Il carcere colpevole di omicidio di Maurizio Crippa Il Foglio, 7 settembre 2024 Il 70esimo suicidio in otto mesi, anche sette agenti si sono tolti la vita. Situazione tragica, politica e società assenti. Italia fuori dallo stato di diritto. Una questione culturale e democratica che riguarda tutti. Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria, dando ieri l’annuncio che un detenuto 18enne di origini egiziane è morto carbonizzato nella sua cella a San Vittore, un materasso incendiato, ha specificato con prudenza “non crediamo possa parlarsi di suicidio”. Ha ragione ma anche tragicamente torto, per due motivi diversi. Il primo è tecnico, incendiare un materasso è mettere a rischio, per protesta, la propria vita. Il secondo è che nel 2024 i suicidi di detenuti sono 70, record inaccettabile, cui vanno aggiunti i sette agenti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. E quando 70 cittadini affidati alla custodia dello stato e sette rappresentanti di quello stesso stato si tolgono la vita, è più corretto parlare di omicidio di stato. Non è una forzatura polemica, è la constatazione politica che queste morti sono il frutto diretto, e forse da qualcuno messo in conto, non solo di un disinteresse civile e umanitario, ma del tradimento dello stato di diritto e dello stesso dettato costituzionale. Nel quale la pena è rieducativa e non solo afflittiva: “Si va in carcere perché si è puniti e non per essere puniti”, secondo un amaro aforisma garantista. Va detto inoltre che Joussef Moktar Loka Baron era in custodia cautelare e in attesa di giudizio, e una perizia psichiatrica precedente lo aveva certificato non compatibile col carcere. Una comunissima storia ignobile, se si tiene conto che i detenuti in attesa di giudizio sono diecimila su 60 mila, oltre a quelli che per gravi motivi - tossicodipendenze, malattie - non dovrebbero starci. Eppure, ha denunciato Antigone, in soli 12 mesi nelle patrie galere ci sono 4.000 detenuti in più, e il sovraffollamento è fuori controllo, un tasso del 130 per cento. È dunque giustificato, davanti a una mattanza che non ha eguali nei sistemi penitenziari delle democrazie occidentali, parlare di omicidi e non suicidi. E questo tenendo ovviamente presente di quanto sempre più spesso le vittime sono gli agenti: come ha denunciato l’Osapp il governo - pur a parole securitariamente attento a rendere “efficiente” il regime di detenzione, “sta assistendo passivamente al collasso del sistema”, ha denunciato il segretario Leo Beneduci. Situazione fuori controllo e fuori stato di diritto, e sul governo pende un duplice capo d’accusa. Il primo di disinteresse e inefficienza. Le misure di riforma carceraria appena approvate, secondo Patrizio Gonnella di Antigone, “non incideranno sul sovraffollamento essendo afflitte da minimalismo”. I meccanismi previsti per la liberazione anticipata sono farraginosi e lenti - l’unica proposta risolutiva è quella di Roberto Giachetti, che giace inascoltata dal 2022 - sulle strutture si è messo poco e anche sulle necessarie assunzioni di mille agenti tutto è slittato al 2025. Non si intravede all’orizzonte una vera riforma carceraria, riflettere seriamente su indulto e amnistia è diventato tabù con i governi “panpenalisti” (gialloverde prima e l’attuale). Il secondo capo d’accusa è culturale. Il Guardasigilli Carlo Nordio può essere animato dalle migliori intenzioni, ma la sua idea di “umanizzazione della pena” è andata a sbattere contro una maggioranza che si inebria con gli aumenti dei reati e delle pene, che concepisce il sistema sociale come “prisonfare”, puro controllo basato sul carcere. Si parla anche di abolirlo, il carcere, qualcuno ha ricordato che Gustavo Zagrebelsky lo scrisse in prima pagina di Repubblica nel 2015: “Che cosa si può fare per abolire il carcere”. Siamo fermi alla domanda retorica. Carlo Maria Martini scrisse che si doveva rifiutare l’esatta corrispondenza tra pena e carcere e respingerne la centralità. Nulla di fatto. Chiunque si occupi di queste materie sa che l’utopia abolizionista è impraticabile e che l’unica prospettiva è lavorare alla riduzione del danno: contenere “la sofferenza del carcere”, tenervi per il minor tempo necessario il minor numero di persone, depenalizzare e attivare misure alternative. Una maggioranza sorretta da elettori che, quando va bene, la pensano come Delmastro sulla “Mecca” dei galeotti non può fare molto altro, ma questo non l’assolve. Certo, anche gli altri partiti sono “lo stesso coinvolti”, direbbe il poeta. L’ultima riforma organica del sistema carcerario naufragò per colpevole pavidità del governo Gentiloni (ministro Orlando). Dei governi Conte-Bonafede nemmeno a parlare, con Draghi cadde anche la pur limitata riforma Cartabia. Ma ovviamente, come ha scritto sul Foglio Francesco Petrelli, presidente delle Camere penali, non basta al governo attuale accusare le “omissioni” dei precedenti. Il punto è molto più grave, culturale e perciò politico. Non è solo disinteresse morale, è che la politica italiana, in fondo, la pensa come il popolo italiano. Punire, senza nemmeno troppo sorvegliare. Questa è la verità più grave. Un giovane giurista che si chiamava Aldo Moro diceva, già ai suoi tempi, che occorreva cercare “non tanto un diritto penale migliore quanto qualcosa di meglio del diritto penale”. Il tempo è scaduto. Morto carbonizzato in cella a 18 anni, anche dar fuoco a un materasso è una richiesta d’aiuto di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2024 È agghiacciante, è tragico, è sconcertante, è annichilente: un ragazzino di appena diciotto anni è morto carbonizzato nella sua cella, la definitiva prigione dalla quale non è potuto uscire in tempo. È successo nel carcere milanese di San Vittore. Le fiamme che sono divampate e hanno avvolto l’intera stanza erano state probabilmente appiccate da lui stesso. Gli operatori del carcere non sono arrivati in tempo per liberare dal rogo Loka Moktar Joussef Baron, giovanissimo di origini egiziane. Il compagno di cella per fortuna è stato tratto in salvo. Capiremo nelle prossime ore come si sono svolti gli accadimenti, se sia stato un tentativo di suicidio o, come pare più probabile, un gesto estremo di richiesta di ascolto. Capiremo chi era Loka Moktar, che storia di vita aveva alle spalle e quale storia giudiziaria. Sappiamo che era in carcere per reati contro il patrimonio dallo scorso luglio in attesa di giudizio (che una diversa soluzione per far attendere il processo a un ragazzino diciottenne non si fosse trovata la dice già lunga). Capiremo il resto, ma sappiamo già adesso che la tragedia occorsa ci parla in maniera esemplare del dramma delle nostre carceri e di tante, troppe persone che stiamo mandando al macero. A San Vittore ci sono 1.100 persone detenute per 750 posti letto ufficiali. Le carceri italiane ospitano nel complesso 61.758 persone. La capienza dichiarata è di 50.911 posti, ma la realtà ci dice che varie migliaia sono inutilizzabili a causa di mancate ristrutturazioni che nel tempo ne hanno determinato l’inagibilità. In questo stato di affollamento, i poliziotti penitenziari e gli altri operatori non sono in grado di intercettare le esigenze di chi recludono, né di aprire in tempo una porta che può salvare una vita. Visti i numeri, gli istituti non riescono quasi mai a garantire uno spazio separato per i giovani adulti, come le norme prevedrebbero, all’interno del quale una specifica attenzione a questa critica fascia di età possa essere riservata. I detenuti si suicidano: lo hanno fatto in 70 dall’inizio del 2024. Nessuno poteva salvarli perché nessuno era in grado di ascoltarli e di intercettarne le disperazioni. I detenuti protestano: accade sempre più spesso, nelle carceri per adulti e in quelle per minori. E il sistema, invece di tentare l’ascolto, si chiude ancora di più. La questione nasce a monte: se si ritiene che ogni problema sociale vada risolto con il carcere, se si ritiene che la reazione a chiunque commetta uno sbaglio debba sempre e comunque essere il pugno di ferro, se si ritiene - come il governo ha dimostrato di fare con l’emanazione del cosiddetto Decreto Caivano - che anche ai più giovani bisogna rispondere con la mera repressione punitiva, senza aprire un dialogo di tipo educativo e senza cercar di comprendere e prevenire le ragioni dei comportamenti, allora il risultato sarà sempre, sul piano della quantità, un carcere che scoppia e, sul piano della qualità, un carcere pieno di marginalità sociale, di povertà economica e culturale, di disagio psichiatrico, di tossicodipendenza. Oggi anche le carceri minorili sono, per la prima volta nella storia, sovraffollate. Quelle carceri dove Loka Moktar sarebbe andato se solo avesse compiuto il presunto reato poche settimane prima, quando ancora non aveva compiuto la maggiore età. Al loro interno non ci troviamo i ragazzi più criminali o i più pericolosi. Ci troviamo piuttosto i più marginali, quelli per i quali il sistema non è stato capace trovare soluzioni alternative. Perché non hanno una casa, perché le comunità non li vogliono, perché non hanno alcuna rete sul territorio. Moltissimi sono stranieri minori non accompagnati, che con un’accoglienza esterna estremamente insufficiente si ritrovano a vivere per strada. Invece di sostenerli nel loro difficilissimo percorso di vita, non troviamo nulla di meglio da fare che mandarli in galera. Questa umanità abbandonata ci sta chiedendo, oggi come non mai, di essere ascoltata. Le proteste sono all’ordine del giorno. Mai a nessuna di esse, neanche la più pacifica, il governo ha risposto con un’apertura al dialogo. Nel crescendo di proteste non violente che c’è stato negli ultimi mesi, nessuno ha manifestato la volontà di comprendere il messaggio lanciato dai detenuti. Nessuno ha ascoltato. E in carcere non si hanno molti strumenti per farsi ascoltare. Molti hanno a che fare con il proprio corpo. Si è disposti a tutto, quell’ascolto è troppo importante per qualsiasi essere umano. Allora si fa lo sciopero della fame, ci si taglia, si ingoiano le lamette. Oppure si dà fuoco a una cella, ben sapendo che una delle possibilità è quella che il blindato non venga aperto in tempo. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Ragazzi fragili senza futuro: è la storia del nostro fallimento di Gaia Tortora La Stampa, 7 settembre 2024 Lo Stato non comprende che non si risolve il problema buttando tutti dentro. Servono percorsi protetti e di recupero vero per superare il loro disagio. “Joussef era un po’ mattacchione ma tanto buono e con un cuore grande”. Quando arriva la notizia della morte di Joussef Barson Motkar Loka, appena 18 anni, a San Vittore in attesa di giudizio, in una chat di parenti e familiari di persone detenute compare questo messaggio. Joussef è morto bruciato dentro la sua cella, dove si trovava con un altro detenuto che ora è indagato per omicidio colposo. Nel tentativo di inscenare una protesta avrebbe dato fuoco al materasso. È finita male per Joussef e per i suoi 18 anni. Pochi ma tantissimi per chi come lui aveva già passato l’inferno della Libia, un viaggio sul barcone legato mani e piedi e un trauma che lo classifica con un “vizio totale di mente”. Già, mattacchione ma buono. Già, assolto due volte e soprattutto in attesa di un posto a lui idoneo, che non è il carcere ma una comunità. Non ha fatto in tempo. Non abbiamo fatto in tempo, ancora una volta. Guardo dalla chat le foto di Joussef e un breve video di lui che cucina e sorride. Mi si stringe il cuore e il mio pensiero va ad un ragazzo che conosco e visito frequentemente detenuto nell’Ipm di Casal del Marmo. M. Anche lui egiziano. Anche lui arrivato su un barcone giovanissimo. Sbarcato a Milano. “Ho provato a sopravvivere legalmente ma poi non ce l’ho fatta”. Piccoli reati. Gira qualche istituto e poi approda a Roma. Inizia l’iter per la comunità. Ottiene la messa in prova. Ma un bel giorno gli comunicano che il tribunale gli ha negato i documenti. Non regge. Le pressioni anche dei suoi sono forti. Vogliono e hanno bisogno di più soldi. Per un po’ fa anche due lavori. Poi di nuovo la sua testa non regge e per poca cosa torna a Casal del Marmo. Quando me lo ritrovo lì mi sento morire. Mi abbraccia. M. finisce di scontare la somma dei suoi errori ad ottobre. Fuori per lui sarà impossibile sopravvivere. Tornare indietro vuol dire condannare la famiglia alla povertà assoluta. L’ultima volta l’ho incontrato ad agosto. “Che farai?”, gli ho chiesto. “Non lo so”. Quel futuro senza prospettiva lo incontrai per la prima volta più di 20 anni fa quando giovane cronista di una televisione locale Teleroma56) andai a fare un reportage proprio a Casal del Marmo. In una di quelle celle incontrai Stefano. La sua storia era un disastro senza scampo. Il papà scappato. La mamma impossibilitata a mantenerlo. La vita in un quartiere alla periferia di Roma dove al massimo puoi spacciare per sopravvivere. Stefano mi parlava di un futuro che non riusciva ad immaginare. “Capisci, io quando esco là fuori non ho niente e nessuno. Che faccio? Sono senza rete. Senza un percorso un sostegno che mi aiuti a non perdermi”. Stefano pochi giorni dopo compiva 18 anni e passava agli adulti (un tempo alla maggiore età si passava al carcere degli adulti). Pochi giorni dopo si impiccò a Rebibbia. Stefano, M., Joussef sono ancora una volta il nostro fallimento. Uno Stato che non comprende che non si risolve il problema buttando tutti dentro (il disagio mentale tra questi ragazzi ha percentuali ormai importanti) ma creando percorsi protetti e di recupero vero adatti alle loro fragilità è uno Stato che non ha capito cosa sta accadendo. Domani purtroppo avremo un altro Joussef, un altro numero. Un altro nostro fallimento. Lugubre carcere. L’estate torrida in cella è finita tra un uragano e un ragazzo morto carbonizzato di Adriano Sofri Il Foglio, 7 settembre 2024 Spoon river. 5 settembre. Imperia. Detenuto italiano di 45 anni si impicca alle sbarre della cella, quando gli altri sono fuori all’aria. Non ho trovato il nome. Ho trovato il suo curriculum criminale. Era stato condannato in passato a un anno per reati minori, “furto, resistenza” (furto da poco, per una condanna simile in un regime così prodigo di anni). Ora stava scontando sei mesi: 6 mesi. Sarebbe uscito a gennaio. Era certificato il suo stato di malessere psichiatrico. A modo suo, si è impiccato nell’ora d’aria. 5 settembre. Livorno. Un cittadino italiano, di 56 anni, in carcere “per reati tributari”, detenuto nell’isola di Gorgona e lavorante come panettiere, ricevuto un permesso premio, si è tolto la vita “nella casa della sua convivente”, cioè a casa sua, a Rosignano Marittima. Luoghi invidiabili nell’estate, Rosignano e Gorgona. Per suicidarsi, ha aspettato il premio di poterlo fare in libertà, a modo suo. 5 settembre. Milano. San Vittore. Un detenuto di origini egiziane, Youssef Mokhtar Loka Barsom, 18 anni, è morto carbonizzato nella sua cella, condivisa con un altro, dopo aver, pare, dato fuoco alle coperte. Arrivato tempestosamente in Italia a 15 anni, il ragazzo era stato ospitato in una comunità terapeutica e ne era fuggito alla fine di luglio: era in attesa di giudizio per un’accusa di rapina. Nell’occasione, è stata resa pubblica la portata del cosiddetto sovraffollamento nel carcere di San Vittore: 1100 detenuti su 445 posti disponibili, il 247 per cento. Sembra uno scherzo. Le condizioni di difficoltà psichiatrica del ragazzo erano state accertate da sempre, e di nuovo da una perizia all’indomani dell’udienza preliminare. I tre avvenimenti sopra elencati sono così esemplari da superare una lugubre immaginazione. Pongono un problema: costituiscono il 69esimo, 70esimo, e 71esimo caso di suicidio di detenuti? Poiché il diciottenne Youssef Mokhtar è stato trovato nel vano della cella addetto al bagno, dove forse tentava di salvarsi, l’ipotesi consentirebbe agli statistici più benemeriti di sottrarlo alla conta dei suicidi. Solo 70. E ispirano una considerazione. L’estate sta finendo. L’estate che sta finendo è stata la più calda eccetera. L’estate torrida è l’incubo dei carcerati, e una gran seccatura dei carcerieri, dal ministro in giù. Questi ultimi respirano, se la sono levata dai coglioni. Mentre il diciottenne (che aveva commesso l’eventuale reato quando era minorenne, ma il Beccaria è meglio non sfotterlo oltre) crepava, su Milano si scatenava un uragano. Quale segno più eloquente della fine dell’estate di un ragazzo che dà fuoco “alle coperte”, e muore “carbonizzato”? Settembre, andiamo. Istituti sovraffollati. Rivedere e ridurre i reati ostativi di Carlo Taormina* Il Tempo, 7 settembre 2024 Se non vogliamo aspettare il prossimo suicidio o la prossima rivolta nelle carceri italiane per ricominciare a batterci il petto per la