la mancanza di un domicilio ma per la presenza di ulteriori condizioni ostative. Il tema, relativo alla popolazione detenuta di origine straniera è spigoloso, ma imprescindibile: trattasi di questione complessa sotto diversi profili, a partire del valore molto relativo del principio della rieducazione per tutte quelle persone che, scontata la pena, dovranno lasciare il territorio italiano. Gli addetti ai lavori sanno che la legge, per l’esattezza l’art. 16 della Legge 286/1998, prevede quale misura alternativa alla detenzione l’espulsione effettiva, per i cittadini extracomunitari privi di titolo di permanenza, al posto degli ultimi due anni di carcere; non è necessario alcun accordo con il paese d’origine del detenuto, che torna libero nel suo Paese, con divieto di reingresso in Italia per anni. Trattasi di uno strumento cui la magistratura potrebbe ricorrere più spesso e che, senza particolari difficoltà potrebbe essere “potenziato” introducendo piccoli ritocchi normativi che riducano i casi in cui la stessa non possa essere disposta. La politica ha il dovere di tornare a occuparsi seriamente della questione penitenziaria, nel rispetto dei diritti dei detenuti e degli operatori penitenziari e del diritto alla sicurezza dei cittadini. Occorrono investimenti adeguati, che avrebbero una ricaduta positiva su più versanti, accompagnati da riforme di sistema, con interventi coraggiosi che abbiano la forza di confrontarsi con la durezza della realtà. *Avvocato, ex Garante regionale dei diritti dei detenuti Marche Lavoro e dignità contro le recidive. Così possiamo reinserire i detenuti di Renato Brunetta* Avvenire, 8 settembre 2024 Serve una vera collaborazione tra società civile, imprese e sistema della giustizia per dare attuazione al principio costituzionale della “rieducazione del condannato”. Non integrare le persone abitualmente escluse dai processi di creazione di valore sociale ed economico significa trasformarle in costi sociali per le nostre comunità, in termini sia di utilizzo di risorse pubbliche che di riduzione di sicurezza sociale. Negli ultimi mesi si è riproposto in modo dirompente il problema del sovraffollamento delle carceri italiane e dell’evidente disfunzionalità del sistema penitenziario, intesa come difficoltà a svolgere la propria funzione: garantire l’equilibrio tra la sicurezza nell’esecuzione penale e la rieducazione delle persone detenute. La crisi del sistema carcerario non è connotabile come una questione di destra o di sinistra, men che mai è risolvibile con una ricetta - per così dire - politica, in cui il dato squisitamente scientifico ne risulti oscurato. Piuttosto sappiamo che l’efficienza del sistema penale è, invece, un indicatore della qualità di una democrazia, del suo livello di sviluppo e della sua capacità di riconoscere e tutelare i diritti individuali anche dove e quando il patto sociale sia stato temporaneamente infranto dalla violazione di una norma penale. Per misurare questo livello di efficienza non abbiamo che un riferimento costituzionale, l’articolo 27, che prescrive in modo puntuale che la pena non possa “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e debba “tendere alla rieducazione del condannato”. La grande sfida organizzativa e sociale del carcere, e anche delle misure alternative, è dunque quella di garantire l’equilibrio tra le necessità di una corretta e giusta esecuzione della pena con quella del rispetto dei diritti, della rieducazione e del reinserimento. Le disfunzionalità del sistema penitenziario italiano Osservando il contesto italiano possiamo affermare che, ad oggi, questa sfida ad oggi il carcere la sta perdendo. I dati ci dicono che il sistema penitenziario è affetto da due disfunzionalità croniche: il sovraffollamento e l’alto tasso di recidiva, due patologie strettamente interconnesse tra loro. Il sovraffollamento, il cui tasso medio supera il 120% con punte ben superiori al 150%, non significa solo mancanza di spazi, ma è indice del peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro all’interno degli istituti, già afflitti da gravi problemi strutturali quali le scarse condizioni igienico sanitarie, la carenza di personale medico e servizi inadeguati per i bisogni dei detenuti. L’alto tasso di recidiva, di circa il 70%, mette in luce le carenze dei programmi di rieducazione e reinserimento sociale e l’inadeguatezza dell’apporto di risorse e progettualità messe a disposizione dal sistema pubblico. La gran parte delle attività trattamentali in carcere è, infatti, totalmente demandata alla libera iniziativa della società esterna, il che genera differenze significative in termini di disponibilità e qualità delle attività trattamentali. L’importanza della formazione e del lavoro in carcere Offrire opportunità di lavoro e di formazione ai detenuti è importante per l’ozio forzato e il senso di apatia e noia tipicamente indotti dalla condizione detentiva e migliorare, al contempo, le loro prospettive di lavoro post rilascio, spesso purtroppo scarse. Perché ciò avvenga, è necessario che il lavoro sia di elevato valore professionale, oltre ad essere svolto in condizioni sicure e con le dovute tutele. Il collegamento tra disoccupazione e recidiva, ormai accertato, conferma come l’occupazione sostenuta sia correlata a una ridotta recidività. L’intervento del mondo dell’impresa risulterebbe, quindi, prezioso per garantire il matching tra formazione erogata ai detenuti e skill professionali richieste ai fini occupazionali, assicurando un inserimento diretto del detenuto nel mondo del lavoro in seguito al rilascio. I dati, però, ci indicano che le imprese sono poco impegnate nella causa sociale dell’inserimento lavorativo di queste persone e, quindi, del contrasto alla recidiva: del 33% dei detenuti coinvolti in attività lavorative (19.153 impiegati totali nel 2023) ben l’85%, lavora alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, usualmente per poche ore al giorno o al mese. Il percorso fatto dal CNEL È dalla intuizione consapevole del Ministro Carlo Nordio circa la necessità di inserire ogni intervento di gestione dell’emergenza carceraria all’interno di un quadro sistemico di collaborazione tra società civile e sistema della giustizia imperniato sul principio costituzionale e sul coinvolgimento strutturale dei corpi intermedi e delle categorie produttive, che ha visto la luce il 17 giugno del 2023 l’accordo Interistituzionale tra Ministero della Giustizia e CNEL volto a promuovere, con attività concrete, il lavoro e la formazione quali veicoli di reinserimento sociale per le persone private della libertà. Tre le tappe fondamentali del percorso intrapreso da DAP e CNEL. A partire dalla giornata del 16 aprile in cui si sono confrontati più di 400 addetti ai lavori. Un momento non episodico che ha ristabilito un ponte e individuato nel CNEL un “luogo” deputato alla condivisione di esperienze, opportunità, criticità, proposte e alla connessione tra i diversi attori. Sei sessioni di lavoro tematiche con proposte operative per identificare spunti e indicazioni per le tappe successive: la stesura del disegno di legge del CNEL sul reinserimento socio-lavorativo dei detenuti e la costituzione del Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale. Il contenuto del disegno di legge Il disegno di legge scaturito dall’accordo è volto ad offrire ai decisori pubblici strumenti giuridici idonei a migliorare l’attuale sistema di governance, agevolando - al contempo - l’elaborazione di una politica pubblica nazionale sul lavoro in carcere. La rivisitazione complessiva in materia di ordinamento penitenziario intende, quindi, concorrere alla strutturazione di una rete interistituzionale volta a gestire l’inclusione lavorativa nella sua globalità sia in carcere che nella fase post-rilascio. Declinando il principio costituzionale, viene prevista l’equiparazione tra lavoratori liberi e lavoratori ristretti. Tra le misure: il recepimento del sistema regionale di governance multilivello, la valorizzazione della Cassa delle Ammende, la costituzione di un fondo volontario alimentato dalle fondazioni bancarie; e ancora il potenziamento della “Legge Smuraglia”, delle commissioni carcerarie e di quelle regionali per il lavoro penitenziario, fino al “collocamento mirato” dei giovani detenuti. E ancora, una piattaforma informatica e un punto unico di accesso per la sistematizzazione delle relazioni tra imprese e carceri. La costituzione del segretariato permanente In attesa dell’esame del disegno di legge, per dare coerente seguito all’accordo con il Ministero della Giustizia, il CNEL ha poi costituito un “Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale”, organismo interno al Consiglio, che vuole concorrere, in stretto raccordo con il DAP e attraverso il coinvolgimento dei corpi intermedi, alla realizzazione di un sistema integrato per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. Le reti non mancano, manca la loro sinergia operativa, da realizzarsi attraverso il Segretariato, accompagnando la complessità dei tanti attori coinvolti e facilitando l’interconnessione tra reti istituzionali, parti sociali e terzo settore. Conclusioni La prescrizione costituzionale dell’art. 27 non solo esprime il fine istituzionale del sistema penale in un paese civile, ma anche il fondamentale contributo al progetto democratico e alla coesione sociale del nostro paese. Una democrazia compiuta deve essere capace di riconoscere e tutelare i diritti individuali anche dove e quando il patto sociale è stato temporaneamente rotto dalla violazione di una norma penale, prediligendo la rieducazione quale unico strumento che può disarmare la vendetta, la devianza e l’antisocialità. Affrontare efficacemente il tema della recidiva, può aiutarci a migliorare la nostra capacità di misurarci col complesso e più generale problema dell’inclusione sociale. Non integrare le persone abitualmente escluse dai processi di creazione di valore sociale ed economico (non solo ex-detenuti ma anche persone con altre forme di vulnerabilità sociale come migranti ed ex tossico-dipendenti) significa trasformarle in costi sociali per le nostre comunità, in termini sia di utilizzo di risorse pubbliche che di riduzione di sicurezza sociale e legalità. Il problema dell’inclusione sociale richiede un approccio di sistema, basato sul dialogo istituzionale e sociale. Esattamente quello che grazie all’iniziativa del Ministro Nordio il CNEL è stato chiamato a fare, innescando ed immettendo in un circuito di reciproca collaborazione e coinvolgimento partecipativo tutti gli attori, a partire dal DAP che dell’intero sistema di reti non può che essere il primo e consapevole protagonista. Una sfida che il CNEL ha accettato nel nome della Costituzione e dei compiti che essa gli ha demandato, individuandolo quale luogo e snodo centrale per l’incontro e la partecipazione dei corpi intermedi all’analisi e alla risoluzione delle questioni sociali ed economiche di rilevanza nazionale. Una sfida complessa che non è possibile semplificare o ridurre a slogan o soluzioni salvifiche di immediata attuazione, ma che comporta invece il reciproco riconoscimento di una corresponsabilità collettiva che unisce istituzioni, imprese, società, di fronte a problemi che rischiano di erodere la coesione sociale e la qualità della nostra democrazia”. *Presidente del Cnel Far rifiorire l’umanità dei carcerati. Non serve moltiplicare prigioni e celle di Giorgio Paolucci Avvenire, 8 settembre 2024 Il modello della Comunità educante e la sua efficacia con i “recuperandi”. La riforma del sistema carcerario è una sfida in cui si sono cimentati tanti governi con alterni risultati, e quello attuale non fa eccezione. Le ricette si sprecano, nessuna probabilmente è risolutiva, certo è che la soluzione non può venire dalla moltiplicazione dei penitenziari, come qualcuno continua a sostenere. Anche perché per molti proprio il periodo della detenzione diventa una scuola del crimine: anziché incontrare occasioni di rieducazione, come dice a chiare lettere l’articolo 27 della Costituzione italiana, si incontrano cattivi maestri e si esce peggiori di quando si è entrati, o si vive in condizioni tali da aumentare il senso di inimicizia nei confronti della società. Invece di aumentare le dimensioni del pianeta carcere si deve puntare a farlo dimagrire. Oltre che dibattere sui provvedimenti generali utili a raggiungere questo