Dietro i tanti suicidi in carcere tante storie di disperazione che non fanno notizia di Valter Vecellio* Il Dubbio, 6 settembre 2024 I detenuti fanno notizia solo se sono violenti contro se stessi o gli altri, non per le proteste non violente. Carceri come bombe ad orologeria: basta un “nulla” ed ecco che esplodono. Così le cronache riferiscono di risse tra detenuti e disordini nel carcere minorile di Bari (esagerato chiamarla rivolta). Ultimo di una serie di episodi che si sono verificati a Roma, Torino, Milano. Quanto basta perché Federico Pilagatti, segretario di un sindacato della polizia penitenziaria, il Sappe, inviti a riflettere sulla “tempistica”; Pilagatti non esclude “l’esistenza di una regia occulta dietro quanto sta accadendo. Una regia che tende a voler destabilizzare la situazione nelle carceri, comprese quelle per minori”. Tutto può essere, per carità; tuttavia, riesce difficile immaginare a una sorta di complotto ordito per creare nelle carceri italiane un clima di tensione ed estremo disagio. Che bisogno c’è di impegnarsi in questo senso? Esistono da sempre. Si può ulteriormente favorirlo e alimentarlo, ma a questo punto sorge spontanea la domanda: chi ne ricaverebbe un qualche interesse? Non certo i detenuti e la più vasta comunità penitenziaria. Non certo i sostenitori di misure urgenti e adeguate per superare questa situazione. L’interesse (il proverbiale cui prodest?) è solo di quanti non intendono superare la situazione esistente; di chi concretamente e nei fatti oppone ostacoli e barriere a ogni politica di riforma; a chi ritiene e opera perché il carcere sia sempre più luogo esemplare di pena e non di recupero e rieducazione. Non ci si deve stupire per quello che accade nelle carceri. Piuttosto è stupefacente quello che NON accade. Risse, disordini, “rivolte” data la situazione esistente, dovrebbero essere molte di più. Non è, ovviamente, un invito alla violenza. È un constatare che in una situazione drammatica detenuti e comunità penitenziaria stanno comunque dando una straordinaria prova di maturità e responsabilità. Dall’inizio dell’anno una settantina di detenuti si sono tolti la vita. Sono quelli “ufficiali”. Più sette di agenti della polizia penitenziaria. Tanti, insopportabilmente tanti. Tuttavia, stante la situazione - ha ragione Adriano Sofri - dovrebbero/potrebbero essere molti di più. Invece trovano il coraggio di vivere e resistere, patire, soffrire, subire. Altro che “Mecca” come sciaguratamente ha detto un sottosegretario alla Giustizia. Chi fa informazione ha la sua buona quota di responsabilità. Questi detenuti suicidi, questi agenti della polizia penitenziaria che si tolgono la vita, quelli che cercano di farlo e vengono salvati in extremis, quelli che sono tentati di farlo e grazie al cielo non lo fanno, sono solo “numeri” per la maggior parte dei mezzi di comunicazione. Pochissimi si prendono la briga di raccontare chi erano queste persone. Ebbene, c’è di tutto: c’è chi si è tolto la vita subito dopo l’ingresso in prigione, chi poco prima di lasciarla. Chi era vittima delle dipendenze e chi di sofferenze psichiatriche. Si sono quasi tutti impiccati: col laccio dei pantaloni, chi con le lenzuola, con una corda. C’è chi si soffoca con un sacchetto di plastica, qualche altro riempiendosi i polmoni di gas o altre sostanze. A volte non sono morti subito, gli agenti della penitenziaria hanno provato invano a rianimarli. Età media 37 anni, più stranieri che italiani. Reati che vanno dall’omicidio al piccolo spaccio, tanti con dipendenza dalla droga. Non di tutti sono noti nomi e cognomi. Poche righe per Matteo, 23 anni. Soffriva di disturbo bipolare. Era rientrato nel carcere perché, svolgendo la pena alternativa lavorando in una pizzeria, aveva sforato sull’orario di rientro a casa. Aveva detto alla madre: “Se mi riportano in isolamento, mi ammazzo”. Poche righe per Stefano, 26 anni: soffriva di depressione. Alam, 40 anni, del Bangladesh, si impicca con un pezzo di lenzuolo pochi giorni dopo il suo ingresso. Fabrizio, 59 anni, si impicca nel padiglione di alta sicurezza del carcere di Agrigento. Andrea, 33 anni, detenuto a Poggioreale, soffriva di disturbi psichiatrici… È un elenco interminabile di sofferenza e disperazione. Quello che colpisce, dovrebbe colpire, è che la maggior parte delle persone che si tolgono la vita sono cittadini in attesa di giudizio, quindi innocenti. Per questa situazione che si trascina da decenni, puntiamo l’indice contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il suo governo. Hanno le loro gravi responsabilità. Non dimentichiamo però che accanto a indifferenze e carenze croniche e strutturali c’è anche il perdurante uso abnorme della carcerazione preventiva: troppo spesso ci si dimentica che dovrebbe essere una misura straordinaria, da applicare solo in presenza di determinate condizioni: il rischio di reiterazione del reato o il pericolo di fuga, l’inquinamento delle prove. Ormai quella della carcerazione preventiva è diventata una prassi ordinaria. Quanti, di quella settantina di detenuti che si sono suicidati, e quanti delle centinaia di tentati suicidi sventati dall’intervento della polizia penitenziaria, quanti erano in carcere in attesa di giudizio, per quali reati; e potevano beneficiare di un’alternativa alla carcerazione? Se sì, perché non ne hanno beneficiato? Possibile che non un deputato o un senatore se lo chieda; possibile che non un direttore di giornale ne abbia curiosità? Per tornare alle risse, ai disordini, alle “rivolte”: occorre essere chiari: violenze e comportamenti aggressivi non sono giustificabili e non si giustificano; sono oltretutto inutili e dannosi, non solo non si risolvono i problemi; li aggravano anzi, a farne le spese sono detenuti, agenti della polizia penitenziaria, operatori sul campo cui si imputano colpe di cui non sono responsabili. Non si giustifica ma si può capire. Se i detenuti sono ignorati quando fanno scioperi della fame o ricorrono ad altre forme di lotta nonviolenta, e di loro si parla solo quando si abbandonano a manifestazioni violente, cosa volete che faccia un detenuto? O fa violenza contro se stesso, e si uccide; o la fa contro altri, e scoppia la rivolta. È un meccanismo atroce. La citata affermazione del sottosegretario alla Giustizia dopo una sua inutile visita al carcere di Taranto, che non si inchina alla Mecca dei detenuti è stata ampiamente ripresa e citata. Giusto. È bene che si sappia che personaggio sgoverna a via Arenula. Nelle stesse ore decine di dirigenti e militanti del Partito Radicale effettuavano visite, serie, in carcere: considerati da quasi tutti i mezzi di informazione “non notizia”. Quest’anno c’erano anche dirigenti di un partito di governo, Forza Italia. Anche loro non notiziabili. La Rai, servizio pubblico pagato da tutti, non dimentichiamolo mai, non ha organizzato un dibattito, un confronto, uno speciale per informare su questa situazione. Il diritto al diritto e ai diritti; il diritto alla conoscenza: queste sono le priorità e le urgenze di questo Paese. *Direttore di “Proposta Radicale” Carceri al collasso, non c’è un minuto da perdere di Marina Lomunno vocetempo.it, 6 settembre 2024 Ancora suicidi fra i detenuti, ancora tentativi di rivolta. Secondo l’ex magistrato Tomaselli la Riforma Nordio continua ad ignorare il drammatico problema del sovraffollamento. “Bisogna starci dentro nelle carceri, bisogna aver visto”. Così il giurista Piero Calamandrei, padre costituente e parlamentare della Repubblica, interveniva nel 1948 sulla previsione di spesa del Ministero di Grazia e Giustizia dopo aver visitato le patrie galere denunciandone già allora la situazione drammatica, non molto lontana da quella attuale. Anche quella di quest’anno è stata un’estate calda nelle carceri italiane, che appaiono sempre più una polveriera: l’ultimo suicidio nel carcere di Reggio Emilia a fine agosto ha portato a 67 il numero dei reclusi che si sono tolti la vita nel 2024 dietro le sbarre, ad essi si devono aggiungere 7 agenti penitenziari. Le cronache hanno anche dato notizia di disordini, gli ennesimi, e di tentate evasioni al carcere minorile Beccaria di Milano, mentre per il “Lorusso” e Cutugno di Torino il ministro della Giustizia Nordio ha assicurato a metà luglio con una lettera al sindaco Stefano Lo Russo il “massimo sforzo” per alleviare il drammatico sovraffollamento e i disagi dei reclusi e del personale di sorveglianza; il Comune ha proposto la costruzione di un nuovo penitenziario da affiancare a quello delle Vallette. Il controverso decreto legge n. 92 sulle carceri, convertito in legge dalla Camera dei Deputati prima della pausa estiva (153 sì, 89 no e un astenuto), per chi conosce da “dentro” gli istituti penitenziari sembra non cogliere l’urgente concretezza dei problemi da affrontare per risollevare un sistema che tra sovraffollamento, suicidi, carenza di personale e strutture obsolete è al collasso. Ne parliamo con Ennio Tomaselli, magistrato in pensione, che per molti anni è “stato dentro” anche nelle carceri torinesi nell’ambito di un’esperienza complessiva e variegata, come giudice e pubblico ministero. Dottor Tomaselli, la nuova legge, come ha più volte sottolineato il guardasigilli Carlo Nordio, intende “umanizzare” le nostre galere la cui situazione è al collasso. Secondo la sua lunga esperienza di magistrato nella giustizia ordinaria e in quella minorile, cosa non ha funzionato nel nostro sistema carcerario se i nostri penitenziari sono diventati “disumani”? Ritengo che non abbia funzionato l’ottica con cui, per decenni, la politica, l’amministrazione e parte dell’opinione pubblica, spesso non correttamente informata o condizionata da messaggi distorti, hanno considerato le carceri: luoghi di segregazione, separazione, espiazione di una pena “da scontare fino all’ultimo giorno” in base a un’equivoca nozione di certezza della pena. Luoghi che si finiva per riempire il più possibile, anche quando la capienza fissata era ampiamente superata, perché i circuiti di uscita sono, necessariamente, assai meno rapidi da percorrere. Ciò, in generale, non per prese di posizione negative della magistratura di sorveglianza (che è sensibile e segnala, tra l’altro, l’insufficienza dei propri organici), ma perché quei percorsi richiedono una messa di campo di uomini e mezzi ? per verifiche, progetti, individuazione e realizzazione di alternative al carcere ? che è stata gravemente carente. La nuova legge prevede tra l’altro l’assunzione di mille agenti penitenziari, procedure più snelle per chi ha diritto alla scarcerazione, più telefonate per i ristretti con i famigliari, più comunità per la detenzione domiciliare ma anche la costruzione di nuovi istituti. Bastano questi provvedimenti per far fronte al sovraffollamento che, superando il 130%, è una delle criticità maggiori dei nostri penitenziari? Ritengo, in linea con l’opinione di molti, che le misure in questione, magari condivisibili singolarmente, non siano tali da incidere significativamente su un sovraffollamento che, per quanto detto, è strutturale. Più volte in questi mesi il Presidente Mattarella di fronte “allo stillicidio insopportabile” dei suicidi in carcere ha invitato il Governo a mettere in atto misure di prevenzione per fermare questa piaga. La nuova normativa va in questa direzione? Temo