Agosto caldissimo in carcere: tra suicidi e sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 settembre 2024 Le carceri italiane sono state attraversate da un’ondata di proteste e disordini durante tutto il mese di agosto, segnando uno dei periodi più critici dopo le grandi e gravi rivolte avvenute durante la pandemia. La situazione, ormai insostenibile, ha fatto riemergere con prepotenza problemi cronici come il sovraffollamento, le condizioni delle strutture fatiscenti e il drammatico aumento dei suicidi tra i detenuti tanto da raggiungere il record assoluto di 68 persone che si sono tolte la vita dall’inizio dell’anno. L’ultimo lunedì scorso a Benevento. A questo si aggiungono le difficoltà nella gestione dei detenuti con problemi di salute mentale, che hanno contribuito a rendere il clima ancora più teso e pericoloso. Le dure proteste dal carcere per adulti a quelle per minori - Le tensioni sono esplose già a partire dal primo agosto, quando disordini si sono verificati contemporaneamente in più carceri del Paese. Ad Alessandria, nella Casa di Reclusione, e a Torino, sia nell’Istituto Penale per Minorenni che nella Casa Circondariale per adulti, si sono registrati episodi di violenza che hanno richiesto l’intervento massiccio della Polizia penitenziaria. A Torino, in particolare, oltre 150 detenuti hanno tentato di forzare i cancelli della struttura, innescando una situazione che il Segretario generale della Uil-Pa Polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio, ha definito “esplosiva”. L’incapacità di contenere queste tensioni con le misure adottate dal governo ha portato a prevedere un “agosto infuocato”, un triste presagio che si è poi puntualmente realizzato. Il 10 agosto, nuovi disordini hanno scosso la Casa Circondariale di Catanzaro. Alcuni detenuti hanno cercato di impossessarsi delle chiavi per attuare una spedizione punitiva contro un altro recluso. L’intervento tempestivo della Polizia penitenziaria ha impedito il peggio, ma otto agenti sono rimasti feriti durante gli scontri. Questo episodio ha messo in luce ancora una volta le gravi carenze del sistema carcerario: oltre al sovraffollamento, la carenza di personale (con più di 18.000 unità mancanti) e l’insufficiente assistenza sanitaria e psichiatrica sono problemi che continuano a peggiorare la situazione. Il 28 agosto, un episodio particolarmente scioccante ha scosso la Casa circondariale di Poggioreale a Napoli, dove un detenuto affetto da gravi disturbi psichici ha aggredito un altro recluso con problemi mentali, staccandogli e mangiando parte di un dito. L’episodio, denunciato dal garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, ha evidenziato l’assoluta inadeguatezza delle strutture nel gestire detenuti con disturbi mentali. Poggioreale ospita oltre 200 detenuti con problemi psichiatrici, e la mancanza di una struttura adeguata per il trattamento di queste patologie rischia di portare a ulteriori tragedie. A fine agosto, il 30, ulteriori disordini hanno coinvolto il carcere romano di Regina Coeli, dove un centinaio di detenuti ha vandalizzato i locali, incendiando anche i fornelli da campeggio in dotazione. Nonostante qualche giorno di relativa calma, la tensione è rimasta altissima, segno evidente che le misure adottate dal governo non hanno avuto alcun effetto concreto. I numeri sono drammatici: 68 suicidi tra i detenuti dall’inizio dell’anno, 7 tra gli agenti della Polizia penitenziaria, e oltre 14.500 detenuti in esubero rispetto alla capienza regolamentare delle strutture. Non mancano, però, notizie allarmistiche, come quella di martedì scorso diffusa da taluni sindacati di polizia che hanno come unico risultato quello di inasprire gli animi di chi vive una situazione difficile. Il Dap ha categoricamente smentito che al carcere di Biella nessun agente penitenziario è stato sequestrato dai detenuti. Gli IPM erano un modello, ora rischiano di fallire - L’ultimo giorno di agosto ha segnato l’ennesimo capitolo di questo mese nero. All’Istituto Penale per Minorenni “Cesare Beccaria” di Milano, gravissimi disordini sono scoppiati durante la notte. Tutti i 58 giovani presenti hanno preso parte alla rivolta, con diversi tentativi di evasione (non riusciti) e ingenti danni alla struttura. Quest’ultima rivolta potrebbe essere letta, attraverso occhi miopi, solamente come un problema di sicurezza, e c’è il rischio di una risposta non adeguata da parte delle istituzioni. Da tempo, l’associazione Antigone denuncia le tensioni crescenti e i malfunzionamenti che affliggono le carceri minorili in Italia, come già evidenziato nel rapporto ‘ Prospettive minori’ presentato lo scorso febbraio. Il quadro tracciato è allarmante: la gestione dei ragazzi detenuti è sempre più incentrata su un approccio disciplinare e sull’uso smodato di psicofarmaci, specialmente per i minori stranieri non accompagnati. Questi giovani, spesso vulnerabili, vengono trasferiti da un Istituto Penale per Minorenni all’altro come fossero pacchi, a seconda delle esigenze amministrative, una pratica che non fa che aumentare le tensioni già presenti. Antigone aveva già denunciato il clima teso all’interno di questi istituti, aggravato dal sovraffollamento, dalle ristrutturazioni che si prolungano da anni limitando gli spazi per le attività, e dalla cronica carenza di personale educativo. A ciò si aggiunge l’instabilità nella direzione, con direttori che vengono cambiati ripetutamente in pochi anni, contribuendo a una gestione frammentata e inefficace. La risposta istituzionale a questa situazione critica dovrebbe essere un ritorno al modello educativo e socializzante che ha caratterizzato il sistema delle carceri minorili negli ultimi trent’anni. Questo modello, tuttavia, è ora sotto attacco a causa di recenti provvedimenti governativi, che rischiano di compromettere ulteriormente l’efficacia del sistema di recupero e reintegrazione dei minori detenuti. Antigone ha sottolineato l’urgenza di un ripensamento delle politiche attuali, per garantire che le carceri minorili tornino a essere luoghi di rieducazione e non semplici contenitori di disagio e repressione. Sovraffollamento illegale: 61.758 detenuti - Nel frattempo, il Dap ha aggiornato i dati sui detenuti al 31 agosto. Sono 61.758 i ristretti presenti su una capienza regolamentare di 50.911 posti, dalla quale vanno sottratte almeno 3000 celle inagibili. Come sottolinea il garante della regione Lazio, Stefano Anastasìa, non ce n’erano così tanti dal gennaio 2014, all’indomani della condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo. “Con gli stessi numeri nel luglio del 2006 fu approvato l’ultimo provvedimento di indulto, che scarcerò più di 20mila detenuti con ottimi risultati in termini di recidiva (dimezzata rispetto a quella ordinaria)”, chiosa il garante laziale. A ciò si aggiunge la drammatica questione dei bambini (attualmente 21) in carcere e negli Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (Icam), strutture sempre detentive. Una questione che potrebbe essere risolta velocemente, così come prevedeva la proposta di legge, affossata, dell’ex parlamentare del Pd Paolo Siani e riproposta dalla deputata dem Debora Serracchiani. Basterebbe l’esclusivo utilizzo delle case famiglia protette, affidate ai servizi sociali e agli enti locali: ce ne sono soltanto due, una a Roma e l’altra a Milano. Ma tutto rischia di peggiorare con il “ddl sicurezza”, ossia il Disegno di legge n. 1660/ C recante ‘ Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario’. Fermo da tempo alla Camera, ha raccolto soprattutto negli ultimi mesi nuovi emendamenti, tra cui quello della Lega volto a modificare la normativa attuale che prevede l’obbligo del rinvio della pena, anche per le madri che hanno un figlio di età inferiore a un anno. Dalle carceri normali a quelle per minorenni, la situazione è esplosiva. E la tensione rischia di non esaurirsi qui. Rendere dignitosa la detenzione è una necessità di civiltà di Franco Mirabelli* huffingtonpost.it, 5 settembre 2024 Investire sui servizi per dare assistenza a chi subisce un reato e velocizzare i processi per rispetto delle vittime, sono cose necessarie su cui non c’è traccia di interventi da parte del governo. Ma è grave anche l’inerzia e l’indifferenza di fronte alle condizioni delle carceri in Italia. Occuparsi delle carceri e delle condizioni della detenzione non porta voti e parlare di ciò che succede negli istituti di pena non interessa a chi è fuori. Ma la politica non può non occuparsene; il governo non può restare inerme di fronte ai problemi e l’opinione pubblica indifferente perché, da come vengono trattati i reclusi, si misura il grado di civiltà di un Paese. Soprattutto, non è accettabile l’inerzia e l’indifferenza di fronte alle condizioni delle carceri in Italia: ci sono più di diecimila detenuti in eccesso rispetto alla capienza massima degli istituti, carceri come San Vittore in cui vivono il doppio dei detenuti rispetto ai posti esistenti; il numero dei suicidi, anche tra gli agenti di custodia, è inaccettabile; la sovrappopolazione e il degrado rendono più difficili le attività di lavoro formazione e studio e fanno sì che si moltiplichino gli episodi di violenza. Infine, la condizione di molti istituti per i minori è fuori controllo, avendo il governo - con il Decreto Caivano - provocato un aumento del 30% dei reclusi. Di fronte a questa realtà drammatica che, al di là dei numeri, racconta la sofferenza di tante e tanti detenuti e operatori dentro le carceri, il governo ha scelto di non fare nulla perché, di fronte all’emergenza di ora, ha scelto di promettere nuove assunzioni di personale e la costruzione di nuove carceri nei prossimi anni. In sostanza, ha scelto di non intervenire per ridurre la popolazione carceraria e migliorare la vita di tante persone recluse. Nel recente passato, i governi precedenti hanno, in particolare durante il Covid, adottato provvedimenti che hanno funzionato bene per evitare la sovrappopolazione senza ridurre la sicurezza. Liberazione anticipata per chi aveva 6 mesi da scontare, domiciliari con controllo elettronico per chi aveva ancora 18 mesi di pena, sono provvedimenti che anche oggi aiuterebbero a far fronte all’emergenza. Non solo, con la ministra Cartabia, erano state introdotte norme che andavano nella direzione giusta, quella indicata dalla Costituzione, che considera la pena come uno strumento di riabilitazione e il carcere come extrema ratio in un sistema che investe sulle pene alternative, la messa alla prova, i domiciliari per i reati meno gravi. Per stessa ammissione dei suoi esponenti, questo governo ha scelto di considerare il carcere come esclusivamente una punizione, una rivalsa della società contro chi delinque e, quindi, le sofferenze e il degrado “se lo sono meritato”, dimenticando il dettato costituzionale e la necessità di trattare con umanità e rispetto i detenuti anche per evitare che il carcere generi violenza e recidività a scapito della stessa sicurezza di tutti. L’argomento, spesso usato, che chi rivendica diritti per i detenuti dovrebbe, invece, occuparsi delle vittime dei reati è sbagliato. Una cosa non esclude l’altra. Investire sui servizi per dare assistenza a chi subisce un reato e sulla giustizia riparativa e velocizzare i processi per rispetto delle vittime, sono cose necessarie che si fanno troppo poco e su cui non c’è traccia di interventi da parte del governo. Ma, allo stesso tempo, rendere dignitosa la detenzione intervenendo subito per uscire dall’emergenza di oggi è una necessità di civiltà che è grave e colpevole non vedere. *Senatore del Partito Democratico La “questione carceri” deve tornare al primo posto nell’agenda della politica di Mariastella