irrimandabile obiettivo - indulto, amnistia, depenalizzazione di certi reati - è necessario incrementare le esperienze che dimostrano di essere realmente alternative alla detenzione e che si muovono nella logica di una giustizia rieducativa e non vendicativa. Perché - con buona pace di quanti si lamentano per l’aumento della criminalità - la sicurezza della società è direttamente proporzionale alla possibilità di recupero di coloro che hanno sbagliato. Da più di vent’anni è attiva in Italia un’esperienza che si muove in questa direzione: si chiama Cec, acronimo di Comunità educante con i carcerati, nasce dal rigoglioso albero della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi. In questi giorni (fino al 13 settembre) Bologna ospita una mostra che presenta il modello delle Cec, presenti in Emilia-Romagna, Toscana, Abruzzo e Piemonte, e quella delle Apac (Associazione per la Protezione e Assistenza Carcerati), nata sessant’anni fa in Brasile, riconosciuta dall’Onu come eccellenza nel panorama mondiale e a cui la Cec per molti versi si ispira. Niente pietismo né assistenzialismo, certezza della pena e alte garanzie di recupero. È possibile uscire dal tunnel della delinquenza creando “case aperte”, luoghi di espiazione alternativi al carcere dove vivere in una dimensione familiare e comunitaria, affrontando un cammino educativo a cui si accede in accordo con la direzione carceraria e il magistrato preposto. Il percorso, accompagnato da operatori e volontari, comprende la presa di coscienza del male compiuto e dei danni causati alla società e a sé stessi, una proposta di fede offerta alla libertà degli ospiti, la valorizzazione delle relazioni umane, l’apprendimento di un lavoro, la costruzione di reti di collaborazione con il territorio e le imprese locali, l’acquisizione di una nuova consapevolezza della propria dignità da parte dei “recuperandi”, come vengono chiamati dai volontari della Papa Giovanni XXIII. Perché, come amava ripetere don Benzi, “l’uomo non è il suo errore”. E sono gli stessi “recuperandi” che in questi giorni raccontano ai visitatori le loro “ripartenze” umane, per dare pubblica testimonianza del cambiamento avvenuto e del contributo che da questo cambiamento deriva alla società tutta. Anche i numeri parlano chiaro: solo il 15 per cento di chi è stato ospite delle Cec torna a delinquere dopo avere scontato la pena, a fronte del 70 per cento di recidiva nella popolazione detenuta a livello nazionale. E mentre una persona detenuta in carcere costa mediamente allo Stato 200 euro al giorno, nelle Cec si scende a 50, a costo di grandi sacrifici e con il contributo di tanti donatori. In definitiva, per lo Stato è cosa conveniente sostenere la crescita di realtà come queste, sia sotto il profilo economico, sia per i risultati che si ottengono nel reinserimento sociale, sia per il guadagno che ne deriva alla convivenza in termini di sicurezza. Sarebbe un modo per realizzare quel principio di sussidiarietà tanto decantato quanto poco praticato, e un contributo al dimagrimento del pianeta carcere. Si può fare, e allora si aiuti - anche finanziariamente - chi lo fa. Scontare la condanna vivendo in queste comunità è l’occasione di una svolta radicale per le persone detenute, che incontrano luoghi dove la loro umanità può rifiorire, dove possono misurare la convenienza del bene e sentirsi guardati nella loro dignità di persone amate. Perché, come recita il titolo della mostra che documenta questi percorsi di rigenerazione, “dall’amore nessuno fugge”. Un morto in carcere non fa mai riflettere di Federico Giusti osservatoriorepressione.info, 8 settembre 2024 I dannati della terra possono anche morire nel silenzio, dimenticati in vita e in morte. Parliamo dei detenuti che una volta varcati i cancelli di un istituto di pena vengono letteralmente dimenticati, condannati a espiare una pena che dimentica qualsiasi percorso riabilitativo. Quanto accaduto pochi giorni fa, con la morte di un giovane di 18 anni arrivato in Italia dopo il solito estenuante viaggio per l’Africa, dopo avere subito i maltrattamenti nei campi in Libia dovrebbe invece indurci a qualche riflessione. Parliamo di un giovane di appena 18 anni morto carbonizzato nella sua cella, era stato arrestato mesi fa per una rapina, era in attesa di giudizio. Non è dato sapere la dinamica dei fatti, la sta ricostruendo la Procura di Milano, ma parliamo di un caso particolare, di un giovane considerato non condannabile, da minorenne, dopo una perizia psichiatrica che lo aveva dichiarato incapace di intendere e di volere. Per le sue condizioni di salute e la lieve entità dei reati il carcere non era certo il posto idoneo dove attendere il processo, la morte per soffocamento con il materasso forse bruciato per una forma di protesta contro il sovraffollamento e le condizioni di vita disumane, il suo avvocato racconta che era arrivato con un barcone con piedi e mani legate, incapace di parlare, vittima di traumi che avevano provocato seri danni al suo sistema nervoso San Vittore è il carcere più sovraffollato d’Italia, ospita più del doppio dei detenuti previsti un terzo dei quali in età inferiori ai 30 anni, i tre quarti non sono cittadini italiani, molti di loro hanno subito violenze inaudite che hanno compromesso lo stato di salute, eppure restano chiusi in celle sovraffollate dove le loro patologie non possono essere curate. Il carcere è lo specchio della società e quella in cui viviamo è sempre meno incline ad occuparsi della marginalità, dei meno abbienti vittima com’è di logiche securitarie e disumane. Gratteri: “Carceri? Ci vanno solo tossici e delinquenti abituali” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2024 L’abolizione dell’abuso d’ufficio? “Un favore ai raccomandati”. La paura della firma dei sindaci? “Una foglia di fico, la verità è che il potere non vuole essere controllato”. Le riforme della giustizia del governo di Giorgia Meloni? “Fatte senza tenere conto della realtà, in carcere ci vanno sempre i soliti noti: tossicodipendenti che delinquono a causa della loro tossicodipendenza e delinquenti abituali”. Le modifiche al reato di traffico d’influenza del ministro Carlo Nordio? “Servono a impedire che si possa dimostrare un reato come questo”. È un Nicola Gratteri a ruota libera quello che è intervenuto alla Festa del Fatto Quotidiano. Intervistato dai giornalisti Marco Lillo e Antonio Massari, il procuratore di Napoli è intervenuto su diversi argomenti: dalle riforme della Giustizia alle carceri. “I tribunali andranno in tilt” - Il magistrato esperto d’indagine sulla ‘ndrangheta ha ricordato in via preliminare che “molte delle riforme di oggi sono figlie del cosiddetto governo dei migliori (cioè quello di Draghi ndr). All’epoca non ne faceva parte Fratelli d’Italia, che però ora è al governo. Quindi nessuno può dire: io non c’entro”. Per due volte poi Gratteri ha criticato alcuni suoi colleghi “importanti e autorevoli, dicevano che la riforma Cartabia era una buona riforma. Anche per questo motivo oggi la credibilità della magistratura è ai minimi termini. Io ho sempre detto che Draghi non capiva di giustizia e di sicurezza, ma la gente nascondeva la testa”. E’ dunque in continuità con quei provvedimenti che arrivano le riforme varate da questo esecutivo. “Si fanno le riforme senza tenere conto della realtà”, ha detto Gratteri, riferendosi alla norma che triplica il numero di giudici deputati a decidere sulle misure cautelari. “Ma c’è un problema pratico: siccome non si è avuto il coraggio di chiudere i piccoli tribunali, mediamente ci sono 7 giudici in media nei Palazzi di giustizia. Quindi tre si occupano dell’ordinanza cautelare, uno dell’udienza preliminare, ne restano due che però non bastano per fare un collegio e quindi celebrare un processo”. “Paura della firma? Foglia di fico” - Il provvedimento è stato varato nello stesso pacchetto di norme con cui è stato abolito l’abuso d’ufficio. “Questo è un regalo ai raccomandati”, ha detto Gratteri, che poi ha citato le parole di Carlo Nordio su fatto che anche i sindaci del Pd spingessero per l’abolizione del reato. “E che vuol dire? - ha detto Gratteri - Hanno pure detto che i sindaci hanno paura della firma. Ma hanno paura di cosa? Cosa firma un sindaco? Nei comuni con più di 15mila abitanti c’è il segretario comunale, poi c’è il prefetto, il viceprefetto che ti può consigliare. Quindi la paura della firma è una foglia di fico: il potere non vuole essere controllato, vuole essere libero”. Il magistrato ha poi ricordato come il reato di abuso d’ufficio fosse già stato modificato nel recente passato: “Sono state abbassate le soglie di pena per evitare le intercettazioni. Quindi a furia di fare modifiche è stata resa impossibile la possibilità di dimostrare il reato”. Stessa opinione sulle modifiche appena varate al traffico d’influenza: “Questa modifica è stata fatta per impedire che si possa dimostrare il traffico d’influenze”, ha sostenuto il capo dell’ufficio inquirente partenopeo. “Le intercettazioni fanno guadagnare denaro allo Stato” - Altro argomento è quello delle intercettazioni telefoniche. “Il ministro Nordio ha detto che costano 170 milioni l’anno - ha ricordato Gratteri - Noi a Napoli abbiamo sequestrato 280 milioni in Bitcoin, li abbiamo trasformati in euro: quando la sentenza sarà definitiva questi soldi potranno essere spesi. Quindi con una sola operazione ci siamo pagati un anno e mezzo d’intercettazioni”. L’ex procuratore capo di Catanzaro ha ricordato come “tutte le indagini fatte con le intercettazioni telefoniche portano un guadagno per lo Stato: pensate a tutte le indagini che portano a sequestro di beni di lusso, oro, orologi, pietre preziose. Beni che messi all’asta sarebbero tutti venduti subito”. Nordio, però, ha spesso assicurato che le intercettazioni per reati di mafia e terrorismo non saranno toccate: “Sì, ma cosa intende fare per le intercettazioni relative ai reati contro la pubblica amministrazione? Sono quelli della zona grigia, dei colletti bianchi, spesso paralleli agli affari delle mafie. Il ministro deve dirci cosa vuole fare per questi casi: potremo usare comunque il trojan e le intercettazioni?”. La riforma di Gratteri: abolire quelle di Draghi e Meloni - Insomma, per Gratteri le riforme varate dal governo di Mario Draghi e quello di Giorgia Meloni continueranno a far finire in carcere “sempre i soliti noti: tossicodipendenti che delinquono a causa della loro tossicodipendenza e delinquenti abituali”. A proposito dei tossicodipendenti in carcere, il procuratore di Napoli ha spiegato come secondo lui “bisogna provare a disintossicare questi ragazzi, i detenuti che hanno commesso reati a causa della loro tossicodipendenza”. Il magistrato ha spiegato che oggi con il costo di un detenuto si pagano tre posti una comunità terapeutica: “Quindi facendo uscire un tossico dal carcere salviamo tre ragazzi e risolviamo il problema del sovraffollamento”. Sempre su questo fronte il magistrato ha lanciato un messaggio agli insegnanti: “Per un anno lasciate stare la giornata della legalità e portate i vostri ragazzi in una comunità terapeutica, è più importante. Io cerco di andarci una volta al mese: non vado a portare nessuno aiuto perché non posso portare nessun aiuto. Ci vado per me, per capire e fortificarmi”. Sempre sulle carceri, inoltre, Gratteri ha lanciato un allarme: la presenza dei telefonini tra detenuti, soprattutto mafiosi e narcotrafficanti. “Io per disinnescare questo problema avevo proposto di mettere un jammer nelle carceri e bloccare le comunicazioni. Ma mi è stato detto che non si poteva perché si bloccavano le telefonate della Polizia penitenziaria. Ma non è vero: la polizia penitenziaria non usa i telefonini in carcere, ha i telefoni fissi. Poi mi è stato detto che il jammer fa male alla salute quindi non si può usare: ma io da anni ne ho uno a venti centimetri dalla schiena, cosa dovrei fare?”. Ma se Gratteri potesse intervenire sulla legislazione, quali sono le tre riforme che farebbe subito? “Farei una sola legge, brevissima: tutte le riforme della Giustizia approvate, dal governo dei migliori fino a oggi, vanno abolite”. La ricetta di Davigo per le galere affollate: “Ai detenuti bastano tre metri quadrati a testa” di Anna Maria Greco Il Giornale, 8 settembre 2024 L’ex pm di Mani pulite: “Non si può considerare lo stesso spazio pro capite di un’abitazione normale, cioè 9 metri quadrati”. “Se il sistema può evitare di far varcare la soglia del carcere ad una persona che non lo merita deve farlo e invece il 50% dei condannati in primo grado poi viene assolto e paghiamo al 30% dei richiedenti la riparazione per ingiusta detenzione”, dice Enrico Costa. Piercamillo Davigo lo interrompe irruento: “Anche a costo di perderne 3 mila, magari assassini?”