che, al di là delle intenzioni del Parlamento che l’ha approvata, la nuova normativa rischi di essere poco efficace anche rispetto a questo tragico aspetto della questione. Credo, anche in base alle cronache di questi suicidi, che spesso vengono definiti morti annunciate e che hanno riguardato persone in situazioni e condizioni anche molto varie, che possano essere prevenuti efficacemente solo se, nell’ambito di una complessiva “strategia dell’attenzione” alle situazioni delle carceri, vi è un analogo atteggiamento rispetto a quelle delle persone. Ciascuna ha esigenze specifiche che possono essere comprese e in qualche modo soddisfatte solo se gli operatori (aree educativa, sanitaria…) sono davvero in numero e con strumenti tali da poter svolgere efficacemente il loro lavoro. L’art. 27 della nostra Costituzione raccomanda che “le pene devono tendere alla rieducazione” ma il tasso di recidiva in Italia sfiora il 70% mentre, laddove si mettono in atto attività formative (scuola, formazione professionale, inserimenti lavorativi), la recidiva crolla al 2%. Cosa prevede la nuova legge perché. come ha detto Mattarella. le “carceri non si trasformino in palestre criminali”? L’obiettivo indicato dal Presidente della Repubblica è fuori dalla portata di una legge che si occupa solo in parte di carceri e ha contenuti molto eterogenei. Misure quali quelle già citate, ma anche altre (ad esempio un elenco delle strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento dei detenuti), sono utili solo a medio-lungo termine. Non incidono più di tanto e con la necessaria urgenza sulla quotidianità della vita delle carceri che, se sovraffollate da persone tenute inattive e non seguite adeguatamente sotto alcun profilo, non potranno che continuare ad essere nella situazione stigmatizzata da Mattarella. Circa il 30% dei detenuti in Italia è in carcere su misura cautelare, il che è particolarmente preoccupante per i minori, la cui carcerazione, secondo il nostro ordinamento, dovrebbe essere l’extrema ratio. Invece dopo il Decreto Caivano gli Ipm (Istituti penitenziari minorili) hanno registrato un incremento di arresti. Secondo lei cosa sarebbe necessario per non riempire le carceri di minori e giovani, ma offrire loro opportunità di rieducazione? Rispetto ai minorenni autori di reati la legge esige una risposta individualizzata, in cui il carcere sia davvero una soluzione estrema e, quando praticata, il più possibile temporanea. Se esso diventa, invece, routine o quasi, “parcheggio” anche per reati di contenuta gravità, e non vi sono operatori in grado di operare efficacemente e tempestivamente per misure cautelari meno gravi e più elastiche (comunità, permanenza in casa/casa famiglia, prescrizioni), eventualmente abbinate a provvedimenti civili, il rischio, già concretatosi in alcuni casi di cui si sono occupate le cronache, è che il carcere “esploda” in tutti i sensi. Un carcere per giovanissimi, o comunque giovani, spesso di provenienze molto diverse e senza una famiglia adeguata, è una struttura molto complessa da gestire, al di là dei numeri, che sono ridotti rispetto a quelli delle carceri per adulti ma non sono tutto. Un’altra criticità delle nostre carceri è la presenza dietro le sbarre di 26 bambini reclusi con le loro mamme detenute. Secondo lei la nuova legge - in un sistema come il nostro dove mancano comunità di accoglienza per le misure alternative o la messa in prova - tiene conto che un minore che vive i primi anni di vita in carcere sarà segnato per tutta la vita? È un altro, grave, problema di vecchia data e, più che mai, non sono i numeri che possono farlo ritenere secondario. Molte voci si sono già espresse criticamente. Su queste premesse, rispondo sinteticamente: non credo che si tenga conto adeguatamente di quanto pesa e peserà per un bambino piccolo trascorrere in un ambiente come quello carcerario anni, o anche solo mesi, di vita. Un ricordo: nell’estate del 1979 entrai per la prima volta in un carcere, Le Nuove di Torino, avendo assunto le funzioni di magistrato da pochi mesi e per sostituire un collega. Mi colpì in modo particolare la Sezione femminile, dove c’erano diverse madri con i loro bambini. Situazioni che, da fuori, erano e sono difficilmente percepibili. La legge appena approvata non convince numerosi addetti ai lavori dell’amministrazione carceraria ma anche magistrati, avvocati e garanti dei detenuti, educatori, psicologi e medici (figure in forte carenza di organico nelle carceri). Secondo la sua esperienza, di cosa ha bisogno il nostro Paese per dare la possibilità a chi ha commesso un reato di ricostruirsi una vita durante il tempo della detenzione e, una volta fuori, inserirsi nella società senza il rischio di ritornare in carcere? Mi riporto a quanto già detto e aggiungo che solo un carcere che non sia una “discarica sociale” (richiamo un’espressione usata spesso) e che sia invece strutturato, fisicamente e programmaticamente, per accogliere persone su cui lavorare, non solo per contenerle ma per gestirle in una prospettiva più ampia e rivolta al futuro, può svolgere degnamente il compito riabilitativo assegnato ad esso dalla Costituzione. Vietato pubblicare le ordinanze di custodia cautelare: la stretta del Governo di Lorenzo Nicolao Corriere della Sera, 6 settembre 2024 Il Consiglio dei ministri ha dato ieri il via libera al decreto legislativo che cambia l’articolo 114 del codice di procedura penale. Sarà possibile pubblicare solo il capo di imputazione. Vietato pubblicare il testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari o fino al termine dell’udienza preliminare. Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri il testo del decreto legislativo sulla modifica dell’articolo 114 del codice di procedura penale. Viene così dato il via libera alla norma Costa (dal deputato di Azione Enrico Costa e ribattezzata dalle opposizioni “norma bavaglio”), il decreto legislativo che toglie ai mezzi di informazione la possibilità di pubblicare parti delle intercettazioni, come consentito nel 2017 con la legge sulle intercettazioni dell’allora Guardasigilli Andrea Orlando. Sarà di fatto possibile pubblicare solo il capo di imputazione. Con la nuova normativa le ordinanze non si potranno più citare per esteso, come virgolettato per intenderci, ma soltanto per estratti. Un’operazione che potrebbe così esporre le pubblicazioni a cattive interpretazioni, rispetto alla citazione testuale. Per questo motivo la Federazione nazionale della Stampa (Fnsi) ha da subito protestato. Il provvedimento, fatto di tre decreti legislativi, è stato preso in adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva europea, quella che chiedeva agli Stati “di rafforzare alcuni aspetti della presunzione di innocenza della persona indagata o imputata nell’ambito di un procedimento penale”. Dopo l’ok definitivo del Parlamento e la pubblicazione lo scorso 24 febbraio in Gazzetta ufficiale della legge di delegazione europea, che affidava al governo una delega per il recepimento delle direttive europee, “la norma Costa” è stata così oggetto dell’esame preliminare del Consiglio dei ministri di ieri. Il decreto legislativo ad hoc dovrà ora passare all’esame delle commissioni parlamentari competenti per il relativo parere, ma questo non sarà vincolante. Stretta alla libertà di stampa: divieto di pubblicare le ordinanze di arresto di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 6 settembre 2024 Primo sì del governo. Il testo delle ordinanze di custodia cautelare sarà segreto fino alla conclusione delle indagini preliminari. Il Consiglio dei ministri di mercoledì ha dato il via libera anche al decreto legislativo di modifica dell’articolo 114 del codice di procedura penale che porterà al divieto di pubblicazione fino al termine delle indagini o dell’udienza preliminare. Si conclude così l’iter della contestata “legge bavaglio”. Iniziato con un emendamento del deputato di Azione Enrico Costa all’articolo 4 della legge di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva europea. Cancellata la riforma del 2017 dell’allora ministro della giustizia, Andrea Orlando, che rendeva le ordinanze pubblicabili senza limiti. Ora si potranno citare solo i contenuti dell’atto senza i virgolettati. E si potrà riportare fedelmente solo il capo di imputazione. Ora il testo sarà sottoposto alla lettura delle due commissioni Giustizia di Camera e Senato per eventuali suggerimenti non vincolanti. La Federazione nazionale della stampa (Fnsi), con la segretaria generale Alessandra Costante, parla di “Paese sempre meno libero”. Ma a tenere banco sul fronte giustizia ieri è stato uno scontro durissimo al Consiglio superiore della magistratura. Protagonista la consigliera laica in quota Fratelli d’Italia, Rosanna Natoli accusata di aver rivelato atti e concordato strategie difensive con una magistrata sotto inchiesta disciplinare, Maria Fascetto Sivillo condannata dal tribunale di Messina. Per mercoledì 11 è stata fissato il plenum per discutere del suo destino. E l’input è venuto direttamente dal comitato di presidenza, composto dal vicepresidente Fabio Pinelli, dalla prima presidente di Corte di Cassazione, Margherita Cassano, e dal procuratore generale Luigi Salvato, sempre a contatto con il capo dello Stato che presiede anche l’organo di autogoverno della magistratura. Ma Natoli, che dopo le accuse si è dimessa da componente della commissione disciplinare, non ci sta. E, a sorpresa, ha contrattaccato con un’iniziativa eclatante. Ha inviato al consiglio di presidenza del Csm una richiesta di annullamento di tutte le delibere del plenum dello scorso 17 luglio. Perché, ha scritto, le sarebbe stata impedita la presenza alla seduta con “azioni che l’hanno “terrorizzata, forzata e violentata psichicamente da parte dei consiglieri di Area e di Md”. Dichiarazioni smentite e rispedite al mittente dai rappresentanti dei due gruppi. Ma la motivazione di Natoli è ancora più sorprendente. Sostiene che il suo terrore fu dovuto al fatto che, arrivata quel giorno per partecipare alla seduta sulla nomina del procuratore di Catania, venne avvertita da 4 consiglieri che la consigliera di Area “aveva a comunicato al vice presidente che qualora fossi entrata in aula avrebbero, in apertura e in collegamento con Radio Radicale, diffuso, mediante lettura, la trascrizione del contenuto della chiavetta Usb depositata dalla Fascetto Sivillo e chiesto in diretta le mie dimissioni”. Quella pennetta conteneva la trascrizione del suo colloquio con Fascetto Sivillo, registrata a sua insaputa, e secondo lei artatamente manipolata. L’accenno alla seduta in cui si è votato il conferimento dell’incarico di procuratore di Catania a Francesco Curcio ne ha subito portata con sé un’altra. Alcuni dei candidati a quel ruolo, i procuratori aggiunti di Catania Sebastiano Ardita, Ignazio Fonzo e Francesco Pulejo, stanno adesso valutando l’ipotesi di presentare ricorso contro la nomina di Curcio. O di disporre il differito possesso nell’incarico in attesa che ogni ombra si dissolva. Giustizia, quella stretta che colpisce la stampa di Gian Carlo Caselli La Stampa, 6 settembre 2024 Il problema dei problemi del nostro ordinamento giudiziario è la durata interminabile dei processi, una vergogna che trasforma in denegata giustizia il diritto dei cittadini - tutti - ad