condizione incivile e violatrice dei diritti umani in cui vengono costretti a vivere i nostri detenuti in attesa di giudizio o condannati, occorre intervenire presto e bene, studiando provvidenze che si inseriscano in un armonico piano di più profonde riforme. Noi abbiamo un sistema penale in cui il carcere è sostanzialmente la sola sanzione; non solo, ma la risposta sanzionatoria del nostro paese è la più pesante in Europa: il codice penale è quello fascista del 1930 ed è rimasto invariato, salvo ad essere peggiorato in termini di gravità delle pene. A questa situazione si è aggiunta nel tempo un’autentica aberrazione: l’ordinamento penitenziario, nato per attuare il principio costituzionale della rieducazione del condannato, si è trasformato in una fonte di aggravamento della mano punitiva dello Stato. Da una parte furono introdotte le misure alternative al carcere con riferimento a pene non elevate, ma da un’altra parte fu inventata la categoria dei reati ostativi, cioè quelli per i quali fu istituito il divieto di applicazione delle misure alternative, giustificati, entro certi limiti, per i gravi reati di violenza, mafia e terrorismo, ma non comprensibili per altri. Non solo, ma questa categoria dei reati ostativi si è progressivamente ampliata riguardando certe pene modeste fino a divenire la regola: questa la vera ragione del sovraffollamento cui deve aggiungersi una contrarietà ideologica dei magistrati all’applicazione delle misure alternative in generale. Io penso che il futuro del diritto penale, sotto il profilo sanzionatorio, debba essere interessato da un’inversione di sistema: pena detentiva ordinaria sia la detenzione domiciliare, quando la risposta non sia possibile affidarla a misure non detentive; pena eccezionale sia il carcere, curando nell’uno e nell’altro caso la possibilità di assicurare lavoro. Per uscire dalla situazione attuale, senza un’amnistia o indulto, occorre, con un non complicato intervento legislativo, rivedere profondamente il catalogo dei reati ostativi, ridurli al minimo indispensabile e ampliare così la sfera di applicazione delle misure alternative, come l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare con possibilità di lavoro. Nella situazione odierna, una normativa anche con decretazione di urgenza, previo ridimensionamento del numero dei reati ostativi, deve prevedere come ordinaria, a seconda dei reati, la concessione dell’affidamento in prova o della detenzione domiciliare in modo da non permettere ai Tribunali di Sorveglianza di persistere nel continuo sopruso m cui giornalmente si producono. Non solo, ma la nuova normativa, da non considerare come eccezionale, dovendo essere invece a regime, può ben prevedere che sia lo stesso giudice che condanni l’imputato, sul quale deve a tal fine formulare una prognosi di pericolosità, a stabilire se, in luogo del carcere, debba o possa ab origine fruire di una misura alternativa, fermo restando l’intervento del Tribunale di Sorveglianza con riguardo alle condanne definitive. Nessuna rinunzia farebbe lo Stato al suo potere punitivo e non sarebbe inaccettabile una normativa che, provvedendo a rendere eccezionale la ostatività, si premunisca con la previsione della revoca della misura, in caso di commissione di reati durante la sua applicazione, rimedio interessante anche per sconfiggere la recidiva. *Ordinario di procedura penale all’Università Tor Vergata di Roma Sottani: “Se la reclusione non rispetta la dignità della persona causa un aumento della violenza” di Simona Musco Il Dubbio, 7 settembre 2024 “Bisogna vedere, bisogna starci, per rendersene conto”, diceva Pietro Calamandrei alla Camera il 27 ottobre 1948. E Sergio Sottani, procuratore generale di Perugia, sembra essere uno dei pochi magistrati ad aver raccolto quell’invito, ad aver scelto di vedere le carceri e andare oltre la teoria. Il tour negli istituti penitenziari umbri si è concluso nei giorni scorsi. Il procuratore generale ne ha riassunto gli esiti mercoledì, affiancato dai procuratori del distretto, i direttori ed i comandanti della Polizia penitenziaria, oltre ai vertici dell’Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna. Sovraffollamento, carenza di personale, elevato numero di reclusi con problemi di tossicodipendenza e affetti da disturbi principali sono le principali criticità rilevate nel corso delle recenti visite istituzionali del Procuratore Generale. Qual è stato l’obiettivo delle sue visite? Principalmente monitorare la situazione di tutta la popolazione detenuta con problemi psichiatrici e di tossicodipendenza. È un fatto particolarmente urgente, considerando l’alta percentuale di detenuti con tali problematiche. Ma le questioni sono diverse, come l’assenza di residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, il problema generale della giustizia riparativa e l’attività di formazione all’interno degli istituti. Quali sono i dati sui detenuti con problemi psichiatrici e di tossicodipendenza? Su 1604 detenuti, il 14% del totale regionale dei reclusi è affetto da patologie psichiatriche, mentre il 28% ha problemi di tossicodipendenze. Per quanto riguarda le patologie psichiatrice è stato sottoscritto un protocollo d’Intesa tra uffici giudiziari del distretto e Asl, che prevede non solo concrete forme di collaborazione e coordinamento tra autorità giudiziaria e servizio sanitario, ma anche criteri organizzativi, sulla base del riconoscimento del ruolo solo residuale che deve avere la misura di sicurezza detentiva, dovendosi dare prevalenza al trattamento terapeutico e riabilitativo nel contesto territoriale di riferimento. Se riuscissimo a trovare misure per queste persone che siano diverse dal carcere, potremmo ridurre il sovraffollamento e migliorare la situazione penitenziaria. Ci sono comunità in grado di accogliere queste persone? Ho fatto un monitoraggio e non tutte sarebbero in grado di farlo. Però l’importante è iniziare, soprattutto far sì che queste persone vengano seguite da personale sanitario particolarmente adatto e preparato. Attualmente però queste figure scarseggiano e il carcere non è il luogo giusto per queste persone. Perché? Non solo perché non ha un’effettiva efficacia deterrente, ma anche perché crea problemi per la Polizia penitenziaria e per il resto della popolazione detenuta. Non a caso i detenuti, nel corso di questi incontri, si sono spesso lamentati di questa promiscuità. Che situazione ha trovato in generale? Ci sono dei fondi per l’attività di formazione all’interno del carcere, finanziati con la cassa delle ammende, che però non vengono utilizzati. Ciò significa che all’interno delle strutture non viene fatta attività di formazione, che è fondamentale, privando i detenuti di un diritto. In collaborazione con gli avvocati, abbiamo in mente un’attività di recupero attraverso lo sport, non solo dentro, ma anche all’esterno del carcere. Ciò perché le attività sono parte della funzione rieducativa della pena prevista dalla Costituzione. Per quanto riguarda il sovraffollamento, in Umbria non è particolarmente accentuato, ma esiste. Anche qui i tre metri famosi di cui ciascuno dovrebbe godere non ci sono: un conto è se in una cella ci sono due persone, un altro quando si vive in quattro su 12 metri quadri. Io credo che, tenendo conto della funzione sicuramente afflittiva e retributiva della pena, il carcere non possa dimenticare la dignità della persona. È fondamentale che la persona in quanto tale venga rispettata, con tutti gli interventi connessi a questa attività rieducativa costituzionalmente imposta. Inoltre è necessario che ci siano risposte in tempi brevi sulle richieste di permesso o liberazione anticipata. Per quanto riguarda i detenuti comuni, il problema è cercare di reinserirli il prima possibile nel circuito esterno, anche con l’affidamento in prova al servizio sociale. Come si affronta l’emergenza carcere? Sono quasi 40 anni che parliamo di emergenza carcere e ormai mi sembra fuori luogo discuterne in questi termini. Si tratta di un problema strutturale e bisogna cominciare a pensare ad una visione costituzionalmente corretta degli istituti di pena. Servono, dunque, interventi strutturali. Sa quanto si spende per il carcere? Quarantacinque miliardi l’anno, che non sono pochi. Servono dati attendibili, che spesso mancano, su quanti detenuti che hanno usufruito di benefici ricadano nella commissione del reato una volta usciti dal carcere, per capire se ci sia davvero una funzione rieducativa. In più bisogna affrontare il problema della giustizia riparativa. Quale problema? Questa riforma - definita “epocale” - prevedeva, tra le altre cose, una conferenza ministeriale, che è stata creata l’anno scorso. Una struttura faraonica, composta da molte persone, che si sono viste due sole volte su Teams. In Umbria abbiamo provato a vederci a livello regionale, per avere un primo contatto, ma le nostre conferenze devono essere indette dal ministro. Di fatto la riforma non è partita e mi sembra che non ci sia la volontà di farla partire, probabilmente perché sono cambiate le linee di fondo. Se si fanno riforme strutturali bisognerebbe però esserne convinti, portarle fino in fondo, perché la popolazione detenuta sa cosa vuol dire la giustizia riparativa e ci fa affidamento. Il decreto carceri funziona? Non sarebbe stato più efficace portare a casa la proposta Giachetti sulla liberazione anticipata? Il decreto non ha prodotto grossi cambiamenti. Per quanto riguarda la liberazione anticipata ampliata, credo che potrebbe garantire una maggiore possibilità di reinserimento e che vada in qualche modo incentivata. Ma sarebbe fondamentale soprattutto sottoporre l’attività rieducativa alla verifica di personale adeguato, come psicologi e assistenti sociali. La risposta non può essere affidata solo al personale di polizia penitenziaria, servono anche figure diverse per la salute psichiatrica dei detenuti, che non va seguita solo nel momento patologico, ma in un percorso costante, un processo di accompagnamento. E poi la reclusione, se non rispetta la dignità della persona, se non rispetta lo stesso status di lavoratore del corpo di polizia penitenziaria, determina inevitabilmente un aumento della violenza interna ed esterna. Spesso chi entra come un semplice balordo ne esce criminale. E molti, una volta usciti, rientrano nel circuito criminale, perché non trovano differenza tra lo stare fuori e lo stare dentro. Dovremmo superare il fatto che qualsiasi condotta di disvalore vada punita con il carcere. Anche perché la Costituzione, quando parla di pene, non dice necessariamente in carcere. Che, spesso, diventa un luogo in cui rinchiudere chi non ha fissa dimora e, dunque, non può neanche usufruire di misure alternative, finendo per vivere in una specie di limbo. Credo che anche questo sia preoccupante. C’è poi il problema delle Rems... Sì e non solo in Umbria. C’è carenza di strutture. Ci sono persone che non possono stare in carcere, ma nello stesso tempo sono praticamente abbandonate, con una forma di libertà vigilata che a volte è di poco conto e quindi avrebbero necessità sia di un controllo, per ragioni di sicurezza sociale, sia di cure. Ostellari: “Ora nuove norme e finanziamenti per le misure alternative alla cella” di Irene Famà La Stampa, 7 settembre 2024 “Un aspetto del decreto carceri, su cui mi sono battuto in prima persona, è l’aumento dei colloqui telefonici”. Investire sul percorso rieducativo. Per i detenuti, per la comunità esterna e per diventare modello agli occhi dell’Europa”. Il senatore Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, analizza la situazione carceri. Ieri Youssef Moktar Loka Barsom, 18 anni, è morto a San Vittore. L’ennesima morte in carcere del 2024… “Sulla dinamica ci sono accertamenti in corso. Ma suicidio o meno, resta un fatto tragico. Bisogna lavorare per non raggiungere i numeri del 2022 e perché il 2025 sia un anno di zero morti in cella”. In manette per rapina, Youssef era detenuto su custodia cautelare. Il carcere non dovrebbe rappresentare l’estrema ratio? “Sì, e l’ha detto anche il ministro Nordio e la Lega l’ha sempre sostenuto, anche con i referendum sulla Giustizia. Per questo faremo un intervento per diminuirei casi di carcerazione preventiva”. In concreto di cosa si tratta? “Limitare l’applicazione della misura cautelare in cella per i casi più lievi in cui c’è il pericolo di reiterazione del reato. Ovviamente, però, questo dev’essere fatto con la massima attenzione. Bisogna escludere dalla nuova normativa i reati più gravi e pensare a misure diverse. Come gli arresti domiciliari”. In molti casi si applica la misura preventiva proprio perché il detenuto non ha casa… “Ci sono altre misure e bisogna seguire questa strada. C’è poi chi sta scontando la pena e potrebbe accedere a misure alternative, ma non ha un domicilio idoneo. Per questo il dl carceri ha individuato una procedura nuova rispetto al passato”. L’elenco nazionale delle comunità? “Sì, di quelle strutture già disponibili che, su disposizione del magistrato di sorveglianza, potranno accogliere detenuti senza casa e fornire un percorso di attività formativa e lavorativa. Abbiamo previsto sette milioni di euro l’anno”. Molti detenuti sono dipendenti dall’alcol e dalla droga. Anche loro dovrebbero stare in comunità, ma non ci sono posti… “Per quelle strutture abbiamo previsto un aumento di fondi di cinque milioni l’anno”. Come affrontare le fragilità di chi resta in cella? “Un aspetto del dl carceri, su cui mi sono battuto in prima persona, è l’aumento dei colloqui telefonici”. Da quattro a sei a settimana? “Non solo. È previsto un ulteriore intervento normativo che consente al direttore di autorizzare telefonate al detenuto a seconda del suo bisogno”. Chi è recluso si ribella, chi lavora nei penitenziari lamenta carenza di personale. Sono problemi che si intrecciano? “Partirei dalla questione educatori”. Mi dica… “Come Governo abbiamo riempito la pianta organica a livello nazionale. Siamo intervenuti anche sulla questione dei direttori e dei comandanti che erano a scavalco. Poi c’è il finanziamento di 5 milioni di euro per aumentare ore e compenso agli psicologi”. Tanti interventi, ma l’emergenza resta. E lo dimostra il susseguirsi di rivolte di quest’estate. Che idea si è fatto? “Chi è in cella non ha bisogno di illusioni e di bugie. Ma di verità”. Ovvero? “I detenuti, negli ultimi mesi, penso siano stati sottoposti a una sollecitazione esagerata da parte di chi spingeva verso alcuni provvedimenti”. Si riferisce a chi parlava di un possibile indulto o di una possibile amnistia? “Beh, ultimamente si è tanto parlato del tema. Mentre il detenuto ha bisogno di una speranza che non si trova nello sconto della pena, ma nella possibilità di crearsi un futuro. E questo obiettivo si realizza con l’adesione a un percorso di recupero che deve essere garantito dallo Stato. E su questo che bisogna scommettere. E su questo vorrei che ci fosse un confronto e una collaborazione con le opposizioni”. Si parla di sovraffollamento, poi si promulgano leggi che aprono le porte del carcere con estrema fragilità. Un paradosso? “Non credo sia così. E penso al reato di rave party. Nelle nostre carceri non c’è nessuno detenuto con quella contestazione. Non sempre la creazione di una fattispecie di reato corrisponde ad un aumento degli arresti”. E il decreto Caivano? “Ha registrato una situazione, previsto norme di natura preventiva ed è intervenuto quando i fenomeni di violenza giovanile e bullismo sono esplosi”. L’appello. “Madri fuori: no al carcere per le donne incinte” Il Dubbio, 7 settembre 2024 Il ddl sicurezza prevede, fra le varie misure repressive, la non obbligatorietà del rinvio della pena per le donne incinte e per le madri di bambini fino a un anno di età. Il rinvio non solo diventa facoltativo, con tutti i problemi inevitabilmente legati anche alle tempistiche per ottenerlo, ma può essere rifiutato laddove si ritenga che la donna possa commettere ulteriori reati. Abbiamo sempre affermato che nessun bambino e bambina dovrebbe stare in carcere, che il carcere non è luogo dove la relazione madre bambino possa essere serena, tantomeno può essere il luogo ove una donna possa portare avanti in condizioni di sicurezza e dignità la propria gravidanza e, infine, partorire. E neppure possono essere soluzioni congrue gli Icam, istituti a custodia attenuata, che sono pur sempre strutture carcerarie. Né sarebbe sostenibile la soluzione di separare i neonati e le neonate dalle proprie madri, come ricordato sia dal CPT- Comitato Prevenzione Tortura che dalla Corte Europea dei Diritti Umani che cita la pertinente disposizione dell’Oms, secondo cui un neonato sano deve rimanere con la propria madre. Rilanciamo quindi con forza i contenuti della