. “Sì - insiste Costa - anche una sola persona innocente non può essere sacrificata”. Eccoli, sul palco della Festa del Fatto quotidiano, i due campioni del garantismo e del giustizialismo, a confronto sul tema: “Giustizia leggi e bavagli”. Vestito casual, in abito color cachi e maglietta, il deputato di Azione Costa, che ha appena festeggiato l’approvazione in Consiglio dei ministri del decreto legislativo che recepisce una sua proposta e vieta la pubblicazione sui mass media dell’ordinanza di custodia cautelare. In severo completo blu con tanto di cravatta, malgrado il sole caldo, è invece il grande inquisitore di Mani pulite, ex presidente dell’Anm, schiantatosi su una triste storia di veleni, dossieraggi e rivalità correntizie che l’ha portato alla decadenza dal Csm e ad una condanna in appello a un anno e 3 mesi per rivelazione di segreto d’ufficio. Il pubblico, neanche a dirlo, tifa per il giustizialista Davigo e più volte interrompe e contesta Costa, accusato anche dai giornalisti moderatori del Fatto di essere una specie di quinta colonna del centrodestra nelle opposizioni, di vedere portate avanti dal governo molte sue battaglie appunto garantiste, quest’ultima poi “casualmente, in pieno caso Toti”. Davigo attacca lo stop ai verbali sui giornali, dice che “in un Paese democratico il cittadino dev’essere informato e il magistrato non solo deve dire che qualcuno viene arrestato ma anche il perché, se no si arriva ai desaparecidos”. Costa la vede all’opposto: “Un’ordinanza di custodia cautelare magari di centinaia di pagine, con accuse e intercettazioni, spiattellata sulle pagine dei giornali è un processo anticipato, qualcosa da cui una persona innocente non si risolleva. E questo avviene in fase di indagini preliminari, prima di ogni presentazione di prova. Non voglio il bavaglio della stampa, ma consideriamo che di 43 mila casi di custodia cautelare nel 2023 il 19% sono stati dichiarati ingiusti nello stesso anno”. Davigo, però, non vuol sentir ragioni, nega addirittura il sovraffollamento delle carceri, considerato tra i motivi per evitare troppi arresti preventivi: “Il problema è che si considera per ogni detenuto lo stesso spazio considerato per un abitante di un’abitazione normale, cioè 9 metri quadrati, mentre ne basterebbero 3, quello è davvero lo standard”. Che abbia la mentalità da Far West lo dimostra quando parla del fatto che negli Usa i latitanti sono pochissimi, mica come da noi che i mafiosi si nascondono per decenni. A lui l’hanno spiegato quando è stato ospite del governo Usa. “Lì il processo accusatorio, che noi abbiamo copiato solo nelle parti che ci conveniva, inizia con l’arresto, poi semmai si esce su cauzione e se uno non si presenta lo mettono dentro per oltraggio alla corte. Come lo trovano? E dove scappa? Ci sono anche compagnie private che arrestano il 70%, va bene che li portino anche morti, perché così prendono i soldi”. Solo sulle critiche a Nordio, Costa e Davigo trovano una debole intesa, ma il primo approva l’abolizione dell’abuso d’ufficio, l’altro l’aborre. Il primo critica la giustizia “usata come scorciatoia di fronte a problemi complessi, inventando nuovi reati e alzando le pene”, l’altro insiste sui corrotti che la fanno franca, raccoglie applausi citando Cesare Previti, “condannato a 6 anni per il fatto più grave mai accaduto, nel caso Imi Sir, e che ha scontato in carcere solo 5 giorni, tra indulto e affidamento ai servizi sociali”. La destra sfida Mattarella dentro il Csm e sulla Consulta di Giulia Merlo Il Domani, 8 settembre 2024 In consiglio è scoppiato il caso della laica Natoli, mai dimessa, con la resa dei conti nel prossimo plenum. In Corte costituzionale ancora non è stato nominato il giudice vacante, circola l’ipotesi di nomine “a pacchetto”. Settembre sarà un mese di fuoco per due istituzioni nevralgiche nella galassia della giustizia. L’11 settembre si svolgerà il primo plenum del Consiglio superiore della magistratura e si preannuncia un corpo a corpo tra la componente laica e quella togata sul caso della consigliera in quota Fratelli d’Italia, Rosanna Natoli. Il 17 settembre, invece, è convocato il parlamento in seduta comune per tentare di eleggere il giudice costituzionale mancante ormai da novembre scorso, ma le possibilità di arrivare a un nome appaiono scarse. In entrambi i casi, il vero cuore della vicenda è il modo con cui il centrodestra di governo intende il ruolo di queste istituzioni e come si sta muovendo per gestire il suo ruolo di maggioranza, anche in relazione alla funzione di garanzia invece svolta dal Quirinale. Il caso Csm - Il caso più esplosivo riguarda il Csm, con una recente evoluzione inaspettata. Prima i fatti: la consigliera laica in quota Fratelli d’Italia e considerata molto vicina al presidente del Senato Ignazio La Russa, Rosanna Natoli, si è autosospesa dalla sezione disciplinare ed è finita sotto indagine presso la procura di Roma, dopo essere stata registrata mentre violava il segreto della camera di consiglio, parlando in un colloquio riservato con la siciliana Maria Fascetto Sivillo in merito al procedimento disciplinare cui era sottoposta. In seguito alla rivelazione di questi fatti, la consigliera ha scelto di non prendere parte all’ultimo plenum di luglio del Csm, in cui è stato nominato il nuovo procuratore di Catania, Francesco Curcio, mentre lei sosteneva Francesco Puleio. Già all’epoca i retroscena raccontavano che la componente togata avrebbe caldeggiato le sue dimissioni dal Csm e considerato inopportuna una sua eventuale partecipazione al plenum. Infine, anche dal Quirinale sarebbe arrivata una moral suasion in questo senso al comitato di presidenza. Ora, in vista della ripresa dei lavori, in molti si aspettavano le sue dimissioni. Invece la consigliera laica ha mostrato di non avere alcuna intenzione di fare un passo indietro e anzi ha deciso di attaccare: ha inviato al comitato di presidenza una istanza di annullamento in autotutela delle delibere prese dal consiglio nell’ultimo plenum a cui lei non ha partecipato, spiegando che la sua assenza è stata causata da un intervento intimidatorio dei togati delle correnti progressiste di Area e Magistratura democratica. Natoli, difesa dall’avvocato ex missino Giuseppe Valentino (che avrebbe dovuto essere nominato consigliere al Csm ma il suo nome saltò in seguito alla rivelazione di un suo coinvolgimento in una inchiesta), ha scritto che “non si è integrato il reato di rivelazione di segreto d’ufficio, non avendo mai rivelato a Fascetto alcun segreto, così come emerge dalla registrazione depositata”. Poi ha scritto di aver subito pressioni per non partecipare al plenum del 17 luglio: “Mi veniva riferito che la consigliera Francesca Abenavoli a nome di tutto il gruppo di Area e di Md, aveva comunicato al vicepresidente che qualora fossi entrata in aula consiliare per partecipare ai lavori avrebbero, in apertura del collegamento con radio radicale, diffuso, mediante lettura, la trascrizione del contenuto della chiavetta Usb”. Così, “terrorizzata, forzata e violentata psichicamente dalle parole e dalle intenzioni riferitemi, e non avendo avuto neanche il tempo di riflettere in merito alla genuinità o meno della chiavetta Usb, temendo la ripercussione mediatica minacciatami dai quei gruppi consiliari, sono stata “costretta” mio malgrado ad allontanarmi”. Per questo Natoli ha sostenuto che “la votazione è stata inficiata dalla lesione del diritto della sottoscritta di partecipare” alla nomina del procuratore di Catania e chiede “la revoca in autotutela delle delibere trattate”. La miglior difesa, dunque, si è rivelata l’attacco per neutralizzare la strategia che stava prendendo forma nelle riflessioni soprattutto dei togati. Nel caso di mancate dimissioni spontanee di Natoli, infatti, l’ipotesi teorizzata da illustri giuristi tra cui il direttore di Questione Giustizia, l’ex toga di Md Nello Rossi, era quella che fosse il comitato di presidenza a proporre la sospensione della consigliera. L’ articolo 37 della legge 195 del 24 marzo 1958, che disciplina la vita del Csm, stabilisce infatti che la sospensione dei consiglieri è possibile nel caso in cui “siano sottoposti a procedimento penale per delitto non colposo” e il voto sarebbe a scrutinio segreto a due terzi. Venti consiglieri basterebbero dunque: i 20 togati sarebbero favorevoli, cui potrebbe sommarsi il sì della prima presidente della Cassazione Margherita Cassano e del procuratore generale Luigi Salvato e dei tre laici di minoranza, e non è detto che i laici di centrodestra facciano scudo alla collega. Anche perchè, se la sospensione non passasse, sarebbe stato un modo di mettere in minoranza anche il comitato di presidenza e soprattutto l’implicita volontà del Colle. La contromossa di Natoli, invece, ha scongiurato per ora tutto questo. Ad oggi, il comitato di presidenza farà unicamente una relazione sul caso, senza ulteriori iniziative. Il dibattito che seguirà, tuttavia, sarà lo specchio di un clima molto deteriorato. Tutto sotto l’occhio del presidente Sergio Mattarella, che del Csm è presidente e che certamente non auspicava un rientro dalla pausa estiva - con i tanti dossier spinosi sul tavolo, a partire dal parere sulla riforma costituzionale della magistratura - all’insegna della spaccatura interna. La Consulta - L’altra data chiave, invece, è quella in cui il parlamento si riunirà per tentare di votare il nuovo giudice costituzionale e ricostituire dunque l’interezza del collegio della Corte costituzionale. In questo caso l’auspicio del presidente Mattarella era stato espresso in modo esplicito: alla cerimonia del Ventaglio di fine luglio, infatti, aveva richiamato all’urgenza di procedere all’elezione del nuovo giudice per evitare qualsiasi rischio di “vulnus alla Costituzione”. Lui stesso, del resto, si era affrettato a nominare immediatamente i due giudici di nomina presidenziale dopo il termine del novennato di Daria de Pretis e Nicolò Zanon. Per Silvana Sciarra, di nomina parlamentare e “pensionata” nella stessa data, le camere non si sono ancora decise. O meglio, nonostante cinque sessioni plenarie, un nome non ha ottenuto la maggioranza qualificata di due terzi per le prime tre votazioni e nemmeno di tre quinti per quelle successive. Anche in questo caso il punto rischia di essere politico: il centrodestra è deciso ad individuare un suo nome e per ora sono circolati quelli del costituzionalista autore della riforma del premierato Francesco Saverio Marini, che però è diventato collaboratore di fiducia del governo per le riforme e privarsene sarebbe un problema, e quello dell’ex presidente delle Camere penali Giandomenico Caiazza, lanciato dal deputato di Azione, Enrico Costa. In passato era emerso anche il nome della professoressa Ida Nicotra, moglie del laico del Csm Felice Giuffrè. Serve però in ogni caso l’appoggio dell’opposizione e fino ad ora non è stato trovato. Per questo il rischio è che - disattendendo gli auspici del Colle - la situazione possa sbloccarsi solo a dicembre, quando termineranno il mandato anche altri tre giudici di nomina parlamentare: Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti. Con quattro caselle da riempire, l’accordo con le opposizioni (cui potrebbe essere lasciata l’individuazione di un nome) sarebbe più semplice. Curioso, se si arrivasse a questo, è però constatare che questo sistema di nomine “a pacchetto” per un ruolo di alta responsabilità tecnico-giuridica per un’istituzione di garanzia sarebbe simile al meccanismo utilizzato anche dal Csm per le nomine direttive, poi censurato e abolito in seguito al caso Palamara. Sempre ragionando per ipotesi e se veramente entrambe le vicende di Consulta e Csm si prolungassero fino a dicembre, il “pacchetto” potrebbe diventare ancora più pesante. Se la vicenda Natoli si concludesse infine con le dimissioni, in palio ci sarebbe anche un posto vacante in consiglio, determinante per gli equilibri di maggioranza in seno all’organo di governo autonomo. Stop al copia-e-incolla delle ordinanze, Enrico Costa nel mirino della sinistra di Enrico Costa