una giustizia giusta. In un Paese preoccupato della qualità della sua democrazia il governo si impegnerebbe al massimo per avviare a soluzione questo problema di civiltà, dedicandovi tutto il tempo e l’impegno necessari. Invece nulla di tutto questo, mentre basterebbe una frazione millesimale della determinazione (ossessione) riservata a perseguire l’obiettivo che sembra stare più a cuore dell’attuale maggioranza: vietare la pubblicazione integrale o per estratto del testo del provvedimento con cui si dispone la custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. Ancora ieri il Consiglio dei ministri ha aggiunto un ulteriore tassello a questo disegno. Scopo proclamato? Rafforzare la presunzione di innocenza della persona indagata o imputata in un procedimento penale, nel solco - si dice - di una direttiva europea. In realtà è di elementare evidenza che il vero obiettivo è quello di produrre un vulnus al diritto dei cittadini di essere informati, per cui giustamente la legge viene definita come “legge bavaglio”. Non può esservi dubbio, infatti, che la forza persuasiva della citazione letterale di un documento dell’autorità giudiziaria è incomparabilmente superiore alle sintesi inevitabilmente soggettive cui saranno costretti i giornalisti. Ed è pienamente giustificato il timore che in caso di arresto di chi può e conta sarà più facile per gli organi di informazione a ciò interessati fornire un resoconto edulcorato dei fatti lontano dalla verità. In modo particolare quando si tratti di notizie che mettono in luce il malfunzionamento della macchina del potere, con possibili ricadute sul consenso di chi lo detiene. La necessità di un’informazione senza bavagli, del resto, è ancor più evidente nel caso che l’indagato voglia vedere soddisfatti i propri interessi più che vedere riconosciuti i propri diritti, tanto da richiedere al legale non solo un impegno “tecnico” ma anche un aiuto per arginare le offensive che mirano a colpirne l’immagine nell’opinione pubblica. Una “committenza forte”, che contiene anche una forte richiesta di “aiuto” nei rapporti con l’informazione. I bavagli vanno indubbiamente in questa direzione. Tanto più in un quadro generale in cui i Pm non parlano o possono parlare solo in casi eccezionali indossando una specie di camicia di forza, tanto da fare temere che prima o poi giornali, radio e tv dovranno o chiudere i servizi di cronaca o trovare altre fonti, facendo suonare campane anche non trasparenti o interessate. Con piena soddisfazione di quei privilegiati che possono contare su una ventina di minuti del servizio pubblico tv per esporre le proprie ragioni. Ordinanze cautelari pubblicabili solo per riassunto: bavaglio o tutela degli innocenti? di Errico Novi Il Dubbio, 6 settembre 2024 Nel Consiglio dei ministri via libera anche al decreto legislativo che attua la “legge Costa” e che consente di riportare testualmente, degli atti di un gip, solo il capo d’imputazione. Il resto dovrà essere riassunto dal cronista. Tra le misure varate ieri dal governo c’è anche un decreto legislativo. E l’oggetto del provvedimento non è banale: dà compiuta attuazione alla norma, approvata in via definitiva dal Senato lo scorso 14 febbraio, che vieta la riproduzione letterale delle ordinanze cautelari. Tecnicamente, scompare il passaggio che, all’articolo 114 del codice di rito, deroga - per le sole ordinanze che dispongono misure cautelari, appunto - al divieto di pubblicazione degli atti d’indagine. Nei fatti, la norma attuativa appena varata dal Consiglio dei ministri - ora sottoposta al parere non vincolante di Camera e Senato - precisa che gli atti con cui il gip infligge (anche) le “manette” non possono essere citati dal giornalista in modo letterale, eccezion fatta per il capo d’imputazione. Resta pacifico che, di quell’atto, si potrà continuare a dar conto per riassunto. Come anticipato da Repubblica, è stato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, di Fratelli d’Italia, a proporre che si potesse continuare a riportare il capo d’imputazione parola per parola. La legge delega che introduce il nuovo limite, precisato dal decreto legislativo di ieri, è la numero 15 del 2024. Nell’esame parlamentare avvenuto tra fine 2023 (alla Camera) e inizio 2024 (a Palazzo Madama) era stato il deputato e responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa a presentare l’emendamento con la norma sulle ordinanze cautelari, subito condivisa, e approvata, dalla maggioranza. Già alla fine dello scorso anno si era aperto un ampio dibattito, riacceso dalla novità di queste ore, che vede le rappresentanze dei giornalisti nettamente schierate contro la modifica. La logica del divieto di riportare “alla lettera” le ordinanze cautelari (fino alla conclusione delle indagini o fino al termine dell’udienza preliminare) è descritta così da Costa e dal governo: un testo virgolettato, originale, di un gip che, con le proprie argomentazioni, motivi una carcerazione preventiva deve necessariamente avere una forza, un’incisività anche “suggestive”. Non foss’altro perché quell’ordinanza dovrà reggere a eventuali impugnazioni, cioè al successivo vaglio del Riesame e della Cassazione. Si tratta, di fatto, di una ricostruzione delle accuse sostenute dalla Procura e ritenute, dal giudice per le indagini preliminari, sufficienti a giustificare non una condanna, ma le manette. Il giudice è terzo, ma si pronuncia, in un caso simile, senza la pretesa di accertare la colpevolezza dell’indagato, eppure con un linguaggio, un’assertività che, rispetto alla gravità degli indizi (la prova, quella, si forma nel dibattimento…), devono essere convincenti, pur nel rispetto delle norme sulla presunzione d’innocenza già introdotte nel 2021. Ed è qui che autori e sostenitori del provvedimento, da Costa ai vertici di via Arenula, si chiedono: è giusto che al lettore venga proposta integralmente o, seppur per estratto, parola per parola una ricostruzione ancora non passata al vaglio processuale, ma comunque già capace di suscitare, nell’opinione pubblica, la convinzione della colpevolezza? È davvero giusto, anche tenuto conto che, in casi di particolare rilevanza, tale suggestione può arrivare a radicarsi a tal punto nella coscienza collettiva da condizionare, in seguito, persino il giudice del processo, messo sotto pressione dall’attesa di una sentenza coerente con le parole usate, magari anni prima, dal gip nell’ordinanza? Costa e l’Esecutivo sono convinti di no, che la presunzione d’innocenza sia compromessa anche dalle suggestioni inevitabilmente prodotte, a livello diffuso, mediatico, nella fase preliminare del procedimento. Quando cioè non è ancora neppure iniziato un processo vero e proprio. Ciò non toglie che il “divieto di pubblicazione testuale” lasci comunque al giornalista la possibilità di riferire i contenuti dell’ordinanza cautelare in modo riassuntivo, e di illustrare al lettore il senso dell’indagine, delle accuse per le quali il gip ha riconosciuto come gravi gli indizi raccolti dal pm. È un bavaglio? O è una cautela formale, un limite al linguaggio della cronaca giudiziaria concepito per salvaguardare la dignità, e il diritto di difesa, di chi potrebbe essere innocente? E se è vera la seconda delle due affermazioni, noi giornalisti siamo così convinti che la dignità e il diritto di difesa di un innocente debbano essere sacrificati a una concezione assolutizzante del diritto di informazione? O in uno Stato civile è giusto sforzarsi di tenere in equilibrio i due principi, e magari avere particolare riguardo per la dignità, cioè per la vita, del singolo innocente? In una democrazia, non esiste una risposta sola. E soprattutto, in una democrazia, andrebbe tollerato che ciascuno abbia la propria, di risposta, e la confronti con gli altri. L’appello di trecento magistrati contro Gazzoni: “Veicola stereotipi” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 settembre 2024 Lettera aperta ai docenti universitari contro il manuale di diritto privato finito al centro delle polemiche per le frasi sulle “giudici instabili”. Oltre trecento magistrati hanno inviato una lettera aperta a tutti i docenti universitari in merito alle frasi che compaiono nel Manuale di diritto privato di Francesco Gazzoni, dove le magistrate italiane sono dipinte quali persone “in equilibrio molto instabile nei giudizi di merito in materia di diritto di famiglia”. Come ci spiega uno dei promotori dell’iniziativa, Simone Spina del Tribunale di Siena, “il nostro obiettivo non è il boicottaggio del libro ma sollecitare l’Accademia sul proprio ruolo di responsabilità e sensibilità con riguardo alla scelta dei testi da adottare nell’ambito dei corsi universitari, consapevoli che gli Atenei italiani continueranno in questa loro missione, cruciale per lo sviluppo democratico del nostro Paese, di educazione alla cultura dell’eguaglianza e di rifiuto di ogni forma di linguaggio gratuitamente offensivo e discriminatorio”. Insomma, nessuno vuole bruciare il libro in piazza; lo scopo è quello di avviare una discussione ampia su quelle espressioni per molti davvero irricevibili. Nell’appello, che può essere ancora sottoscritto anche dagli avvocati e professori, si condividono innanzitutto le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per cui “Soltanto l’affermazione e il rispetto della dignità delle donne rendono possibile una società autenticamente democratica”. A partire da questo i primi firmatari - tra cui la presidente e il segretario di Magistratura democratica Silvia Albano e Stefano Musolino, l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte, la Consigliera di Cassazione Paola di Nicola Travaglini, la giudice del Tribunale di Roma Emanuela Attura, la procuratrice europea Mariarosaria Guglielmi, l’ex presidente del Conams Giovanni Maria Pavarini, l’avvocato Mimmo Passione, il professore Nando Dalla Chiesa - ritengono “inaccettabili, in uno Stato di diritto fondato sull’uguaglianza e sulla pari dignità di ogni persona, parole come quelle che compaiono nel manuale di Francesco Gazzoni, che sono evidentemente alimentate da ottusi stereotipi e in grado, a loro volta, di generare e perpetuare altrettanti inaccettabili pregiudizi”. Ma la critica è rivolta anche ad altre espressioni di Gazzoni: “Non possiamo tacere, poi, delle frasi, sempre presenti in quel manuale, che parlano dei magistrati come di persone appartenenti “non di rado alla categoria degli ‘psicolabili’”. Che si sia ahimè ispirato a Berlusconi quando li appellò “antropologicamente pazzi”? Comunque per i magistrati si tratta “di parole altrettanto inaccettabili, per il gratuito dileggio e le gravi offese che veicolano nei confronti della magistratura tutta. Si tratta di parole che, agli occhi degli studenti universitari, colpiscono l’immagine di un’istituzione cui la nostra Carta fondamentale ha affidato il compito di tutelare i diritti delle persone, attraverso l’applicazione della legge, e di garantire così valori fondamentali quali sono, in uno Stato democratico, l’uguaglianza e la pari dignità personale”. Pertanto, conclude Spina, questa “è sola la prima pietra per un confronto più ampio tra tutti gli attori in gioco”. Dai “diritti” per le copie alla “tassa” per la difesa di Michele Vaira* Il Domani, 6 settembre 2024 Prima dell’avvento del digitale, la moltiplicazione di