campagna “Madri Fuori, dallo stigma e dal carcere, insieme ai loro bambini”, che due anni fa ha visto una forte mobilitazione a difesa dei diritti delle donne e dei figli. Dobbiamo contrastare le norme del ddl governativo, superare gli Icam e costruire le case famiglia. Chiediamo l’adesione, sia di singoli sia di associazioni, da inviare a info@societadellaragione.it. Sottoscrivono l’appello: Daniela Dacci, Denise Amerini, Maria Luisa Boccia, Grazia Zuffa, Sofia Ciuffoletti, La Società della Ragione, CRS- Centro Riforma Stato, L’Altro Diritto, Katia Poneti, Susanna Ronconi, Giulia Melani, Michele Passione, Patrizia Meringolo, Franco Corleone, Monica Toraldo di Francia, Francesca Torricelli, Vincenzo Scalia, Stefano Anastasia, Tamar Pitch, Leonardo Fiorentini, Giusi Furnari, Valentina Calderone, Susanna Marietti, Ornella Favero, Redazione Ristretti Orizzonti, Antigone, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Due pesi e due misure: quanto è diverso il trattamento tra colletti bianchi e carcerati di Manlio Morcella* L’Unità, 7 settembre 2024 Il 10 luglio scorso, l’aula della Camera abrogava il reato di abuso di ufficio. Così, dopo ben 12 ore ininterrotte di lavoro, veniva approvata la riforma Nordio. Risultato assai discutibile, conseguito ottimizzando anche la massiccia propaganda, incentrata sulla esigenza di tutelare i sindaci intimoriti di essere inquisiti per abuso e sulle poche condanne che avrebbero contrassegnato la vita del modello penale. Che propaganda fosse, è pacifico. L’abuso di ufficio non riguarda solo i sindaci, bensì tutti i pubblici ufficiali, responsabili di abusi: magistrati che favoriscono o danneggiano taluno, medici che non rispettano le liste di attesa, soprattutto amministratori di enti pubblici o para pubblici - di designazione partitica - che agevolano l’imprenditore o il professionista della stessa parte politica. È soprattutto la esigenza di assicurare impunità a questa categoria di soggetti che, insieme al ridimensionamento del traffico di influenze illecite, ha ispirato la barbara abrogazione del reato in rassegna. Con buona pace della ratio storica di tale modello penale, per come ben evidenziata nelle parole appresso riportate del professor Padovani: “L’abuso d’ufficio è un presidio dello stato di diritto; è nato con la Rivoluzione francese per proteggere il cittadino contro gli abusi dell’autorità. Eliminarlo significa regredire a uno stadio premoderno; significa trasformare il potere pubblico in una discrezionalità arbitraria del pubblico ufficiale che potrà vantarsi di avere prevaricato (…)” - senza che - “nessuno potrà dir nulla”. Peraltro, a ben vedere, la criticata licenza legislativa, corre pure il serio rischio di imbattere in questioni di legittimità costituzionale nell’ottica degli artt. 11 e 117 Cost., rilevato che la morte dell’abuso di ufficio sembra violare la Convenzione di Merida, ideata per contrastare tutte le forme di corruzione. Più esattamente, il suo articolo 19, che non obbliga, ma comunque sollecita, l’introduzione di questo reato negli ordinamenti degli Stati parte della Convenzione che non lo contemplavano. Al contrario, dunque, del nostro, in cui era già inserito: di qui pure la contestuale derivata violazione dell’art. 31 della Convenzione di Vienna, che impone di interpretare secondo buonafede i Trattati internazionali ratificati. Ad ogni buon conto, è innegabile che la novella normativa, nel concreto, ha determinato la emanazione di una amnistia mascherata, deliberata di furia, a valere per oltre 3mila condannati in via definitiva. In parallelo, esiste la trascurata tragedia delle carceri. Presenti al 18 agosto 61.464 detenuti in 46.898 posti regolarmente disponibili: cioè, 14.566 detenuti in più e un tasso medio di sovraffollamento del 131,06%, con punte che in 50 istituti superano il 150%, in 5 realtà il 190%. Sovraffollamento importante anche nelle carceri per minori. A fronte di oltre 14.500 detenuti in più, ci sono 18 mila agenti della polizia penitenziaria in meno rispetto alla pianta organica prevista. Nel solo 2024, al 31 agosto, 67 detenuti si sono tolti la vita. Sette anche i suicidi fra la polizia penitenziaria. Questa la sintesi della invivibilità delle carceri, prive di spazi e di igiene. Eppure l’art. 27 Cost. vuole che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Principi che l’attuale guardasigilli, nel 2023, pretendeva di assicurare con il recupero delle caserme dismesse; oggi, con nuova edilizia penitenziaria, con lo smistamento dei “tossici” in comunità e con il rimpatrio degli stranieri in vinculis. Peccato che, dimenticato il progetto delle caserme, non si spieghi come fare coesistere la tempistica di realizzazione delle nuove soluzioni - se praticabili - con lo scoppio dei penitenziari. Intanto, non si coltiva la proposta Giachetti, che innalzerebbe a 75 giorni per semestre la liberazione anticipata. Né si dà attuazione alla giustizia riparativa nella fase esecutiva, scritta sul ghiaccio dalla Cartabia. Viceversa, si tenta di introdurre con il pacchetto sicurezza due nuovi modelli penali, che regolano fatti commessi in carcere e nei centri di accoglienza, qualificando come rivolta anche la resistenza passiva o il rifiuto opposti a un comando (anche di rientrare in cella). Ordine e disciplina, esecutorietà della pena sono i dogmi da ottemperare, a prescindere. L’attenzione fulminante, per reprimere l’abuso di ufficio, per annaffiare il traffico di influenze illecite e per azzerare le relative condanne, è “altra cosa”. Il dramma delle carceri è però, incontrovertibilmente, “la cosa”: e per risolverlo occorre l’indulto, che garantisce effetti solutori immediati. Magari da coniugare con una riforma della carcerazione preventiva, da ridurre all’osso. Nel ripristino del garantismo. E nel rifiuto della legislazione dei due pesi e delle due misure. *Presidente della Camera penale di Terni “Battiamoci, per il bene del Paese”. Quelle toghe che confondono sindacato e missione storica di Errico Novi Il Dubbio, 7 settembre 2024 “È per il bene del Paese”. In genere negli slogan elettorali si dice così. Con un’enfasi a metà fra l’iperbole risorgimentale e il paternalismo da prima Repubblica. Ma sentirlo dire dai magistrati colpisce. Soprattutto dai magistrati impegnati “politicamente”. A pronunciare una frase così solenne è stata, nei giorni scorsi, la presidente uscente dell’Anm sezione Napoli, Ida Teresi. Una pm antimafia importante, con alle spalle diverse indagini delicate, ora in prima linea nella Procura guidata da Nicola Gratteri. Nel passare il testimone alla collega Cristina Curatoli, nell’augurarle buon lavoro, le ha appunto detto: “Sarà importante continuare a sostenere l’Associazione per dare voce alla magistratura italiana in un momento davvero complicato, con l’impegno di tutti e di ciascuno. Per il bene del Paese”. Ecco, è l’accostamento fra le due ultime proposizioni, in particolare, a colpire: il “momento” è così “complicato”, evidentemente, perché sta per iniziare l’iter parlamentare del ddl sulla separazione delle carriere. La riforma con cui Carlo Nordio sancisce il divorzio fra giudici e pm è, da mesi, la croce, il chiodo fisso dell’Associazione magistrati e delle sue correnti. E dunque, sul piano sindacale, il momento è effettivamente “delicato”. Ma il fatto che la lotta da condurre in una fase del genere vada affrontata non per l’interesse di categoria, più che legittimo e più o meno condivisibile, ma appunto per il bene del Paese, ecco, genera uno scarto semantico da corto circuito cognitivo. Perché evitare la separazione delle carriere farebbe addirittura il “bene del Paese”? Perché una categoria così impegnativa, anzi due categorie, il bene e il male? Perché i fatti delle toghe ci dovrebbero riguardare tutti come se si trattasse dell’ingresso nell’euro o del ritorno al nucleare? Perché, visto che parliamo semplicemente di un riassetto ordinamentale già implicitamente evocato dall’articolo 111 della Costituzione (la parità delle parti davanti al giudice terzo e imparziale), e visto che gli stessi Padri della Carta del ‘48 accantonarono tale opzione solo per scongiurare il ricrearsi di una figura di magistrato inquirente analoga a quella appena archiviata con la dittatura fascista? Che senso ha tanta solenne gravità, se nella riforma Nordio l’unica vera incognita, per i pm, non riguarda certo il rischio di un loro annichilimento o subornazione politica, quanto piuttosto il loro futuro sostanziale distacco da ogni altra componente dell’ordine giudiziario e, soprattutto, da qualsiasi controllo, eccezion fatta per il presidente della Repubblica? In una parola: perché le toghe si sentono sempre il centro dell’universo e della morale? Che si sentano cosi è attestato da svariati precedenti. Dal programma dell’ultimo congresso celebrato dalla corrente a cui appartiene la stessa pm Teresi, “AreaDg”, per esempio: l’anno scorso a Palermo il gruppo progressista della magistratura organizzò, più che un’assise tecnico-associativa, una sorta di congresso da partito politico vecchio stampo: trasversale nella partecipazione e negli ospiti, universalistico nei temi messi a dibattito, politico non in senso lato ma in senso pieno, con tavole rotonde del genere “I diritti sotto attacco”, certo non un approccio pensoso e neutrale. Sono in missione, i magistrati. Ma qualcuno ha chiesto loro di esserlo? È un problema dal quale il sistema istituzionale, il dibattito pubblico del nostro Paese non riesce a venir fuori. Lo segnala da anni Giuseppe Fiandaca, che alla vocazione politico-moralistica delle toghe militanti riconduce un ampio spettro di danni provocati all’equilibrio della nostra democrazia. Come insegna il professore dell’Università di Palermo, la confusione fra i poteri, e l’esondazione del potere giudiziario, rappresentano l’innesco di un disordine irrimediabile. E non si tratta solo di specifici effetti concreti, ma del diffondersi di un’idea, di un equivoco culturale, che a chi scrive pare ricorrere, per esempio, anche nell’ambizione in qualche modo “moralizzatrice” coltivata dalla magistratura ligure nell’indagine su Giovanni Toti. Nel momento in cui si afferma che un governatore, finché non si dimette, continua a poter reiterare il reato, ecco, si produce un altro capogiro, un altro cortocircuito cognitivo: intanto il reato è in ipotesi, quindi ipotizzarne la reiterazione non è solo arbitrario, è più banalmente illogico. Ma soprattutto, equiparare le funzioni politico-amministrative a indizio di colpevolezza, anzi di potenziale attitudine a delinquere, significa porsi come guardiani della morale assoluta rispetto a una politica che è di per sé è corrotta. È una distorsione della giustizia, uno “sviamento della funzione”, non in senso penalmente rilevante ma sul piano culturale e semantico, che si salda perfettamente con le parole di Teresi secondo cui l’impegno anti-riforma dell’Anm dev’essere condotto e profuso per il bene del Paese. Tutto sovradimensionato. Tutto alterato da un’enfasi che poteva essere comprensibile nel pieno del fuoco di Mani pulite, ma che dopo 33 anni regge solo perché una parte del sistema mediatico tiene il gioco, e in qualche modo giustifica certi eccessi. Dopodiché, in una simile analisi, neppure si può ignorare che al decadimento della classe politica, alla perdita di spessore politico-culturale dei partiti, ridotti più che altro a cordate che garantiscono, attraverso la cooptazione, solo la loro stessa integrità, dovevano pur rimediare altri soggetti sociali. E la magistratura associata, a ben guardare, ha svolto anche questa più o meno volontaria e consapevole supplenza, oltre a quella realizzata dai singoli giudici attraverso le sentenze nelle materie in cui il legislatore si è attardato. È chiaro che la magistratura rappresenta una delle ultime élites intellettuali del Paese, non foss’altro perché il concorso per diventare giudice o pm, almeno per ora unico, richiede anni di studio, di rigore, di sacrifici, e una cultura di base non approssimativa. Ben venga, sia chiaro, il contributo intellettuale dell’élite giudiziaria: ma non può essere benvenuto, proprio per il bene del Paese, il moralismo militante di chi associa una determinata visione della società con il malinteso compito di cambiarla, per salvarla dal male. Evitiamo lo slittamento dal contributo culturale al moralismo giudiziario, perché altrimenti il potere lasciato doverosamente, dalla Costituzione, nelle mani dei magistrati diventa un’arma nucleare che spegne qualsiasi ipotesi di democrazia. “Attenti: sulle carriere separate, i cittadini hanno già votato no” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 settembre 2024 Dalla separazione delle carriere al caso Natoli, passando per il dramma carcerario: intervista a Rossella Marro, Presidente di Unicost: “I cittadini si sono già espressi sulla separazione delle carriere in occasione di un referendum e l’hanno bocciata. Non è l’attuale assetto dei poteri dello Stato a preoccuparli, anzi hanno in più occasioni dimostrato cautela quando sono state proposte modifiche sostanziali allo stesso attraverso iniziative referendarie”. Il ministro Nordio ha detto: “Ho sentito slogan incredibili, che la separazione delle carriere è contraria alla democrazia porta alla dittatura. Per quanto mi riguarda, non avrei affatto paura del referendum e vorrei andarci quanto prima perché mi piacerebbe che i cittadini si esprimessero su questo”. Una vera e proprio sfida alla magistratura. Lei come replica? I cittadini si sono già espressi sulla separazione delle carriere in occasione di un referendum e l’hanno bocciata. Non è l’attuale assetto dei poteri dello Stato a preoccuparli, anzi hanno in più occasioni dimostrato cautela quando sono state proposte modifiche sostanziali allo stesso attraverso iniziative referendarie. Se si arrivasse davvero al referendum ci sarebbe un reale confronto tra politica, cittadini, magistratura. Partendo dal presupposto che l’opinione pubblica non è molto preparata sul tema, quali sarebbero gli argomenti più forti e semplici da utilizzare? Una magistratura autonoma e indipendente è a tutela dei cittadini perché garantisce l’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge. Un assetto che indebolisce la magistratura rafforza i rischi di abusi di potere. A fine agosto ha fatto notizia un presunto complotto tra magistratura, politica e stampa per colpire la sorella della premier, Arianna Meloni. Lei che idea si è fatta? Proprio nessuna, perché la notizia è apparsa fondata sul nulla. A proposito di certa stampa, lei ritiene ci sia un pregiudizio anche malevolo nei confronti della magistratura? Sono sempre refrattaria all’idea dei complotti. Rientra nella logica delle cose essere criticati per la propria attività e, di certo, può accadere che talvolta la critica si spinga fino a divenire un attacco personale e strumentale. Ogni magistrato quando ha scelto questo mestiere lo ha messo in conto. Caso Natoli: si preannuncia una vera e propria resa dei conti: Lei accusa i colleghi di averla “terrorizzata, forzata e violentata psichicamente”, costringendola a non votare per la nomina del procuratore di Catania, di fatto cambiando le sorti di quella decisione”, intanto l’ 11 si vota per la sospensione. Che idea si è fatta di questa vicenda e quanto è importante che la componente togata sia compatta quel giorno? I fatti addebitati alla consigliera Natoli, come emergenti dalle notizie a nostra conoscenza, sono gravi. Mi meraviglia quanto sostenuto dalla stessa, essendosi la consigliera astenuta dal partecipare a tutti i plenum successivi allo scandalo e non solo al plenum che ha avuto a oggetto la nomina del procuratore di Catania. Quanto al tema generale, ciò che dovrebbe stare a cuore a tutti è la credibilità e l’autorevolezza del Csm che è organo di rilevanza costituzionale. L’iniziativa del Comitato di presidenza con l’inserimento del tema all’ordine del giorno del prossimo Csm chiama tutti i consiglieri, togati e laici, ad una decisione molto delicata e mi auguro unitaria. Due giorni fa un detenuto di 18 anni è morto carbonizzato nel carcere di San Vittore, a Milano, per un incendio divampato nella cella nel quale era insieme con un altro detenuto. E siamo a 70 suicidi e il sovraffollamento è in aumento. Ma il governo tace. Non sarebbe il caso di predisporre anche provvedimenti di clemenza? La situazione carceraria è insostenibile, ma non spetta alla magistratura sostituirsi al potere politico nella individuazione delle soluzioni. Non vi è dubbio che, in attesa del necessario aumento delle strutture carcerarie, conseguente all’aumento della popolazione carceraria degli ultimi venti anni, occorrono soluzioni anche nel breve- medio periodo, per non vanificare la funzione rieducativa che la