Il Dubbio, 8 settembre 2024 Non si placano le polemiche dopo che due giorni fa in Cdm è stata approvata la norma che cambia l’art 114 del codice penale, impedendo la pubblicazione anche solo di estratti delle ordinanze di custodia cautelare. Per Carlo Bartoli, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, “l’informazione per essere libera deve essere anche chiara e completa. Non è un privilegio dei giornalisti, ma un diritto costituzionale dei cittadini. Descrivere con precisione, citando i documenti, perché una persona viene arrestata non viola la presunzione di innocenza”. Molto critico anche il senatore Walter Verini, capogruppo Pd in commissione Antimafia e segretario della commissione Giustizia: “Nonostante ci sia chi - come il deputato Costa - si arrampica sugli specchi in nome di un principio fondamentale (la presunzione di innocenza, che però per l’ennesima volta viene usato strumentalmente), la sostanza è purtroppo molto chiara. Ed è che si assesta un colpo alla libertà di informazione, al diritto dei cittadini di essere informati”. Nella mattinata di ieri proprio il responsabile giustizia di Azione aveva replicato alle polemiche del giorno prima con due post su X. Il primo: “Nessun bavaglio, il contenuto degli atti sarà pubblicabile. Ma ad indagini aperte non saranno pubblicabili le ordinanze dalla A alla Z, centinaia di pagine piene di intercettazioni neanche ancora vagliate dal riesame che può annullarle. È rispetto della presunzione di innocenza”. E il secondo: “A proposito della mia proposta sulla pubblicazione delle ordinanze cautelari approvata ieri in Cdm. Avs: “deriva orbaniana”. M5S: “eutanasia della democrazia”. Pd: “ceffone a libertà di stampa”. # regionali2024”. Nel pomeriggio Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm, a Radio Popolare, ha detto: “Parlare di bavaglio non credo sia corretto perché la norma non vieta che si dia notizia di un’ordinanza di custodia cautelare e addirittura che se ne riassumano i contenuti”. Tuttavia, ha concluso il leader delle toghe, la norma “è irragionevole perché vieta la pubblicazione integrale dell’ordinanza e quindi va contro una corretta informazione perché ci si deve affidare in un campo molto tecnico ai riassunti di un giornalista che può sbagliare o essere incompleto”. Positivo, invece, il giudizio di Francesco Petrelli, presidente dell’Unione Camere Penali italiane, che parla di “un primo passo importante con il quale si ripristina un principio di diritto che era già presente nel nostro codice e che non incide affatto sul diritto di cronaca e di informazione, ma può al contrario certamente contribuire a limitare il fenomeno della gogna mediatica”. Per il presidente dell’Ucpi è “assurdo gridare allo scandalo perché il divieto di pubblicazione di atti giudiziari è connaturato al nostro sistema processuale ed è in vigore in maniera severa in molti altri paesi europei, in quanto funzionale sia alla tutela delle indagini che della presunzione di innocenza. Si tratta dunque di un condiviso principio di civiltà”. Caso Ciaccio. Da fedelissimo del superboss alla semilibertà: pm in rivolta Il Dubbio, 8 settembre 2024 Nel ricorso, si obietta che in passato il detenuto non sia mai riuscito a ottenere un permesso premio. Da uomo di fiducia di Matteo Messina Denaro, tanto da essere l’unico ad avere il numero di cellulare del boss, a bibliotecario del museo di Santa Chiara a Sulmona. Il Tribunale dell’Aquila ha concesso all’ergastolano Leonardo Ciaccio la misura alternativa alla detenzione di un “distacco”, in regime di semilibertà e a titolo di volontariato, nel polo museale abruzzese. Provvedimento al quale si è opposta la Procura generale aquilana, che ha chiesto alla Cassazione di annullare l’ordinanza. Nel ricorso, si obietta che in passato il detenuto non sia mai riuscito a ottenere un permesso premio, e che dunque è sorprendente il riconoscimento di un beneficio assai più consistente qual è la semilibertà. Si segnala inoltre, da parte dell’accusa, come Ciaccio non si sia mai “pentito”, non abbia mai collaborato con la giustizia, e che non lo si possa “premiare” solo per la condotta carceraria ineccepibile. Una vicenda emblematica delle resistenze che, anche da parte della magistratura, permangono rispetto ai principi affermati dalla Corte costituzionale con le pronunce degli scorsi anni, relative appunto al superamento della “collaborazione” quale condizione esclusiva per l’accesso dei detenuti di mafia ai benefici penitenziari. Pene sostitutive “patteggiate”, sì al divieto di avvicinamento anche se non è nell’accordo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2024 Il divieto di avvicinare la parte lesa discende dalla sostituzione della detenzione breve e dalla natura del reato. Non si tratta di una facoltà del giudice preclusa dal patteggiamento. Il giudice può inserire nel patteggiamento che preveda l’applicazione di una pena sostitutiva il divieto di avvicinamento alla parte lesa e anche se tale misura non è stata oggetto dell’accordo tra le parti. Ciò discende dall’obbligatoria previsione di divieti e obblighi per il condannato con pena sostitutiva. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 33860/2024 - ha respinto il ricorso del condannato che riteneva illegittima la sentenza del Gup che, oltre a comminare la pena sostitutiva concordata, aveva aggiunto la prescrizione del divieto di avvicinarsi alla vittima non contemplata dall’accordo. Riteneva il ricorso che tale prescrizione fosse solo facoltativa e che quindi vista l’immodificabilità dell’accordo raggiunto tra imputato e pubblico ministero il giudice avesse violato le regole del patteggiamento. La Cassazione ha respinto il ricorso sottolineando che tale divieto di avvicinamento non è facoltativo bensì connesso alla natura del reato sanzionato con una pena sostitutiva, in base all’articolo 56 ter della legge 689/1981. Il ricorrente aveva, in effetti, patteggiato la pena sostitutiva per i reati di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali aggravate. Appunto reati che per la loro natura impongono al giudice che applica una pena sostitutiva della detenzione breve di prevedere tale ulteriore divieto imposto a chi beneficia di una forma di espiazione della pena senza limitazioni drastiche della sua libertà personale. Quindi anche nel caso del patteggiamento le pene sostitutive della semilibertà, della detenzione domiciliare e del lavoro di pubblica utilità comportano, in ogni caso, le seguenti prescrizioni, obbligatorie in via generale in caso di pene sostitutive, come dettate dal comma 1 dell’articolo 56 ter della legge 689/1981: - il divieto di detenere e portare a qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi, anche se è stata concessa la relativa autorizzazione di polizia; - il divieto di frequentare abitualmente, senza giustificato motivo, pregiudicati o persone sottoposte a misure di sicurezza, a misure di prevenzione o comunque persone che espongano concretamente il condannato al rischio di commissione di reati, salvo si tratti di familiari o di altre persone conviventi stabilmente; - l’obbligo di permanere nell’ambito territoriale, di regola regionale, stabilito nel provvedimento che applica o dà esecuzione alla pena sostitutiva; - il ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell’espatrio di ogni altro documento equipollente; - l’obbligo di conservare, di portare con sé e di presentare a ogni richiesta degli organi di polizia il provvedimento che applica o dà esecuzione alla pena sostitutiva e l’eventuale provvedimento di modifica delle modalità di esecuzione della pena. Ma - precisa la Cassazione - che in base alla natura del reato commesso il giudice applica anche il divieto di avvicinamento alla vittima, previsto dal comma 2 della stessa norma, che letteralmente recita: “Al fine di prevenire la commissione di ulteriori reati, il giudice può altresì prescrivere il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”. Sicilia. Il Garante Consolo: “Assistenza sanitaria carente e il paradosso della rieducazione” di Samuele Arnone ilsicilia.it, 8 settembre 2024 Situazione degli istituti penitenziari siciliani: abbiamo parlato con Santi Consolo, Garante regionale per la tutela dei diritti dei detenuti. Le carceri siciliane, così come nel resto del Paese, vivono una situazione di emergenza strutturale e organizzativa. Lo evidenzia il dottor Santi Consolo, Garante per i detenuti in Sicilia, che descrive un quadro preoccupante, pur riconoscendo un dato positivo: il tasso di suicidi tra i detenuti siciliani è inferiore rispetto alla media nazionale, meno della metà rispetto alle altre regioni italiane. “La situazione è pressoché carente. L’unico dato positivo è che il numero dei suicidi, in proporzione alla popolazione detentiva, è nettamente inferiore a quello di altre regioni italiane” dichiara Consolo. Tuttavia, su altri fronti, la situazione è tutt’altro che incoraggiante. Uno dei principali problemi segnalati è il sovraffollamento degli istituti penitenziari. Questa criticità si riflette negativamente sulle condizioni di vita dei detenuti e sulle opportunità di rieducazione e reinserimento sociale, che - secondo Consolo - sono quasi inesistenti. “Viviamo un gravissimo paradosso della rieducazione”, afferma il Garante, sottolineando come il reinserimento sociale, in molti casi, sia più un mito che una realtà. A mancare, infatti, sono soprattutto le progettualità che possano dare una speranza concreta ai detenuti, attraverso percorsi trattamentali capaci di preparare a un ritorno alla vita civile. Un’altra criticità secondo Consolo, non riguarda solo i detenuti ma anche il personale penitenziario. “Anche se ci sono state nuove assunzioni, i giovani che intraprendono questo lavoro a mio avviso non sono adeguatamente formati per i difficili compiti che devono affrontare”. Le carenze riguardano anche gli stessi spazi fisici delle carceri, che risultano inadatti a garantire condizioni dignitose sia per i detenuti che per chi vi lavora. Sul fronte legislativo, il dottor Consolo ha espresso opinioni già in passato favorevoli a misure come la liberazione anticipata, allargata, proposta dal decreto Nordio. Tuttavia, il Garante sottolinea come le risposte delle istituzioni siano tardive e insufficienti, spesso rinviate di mesi o addirittura di anni. “Questo significa che nell’immediato non ci sono risposte, che i suicidi nelle carceri continuano a essere sempre più frequenti, come pure morti per altre cause non del tutto accertate, ma intuibili, come per esempio la carenza di assistenza sanitaria, che determinano una situazione particolarmente grave”, sottolinea Consolo, richiamando l’attenzione sull’aumento dei suicidi e delle morti per cause non accertate, molte delle quali riconducibili alla carenza di assistenza sanitaria. Il quadro complessivo che emerge dalle carceri siciliane è dunque quello di un sistema in profonda crisi, in cui la mancanza di interventi immediati e strutturali rischia di trasformare i luoghi di detenzione in vere e proprie trappole senza speranza per chi vi è recluso. La sicurezza, afferma Consolo, non può essere garantita senza un concreto impegno nel promuovere il reinserimento sociale, che resta uno degli obiettivi più disattesi dell’intero sistema penitenziario. Calabria. L’appello di Corbelli (Diritti Civili): “Situazione nelle carceri? Penosa, s’intervenga” Gazzetta del Sud, 8 settembre 2024 Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, da 30 anni impegnato sul dramma delle carceri, interviene su “questa tragica emergenza delle prigioni che continua purtroppo a far registrare ogni anno un numero impressionante di suicidi e situazioni di grave disagio, in tanti casi particolarmente grave, disumana e inaccettabile. Basta far parlare i numeri per avere un’idea del quadro allarmante che si registra in tutto il Paese, compresa la Calabria. In Italia a fine luglio 2024 risultano 14.500 detenuti oltre i posti disponibili, 18mila unità mancanti alla Polizia penitenziaria, 70 suicidi fra i detenuti e 7 fra gli agenti. Questo, ripeto, solo nel 2024. Anche in Calabria la situazione negli istituti di pena è preoccupante, accanto al vecchio, irrisolto, problema del sovraffollamento e della carenza di personale di polizia penitenziaria, anche nella nostra regione si verifica la tragedia dei sucidi in cella. Anche in questo caso basta guardare le cifre ufficiali calabresi a fine