versamenti poteva essere giustificata dal fatto che materialmente le copie venivano eseguite diverse volte. Oggi non accade più, con il rilascio su supporto digitale. Ed ecco che si passa dal pagamento di “diritti di cancelleria” a un vero e proprio guadagno da parte dello Stato, una sorta di “tassa sulla difesa”. La notizia dell’indagine della Procura di Treviso a carico di una decina di avvocati “rei” di aver fotografato alcuni atti di indagine per non pagare i valori bollati è l’ennesimo, gratuito, oltraggio alla dignità della classe forense. I commenti si sprecano: alcuni soloni blaterano di “gravissime condotte” dei malcapitati avvocati mentre i più benigni descrivono i colleghi quali poveri straccioni, disposti a tali espedienti per risparmiare poche decine di euro. Innanzitutto, è davvero molto grave che la Procura di Treviso, che già non brilla per efficienza, perda il proprio tempo per indagini che già a prima vista si rivelano così infondate in diritto e di inesistente allarme sociale. Da questa vicenda, possono trarsi diversi spunti di riflessione. Chi, come l’autore di questo articolo, è avvocato da un paio di decenni, è testimone di quanto la classe forense abbia supplito alle carenze del sistema giudiziario. Basti pensare alla consuetudine, superata solo di recente con l’introduzione del PCT, della redazione dei verbali dei processi civili da parte degli avvocati in luogo, come la norma prevede, dei cancellieri. In campo penale, e in particolare nello specifico ambito delle copie degli atti penali, si è andati ben oltre il concetto di “collaborazione”, attuando spesso una vera e propria “supplenza”. A me e ai miei collaboratori di studio, per esempio, non è mancato di effettuare personalmente le copie presso le fotocopiatrici in dotazione agli uffici; utilizzare proprie risme di carta; in alternativa portare i fascicoli ai centri copie (pagando anche tale servizio); portare uno scanner portatile per poter eseguire delle copie a colori. Pagando comunque, regolarmente, le marche da bollo. Tali situazioni, in alcuni uffici, sono ancora attuali (sebbene meno frequenti). Altra premessa. La copia (completa) degli atti è il primo requisito di una difesa adeguata ed efficace, motivo per cui questo autore ha sempre richiesto copia integrale di tutti i fascicoli delle indagini. Tale richiesta, in certe occasioni, è molto costosa, soprattutto quando sono presenti agli atti dei supporti multimediali. La riforma Cartabia, che ha opportunamente introdotto la registrazione della raccolta di sommarie informazioni, ha reso ancora più significativo questo aspetto. Non tutti i clienti, però, hanno la possibilità di spendere centinaia, se non migliaia, di euro, solo per conoscere le fonti delle proprie accuse. Conseguentemente, gli avvocati che non hanno clientele cd “primarie”, devono spesso contemperare esigenze di difesa con logiche di natura economica. E questo vale a maggior ragione per i difensori di ufficio, che nella maggior parte dei casi non conoscono il proprio assistito, e sono costretti ad anticipare spese talvolta superiori ai modestissimi onorari liquidati. Ultima doverosa premessa. I diritti di copia degli atti dovrebbero rappresentare nulla di più che un corrispettivo per l’espletamento di un “servizio”. Gli avvocati più anziani ricordavano, a noi giovani praticanti, che prima dell’avvento delle fotocopiatrici i cancellieri duplicavano manualmente gli atti di indagine. L’avvento delle nuove tecnologie ha portato alla digitalizzazione dei fascicoli per le indagini preliminari, a beneficio non solo delle parti private e dei loro difensori, ma di tutto il sistema giudiziario sia per la comoda trasmissione degli atti che - soprattutto - per la successiva fase di archiviazione. Venendo al merito della banale questione, l’accusa mi pare del tutto infondata, da un punto di vista strettamente tecnico. Ai colleghi si contesta il reato di truffa, il cui elemento costitutivo del danno da parte dello Stato è rappresentato dal “lucro cessante” della mancata corresponsione dei diritti. Basti osservare che non vi è alcun obbligo di estrarre le copie degli atti di indagine; che sussiste un diritto di consultazione da parte dell’utenza, naturalmente gratuito; che è ovviamente consentito prendere appunti. Scattare una fotografia, in sostanza, costituisce un mezzo - ormai molto diffuso - per prendere appunti. Mi si obietterà che, a quanto pare, a Treviso vi fosse un espresso divieto di scattare fotografie. Da questo punto di vista, posso convenire che i divieti, se ritenuti illegittimi o insensati, come in questo caso, non vanno ignorati, ma vanno impugnati e contestati. Del resto, ciò che è vietato nella Procura di Treviso rappresenta, invece, normale prassi consentita e - addirittura - favorita in altri uffici, laddove vi è carenza di mezzi e personale. La singolare vicenda potrebbe - però - costituire lo spunto per una riflessione, da parte dell’avvocatura e soprattutto del legislatore. Come dimostrato dall’improvvida iniziativa della Procura di Treviso, che per contestare la truffa ritiene sussistente un “danno”, il pagamento dei diritti è ormai considerato non più quale corrispettivo di un servizio, ma una sorta di “tassa sulla difesa”. Un modo come un altro per lo Stato di “fare cassa”. Si pensi a una situazione molto frequente. In un procedimento che conta decine di indagati, lo Stato digitalizza una sola volta gli atti e li rilascia, previo pagamento dei diritti, decine di volte, ai singoli avvocati richiedenti. Ottenendo un “guadagno” del tutto sproporzionato rispetto all’attività svolta. Prima dell’avvento del digitale, questa “moltiplicazione” di versamenti poteva essere giustificata dal fatto che materialmente le copie venivano eseguite diverse volte. Oggi non accade più, con il rilascio su supporto digitale. Ed ecco che si passa dal pagamento di “diritti di cancelleria” a un vero e proprio guadagno da parte dello Stato, una sorta di “tassa sulla difesa”. Sarebbe finalmente il caso di stabilire, per legge, che alla conclusione delle indagini tutti gli atti siano consegnati gratuitamente a tutte le parti processuali. Non vi è nessun motivo, logico, giuridico o contabile che impedisca una soluzione del genere. E ve ne è uno - di ordine statistico - che milita decisamente a favore: la stragrande maggioranza degli indagati poi risulta innocente. Ad oggi, in realtà, gli unici destinatari degli atti di indagini che non pagano i diritti sono alcuni giornalisti di alcune testate amiche di alcune Procure. Molti di questi atti vengono consegnati anche durante le indagini preliminari, come dimostrano i casi di cronaca in cui in cambio dell’esaltazione della capacità investigative degli inquirenti vengono pubblicati in tempo reale i contenuti delle testimonianze e addirittura degli interrogatori degli indagati. Gli avvocati e gli imputati, invece, quegli atti possono conoscerli solo molto tempo dopo. Pagandone profumatamente le copie. E secondo la Procura di Treviso, anche solo per vederli e “prendere appunti”. *Già presidente Nazionale AIGA Foglio di via obbligatorio illegittimo se manca l’ordine di rientro nella residenza di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2024 La doppia prescrizione dell’allontanamento dal Comune e quella di “rimpatriare” nel luogo di residenza è requisito imprescindibile dell’ordine del questore anche in caso di cittadini italiani. La Cassazione annulla la decisione dei giudici di appello che avevano ritenuto legittimo il provvedimento del questore che stabiliva l’allontanamento dal Comune senza ordinare il rientro in quello di residenza ritenendo così consumato il reato previsto dal comma 3 dell’articolo 76 del Dlgs 159/2011. La doppia prescrizione è invece rispondente al modello legale della misura di prevenzione decisa dal questore a fronte della pericolosità del soggetto a cui si rivolge. Precisa, infatti, la Cassazione penale che il fine di contenere il rischio insito nella pericolosità sociale del soggetto colpito dall’ordine del questore non è precipuamente quello di allontanarlo dal Comune in cui non può far reingresso. Con la sentenza n. 33606/2024 la Suprema corte ha perciò accolto il ricorso che lamentava la mancanza dell’ordine di rimpatrio nel proprio Comune di residenza e che di conseguenza contestava l’avvenuta consumazione della contravvenzione stabilita dalla norma del suindicato Dlgs (ante modifica del 2023) per il reingresso effettuato dal ricorrente nel Comune da cui era stato allontanato. Di conseguenza, non vi sarebbe stata alcuna violazione dell’ordine del questore in quanto questo risultava invalido. Ciò che ha confermato la Cassazione respingendo l’argomento dei giudici di appello secondo cui per i cittadini italiani non è necessario oltre all’allontanamento ordinare il rimpatrio nella propria residenza. La questione era stata sollevata già con i motivi di appello, ma oggi la Suprema Corte smentisce la validità della risposta dei giudici di merito secondo i quali la doppia prescrizione non sarebbe applicabile in caso di cittadini italiani. Cgue: minori indagati, difensore presente dal primo interrogatorio Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2024 La Corte Ue, sentenza della Corte nella causa C-603/22, interviene in materia di equo processo dei i minori. E afferma che devono avere la possibilità concreta ed effettiva di essere assistiti da un difensore. Non solo, l’assistenza deve essere offerta al più tardi prima del primo interrogatorio da parte della polizia. Nel corso di un procedimento a carico di tre minori imputati per una effrazione, è venuto fuori che i ragazzi erano stati interrogati dalla polizia senza la presenza di un difensore. Prima del primo interrogatorio non erano informati neppure dei loro diritti, così come i loro genitori. I difensori nominati d’ufficio hanno chiesto che le precedenti dichiarazioni siano eliminate dagli atti. A questo punto il giudice nazionale si è rivolto alla Corte di giustizia chiedendo se le disposizioni del proprio paese siano conformi al diritto dell’Unione. La decisione - La Corte Ue, con la decisione odierna, ha chiarito che i minori indagati o imputati devono avere la possibilità concreta ed effettiva di essere assistiti da un difensore, se del caso, nominato d’ufficio. E che a tale obbligo deve ottemperarsi prima del primo interrogatorio da parte della polizia o di qualsiasi altra autorità di contrasto o giudiziaria e, al più tardi, nel corso di quest’ultimo. Inoltre, se compiono 18 anni durante il procedimento, i diritti conferiti ai minori devono perdurare “allorché ciò è appropriato alla luce di tutte le circostanze della fattispecie, compresa la maturità e la vulnerabilità delle persone di cui trattasi”. La Corte sottolinea poi che i minori devono essere informati dei loro diritti processuali il più rapidamente possibile, al più tardi, prima del primo interrogatorio. Tali informazioni devono essere comunicate in modo semplice ed accessibile, adeguato alle loro necessità specifiche. Un documento standard, destinato agli adulti, non soddisfa detti requisiti. Per quanto riguarda infine le prove incriminanti tratte da dichiarazioni rese in violazione di tali diritti, la normativa dell’Unione non impone di prevedere la possibilità per il giudice nazionale di dichiarare inammissibili prove