Gelmini* Avvenire, 5 settembre 2024 Esistono valide ragioni per ritenere che la disastrosa situazione delle carceri italiane continuerà a essere di stretta attualità ancora per molto. Purtroppo. Ciò dipende in primo luogo da alcuni dati oggettivi, a cominciare dal sovraffollamento (parliamo di 10mila persone in più) e dalla drammatica crescita di suicidi e atti di autolesionismo. In Gran Bretagna è stato sufficiente che il tasso di occupazione delle carceri superasse il 90 per cento (in Italia, come è noto, siamo al 130%) perché governi sia di destra che di sinistra sentissero il dovere di intervenire con misure di immediato impatto. Il decreto varato dal ministro Nordio lo scorso luglio, convertito in legge senza un reale confronto parlamentare, contiene sicuramente misure positive, come l’aumento del numero di agenti di polizia penitenziaria, l’incremento delle telefonate consentite ai detenuti e alcuni snellimenti burocratici, tuttavia si rivelerà presto insufficiente ad attenuare la pressione del sovraffollamento e le connesse tensioni. È evidente che - a meno di non voler incorrere nuovamente in una sanzione della Cedu come nel caso Torregiani - l’Italia dovrà immaginare ulteriori interventi, così come ammesso implicitamente anche dallo stesso ministro della Giustizia. L’auspicio è che almeno sui prossimi provvedimenti si possa discuterne senza schieramenti preconcetti e con la necessaria umanità: laddove quest’ultima qualità difettasse, si potrebbe ricorrere al realismo e al senso pratico. Anche perché su questi temi nessuno ha le carte in regola per dare lezioni. Dunque, stop alle polemiche e concentriamoci sulle soluzioni. Anche chi propugna la certezza della pena e disconosce il significato dell’espressione “pene alternative”: potrebbe riflettere su alcune questioni. Il carcere non è solo il luogo in cui i rei scontano il proprio debito conia società, perché circa un terzo dei detenuti è ancora in attesa di giudizio. Sarebbe una ragione in più per assicurare a tutte le persone prese in custodia dallo Stato condizioni civili di detenzione. La seconda: il perdurante sovraffollamento, accoppiato alle carenze di organico dei magistrati di sorveglianza e alle lungaggini burocratiche, rallenta i nuovi ingressi nelle carceri. Quante sono le persone in attesa di espiare la pena sulla base di una sentenza passata in giudicato? Uscire da una logica emergenziale consentirebbe inoltre di affrontare altri problemi che dovrebbero essere al centro dell’attenzione del decisore politico, come ad esempio il reinserimento lavorativo degli ex detenuti. Perché dal carcere prima o poi si esce ed è interesse primario della società evitare che le galere siano un incubatore di rabbia e delinquenza e impedire ricadute nel crimine. Ciò, oltre a corrispondere al dettato costituzionale, sarebbe pragmaticamente una misura “securitaria”: abbattere la recidiva significa infatti meno reati e meno vittime. E non c’è niente più del lavoro che abbia fin qui dimostrato la concreta capacità di incidere sui tassi di recidiva. Non è un caso se in Inghilterra a ricoprire il ruolo di Ministro per le carceri è stato chiamato un imprenditore illuminato che impiega nella sua catena di negozi (calzolerie, tintorie, ecc..) circa seicento detenuti del Regno. L’Italia, da questo punto di vista, non è all’anno zero, ma tutte le problematiche fin qui enunciate impediscono il pieno sviluppo delle potenzialità che pure esistono. Non è questo un impegno che può essere lasciato solo all’esecutivo: il lavoro non si crea per decreto, figuriamoci il lavoro per i detenuti. È necessario che la società civile, le imprese, le associazioni facciano la loro parte e in molte realtà ciò sta già accadendo. Bisogna fare squadra e mettere tutti i soggetti coinvolti attorno a un tavolo è esattamente quello che sto provando a fare, ormai da mesi, con Eleonora Di Benedetto e la Fondazione Severino, con Caterina Micolano ed Ethicarei. Stiamo portando avanti un ciclo di incontri proprio con questo obiettivo e in calendario ci sono già i prossimi appuntamenti di settembre e novembre. Il luogo che ci ospita è il Senato, perché siamo convinti che la questione carceri debba tornare al centro dell’agenda politica e che il Parlamento debba essere protagonista di questa battaglia di civiltà. Serve l’impegno di tutte le forze politiche, maggioranza e opposizioni, per andare oltre le ideologie e le contrapposizioni. Occorre più coraggio per fare davvero quel che serve. *Senatrice e portavoce di Azione Troppi detenuti? Colpa dei migranti. Nordio sconfessa i dati e Meloni di Giulia Merlo Il Domani, 5 settembre 2024 Il guardasigilli ha sostenuto che il sovraffollamento è colpa di una “immigrazione massiccia”. Ma la percentuale di detenuti stranieri è calata e il governo ha rivendicato di aver ridotto i flussi. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha individuato il nuovo capro espiatorio per spiegare il sovraffollamento nelle carceri: i migranti. Anche a costo non solo di confutare i dati ministeriali, ma di smentire anche i successi vantati dal suo stesso governo. “C’è stata una immigrazione massiccia che ha portato a una popolazione carceraria di detenuti stranieri che supera da noi il 30 per cento, in alcune realtà addirittura il 50 per cento, per reati contro il patrimonio, connessi essenzialmente alla necessità di procurarsi da vivere. È là che va trovata una soluzione, non certo con una liberazione incondizionata che allarmerebbe la società”, ha argomentato il ministro in una lunga intervista a Sky Tg24. Eppure, dati ministeriali alla mano, negli ultimi anni l’incidenza percentuale di stranieri in carcere è diminuita. Effettivamente nel 2024 gli stranieri detenuti sono il 31 per cento, ma la percentuale negli ultimi 15 anni è tendenzialmente diminuita. Nel 2007, 2008 e 2009 gli stranieri erano circa il 37 per cento del totale e la cifra ha iniziato a scendere progressivamente: il 36 per cento nel 2010 e 2011, il 35 per cento nel 2012 e poi via via a calare di decimali fino all’ultimo numero disponibile. In data 30 giugno 2024, su un totale di 61.480 detenuti, gli stranieri sono 19.213, pari a poco meno di un terzo. Smentisce il governo - Del resto, è stata proprio Giorgia Meloni, nel suo lungo intervento in apertura del primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva, a indicare il contrasto all’immigrazione come uno dei risultati più importanti ottenuti dal suo governo. “Possiamo dirci particolarmente soddisfatti del lavoro che stiamo facendo sul governo dei flussi migratori, e segnatamente per contrastare l’immigrazione clandestina e i trafficanti di esseri umani. Il cambio di passo c’è, e si vede. Lo vediamo dai numeri, ovvero dalla tendenza decrescente degli sbarchi, che si sta progressivamente consolidando. A oggi, rispetto allo stesso periodo del 2023, gli sbarchi sono diminuiti del 64 per cento, e quasi del 30 per cento rispetto al 2022”, sono state le sue parole. Delle due l’una: o il governo sta ottenendo straordinari risultati nel limitare gli ingressi dei migranti, oppure la loro crescita incontrollata sta ingolfando il nostro sistema penitenziario. Il ministro Nordio ha anche fatto riferimento alla tipologia di reati commessi dagli stranieri. Come se i reati contro il patrimonio - furti, ricettazioni, truffe - fossero tipici in particolare dei migranti. Anche in questo caso i numeri vengono in aiuto e dimostrano che, in realtà, questi reati sono diffusi tra gli stranieri come tra i cittadini italiani. Le due categorie di detenuti hanno la stessa “top 3” di cause per detenzione: al primo posto i reati contro il patrimonio, al secondo quelli contro la persona, al terzo quelli legati alla legge sulla droga. I reati contro il patrimonio sono la prima causa di detenzione nelle carceri italiane, con 34.931 detenuti totali, di cui 9.923 sono stranieri. Pari al 28 per cento, dunque più o meno la stessa incidenza che hanno nel totale della popolazione detentiva. Le soluzioni - Il tema, però, rimane il da farsi, visto che il sovraffollamento carcerario è unanimemente riconosciuto come la vera emergenza, alla luce del numero record di suicidi che hanno toccato quota 68 da inizio anno. A fine luglio il governo aveva approvato il decreto Carceri, che doveva servire ad alleviare in via emergenziale la pressione sulle strutture detentive, ma che nei fatti non ha portato alcun tangibile risultato. Già subito dopo il via libera al decreto, Nordio aveva annunciato un nuovo pacchetto di misure, chiedendo addirittura un incontro con il Quirinale per discuterne. “Stiamo lavorando su un triplice binario: far espiare la pena agli stranieri nei paesi di origine, sostituire la detenzione in carcere per i tossicodipendenti con quella in comunità, e limitare la custodia cautelare”, ha spiegato a Sky. Poi ha aggiunto che “ci servono spazi, come le caserme dismesse, ora abbiamo istituito un commissario straordinario, ma il problema spesso è che molti detenuti, che potrebbero andare ai domiciliari, non hanno un domicilio dove andare”. Eppure anche queste soluzioni sono ancora in fase embrionale. A oggi il trasferimento dei detenuti nei paesi di origine è molto complicato perché servono convenzioni bilaterali con i paesi di origine, senza contare la questione del rispetto dei diritti umani nello stato di destinazione. Inoltre, se i paesi stranieri invocassero la clausola di reciprocità dovremmo riprendere i tremila italiani detenuti all’estero. Quanto alla detenzione in strutture fuori dal carcere per i tossicodipendenti, il decreto Carceri ha previsto solo una mappatura delle possibili comunità ma per ora nulla più. Limitare la custodia cautelare, infine, è un proposito di Nordio sostenuto da Forza Italia, ma che ha già incontrato più di una rigidità da parte di Fratelli d’Italia e Lega. Dunque, anche se un disegno di legge in questo senso fosse pronto, mancano ancora le basi politiche. In mezzo ai se, ai ma e ai distinguo, la situazione nelle carceri ha continuato ad aggravarsi nelle settimane di sospensione dell’attività politica, tra rivolte anche negli istituti minorili, nuovi suicidi e difficoltà sempre più evidenti per la polizia penitenziaria. La scimmia in cella, un detenuto su tre schiavo della droga di Francesca Fagnani La Stampa, 5 settembre 2024 Le celle scoppiano. Di detenuti, sempre troppi rispetto alla capienza prevista, di rabbia, che esplode nelle rivolte sparse in tutta Italia, di fragilità e di abbandono, che si misura nella drammatica conta annuale dei suicidi. Che un terzo della popolazione carceraria sia rappresentato da detenuti con problemi di dipendenza da droga e alcool è un fatto noto e di certo non solo italiano, in America per esempio con l’invasione del Fentanyl la situazione è perfino più critica che altrove. Rispetto a questa delicata questione, l’attuale decreto carceri prevede come soluzione il trasferimento dei detenuti tossicodipendenti in comunità di recupero, previa ovviamente l’approvazione delle autorità giudiziarie. Giusto, anzi sacrosanto. La tossicodipendenza infatti secondo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità è “una malattia cronica e recidivante” e come tale va trattata, con le terapie e nei luoghi opportuni, che non sono certo le carceri, dove troppo spesso si rischia di condurre una guerra, dall’esito scontato, non contro la droga, ma contro i tossicodipendenti. Favorire l’ammissione di questa fascia vulnerabile in strutture terapeutiche dunque sembrerebbe una scelta giusta, a tutela del diritto di tutti a curarsi, come dispone la nostra Costituzione. Aiuterebbe tra l’altro ad alleggerire la pressione sulle celle, sempre che invece di depenalizzare alcuni reati minori, non se ne continuino ad