Costituzione assegna alla sanzione penale. Funzione rieducativa che è innanzitutto nell’interesse della collettività per l’abbattimento del rischio di recidiva connesso. Le alternative possibili sono diverse ma la scelta spetta alla politica. Ciò che però deve essere chiaro è che non è possibile fare una seria politica carceraria senza i necessari investimenti, compresi quelli necessari a potenziare, rendendole effettive e proficue, le sanzioni sostitutive. Nell’ultimo Consiglio dei ministri è passata la norma Costa che vieta la pubblicazione totale e parziale delle ordinanze di custodia cautelare. Il presidente Anm Santalucia ha detto: “Parlare di bavaglio non credo sia corretto perché la norma non vieta che si dia notizia di un’ordinanza di custodia cautelare e addirittura che se ne riassumano i contenuti”. Tuttavia bisognerà affidarsi a “un giornalista che può sbagliare o essere incompleto”... Talvolta, il rimedio è peggiore del male. Il rischio è di affidarsi a sintesi non fedeli o, ancora peggio, a mere supposizioni delle ragioni sottese alla misura cautelare. Se è vero che l’opinione pubblica ha il diritto di essere informata, bisogna chiedersi se sia preferibile andare direttamente alla fonte dell’atto giudiziario o ad una sintesi di parte. Bisogna chiedersi cosa sia meglio non solo per la pubblica opinione ma anche per il diretto interessato. L’ex Governatore della Liguria Toti ha sostenuto di essere stato intercettato per quattro anni. Il presidente dell’Ucpi Petrelli ha commentato: “La circostanza emersa di recente della durata pluriennale delle intercettazioni ambientali e telefoniche disposte nel procedimento a carico di Giovanni Toti non solo appare inammissibilmente sproporzionata rispetto all’oggetto del processo ma mette in luce i rischi connessi alla arbitrarietà priva di sanzioni della scelta da parte del Pm delle incolpazioni di ambito mafioso dalle quali discende l’utilizzo di tale strumento intercettativo”. Qual è il suo parere? Le intercettazioni sono uno strumento insostituibile, soprattutto per l’accertamento dei reati in materia di criminalità organizzata, sempre più radicati anche nel nord Italia, e pubblica amministrazione. Non conosco gli atti processuali e, quindi, non posso esprimermi in merito, né lo riterrei opportuno. Posso però dire che le intercettazioni, comprese le proroghe, sono autorizzate da un giudice e, considerata la durata delle stesse, dobbiamo ritenere che si siano avvicendati diversi giudici sul fascicolo. A ciò va aggiunto che le operazioni proseguono finché sono indispensabili o assolutamente necessarie in relazione alle singole ipotesi di reato di volta in volta emergenti nel corso delle indagini e, quindi, la durata delle intercettazioni di per sé non è elemento di sospetto. Governo incapace sulle carceri. Liguria? Basta giustizialismo” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 7 settembre 2024 È il tardo pomeriggio di ieri quando arriva la notizia del sostegno di Azione alla candidatura di Andrea Orlando, ex ministro della Giustizia, perle Regionali in Liiguria, assieme a Pd, M5S, Avs e, chissà, Italia viva. Ne parliamo con il vicesegretario di Azione e vicepresidente della Camera, Ettore Rosato. Onorevole Rosato, il sostegno di Azione a Orlando in Liguria è cosa fatta: come commenta? Siamo ottimisti che sul piano programmatico le garanzie che ha espresso Orlando siano condivise da tutta la coalizione. Orlando se ne fa carico, nei prossimi giorni, come è stato già anticipato, ci saranno degli incontri ad hoc su questo. Negli scorsi giorni tuttavia avevate messo dei paletti su alcuni temi. Cosa è cambiato? Avevamo messo dei paletti sulle infrastrutture, dove c’erano dei no da parte del Movimento 5 Stelle e di un pezzo della sinistra, che in queste ore si sono trasformati in sì, ma ribadiamo con forza da parte nostra che la campagna elettorale condita di giustizialismo, che qualcuno aveva in mente, non può essere una campagna elettorale a cui noi partecipiamo. Dopo Liguria, Emilia- Romagna e Umbria, è dunque possibile un accordo con il campo largo anche in vista delle prossime Politiche? Non è all’ordine del giorno e soprattutto non ci sono gli elementi programmatici. La distanza sui temi della giustizia, della politica estera, della politica energetica è tale per cui o il campo largo cambia il suo dna oppure noi che nel campo largo non siamo, un’alleanza con loro non la potremo mai fare. Eppure a livello locale già governate con partiti della coalizione di centrosinistra: cosa cambia rispetto al nazionale? A livello locale, dove riusciamo a raggiungere degli accordi, e cito su tutti l’Emilia- Romagna, siamo a nostro agio e ci stiamo ben volentieri. Ma lì c’è un candidato riformista (Michele De Pascale, ndr) che non pensa di cambiare idea sulle trivellazioni in Adriatico o sul rigassificatore solo perché ha in coalizione Avs o il M5S. In altri luoghi i passaggi sono più problematici. A proposito di giustizialismo, la vostra referente locale era in quella piazza contro Toti… La semplificazione in politica è sempre sbagliata. La battaglia che conduciamo come Azione è contrapporci a chi pensa che tutti sia bianco o nero e quella manifestazione, dal nostro punto di vista, era sbagliata anche per questo. Voi dite “mai con i Cinque Stelle”, Renzi dice “mai in una coalizione a trazione M5S”. Non è questo un punto in comune? Non è un punto che ci accomuna, perché noi in una coalizione con i Cinque Stelle a livello nazionale comunque non ci entriamo. Salvo non rinneghino la loro politica estera, la loro politica economica ed energetica, le loro posizioni sulla giustizia. Non è una questione di trazione, è una questione di programma. Non ci metteremo a fare come il Pd che dice che bisogna inviare delle “cose” in Ucraina. Vanno mandate le armi, non le cose. Così come pensiamo che transizione energetica che coinvolga anche il nucleare sia indispensabile. E potrei andare avanti a lungo, a cominciare dalle nostre posizioni sulla giustizia. Un tema sul quale con Iv votate spesso in accordo: cosa c’è che funziona e cosa no nelle politiche del governo sulla giustizia? Noi continueremo a sostenere in ogni luogo le proposte del governo che spesso sono le nostre proposte a cominciare dal lavoro di Enrico Costa. Ma non mancheranno mai le critiche durissime sull’incapacità di gestire il fenomeno carcerario o sull’esercizio di una legislazione punitiva come quella sulle mamme con i bambini in carcere. E poi ci chiediamo se sulla riforma della giustizia il governo vuole andare fino in fondo o si vuole fermare a cose di facciata e piccoli interventi circoscritti. Pensa ci sia modo di tornare a un qualche tipo di dialogo con Iv? Mi sembra chiarissima la scelta di Italia viva e di Renzi di entrare nel campo largo. Non mi aspetto che cambino idea. È un punto definitivo a qualsiasi ipotesi di lavoro insieme. Ci stiamo collocando in due luoghi diversi: loro nel campo largo, noi fuori. Ma anche in Iv c’è chi è contro il campo largo, come Luigi Marattin: ci sono contatti per la formazione di un contenitore lib-dem? Noi ci siamo impegnati più volte ad andare avanti su questo percorso e continueremo a farlo con convinzione. Aspettiamo con rispetto il dibattito interno agli altri partiti ma la nostra idea è che bisogna realizzare un partito unico e plurale nell’area di centro. Area di centro che è occupata in questo momento da Forza Italia, che si prende elettori e parlamentari, in futuro magari anche da Azione… Penso che di dimostrazioni della mobilità dell’elettorato in questi anni ne abbiamo avute talmente tante che non occorre commentarle. Sul piano più prettamente partitico penso sia importante provare sempre a dialogare con partiti che possono mettere in campo politiche contigue. Penso al tema dello Ius scholae, su cui con Forza Italia e il Pd si potrebbe provare a costruire una convergenza. Sarebbe uno straordinario passo avanti per il nostro paese e rispettoso di migliaia di ragazzi che sono italiani a tutti gli effetti. I direttori di Giustizia non aspettano il confronto: in piazza il 10 a Roma di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 7 settembre 2024 Il “Coordinamento nazionale dei direttori della Giustizia” ha annunciato una manifestazione per protestare contro quella che insiste nel considerare come una “soppressione” del relativo profilo professionale, e per chiedere l’ingresso nell’area delle cosiddette “elevate professionalità”. Appuntamento a Roma per martedì 10 settembre. L’iniziativa viene assunta nonostante il ministero della Giustizia avesse chiarito, in un comunicato diffuso nei giorni scorsi, che la questione sarebbe rimasta “devoluta al confronto con le organizzazioni sindacali per la stipula del nuovo contratto integrativo e la definizione delle nuove famiglie professionali”. Via Arenula aveva anche assicurato che “il confronto, leale, trasparente e costruttivo è tuttora in corso e il ministero conferma la disponibilità ad ascoltare le istanze dei rappresentanti dei dipendenti amministrativi e a riprendere il tavolo di concertazione, come previsto, a settembre”. Ma il “Coordinamento dei direttori” ha deciso di non aspettare: “In attesa che il ministero della Giustizia - si legge in una nota -, dopo il comunicato stampa di qualche giorno fa, voglia illustrare concretamente le sue eventuali nuove proposte nella trattativa per il rinnovo del contratto collettivo nazionale integrativo, i direttori non desistono dalla loro protesta e anzi la rilanciano scendendo in piazza. Dando corpo al proclamato stato di agitazione, il Coordinamento nazionale direttori della Giustizia ha organizzato a Roma per il prossimo 10 settembre una manifestazione in Piazza Cavour, davanti al luogo più rappresentativo della giustizia italiana, la Corte di Cassazione. Centinaia di direttori in servizio negli uffici giudiziari confluiranno nella Capitale per chiedere il loro inquadramento nell’Area delle Elevate professionalità, con la piena salvaguardia in ogni caso delle mansioni finora svolte, come delineate dal Dm del 9 novembre 2017”. Di fatto, secondo il Coordinamento, non c’è neppure bisogno di una trattativa: “Il profilo del direttore risponde già pienamente ai requisiti per l’inquadramento nell’Area delle elevate professionalità, come previsto dal Ccnl comparto Funzioni centrali”, si sostiene nella nota. Così lo Stato maltratta gli addetti all’Ufficio del processo (che dovrebbero salvare la giustizia) di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2024 Precari, demansionati e ora pure lasciati per mesi senza stipendio. Assume contorni sadici il trattamento riservato agli addetti all’Ufficio per il processo (Upp), l’esercito di funzionari reclutati con i fondi Pnrr per velocizzare i tempi della giustizia e abbattere l’arretrato, supportando i magistrati nello studio dei fascicoli e nella stesura dei provvedimenti. Un esperimento in parte già fallito a causa delle condizioni offerte dallo Stato a questi lavoratori, spesso non più giovanissimi: nonostante la qualifica richiesta (laurea in Economia, Giurisprudenza o Scienze politiche) e le enormi aspettative caricate sulle loro spalle, sono stati assunti con contratti a termine della durata massima di due anni e sette mesi, prorogati solo di recente fino a quattro anni e spiccioli per i primi entrati in servizio (febbraio 2022). Ma moltissimi di loro - circa un terzo - nel frattempo avevano già lasciato l’incarico per un impiego più stabile, quasi sempre nella stessa pubblica amministrazione. Così il governo ha dovuto prendere atto del fallimento e rinegoziare al ribasso con Bruxelles il target di assunzioni da raggiungere entro il 30 giugno 2024, abbattuto da 19.719 a diecimila. Per centrarlo, ad aprile è stato bandito un nuovo concorso, vinto da 3.352 laureati che hanno preso servizio lo scorso 21 giugno e da allora lavorano negli uffici giudiziari di tutta Italia. O forse sarebbe meglio dire che fanno volontariato: a quasi tre mesi dall’assunzione, infatti, la maggior parte dei nuovi ufficiali del processo non ha ancora visto un euro di paga. Il ministero in tilt - Il motivo, come spesso accade, è burocratico: l’infornata di nuovi assunti ha mandato in tilt il ministero della Giustizia, che non è ancora riuscito ad aprire le loro posizioni stipendiali su NoiPa, la piattaforma su cui vengono gestiti in maniera informatizzata i processi amministrativi relativi al personale. “L’elevato numero di dipendenti ha determinato un eccezionale lavoro in termini di registrazione dei contratti e verifiche amministrativo-contabili nonché elaborazioni tecniche finalizzate all’inserimento dei dati da fornire al sistema NoiPa per la successiva meccanizzazione massiva. A oggi tale complessa attività è in fase di conclusione”, fa sapere via Arenula con una nota diffusa in risposta alle richieste di chiarimenti del fattoquotidiano.it. E promette che “lo stipendio verrà pagato nel mese corrente con rata urgente, a parte alcune posizioni per le quali sarà necessaria una ulteriore verifica”. Si tratta della prima comunicazione formale sul tema arrivata dagli uffici romani, che finora avevano fatto scena muta di fronte alle valanghe di mail e pec arrivate dagli addetti Upp senza retribuzione. Sul loro gruppo Facebook fioriscono decine di post tutti uguali: “Voi avete ricevuto lo stipendio?”, “Quando ci pagheranno?”. Qualcuno invita a rassegnarsi (“Nella pubblica amministrazione funziona così”), mentre altri, più combattivi, ipotizzano di mettere in mora il ministero e adire le vie legali. “Impossibile avere un fido in banca” - Anche perché non tutti possono permettersi di restare a lungo senza entrate. “La situazione è drammatica. Siamo costretti a lavorare gratuitamente sobbarcandoci tutti quei costi della vita che, senza uno stipendio, sono impossibili da sostenere”, ci racconta C., trent’anni, chiedendo l’anonimato. “Ho tentato di chiedere un fido in banca per andare avanti e permettermi di pagare la benzina e il nido per mia figlia, ma dato che non ci sono entrate non è nemmeno possibile accedere a forme di credito. Essendo entrati in servizio a giugno, gli unici nidi disponibili durante l’estate sono privati, con rette che si aggirano intorno agli 800 euro mensili. E poi ci sono tutte le altre spese di vita quotidiana. Mi chiedo, come sia possibile che tutto ciò avvenga nel silenzio delle istituzioni? Non ci è arrivata nemmeno una comunicazione ufficiale per avvertirci che ci sarebbero stati ritardi. Se il datore di lavoro insolvente fosse un privato, ci sarebbero state conseguenze legali non di poco conto. Perché invece lo Stato, e in particolare il ministero della Giustizia, può permettersi di congelare i diritti dei propri dipendenti impunemente?”, si chiede. “Demansionamenti e mobbing all’ordine del giorno” - “Sono una ragazza di 28 anni che vive da sola e deve mantenersi pagando spesa e bollette, nonché i mezzi di trasporto per recarmi a lavoro, ben ottanta chilometri tra andata e ritorno”, ci dice invece A.. Sottolineando anche altri aspetti frustranti della sua esperienza, condivisi da vari colleghi: “Ormai sono mesi che lavoriamo e alcuni di noi non hanno neanche i pc o le postazioni. A causa della carenza di personale ci stanno utilizzando come sostituti degli assistenti giudiziari, mandandoci in udienza a verbalizzare, lavoro che non compete a noi. I demansionamenti sono all’ordine del giorno, così come il mobbing dei colleghi più anziani. Alcuni di noi, poi, formalmente sono Upp ma di fatto svolgono altri ruoli (ad esempio cancelleria), falsando tra l’altro anche i dati del Tribunale”. D., invece, faceva l’avvocato da oltre 15 anni e per prendere servizio all’ufficio del processo è stato costretto a sospendersi dall’albo, vista l’incompatibilità prevista dalla legge. Quindi, racconta, “le entrate attuali sono pari a zero. Peccato che le spese vadano pagate, invece, eccome. Specie quando c’è di mezzo anche un figlio di due anni, che ora ha bisogno tra l’altro dei vestiti per l’autunno. Contattando il ministero della Giustizia mi sono sentito dire: “Abbiamo fatto diecimila assunzioni, dovete avere pazienza”. Beh, quella non manca. È il denaro che è finito”, si sfoga. “Discriminazione economica” - Riflessioni condivise da S., trent’anni, in servizio in un Tribunale del Piemonte. “Io mi chiedo: è veramente normale non essere pagati per mesi, mentre si attendono “i tempi tecnici” perché il ministero possa organizzarsi? In qualsiasi contratto la puntualità nell’adempimento delle obbligazioni è fondamentale. Io vengo a lavoro ogni giorno, tu mi paghi ogni mese. Se io non venissi a lavorare un mese o più, senza neanche comunicarlo, perché necessito di tempi per organizzarmi, ad esempio per trovare una casa adatta alle mie esigenze, spostare la mia vita da una