del genere; tuttavia, il giudice deve poter verificare il rispetto di tali diritti e trarre tutte le conseguenze derivanti dalla loro violazione, in particolare relativamente al valore probatorio delle prove in questione. Imperia. Detenuto di 45 anni si impicca in cella: avrebbe terminato la pena a gennaio riviera24.it, 6 settembre 2024 Si tratta del sessantanovesimo suicidio in Italia da inizio anno. L’uomo, un italiano, soffriva già di problemi psichiatrici. Un detenuto di 45 anni si è suicidato, stamani, in carcere a Imperia, impiccandosi alle grate della cella, approfittando dell’ora d’aria degli altri compagni. Si tratta del sessantanovesimo suicidio in Italia da inizio anno. L’uomo, un italiano, soffriva già di problemi psichiatrici. “Questo ulteriore suicidio avvenuto nel carcere di Imperia deve far riflettere sulla condizione in cui vivono i detenuti e su quella in cui è costretto ad operare il personale di Polizia Penitenziaria”. Lo dice Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, commentando il 69esimo suicidio nelle carceri del 2024. L’uomo suicida, italiano, era nato nel 1977, con una pena brevissima di soli 6 mesi, fine pena a gennaio 2025. Una precedente carcerazione durata un anno tra il 2016 e il 2017 per piccoli reati (furto, resistenza). “Spesso, questi eventi, oltre a costituire una sconfitta per lo Stato, segnano profondamente i nostri agenti che devono intervenire. Si tratta spesso di agenti giovani, lasciati da soli nelle sezioni detentive, per la mancanza di personale. Servirebbero anche più psicologi e psichiatri, vista l’alta presenza di malati con disagio psichiatrico. Spesso, anche i detenuti, nel corso della detenzione, ricevono notizie che riguardano situazioni personali che possono indurli a gesti estremi. Siamo costernati ed affranti: un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta per lo Stato e per tutti noi che lavoriamo in prima linea. Ma nessuno può sentirsi indifferente a queste morti. Il personale di Polizia Penitenziaria è sempre meno, anche a seguito di questi eventi oramai all’ordine del giorno. Stiamo vivendo un’estate di fuoco nelle carceri e servono immediatamente provvedimenti concreti e risolutivi: espulsioni detenuti stranieri, invio tossicodipendenti in Comunità di recupero e psichiatrici nelle Rems o strutture analoghe. Il personale di Polizia Penitenziaria è allo stremo e, pur lavorando più di 10/12 ore al giorno, non riesce più a garantire i livelli minimi di sicurezza. Fino a quando potrà reggere questa situazione?”. Per questo, Capece ribadisce che si rendono sempre più necessari gli invocati interventi urgenti suggeriti dal Sappe per fronteggiare la costante situazione di tensione che si vive nelle carceri italiane: “Non è più rinviabile una riforma strutturale del sistema, anche ipotizzando eventualmente di ridurre il numero di reati per cui sia previsto il carcere e, conseguentemente, implementare delle pene alternative alla detenzione ed avviare una efficace struttura che consenta la loro gestione sul territorio. Il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria non si fa prendere per il naso da chi oggi pensa di avere scoperto l’acqua calda e i problemi carcerari sollecitando improbabili indulti e leggi svuota carceri, mentre per mesi ed anni non hanno detto una parola sui provvedimenti delle varie maggioranze politiche di ogni colore al Governo che, nel tempo, hanno destabilizzato il sistema e destrutturato la sicurezza nelle carceri”. Livorno. Carcere di Gorgona: detenuto di 56 anni si suicida durante permesso premio livornotoday.it, 6 settembre 2024 Si tratta del settantesimo suicidio di un detenuto da inizio anno. Si fa sempre più drammatica la situazione di chi vive all’interno degli istituti penitenziari con il numero dei suicidi che ha già raggiunto e superato il totale di quelli avvenuti nel 2023. L’ultimo è avvenuto nella mattinata di ieri 5 settembre, questa volta al di fuori delle mura del carcere. Il detenuto, un 56enne recluso a Gorgona e in permesso premio, si è infatti tolto la vita in un appartamento di Rosignano Marittima. Secondo quanto ricostruito l’uomo, arrestato nel maggio del 2023 a causa di reati tributati, era stato trasferito a Gorgona, dove si era ben inserito lavorando come panettiere nel forno dell’isola carcere. Ottenuto un permesso premio, era quindi andato a Rosignano dove viveva la compagna. E proprio a casa di lei, nella mattinata di ieri, il suo corpo è stato trovato esanime in seguito purtroppo a un gesto volontario. Milano. Tragedia a San Vittore, detenuto 18enne muore carbonizzato in cella ansa.it, 6 settembre 2024 L’incendio sarebbe stato appiccato dal detenuto stesso che era in cella con un altro compagno. Un detenuto di 18 anni è morto carbonizzato, nella notte, nel carcere di San Vittore, a Milano, per un incendio divampato nella cella nel quale era insieme con un altro detenuto. Tragedia nella notte a San Vittore. Un ragazzo di 18 anni, stando a quanto raccontato dalla Uilpa polizia penitenziaria, è morto carbonizzato nella sua cella, “che condivideva con un altro ristretto”. La tragedia sarebbe stata causata da “un incendio appiccato, sembrerebbe, da loro stessi come ormai avviene con assidua frequenza”. “Non crediamo possa parlarsi di suicidio, ma è un’altra morte che si aggiunge ai 70 detenuti e ai 7 agenti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno in quello che sempre più appare come un bollettino di guerra”, l’amaro commento di Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato. “Quanto accaduto a San Vittore mette ancora una volta a nudo la crisi senza precedenti del sistema penitenziario e se le conseguenze non sono state ancora più gravi lo si deve solo al pronto e professionale intervento della polizia penitenziaria che, depauperata negli organici, stremata nelle forze e mortificata nell’orgoglio è intervenuta mettendo in salvo il secondo recluso e impedendo che le fiamme si propagassero al resto del carcere”, ha aggiunto De Fazio. Che ha poi posto l’accento sul sovraffollamento che fa del penitenziario meneghino il carcere più pieno d’Italia. “A San Vittore sono letteralmente stipati 1.100 detenuti, a fronte di 445 posti disponibili, con un sovraffollamento di oltre il 247%, sorvegliati da 580 appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, distribuiti su più turni e compresi gli addetti agli uffici e ai servizi vari, rispetto a un fabbisogno di almeno 700, con una scopertura del 17%. Il governo, oltre al gossip di questi giorni, dovrebbe occuparsi compiutamente e, se mai, versare qualche lacrima per quanto si continua a perpetrare nelle carceri”, il j’accuse del sindacalista. “Va immediatamente deflazionata la densità detentiva, sono 15mila i detenuti oltre la capienza, necessita potenziare il corpo di polizia penitenziaria, mancante di oltre 18mila unità, va assicurata l’assistenza sanitaria e psichiatrica, vanno rese salubri e sicure le strutture. E poi va riorganizzato l’intero sistema. Altrimenti - ha concluso - nostro malgrado, con necrologi quotidiani continueremo a contare le morti che non possono non avere dei responsabili, non solo morali”. Milano. Rivolte al Beccaria, il caso arriva in Prefettura milanotoday.it, 6 settembre 2024 Il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica ha affrontato il caso delle rivolte al carcere minorile di Milano. Evitare che si ripetano (ancora) rivolte nel Beccaria, ma anche dare un futuro ai ragazzi detenuti. Sono i due punti cardine della seduta del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica che si è svolto in prefettura a Milano nel pomeriggio di giovedì 5 settembre. Oltre ai vertici delle forze di polizia e dei vigili del fuoco, hanno partecipato all’incontro il comune di Milano, la procura minorile, il magistrato di sorveglianza del tribunale per i minorenni, il direttore dell’istituto penale insieme al comandante di reparto, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Lombardia, il dirigente del centro per la giustizia minorile per la Lombardia. Nel corso della riunione, sono state esaminate da parte di tutti i partecipanti, ciascuno per la parte di rispettiva competenza, alcune misure organizzative ritenute necessarie per consentire al personale che opera in quell’Istituto di poter svolgere al meglio i propri gravosi compiti, con una attenzione particolare anche alle condizioni dei giovani detenuti. “È stata, altresì, disposta una intensificazione della vigilanza”, fanno sapere dalla prefettura. Non solo, si è parlato anche della “pianificazione degli interventi operativi a seguito di manifestazioni di protesta e disordini”, per “garantire il massimo tempestivo coordinamento delle attività delle forze di polizia, dei vigili del fuoco e della polizia locale con la specifica funzione di sicurezza interna all’istituto, curata dal direttore dell’istituto e dal comandante del reparto di polizia penitenziaria”. La Prefettura ha anche assicurato la piena collaborazione per la conclusione di progetti - alcuni già in corso - che promuovano la formazione anche lavorativa dei detenuti, per agevolare un loro inserimento sociale al termine della esperienza detentiva, con l’ausilio delle associazioni del terzo settore. L’ultima rivolta al Beccaria è avvenuta nella notte tra sabato e domenica 1° settembre, sette giorni prima ne era avvenuta un’altra. Lo scorso mese di aprile l’istituto penale è stato travolto da una inchiesta che ha portato all’arresto di 13 agenti di polizia penitenziaria accusati, a vario titolo, di aver commesso violenze e maltrattamenti nei confronti dei detenuti. Non solo, l’istituto fa i conti con un sovraffollamento strutturale. Secondo gli ultimi dati disponibili al 15 luglio nel carcere Beccaria erano detenute 60 persone a fronte di 70 posti teoricamente disponibili. Ad aprile, invece, i detenuti erano 81. Bergamo. Nel carcere il doppio dei detenuti previsti: “Servono sezioni per i giovani” di Federico Rota Corriere della Sera, 6 settembre 2024 L’ispezione in via Gleno dei rappresentanti di Alleanza Verdi e Sinistra. Dori: “Presenteremo un’interrogazione parlamentare al ministro Nordio”. C’è una “zona grigia” che, di fronte ai problemi ormai cronici dei penitenziari, rischia di passare in secondo piano. Ma che è legata suo malgrado a ciò che Devis Dori, deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, definisce “il padre di tutti i mali”, ossia il sovraffollamento delle carceri, cui Bergamo non è esente: su 319 posti regolamentari la casa circondariale di via Gleno ospita 585 detenuti. Di questi, 45 hanno un’età tra i 18 e i 25 anni. Ed è nei loro confronti, al termine di una visita di tre ore in via Gleno con i co-portavoce provinciali di Europa Verde Oriana Ruzzini e Giuseppe Canducci, che Dori prende un impegno: “Presentare un’interrogazione parlamentare al ministro Nordio per trovare fondi e strutture e avere così settori specifici per loro. Il sovraffollamento produce, a cascata, effetti critici. Molti di questi giovani detenuti hanno un’età in cui non c’è ancora una piena maturità; spesso hanno alle spalle situazioni familiari complesse e si trovano in cella con detenuti condannati per reati più gravi”. La richiesta sarà avanzata in concomitanza con la ripresa dell’attività parlamentare, quando alla Camera di inizierà a discutere il ddl