introdurre di nuovi. Quindi teoricamente, su questo tema specifico siamo sulla strada giusta? Insomma, sì e no. Le criticità da affrontare infatti, prima che la legge entri in vigore, sono diverse e di non facile soluzione. Proviamo ad individuarne alcune. Cominciamo con il dire che le comunità allo stato attuale non sono in grado di trasformare la legge in prassi per un semplice fatto: non ci sono posti sufficienti ad ospitare l’enorme flusso di persone provenienti dal carcere con problemi di dipendenza. Si pensi, solo per dare la misura, che Villa Maraini, che è una delle strutture più importanti in Italia e che ospita contemporaneamente il più alto numero di tossicodipendenti detenuti, ha 30 posti disponibili a fronte di 773 richieste provenienti da persone ristrette in carcere o dai loro familiari. Va detto, tra l’altro, che non tutte le comunità sono ben disposte (anzi!) ad accogliere i detenuti ammessi alle pene alternative (al massimo ce ne sono tre, quattro per struttura) e che non tutte rispondono ai parametri fissati per questo tipo di ospitalità, che prevede innanzitutto una sorveglianza diversa rispetto agli altri ospiti. Del resto, i centri terapeutici privati sono molto più numerosi di quelli pubblici, l’Italia infatti per anni non ha avuto alcuna politica sul tema del contrasto alle dipendenze, lasciando ampio margine di iniziativa ai privati e al terzo settore, i quali per fortuna e meritoriamente hanno riempito uno spazio lasciato vuoto dallo Stato, che però in alcuni casi non ha vigilato abbastanza così da scongiurare il rischio di alcune gravi distorsioni. Quali? A Roma e in provincia, così come in Campania (e non si esclude che lo stesso capiti altrove), è pratica comune a gran parte dei criminali di un certo calibro e con una notevole disponibilità economica farsi trovare al momento dell’arresto con una cartella clinica pronta, preparata per tempo da medici compiacenti (e ben oliati), in modo da garantirsi l’alternativa al carcere. Le diagnosi quasi sempre riguardano fantasiose patologie psichiatriche e inesistenti dipendenze da sostanze e alcol. Addirittura, con una certa lungimiranza pezzi da novanta del crimine romano risultano iscritti, senza averne alcun bisogno, al Sert, il servizio del sistema sanitario nazionale (sempre in affanno), che oltre a prestazioni diagnostiche e terapeutiche, ha la competenza per certificare lo stato di tossicodipendenza, da inserire nella cartella clinica, che sarà inviata in caso di arresto alle autorità giudiziarie, le quali poi dovranno decidere sull’eventuale incompatibilità con il regime carcerario del soggetto in esame. Va detto che solitamente i magistrati di sorveglianza, sempre sotto organico per l’immane mole di decisioni da prendere in breve tempo, difficilmente si prendono la responsabilità di contestare le certificazioni mediche, nonostante il parere delle Procure sia spesso contrario. Superato agevolmente il primo passaggio, dunque, il secondo sarà scegliere da parte di questi soggetti solitamente ben assistiti, proprio come fosse un albergo, la comunità di recupero dove trascorrere la misura alternativa al carcere. Il magistrato del resto può autorizzare l’ingresso in comunità anche quando a pagare non è il servizio sanitario pubblico, bensì il detenuto stesso e per i narcotrafficanti, si sa, trovare duemila euro mensili per la retta non è certo un problema, per quanto in un’intercettazione Ugo di Giovanni, grosso boss dei quartieri Magliana e Trullo, si lamenti dei costi di mantenimento che deve sostenere “per la famiglia, avvocati, perizie, comunità”. Corrompere costa. Il suo sodale gli risponde con sicurezza e disinvoltura che lo avrebbe raggiunto presto nella stessa comunità, potendo contare sul solito sistema: “Ci vediamo tra sei sette mesi lì in comunità da te, anzi stecchiamo pure la stanza”. “Noo pure in stanza”, gli risponde Di Giovanni ridendo. Andrea Pacileo - medico di uno degli ospedali pubblici più importanti di Roma, il San Giovanni Addolorata- oggi è sotto processo per aver presentato alle autorità giudiziarie certificati falsi a favore di Elvis Demce, figura apicale e violentissima del gruppo degli albanesi a Roma; Demce si vantava al telefono del quadro clinico di tutto rispetto che Pacileo gli aveva apparecchiato, ben prima del suo arresto: “Bipolare, schizofrenico, paranoico, sociopatico, auto ed etero-lesionista… Me sto a butta’ pure a tossico. Solo questa me ce mancava, mo c’ho tutto. Alcolista e tossico”. Andrea Pacileo effettivamente era a disposizione di molti: anni fa aveva seguito il trasferimento in comunità di Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, il narcos ucciso nel Parco degli Acquedotti il 7 agosto del 2019. In comunità c’era finito pure Dorian Petoku, altro spietato capo della consorteria albanese, pur essendo astemio e, a quanto si dice, lontanissimo da qualsiasi droga. Tra l’altro, nonostante il soggiorno nella comunità San Pio di Nola non fosse poi così spiacevole - circondato com’era da pregiudicati appartenenti al suo stesso gruppo e con quel viavai di amici con auto di lusso che passavano a rallegrarli, carichi di casse di pesce crudo e champagne - Petoku ad un certo punto era evaso, senza alcuna difficoltà, semplicemente sfilandosi il braccialetto elettronico, dopo essersi premurato due giorni prima della fuga di far uscire dalla comunità il suo cane, con il quale ovviamente aveva condiviso la permanenza lì. L’elenco dei pescecani della mala romana che pur non soffrendo di alcuna dipendenza sono stati spediti senza troppi problemi in strutture terapeutiche è davvero lungo, da Giupeppe Molisso a Leandro Bennato, dai Casamonica ai Moccia, da Arben Zogu a Giancarlo Tei. Quest’ultimo, per tutti Lallo, pezzo grosso di Tor Bella Monaca, diceva al telefono: “a Frate’, domani viene uno e ti fa un foglio che prima che andavi carcerato ti drogavi”. Ad usufruire di questo metodo sono quasi tutti gli appartenenti al cartello del narcotraffico facente capo a Michele Senese, non a caso detto ‘o Pazzo, per la sua capacità negli anni di eludere il carcere grazie a ingegnose perizie che ne attestavano l’infermità mentale, pur essendo sano e lucidissimo. Poi ovvio ci metteva anche del suo, come quando un giorno si è svegliato fingendo di parlare tedesco, pur non avendolo mai studiato. Per di più, va sottolineato come le comunità scelte dai criminali romani siano quasi sempre le stesse, tra cui per esempio spiccano per assiduità il Merro e Magliana80 (non sarà mica il caso di dare un’occhiata?), da cui i più importanti esponenti della mala hanno continuano indisturbati a comandare i loro uomini e a trafficare chili di narcotico, per ironia della sorte proprio da quei luoghi dove invece si dovrebbe combattere proprio la dipendenza dalla droga. Al netto della gravissima situazione di illegalità generata da questa prassi, la considerazione più triste da fare è che la presenza di falsi tossicodipendenti toglie spazio a quei ragazzi, detenuti o meno, che davvero ne avrebbero bisogno e che non hanno la possibilità né di entrare (vista la carenza dei posti disponibili) né tantomeno di scegliersi come altri la struttura che preferiscono, non potendo pagarsi la retta. Un sistema corrotto e iniquo che si tiene in piedi su una rete di professionisti collusi e sulla disponibilità dei titolari di alcune comunità totalmente addomesticati ai desiderata dei criminali, che si comportano anche lì da padroni (e se invece in qualche caso e in qualche modo lo fossero veramente?). La nota vicenda delle cooperative di Salvatore Buzzi (che si occupavano di dare lavoro agli ex detenuti), emersa nell’inchiesta Mondo di Mezzo, del resto, ci ha insegnato che quando il welfare viene delegato dalle Istituzioni, che se ne dovrebbe far carico, ai privati, ci si affida alla loro buona (quasi sempre) o cattiva volontà. Che un ex detenuto venga reinserito nel tessuto sociale come prevede la Costituzione piuttosto che tornare a delinquere è dovere e interesse di Salvatore Buzzi o dello Stato? Lo stesso vale per le comunità di recupero, che negli anni, va ribadito in tutti i modi possibili, hanno dato una seconda chance a chi da solo non ce l’avrebbe mai fatta. Esiste tuttavia una falla pericolosissima nel sistema che va sanata quanto prima, nel rispetto di chi da quelle dipendenze è davvero e drammaticamente affetto e di chi alla loro cura ha dedicato onestamente la propria vita. Negli ultimi anni la valanga di richieste di trasferimento in comunità da parte di chi ha compiuto reati di tipo associativo è quanto meno sospetta e tra l’altro non rientra nell’elenco dei reati tipicamente connessi alla tossicodipendenza (piccolo spaccio, furti e rapine). Non sarà opportuno per esempio valutare in alcuni casi (art. 74 e 416) con maggiore cautela l’ammissione a tale beneficio, così da riservarlo solo a chi ne ha bisogno, escludendo chi se ne approfitta e anzi lo utilizza per continuare a delinquere a spese dello Stato? La scarsa qualità del cibo in carcere fa scontare una seconda pena: “È una forma di tortura” di Carlotta Sanviti gamberorosso.it, 5 settembre 2024 Nelle carceri italiane, i detenuti devono arrangiarsi con ingegno per creare pasti decenti, mentre le ditte appaltatrici guadagnano cifre esorbitanti con il sopravvitto. L’attesa del pasto nelle carceri avviene generalmente in un silenzio interrotto solo dal rumore dei passi dei “portavitto” che si avvicinano, dal clangore metallico delle chiavi e dall’apertura delle porte di metallo; l’attesa diventa palpabile, quasi un’entità a sé stante che occupa la cella. Quando finalmente il carrello del cibo arriva, si crea una sorta di rituale meccanico. Il cibo è spesso insapore, la consistenza monotona, e raramente offre una vera soddisfazione, c’è quello che offre “la casanza” (nel gergo carcerario è il carcere stesso). E in Italia, anche causa del sovraffollamento delle carceri, gli oltre 67mila ristretti mangiano chiusi in cella. “Al 31 marzo 2024 erano 61.049 le persone detenute, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. In 56 istituti penitenziari, oltre un quarto di quelli presenti in Italia, il tasso di affollamento è superiore al 150% con punte di oltre il 200% negli istituti di Milano San Vittore maschile e Brescia “Canton Mombello”: a comunicarlo è Antigone, associazione che dal 1991 si occupa del sistema penitenziario e penale italiano. Il bagno, un locale multifunzionale - Sebbene sulla carta le cucine carcerarie abbiano dei menu settimanali che passano al vaglio di un medico, la realtà, salvo poche eccezioni, è che danno quello che possono, cucinato come possono. La monotonia accomuna la “casanza” di tutte le galere. “La cucina non c’è all’interno delle celle”, spiega la giornalista Isabella De Silvestro in un articolo pubblicato nel 2022 su Cibo, l’inserto del quotidiano Domani, “eppure la grande maggioranza dei detenuti italiani cucina e mangia in cella - colazione, pranzo e cena - per anni, decenni e talvolta per tutta la vita”. Anche il bagno in cella diventa un luogo multifunzionale, viene usato per necessità corporali, per lavarsi e anche per cucinare. In queste condizioni, i detenuti sviluppano una sorprendente capacità di adattamento e creatività. Un fornello da campeggio diventa il fulcro delle attività culinarie e la finestra con le sbarre spesso funge da frigorifero. Di coltelli, forchette, cucchiai e piatti non se ne parla, è tutto fatto in plastica, per sostituire i normali attrezzi da cucina: “Un manico di scopa diventa il mattarello per stirare la pasta, la grattugia si ricava da una scatoletta di tonno”, racconta un ex detenuto alla giornalista. Codici di sopravvivenza - La dieta dei detenuti è spesso integrata dai pacchi inviati dalle