luglio 2024. Istituti di pena sovraffollati dove, nei primi sei mesi di quest’anno si sono registrati oltre 5.300 “eventi critici”, tra cui 3 suicidi, 80 tentati suicidi, 225 atti di autolesionismo e 75 aggressioni ad agenti penitenziari. Accanto a queste situazioni emergenziali c’è poi la disumanità dei bambini in cella con le loro giovani mamme detenute, per la cui cancellazione ho iniziato a lottare, con il Movimento Diritti Civili, 30 anni fa, con le prime manifestazioni a Napoli, insieme agli amici e compagni radicali, davanti al vecchio Tribunale di Castelcapuano e a Poggioreale, riuscendo dopo anni di lotte, a Roma e in giro per l’Italia, a far approvare, nel 2006, una prima legge che escludeva la detenzione per le giovani donne con bambini piccoli da assistere, prevedendo forme alternative al carcere. Legge, poi, in seguito, ripresa, ripresentata, ma ad oggi ancora purtroppo disattesa. Sono stati tanti i bambini che ho tolto dal carcere insieme alle loro giovani mamme, il caso sicuramente più noto è quello del piccolo Cocò Campolongo, il bambino di 3 anni di Cassano, ucciso e bruciato nel gennaio 2014 insieme al nonno e ad una donna marocchina che un anno prima, alla vigilia di Natale del 2012, ero riuscito, insieme al suo avvocato, a far uscire, insieme alla sua giovane mamma reclusa, dalla casa circondariale di Castrovillari. Ma sono tanti altri i bambini così come i detenuti, uomini, ragazzi e giovani donne, che ho fatto scarcerare: sono decine di persone di ben tre diversi Continenti (Europa, Africa e Asia) le cui storie vengono tutte raccontate e documentate sul nostro sito www.diritticivili.it. e che hanno visto La Gazzetta del Sud in tantissime occasioni al nostro fianco. Ad iniziare da quella che ha avuto una grande attenzione mediatica nazionale (e anche all’estero), della giovane, innocente nigeriana Kate Omoregbe, detenuta in Calabria, che, nel settembre 2011, facendola scarcerare e rimanere in Italia, grazie alla nostra mobilitazione straordinaria che, sul web, raccolse oltre 12.500 firme-adesioni da tutto il mondo, che vennero poi da noi recapitate al presidente della Repubblica (Napolitano), abbiamo evitato che venisse estradata e condannata alla lapidazione nel suo Paese, da dove era fuggita per sottrarsi ad un matrimonio combinato con una persona anziana e per non essersi convertita all’Islam, lei cattolica. Guardando la situazione di oggi devo dire, con amarezza e delusione, che non è purtroppo cambiato nulla, rispetto a 30 anni fa quando iniziavo le prime battaglie sul dramma delle carceri in Italia. Al di là dei decreti del governo sulle carceri, e delle polemiche strumentali, su cui non voglio entrare, per affrontare l’emergenza delle prigioni ci vuole innanzitutto più umanità, considerando caso per caso tutti i drammi che ogni detenuto vive in una cella, in condizioni, ripeto, spesso disumane. Va quindi sempre rispettata la dignità della persona umana, di tutti i reclusi, nessuno escluso. Bisogna ancora che si liberino tutti quei detenuti, socialmente non pericolosi, che hanno un residuo pena di qualche anno da scontare. Bisogna naturalmente partire dai bambini che vanno subito tutti fatti uscire dalla cella insieme alle loro mamme, cancellando così definitivamente questa vergogna e crudeltà. Non serve costruire più carceri ma utilizzare quelli che ci sono solo per casi particolarmente gravi e inevitabili. Non arrestare invece persone e riempire le celle, ammassandovi i detenuti, anche per condanne che si potrebbero far scontare, nel rispetto della legge e sotto controllo, fuori dagli istituti di pena. Insieme a questo vanno naturalmente considerate tutte le esigenze del personale di polizia penitenziaria. Questo, che è un elementare fatto di civiltà, è quello che serve al Paese, per superare l’emergenza carceri”. Milano. Morto carbonizzato a San Vittore. Domani parla il compagno di cella di Andrea Gianni Il Giorno, 8 settembre 2024 Youssef Barsom, arrestato per la rapina di una collanina, sarebbe tornato libero la prossima settimana. Secondo la prima ricostruzione il suo gesto era una forma di protesta contro il sovraffollamento dell’istituto. Sarà sentito già domani il compagno di cella di Youssef Barsom deceduto per un incendio la cui dinamica è ancora da chiarire. L’incendio è divampato, quasi sicuramente da un materasso, nella stanza che Youssef Mokhtar Loka Barsom, il 18enne di origini egiziane, condivideva con l’altro detenuto, che è riuscito a salvarsi ed è ora indagato. Solo lui potrà aiutare a capire cosa è veramente successo. Forse le fiamme sono state innescate dai due detenuti per protesta o forse per un tragico incidente: la dinamica esatta - che presuppone anzitutto il capire come un accendino possa essere finito in cella - deve ancora essere chiarita dai pm che hanno aperto un’indagine conoscitiva. Intanto in queste ore sembra ormai chiaro che Youssef che soffriva di gravi disturbi della personalità e non avrebbe dovuto stare in una cella senza sorveglianza non si sia suicidato. Si tratta di una tragedia di cui si dovranno accertare bene i contorni. Secondo le prime ricostruzioni, il rogo si sarebbe sviluppato intorno alla mezzanotte tra giovedì 5 e venerdì 6 settembre. Ad appiccare l’incendio sarebbe stato il 18enne, nato in Egitto il 5 febbraio 2006, insieme al suo compagno di cella. Un gesto non raro, che solitamente viene compiuto in segno di protesta. E che stavolta potrebbe essere stato un boomerang per i detenuti, devastati dalle fiamme. Gli agenti della polizia penitenziaria intervenuti sono riusciti però a mettere in salvo solamente il compagno di cella della vittima, che ha riportato una lieve intossicazione: non c’è stato invece nulla da fare per Youssef, rimasto intrappolato nel rogo e ritrovato ormai carbonizzato. Il 18enne era in carcere per la rapina di una catenina davanti alla stazione Centrale. L’avvocata che lo difendeva Monica Bonessa aveva ottenuto la fissazione urgente dell’udienza per la prossima settimana. Con molta probabilità la settimana prossima Youssef Moktar Lota Baron avrebbe potuto uscire dal carcere. “Era arrivato dall’Egitto passando per un campo di concentramento in Libia, a 15 anni lo avevano trovato legato mani e piedi nel bagno del barcone. Dalle comunità scappava e viveva in strada, aveva reazioni violente per i suoi traumi pregressi, e non sapeva né leggere né scrivere. Una volta lo avevano accoltellato”. Milano. “Youssef era stato in un campo di concentramento in Libia” di Giorgia Venturini fanpage.it, 8 settembre 2024 L’avvocata che difendeva il 18enne morto carbonizzato in carcere a Milano aveva ottenuto la fissazione urgente dell’udienza per la prossima settimana. Youssef Moktar Lota Baron è il ragazzo 18enne morto al carcere di San Vittore a Milano avvolto dalle fiamme. Qui ci era entrato dopo essere stato ritenuto responsabile dello scippo di una collanina a una signora davanti alla Stazione Centrale. Era in attesa di processo. Non era la prima volta che si trovava davanti a un giudice: sempre per rapina si era occupato il Tribunale dei Minori ma in più volte era stato riconosciuto il totale vizio di mente e questa perizia lo rendeva inconciliabile con la vita del carcere. Da allora era finito in cinque diverse comunità. L’avvocata che lo difendeva, Monica Bonessa, aveva ottenuto la fissazione urgente dell’udienza per la prossima settimana. Questo vuol dire che settimana prossima Youssef Moktar Lota Baron poteva avrebbe potuto uscire dal carcere. La tragedia è avvenuta a mezzanotte di giovedì: Youssef si trovava nel bagno della cella e ha dato fuoco a un materasso. Il compagno di cella ha subito gridato richiamando l’attenzione degli agenti della polizia penitenziaria. Gli agenti sono subito riusciti a mettere in salvo il compagno di cella ma per Youssef era ormai troppo tardi: purtroppo è rimasto intrappolato e quando gli agenti hanno spento le fiamme con gli estintori purtroppo non c’è stato più nulla da fare. Ora i famigliari della vittima si chiedono come ha fatto ad avere un accendino in mano in cella. Milano. Comunità di Sant’Egidio: “Non possiamo permetterci di perdere altri Youssef” agensir.it, 8 settembre 2024 La Comunità di Sant’Egidio di Milano esprime “profondo dolore” davanti alla morte di Youssef Mokhtar Loka Barsom, ragazzo diciottenne che nella notte tra il 5 e il 6 settembre ha perso tragicamente la vita nell’incendio scoppiato nella cella in cui era detenuto nel carcere di San Vittore a Milano. “La sua morte è un grido di dolore non isolato che emerge dalle carceri italiane, una evidenza che è impossibile non ascoltare e una denuncia drammatica rivolta all’intero Paese per le condizioni che molti uomini e donne stanno vivendo”, dice la Comunità di Sant’Egidio di Milano, che denuncia tutto quello che aggrava la situazione in cui versano le carceri. “Sovraffollamento oltre ogni limite accettabile, chiusure dei detenuti nelle celle invece che sorveglianza diffusa, dilagante disagio psichiatrico come causa ed effetto delle condizioni penose, uso e abuso spregiudicato di psicofarmaci, carenza cronica di personale della polizia penitenziaria che soffre anche di inadeguata formazione a fronte dei mutamenti della popolazione carceraria, ambienti inadatti e squallidi come quelli di San Vittore e di altre carceri italiane, scarsità di occasioni educative e percorsi lavorativi soprattutto nella delicata fase della scarcerazione per tutte le detenute e i detenuti”. Sono, osserva la Comunità di Sant’Egidio di Milano, “alcuni dei mali cronici del sistema detentivo in Italia che producono solo disperazione, non senso della vita, sfiducia nel futuro, discriminazione, dolore e rabbia. Sentimenti che non possono che esacerbare la vita di chi è detenuto, pregiudicare le scelte di chi torna a vivere nella società dopo il carcere e accrescere la distanza tra carcere e società”. “La sofferenza psichica che ha ingabbiato la giovane vita di Youssef, simile a quella di tanti altri detenuti di cui la Comunità si occupa, si è intrecciata a quella provocata da condizioni penose di vita, che non dovrebbero avere a che fare con la detenzione”, precisa la Comunità di Sant’Egidio di Milano, che lancia un appello: “Il dolore per la morte di un ragazzo non può rimanere un sussulto momentaneo o un moto passeggero di sdegno. Chiediamo con forza che questa tragica vicenda segni un cambio di passo nella consapevolezza e di responsabilità, un impegno fattivo delle tante componenti sociali che possono interagire con il carcere, ma soprattutto generi velocemente azioni decisive ed efficaci di sistema. Lo chiediamo con forza alle istituzioni competenti perché non possiamo permetterci di perdere altri Youssef, perché il livello di civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri”. Milano. Supporto psicologico inesistente e sopralluoghi già decisi, le carceri viste dall’esperta adnkronos.com, 8 settembre 2024 Il bilancio delle morti in carcere non si ferma. Nella notte tra giovedì e venerdì l’ennesima vittima, un 18enne morto carbonizzato dopo aver appiccato fuoco ad un materasso. Un problema esacerbato dalle condizioni in cui versano gli istituti penitenziari italiani: nel carcere di San Vittore il tasso di sovraffollamento ha sforato il 247%. Nella struttura sono rinchiusi 1.100 detenuti, ma i posti disponibili sono solamente 445. E sono pochi anche gli agenti di polizia penitenziaria: 580 quando ne servirebbero almeno 700. “Ci sono troppe persone nella stessa cella e poco staff per seguire con un percorso strutturato i detenuti. Manca lo spazio vitale - dice all’Adnkronos Valeria Imbrogno, psicologa che lavora nelle carceri milanesi - Già solamente avere una cella singola cambia totalmente la qualità di vita di un detenuto”. Molti detenuti a San Vittore sono in transito e in attesa di giudizio. Si tratta spesso di indigenti provenienti da un percorso di vita per il quale si sono ritrovati a rubare per sopravvivere. “Casi di persone che potrebbero benissimo essere seguite da servizi sociali, piuttosto che da agenti di rete con strutture sociali che li supportano. Già aiuterebbe contro il sovraffollamento” aggiunge Imbrogno. Le condizioni all’interno degli istituti penali italiani sono dure, sopportarle senza avere ripercussioni psicologiche è un caso più unico che raro. Servirebbe un adeguato supporto psicologico che segua i detenuti, anche per riabilitarli e permettere il loro reinserimento come individui utili