Sicurezza che, tra i nuovi reati introdotti, prevede pure un giro di vite contro le proteste in carcere: “Il rischio — osserva il deputato — è che tutte le forme di protesta, anche quelle legittime, si trasformino in rivolte. Anche la “resistenza passiva” alla polizia penitenziaria verrebbe tenuta in considerazione”. Altro aspetto che preoccupa Dori, Ruzzini e Canducci è “l’azzeramento da parte del governo delle risorse per i progetti rivolti agli uomini maltrattanti”, per il loro reinserimento. Ma il sovraffollamento non si ripercuote solo sulla quotidianità di chi sconta una pena. Si riflette pure su chi in carcere lavora: agenti di polizia penitenziaria, operatori, dirigenti costretti a fare i conti con organici carenti. “In legge di bilancio servono fondi per la polizia penitenziaria — aggiunge Dori. Ce lo ha chiesto anche la direttrice (Antonina D’Onofrio, subentrata a inizio anno a Teresa Mazzotta, ndr)”. Tra i nodi critici della situazione carceraria ci sono poi tutti quei casi collegati a dipendenze, disagio psichico o psichiatrico. “Fortunatamente c’è una buona collaborazione dell’Asst Papa Giovanni che mette a disposizione due psicologi, e ora ne arriverà un terzo — spiega Ruzzini —. E la possibilità di interfacciarsi con gli psichiatri con la telemedicina. Ma c’è un tema oggettivo di carenza territoriale di medici. Lo stesso vale per le dipendenze; sul fronte farmacologico stanno cercando di agire sugli psicofarmaci”. C’è stata anche una considerazione della direttrice che ha colpito Ruzzini: “Il carcere è uno specchio che anticipa le criticità della società da qui a cinque 5 anni. È un monito che la stessa società deve cogliere”. Canducci pone l’accento sulla necessità di potenziare i percorsi di formazione, guardando alle prossime elezioni del Consiglio provinciale essendo lui candidato nella lista Democratici e civici per la Bergamasca: “Oltre alle associazioni, agli enti del terzo settore e alle istituzioni, la Provincia può dare un contributo fondamentale sui fronti della scuola, della formazione e del reinserimento lavorativo”. Terni. Serracchiani e Verini in visita al carcere: “Troppe carenze strutturali” ternitomorrow.it, 6 settembre 2024 Il carcere di Terni si trova in una situazione di estrema criticità, con 525 detenuti presenti a fronte di una capacità regolamentare di 422 posti, mentre il limite massimo tollerabile indicato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) è di 638 posti. Questo sovraffollamento, comune a molte altre strutture penitenziarie italiane, crea condizioni di vita e di lavoro particolarmente difficili sia per i detenuti che per il personale penitenziario. Durante una visita ispettiva, Debora Serracchiani, responsabile giustizia e parlamentare del Partito Democratico, ha denunciato le condizioni degradanti del carcere, sottolineando la grave carenza di personale. “Ci sono circa cento agenti di polizia penitenziaria in meno rispetto all’organico previsto,” ha dichiarato Serracchiani, evidenziando come questa mancanza comprometta seriamente la sicurezza e l’assistenza all’interno della struttura. L’evento è stato preludio al dibattito sulla questione carceraria a Terni che oggi va in scena alla Festa de L’Unità presenti la stessa Serracchiani, il collega Walter Verini, l’avvocato Manlio Morcella, presidente dell’Unione Camere Penali di Terni, Lorenzo De Luca, presidente dei giovani avvocati di Terni. Ad accompagnare Verini e Serracchiani Maria Elisabetta Mascio (segretaria regionale Pd) e Maria Grazia Proietti (consigliera comunale di Terni). Un altro tema critico riguarda la gestione delle dipendenze e della salute mentale all’interno del carcere. Circa 300 detenuti fanno ricorso a psicofarmaci e oltre 90 di loro soffrono di gravi disturbi psichiatrici. La concentrazione di casi psichiatrici in un’unica struttura, senza un’adeguata filiera della salute mentale, è considerata inaccettabile dalla parlamentare. La mancanza di una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) in Umbria e l’assenza di una sezione dedicata alla salute mentale (Atsm) nel carcere di Terni aggravano ulteriormente la situazione. Il senatore del Partito Democratico Walter Verini ha ribadito la gravità delle carenze strutturali e di personale qualificato nel carcere di Terni. Le problematiche non riguardano solo la mancanza di agenti penitenziari, ma anche quella di figure professionali essenziali come medici, psicologi, psicoterapeuti e mediatori culturali. Verini ha sottolineato che il carcere di Terni rappresenta una delle maggiori emergenze nazionali nel sistema carcerario e ha richiesto un intervento urgente da parte del Governo. La visita del procuratore generale presso la corte d’appello di Perugia, Sergio Sottani, che ha analizzato le condizioni degli istituti penitenziari umbri, è stata accolta con favore. Sottani ha coinvolto vari attori istituzionali per stabilire azioni comuni volte a fronteggiare l’emergenza, dimostrando un approccio coordinato alla risoluzione delle problematiche carcerarie. In conclusione, la situazione del carcere di Terni richiede un intervento urgente per risolvere le gravi carenze di personale e per garantire una gestione adeguata delle problematiche legate alla salute mentale. Il sovraffollamento e la mancanza di risorse continuano a mettere a rischio la sicurezza e la dignità di tutti coloro che vivono e lavorano all’interno della struttura. Roma. Il garante Anastasìa in visita a Regina Coeli: “Attendiamo i nuovi interventi promessi dal ministro Nordio” Ristretti Orizzonti, 6 settembre 2024 Con un tasso di affollamento sui posti disponibili pari al 185 per cento, l’istituto romano è tra quelli con il maggior sovraffollamento in Italia. “Il mondo del carcere aspetta ancora un adeguato segno di attenzione da Parlamento e Governo. Nell’incontro con la Conferenza dei garanti territoriali dello scorso 7 agosto, il ministro Nordio ha promesso nuovi interventi, dopo il deludente decreto ‘carcere sicuro’. Attendiamo fiduciosi, ma impazienti, perché così non si può continuare”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, al termine della visita alla Casa circondariale di Regina Coeli. Anastasìa ha incontrato la direttrice dell’istituto, Claudia Clementi, con la quale sono state affrontate alcune delle questioni più urgenti, a partire dal gravissimo sovraffollamento. Con 1157 detenuti presenti e un tasso di affollamento sui posti effettivamente disponibili pari al 185 per cento (dati Dap al 31 agosto 2024), Regina Coeli è tra gli istituti con il maggior sovraffollamento in Italia. Successivamente con il comandante dell’istituto Francesco Salemi c’è stato un altro momento di confronto, anche alla luce degli episodi di protesta registrati negli ultimi mesi e sulla carenza personale di polizia operante in istituto. Il Garante si è poi recato in visita nella prima e terza sezione. In prima sezione sono visibili i danneggiamenti degli ultimi giorni ma anche le carenze pre-esistenti. In particolare, Anastasìa ha assistito alla distribuzione del vitto al piano terra, in contenitori “di gruppo”, a causa del non funzionamento dell’ascensore, che impedisce la distribuzione dei pasti ai piani. In terza sezione molte stanze di pernottamento sono senza tavoli e sgabelli per sedersi e consumare i pasti. In alcuni casi i detenuti hanno riferito di mangiare in piedi. L’amministrazione penitenziaria ha rappresentato le difficoltà dei tempi di rifornimento delle suppellettili necessarie. Nel corso della visita, il Garante ha potuto incontrare diversi detenuti e ascoltarne le doglianze. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Pochi infermieri in carcere, appello all’Asl Il Mattino, 6 settembre 2024 Chiesta l’assegnazione di quattro nuove unità nel centro di detenzione. Causa croniche carenze di organico, vivono un grave disagio gli infermieri e gli operatori sociosanitari impegnati al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Una situazione da tempo nota all’Asl di Caserta e all’Amministrazione penitenziaria, che la Uil-Fpl denuncia nuovamente con una nota dei delegati sindacali interni Antonio Ratto e Domenico Santacroce e del segretario territoriale Mario Falco, inviata a numerosi dirigenti Asl. Peraltro proprio la Uil aveva sollecitato e ottenuto dal direttore delle risorse umane dell’Asl di Caserta Concetta Cosentino l’assegnazione ad agosto di quattro nuovi infermieri al carcere casertano, “ma come già da noi segnalato due delle quattro unità, invece di essere assegnate ad una turnazione h/24 nel carcere, sono state assegnate al Servizio Serd (servizio dipendenze da droga); come sindacato non abbiamo ricevuto alcuna spiegazione su tale scelta, su cui è calato un silenzio tombale”. “Se a tutto ciò aggiungiamo anche il trasferimento avvenuto in questi giorni di un infermiere che era in servizio al carcere alla direzione sanitaria dell’Asl di Caserta, si comprende il grave stato di abbandono in cui si sentono gli operatori sanitari dell’istituto penitenziario; questi ultimi, oltre a lavorare in un conteso particolare, sono sottoposti a carichi di lavoro eccessivi e turni stressanti al fine di garantirne la copertura e dare la giusta assistenza ai detenuti. Va infine ricordato che ogni dipendente assunto deve essere adibito al ruolo ed alla mansione per cui è stato assunto ed ha firmato il contratto con l’Azienda, come già più volte segnalato proprio dalla Direzione Strategica dell’A.S.L. Caserta con varie note”. La richiesta - I sindacalisti sollecitano nuovamente l’Asl “a garantire l’immediato rientro del personale trasferito con conseguente assegnazione di personale infermieristico al carcere casertano, così come stabilito nei vari incontri sindacali tenutisi con la direzione”. Pisa. La colletta dei carcerati. Il cuore del Don Bosco: “Per aiutare la famiglia” di Carlo Baroni La Nazione, 6 settembre 2024 Una bambina di 4 anni, Diarra Mame Sow, muore in un incendio a Pisa. Detenuti del carcere Don Bosco raccolgono fondi per la famiglia. Solidarietà e dolore per la tragedia. Una tragedia che ha toccato il cuore di tutti, quella di Diarra Mame Sow, appena 4 anni, morta nell’incendio della casa a Santa Croce dove si trovava ospite di amici. I detenuti del carcere Don Bosco di Pisa hanno organizzato una colletta a favore della madre e della famiglia della bambina. Lo rende noto l’associazione di volontariato Controluce di Pisa. “Colpiti dalla tragedia e motivati dal desiderio di aiutare la famiglia in questo momento di grande dolore e difficoltà - spiega Controluce - i detenuti hanno contribuito raccogliendo fondi da destinare alla madre e agli altri familiari, raggiungendo la cifra di 1.121 euro. Questa cifra verrà versata agli amministratori locali del comune di Pontedera, luogo di residenza della famiglia della piccola, che stanno coordinando gli aiuti e il supporto ai parenti”. “L’iniziativa, sostenuta anche dal personale del carcere e dalle associazioni di volontariato, rappresenta - si legge nella nota - un segnale di umanità e condivisione, confermando che anche dietro le sbarre c’è spazio per gesti di empatia e supporto verso chi soffre”. La bambina - quando scattò l’allarme - venne raggiunta dai soccorritori dopo pochi minuti dall’avvio delle operazioni di salvataggio. Aveva perso i sensi per il fumo quando venne raccolta. Dopo