parte all’altra dell’Italia eccetera, tu, Pubblica amministrazione, non prenderesti seri provvedimenti nei miei confronti, fino al licenziamento per giusta causa? Penso che la risposta sia ovvia”. “In tutto questo, mi sento di parlare da privilegiata. Perché, pur non avendo risparmi da utilizzare per tamponare questo periodo di mancanza di liquidità, ho una famiglia che, con un amore e una pazienza infinita, continua a sostenermi economicamente. Ma deve essere obbligatorio per poter lavorare nella Pa? Queste situazioni creano discriminazioni su basi economiche, non solo ingiuste, ma contrarie al principio di eguaglianza sancito dalla Costituzione”. La parabola di Vallanzasca: “Venga trasferito in una Rsa. Ha perso del tutto il controllo” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 7 settembre 2024 “La condizione più adeguata alla situazione di salute del paziente” Renato Vallanzasca “è una Rsa, struttura residenziale per persone affette da Alzheimer/demenza”, perché il suo attuale stato “rende difficile la compatibilità con il regime carcerario, anche per la necessità di assistenza sempre più intensa e continuativa”. A dirlo non è più la difesa dell’archetipo di “bandito” degli anni 70-80, in carcere da 52 dei suoi 74 anni per scontare quattro ergastoli per omicidi, rapimenti, rapine ed evasioni: per la prima volta, invece, lo attesta una relazione al Tribunale di Sorveglianza di Milano dell’ambulatorio di psichiatria del servizio di medicina penitenziaria dell’Asst San Paolo, proponendo appunto “il differimento della pena in residenza sanitaria assistenziale”, o in subordine, “se non possibile” questa soluzione, “il trasferimento” da Bollate “in un istituto penitenziario dotato di Sai-Sezione di assistenza sanitaria intensiva”. Martedì prossimo, in udienza, la giudice di sorveglianza Carmen D’Elia deciderà sulla istanza dei legali Corrado Limentani e Paolo Muzzi. La relazione, nei cui dettagli fisici qui non si entrerà, mostra quanto il personaggio Vallanzasca (alimentato da lui stesso anche durante la detenzione-record, ma al contempo sfruttato da non pochi attorno a lui da quando non c’è più con la testa) non abbia ormai più nulla a che vedere con la persona Vallanzasca, più simile a tanti altri anziani minati da decadimento cognitivo: “Ha perso completamente il controllo” della propria quotidianità, “non è assolutamente in grado di badare” a sé, “è disorientato nel tempo e nello spazio”, “a tratti emerge la sofferenza di non riuscire a esprimere con il linguaggio quello che si produce nel suo pensiero”, ed è ormai “visibile lo stato di prostrazione” di quanti nel carcere di Bollate lo aiutano, “non formati e preparati per la gestione di un paziente con queste criticità”. Nel 2010 Vallanzasca aveva ottenuto il beneficio della semilibertà dopo oltre un trentennio di galera dovuta a una carriera criminale costellata in particolare tra il 1972 e il 1987 dalle uccisioni di quattro poliziotti in conflitti a fuoco durante fughe da rapine o in posti di blocco (Bruno Lucchesi, Antonio Furlato, Michele Giglio, Giovanni Ripani); dall’assassinio in carcere di un detenuto, Massimo Loi; da sequestri come quello di Emanuela Trapani, liberata dopo un riscatto di 1 miliardo di lire del 1977; dalla guerra (prima) e pace (poi) con la banda di Francis Turatello, divenuto suo testimone di nozze in carcere nel 1979. E dalle rocambolesche evasioni fondanti l’alea romanzesca intorno al bandito: alcune riuscite a metà (come quando nel 1980 insieme al brigatista Corrado Alunni uscì dall’ingresso principale di San Vittore prendendo agenti in ostaggio e sparando, ma venendo ferito e lasciato presto dai compagni fuori da un ospedale), altre durate poco (come quella nel 1987 dall’oblò del traghetto Genova-Nuoro, finita dopo la spacconata di essere andato a farsi intervistare nella redazione milanese di Radio Popolare da cui uscì rubando a un giornalista la patente), altre ancora subito abortite, come l’ultimo progetto di fuga da Nuoro nel 1995. Ma il regime di semilibertà gli fu revocato quando nel 2014 fu arrestato, e condannato a 10 mesi, per tentata rapina impropria (da lui negata) di un paio di boxer in un supermercato di Milano. Nel 2020 il diniego della libertà condizionale fu motivato dai giudici valorizzando il mancato “definitivo ripudio del passato stile di vita”, e l’aver invece insistito a “non confrontarsi con la dolorosità del male arrecato”. Negli ultimi due anni, infine, ecco l’altalena di decisioni sul permesso (concesso, revocato, ripristinato) di 12 ore alla settimana in una comunità terapeutica. Stalking se i post sul profilo dell’autore sono conoscibili da parte della vittima di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2024 In un contesto di pregressa conflittualità e aggressività possono rilevare come atti persecutori anche due soli post sul profilo social “aperto” dell’autore facilmente riferibili da terzi alla vittima. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 33986/2024 - ha confermato la condanna per stalking fondata su due post pubblicati su Facebook, non sul profilo della vittima, ma su quello dell’autore del reato. In effetti, spiega la Suprema Corte che è l’agevole conoscibilità del contenuto di quanto pubblicato in rete che espone il soggetto attinto dalle affermazioni molestie o minacciose a rappresentare elemento costitutivo del delitto previsto dall’articolo 612 bis del Codice penale. Non rilevano, quindi, solo le condotte direttamente agite contro la persona che di fatto risulta e si sente “perseguitata”. Come, ad esempio, nel caso in cui le affermazioni moleste e minacciose siano postate direttamente sul profilo della vittima. Non rileva in ambito di strumenti dotati di alta diffusività che la persona perseguitata sia partecipe del network su cui avviene la pubblicazione dei testi persecutori. Nel caso concreto i due post incriminati erano postati su un profilo dell’autore “aperto” e comunque accessibile da parte di persone vicine alla vittima. Infatti, nella vicenda analizzata, in tempi brevi dall’avvenuta pubblicazione dei testi molesti sul social la sorella della vittima aveva riferito di averli e letti e ne aveva narrato il contenuto al fratello. Per cui nulla toglie all’imputazione per stalking che la condotta si risolva in due soli post, quando questi hanno raggiunto lo scopo/il risultato di ingenerare nella vittima quello stato di ansia che è elemento costitutivo del reato. Infine, va rilevato che la Cassazione ha confermato - al fine di asserire la consumazione del reato di atti persecutori - la rilevanza data in sede di merito allo scenario pregresso che vedeva coinvolti da anni l’autore dei post e la persona ivi citata. In quanto vi era stato tra i due aperto conflitto personale e familiare dovuto ai maltrattamenti agiti dal ricorrente contro la figlia della persona stalkerizzata su Facebook. Milano. A San Vittore si può morire anche così: carbonizzati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 settembre 2024 Un detenuto di 18 anni, recluso da luglio in attesa di giudizio, ha perso la vita nella cella che condivideva con un compagno, per un incendio appiccato, sembrerebbe, da loro stessi. Nella quiete della notte, quando il nostro Paese si abbandonava al dolce respiro del sonno, il silenzio è stato rotto da un grido disperato che si è consumato tra le fiamme divoranti, dentro una cella che, ironia del destino, doveva essere un luogo di custodia e non una trappola mortale. Youssef Barsom, 18 anni, il volto giovane di una tragedia antica, è morto arso vivo nel cuore della notte, nella Casa circondariale di Milano San Vittore. Un’altra vittima del sistema carcerario italiano. Un sistema che sembra aver smarrito ogni umanità. Era venerdì notte. Le fiamme hanno inghiottito la vita di questo giovane detenuto di origine egiziana, che si trovava dietro quelle sbarre da luglio, in attesa di giudizio per un’accusa di rapina. Un fuoco devastante si è propagato nella cella, distruggendo tutto e, soprattutto, spezzando un’altra vita. Il corpo di Youssef è stato trovato carbonizzato. Nulla hanno potuto fare gli agenti della polizia penitenziaria, intervenuti tempestivamente ma impotenti di fronte all’implacabilità del fuoco. Un fuoco che sembra alimentato non solo dai detenuti stessi, ma da anni di incuria, sovraffollamento, mancanza di risorse e abbandono. La notizia della morte di Youssef si è diffusa rapidamente, come un vento caldo che porta con sé cenere e desolazione. Monica Bizaj, dell’associazione “Sbarre di Zucchero”, fa sapere che “chi lo ha conosciuto bene dice di lui che era un adolescente “pazzerello” ma con un cuore immenso e un sorriso dolcissimo”. Un adolescente che, forse, nel suo breve tempo su questa terra, per giunta a lui straniera, cercava ancora di capire chi fosse, di trovare il suo posto in un mondo che gli aveva già voltato le spalle. Ma quel mondo, o meglio quel microcosmo fatto di mura fredde e sbarre impenetrabili, non gli ha dato il tempo di cercare. Le fiamme lo hanno portato via. Ma il fuoco di San Vittore non è stato appiccato da un incidente del destino, ma, come emerge dalle prime indagini, potrebbe essere stato lo stesso Youssef, insieme al suo compagno di cella, ad accendere quella torcia di disperazione. Forse un gesto dimostrativo, forse un suicidio, poco importa. Ciò che conta è che dietro a quel gesto c’è una vita intrappolata. Una vita resa insostenibile da un sistema che, come un ingranaggio rotto, continua a macinare vite e dignità. Il suo compagno di cella, tratto in salvo, ha riportato solo lievi sintomi di intossicazione, ma cosa rimarrà di quella notte nei suoi occhi, nel suo cuore? E mentre si cerca di dare un senso a questa tragedia, le voci si alzano, furiose, rassegnate, incredibilmente familiari. Perché questa non è la prima morte. Non sarà l’ultima. Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato Uilpa Polizia Penitenziaria, parla con durezza, descrivendo quello che è ormai diventato un vero e proprio “bollettino di guerra”. “Un’altra morte che si aggiunge ai 70 detenuti e ai 7 agenti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno”. Numeri che pesano come macigni su una bilancia che ormai pende irrimediabilmente dalla parte del fallimento. San Vittore, come tante altre carceri italiane, è un carcere strapieno. Ospita 1.100 detenuti, in uno spazio che dovrebbe accoglierne meno della metà: 445. Il sovraffollamento ha raggiunto il 247%, una percentuale che dovrebbe essere un grido d’allarme ma che è ormai diventata una sinistra normalità. A fronte di questa massa di vite spezzate e rinchiuse, ci sono solo 580 agenti di polizia penitenziaria, quando ne servirebbero almeno 700. Il loro compito non è solo quello di sorvegliare, ma anche di garantire la sicurezza, la dignità e l’umanità di un luogo che è diventato un inferno in terra. Così come scarseggiano i mediatori culturali, gli etno pischiatri, psicologi e personale sanitario. Numeri che sono stati ribaditi nelle recenti visite di parlamentari, l’ultima ieri di una delegazione di Forza Italia, avvocati e associazioni, radicali in testa. La morte di Youssef Barsom non è solo un tragico incidente. È il sintomo di un male più profondo, di una crisi che affligge il sistema carcerario italiano da anni. Una crisi che sembra crescere con il passare del tempo, come un tumore che non viene curato. San Vittore, come ha osservato Gennarino De Fazio, è ormai diventato un simbolo di questa crisi. Le condizioni sono inumane, sia per i detenuti che per il personale. Eppure, nulla sembra cambiare. Le morti continuano, le voci si alzano, la maggioranza di governo rimane inerme. Ma cosa è cambiato davvero? “Di fronte a questa situazione, da tempo sollecitiamo interventi da parte del governo che tuttavia, fino a questo momento, tardano ad arrivare. Il recente decreto carceri conteneva al suo interno solo interventi minimali che, di fatto, almeno finora non hanno avuto alcun beneficio, stante anche l’aumento delle persone detenute registrato nel mese di agosto”, denuncia l’associazione Antigone. Antonino La Lumia, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano, ha lanciato un appello all’unità delle istituzioni: “In gioco c’è il nostro senso di umanità e di civiltà”. E come dargli torto? Ogni morte come quella di Youssef è una ferita nel cuore di una società che dovrebbe proteggere i suoi cittadini, anche e soprattutto quelli che hanno sbagliato. Ma non ci sono solo le condizioni fisiche. Come ha sottolineato Beatrice Saldarini, coordinatrice della Commissione carcere del Coa di Milano, molti detenuti oggi soffrono di gravi problemi psichici, sono ai margini della società, abbandonati da un sistema che non sa più come gestirli. Il carcere diventa allora una discarica umana, un luogo in cui si ammassano corpi senza più speranza. Anche le Camere Penali di Milano in un comunicato dicono chiaramente che quella di Youssef è l’ennesima morte in un contesto in cui l’insuccesso, il dolore e la morte sono diventati la norma. “La normalità è una impossibile ricerca di equilibrio tra numeri, persone, relazioni”, scrivono i penalisti, sottolineando come la situazione sia sfuggita di mano a tutti. Gli interventi concreti, necessari, urgenti per ridurre il sovraffollamento e restituire dignità allo Stato stesso, sono visti con cinismo, come una “resa dello Stato”. Ma non c’è resa più grande di quella di abbandonare uomini e donne a un destino così crudele. La liberazione anticipata, l’amnistia, l’indulto sono istituti previsti dalla Costituzione per affrontare situazioni eccezionali. E cosa, se non questa crisi, è una situazione eccezionale? Non è più pensabile che le condizioni di vita e di lavoro all’interno delle carceri italiane continuino così. Gli avvocati della Camera penale milanese affermano di non poter più accettare che San Vittore, e tante altre carceri, continuino a essere luoghi di morte. Quella di Youssef Barsom è solo l’ultima, ma quante altre dovranno ancora accadere prima che il governo decida che è giunto il momento di agire? Milano. Youssef morto a 18 anni a San Vittore: “Non doveva stare in carcere” di Ilaria Beretta Avvenire, 7 settembre 2024 L’ex tutrice: “Ragazzo con fragilità mentali, come poteva stare nel carcere più sovraffollato?”. Aveva compiuto 18 anni da pochi mesi ed è morto carbonizzato a Milano, nella cella del carcere di San Vittore - il più sovraffollato d’Italia - dove era recluso in attesa del processo. Tutto è capitato velocemente, di notte, tra giovedì e venerdì. Un incendio è divampato, probabilmente da un materasso, nella stanza che Youssef Mokhtar Loka Barsom, di origini egiziane, condivideva con un altro detenuto, che è riuscito a salvarsi ed è ora indagato. Forse le fiamme sono state innescate dai detenuti stessi per protesta o forse per un tragico incidente: la dinamica esatta - che presuppone anzitutto il capire come un accendino possa essere finito in cella - deve ancora essere chiarita dai pm di Milano che hanno aperto un’indagine ma intanto la morte di Youssef aggiunge una ennesima linea, destinata a non essere l’ultima, nei rapporti che fotografano la situazione dei penitenziari italiani e che assomigliano ormai in tutto e per tutto - ha dichiarato Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria - a un “bollettino di guerra”. Come contraddirlo: alla voce “suicidi” se ne contano ormai 70 a cui si aggiungono 7 agenti di polizia che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno; mentre, al 31 agosto, erano 61.758 i ristretti nelle carceri, che potrebbero accoglierne al massimo 50.911. In cima alla lista dei penitenziari più affollati c’è proprio San Vittore, il carcere della città locomotiva del Paese che è ultima nella classifica della dignità. Qui sono stipati 1.094 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare che i dati ministeriali indicano in 749 ma che nei fatti si fermerebbe a 448 visto che molte camere - e in alcuni casi, intere sezioni - risultano inagibili portando l’indice di sovraffollamento intorno al 245%. “I detenuti - aggiunge un tassello De Fazio - sono sorvegliati da 580 appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria, distribuiti su più turni e compresi gli addetti agli uffici e ai servizi vari, rispetto a un fabbisogno di almeno 700, con una scopertura del 17%”. Un organico sottodimensionato che ha fatto sì che, mentre Youssef andava letteralmente a fuoco, nessuno se ne sia accorto in tempo. Spazi piccoli, sovraffollati e fatiscenti sono un problema per tutti ma ancora di più per chi, come Youssef, soffriva di fragilità psichiche evidenti e accertate da due perizie disposte dai giudici che lo avevano assolto per “vizio totale di mente” in altrettanti procedimenti a suo carico quando era ancora minorenne. A San Vittore si trovava dallo scorso marzo, quando era stato arrestato con l’accusa di rapina, dopo essere scappato da una comunità terapeutica in cui era stato da poco inserito dopo una lunga attesa. Il diciottenne era dunque in custodia cautelare e attendeva il processo con cui, se fosse stato ritenuto colpevole, sarebbe stato condannato. Nato in Egitto il 5 febbraio del 2006, Youssef era sbarcato a Lampedusa nel luglio del 2022 come minore non accompagnato. Passando dalla Libia era stato catturato dai trafficanti, abusato e costretto a bere così tanta acqua contaminata che il fisico ne aveva risentito anche all’arrivo in Italia, dove era stato segnalato e poi spostato da una comunità all’altra della provincia di Milano. Di Youssef ci parla commossa Chiara Poletti che per due anni ne è stata la tutrice legale. “Confrontandoci con la famiglia (il fratello abitava proprio nel Milanese, ndr) sapevamo che Youssef ha sempre avuto qualche difficoltà ma sicuramente il suo percorso migratorio ha acuito il trauma. Aveva bisogno di una comunità terapeutica, pensata apposta per ragazzi con fragilità, ma per lui non c’era mai posto: era una persona di serie B. Finalmente, dopo molti mesi, insieme agli assistenti sociali siamo riusciti a trovargli un posto. Era troppo tardi: quando stai male hai bisogno di essere curato subito e nel frattempo, come qualsiasi altra malattia fisica, le sue condizioni mentali si erano aggravate molto. E così, in un momento di agitazione, Youssef è scappato dalla comunità”. Mentre ancora aspettava di entrarci invece, Youssef aveva frequentato altri minori non accompagnati e altrettanto fragili, aumentando il rischio di farsi del male e di delinquere. Tra giugno e ottobre 2023 era finito così, per piccoli furti, nel carcere minorile Beccaria dove erano anche iniziati i primi episodi autolesionisti. “Si tagliava dappertutto - ricorda Poletti, che lo andava a trovare - le braccia e persino le dita dei piedi. Io mi chiedevo: ma come può accedere a questi strumenti in un carcere? Aveva bisogno di aiuto e il sistema non è stato in grado di darglielo. Oggi, oltre al dolore, c’è anche tanta rabbia. Quello che è successo a Youssef è ingiusto. Come poteva un ragazzo così stare in un carcere tanto sovraffollato, con un tasso di suicidi elevatissimo e senza nessuno a seguirlo?”