famiglie, seppur con severe restrizioni: “Formaggio solo tagliato a fettine sottilissime, carne solo senza ossa”, nota De Silvestro. Nel microcosmo delle celle, nascono codici di convivenza e abitudini: ognuno contribuisce come può, e il momento del pasto diventa un raro momento di normalità e calore. Anche lo status sociale delle persone ristrette, passa attraverso la cucina e il cibo, prosegue la giornalista: “alcuni ricevono grandi pacchi dalla famiglia, mentre per chi è meno abbiente o non ha una rete familiare, la situazione è molto più difficile”. Questa realtà, anche se lontana dal comfort della vita esterna, riesce comunque a mantenere una certa dignità: “Mangiare per vivere e non per sopravvivere continua a essere una manifestazione rilevante di dignità”, osserva la giornalista. Il sopravvitto - Il cibo fornito dall’amministrazione penitenziaria è spesso descritto come insufficiente e di pessima qualità. “Il vitto che passa il carcere è una forma di tortura”, afferma un detenuto secondo quanto riportato da Cibo. Minestrine annacquate, wurstel, uova, carne maleodorante e pane vecchio sono la norma. Tuttavia, solo chi può permettersi di acquistare cibo attraverso il sopravvitto può migliorare la propria dieta. “La cifra che le carceri italiane hanno a disposizione per l’alimentazione giornaliera di un detenuto non supera i 3 euro e 90, nei quali deve rientrare il costo di colazione, pranzo e cena, che, occorre ricordare, viene pagato in gran parte dai detenuti stessi, ai quali è chiesta una quota di mantenimento che ammonta a circa 85 euro al mese, detratti dallo stipendio per chi lavora, o da pagare a fine pena per chi invece non ha un impiego durante il periodo di detenzione”. Quello che non funziona, è la selezione degli appalti, spiega meglio Isabella De Silvestro: “Gli appalti sono assegnati a ribasso e il problema è che vince l’azienda che riesce a offrire il pasto al prezzo più basso. Con tre euro, anche con le migliori intenzioni, come puoi fornire un pasto decente?”. Questo sistema crea un circolo vizioso: le aziende che vincono l’appalto per il vitto gestiscono anche il sopravvitto, incentivandole a offrire pasti scadenti per spingere i detenuti ad acquistare prodotti dal sopravvitto a prezzi maggiorati. “Il carrello passa tre volte al giorno, tranne la domenica che passa solo due volte. La mattina offre caffè bollito in pentola e pane, a pranzo pasta incollata e scotta, e a cena carne di ultima scelta. Non sorprende che molti detenuti, non appena riescono a guadagnare qualcosa tramite lavoretti interni, come quello di “scopino” (l’addetto alle pulizie all’interno del carcere), spendano subito i soldi per un fornello da campeggio (essenziale per loro) e per il sopravvitto”. Lo spesino e il sovraprezzo - La vendita di cibo e beni di prima necessità all’interno delle carceri è complicata e spesso a prezzi gonfiati. “Compravo il bagnoschiuma a quasi tre euro, quando sono uscito l’ho trovato a novanta centesimi”, è la voce di un ex detenuto, presa da un articolo del 2021 di Domani. La differenza tra i prezzi all’esterno e quelli del carcere varia tra il 25% e il 100%, come ha rilevato in un’inchiesta sul carcere di Rebibbia. Negli ultimi anni, la giustizia amministrativa e contabile ha cercato di porre rimedio a queste storture e il Consiglio di Stato ha censurato la base d’asta di 3,19 euro per il vitto, giudicandola insufficiente per garantire una qualità minima dei pasti. La Corte dei Conti ha poi annullato diverse gare d’appalto, tra cui quella del Lazio, evidenziando il conflitto di interessi tra la gestione del vitto e del sopravvitto. Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma, ha poi presentato un esposto descrivendo il disastro gestionale del sistema: “Il primo di scarsa qualità, il secondo dal costo esagerato”. “La cucina in carcere raggiunge picchi di creatività interessanti”, osserva De Silvestro. Questo ingegno è spesso accompagnato da un forte valore simbolico, come quello del rituale del caffè. “Le carceri sono popolate da persone provenienti dal sud del mondo e dal sud dell’Italia, per cui il caffè assume una dimensione simbolica importante”. Offrire qualcosa da mangiare, magari preso dallo spesino, è uno dei pochi gesti di ospitalità che possono ancora fare. Ma spesso, la frustrazione di non poter essere padroni nemmeno del proprio cibo è palpabile. Gli agenti della Polizia penitenziaria al centro della disattenzione pubblica di Glauco Giostra Avvenire, 5 settembre 2024 Le professionalità penitenziarie patiscono un’ingiusta emarginazione culturale e sociale cui è necessario porre rimedio. Gravati da compiti difficili e importanti finiscono sotto i riflettori solo quando subiscono o usano violenza. Serve una maggior considerazione del loro operato in generale. Da quando i riflettori mediatici si sono finalmente soffermati, al prezzo di tante morti, sull’universo carcerario, capita non di rado di sentire parlare della polizia penitenziaria. Ma soltanto quando i suoi uomini subiscono o usano violenza. O in presenza dell’agghiacciante notizia del suicidio di uno di loro. Poi tornano, ingenerosamente al centro della disattenzione pubblica, a svolgere la loro difficile, delicatissima e mai gratificante, né gratificata funzione. È infatti diffusa la convinzione che ci siano forze dell’ordine di serie A che cercano, individuano e catturano le persone che delinquono e forze dell’ordine di serie B che hanno il ben più agevole compito di tenerle segregate. Dovremmo, invece, avere un più alto concetto delle funzioni della polizia penitenziaria, i cui uomini devono sapere - non meno degli appartenenti alle altre forze di sicurezza - fronteggiare pericoli insidiosi; devono essere garanti della sicurezza degli operatori e dei detenuti, usando nei confronti di questi metodi rispettosi, ma non imbelli; devono affrontare sacrifici quotidiani gravosi in un contesto doloroso e mortificante; devono saper capire le personalità e le potenzialità dei soggetti a loro affidati; dare e pretendere rispetto. In condizioni insostenibilmente degradate, contando su un numero del tutto insufficiente rispetto a quello dei detenuti, privi di qualunque riconoscimento sociale per il loro lavoro, devono incontrare la disperazione, il dolore, la ribellione (che non possono tollerare, pur comprendendone spesso le ragioni); cercare di prevenire l’orrore di un gesto autolesionistico o di un suicidio; segnalare agli organi competenti l’insorgere di un disturbo psichiatrico; accorgersi di silenziose e disgustose forme di sopraffazione tra detenuti; operare in condizioni igienico-sanitarie che non sarebbero tollerate in uno stabulario; cercare di farsi capire da soggetti che parlano lingue o idiomi incomprensibili, e che possono esprimere il loro sconforto soltanto con il pianto, con le urla, con l’insubordinazione o con la violenza, quando non con la rassegnazione disperata e autodistruttiva. Devono svolgere una così delicata funzione all’ombra di fatiscenti strutture, mai rischiarata dai riflettori e dalle gratificazioni dei media: non si tengono conferenze stampa per celebrare un anno di ordinata e costruttiva convivenza nel penitenziario o la riconsegna alla società di soggetti recuperati. Nei rarissimi casi in cui attualmente un penitenziario - per struttura edilizia, per contenuto numero di ristretti, per organizzazione, per adeguate presenze del personale psicopedagogico, per illuminata direzione - riesce ad assomigliare a ciò che dovrebbe costituzionalmente essere, gli agenti della polizia penitenziaria devono saper essere ad un tempo agenti di custodia e di recupero. Se le altre forze dell’ordine hanno l’arduo compito di assicurare delinquenti alla giustizia, loro hanno quello non meno impegnativo - garantita la sicurezza di questi soggetti e da questi soggetti - di collaborare, quali osservatori di prima prossimità, con gli operatori del trattamento per cercare di riconsegnarli migliori alla società. Non a caso si è insistito nei lavori degli Stati Generali dell’esecuzione penale sulla necessità di una loro formazione multidisciplinare per assolvere una così delicata e insostituibile funzione. Da dove deriva allora l’ingrata sottovalutazione sociale della stessa? Innanzitutto, anch’essa risente di quella sorta di “stigma penitenziario” che accompagna, declassandola, qualsiasi professionalità che incroci la realtà della pena e della sua esecuzione: il magistrato di sorveglianza rispetto alla magistratura ordinaria, l’avvocato che si occupa di “carcerario” rispetto a quello che esercita soltanto in tribunale o in corte di assise, il docente penitenziarista rispetto al processual-penalista, il volontario nelle carceri rispetto alle altre espressioni del volontariato. Niente di più infondato. È vero semmai il contrario: l’incontro con la persona in stato di innaturale segregazione, richiede maggiori capacità professionali. Purtroppo la collettività opera da sempre una sorta di rimozione sociale dell’espiazione carceraria, che istintivamente preferisce lasciare nella penombra dell’attenzione e della coscienza: non vuole né sapere, né vedere. A questa emarginazione culturale e sociale delle professionalità penitenziarie si è aggiunto negli ultimi tempi un messaggio politico che mortifica ancor di più l’immagine della polizia. Quando il ministro Salvini si è precipitato a manifestare stentoreamente solidarietà ad alcuni appartenenti alla polizia penitenziaria imputati di reati gravissimi (persino del reato di tortura) a danno dei detenuti, affermando che tra le guardie e i ladri lui sta sempre dalla parte delle prime, non solo ha commesso una grave sgrammaticatura istituzionale, dovendo un Ministro essere soltanto dalla parte della legge, così come applicata dalla magistratura. Ha offeso anche - involontariamente, ma inevitabilmente - la stragrande maggioranza della polizia penitenziaria che opera con correttezza, sacrificio e umanità in condizioni difficilissime, mostrando di considerarlo un corpo di polizia che deve soltanto garantire sicurezza nelle carceri con qualsiasi mezzo, anche gravemente illecito. Allo stesso modo, quando si propone di abolire il reato di tortura “per non frenare lo slancio operativo” della polizia penitenziaria o quando si teorizza che bisogna essere garantisti nel processo, ma giustizialisti nell’esecuzione della pena carceraria, si finisce per degradare nell’immaginario collettivo la delicata, gravosa e insostituibile funzione di questi servitori dello Stato a quella di secondini girachiavi. Ostellari: “Dare speranza ai reclusi vuol dire offrire un futuro, non sconti di pena” di Errico Novi Il Dubbio, 5 settembre 2024 “Chiedo responsabilità. Mi rivolgo a tutti. Chiedo di mettere da parte le strumentalizzazioni. Sul carcere non ce n’è proprio bisogno. Serve invece consapevolezza, anche da parte di chi conduce battaglie per migliorare la condizione dei detenuti. E chi è recluso deve sapere cosa ha davanti a sé, quali sono le reali possibilità di reinserimento e quando finirà la pena. Partiamo da due punti chiave: il lavoro come principale forma di recupero sociale e la possibilità di accedere più agevolmente alle misure alternative. Abbiamo scelto di impegnarci lungo queste due direttrici e credo otterremo risultati significativi, anche se in tempi non istantanei. E, proprio a proposito di tempi, non è giusto alimentare illusioni e agitare chi è dietro le sbarre”. Il sottosegretario Andrea Ostellari, da anni in primissima linea, per la Lega, sulla giustizia, è uno dei più diretti responsabili della politica penitenziaria. Perché al ministero guidato da Carlo Nordio ha la delega politica al Trattamento e alla Giustizia minorile, e perché è stato, sul piano politico, uno dei