una prima rianimazione fu tentata la corsa all’ospedale, purtroppo inutile. Ieri mattina all’ospedale Santa Chiara c’è stata una breve cerimonia di saluto prima del rimpatrio della salma per per Touba, la città del Senegal da dove è originaria la famiglia. Le associazioni dei senegalesi di Santa Croce e Pontedera si sono strette forte alla famiglia in questi giorni, anche per supportarli nella gestione della burocrazia, oltre che dell’insuperabile dolore. A titolo personale, alla cerimonia di ieri mattina, ha partecipato anche il sindaco Roberto Giannoni, profondamente colpito dalla tragedia, sulla quale le indagini della procura sono ancora in corso. Catania. Raccolta libri scolastici per studenti figli di detenuti ansa.it, 6 settembre 2024 Iniziata sociale a Catania dell’associazione Difesa e giustizia. Una raccolta di libri scolastici destinata agli studenti delle scuole superiori, figli di detenuti e di persone che hanno avuto problemi con la giustizia È l’iniziativa sociale promossa dall’’associazione Difesa e giustizia nata per sostenere famiglie in difficoltà economica. “La raccolta di libri scolastici - spiega il portavoce dall’associazione, l’avvocato Massimo Ferrante - mira a rispondere a due importanti obiettivi: sociale e rieducativo. Da un lato, vogliamo alleviare il peso economico che grava sulle famiglie in cui un genitore è detenuto o ha scontato una pena, offrendo loro un sostegno concreto per l’acquisto di materiali scolastici. Dall’altro, riconosciamo nell’istruzione uno strumento fondamentale per l’emancipazione personale e la costruzione di un futuro migliore. Crediamo fermamente che ogni ragazzo debba avere accesso all’istruzione, indipendentemente dalle difficoltà economiche e sociali in cui si trova”. Per contribuire alla raccolta si può inviare un elenco dei libri disponibili alla mail difesa.giustizia@gmail.com, specificando titolo, edizione e casa editrice, oltre alla scuola in cui sono adottati. Le famiglie interessate a ricevere i libri possono contattare l’associazione inviando un messaggio WhatsApp al numero 3514688181. Difesa e giustizia fornirà tutte le informazioni necessarie per ricevere i libri gratuitamente. “Questa iniziativa - sottolinea Ferrante - rappresenta un piccolo gesto di solidarietà che può fare una grande differenza nella vita di molti giovani. Difesa e giustizia invita tutti a unirsi a questa campagna, affinché nessun ragazzo venga escluso dall’istruzione per motivi economici”. Venezia. Avati e Gifuni nelle carceri veneziane per il progetto “Passi Sospesi” Corriere del Veneto, 6 settembre 2024 La collaborazione tra gli Istituti Penitenziari di Venezia Femminile e Maschile e la Mostra del Cinema prosegue con le attività coordinate del progetto teatrale “Passi Sospesi” di Balamòs Teatro, attivo dal 2006. Avviate nel 2008, le iniziative si svolgono dentro e fuori gli Istituti Penitenziari durante il periodo della Biennale Cinema, presso la Casa di Reclusione Femminile della Giudecca e la Casa Circondariale Maschile Santa Maria Maggiore di Venezia. In questi anni sono stati organizzati incontri, conferenze e proiezioni di documentari sul progetto, nell’ambito della Mostra così come all’interno degli Istituti Penitenziari. Nelle ultime edizioni Michalis Traitsis ha invitato, con ingresso per gli autorizzati, ospiti della Mostra come Kechiche, Akin, Salvatores, Amelio, Kusturica, Cronenberg, Virzì, Orlando e Garrone per un incontro con la popolazione detenuta, preceduto da film. Oggi a mezzogiorno, presso la Casa Circondariale Santa Maria Maggiore diretta da Enrico Farina, incontro tra i detenuti, il presidente della Biennale Pietrangelo Buttafuoco e il regista Pupi Avati. Domani alle 10, presso la Casa di Reclusione Femminile della Giudecca diretta da Mariagrazia Bregoli, incontro tra le detenute, la regista Francesca Comencini e l’attore Fabrizio Gifuni. Perché sostenere il referendum sulla cittadinanza di Franco Corleone L’Espresso, 6 settembre 2024 Le Olimpiadi hanno mostrato un’Italia a colori che dispiace ai razzisti, e hanno fatto esplodere il nodo della cittadinanza negata. Il caldo di agosto può spiegare il dibattito surreale che si è sviluppato tra finte proposte e prove di accordi trasversali fasulli. Dopo che la commedia di Tajani si è risolta in una farsa, è proprio il caso di rimettere in ordine le questioni per trovare una soluzione umana e senza discriminazioni. Soprattutto senza mettere in conflitto assurdo figlie e figli con le madri e i padri, minori contro adulti. Nessuno chiede di nascere e tantomeno in quale Paese. Per molti esseri umani non esistono problemi; quando la globalizzazione era di là da venire, si auspicava l’obiettivo di essere cittadini del mondo. Ora le guerre e la fame, le persecuzioni contro le donne, le aggressioni ai diritti umani e contro le minoranze etniche, hanno provocato migrazioni epocali dal Sud del mondo al Nord ricco che soffre di calo demografico. Lo ius scholae, rappresenta una perfetta truffa delle etichette, infatti già i bambini stranieri frequentano le scuole e sono tanti perché per fortuna l’obbligo scolastico vale per tutti; addirittura sono previste le quote per tutelare l’italianità. La scuola dell’obbligo è un diritto e un dovere (che fa capo ai genitori) e per questo lo Stato persegue l’abbandono scolastico e opera per impedire la dispersione scolastica. Evocare il cosiddetto ius soli, cioè il dare automaticamente la cittadinanza a chi nasce in Italia, evita di affrontare la sorte di oltre due milioni di persone extracomunitarie con regolare permesso di soggiorno che la legge 91 del 1992 ha penalizzato portando da cinque a dieci anni la permanenza per fare domanda di concessione della cittadinanza che si trasmette ai figli minori conviventi. Ovviamente la richiesta è volontaria, anche perché alcuni Stati prevedono la perdita della cittadinanza nel caso se ne acquisisca un’altra. Il 4 settembre è stato presentato in Cassazione il referendum che cambierà radicalmente la situazione, riportando il requisito a cinque anni, come nella maggior parte dei Paesi dell’Unione europea. Purtroppo il referendum non può cambiare la natura di acquisizione della cittadinanza, che rimane una concessione e non un diritto in presenza delle condizioni richieste. È un meccanismo di difesa che andrà affrontato e superato con un confronto di idee e di cultura. Le resistenze saranno forti perché la paura inconfessata è determinata da una platea di nuovi elettori liberi e motivati. Il comitato promotore è composto da +Europa, da tre soggetti di nuove generazioni di italiani, Conngi, Italiani senza cittadinanza, Idem Network, dalle associazioni Cnca, La Società della Ragione, A Buon Diritto, e da Emma Bonino, Pippo Civati, Gianfranco Schiavone, Paolo Bonetti, Grazia Zuffa, Mauro Palma, Stefano Anastasia, Ivan Novelli e Luigi Manconi, don Luigi Ciotti. Si tratta di una sfida contro il tempo, infatti bisogna raccogliere 500.000 adesioni entro il 30 settembre. Occorre un impegno della società civile e dei partiti dell’opposizione come segno di intelligenza politica e di generosità. Cosi la prossima primavera referendaria avrà il segno di uno scontro g: aperto sul rispetto della dignità e dei diritti umani e sociali, sulla difesa della democrazia e della Costituzione. In tempi torbidi una luce si può accendere. Ius Scholae? Nel 2025 ci sarebbero 200mila nuovi italiani di Diego Motta Avvenire, 6 settembre 2024 L’Ismu fa una prima stima della platea interessata alla cittadinanza per ragazzi stranieri nati e cresciuti nel nostro Paese. Il giurista Codini: nessun nesso tra questo tema e il governo dei flussi. La crescita degli studenti stranieri nelle scuole italiane conferma, semmai ce ne fosse bisogno, che l’immigrazione non è un fenomeno episodico, ma strutturale, mentre le prime stime sulla possibile (e per ora del tutto ipotetica) introduzione dello Ius Scholae nel nostro Paese danno la misura di un percorso graduale, tutt’altro che massiccio, all’insegna dell’integrazione: a fronte di quasi un milione di ragazzi nel limbo, infatti, sarebbero circa 200mila quelli che già nel 2025 diventerebbero “nuovi italiani”. Diversi percorsi possibili - Per quanto riguarda gli studenti che avrebbero diritto allo Ius Scholae, Fondazione Ismu ha fatto una prima stima della platea di ragazzi potenzialmente interessati dal provvedimento: si tratta di circa 200mila persone, ipotizzando l’avvio nel 2025. “Tale stima - sottolinea una nota della Fondazione - è da considerare come relativa a una platea aggiuntiva di potenziali acquirenti, dei quali molti potranno acquisire la cittadinanza italiana per altre vie già contemplate (soprattutto in seguito alla lungo residenza dei genitori) e molti altri, soprattutto di alcuni Paesi, presumibilmente sceglieranno di non richiederla”. Secondo Ennio Codini, professore di Diritto pubblico all’Università Cattolica e responsabile del settore legislazione della Fondazione Ismu, “dovremmo innanzitutto cominciare a liberarci dall’idea di collegare il governo dei flussi al tema della cittadinanza. Non c’è nessun nesso tra controllo degli arrivi e Ius Scholae”. Detto in modo più diretto, “non è che con l’introduzione dello Ius Scholae aumenteranno i barconi”. Il punto semmai è definire quando e come questi ragazzi migranti, nati e cresciuti in Italia, diventeranno nostri connazionali. Di circa un milione di adolescenti stranieri nel limbo, ogni anno un certo numero ottiene la cittadinanza per semplice trasmissione da parte dei genitori. Poi ci sono altri due aspetti da considerare: uno riguarda il nodo della doppia cittadinanza, l’altro il tema della scuola come veicolo di integrazione. Sul primo punto, spiega Codini, va riconosciuto che, nei percorsi di accesso alla cittadinanza, “ci sono eccezioni possibili. C’è un numero non trascurabile di stranieri non interessati a diventare italiani perché frenati dagli ordinamenti giuridici dei Paesi di provenienza, uno su tutti la Cina, che dicono “no” al principio della doppia cittadinanza, previsto invece in Italia. L’altra questione da affrontare sullo sfondo resta quella di agganciare l’acquisto della cittadinanza al momento formativo dell’adolescenza: in questo senso, lo Ius Scholae potrebbe essere un piccolo incentivo a restare nel mondo della scuola per chi invece è a rischio dispersione scolastica”. Il picco di presenze - I dati diffusi ieri dalla Fondazione Ismu in occasione dell’apertura dell’anno scolastico parlano di un aumento degli alunni con cittadinanza non italiana: si passa infatti dagli 872mila dell’anno scolastico. 