alla società. Ma la psicologa è netta: “Il supporto psicologico che viene dato in carcere è quasi inesistente”. L’esperto è chiamato a rispondere al magistrato di sorveglianza, a cercare di esplicitare la personalità del detenuto per l’ottenimento di eventuali permessi che ne permettano la riabilitazione, ma è un lavoro svolto da pochissimi. “Per il numero di detenuti per cui siamo tenuti a scrivere una relazione, riusciamo a vedere il singolo massimo una o due volte al mese, assolutamente insufficiente per fornire un supporto psicologico adeguato”, spiega. Andrebbero poi cambiate anche le modalità con cui vengono svolti i sopralluoghi. È un metodo che funziona quando la struttura non viene avvisata: “I sopralluoghi andrebbero fatti senza avvisare le carceri, così da vedere la vera funzionalità - sostiene Imbrogno. Ci sono situazioni dove le cose funzionano bene, ma altre no, e se vengono allertate dei sopralluoghi perde tutto di senso”. “Riferire su quale sia lo stato di salute nelle carceri andrebbe fatto in maniera più improvvisa, senza avvisi precedenti. Ecco perché poi sono state fatte diffide anche dall’associazione Luca Coscioni”, conclude l’esperta che ne fa parte. Trieste. Negli Uffici di Sorveglianza un solo magistrato lavora per tre di Giovanna Augusta de’ Manzano* triesteprima.it, 8 settembre 2024 Il decreto “Carceri” del luglio scorso, ora convertito in legge, ha come obiettivo l’“umanizzazione carceraria” e dice di voler intervenire su più fronti, tra cui: l’alternativa della pena in Comunità per accogliere alcune tipologie di detenuti (per esempio per quelli senza domicilio ove poter scontare la detenzione domiciliare); l’assunzione di personale di Polizia penitenziaria (mille unità entro il 2026); la semplificazione e la velocizzazione delle procedure per concedere la liberazione anticipata; infine un aumento delle telefonate per i detenuti. Ciò detto, gli Uffici di Sorveglianza, non solo in Regione, sono al collasso e lì rimangono anche post decreto. Spiega l’avvocato Elisabetta Burla, Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti, che - insieme ad altri- si è impegnata in prima persona per mediare la recente rivolta presso la Casa Circondariale di Trieste: “Gli uffici di Sorveglianza in Regione registrano un’importante carenza di organico, prima fra tutti quella dei Magistrati; sia a Trieste che a Udine l’organico previsto è di tre Magistrati per ciascuna sede. A Trieste, dopo il pensionamento del Presidente dott. Pavarin e della dott.ssa Bigattin è rimasto un unico magistrato, la dott.ssa Putrino, che ha funzioni anche di Presidente del Tribunale di Sorveglianza”. Se si considera che nel carcere di Trieste ci sono circa 250 detenuti (la capienza massima sarebbe di 150), dire che l’unico Magistrato in servizio si sta crocefiggendo di lavoro è dir poco; e il decreto Nordio non ha preso in considerazione neppure tale non secondario problema di carenza di magistrati, non solo regionale. Continua l’avvocato Burla: “ A Udine le cose non vanno molto meglio perché in questi giorni è andata in pensione uno dei Magistrati: su sei previsti in pianta organica regionale ne rimangono solo tre. Neppure sul fronte amministrativo le cose vanno meglio; per fare un esempio gli assistenti giudiziari presenti presso l’Ufficio di Sorveglianza di Trieste sono due su tre; dal 14 agosto 2024 (con il pensionamento di una delle colonne dell’Ufficio) ne è rimasto uno solo e a marzo 2025 neppure uno; il Direttore dell’Ufficio di Sorveglianza di Trieste è applicato anche a quello di Udine, seppur da remoto, e ciò a seguito del trasferimento dell’unico Direttore di servizio lì presente. Si consideri anche che l’ufficio di sorveglianza di Udine ha in carico le province di Udine, Gorizia, Pordenone dove oltre alle tre case circondariali delle province insiste anche l’Istituto di Tolmezzo”. E per non farci mancare nulla ricordiamo il dramma dagli spandimenti e infiltrazioni nell’immobile ove ha sede l’Ufficio di Sorveglianza, che a Trieste hanno reso inservibili e insalubri alcune stanze così da costringere gli operatori a lavorare in spazi angusti, cunicoli o condividere gli spazi residui con tutto il carico di fascicoli e istruttorie. Per umanizzare la condizione carceraria è inutile un esiguo aumento delle telefonate (da 4 a 6 al mese ciascuna di 10 minuti) o un’assunzione di - sole - mille unità di personale di Polizia Penitenziaria in due anni, con un decreto estivo utile solo a stupire l’opinione pubblica, scossa anche dalle recenti vicende di Trieste, ma non solo, visto che il numero di suicidi in carcere da inizio anno ad oggi -agosto- è di 64, quasi lo stesso numero registrato in tutto (lo si ripete: tutto) l’arco del 2023. Buon punto di partenza, anche per evitare rivolte e suicidi, sarebbe una seria implementazione dell’organico di magistratura e di amministrazione, quanto meno affinché le domande di misure alternative alla detenzione abbiano una risposta veloce, visto che -per quanto riguarda Trieste- c’è un solo Magistrato costretto a lavorare per tre e, finito il lavoro, come se non bastasse deve pure sedare le rivolte. *Avvocato Cosenza. Il carcere “Sergio Cosmai” soffre: sessantasette detenuti di troppo di Domenico Marino Gazzetta del Sud, 8 settembre 2024 Lo denuncia il garante regionale, Luca Muglia, che visiterà il penitenziario. In appena 6 mesi 30 scioperi della fame, 24 atti d’autolesionismo, 3 tentati suicidi e 11 aggressioni fisiche alla Polizia penitenziaria. Al fianco e a tutela dei reclusi. Il garante regionale dei diritti delle persone detenute, Luca Muglia, racconta la visita che durante la prossima settimana farà assieme alla Camera penale, all’Ordine degli avvocati ai garanti provinciale e comunale Francesco Cosentini e Francesco Terranova nel carcere cittadino dedicato alla memoria di Sergio Cosmai. Sono in troppi - L’iniziativa arriva un mese dopo la relazione semestrale del garante regionale sulla salute delle carceri calabresi nella quale, tra l’altro, denunciava “le criticità del sistema penitenziario calabrese”, legate anzitutto al sovraffollamento in “dieci istituti su dodici”, stigmatizzava l’avvocato Muglia, con picchi elevati proprio a Cosenza oltre che a Locri, Castrovillari, Crotone e Reggio San Pietro”. Il garante parlava inoltre del le condizioni strutturali delle carceri, “datate nel tempo, umide e prive di manutenzione; l’inadeguatezza di diverse camere detentive (talune con schermature opache in plexiglass alle finestre o prive di docce); le gravi carenze di organico”. Va sempre peggio - L’avvocato Muglia ricorda che nella relazione semestrale “vengono illustrate le condizioni di detenzione e lo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e negli altri luoghi di privazione della libertà personale ubicati in Calabria. Il testo, che riporta dati aggiornati al 31 luglio 2024, evidenzia un palese aggravamento del quadro generale. Per quanto riguarda la casa circondariale di Cosenza si registra un progressivo sovraffollamento, con 67 detenuti in più rispetto ai posti regolamentari, e una carenza di organico della Polizia penitenziaria pari a 42 unità. Si aggiunga l’assenza del mediatore culturale, nonostante i cinquanta detenuti stranieri, e la presenza di diverse camere detentive con schermature opache alle finestre che ostacolano l’ingresso di luce ed aria”. Dati inquietanti - Per comprendere la gravità della situazione basti pensare che nel periodo che va dal 1° gennaio al 12 giugno 2024 a Cosenza si sono registrati 30 casi di sciopero della fame, 24 atti di autolesionismo, 3 tentati suicidi e 11 aggressioni fisiche al personale di Polizia penitenziaria. A completare il quadro le difficoltà dell’Area sanitaria, acuite dal fatto che sono stati trasferiti presso il carcere di Cosenza molti detenuti con psicopatologie essendo uno dei pochi istituti in cui è presente la figura dello psichiatra. Ebbene, quale percorso rieducativo potrà mai attuarsi in tali condizioni? Capite bene che, in assenza di interventi sostanziali, i rischi saranno sempre più alti”, sigilla Muglia. Siracusa. Rivoluzione sanitaria nelle carceri: arrivano nuovi specialisti e attrezzature blogsicilia.it, 8 settembre 2024 Entro il prossimo mese di ottobre gli Istituti penitenziari della provincia di Siracusa avranno più medici specialisti incaricati per le branche maggiormente richieste mentre gli ambulatori saranno dotati di nuovi arredi, attrezzature e presìdi sanitari. Il direttore generale dell’Asp di Siracusa Alessandro Caltagirone, nel rispetto dell’impegno assunto dopo la visita all’ambulatorio sanitario del Carcere di Cavadonna, ha disposto, attraverso gli Uffici competenti, l’effettuazione di una attenta ricognizione di tutti gli ambulatori sanitari degli Istituti penitenziari della provincia di Siracusa per verificarne le condizioni dei locali, il personale sanitario, servizi e apparecchiature in dotazione ed ha dato mandato al Provveditorato di predisporre un planning di acquisti, secondo le esigenze riscontrate, le cui gare sono già alla fase dell’aggiudicazione. Potenziamento dell’assistenza specialistica - “Inoltre, con il direttore dell’Unità operativa Cure Primarie Lorenzo Spina - evidenzia il direttore generale Alessandro Caltagirone - ho definito, per una più adeguata e soddisfacente assistenza specialistica della popolazione carceraria, la pubblicazione nel terzo trimestre di ulteriori ore, ad integrazione di quanto effettuato nei mesi scorsi, finalizzate al potenziamento dell’offerta sanitaria specialistica in tutti gli Istituti penitenziari, che tenga conto delle branche più richieste e maggiormente carenti”. Investimenti in nuove apparecchiature e arredi - Corposo il planning degli acquisti che è stato predisposto per una spesa complessiva di oltre 120 mila euro, per dotare gli Istituti penitenziari di nuove apparecchiature per l’Oftalmologia, per la Dermatologia e per l’Odontoiatria, che si aggiungeranno alla poltrona odontoiatrica già installata e collaudata nei giorni scorsi nel Carcere di Cavadonna, apparecchiature generiche di primo intervento, ausili medici generici, materiale generico e arredi per un completo restyling degli ambulatori. Incremento delle ore di specialistica ambulatoriale - Relativamente alle ore di specialistica ambulatoriale, per una migliore e più adeguata assistenza sanitaria ai detenuti, dopo il conferimento degli incarichi avvenuto lo scorso mese di marzo a 13 medici che avevano risposto al bando per l’assistenza sanitaria dedicata e alle ore di specialistica assegnate nel secondo trimestre di quest’anno, il direttore generale ha disposto la programmazione dell’incremento delle ore di specialistica attraverso la creazione di un pacchetto complessivo assistenziale che tenesse conto di tutti gli Istituti penitenziari di Siracusa, Augusta e Noto e non delle singole strutture, composto da 10 ore di Malattie infettive, 4 di Dermatologia, 6 ore di Cardiologia, 7 di Odontoiatria, 6 di Urologia, 6 di Oculistica, 6 di Diabetologia. Si è così predisposto il passaggio dalle attuali 17 ore complessive, ridotte rispetto al passato a causa di diverse rinunce da parte di medici incaricati, a 45 ore di assistenza specialistica, con l’introduzione della branca di Dermatologia. L’aumento delle ore così programmato sarà oggetto di pubblicazione nell’avviso del terzo trimestre 2024 entro il 15 settembre. Nuovo metodo di assegnazione degli incarichi - “Con questo nuovo metodo dell’assegnazione degli incarichi senza distinzione di destinazione - puntualizza il direttore generale - anziché affidare ore di specialistica specificatamente per ogni struttura, ho voluto prevedere per la medicina penitenziaria un pacchetto di assegnazioni complessivo, per consentire ai medici specialisti incaricati di potere svolgere la propria attività di assistenza ambulatoriale indifferentemente in tutti gli Istituti penitenziari della provincia, laddove si presenti maggiormente l’esigenza”. Lo strategico vittimismo dei potenti crea una società più diffidente di Letizia Pezzali* Il Domani, 8 settembre 2024 Oggi non mi servono aneddoti, perché tanto di storielle ne abbiamo a bizzeffe. Penso che tutti possiamo capire di cosa parliamo quando parliamo di vittimismo in politica. Un sottoinsieme particolarmente fastidioso del vittimismo in politica è il vittimismo di potere: si verifica quando chi si trova in cima assume la posa del martire. Non è raro osservare individui