principali artefici, con il guardasigilli, del decreto da poco convertito in legge. Ostellari respinge l’accusa che non si sia fatto abbastanza: “Non è con il liberi tutti che risolvi il problema”. Ma un provvedimento che avesse lasciato vedere, a un ampio numero di reclusi, più vicina la fine della permanenza in cella avrebbe contribuito a diffondere speranza: il discorso, sulla necessità di effetti immediati, deriva essenzialmente da questa analisi... Ma io mi chiedo, anzi chiedo a tutti: davvero rimettere libere persone che non hanno completato un percorso rieducativo, e che, soprattutto, rischiano di tornare fuori dal carcere senza alcuna concreta opportunità di reinserimento lavorativo, significa dare speranza? O non dobbiamo piuttosto riflettere su quel 70 per cento di reclusi che entrano nei penitenziari dopo aver avuto già un’esperienza di detenzione? E cioè sul fatto che la libertà, senza reale rieducazione e reinserimento, dura poco? Che anzi è solo un inganno, e rischia dunque di ancorarsi a una visione solo ideologica, ma non oggettiva dell’esecuzione penale? Responsabilità, sottosegretario, vuol dire anche che in ogni caso per voi ora viene il difficile: dovete rendere efficaci molte delle norme contenute nel decreto, che altrimenti resterebbero sulla carta... Certo. È chiaro che il decreto è la cornice. È esattamente così. Penso innanzitutto all’elenco delle comunità: si doveva per forza partire da lì. I successivi passi devono consistere in un decreto ministeriale prima, e in una serie di misure operative poi, che consentano di individuare strutture garantite, sicure, in grado di offrire davvero un percorso di reinserimento e di recupero. Non si tratta dunque di trasferire fuori dal carcere i soli detenuti con tossicodipendenze... Assolutamente no. Non dico che il discorso non sia concepito anche per i detenuti con problemi di tossicodipendenza, ma l’articolo che prevede l’elenco delle comunità riguarda chi avrebbe già ora diritto alla misura alternativa della detenzione domiciliare e non può accedervi perché non ha una casa, né una famiglia. E ugualmente, il discorso vale anche per quei non pochi detenuti che potrebbero accedere all’affidamento in prova, ma che pure restano in carcere perché non hanno un domicilio. Guardi che sono migliaia di persone. Quante migliaia? Una volta che l’elenco delle comunità sarà completato e operativo, parliamo di 7000 reclusi, ai quali potrà essere concessa la misura alternativa, oggi impedita. Ecco, io credo che destinare una persona, condannata a scontare la pena dentro il carcere, a una struttura che le consenta di essere subito inserita nel circuito del lavoro sia tutt’altra cosa che liberarla e basta, lasciarla in mezzo a una strada col rischio che, dopo poco, in carcere ci ritorni. E vorrei aggiungere una cosa fin qui trascurata. Quale? Abbiamo previsto, per l’affidamento in prova, l’ulteriore possibilità di essere destinati a lavori di pubblica utilità. È chiaro che il percorso non potrà andare a regime in poche settimane, ma noi confidiamo che già nel giro di alcuni mesi gran parte dell’iter necessario sarà completato. Ma dovrete abbattere l’altra barriera che impedisce l’accesso alle misure alternative: il carico che sovrasta i giudici di sorveglianza... E noi abbiamo fatto in modo di ridurre, con il decreto, il numero di pratiche che materialmente ciascun magistrato di sorveglianza oggi è costretto ad esaminare. Questo procedimento consentirà di eliminare circa 200mila fascicoli dagli uffici. Inoltre, il condannato saprà, fin dall’ordine di esecuzione, quale sarà il suo fine pena nel caso in cui segua percorsi trattamentali. È un patto che incentiva la persona a considerare la rieducazione come lo strumento migliore per ridurre la permanenza in carcere. Avete già i primi riscontri numerici, sulla minore congestione degli uffici? No, per il motivo molto semplice che il meccanismo riguarda gli ordini di esecuzione successivi all’emanazione del decreto. Ma siamo certi di poter rilevare, nel giro di un anno, non solo un significativo alleggerimento del carico per i magistrati di sorveglianza, ma anche un miglioramento della qualità dei provvedimenti. In che senso? Ieri la liberazione anticipata poteva essere richiesta ogni 6 mesi. Con la modifica, il computo resta semestrale, ma il giudice verificherà l’effettivo diritto del condannato a fruire del beneficio in base al percorso seguito, alla presentazione di un’istanza per il riconoscimento di una misura alternativa o di un permesso, o per il raggiunto fine pena. Ciò consentirà peraltro una valutazione complessiva della condotta e della progressiva rieducazione del detenuto. A proposito di speranza da diffondere negli istituti: a normativa invariata, o con un ulteriore piccolo intervento, non si può velocizzare l’accesso alla misura alternativa dei domiciliari per chi è vicino al fine pena e una casa ce l’ha? Guardi, la concessione della misura alternativa dei domiciliari a chi può effettivamente beneficiarne già oggi avviene in modo abbastanza lineare. Il problema sono i senza dimora, in prevalenza stranieri. Perciò riteniamo importante il percorso nelle comunità. È sui detenuti privi di domicilio che abbiamo numeri considerevoli. Eliminare il rientro serale in cella per i semiliberi, cioè per i detenuti che di giorno già lavorano fuori: il Pd insiste per ripristinare questa soluzione. Che ne pensa? Non mi convincono le scelte basate su automatismi generalizzati, svincolati dalla valutazione del giudice. Anche rispetto alle telefonate l’aumento secco è da 4 a 6. Ma abbiamo previsto, per quei reclusi che hanno una famiglia e dunque un bisogno particolare, di consentire ai direttori delle carceri una maggiore elasticità, con la possibilità di concederne anche senza limiti. Dopodiché ripeto: il decreto è la cornice. Non escludo ci saranno, peraltro, interventi ulteriori sui limiti alle carcerazioni preventive. È un fronte caldo. Ma quanto può influire, considerato che la leva potrebbe essere quella di limitare il presupposto della reiterazione per gli indagati incensurati? Non credo si tratti di numeri ridotti. È chiaro che anche qui si deve agire con responsabilità. Il regime delle misure cautelari va ridefinito in una prospettiva moderna, che non deve comunque prescindere dalle esigenze di sicurezza, in particolare per i reati più gravi. Vorrei anche ricordare come l’intervento sulla custodia cautelare, e in particolare sulla reiterazione, sia stato tra gli obiettivi dei referendum che noi della Lega abbiamo sostenuto insieme al Partito radicale. Tanto per chiarire che su diversi ambiti della giustizia non ci si può certo accusare di essere arrivati dopo, anzi. Nordio, sulle “carriere”, ha detto di non temere la sfida del referendum... Ecco, a chi non lo ricorda, faccio presente che anche la separazione fra giudici e pm rientrava nei referendum di due anni fa, e che abbiamo avuto già in quell’occasione Carlo Nordio al nostro fianco, sebbene in altra veste, cioè come presidente del principale comitato promotore. Ma è sul carcere che vi toccano le incombenze più pesanti... La Lega è garantista, sia nei confronti del presunto innocente, che merita di essere ritenuto tale sino a condanna definitiva, sia nei confronti della vittima di reato, che deve avere garantita la propria sete di giustizia. Per questo, su questi temi siamo aperti a ogni discussione, che non prescinda dai citati presupposti. Ed è esattamente con questo spirito che abbiamo contribuito a scrivere il decreto carcere per risolvere un’incombenza certamente pesante, ma che ha origini antiche e che molti hanno preferito non affrontare. Nordio: “Pronto alla sfida del referendum sulle carriere” di Errico Novi Il Dubbio, 5 settembre 2024 Il ministro a SkyTg24: “È un tema così importante che mi piacerebbe se i cittadini si esprimessero su questo”. Può sembrare un approccio temerario, ma il nodo giustizia aggrovigliato da 32 anni si può scogliere solo se gli elettori lo vorranno davvero. Ci sono guardasigilli che passano, e lasciano un segno più o meno visibile. Ma di Carlo Nordio non si potrà certo dire che scivolerà via in dissolvenza. È un ministro della Giustizia che per linguaggio, acume, originalità, si distingue dagli altri. È l’impressione che si ricava dal suo intervento di stamattina a SkyTg24. E al di là dello stile, lo scambio con la giornalista della tv di Murdoch ha offerto molti spunti. Prima di tutto un approccio non banale su delitti orribili e “insondabili” come la strage di familiari compiuta da un 17enne a Paderno Dugnano: Nordio ha avvertito che quando si tratta di atti ascrivibili ai “recessi più inesplorati della mente umana” è inutile illudersi di poterli prevenire. Ma soprattutto da liberale, da conservatore liberale, il ministro ha preventivamente sconfessato chiunque volesse provare a leggere l’assassinio di Sharon Verzeni alla luce della provenienza straniera del femminicida: “Le origini italiane o non italiane hanno poco a che fare con il senso che si cerca di dare a delitti simili”. Invece non ha regalato sorprese, il ministro, sul carcere. Ha ribadito che il sovraffollamento si è sedimentato in un’indifferenza protrattasi per decenni, e che insomma risolverlo d’un colpo è impossibile. Ha continuato a giustapporre da una parte misure che definisce “di liberazione generalizzata” e dall’altra le soluzioni complicate e impervie che da mesi, da ben prima che arrivasse l’ultimo decreto, l’Esecutivo propone, a cominciare dalla “delocalizzazione” dei condannati di origine straniera, che dovrebbero “tornare nel loro Paese a scontare la pena”. E ha esibito l’abilità di un’elegante mezzala nel dribbling con cui ha eluso, nella sostanza, la giornalista di Sky, che aveva fatto esplicito riferimento alla legge Giachetti e alla valenza di quella proposta quale sollievo immediato, anziché futuribile, al dramma del sovraffollamento e dei suicidi: ha detto che misure simili sono affidate all’iter legislativo tipico dei disegni di legge e che dunque non costituirebbero una risposta tempestiva, tanto più che la liberazione è pur sempre di competenza del giudice di sorveglianza, le cui decisioni non sono compulsabili, certo, né condizionabili. Ha trascurato di ricordare che in realtà una mera estensione della liberazione anticipata già vigente da un paio di lustri poteva tranquillamente trovar posto nel decreto convertito il 7 agosto. E che se non si è trovato posto a quella misura, che sarebbe invece di immediata efficacia, è stato per scelta politica. Ma in fondo destreggiarsi con abilità, eleganza o anche astuzia nella selva dei diversi orientamenti espressi dai partiti del centrodestra è una cifra di Nordio. La conosciamo, e in ogni caso si parla di una linea politica che non si può ascrivere a lui come ministro. Al più va contestata a chi il governo di cui il ministro fa parte lo guida, cioè a Giorgia Meloni. Nordio è un ex magistrato. Ma mostra anche di avere un naturale talento per la politica - sebbene si confermi poco attratto dal chiacchiericcio gossipparo (il dribbling più secco lo regala sul caso Boccia-Sangiuliano) - quando si inoltra nello scontro fra magistratura ed Esecutivo, proposto giustamente dall’intervistatrice di Sky. Ricorda che il “dialogo” c’è e continuerà a esserci, ma anche che “la separazione delle carriere, la ristrutturazione dei due Csm, l’autonomia e l’indipendenza sulle quali entrambi i Csm dovranno vigilare, fanno parte del programma di governo e non sono negoziabili. Sarebbero al limite negoziabili dagli elettori se ci mandassero a casa”, ha chiosato il ministro. Ecco, questo sì che è parlare da prima linea di un governo con un linguaggio pienamente politico, e non solo con il tono del raffinato