2021/2022 ai 915mila dell’anno scolastico 2022/2023. Si tratta di un incremento vicino al 5%, il più sensibile negli ultimi anni, visto che nell’ultimo decennio l’incremento annuale era stato al massimo di poco superiore al 2%. La ragione? Va ricercata nella forte crescita della presenza ucraina nelle scuole italiane. “È in atto un processo di stabilizzazione della presenza degli immigrati in Italia” osserva Codini. “Il migrante non è più presenza occasionale come negli anni Novanta, quando spesso arrivava da solo nella nostra penisola, attraversando i confini. Oggi ci si radica in un territorio, si costituiscono legami familiari, si avvia il capitolo sempre più decisivo dei ricongiungimenti familiari. Il singolo crea la famiglia, le famiglie fanno una comunità e la nascita dei figli è un passo fondamentale. A completare il percorso, appunto, deve essere poi la scuola”. In generale, i processi di stabilizzazione portano a una domanda di cittadinanza, anche se non immediata. È un passaggio fisiologico, che avviene nel momento in cui una famiglia si sistema gradualmente nel Paese. “Di fatto le nostre leggi prevedono già un percorso ed è evidente, in questo momento, che la strada più virtuosa è rappresentata dall’ottenimento a 16 anni, con 10 anni di frequenza o adempimento dell’obbligo scolastico. Il problema resta disegnare il percorso migliore per garantire l’integrazione”. In media, ha cittadinanza straniera più di un alunno su nove (fino all’anno scolastico precedente erano uno su dieci), senza considerare coloro che sono già divenuti italiani - a questo proposito, ad esempio, nel 2022 le persone di età inferiore a 20 anni naturalizzate sono state 72mila - né chi è italiano con un background familiare di migrazione. I nati in Italia rappresentano ben più della metà degli iscritti con cittadinanza non italiana (65,4%). Il “fattore” Kiev in classe - Sono raddoppiati gli studenti ucraini sui banchi delle nostre classi, passati da 20mila a 43mila unità. Contemporaneamente, i ragazzi romeni, che erano primi in graduatoria, sono diminuiti da 152mila a 149mila. Più di metà dell’ultimo aumento annuale di studenti stranieri nel nostro Paese, dipende dagli arrivi legati alla guerra in Ucraina. Profughi che si sono mossi per ragioni umanitarie all’inizio del conflitto e che poi, una volta arrivati nel nostro Paese, hanno mandato i loro figli nelle nostre scuole. Il dato ucraino è particolarmente interessante perché, a fronte di un aumento annuale di 23mila alunni, durante il 2022 la crescita di stranieri residenti di età inferiore ai 20 anni è stata inferiore alle 8mila unità (all’incirca un terzo), e in età compresa fra i 5 e i 14 anni inferiore alle 5mila, a significare un maggior inserimento scolastico più che un effetto di maggiore iscrizione anagrafica. In entrambi i casi si tratta di valori inferiori rispetto al numero di minori in fuga dalla guerra entrati in Italia durante il 2022, che sono stati molti di più e cioè 49mila. Durante l’anno scolastico 2022/2023, infine, si è toccata la massima quota femminile all’interno della componente di alunni con cittadinanza non italiana, quantomeno con riferimento all’ultimo decennio, con un ultimo valore del 48,4% contro i livelli negli anni precedenti sempre inferiori al 48,2%. Nelle scuole secondarie di secondo grado, in particolare, la componente femminile tra i non italiani rappresenta in media la maggioranza assoluta. L’Italia è uno dei Paesi occidentali in cui è più difficile ottenere la cittadinanza di Carlo Cottarelli L’Espresso, 6 settembre 2024 Tra i 27 dell’Unione europea siamo al quattordicesimo posto in termini di facilità del riconoscimento: ma se si tolgono le nazioni dell’Est, siamo agli ultimi posti. E abbiamo perso posizioni con l’introduzione di regole sempre più ferree. Nel 212 d.C. l’imperatore Caracalla concesse la cittadinanza romana a tutte le comunità dell’Impero, non tanto per facilitarne l’integrazione, ma per motivi fiscali: certe tasse erano dovute solo da chi aveva il privilegio di poter dire: “Civis Romanus sum”. Oggigiorno, con la tassazione basata sul principio della residenza, le discussioni sui principi che debbono regolare la concessione della cittadinanza riguardano invece la questione dell’integrazione. Lo ha ribadito Antonio Tajani in un’intervista pubblicata sul Messaggero il giorno di Ferragosto. Tajani ha ribadito la posizione di Forza Italia: “La forza del nostro Paese e le sue potenzialità economiche derivano anche dalla capacità di saper integrare persone che arrivano da fuori… La nostra posizione è sempre stata a favore dello jus scholae…”, precisando però che la questione non era comunque all’ordine del giorno nel governo. Forse dovrebbe esserlo, visto che le norme sulla concessione della cittadinanza in Italia sono piuttosto strette rispetto a quelle di altri Paesi europei, almeno secondo il Migrant Integration Policy Index pubblicato dal Migration Policy Group con sede a Bruxelles e utilizzato anche dalla Commissione europea. L’indice non è aggiornatissimo, riportando dati fino al 2019, ma probabilmente la normativa non è molto cambiata da allora. L’indice (per informazioni più dettagliate si veda la nota di Francesco Scinetti dal titolo “Come viene rilasciata la cittadinanza in Italia e nell’Unione europea” sul sito dell’Osservatorio sui Conti pubblici italiani) ci dice che tra i 27 Paesi dell’Unione siamo al quattordicesimo posto (a pari merito con la Grecia) in termini di facilità della concessione della cittadinanza in base a fattori quali il numero di anni di residenza richiesti, i vincoli alla cittadinanza per i figli degli stranieri, la certificazione linguistica richiesta. Escludendo i Paesi dell’Est Europa, Italia e Grecia si collocano però al terzultimo e quartultimo posto: più restrittivi di noi ci sarebbero solo Spagna e Austria. Da notare che negli ultimi anni siamo arretrati a causa dei decreti sicurezza del governo Conte I che hanno introdotto requisiti più stringenti per la cittadinanza, come l’obbligatorietà della certificazione attestante la conoscenza della lingua italiana, l’aumento del contributo richiesto per richiedere la cittadinanza e l’aumento del termine massimo per la conclusione dei procedimenti di riconoscimento della cittadinanza per matrimonio e per naturalizzazione (niente di sconvolgente, ma abbastanza per perdere due posizioni in classifica). Una precisazione. Il citato indice non si riferisce solo alla facilità con cui i minori raggiungono la cittadinanza, la questione più collegata alla proposta dello jus scholae, ma anche in quest’area le nostre pratiche non sembrano particolarmente avanzate. In Italia si arriva alla cittadinanza soltanto alla maggiore età. In Belgio, Germania, Irlanda e Portogallo la cittadinanza si acquisisce alla nascita se i genitori, seppur stranieri, abbiano risieduto nel Paese per un certo periodo di tempo; in Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Spagna è prevista la cittadinanza alla nascita se almeno uno dei genitori è nato nel Paese in questione; in Grecia si richiede, oltre alla nascita di almeno uno dei due genitori nel Paese in questione, la residenza permanente. Cannabis light sotto attacco: a rischio migliaia di lavoratori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 settembre 2024 Nel cuore dell’estate, la maggioranza, su iniziativa della Lega, ha sferrato un doppio attacco al settore della cannabis light, mettendo a rischio circa quindicimila posti di lavoro e un’intera filiera industriale. Due provvedimenti, un decreto e un emendamento, rischiano di cambiare radicalmente il volto del settore della cannabis in Italia, sollevando interrogativi sulla motivazione ideologica dietro queste mosse politiche. Il primo colpo è arrivato il 5 agosto, con l’entrata in vigore di un decreto che inserisce le preparazioni orali di CBD tra i farmaci stupefacenti. Questa mossa ha immediatamente scatenato la reazione delle associazioni di categoria. Canapa Sativa Italia (Csi) e Imprenditori Canapa Italia (Ici) hanno prontamente presentato ricorso al Tar, portando in tribunale non solo le loro ragioni, ma anche solide evidenze scientifiche. Mattia Cusani di Csi ha dichiarato a Dolce Vita: “Il CBD è sicuro, e solo negli ultimi anni sono almeno una ventina gli studi che ribadiscono che questo cannabinoide non è stupefacente e non ha rischio d’abuso”. A supporto di questa tesi, Csi ha presentato una perizia redatta da Marco Falasca, farmacologo con oltre 20 anni di esperienza nello studio dei cannabinoidi. Falasca, dopo aver analizzato i pareri allegati al decreto governativo, “non ha riscontrato alcuna evidenza scientifica che dimostri che il CBD sia stupefacente o che porti rischio di abuso”. Anche Ici si è mosso su un fronte simile, commissionando una perizia al professor Costantino Ciallella dell’Università La Sapienza, che “smonta punto per punto i pareri dell’Istituto Superiore di Sanità e del Consiglio Superiore di Sanità”, come affermato da Raffaele Desiante di Ici. Ma il decreto non è l’unico fronte di battaglia. Un emendamento inserito nel disegno di legge sulla sicurezza, nato con l’intento di bloccare la produzione di cannabis light, rischia di affossare completamente il settore della canapa industriale. Questo provvedimento, approvato di notte in agosto, vorrebbe inserire il fiore della pianta di canapa tra gli stupefacenti, con conseguenze potenzialmente devastanti per l’intera filiera. Le associazioni di settore non sono rimaste a guardare. Csi ha presentato una denuncia alla Commissione Europea, sostenendo che il provvedimento violerebbe le norme comunitarie relative alla circolazione delle merci e alla libera concorrenza. La Commissione ha confermato di aver preso in carico la richiesta e di star svolgendo gli accertamenti necessari. Ma perché questa crociata contro la cannabis light? Le associazioni di settore sostengono che questi provvedimenti non solo mettono a rischio migliaia di posti di lavoro, ma anche un settore che ha dimostrato di essere sostenibile e capace di generare sviluppo economico in molte aree del paese. La canapa, infatti, è una coltura sostenibile che contribuisce alla bonifica dei terreni, riduce l’uso di pesticidi e può sostituire materiali inquinanti in numerose applicazioni industriali. È un elemento chiave per l’economia circolare, poiché ogni parte della pianta può essere utilizzata, riducendo al minimo gli sprechi e valorizzando le risorse naturali. Inoltre, il settore offre opportunità di lavoro e crescita economica in numerose regioni italiane, specialmente in aree rurali che soffrono di spopolamento e disoccupazione. Senza contare che le infiorescenze di canapa industriale sono utilizzate per la produzione di prodotti che aiutano migliaia di persone a migliorare la propria qualità della vita. Le associazioni di settore, tra cui Imprenditori Canapa Italia, Sardinia Cannabis, Resilienza Italia Onlus, Canapa Sativa Italia, Federcanapa e Canapa delle Marche, hanno lanciato una petizione chiedendo al governo di ritirare immediatamente l’emendamento che vieta le lavorazioni sulle infiorescenze di canapa industriale e di avviare un dialogo costruttivo per sviluppare una regolamentazione equilibrata e sostenibile per la filiera. La battaglia legale e politica è appena iniziata, e il 10 settembre si discuterà in camera di consiglio al Tar per l’eventuale sospensiva del decreto CBD. Nel frattempo, migliaia di lavoratori e imprenditori del settore rimangono in un limbo, in attesa di capire quale sarà il futuro di un’industria che, fino a ieri, sembrava promettente e in crescita. Questa crociata contro la cannabis light solleva interrogativi importanti: si tratta davvero di una questione di sicurezza pubblica? E soprattutto, vale la pena mettere a rischio un intero settore economico, con tutte le sue implicazioni ambientali e sociali, per una battaglia ideologica? Mentre il dibattito infuria, una cosa è certa: il futuro della cannabis light in Italia è più incerto che mai, e con esso, il destino di migliaia di lavoratori e di un’intera filiera industriale.