. Milano. Joussef, dall’inferno della Libia alla morte in carcere. Ma per le Rems c’è la lista d’attesa di Paola Fucilieri Il Giornale, 7 settembre 2024 Il ragazzo arrivato in Italia da minorenne su un barcone. Nelle Rems 445 ospiti, in 675 aspettano di entrare. L’egiziano morto carbonizzato l’altra notte a San Vittore, il 18enne Joussef, come racconta il suo legale Marco Ciocchetta, era arrivato in Italia dall’Egitto, passando per la prigione in Libia, a bordo di un barcone quando era minorenne. L’avevano trovato legato nel bagno del barcone, punito per i suoi comportamenti respingenti verso gli altri. “Con un vizio di mente riconosciuto, Joussef non doveva proprio stare in carcere e la colpa principale non è da addebitarsi al sistema carcerario, ma a quello sanitario” interviene Giuseppe Moretti, presidente del sindacato della Polizia Penitenziaria Uspp. E spiega: “Il giovane egiziano morto carbonizzato a San Vittore doveva stare in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), che prevede di adottare una terapia e una riabilitazione strettamente personali nei confronti del paziente, tenendo conto del grado della misura di sicurezza giudiziaria e della pericolosità personale e sociale o del reato commesso”. Purtroppo le Rems sul territorio non sono sufficienti: dall’ultima Relazione annuale al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (luglio 2023) leggiamo che sono attualmente 632 le persone ospitate nelle 31 Rems sorte sul territorio, e 675 sono in lista di attesa. Mentre le persone con problemi psichiatrici tra i detenuti sono in continuo aumento. “Da quando sono stati eliminati gli Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari) e la sanità delle carceri è stata affidata alle Regioni, non ci sono più strutture che, su disposizione dell’autorità giudiziaria, facciano da filtro per accertare se un detenuto sia compatibile con la detenzione ordinaria oppure se debba andare in una Rems - prosegue Moretti -. Un tempo, quando una persona con problemi psichiatrici più o meno evidenti arrivava in carcere, la direzione sanitaria si attivava con l’autorità giudiziaria, per far eseguire negli Opg, in quanto strutture ospedaliere dedicate, ovvero popolate solo da psichiatri e infermieri, una perizia psichiatrica che stabilisse la compatibilità con il regime detentivo ordinario o la necessità della permanenza del soggetto interessato nella stessa struttura. L’accertamento durava un minimo di 30 giorni che però potevano anche essere prolungati. Intanto la persona veniva stabilizzata e si facevano indagini sul suo reale stato di salute mentale. Solo dopo questa analisi se veniva stabilito che non poteva stare in carcere, attraverso un provvedimento di applicazione della misura di sicurezza per la pericolosità sociale, il soggetto interessato permaneva in un Opg e il carcere non lo vedeva nemmeno”. “A San Vittore c’è senz’altro una sezione dedicata ai malati psichiatrici ma se il giovane Joussef, come pare, era in una sezione comune significa che - al di là che fosse in attesa del processo - o quel reparto dedicato al momento risulta sovraffollato oppure il comportamento del ragazzo nel quotidiano era tale da far valutare all’autorità del carcere che al momento potesse anche stare in una sezione ordinaria”, conclude Moretti. Le Rems in Italia sono insufficienti. E all’interno delle carceri le Regioni hanno difficoltà a garantire un assetto sanitario equilibrato visto che infermieri e medici cambiano spesso e non sono incentivati a lavorare tra le mura delle case circondariali. Milano. La morte nel fuoco a San Vittore scuote la politica: “Svuotare le carceri” di Simone Bianchin La Repubblica, 7 settembre 2024 Youssef, diciotto anni appena, era stato dichiarato incapace di intendere e di volere. Il Garante dei detenuti: “Con questo sovraffollamento fatti come questi vanno messi in conto”. Le opposizioni in Regione: una seduta del Consiglio sul tema. “La morte di un ragazzo di diciotto anni nel carcere di San Vittore è un fatto gravissimo, inaccettabile: l’ennesima morte in un carcere italiano di una persona affidata allo Stato”, scrive l’assessore comunale al Welfare, Lamberto Bertolè. La morte è quella di Youssef Baron, deceduto nella notte tra giovedì e ieri nell’incendio della sua cella. La vittima, che in passato una perizia psichiatrica aveva certificato essere incapace di intendere e di volere e che attualmente assumeva psicofarmaci, potrebbe avere appiccato fuoco al suo materasso. Ma, che di suicidio o tragico incidente si tratti, il tema resta quello del sovraffollamento delle carceri e di quello cittadino in particolare. “In un carcere che ha un sovraffollamento spaventoso come San Vittore, nonostante tutte le precauzioni, questi fatti purtroppo vanno messi in conto”, dice quasi rassegnato il Garante dei detenuti Francesco Maisto. Per evitare casi come questi servono, dice ancora Bertolè “scelte coraggiose da parte del Parlamento e del governo per superare il problema drammatico del sovraffollamento, per garantire qualità della pena e il pieno rispetto dei diritti di tutte le persone detenute. Nel nome della nostra Costituzione”. Il consigliere regionale lombardo del Patto Civico, Luca Paladini, annuncia che Regione Lombardia “terrà una seduta straordinaria del Consiglio esclusivamente dedicata al tema delle carceri”, il capogruppo del Pd in Lombardia, Pierfrancesco Majorino, chiede per l’emergenza carceri una risposta da parte delle istituzioni: “Che cosa deve ancora accadere perché il ministro Nordio si decida a intervenire sul dramma delle nostre carceri? Il pazzesco sovraffollamento delle nostre carceri deve finire, non è degno di una società moderna e democratica”. Di ennesima vita spezzata parla anche la Camera del Lavoro, la Cgil milanese che da tempo denuncia le “condizioni drammatiche” in cui si trova San Vittore “con oltre 1.100 detenuti rinchiusi stipati in celle con non più di 3 metri quadrati a disposizione in condizioni disumane. Ad entrare nel circuito penale sono sempre più spesso giovani in condizione di enorme fragilità sociale e mentale, servono risposte che ripristino lo Stato di diritto”. Del resto il record di San Vittore per il sovraffollamento delle celle è ormai cosa notissima. Secondo la camera penale di Milano a San Vittore a fine agosto erano recluse 1.090 persone - con un aumento di 70 in due settimane, dal 14 agosto - in uno spazio nel quale i posti effettivamente disponibili sono 450. La camera penale, che chiede un intervento urgente anche attraverso provvedimenti di clemenza, scrive che “chi, irresponsabilmente, si oppone a qualsiasi intervento concreto e urgente per ridurre il sovraffollamento paventa, con cinismo, una resa dello Stato”. “Per alleggerire la popolazione carceraria bisogna assolutamente fare il decreto di amnistia e indulto - dice il presidente della sottocommissione carceri del Comune di Milano, Daniele Nahum, che come consigliere comunale di Azione chiede di svolgere un consiglio comunale proprio all’interno di San Vittore. E assieme ai detenuti, protestano anche gli agenti di custodia. ricordando che da inizio anno sono 70 i suicidi di reclusi e 7 quelli di loro colleghi. Milano. Giovane morto nel rogo in cella, l’ex capo di San Vittore: “Il carcere va chiuso” di Andrea Gianni Il Giorno, 7 settembre 2024 Luigi Pagano, già nel numero due del Dap: “In Italia situazione esplosiva. Il decreto Nordio è un flop, necessaria una misura deflattiva”. Il ricordo di Luigi Pagano torna al ‘87 quando, la notte tra sabato e domenica 5 luglio, quattro detenuti morirono per un incendio a San Vittore. All’epoca Pagano lavorava a Taranto e, in seguito, avrebbe assunto la guida del carcere milanese, uno dei penitenziari italiani col peggior tasso di sovraffollamento, di cui è stato direttore per 15 anni. È stato provveditore regionale per la Lombardia, vice capo del Dap nazionale, ha lanciato sperimentazioni e progetti innovativi e ora, in pensione, osserva una realtà dove detenuti continuano a perdere la vita, nel silenzio delle istituzioni. L’ultimo episodio, la morte di un giovane detenuto egiziano, è avvenuto proprio nel carcere da lui diretto. Pagano, quali considerazioni si possono fare dopo l’ennesima tragedia? “Quello che è successo va oltre i suicidi che si verificano periodicamente nelle carceri, è indicativo di un clima pessimo, di tensioni che rischiano di esplodere. Poi, in questi casi, c’è il rischio di un effetto emulazione”. Quali soluzioni si potrebbero attuare di fronte a questa situazione critica nelle carceri? “Non è tanto una questione di risorse e organici, quanto piuttosto di progetti che abbiano una continuità nel tempo. Invece ogni 3-4 anni cambiano i governi e i vertici dell’amministrazione penitenziaria, ed è come costruire sulla sabbia. Nel 2013, ad esempio, con la liberazione anticipata speciale 12mila detenuti erano usciti dalle carceri. Quello era il momento decisivo per iniziare il cammino verso un cambiamento, invece si è tornati indietro. Le risorse, senza una continuità dei progetti, rischiano di andare sprecate”. Come giudica il decreto battezzato ‘svuota carceri’? “Non vedo nulla, in quel decreto, che possa realmente risolvere i problemi, come non vedo i presupposti per un progetto di lungo respiro. La situazione è talmente incancrenita che una misura deflattiva non può più essere rimandata. Bisogna mettere insieme le forze, penso anche al privato sociale. Poi c’è il tema dell’edilizia penitenziaria”. San Vittore, inaugurato nel 1879, andrebbe chiuso? “È un istituto che non è più sostenibile. Andrebbe chiuso, utilizzandolo magari per uffici dell’amministrazione, costruendo un nuovo carcere. Non serve, però, aumentare i posti. La ricetta è sempre la stessa: organizzazioni, più progetti e soprattutto più continuità nel tempo. Ci vuole la volontà politica”. Reggio Emilia. Detenuto suicida, l’autopsia esclude segni di violenza Il Resto del Carlino, 7 settembre 2024 Autopsia su Saddiki Abdeljalil, detenuto nel carcere della Pulce, non rivela segni di violenza. Indagini per suicidio in corso, famiglia dubita. il 54enne marocchino presumibilmente morto suicida la settimana scorsa nella sua cella dove era detenuto nel carcere della Pulce di via Settembrini - sul quale è stata effettuata l’autopsia. Sul fatto che si sia tolto la vita non ci sono molti dubbi, tant’è che il fascicolo aperto dal sostituto procuratore Maria Rita Pantani non è per omicidio, ma per istigazione al suicidio. L’uomo è stato trovato impiccato alle grate della finestra con dei brandelli di una maglietta. La famiglia però - tutelata dall’avvocato Giacomo Fornaciari - non crede al suicidio: l’uomo sarebbe uscito a breve per scontare la pena ai domiciliari e aveva già programmato una videocall coi parenti. Le indagini però continuano con altri accertamenti in corso volti a fare luce sulla morte. Torino. La protesta di 57 detenute contro il carcere disumano: “Sciopero della fame a oltranza” di Elisa sola La Stampa, 7 settembre 2024 Le donne del carcere Lorusso e Cutugno hanno iniziato la loro protesta più estrema. Angela, Letizia, Dezdemona e Adina sono state le prime ad annunciare il proclama. “Da oggi facciamo lo sciopero della fame”, hanno detto ieri mattina al medico penitenziario che ha letto, come da prassi in questi casi, i rischi che comporta la privazione del cibo. Dopo Angela e le sue compagne, sono arrivate tutte le detenute della prima sezione. Ad annunciare, al dottore e alle agenti, la stessa cosa: “Ci uniamo alla protesta. Smettiamo di mangiare”. Le hanno seguite Amanda, Katherine, Jessica e Agostina. Le recluse della seconda. Accompagnate da quelle della terza. Alla fine della mattinata le hanno contate: erano 57. Cinquantasette donne che da giorni, mesi e anni vivono dietro alle sbarre delle Vallette. In condizioni diventate “insopportabili”. E così, quello che Angela e le altre avevano annunciato all’inizio di agosto in una lettera rivolta al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, da ieri è diventato reale. Una protesta di massa. “Siamo le ragazze detenute nel carcere di Torino - avevano scritto al Capo dello Stato - con questo scritto vorremmo divulgare pubblicamente che il giorno di Ferragosto faremo lo sciopero del carrello rifiutando il cibo dell’amministrazione penitenziaria e che quando terminerà la pausa estiva del Parlamento inizieremo lo sciopero della fame ad oltranza e a staffetta, pacificamente, affinché venga concessa la liberazione anticipata speciale o qualsiasi misura che riduca il sovraffollamento e riporti respiro a tutta la comunità penitenziaria”. Ieri mattina, le detenute hanno spiegato la stessa cosa, elencando i motivi della protesta corale. “Condizioni di vita disumane”. “Sovraffollamento”. “Carenza di assistenza sanitaria”. Sono le frasi finite nella relazione di servizio che verrà inviata per conoscenza alle autorità e alla procura di Torino. Le donne recluse al Lorusso e Cutugno hanno spiegato che lo sciopero della fame è stato indetto, oltre che per questi motivi, anche per solidarietà al detenuto di 18 anni morto carbonizzato due notti fa nel carcere di San Vittore a Milano, per un incendio. “Il decreto carceri non serve a nulla - avevano scritto al Capo dello Stato - il sistema andrebbe riformato da zero. C’è poco personale e il reinserimento non esiste. Ci affidiamo al presidente Mattarella affinché scuota l’indifferenza dei decisori. Non c’è più tempo”. La lettera si concludeva con un appello: “Chiediamo a coloro che si sono indignati rispetto alle condizioni di detenzione di Ilaria Salis di fare lo stesso per le condizioni di noi ristretti in Italia”. È passato un mese da quella richiesta disperata. Non si è indignato nessuno. E adesso le detenute di Torino hanno smesso di mangiare. Ivrea (To). Detenuti senza speranza, personale allo stremo. Ma c’è una soluzione? di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 7 settembre 2024 Volontari e associazioni lanciano un appello alle comunità locali: “Insieme possiamo ridare dignità ai detenuti e costruire una società più sicura”. Incontro pubblico il 4 ottobre. È giunto il momento di parlare di un tema che spesso viene messo in secondo piano: il sistema carcerario italiano. Una lettera accorata e ben articolata ci arriva dall’Associazione Volontari Penitenziari “Tino Beiletti” e da altre realtà del territorio, che puntano i riflettori sullo stato critico delle carceri, in particolare