o gruppi che detengono un potere significativo e che assumono atteggiamenti o linguaggi tipici dell’autocommiserazione. A prima vista, la combinazione appare contraddittoria: come può una persona o un gruppo di potere presentarsi in quel modo? Eppure avviene. Lo sappiamo fin dalla scuola media: il bullo che piange. Solo che le istituzioni democratiche non dovrebbero essere la scuola media. Il potere è di solito definito come la capacità di influenzare e controllare risultati, decisioni e comportamenti, mentre la posizione della vittima implica mancanza di controllo, sofferenza e oppressione. Il secondo concetto invoca empatia, oltre a fornire una naturale superiorità morale e a determinare una relativa protezione dalle critiche. Quando queste due posizioni si combinano, il soggetto sta tentando esercitare il proprio potere in maniera in realtà piuttosto estesa e massiccia. Il vittimismo, in questo caso, non è rivolto per forza a una vera oppressione, ma si fonda sulla percezione (vera o recitata) di essere minacciati o danneggiati. Le persone di potere possono interpretare dei cambiamenti nelle norme sociali o nel panorama politico come sfide alla loro supremazia, e presentare tali sfide come ingiustizie subite. Questo consente di mantenere il controllo, assumendo al contempo una legittimazione morale. Perché funziona - Ci sono diverse ragioni strategiche per cui entità di potere possono adottare una postura vittimistica. L’ottenimento dell’immunità morale e la deviazione del biasimo è uno dei principali vantaggi. Chi è percepito come vittima viene trattato con maggiore indulgenza, poiché le sue azioni sono viste come difensive anziché offensive. Si crea l’impressione che il dissenso sia ingiustificato o addirittura oppressivo. Si promuove l’idea che chi si oppone al potere è, sotto sotto, il vero carnefice. Aziende o politici sotto esame per decisioni controverse possono adottare una retorica che li dipinge come bersagli attaccati ingiustamente. La “vittima” diventa un difensore dei valori fondamentali e della libertà. La postura vittimistica tende poi a provocare una mobilitazione di sostegno. Può suscitare forti risposte emotive: compassione, sgomento o indignazione. Il potere può sfruttare queste emozioni per rafforzare il consenso. Il fenomeno è evidente nella politica populista, dove i leader che già posseggono una notevole influenza si presentano come assediati dalle élite, dai media, da organismi internazionali. Assumendo il ruolo di oppressi, consolidano il loro elettorato, dipingendosi come campioni non solo del popolo, ma anche delle emozioni comuni, contro le ingiustizie perpetrate da un non meglio precisato establishment dal cuore di pietra. In casi estremi, il vittimismo può arrivare a legittimare azioni aggressive. Se la “vittima” riesce a convincere di trovarsi sotto minaccia, le sue azioni prepotenti possono essere percepite come inevitabili. La tattica è comune nelle relazioni internazionali: l’atto di giustificare azioni militari presentandosi come vulnerabili o assediati. Adottare una narrativa vittimistica può essere anche uno strumento per deviare l’attenzione dalla realtà. Questo avviene spesso negli scandali aziendali, dove le società si presentano come perseguitate dalla regolamentazione o dai concorrenti troppo aggressivi. La strategia del vittimismo di potere come ovvio comporta dei rischi. A parte il caso in cui si ritorca contro chi l’ha adottata, c’è il fatto che la strategia promuove una visione conflittuale delle relazioni sociali e politiche. Se entrambe le parti di una disputa si presentano come vittime, diventa difficile avviare un dialogo e trovare compromessi. Il vittimismo uccide le negoziazioni. Nel lungo termine questo atteggiamento del potere modifica la società nel suo complesso. L’uso ripetuto della strategia appena descritta si traduce via via in una cultura della diffidenza. La ricerca del consenso democratico viene sostituita dalla lotta per la supremazia morale. In tal senso, la manipolazione vittimistica può trasformare le istituzioni in arene di ostilità pressoché ininterrotta. *Scrittrice La solitudine dei giovani abbandonati dalle istituzioni di Nicoletta Verna La Stampa, 8 settembre 2024 Fra i moltissimi motivi per cui la strage di Paderno Dugnano ci atterrisce c’è l’assenza completa di un movente. L’omicida, leggiamo sulle cronache, era un ragazzo tranquillo, normale, quieto. Ci sgomenta allora l’impossibilità di penetrare l’immenso abisso dell’animo umano: la solitudine, la disperazione, il terrore, il senso di assurdo sono condizioni endemiche della vita, ma quando esplodono in completa assenza di qualunque segnale o presagio destabilizzano. Gli psicologi e gli esperti, però, dichiarano (probabilmente a ragione) che in questo e in altri casi simili i segnali senz’altro c’erano, ma che non sono stati raccolti o riconosciuti. Cambiamo storia. Nella notte fra giovedì e venerdì un ragazzo di 18 anni, Youssef Moktar Loka Barsom, ha perso la vita in un incendio nel carcere di San Vittore. Youssef era stato recluso a luglio per una rapina in strada, però in carcere non doveva esserci. Era infatti stato assolto da un precedente reato per vizio totale di mente, sulla base di una perizia psichiatrica, e destinato a una comunità terapeutica. Ma nelle comunità terapeutiche posto non ce n’era, così è finito in lista d’attesa e, infine, nel carcere di San Vittore, uno dei più sovraffollati d’Italia, con un altissimo numero di suicidi e spazi limitati e spesso fatiscenti: forse, non il luogo migliore per gestire una fragilità mentale. Nel caso di Youssef, dunque, i segnali c’erano, forti e inequivocabili. “Segnale” deriva da “segno”, che in semiotica (la disciplina che studia la capacità del segno di dare la possibilità a chi interpreta di comprenderne il contenuto) è definito come “qualcosa che sta per qualcos’altro, a qualcuno in qualche modo”. Il segno esiste in virtù di qualcos’altro, e come indica qualunque teoria della comunicazione, si rivolge sempre a un ricevente. Il concetto di segnale senza ricevente, ovvero senza il soggetto che lo accoglie e codifica, perde la sua ragione d’essere: un segnale stradale senza automobilisti, un segnale telefonico sena nessuno che risponde. Il segnale, anche nel senso di “indizio”, “prodigio”, “manifestazione di volontà”, deve arrivare in assenza di “rumore”. Il rumore è qualsiasi interferenza che causa una distorsione del segnale, e può intervenire in qualunque fase del processo. A livello del destinatario, avviene quando non vi è disponibilità di qualunque natura (fisica, psicologica, ambientale) a decodificare il segnale. Negli ultimi anni nel nostro Paese l’insieme dei disturbi mentali è aumentato del 30 per cento, e la problematica è legata soprattutto ai giovani pazienti. Eppure, le strutture e i soggetti che dovrebbero accogliere e diagnosticare questi disturbi sono sempre più scarsi, poveri, sguarniti. L’ambito della salute mentale è forse quello dove più drastico è lo squilibrio tra fabbisogno e offerta. Il nostro Paese destina alla salute mentale un ottavo di quanto allocano Francia e Germania, un quinto del Regno Unito e molto meno di Spagna e Portogallo. È tristemente ovvio, allora, che i segnali quando ci sono cadano nel vuoto o non possano essere accolti. La strage di Paderno, la morte di Youssef e moltissimi altri casi che rubrichiamo come assurdi e imprevedibili, allora, sono diversi ma forse legati da un filo rosso, che è la solitudine. Solitudine come abbandono, ma anche come ricerca di una risposta che non c’è, o non può essere data da parte di chi dovrebbe o potrebbe. Il neuropsichiatra Ugo Sabatello: “I ragazzi passano alla violenza senza sapere ciò che fanno” di Franco Giubilei La Stampa, 8 settembre 2024 “Situazione peggiorata con la pandemia. Manca la percezione del reale. Troppi gli stimoli da internet” afferma il docente di Psicopatologia forense dell’età evolutiva alla Sapienza a Roma. “Troppo presto per entrare nel merito dell’ultimo caso di Macerata, ma che ci sia un aumento esponenziale di atti aggressivi e omicidi da parte degli adolescenti è un dato di fatto”. Ugo Sabatello, di formazione neuropsichiatra infantile, è docente di Psicopatologia forense dell’età evolutiva alla Sapienza a Roma. A proposito della serie di delitti compiuti da ragazzi contro genitori o coetanei chiama in causa un elemento: “Si tratta di atti impulsivi terribili, tutti diversi ma accomunati da una sorta di sospensione del pensiero e dal fatto che gli autori si rendano conto della gravità di ciò che hanno compiuto solo dopo. Passano alla violenza senza realizzare veramente quello che fanno”. Da quando avete osservato un peggioramento della situazione? “Ci sono stati cambiamenti importanti rispetto al periodo precedente alla pandemia, con aumento notevole dei casi di autolesionismo, tentativi di suicidio, disturbi alimentari e disforie di genere. Nel 2021 al Policlinico Umberto I di Roma le segnalazioni di psicopatologie psichiatriche fra i minorenni risultavano in aumento dell’88%, una tendenza che non si è esaurita. Poi il Covid è passato, ma non il malessere”. Ma perché i gesti violenti, anche estremi, aumentano? “I fattori sono molteplici, di ordine culturale, sociale, psicologico, ma faccio osservare che Goethe, nel 1774, dovette cambiare il finale dei Dolori del giovane Werther per l’impennata dei suicidi. Si pensi cosa può succedere oggi, con la moltiplicazione dei mezzi di comunicazione, in particolare fra i ragazzi: la tecnologia non va demonizzata, ma esiste un “effetto Werther” sia per i gesti autolesivi che per la violenza contro gli altri. C’è un processo di imitazione”. E da un punto di vista culturale cosa sta succedendo? “Prendiamo gli aspetti valoriali: prima c’erano comportamenti moralmente inaccettabili e allo stesso tempo poco conosciuti. Oggi ci sono eventi terribili a catena per cui Macerata sembra l’imitazione di quanto accaduto a Paderno Dugnano. Le situazioni sono diverse ma certi comportamenti sembrano replicarsi”. In quale misura sono responsabili le famiglie? “Non possiamo più fare una divisione netta fra ambiente familiare e influssi esterni, anche perché non c’è ancora un modello alternativo al modello patriarcale. Un modello è caduto, ma ci vuole molto tempo per costruirne un altro, e in Italia un modello alternativo che abbia senso ancora non c’è”. In compenso il disagio fra i ragazzi aumenta velocemente. “È così, ma mentre in altri Paesi esiste una rete di servizi più efficiente, da noi vengono smantellati, si guardi al Servizio sanitario nazionale”. A Bologna l’uccisione di Fallou da parte di un coetaneo solleva di nuovo la questione dei minorenni armati. “Le cause che provocano situazioni di disagio come questa sono culturali, sociali, relazionali, ma è un dato di fatto che i ragazzi girino sempre più spesso armati di coltello. E pensano di poterlo usare, come ha fatto il ragazzino di 17 anni. Viene in mente la banalità del male fra i nazisti: hanno compiuto l’orrore, come hanno raccontato, perché potevano farlo, perché era possibile pensare una cosa del genere”. Come a Paderno Dugnano? “Per quel ragazzo l’orrore è stato attuabile. Descritto come persona socievole e bravo a scuola, gli è stato possibile superare il limite fra pensare di uccidere il fratello e i genitori e farlo davvero, passare all’azione, il che è una cosa terribile”. Succede più spesso oggi di un tempo? “Oggi c’è una grande diffusione di immagini violente, la violenza è spettacolo. Il ragazzino non ha potuto pensare l’orrore, se no si sarebbe fermato, non ha pensato che era reale, non rappresentazione. Solo dopo ha realizzato che non si può tornare indietro. Una volta feci la perizia su un under 14 che bruciò un senzacasa dentro la macchina: prima ha agito, poi ha pensato. Sono tutti casi diversi, ma il discorso è generale: la diffusione fra i ragazzi di un’idea di violenza di cui non capiscono la realtà, travolti come sono da stimoli che sono già troppi per gli adulti, figuriamoci per loro”. C’è modo di cogliere in anticipo i segnali? “La prevedibilità di questi gesti è più teorica che reale: non è detto che ci sia la restituzione di una violenza subita, a Paderno Dugnano non c’è stato niente del genere, per quanto ne sappiamo”. Le madri piangono i figli uccisi in guerra, la politica cinica le ignora di Mario Giro* Il Domani, 8 settembre 2024 Le lacrime delle madri, in Israele e a Gaza, chiedono