giurista. Tanto più che Nordio, sempre in zona Cesarini, sfodera il passaggio più interessante e originale del suo discorso. Sul probabile referendum a cui la separazione delle carriere, una volta approvata, sarebbe sottoposta, non esita a dirsi desideroso che la riforma sia portata alla diretta valutazione degli elettori: “È difficile che la si possa votare in Parlamento con una maggioranza qualificata, ma non avrei affatto paura del referendum, anzi vorrei andarci quanto prima, perché mi piacerebbe che i cittadini si esprimessero su un tema così importante”. Ecco sì: è un versante finora poco esplorato della questione. Un grande dibattito pubblico e una grande consultazione popolare, non solo e non tanto sulla riforma, sul “divorzio” fra giudici e pm, ma sulla magistratura, sul suo rapporto con la politica: questo sarebbe un referendum sulla separazione delle carriere. Una resa dei conti a più di trent’anni da Mani pulite. Un disvelamento sul quale sia, oggi, il grado di onnipotenza e deificazione dei pm nella percezione dei cittadini. Sì, è come dice Nordio. Meglio arrivarci, al referendum. Meglio farci i conti, con l’opinione reale degli italiani. Meglio che l’intero centrodestra non giochi più attorno al ddl costituzionale sulla giustizia come con una bandiera dell’uno o dell’altro leader. Che si battano, seriamente, per dire che si tratta di una svolta verso un nuovo assetto e un diverso futuro per i poteri. Con una magistratura non più saldata in un unico, abnorme ordine che aspira a scavalcare gli altri, cioè la politica. Vediamo di cosa sarà capace il centrodestra, nel battersi per affermare un simile messaggio, e vediamo quale sarà il risultato delle urne. Dopo decenni di soggezione allo strapotere delle Procure, un sì alla riforma sarebbe una sorta di contro-vaffa. Sarebbe il ritorno della politica che riconquista il ruolo di espressione della sovranità popolare. Nordio ci ha visto lungo. E conferma di avere, oltre a un eccesso di astuzia nel dribbling, qualità da vero intellettuale della politica. L’ennesima conferenza stampa show di Gratteri, tra forca e attacchi ai politici di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 settembre 2024 Il procuratore di Napoli davanti ai giornalisti si fa beffe della legge sulla presunzione di innocenza e lancia il suo ultimo teorema: “Le rivolte in carcere? Colpa dei parlamentari”. “Condannato a 61 anni di reclusione e libero dopo 19 anni”. Diversi giornali hanno riportato con enfasi, e una celata indignazione, una dichiarazione fatta dal procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, durante una conferenza stampa tenuta martedì per illustrare i dettagli di una maxi operazione contro la camorra. “L’indagato principale è un noto pregiudicato, Aldo Picca, che è stato condannato a 61 anni di reclusione e dopo 19 anni è uscito dal carcere. Appena è uscito dal carcere ha ricominciato a riorganizzarsi”, ha detto Gratteri davanti ai giornalisti. L’affermazione è stata riportata dai cronisti senza batter ciglio, insomma senza che nessuno si chiedesse: ma è possibile che in Italia una persona sia condannata a 61 anni di carcere e ne sconti solo 19? E’ evidente che questo non è possibile. Il nostro codice penale, all’articolo 78, stabilisce che nel caso di concorso di reati la pena “non può eccedere trent’anni di reclusione”. Dunque, anche se Picca avesse accumulato condanne per un totale di 61 anni di carcere, la pena finale non avrebbe potuto superare i trent’anni. Indagando sulla figura di Picca si scopre che è accaduto proprio questo: condannato alla pena massima di trent’anni, Picca è tornato in libertà nel 2020 dopo 20 anni di carcere, grazie alle detrazioni di pena previste dalla legge (45 giorni per ogni semestre di condanna espiata in caso di “buona condotta”) e la probabile carcerazione preventiva scontata in precedenza. Picca era poi stato riarrestato nel 2023 con l’accusa di estorsione. La storia dei “61 anni di carcere”, insomma, non sta in piedi. Evidentemente, anziché fornire informazioni precise, l’obiettivo di Gratteri era, come sempre, quello di far passare l’immagine di un paese in cui domina l’impunità. Non si è trattata dell’unica stravaganza della conferenza stampa di Gratteri. Il capo della procura di Napoli, come ormai suo solito, ha infatti ironizzato sulla legge che, in ossequio a una direttiva europea sul rafforzamento della presunzione di innocenza, impone ai pubblici ministeri un atto di semplice civiltà, cioè quello di non presentare come colpevoli già accertati dei cittadini soltanto indagati. In apertura della conferenza stampa, così, Gratteri ha dichiarato: “L’indagine è la dimostrazione tecnico-giuridica dell’esistenza di un’associazione a delinquere dedita al traffico di stupefacenti, di un’associazione a delinquere di stampo mafioso e di tutta quella serie di reati fine tipici di un’associazione mafiosa, quali estorsione, traffico di droga, riciclaggio e autoriciclaggio. Quindi questa notte abbiamo arrestato trentadue presunti innocenti”. Risate degli astanti, inclusi i giornalisti e persino dei rappresentanti delle forze dell’ordine. Con buona pace della presunzione di innocenza. Gratteri è poi tornato a denunciare l’uso di cellulari da parte dei detenuti reclusi nelle carceri, rilanciando i suoi numeri sui dispositivi presenti dietro le sbarre: “In un carcere mediamente ci sono 100 telefonini”, ha detto. Una statistica ben poco credibile, non solo perché a inizio luglio lo stesso Gratteri aveva dichiarato che “in ogni carcere ci sono 200 telefonini che funzionano” (dunque il doppio), ma anche perché, essendo 190 gli istituti di pena, dovremmo concludere che nelle carceri italiane vengono usati quasi 20 mila cellulari, a fronte di 61 mila detenuti. Ma la conferenza stampa di martedì ha raggiunto il suo apice quando Gratteri se l’è presa con chi propone misure eccezionali per far fronte all’emergenza del sovraffollamento nelle carceri: “Sento parlare anche a livello parlamentare di indulti e amnistie. Sono argomenti molto pericolosi e io penso che uno dei motivi delle rivolte che ci sono quasi quotidianamente nelle carceri è proprio questo, ovvero annunciare cose che poi non si realizzeranno”. Insomma, per il pm la colpa delle rivolte in carcere è dei parlamentari che propongono l’adozione di indulti o amnistie. Gratteri è in cortocircuito: prima si lamenta di non poter parlare liberamente con i giornalisti e poi auspica bavagli per i politici. Se basta la parola “mafia” per rendere eterne indagini e inchieste di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 5 settembre 2024 Alcune sembrano essere diventate un terreno fertile per astuzie procedurali: l’utilizzo strumentale delle accuse di stampo mafioso sta trasformando alcune inchieste giudiziarie in esercizi di potere arbitrario. Certe inchieste giudiziarie sembrano diventate terreno per giocolieri e competizione di astuzie. Quando il presidente dell’Unione Camere penali, Francesco Petrelli, riferendosi alle modalità di indagine usate nell’inchiesta su Giovanni Toti, parla di “arbitrarietà priva di sanzioni della scelta da parte del pm delle incolpazioni di ambito mafioso”, allude proprio alle astuzie procedurali ormai sempre più diffuse. Che impugnano come un’arma da combattimento la parola magica: la Mafia. Perché la normativa sui reati di criminalità organizzata è ormai diventata nel nostro ordinamento un elefante incontrollabile, ma al contempo così snello nei suoi movimenti da poter essere introdotto in ogni pertugio di ogni inchiesta. Nel totale arbitrio dei pubblici ministeri. Se nella contestazione di qualunque reato aggiungi la finalità mafiosa, ti si apre davanti un’autostrada. Puoi indagare per due anni in modo nascosto senza il dovere di informare nessuno. Le intercettazioni, i cui decreti nel regime ordinario hanno la durata di 15 giorni, diventano magicamente 40, con tutte le possibilità infinite di proroga. Eccetera. Ecco perché ogni processo al sud, anche quello per abigeato, se rubi tre pecore invece che una, diventa magicamente di tipo mafioso nelle mani anche del pm che ha appena ricevuto le funzioni. E le mani, oltre che pure per definizione da Di Pietro in poi, diventano immediatamente anche libere. Di spaziare in un campo più largo di quello sognato in politica da Elly Schlein, con la sacralità di chi sta purificando la società dai suoi mali più estremi. L’abbiamo visto in Calabria, dove le inchieste promosse dall’ex procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, tutte aperte con aggravanti che consentivano gli arresti, sono poi state in gran decimate da provvedimenti della Cassazione che non ravvisava l’esistenza di quel “concorso esterno” che consentiva l’uso di manette preventive e di intercettazioni, e poi nelle tante assoluzioni in tribunale. L’abbiamo toccato concretamente a Roma, dove l’ex procuratore Giuseppe Pignatone aveva osato il massimo con quella denominazione di “Mafia Capitale” che aveva sputtanato la città e l’Italia intera in tutto il mondo. Naturalmente la mafia non c’era, ma lo scopo delle mani libere era stato raggiunto. E infine, bastava leggere le carte dell’inchiesta Toti per verificare come i giochi di prestigio siano diventati giochi di specchio, con le immagini e le imputazioni che si inseguivano nelle intercettazioni e nelle riprese delle cimici, che stavano sveglie giorno e notte, nell’ufficio del presidente della Regione Liguria, anche quando lui era a casa a dormire, magari con il cellulare acceso e qualcuno che lo controllava. Tutto questo è stato possibile solo perché all’origine dell’inchiesta, nata a La Spezia nei confronti del capo di gabinetto del governatore, Matteo Cozzani, ex sindaco di Portovenere, su questioni urbanistiche legate al suo ruolo di primo cittadino, è stato contestato proprio il jolly pigliatutto, l’aggravante mafiosa. Determinata dall’ipotesi di partecipazione alla criminalità organizzata di tre persone originarie di Riesi, in provincia di Caltanissetta ma residenti in Liguria e in Lombardia, che si erano impegnate a portare qualche centinaio di voti nelle elezioni amministrative di Genova. Un vero voto di scambio in realtà non c’era mai stato, forse qualche vaga promessa non mantenuta di posti di lavoro o di agevolazione in un cambio di casa popolare. E soprattutto nessuno dei “mafiosi” è mai stato arrestato. Ma, dal primo decreto di intercettazione telefonica di Matteo Cozzani del 17 agosto 2020, fino al secondo del 3 marzo 2021 che consente captazioni tra presenti, cioè cimici negli uffici della Regione Liguria, la strada è aperta per “sorvegliare e punire” il presidente Giovanni Toti. È la concretizzazione di quello che, negli anni settanta, il professore ed ex magistrato Luigi Ferrajoli e con lui la parte più garantista di Magistratura democratica, chiamavano la politica del “tipo d’autore”. Cioè un soggetto ritenuto pericoloso a prescindere dai suoi comportamenti, colui di cui si chiede la punizione non per quello che ha fatto, ma per quello che potrebbe fare a causa del suo essere in un certo modo o svolgere determinate funzioni. Il tema, in seguito abbandonato dalla corrente di sinistra della magistratura, sempre più chiusa in una visione corporativa e di casta della categoria, fu ripreso nel 2019 da Luciano Violante. Il quale ne scrisse su un numero della rivista “Questione giustizia”, con un saggio dal titolo “L’infausto riemergere del tipo d’autore”, in cui indicava come soggetti prescelti da individuare e accerchiare fino a poterli poi processare, da una parte gli immigrati e dall’altra i politici e i pubblici amministratori. Questa attività da giocolieri con l’astuzia da combattimento porta con sé, oltre a una profonda ingiustizia perché