quello di Ivrea. Il Presidente della Repubblica, nel marzo scorso, ha lanciato un appello importante: riformare il sistema penale, garantendo il rispetto della dignità delle persone recluse e migliorando la sicurezza delle comunità. Ma l’appello, secondo i volontari, è rimasto inascoltato. Oggi, la situazione nelle carceri è drammatica, con strutture sovraffollate, scarse opportunità educative e lavorative, e un clima generale di abbandono. Il carcere di Ivrea è un simbolo di questo degrado: due sole educatrici per oltre 250 detenuti. Un numero di operatori mai così basso, tanto che persino la tipografia interna, attiva dagli anni 80, non può più lavorare a causa della mancanza di personale amministrativo in grado di gestire le fatture. Le biblioteche sono chiuse, e le attività culturali, che dovrebbero offrire un’alternativa all’ozio, spesso non vengono nemmeno avviate per mancanza di risorse umane. Questo stato di abbandono invia un messaggio devastante ai detenuti: “Non ci aspettiamo nulla di buono da voi.” È un messaggio che, come sottolineano i volontari, genera disperazione, senso di esclusione e inimicizia, anziché promuovere la riabilitazione e la reintegrazione nella società. Eppure, l’appello lanciato nella lettera invita a guardare oltre. I volontari chiedono alle comunità locali, ai Comuni e alle istituzioni di fare un passo in avanti, di collaborare per creare nuove opportunità di lavoro, volontariato e formazione per i detenuti. Alcuni Comuni, come Borgiallo, Chiesanuova, Ivrea e Vidracco, stanno già facendo la loro parte, ma si può fare di più. È una sfida, certo, ma anche una grande opportunità per costruire una comunità più coesa e sicura. La proposta è chiara: aprire un dialogo e progettare nuove attività che offrano speranza e prospettive ai detenuti, coinvolgendo l’intera comunità. Il 4 ottobre, a Ivrea, si terrà un incontro aperto a tutti coloro che desiderano contribuire. Un’occasione per conoscere le esperienze già attive e per immaginare un futuro diverso per il sistema carcerario. Partecipare è un atto di responsabilità verso noi stessi e verso gli altri. Non si tratta solo di offrire una seconda possibilità a chi ha sbagliato, ma di contribuire alla costruzione di una società più sicura e giusta. La lettera Il 18 marzo il Presidente della nostra Repubblica, fondata sul lavoro, ha lanciato un appello a intervenire per rendere il nostro sistema penale rispettoso della dignità delle persone recluse, coerente con le leggi e con la nostra Costituzione e, aspetto non secondario e conseguente, capace di concorrere alla edificazione di una comunità più sicura nel rispetto delle leggi e della convivenza. Un appello ripetuto spesso in questi mesi, un appello che non ha trovato, secondo noi una adeguata accoglienza e risposta da parte del Governo e del Parlamento. Noi siamo testimoni del progressivo degrado del sistema penale del nostro Paese, e delle pesantissime condizioni di vita, e anche di lavoro, delle persone recluse o che vi lavorano. Noi siamo testimoni e sentiamo la responsabilità di partecipare alla azione educativa, ma sentiamo anche il dovere di dire forte che oggi tale azione è quasi impossibile. Le carceri sono troppo piene di persone ma soprattutto sono troppo vuote di attività, e di proposte che generino speranze, producano cambiamento e, quindi, sicurezza. Nel carcere di Ivrea operano 2 (due) educatrici per più di 250 persone detenute! poche altre figure sono dedite ad attività educative: mai così poche in passato. Mancano anche figure amministrative: la tipografia che, dagli anni ‘80, lavora all’interno non lavora per clienti esterni perché non c’è personale sufficiente per emettere le fatture per i servizi prestati. Spesso attività culturali, educative, ricreative che le nostre associazioni di volontari propongono, anche con la partecipazione di persone e gruppi del territorio, non sono realizzate perché manca personale. Da anni la maggiore biblioteca è chiusa ed è sospeso il fruttuoso rapporto che esisteva con la Biblioteca Comunale per accesso ai libri e quale occasione di volontariato: succede a Ivrea capitale italiana del libro 2022. Per questo ci rivolgiamo a Voi che siete una importante rappresentanza delle nostre comunità che hanno nella propria storia e nella propria cultura, forte la considerazione per il lavoro e la formazione e la crescita della persona come indispensabili ingredienti di comunità coese e sicure. La condanna all’ozio a cui sono sottoposte le persone detenute contiene questo chiaro e distruttivo messaggio: “non pensiamo possiate avere un ruolo positivo nella comunità! Non ci fidiamo di voi! Da voi non ci aspettiamo niente di buono”. Questo è un messaggio sbagliato e dannoso che genera disperazioni e inimicizia. Buona parte della nostra azione di volontari in carcere è rivolta, invece, a proporre un ruolo positivo, utile a sé e alla comunità. Possiamo farlo assieme? Ve lo chiediamo convinti che ciò sia utile per tutta la comunità Già in passato diversi Comuni hanno organizzato attività di volontariato, cantieri di lavoro e lavori socialmente utili per l’impiego di persone detenute nel carcere di Ivrea, ammesse alla attività esterna. Oggi ci risultano essere attuati dai Comuni di Borgiallo, Chiesanuova, Ivrea e Vidracco. Possiamo fare di più? Vi proponiamo un incontro per ragionare su questo, conoscere le esperienze in atto, avviare una progettazione. Aprire speranze: venerdì 4 ottobre ore 14,30 - 18,30 a Ivrea in sede da definire secondo le adesioni. Vi chiediamo di rispondere a questa mail scrivendo, entro il 10 settembre, a avpbeiletti.ivrea.to@gmail.com manifestando il Vostro impegno a partecipare. In base alle adesioni definiremo la sede e vi informeremo tempestivamente. Allo stesso indirizzo e al 333.3708054 per altre informazioni. Associazione Volontari Penitenziari “Tino Beiletti” - ODV Associazione Fraternità di Lessolo - ODV Associazione Santa Croce onlus Associazione Culturale Rosse Torri Caritas Diocesi di Ivrea Officine del Terzo Settore Brescia. Nel carcere dai mille problemi sono arrivate lavatrici e asciugatrici di Federica Pacella Il Giorno, 7 settembre 2024 Quattordici macchinari consegnati al Nerio Fischione. Contributo del Comune. Luisa Ravagnani garante dei detenuti ha portato avanti fino al buon esito l’istanza dei detenuti con la direzione del carcere. Sette lavatrici per il carcere “Nerio Fischione” di Brescia, ed altrettante asciugatrici. Sembra poco, ma per i detenuti vuol dire molto e non era scontato riuscire a raggiungere il risultato: basti pensare, che le lavatrici erano state una delle richieste che gli ospiti dell’ex Canton Mombello avevano rivolto all’amministrazione durante una commissione in carcere a novembre 2022. Ora i 7 macchinari sono stati consegnati, insieme a 7 asciugatrici, nell’ambito del progetto “Wash in”, acquistate grazie a un contributo di circa 15.200 euro stanziato dall’amministrazione comunale a giugno, a favore dell’Associazione Carcere e Territorio di Brescia. Quest’ultima, accogliendo una proposta avanzata da un gruppo di detenuti al Comune tramite la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Luisa Ravagnani, in collaborazione con la direzione penitenziaria guidata da Francesca Paola Lucrezi, ha promosso l’avvio di un servizio di lavanderia in carcere, grazie al quale quasi tutte le sezioni detentive saranno dotate di macchine per il lavaggio e l’asciugatura degli indumenti. L’associazione ha aggiunto 1.800 euro, rispetto ai fondi comunali, per acquistare anche 14 contatori collegati a ciascuna macchina. Il servizio sarà gestito dagli stessi detenuti che saranno assunti dall’amministrazione penitenziaria in base a specifiche normative interne. Il progetto ha un budget di 131.880 euro, 15200 euro dei quali destinati all’acquisto dei macchinari necessari. La parte restante è la somma necessaria a retribuire i detenuti impegnati nell’attività e proviene dai fondi dell’amministrazione penitenziaria. Aosta. Volontari in carcere: l’AVCC dal 1983 opera nella Casa circondariale di Loredana Pianta rainews.it, 7 settembre 2024 Nell’estate calda dei penitenziari, segnata da rivolte, violenze e dal nuovo decreto del governo, l’incontro con un’associazione che opera a Brissogne. Lo sradicamento dal tessuto sociale, la lontananza dalle famiglie che, con più fatica, possono raggiungere il carcere di Brissogne, rispetto a strutture meno isolate in altre regioni. A volte l’autolesionismo viene visto da alcune persone detenute come un viatico per ottenere un trasferimento, ci raccontano alcuni volontari dell’associazione valdostana (Avvc) che dal 1983 opera nella Casa circondariale. A fine agosto al termine di un’ispezione, i Radicali italiani avevano parlato di “più detenuti con evidenti tagli sulle braccia”. Maurizio Bergamini presiede l’AVVC da quindici anni. Lo intercettiamo al termine di una delle visite. Animano laboratori, offrono sostegno economico ai detenuti in difficoltà grazie a raccolte solidali, sono pronti all’ascolto. Ma troppo spesso si sentono impotenti davanti al disagio psicologico di detenuti che avrebbero bisogno di maggiore e specifica assistenza medica. Il 2 settembre sono arrivate due educatrici, dopo nove mesi di vuoto d’organico. “Contiamo di fare la loro conoscenza il prima possibile”, dice Bergamini, “La figura dell’educatore è essenziale, perché è un funzionario che raccoglie le osservazioni di tutto il personale. Materiale che poi finisce sul tavolo dei magistrati, che prendono le decisioni sulle vite delle persone”. In quest’estate di rivolte nelle carceri di tutta Italia - Brissogne non ha fatto eccezione - ad agosto è stato approvato un decreto del governo per potenziare misure alternative alla detenzione. Per Bergamini le riforme saranno di difficile attuazione. Ad esempio le procedure per inviare le persone nel paese d’origine a scontare la pena sono complicate; di alcuni detenuti non si riesce persino ad accertare l’identità e i consolati fanno ostruzionismo. Cuneo. In mostra in via Roma i prodotti fatti in carcere di Sandro Marotta laguida.it, 7 settembre 2024 Nel fine settimana bancarelle, incontri, spettacoli e pranzo nel centro storico. Fino a domenica 8 settembre via Roma a Cuneo ospita “Art. 27 Expo”, una fiera che ha l’obiettivo di esporre e raccontare i prodotti fatti dai detenuti di diverse carceri italiane: in mostra abbigliamento, dolci, prodotti da forno e manufatti artigianali. Sabato 7 alle 15 sarà organizzato il talk “Parole evase, testimonianze dalle carceri: frammenti di storie raccontate da chi le ha vissute”. Si aprirà con lo spettacolo teatrale “Solo Andata”, con i detenuti del carcere di Fossano. Seguiranno gli interventi di Teo Musso (Baladin), Marina Maruzzi (Casa Circondariale di Sassari), Claudia Cagnile (Mosaico di Palermo), Matteo Marchetto (Pasticceria Giotto di Padova), Carla Chiappini (Verso Itaca di Piacenza), Alessia Bordo (O’Press e Teatro Necessario di Genova), Deborah Calderaro (Attavante Firenze), Giulia Gucci (Altro Diritto Firenze), Roberta Bugno (Il Cerchio Venezia), Chiara Sacchelli (Casa di Carità Arti e Mestieri di Torino), Vania Carlot e Liri Longo (Malefatte - Meraviglie di Venezia), Vincenzo Buonasera (UISP Sicilia), Agostino Paganini (Progetto Jonathan, Vicenza), Don David Maria Riboldi (La Valle di Ezechiele), Florentina Stefanidhi (Mondo Aperto di La Spezia), Etta Rapallo ed Emanuela Musso (Sc’Art Genova), Michele De Lucia (Parole Liberate), Giulia Marro (Collettivo Zaratan - ARCI Cuneo-Asti). Durante il talk saranno realizzati alcuni laboratori per adulti e bambini a cura della cooperativa Perla di manipolazione dell’argilla cruda e colorazione dopo la prima cottura. Per info e prenotazioni: 333-815 4530 (Valentina). Alle 21 invece ci sarà un altro spettacolo teatrale al Toselli: “La favola bella”, a cura della compagnia Voci Erranti, con la regia di Grazia Isoardi. Ingresso solo su prenotazione con offerta di sostegno di 15 euro. Domenica 8 in via Roma si allestiranno tavoli, sedie e posate per il “pranzo più buono del mondo” che chiuderà l’evento. Ingresso solo su prenotazione con offerta di sostegno di 25 euro. Venezia. Pupi Avati ai detenuti “Cercate il vostro sogno, non averlo è stare in carcere” di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 7 settembre 2024 Lo stimolo del regista. Collaborazione con la Biennale. “Cerca il tuo sogno, non dividerlo con nessuno e fallo maturare. Trovalo prima che si spengano le luci della vita perché vivere senza un sogno significa vivere in un carcere”. Rimarranno scolpite nella memoria le parole di Pupi Avati che ieri, con estrema delicatezza, hanno raggiunto i detenuti del carcere di Santa Maria Maggiore che lo hanno incontrato in una sala dopo aver partecipato a un corso con Michalis Traitsis, storico regista teatrale. Entrato in punta di piedi, Avati ne è uscito carico di affetto e con un dono speciale, una canzone napoletana intonata per lui da un detenuto soprano. Il regista di 86 anni, alla Mostra del Cinema per presentare il suo ultimo lavoro “L’orto americano”, ha iniziato a raccontarsi in apparenza spaziando casualmente qua e là tra i suoi ricordi, strappando una risata dopo l’altra. Dopo poco è parso però evidente che il racconto aveva un filo conduttore, quello di trovare il proprio talento, di cercarlo a ogni costo e di coltivarlo, pretendendo di realizzarlo: “C’è un mio Io che osserva me stesinvecchiare e che prescinde dall’anagrafe ed è quello che mi ha educato a sognare - ha detto -. L’ho sempre tenuto dentro di me e non l’ho mai zittito”. Avati ha raccontato di come, anche quando tutto sembrava senza speranza, qualcosa accadeva e di come non si debba puntare al piano B, ma seguire imperterriti quello che sentiamo che esprime al meglio noi stessi. “Dopo aver visto 8 e mezzo di Fellini sono corso al bar Santa Margherita e ho detto ai miei amici seduti al biliardo, come Gesù ai suoi apostoli: ci proviamo anche noi?”. Avati ha ricordato di come all’epoca gli amici fossero un venditore di pesce, uno di verdure, un commercialista e un amministratore di condominio: “Uno sapeva suonare un po’ la fisarmonica, ecco era un musicista. L’amministratore aveva dimestichezza con l’arredamento, ecco era uno scenografo”. Quello che avevano in comune era che tutte credevano in un sogno. Avati ha raccontato di quella volta che, al posto di un’attrice che aveva cercato e tanto atteso, era arrivata una sua amica che lui aveva malamente cacciato. “Ero disperato, ma quando ho visto che lei testarda aveva atteso ore al freddo in un bar davanti a dove giravamo, non ce l’ho fatta a mandarla via e le ho detto di tornare il giorno dopo. Quando ha recitato il monologo, sono rimasto incantato. Si chiamava Mariangela Melato”. Il direttore del carcere Enrico Farina e il presidente della Biennale Pietrangelo Buttafuoco hanno ascoltato “il maestro”, annunciando una collaborazione sempre più stretta. L’intesa ha già portato tramite l’associazione Second Chance all’inserimento lavorativo di un detenuto in una ditta che lavora per l’allestimento della Mostra del Cinema, ma in futuro potrebbe concretizzarsi anche nella riqualificazione di uno spazio abbandonato del carcere in un teatro. “L’urgenza della Biennale è quella di rendere visibile l’invisibile perché sono convinto che tutti dovrebbero avere consapevolezza di questo luogo - ha detto Buttafuoco -. Nel carcere, nella malattia e nelle calamità si vede il cuore vero degli amici, il passaggio della misericordia”. Migranti. Morti e naufragi, promemoria per lo stupore di Paolo Fallai Corriere della Sera, 7 settembre 2024 Sono più di mille i morti nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno; 30.200, secondo dati Onu, i morti e dispersi in mare dal 2014, molti dei quali minori. Qualche numero come promemoria: sono 44 i dispersi degli ultimi due naufragi davanti alle coste della Libia. Tra loro ci sono tre bambini di 5, 7 e 10 anni. Il primo era col papà. I due più grandi, invece, erano non accompagnati, affidati a conoscenti pur di raggiungere l’Europa. Secondo le dichiarazioni dei superstiti - per lo più siriani e sudanesi - avevano pagato 5500 euro per la traversata. Un’enormità. Nonostante il fatto che sbarchi e vittime quest’anno siano in diminuzione, se alziamo lo sguardo sul mar Mediterraneo, diventato un cimitero, troviamo altri numeri: sono più di mille i morti dall’inizio dell’anno; 30.200, secondo dati Onu, i morti e dispersi in mare dal 2014 , molti dei quali minori. Senza neanche bisogno di alzare lo sguardo troviamo migliaia e migliaia di uomini, donne, bambini che scappano dalle guerre, dalla povertà estrema, dalla crisi degli aiuti umanitari che ormai arrivano con sempre maggiore difficoltà. I soccorsi in mare non sono sufficienti, o arrivano