pace ma il cinismo della politica non ascolta. Si propagano solo odio e soluzioni armate che sappiamo quanto siano già inutili. Ma la domanda elusa di pace provocherà il duro giudizio dei posteri. “Procedi nel tuo viaggio che spero sia bello quanto quelli di cui sognavi perché, mio dolce ragazzo, sei finalmente libero”. Sono le parole di Rachel Goldberg-Polin, la madre di Hersh rapito dal Hamas il 7 ottobre 2023 e assassinato in un tunnel a Gaza qualche giorno fa, forse poco prima del tentativo di liberarlo. Scossi e vicini al cuore di una donna distrutta, che trova la forza di parole che solo una madre può dire per salutare il proprio figlio, ci chiediamo: come essere finalmente liberi? Liberi dalla violenza che uccide senza guardare il volto di chi ti è stato imposto come nemico. Violenza che già in molte altre guerre precedenti si è rivelata inutile, capace sollo di riprodurre sé stessa. Liberi dall’odio che sfigura interi popoli rendendoli inavvicinabili e spaventosi agli altri. Liberi dai calcoli di politici cinici che non danno più valore alla vita umana, nemmeno a quella dei propri concittadini, ossequiando l’antico messaggio demoniaco secondo il quale la propria ragione può richiedere sacrifici umani. Liberi da una storia pesante e da una memoria che schiaccia condannando a ripetere per sempre gli errori del passato, come se fosse possibile ottenerne un risultato diverso. Liberi come bambini che crescono senza imparare l’odio mortale che gli adulti già insegnano loro in tenera età. Libere come madri che accompagnano i propri figli verso la vita invece di vederli costretti a imbracciare le armi -in primis l’arma dell’odio - per combattere un nemico considerato eterno. Liberi come figli che sognano il mondo oltre i muri, le separazioni, le bombe e l’abominio della distruzione totale della natura. Liberi dalla morte che schiaccia ogni vita rendendo quelle terre - la Terra Santa! - aride, senza futuro e senza discendenti. Il pianto amaro - Tra le grida dei politici, e dei falsi alleati, debole si sente il lamento delle madri che piangono i loro figli e non vogliono -non possono- essere consolate, come Rachel Goldberg-Polin, come Rachele della Bibbia: “Una voce si ode a Rama, un lamento e un pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, e non vuole essere consolata per i suoi figli, perché non sono più” (Ger. 31, 15). Come ha detto papa Francesco: “Rachele racchiude in sé il dolore di tutte le madri del mondo, di ogni tempo, e le lacrime di ogni essere umano che piange perdite irreparabili”. Senza timore di passare per populisti, dobbiamo affermare che oggi la politica appare totalmente inadeguata a rispondere al pianto delle madri. Né a Gaza o in Ucraina né altrove dove si combatte, come nel dimenticato Sudan, si leva la voce dei responsabili per chiedere pace e fare ogni sforzo per negoziare e asciugare le lacrime. Soltanto si odono grida di guerra, con governanti e dirigenti che si sentono in obbligo di spronare alle armi. Anzi: c’è anche chi si sente investito da un dovere quasi etico: se non lo faccio io, chi lo farebbe? Come se sollecitare all’odio e alle armi fosse l’unica via da seguire. La guerra pare ormai accettata come risposta normale ad ogni contesa; la rappresaglia senza limiti come reazione morale; l’odio come una forma di vita accettabile e addirittura ragionevole. Il sonnambulismo della politica - Una cosa però deve essere chiara: chi acconsente a tale stato di cose mentre avrebbe il potere di fermarle, frenarle o almeno di smussarle interrogandosi, sarà certamente condannato dai posteri e dalla storia che verrà. Sempre nel passato è avvenuto che l’odio cieco e la risposta violenta, non importa quale ne fosse la giustificazione, sia stato in seguito condannato dai posteri che lo hanno valutato come un agire politico cieco e primitivo. Come sappiamo il giudizio meno severo attribuito a chi è caduto nel gorgo delle guerre europee precedenti è stato di “sonnambulismo”. La domanda rivolta all’uomo davanti alla violenza è sempre la stessa: “dov’è tuo fratello?”. Si può rispondere come si vuole: accusando il fratello e gettando su di lui tutte le colpe, scansando ogni responsabilità, addirittura negandogli il titolo di fratello. Ma la domanda rimane. I responsabili politici europei devono essere consapevoli che tale domanda è rivolta anche a loro. Le lacrime delle madri sono una richiesta anche per loro. Davanti alla loro coscienza e davanti alla storia, dovranno rispondere del fatto di non aver operato con decisione per frenare questo dramma - a Gaza, in Ucraina, in Africa - accettando la logica delle armi e abbandonando la via della diplomazia. Le guerre precedenti ci offrono questa amara lezione: si affrettino dunque a rammentarle per cambiare strada. Sono le madri, tutte le madri, a chiederlo ovunque. *Politologo L’Africa affonda nei debiti: cosa c’è dietro? di Federico Rampini Corriere della Sera, 8 settembre 2024 Alto e forte risuona l’allarme per il debito dei paesi africani. Di nuovo. A Cernobbio, dove mi trovo, ne ha parlato anche il ministro degli investimenti saudita. La cifra raggiunta da questo debito pubblico è ragguardevole: complessivamente 1.152 miliardi di dollari alla fine dell’anno scorso. E quel totale continua a salire, anche perché il rialzo dei tassi d’interesse deciso dalla Federal Reserve americana (poi seguita da altre banche centrali) per combattere l’inflazione, si è trasmesso su tutti i debiti in dollari. Ora la Fed e le altre banche centrali hanno iniziato la retromarcia, è cominciata una fase di riduzione del costo del denaro, ma siamo solo alle prime mosse di questo nuovo ciclo e intanto i tassi sono elevati. Le nazioni africane quest’anno pagheranno 163 miliardi ai loro creditori esteri solo per il cosiddetto “servizio del debito”, cioè gli interessi (che non estinguono il debito stesso). Per avere un termine di raffronto, nel 2010 il servizio del debito africano era poco più di un terzo, solo 61 miliardi di dollari di interessi. Di fronte a questa crisi debitoria, si sentono voci accorate che invocano l’intervento della comunità internazionale, o addirittura accusano la comunità internazionale di esserne colpevole. Dal mondo delle Ong umanitarie fino al Vaticano, dai media a una schiera di economisti, si sente dire che l’Africa è vittima di un sistema finanziario globale che la sovraccarica di debiti dalle condizioni opache o vessatorie, con tassi troppo elevati, per finanziare progetti d’investimento di dubbia qualità. Ci risiamo con la narrazione che “vittimizza” gli africani e descrive i loro problemi come esterni, provocati sempre da altri: l’Occidente oppure, nelle versioni più recenti, la Cina. Un anno fa a quest’epoca usciva il mio libro “La speranza africana” nel quale criticavo questa impostazione, peraltro dando la parola proprio ad autorevoli africani che non la condividono. Di fronte agli ultimi dati sul debito, voglio riprendere il discorso dove l’ho lasciato. Lo faccio dando di nuovo la parola ad uno dei miei esperti preferiti, lo studioso nigeriano Ebenezer Obadare (i lettori della “Speranza africana” l’hanno già incontrato e conoscono la sua interessante biografia). Ecco il parere di un nigeriano molto bene informato, e privo di paraocchi ideologici. Obadare conferma che è tornato in circolazione il luogo comune secondo cui c’è una “crisi debitoria” la quale “affligge” le nazioni povere dell’Africa, non come conseguenza di loro scelte ed azioni, ma perché qualcun altro si approfitta di loro. Un tempo - ricorda lo studioso nigeriano - i “cattivi” della storia eravamo noi occidentali, magari per il tramite di organizzazioni internazionali come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale dove americani ed europei conservano un’influenza determinante. Oggi i cattivi di una volta sono stati sostituiti dalla Cina in quanto è diventata la principale creditrice, almeno se si guarda all’erogazione di prestiti bilaterali. Dall’inizio del millennio, la Repubblica Popolare ha concesso nuovi prestiti bilaterali a Stati africani per un totale di 182 miliardi di dollari. La Cina ora viene accusata di avere prestato a condizioni inique, e di avere concesso ai governi locali prestiti troppo abbondanti perché costoro siano capaci di rimborsarli. Inoltre Pechino viene accusata di non concedere, alle nazioni in difficoltà, dei termini flessibili e favorevoli per una ristrutturazione del debito (con questo termine tecnico di “ristrutturazione” s’intende una revisione delle condizioni iniziali, che offra tempi di rimborso dilazionati e interessi ridotti). “Queste critiche - osserva Obadare - sono animate da buone intenzioni ma sono sbagliate, intrise di condiscendenza. Anzitutto perché partono dal presupposto che il debito è il problema, mentre in realtà esso è un sintomo di altri problemi. Partendo da un presupposto sbagliato se ne deduce che se soltanto le nazioni africane non fossero oberate dai debiti, starebbero investendo massicciamente in istruzione, salute, infrastrutture. Non è così. Chi dipinge questo quadro dimentica che proprio l’incapacità di investire nelle giuste priorità è la ragione stessa per cui tante nazioni africane sono diventate delle debitrici croniche”. L’esperto nigeriano rileva questa contraddizione tipica degli occidentali benintenzionati e “terzomondisti”: le stesse persone che oggi lamentano la crisi debitoria africana, ieri sostenevano che concedere generosi e abbondanti prestiti a quei paesi era la via maestra per il loro sviluppo. Lui li accusa di essere afflitti da amnesia… e anche un po’ ipocriti. Obadare non è sospetto di avere opinioni filo-cinesi, e oggi insegna in una università americana oltre a fare il ricercatore presso il Council on Foreign Relations di New York (lo stesso think tank di geopolitica di cui sono membro io). Tuttavia prende le difese di Pechino con questa motivazione: “Condannare la Cina per il suo presunto maltrattamento degli Stati africani è un modo per sminuire e disprezzare gli africani stessi. L’idea che la Cina presta ai governi africani più capitali del necessario, che in questo modo li inonda di debiti, implica che le classi dirigenti dell’Africa siano incapaci di giudicare i loro interessi e di regolarsi di conseguenza”. È una critica che Obadare rivolge in modo lucido e spietato ai terzomondisti occidentali: dietro i loro atteggiamenti compassionevoli nascondono un profondo razzismo, l’idea che gli africani sono sempre vittime altrui, quasi fossero incapaci d’intendere e di volere, o minorenni. Spesso infatti lui ricorre a questa espressione: “infantilizzare” l’Africa, negando ogni responsabilità e protagonismo (positivo o negativo) ai suoi leader e alle sue élite. Così continua il suo ragionamento: “L’idea che le condizioni dei prestiti sono truccate a sfavore dei debitori africani implica che questi ultimi non sono abbastanza intelligenti per capirlo; o non sono abbastanza saggi per sottrarsi”. Spesso vi si aggiunge un’accusa sulla scarsa trasparenza per le condizioni di quei prestiti: l’idea è che se fossero pubblicizzate urbi et orbi, gli esperti occidentali - ben più intelligenti, astuti e virtuosi degli africani - saprebbero smascherare l’inganno. Tornano sempre gli stessi stereotipi: gli africani non sono “abbastanza maturi” per difendersi dai predatori. Lo stesso vale per le critiche secondo cui ci sono troppi creditori privati che hanno unito i loro prestiti a quelli bilaterali della Cina. In realtà il capitale privato crea concorrenza, che dovrebbe aiutare i debitori a difendere i propri interessi. “Nessuno nega - conclude lo studioso nigeriano - che altissimi debiti, oltre a limitare gli investimenti pubblici, espongono le nazioni ad agitazioni politiche, com’è accaduto di recente in Kenya o nel mio paese, la Nigeria. Ma è sbagliato negare le colpe degli africani per questa situazione, suggerendo che siano vittime innocenti di malvagie forze straniere. La cosiddetta crisi debitoria in realtà è il risultato inevitabile di una pessima gestione delle finanze pubbliche da parte dei leader locali. Infine la richiesta di un perdono dei debiti non ha senso, se non si accompagna con un miglioramento dell’azione di governo e una maggiore trasparenza. Nessuna generosità esterna cambierà le leggi dell’economia, né proteggerà le nazioni africane dalle conseguenze delle loro azioni o inazioni. Sostenere il contrario è dannoso e infantilizza l’Africa”.