accompagna il pubblico ministero lontano dai suoi doveri di indagare su reati già commessi, verso la prateria in cui si indaga la persona per andare a cercare eventuali suoi reati, anche la totale disparità tra accusa e difesa. Come potranno ora nei prossimi quindici giorni che separano dalla data del processo immediato a Genova, i difensori degli imputati assistere a quattro anni di registrazioni audio e video? Dove finirà la parità processuale tra accusa e difesa? Se possiamo aggiungere considerazioni più pungenti di quanto gli avvocati e lo stesso presidente Petrelli possano consentirsi, vediamo da parte della magistratura genovese anche una certa dose di arroganza. La si respira dagli atti della procura e ancora di più dai provvedimenti dei giudici. Che hanno usato a piene mani il “tipo d’autore”. Giovanni Toti, hanno detto e scritto, era già colpevole in sé e nel suo ruolo di governatore. Infatti lo hanno lasciato libero solo al prezzo delle dimissioni. Solo tornato semplice cittadino, potrà diventare un imputato come gli altri. Missione compiuta. Ora ci penseranno gli elettori a raddrizzare la situazione. Bel colpo… d’autore. Nessun carico pendente, ma l’impresa non è in white list: “Ergastolo economico” di Giuseppe Bonaccorsi Il Dubbio, 5 settembre 2024 Una ditta siciliana attende da sei anni una risposta, che però non arriva. Il legale: “Un’anomalia difficilmente comprensibile per chi ha a cuore le ragioni di Stato”. A distanza di sei anni dalla presentazione della domanda, la Prefettura di Ragusa non ha ancora risposto alla richiesta di iscrizione alla “White list” presentata dalla ditta “Fratelli L. srl”, che opera in territorio ibleo nel settore delle cave e della fornitura di materiali. Ora il rischio è che l’azienda, ancora in attesa di una risposta prefettizia, perda una commessa pubblica molto importante. Tutto è iniziato pochi mesi fa, quando, per i lavori di riqualificazione del lungomare Lanterna di Vittoria, alla ditta in questione è stato negato il prosieguo della commessa in subappalto perché priva della certificazione di iscrizione all’albo prefettizio “White list”. È stata la direzione Lavori pubblici del Comune di Vittoria a comunicare all’impresa aggiudicataria, la “Caltagirone Mario Ugo Giovanni”, che sulla società in subappalto è ancora aperta “la fase istruttoria della richiesta dal 9 agosto 2018”, dando quindi mandato di “individuare una nuova ditta” da segnalare poi al Rup dei lavori per le nuove verifiche previste dalla normativa. A questo punto, i titolari della ditta estromessa, visto il rischio di perdere una commessa milionaria, hanno dato incarico a un legale per capire, innanzitutto, come mai, a distanza di sei anni dalla fase istruttoria della Prefettura del 9 agosto 2018, la pratica non sia giunta a buon fine e cercare così di accelerare un iter che sembra essersi impantanato in chissà quali meandri burocratici. Il legale, Ivan Maravigna, del Foro di Catania, dopo aver esaminato le carte e certo della piena onestà e legittimità della richiesta formulata sei anni fa dai titolari della ditta (come peraltro specifica nella sua richiesta), ha quindi inviato una dettagliata lettera alla Prefettura di Ragusa e, in primis, al Prefetto. “Codesta Prefettura - scrive il legale - è a conoscenza che presso il competente ufficio antimafia “giace” dal lontano 9 agosto 2018 la richiesta di iscrizione della ditta “Fratelli L. srl” alla White list provinciale, nonostante il termine di conclusione del procedimento per l’iscrizione sia fissato dalla legge in 90 giorni. La brevità di tale termine - continua - trova la sua ragione pratica nell’esigenza di non recare danno all’economia, determinando lo stallo dell’attività di impresa, ma ancor prima, la sua premessa logica nella circostanza che l’iscrizione alla White list ha scadenza annuale, atteso che, decorso tale arco temporale, la ditta, per ottenere la permanenza nell’elenco prefettizio, deve attivare la procedura di rinnovo, che prevede una nuova implementazione dell’istruttoria prevista dall’art. 3 del D. p. c. m. 18 aprile 2013. Alla luce di quanto sopra scrive ancora Maravigna - anche a non voler considerare come perentorio il termine di 90 giorni stabilito per legge, la E. V. converrà certamente che il mancato pronunciamento, a oltre sei anni dall’avvenuta richiesta, costituisce un’anomalia difficilmente comprensibile per chi ha a cuore le ragioni di Stato”. Quindi, l’avvocato conclude: “Il lavoro in subappalto sopra richiamato è di grande rilevanza per la situazione finanziaria della società e può concretamente incidere sulle prospettive di sviluppo, anche occupazionali, della medesima. Siamo pertanto certi che la E. V., alla quale non sono certamente ascrivibili i sei anni di ritardo nell’assunzione di una determinazione, vorrà ripristinare quella situazione di “certezza del diritto” che va garantita a qualunque persona fisica e giuridica”. Raggiunto per telefono, il legale ha aggiunto: “Vorremmo comprendere come sia stato possibile che oggi, a distanza di sei anni dalla richiesta formulata alla Prefettura, tutto l’iter si sia arenato e la pratica non sia stata istruita. Adesso, mi auguro che la mia lettera a sua eccellenza il Prefetto di Ragusa serva soprattutto per evitare che, a giustificazione del ritardo, possa essere trovato il pelo nell’uovo a danno della ditta che rappresento, pregiudicando irrimediabilmente il suo prosieguo in una commessa pubblica milionaria. L’azienda che assisto, tra l’altro, non ha nessun “carico pendente”. Quindi, la mancata iscrizione alla White list corrisponde per la società a un ergastolo economico”. Piccolo spaccio, alla Consulta il no alla messa alla prova di Patrizia Macciocchi Il Sole 24 Ore, 5 settembre 2024 L’innalzamento del tetto di pena preclude l’accesso al beneficio. Va all’esame della Corte costituzionale il no alla sospensione del processo per messa alla prova per i piccoli spacciatori. Il Tribunale di Padova ha sollevato questione di legittimità costituzionale in ordine alla preclusione della sospensione del procedimento con messa alla prova per i delitti previsti dall’articolo 73, comma 5, del Dpr n. 309 del 1990 sulla produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope. Nel mirino dei giudici del rinvio è finita la modifica del quinto comma dell’articolo 73 del decreto, messa in atto con il Dl 123/2023 (convertito dalla legge 13 novembre n. 159/2023). Un intervento con il quale è stato innalzato il limite massimo di pena previsto per lo spaccio anche di lieve entità, portando la pena da quattro anni di reclusione a cinque anni. È così impedito all’imputato di accedere all’istituto della messa alla prova. E questo perché l’articolo 168-bis del codice penale apre al “beneficio” solo per i soli reati punti con “pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria”. Umbria. Emergenza carceri: “Tossicodipendenti in Comunità e Rems per i malati psichiatrici” di Luca Fiorucci La Nazione, 5 settembre 2024 Il procuratore generale Sottani ha riunito gli “attori”: l’obiettivo è elaborare un piano congiunto per l’Umbria. Comunità a cui affidare i detenuti con dipendenze da un lato. Dall’altro, l’istituzione di una Rems in Umbria che è obiettivo non più rimandabile. Il procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani, ha riunito nell’aula formazione della Corte d’appello i procuratori del Distretto con i direttori e i comandanti della Polizia penitenziaria, oltre ai vertici dell’Ufficio distrettuale di Esecuzione penale esterna di Perugia. Sovraffollamento, carenza di personale, difficile gestione dell’elevato numero di reclusi con problemi di tossicodipendenza e affetti da disturbi psichici si confermano come le principali criticità delle strutture della regione. Il sovraffollamento accomuna le quattro realtà, particolarmente Perugia (+44%) e Terni (+33%), in misura più contenuta Spoleto e Orvieto. Forte anche la percentuale di detenuti stranieri ospitati nelle carceri umbre che è pari al 31% del totale. Anche per il 2024 sono emerse le difficoltà di gestione da parte del personale impegnato all’interno delle carceri: da evidenziare la grave carenza di organico del corpo di polizia penitenziaria, in particolare, ancora una volta, a Perugia e Terni. Ancora elevati, sebbene non aumentati, i casi di autolesionismo, di tentato suicidio o aggressione al personale in servizio o ad altri operatori. Registrato inoltre un caso di suicidio. Altro tema centrale dell’incontro è stato quello dell’alta percentuale di detenuti affetti da problemi di tossicodipendenze o psichici. Su 1604 ristretti totali nelle carceri umbre, il 28% hanno problemi di tossicodipendenze (oltre la metà dei detenuti di Orvieto e circa il 47% quelli di Perugia), mentre il 14% del totale regionale dei reclusi è affetto da patologie psichiatriche. Proprio su quest’ultimo punto è stato siglato a fine luglio un Protocollo d’Intesa tra uffici giudiziari del Distretto e Asl. L’accordo ha già preso forma con una capillare raccolta dei dati sui reclusi con queste problematiche e un censimento aggiornato delle comunità terapeutiche regionali. Ferma restando la necessità, come ribadito anche dal procuratore generale, che venga istituita al più presto la Rems: “Impensabile che in libertà ci siano soggetti con gravi disturbi che non scontano la loro condanna perché incompatibili con il carcere e senza la possibilità di collocamento”. Per quanto riguarda i detenuti tossicodipendenti “ci sono strumenti normativi, come la possibilità di stare in comunità. E l’incontro di oggi è servito a individuare le strutture e le modalità per forme alternative alla detenzione in carcere”. Reggio Emilia. Detenuto morto in carcere: “Aveva già programmato le videocall coi familiari” di Nicola Bonafini Il Resto del Carlino, 5 settembre 2024 Cominciata l’autopsia sul 54enne marocchino trovato senza vita alla Pulce. I parenti non credono al suicidio in cella, la procura indaga per istigazione. Ieri negli uffici della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio è stato conferito al dottor Michele Carpinteri del Policlinico di Modena, l’incarico di svolgere l’autopsia sul corpo di Saddiki Abdeljalil, il 54enne di nazionalità marocchina presumibilmente morto suicida nella serata di giovedì scorso nella sua cella dove era detenuto al carcere della Pulce di via Settembrini, impiccandosi alle grate della finestra, secondo la ricostruzione al momento più accreditata, con dei brandelli di una maglietta. Le operazioni legate all’accertamento tecnico irripetibile, come è definito in ambito forense l’esame autoptico in questione, sono iniziate immediatamente dopo il conferimento dell’incarico con gli esiti che sono attesi nel termine di 90 giorni, e che risulteranno parte integrante del fascicolo d’indagine aperto dalla procura (l’inchiesta è coordinata dal sostituto procuratore Maria Rita Pantani) contro ignoti per l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio. L’avvocato Marcello Fornaciari che tutela gli interessi dei famigliari del 54enne, dopo averlo difeso nei procedimenti che l’hanno visto coinvolto, non ha nominato alcun consulente tecnico di parte che assista all’autopsia. A tal proposito va ricordato come i famigliari di Saddiki non credano fino in fondo all’ipotesi del gesto volontario. Troppo possente fisicamente per poter pensare di togliersi la vita impiccandosi alle grate della finestra della cella dove era detenuto; ma soprattutto il fatto che Saddiki stava contando i giorni prima di uscire (era prossimo a poter aver diritto ai domiciliari, misura che scatta sotto i due anni di reclusione ancora da scontare. Per cui ci si stava adoperando per trovare un domicilio adatto per i domiciliari) e stava