troppo tardi e quando potrebbero essere tempestivi vengono ostacolati. L’organizzazione non governativa Sea Watch è convinta che il barchino naufragato a 10 miglia da Lampedusa sia lo stesso che era stato segnalato 3 giorni prima dal loro aereo da ricognizione a 26 miglia nautiche dalla costa italiana. In una nota un’altra ong Mediterranea - che solo pochi giorni fa ha ricevuto una diffida a “salvare vite” dalle nostre autorità - denuncia “l’abbandono per giorni di imbarcazioni in distress, in grave pericolo, nonostante le segnalazioni e nonostante siano perfettamente individuate dai sistemi satellitari e aerei di controllo di cui le autorità dispongono”. Altri numeri ce li ricorda l’arcivescovo di Agrigento Alessandro Damiano: “Nessuna politica potrà mai riuscire a frenare del tutto i flussi migratori che coinvolgono oggi oltre 218milioni di individui in tutto il mondo”. I numeri non hanno valori, non hanno emozioni, non provano rimorso o vergogna: sono solo un promemoria per noi che continuiamo a stupirci. Migranti. Il mistero del naufragio. Sea-Watch: “Segnalata barca identica quattro giorni prima” di Alice Dominese Il Domani, 7 settembre 2024 Nel confronto tra le immagini riprese da Seabird e quelle della guardia costiera si notano la stessa forma e colore della barca in legno naufragata a largo di Lampedusa e il simile abbigliamento di alcuni sopravvissuti. Anche il numero di persone a bordo, il volto di un uomo e il porto di partenza potrebbero combaciare: “Se fosse confermato saremmo di fronte a un grave caso di omissione di soccorso”, dice l’ong Sea-Watch. Una barca simile a quella naufragata il 4 settembre a 10 miglia da Lampedusa era stata segnalata in difficoltà alle autorità italiane e maltesi due giorni prima da Seabird, l’aereo da ricognizione di Sea-Watch, ma senza che nessuno intervenisse. “Se questa corrispondenza fosse confermata - dice l’ong - saremmo di fronte a un grave caso di omissione di soccorso”. Ventuno delle persone che erano a bordo sono tuttora disperse. La guardia costiera sta conducendo le ricerche via mare e via aerea e ha allertato i centri di soccorso libico, maltese e tunisino. Nel confronto tra le immagini riprese dagli operatori a bordo di Seabird e quelle diffuse dalla guardia costiera italiana si possono osservare la stessa forma della barca in legno, in entrambi i casi di colore bianco, simile abbigliamento di alcuni sopravvissuti e il volto di un uomo a bordo che potrebbe combaciare. Anche il numero delle persone trasportate e il porto libico di partenza, nella città di Sabratha, corrisponderebbero ai dettagli inviati alle autorità da Alarm Phone per segnalare lo stesso avvistamento avvenuto da parte di Sea-Watch. Secondo le ricostruzioni, l’imbarcazione era stata avvistata da Seabird il 2 settembre, a mezzogiorno, a 37 miglia nautiche da Lampedusa, con circa 30 persone a bordo. Meret Wegler, coordinatore tattico dell’operazione, ha comunicato che “il suo galleggiamento era bassissimo e la situazione instabile”. La barca, inoltre, navigava con un solo motore. Il 4 settembre la guardia costiera italiana ha soccorso un’imbarcazione alla deriva, ormai semisommersa e in procinto di affondare, con 7 migranti a bordo, tutti uomini e di nazionalità siriana. Una volta portati in salvo, hanno dichiarato ai guardacoste di essere partiti il 1° settembre dalla Libia in 28, tra cui tre minori. Ventuno di loro, durante la navigazione, sarebbero caduti in mare a causa delle onde. “Non possiamo stabilire al cento per cento che il barchino su cui viaggiavano fosse lo stesso che è naufragato, ma ci sono diversi elementi che suggeriscono che molto verosimilmente potrebbe essere così - dice Giorgia Linardi, portavoce di Sea-Watch -. Rispetto a dove lo avevamo individuato, il barchino è stato ritrovato naufragato poche miglia dopo, che è una distanza plausibile da percorrere in due giorni, anche solo per lo strascico delle correnti”. Ora l’indagine aperta dalla procura dovrà verificare l’accaduto, le responsabilità legate al naufragio e se c’è stata una violazione della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, che obbliga tutte le nazioni a prestare assistenza alle persone in pericolo senza ritardi. “Ci auguriamo che si vada a indagare a fondo su quello che potrebbe essere un altro caso di omissione di soccorso istituzionalizzata. Se così non fosse saremmo ovviamente sollevati, ma ciò che è paradossale è che nel frattempo le navi delle ong vengono detenute, mentre sicuramente quelle stesse navi sarebbero accorse immediatamente sul posto in caso di emergenza” aggiunge Linardi. Nelle ultime settimane, sono almeno due i fermi amministrativi disposti dalla guardia costiera italiana nei confronti delle navi che compiono i salvataggi in mare. La nave Sea Watch 5 lo ha ricevuto il 4 settembre, pochi giorni dopo aver raggiunto Civitavecchia portando in salvo 289 persone, e dovrà rimanere ferma in porto fino a fine mese. L’accusa è di aver soccorso i naufraghi senza aver prima ricevuto il permesso da parte delle autorità libiche. Per la nave di Medici Senza Frontiere, Geo Barents, la durata della detenzione amministrativa ammonta a 60 giorni ed è stata imposta il 23 agosto a seguito di cinque operazioni di salvataggio. L’accusa questa volta è di non aver fornito informazioni tempestive al Centro di coordinamento del soccorso marittimo italiano nel corso della terza missione e di aver messo in pericolo la vita delle persone che sono state soccorse. Dopo aver portato in salvo a Lampedusa 182 naufraghi, il 3 settembre, la nave Mare Jonio dell’ong Mediterranea Saving Humans è stata poi diffidata “dal continuare a intraprendere ogni attività preordinata alla effettuazione sistematica del servizio di ricerca e soccorso in mare” per la mancanza della “relativa certificazione di idoneità”. Alarm Phone, Mediterranea Saving Humans, Sea-Watch e altre ong negli anni hanno più volte denunciato la mancanza di risposte a seguito delle segnalazioni lanciate alle autorità dopo l’avvistamento di imbarcazioni a rischio nel Mediterraneo. Luca Marelli, uno dei coordinatori delle operazioni di Seabird, conferma che anche in quest’ultimo caso le autorità italiane non hanno dato riscontro: “Di base il centro di coordinamento dei soccorsi di Roma non rilascia praticamente mai informazioni alle ong rispetto alle operazioni in cui sono coinvolti”. Alla richiesta di Domani di offrire chiarimenti sulle accuse mosse da Sea-Watch, la guardia costiera non ha finora dato risposta. “Tra il comando generale delle capitanerie di porto e le ong esisteva un coordinamento fino al 2018 ed era assolutamente utile perché consentiva una copertura sul soccorso in mare decisamente più ampia e finalizzata al salvataggio della vita umana. Questo purtroppo nel tempo è venuto meno, con norme che limitano le ong e che più di recente hanno castigato la guardia costiera, perché il governo ritiene che il fenomeno migratorio vada anzitutto affrontato con un’attività di polizia” spiega Vittorio Alessandro, ammiraglio in congedo della delle Capitanerie di porto. Più carcere non significa più sicurezza di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 7 settembre 2024 La popolazione carceraria continua ad aumentare in Italia come nel resto d’Europa. In nessun Paese e in nessun tempo più carcere ha garantito più sicurezza. Lo sostengono gli addetti ai lavori, quelli che in carcere lavorano o chi l’istituzione penitenziaria la studia e la conosce. Eppure la popolazione detenuta continua ad aumentare in Italia, così come nel resto d’Europa e il sovraffollamento è ormai una tragica emergenza. Poiché per costruire nuove carceri serve tempo e molto denaro, le celle si riempiono, lo spazio di vita si restringe e la pena perde il suo significato di recupero per diventare solo negazione della dignità umana. “Nelle carceri italiane - spiega a “L’Osservatore Romano” Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che si batte per la tutela dei diritti nel sistema penale e penitenziario - ci sono 61.758 detenuti, 15.000 persone in più della capienza regolamentare, cioè dei posti letto. Ciò comporta situazioni igienico sanitarie complicate, troppe persone stipate in celle che non hanno gli spazi necessari, ma significa anche rinuncia alle attività trattamentali, alla scuola, allo sport, alla possibilità di lavoro. Significa un carcere che si è trasformato in un grande dormitorio, con quasi due terzi di persone vulnerabili (con malattie e disagio psichico, prive di qualsiasi reddito, straniere, tossicodipendenti). Se nei loro confronti si adottassero misure di sostegno, di welfare, di accoglienza e di cura all’esterno, il carcere ridurrebbe le presenze”. Invece, per la prima volta da molti anni sono strapieni anche gli istituti penali minorili con la conseguenza che proteste, rivolte e manifestazioni di violenza sono all’ordine del giorno. Se l’Italia si conferma come uno dei Paesi europei con le carceri più affollate, in media con una percentuale del 130,4%, in totale in Europa, esclusa la Russia, la popolazione reclusa nel 2023 è aumentata del 12%. Gli ultimi dati disponibili, forniti dal Consiglio d’Europa, rilevano che al 31 gennaio 2023, c’erano 1.036.680 detenuti in 48 amministrazioni penitenziarie su 51 stati membri del Consiglio e che 12 Paesi segnalavano di avere più detenuti rispetto ai posti disponibili. Le nazioni che hanno registrato un aumento significativo dei tassi di popolazione carceraria da gennaio 2022 a gennaio 2023 sono: Moldova (+52%), Macedonia del Nord (+26%), Cipro (+25%), Turchia (+15%), Irlanda (+12%), Croazia (+io%), Ungheria (+8,7%), Bulgaria (+8,1%), Austria (+6,8%), Italia (+5,7%) e Svezia (+5,1%). I Paesi con i tassi di incarcerazione più elevati sono: la Turchia (408 detenuti ogni ioo.000 abitanti), la Georgia (256), l’Azerbaijan (244), la Moldova (242), l’Ungheria (211), la Polonia (194), la Slovacchia (183), l’Albania (179), la Repubblica Ceca (176) e la Lituania (174). “Ciò che colpisce in particolare - dice Gonnella - è l’aumento dei detenuti e il sovraffollamento delle carceri anche nei Paesi del nord Europa che sono sempre stati attenti alla dignità delle persone recluse come precondizione alla detenzione”. “Tra il 2009 e il 2013 - spiega - in generale in Europa si respirava un’aria di maggiore attenzione ai diritti e alla dignità delle persone detenute. Abbiamo avuto sentenze che tendenzialmente andavano a ridimensionare il potere punitivo dello Stato, penso alle sentenze della Corte europea e di quella tedesca. Per esempio, in Germania nel 2011 una sentenza ha stabilito che se lo Stato non è in grado di garantire condizioni di vita decente e spazi adeguati al detenuto deve rinunciare all’obbligo di punire. Ciò era già acclarato in alcuni Paesi del nord Europa. Dopo questi anni, che avevano portato ad una riduzione della popolazione detenuta in tutta l’area europea, nel 2020 è arrivata la pandemia che ha trovato gli stati impreparati. Non c’era stata infatti una diminuzione dei reclusi tanto da garantire che il carcere non fosse un luogo di contagio”. Dunque neanche il covid ha insegnato all’Europa che in carcere devono essere assicurati lo spazio vitale e il diritto alla salute. “Ci si sarebbe aspettati ad esempio - spiega Gonnella - che l’Unione europea adottasse regole e standard comuni in materia di detenzione, già previste nel Consiglio d’Europa ma non vincolanti. Ciò non è avvenuto tanto che, anche per questo motivo, la cooperazione giudiziaria tra gli stati funziona male. Molti paesi non garantiscono adeguati standard trattamentali all’interno delle carceri, spazi di vita decenti, rispetto dell’individuo, e dunque le autorità giudiziarie sono restie a consentire il trasferimento delle persone”. “Per questo - aggiunge - sarebbe opportuno che il nuovo Parlamento europeo adottasse una nuova filosofia di azione, prevedendo standard comuni di alta qualità all’interno delle carceri in tutta l’Ue”. Ma in molti Paesi, evidenzia il presidente di Antigone, “purtroppo del carcere, così come dell’immigrazione, viene fatto un uso demagogico. Per capitalizzare il consenso si parla alla pancia delle persone, mostrando il volto truce dello Stato che non si piega”. Fortunatamente, secondo Gonnella “c’è qualche controtendenza”; ad esempio nel Regno Unito il nuovo governo ha nominato come ministro delle Carceri James Timpson che è stato presidente del Prison Reform Trust, ente indipendente che si batte per la riforma del sistema carcerario e lavora per creare un quadro normativo penale giusto, umano ed efficace. “Un uomo - dice Gonnella - che arriva da esperienze di lavoro sociale. Ciò significa dare attenzione a chi conosce il carcere, perché conoscere il carcere e averlo visto è la precondizione per poter agire politicamente in modo efficace”. Di contro, conclude Gonnella, “non mancano esempi negativi, come quelli che provengono dai paesi nordici che in passato hanno mostrato attenzione al tema. E il caso della Danimarca che, sul modello dell’accordo tra Italia e Albania per i migranti, ha sottoscritto un’intesa con il Kosovo per trasferire i detenuti stranieri fuori dalla sua giurisdizione”. Regno Unito. Le prigioni sono piene: il governo rilascia migliaia di detenuti di Enrico Franceschini La Repubblica, 7 settembre 2024 La decisione riguarderà chi ha già scontato almeno il 40% della pena ed è stato incriminato per reati meno gravi. Al momento, negli istituti penitenziari di tutto il Paese, ci sono meno di cento posti liberi. Nel Regno Unito non c’è più posto in prigione. Per questo, con una decisione che sembra surreale ma è necessaria, il governo britannico ha deciso di rilasciare alcune migliaia di detenuti rinchiusi per reati meno gravi e che abbiano scontato il 40 per cento della pena. Problema sovraffollamento - Già presa in considerazione dal precedente esecutivo conservatore, l’iniziativa è stata ripresa da quello laburista odierno perché negli ultimi mesi le carceri si sono riempite ancora di più a causa delle centinaia di arresti, seguiti da severe condanne, per i disordini razziali di questa estate: le peggiori violenze in un decennio. È in questo ambito che venerdì un uomo ha ricevuto una sentenza a 9 anni di carcere per avere cercato di appiccare fuoco a un albergo che ospitava immigrati in attesa di asilo: uno degli episodi scatenati da estremisti di destra sulla base di fake news e odio razziale. Il primo ministro Starmer ha chiesto a polizia e magistratura di reagire severamente e con rapidità: nel giro di qualche settimana quasi 500 persone sono finite dietro le sbarre, le manifestazioni razziste sono cessate, le autorità hanno potuto ristabilire l’ordine. L’ondata di arresti e condanne, tuttavia, ha contribuito a riempire le prigioni nazionali fino a quasi esaurire letteralmente i posti. Nei giorni scorsi la Bbc ha reso noto che restano meno di 100 posti letto liberi nelle carceri di tutto il Paese. Come altrove, anche qui si tratta spesso di istituti carcerari antiquati, alcuni di epoca vittoriana, in cui i detenuti sono costretti a convivere in spazi ristretti. Se poi celle e brandine stanno per raggiungere la piena occupazione, occorreva correre ai ripari. Così dal 10 settembre parte un programma per rilasciare i detenuti rinchiusi per crimini minori: la regola è che abbiano scontato almeno il 40 per cento della pena, uno “sconto” rispetto alle precedenti norme, secondo cui il rilascio, condizionato a buona condotta e ad altri fattori, poteva avvenire solo dopo avere scontato almeno il 50 per cento della condanna. Il piano esclude detenuti condannati per terrorismo, reati sessuali, abuso domestico e alcuni crimini violenti. Alleggerire il carico - L’obiettivo è liberare circa 5500 posti letto. Il ministero della Giustizia ha esortato le corti a rinviare le sentenze contro alcuni dei responsabili dei disordini estivi appunto per aspettare che si liberino i posti in cui rinchiuderli. Ciononostante, si tratta di una misura temporanea e parziale. Da un lato, la stampa di destra critica il rilascio di detenuti prima del tempo, che abbiano compiuto reati minori o meno. Dall’altro, non è un meccanismo che si possa ripetere all’infinito. Prima o poi lo stato dovrà costruire nuove carceri, più ampie e moderne, ma al momento non ci sono fondi per tante esigenze e quella delle prigioni non ha la priorità nella spesa pubblica. Attualmente la popolazione carceraria di Inghilterra e Galles sfiora le 90 mila persone (ce n’erano in prigione esattamente 88350 la settimana scorsa, ma è un numero che fluttua in continuazione): aggiungendoci i carcerati di Scozia e Irlanda del Nord si arriva probabilmente vicino a 100 mila detenuti. L’equivalente di una intera città in galera, in cui i posti per stendersi a dormire sono pressoché terminati.