condividendo con la moglie Suuad i suoi programmi di vita per il futuro una volta tornato in libertà. Proprio come avvenuto esattamente un giorno prima della sua morte in una videocall con la consorte. La videocall “misteriosa”. E questo è un piccolo elemento di novità che va ad arricchire il quadro della situazione che Saddiki programmava praticamente una settimana per l’altra. Ieri, mercoledì, infatti, Abdeljalil e Suuad si sarebbero dovuti vedere in un’altra videoconferenza, già pianificata e approvata dai vertici carcerari. Ulteriore riprova, questa, secondo i famigliari, che Saddiki pensava a molte cose ma non a togliersi la vita. Frosinone. Morte in carcere, si indaga per omicidio. Disposta l’autopsia per un altro decesso di Giovanni Del Giaccio Il Messaggero, 5 settembre 2024 Secondo decesso sospetto nel carcere di via Cerreto dall’inizio del 2024. Un detenuto era morto nel sonno, forse per avere ingerito troppi farmaci, mentre ieri c’è stato quest’altro caso. Nel 2023 si erano verificati altri due casi. Un’indagine per omicidio, un’altra per morte sospetta, in mezzo la protesta di un gruppo di detenuti della Casa circondariale di Frosinone e l’ennesimo appello delle organizzazioni sindacali a rinforzare gli organici. Ore incandescenti nella casa circondariale di via Cerreto, dove nella tarda mattina di lunedì si è registrato il decesso di un detenuto di 62 anni, la sera i disordini nella quinta sezione e nel frattempo è arrivata la notizia dell’inchiesta per omicidio relativa alla morte di Manuel Pignatelli, 34 anni di Pontecorvo. Partiamo proprio da qui: Pignatelli è morto il 12 maggio scorso mentre scontava un residuo di pena dopo essere stato in un centro per il recupero dei tossicodipendenti fuori regione. A presentare denuncia sono state la madre e la sorella del 34enne, assistite dall’avvocato Emanuele Carbone: spiegano che Manuel era uscito dalla Comunità di recupero ormai disintossicato e che in carcere era andato per chiudere i conti di una vecchia condanna di pochi mesi. Hanno segnalato alla procura del capoluogo una serie di anomalie. Che hanno portato il sostituto Adolfo Coletta a rubricare il reato di omicidio a carico di ignoti e disporre gli approfondimenti. Dopo il decesso era stata già effettuata l’autopsia, come accade quando la morte avviene in ospedale per fugare ogni dubbio. A riguardo si attende il deposito della perizia, ma nel frattempo c’è questo fascicolo contro ignoti attraverso il quale provare a dare una risposta alla madre e alla sorella. Lunedì mattina, invece, è morto un detenuto di 62 anni e anche in questo caso è stata disposta l’autopsia. Secondo i primi riscontri, com’era stato nel caso di Pignatelli, si tratta di un decesso per cause naturali, ma il sostituto procuratore Samuel Amari ha disposto l’esame medico legale. Nella serata di lunedì, poi, è scattata la protesta nella quinta sezione. Due organizzazioni sindacali (Cisl e Sappe) hanno messo insieme gli episodi ma quanto accaduto nella quinta sezione non c’entra con il decesso, stando agli accertamenti della polizia penitenziaria. Sono episodi scollegati tra loro, ma resta la tensione che si registra in via Cerreto. Tutto sarebbe nato dalle richieste di avere dei farmaci inevase, circostanza che però non trova riscontro ufficiale. Cinque-sei detenuti hanno rotto le telecamere, i vetri blindati del corpo di guardia e il vetro della porta blindata di ingresso, le luci del corridoio, hanno allagato la sezione utilizzando gli idranti e hanno tentato di sottrarre le chiavi all’agente. Sono state ore di tensione e la situazione è tornata alla normalità solo in nottata. “Grazie al “gruppo intervento” è stato possibile ripristinare l’ordine” - affermano dalla Cisl, sottolineando le carenze di organico: “Attualmente vi è un solo comandante - denunciano Enrico Coppotelli e Massimo Costantino - ed è gravissima la carenza di personale in ambito regionale che è di - 652 unità mentre a Frosinone -27 secondo il DAp ma effettivamente ne mancano 100 - il tasso di sovraffollamento è al 127%”. Per il Sappe: “Ancora una volta grazie al personale di polizia penitenziaria di Frosinone si è ripristinato l’ordine e la sicurezza all’interno dell’istituto. Denunciamo da tempo - dice Donato Capece - la situazione insostenibile delle carceri regionali, ma chi dovrebbe intervenire e tutelare continua a tacere ed a restare inerme”. Modena. Detenuti morti in carcere durante le rivolte: no all’archiviazione sulle presunte torture di Valentina Lanzilli Corriere di Bologna, 5 settembre 2024 La Gip ha disposto altri sei mesi di indagini sulla rivolta dell’8 marzo 2020 dove morirono nove persone. Colpo di scena nella vicenda che riguarda le rivolte nel carcere modenese di Sant’Anna, avvenute l’8 marzo del 2020, al seguito delle quali morirono nove persone, che avevano rubato metadone e farmaci dall’infermeria. Il giudice per le indagini preliminari modenese Carolina Clò infatti non ha accolto la richiesta della Procura di Modena di archiviare il fascicolo che ipotizzava il reato di tortura a carico di 120 appartenenti alla Penitenziaria, ma ha disposto ulteriori indagini, con termine di sei mesi, indicando persone da sentire e atti da acquisire. Tra le circostanze che per il giudice meritano di essere chiarite c’è il mancato funzionamento di alcuni sistemi di videosorveglianza. Poi ci sono alcune intercettazioni tra gli agenti di penitenziaria, da cui emergerebbe un incontro prima della loro convocazione in Questura. Da valutare anche una integrazione di una relazione da parte di un agente, fatta su specifica richiesta del carcere modenese. Viene chiesto poi di approfondire le lesioni subite dai detenuti, acquisendo le cartelle cliniche e sentendo i medici che le hanno redatte. Dovranno pure essere risentiti il direttore del carcere all’epoca e quello precedente, il prefetto e il magistrato di sorveglianza di Modena. La soddisfazione dei legali dei detenuti - Ricordiamo che dopo quei fatti 18 persone denunciarono torture, mentre venti delle centoventi posizioni sono state archiviate. Una notizia che è stata accolta in maniera positiva dai legali dei detenuti. “Mi aspetto che vengano colmate quelle lacune investigative che avevamo denunciato nella nostra opposizione alla richiesta di archiviazione”, ha commentato Ettore Grenci, legale di una delle persone offese. “Le indagini pur essendo state lunghe da un punto di vista temporale presentano tanti vuoti investigativi. Parliamo di una vicenda complessa e delicata e che desta preoccupazione. È stata la peggiore strage nelle carceri italiani dal dopoguerra. È un interesse collettivo capire cosa è accaduto in quei giorni. Molti detenuti sono stati trasferiti in condizioni critiche e poi sono deceduti, come Sasà Piscitelli”. La contrarietà degli avvocati degli agenti - Auspica invece una nuova archiviazione del caso il legale che rappresenta 90 degli agenti coinvolti, Cosimo Zaccaria: “Vorrei sottolineare che il giudice ha rimarcato nel suo provvedimento la correttezza dell’operato dei pubblici ufficiali e di come si fossero difesi da un’aggressione e da una devastazione di circa 3 milioni di euro di danni che si è conclusa con diversi agenti finiti in ospedale. Ci sono poi dichiarazioni di detenuti prive di senso, come la persona che ha riconosciuto come aggressori venti agenti che quel giorno non erano neanche in servizio. Gli agenti quel giorno hanno evitato che si riversasse sulla città un’orda di duecento persone in balia di sostanze stupefacenti perché era stata depredata l’infermeria. Ricordo che le cartelle cliniche sono già agli atti e non riportano alcun dato che riportano aggressioni o torture quindi confidiamo in una completa archiviazione della vicenda a breve”. La presenza (o meno) delle telecamere - Parla invece di un segnale molto importante un altro legale che segue due persone offese, Luca Sebastiani: “Quello del gip è un segnale molto importante e siamo molto contenti. La vicenda di Modena ha segnato la storia della città. Quasi tutte le difese da tempo chiedono quello che il giudice ha concesso in questa ordinanza: chiarire la presenza o meno delle telecamere in alcuni punti nevralgici della vicenda, chiarire quanti sono i detenuti che sono stati trasferiti e in che condizioni sono stati trasferiti. Alcuni hanno fatto degli esposti, ma in tanti non l’hanno fatto. Arrivati nei vari carceri italiani sono infatti stati medicati perché presentavano evidenti lesioni”. Milano. Buco nero Beccaria di Cristina Giudici Il Foglio, 5 settembre 2024 L’ex direttore del Dap Luigi Pagano riflette su disagio, violenze e riforme mancate. Forse più che la rivolta al Beccaria è il dibattito esploso successivamente che ci fa vivere sempre nel Giorno della marmotta. E non perché non siamo consapevoli del disagio giovanile profondo soprattutto fra gli “utenti” degli istituti penali minorili, in maggioranza stranieri che vengono dalla strada. E neanche perché siamo indifferenti alle violenze subite dai baby detenuti da parte degli agenti penitenziari ed emerse nell’aprile scorso. Ma le sparate dell’eurodeputata Ilaria Salis e le provocazioni dei Radicali che invocano la chiusura degli istituti penali minorili ci ricordano solo che dopo mezzanotte è sempre buio. “E invece bisognerebbe focalizzarsi sull’incapacità di creare di sistemi detentivi che siano rieducativi, come auspica la Costituzione. Da quanti anni ne parliamo?”, si chiede con un’amara domanda retorica l’icona di un garantismo non peloso, e paladino di una pena umanizzata, Luigi Pagano: ex direttore del carcere fra i più sovraffollati d’Italia, il San Vittore che ha diretto per 15 anni in una fase convulsa della storia italiana, prima di diventare provveditore del Dap in Lombardia. E dato che le patologie degli istituti di pena minorili - le troppe ore di chiusura in cella senza poter accedere ad alcuna attività rieducativa, il sovraffollamento e l’alta percentuale di quelli che potrebbero uscire se avessero una comunità adatta ad accoglierli - sono comuni a quelle delle carceri “adulte”, l’analisi di Pagano serve a rammentarci che la situazione è sempre uguale ma incancrenita. “Molti non sanno che le misure alternative applicate a migliaia di detenuti funzionano”, spiega al Foglio. “Quello che non funziona è la governabilità degli istituti di pena perché un terzo dei reclusi sono in attesa di giudizio, il sovraffollamento porta a una promiscuità delle categorie dei detenuti e a un approccio securitario che non garantisce la rieducazione mentre la ‘vigilanza dinamica’ che avevo costruito per creare percorsi ad hoc e migliorare il rapporto fra agenti e detenuti è naufragata. Mi chiedo fra l’altro se sia una scelta adeguata quella di mettere sempre alla guida del Dap un magistrato, perché se mi si rompe la macchina io non vado da un gelataio”, ironizza Pagano con il suo humor napoletano. Rispetto al problema dei minorili, Pagano ribadisce che la soluzione è una sola: “r-i-e-d-u-c-a-z-i-o-n-e”. “Chi ne chiede la chiusura, non capisce che la sfida più difficile è la costruzione delle opportunità, perché il carcere deve offrire speranza non dannazione. Alle solite malattie croniche su cui dibattiamo da decenni, si aggiunge la prevalenza degli stranieri che pur potendo uscire non hanno un luogo dove andare. “Nel 1989 a San Vittore rappresentavano il 5%, ora sono la maggioranza. La società è cambiata ma gli schemi per gestire la detenzione sono rimasti immutati. Pochi sanno che i tossicodipendenti, a meno di aver commesso reati gravi, non sono costretti a stare in carcere sebbene non ci siano luoghi adatti per accoglierli. Pochi sanno che in carcere si entra anche per poche ore con buona pace di chi chiede di ricorrere alla detenzione come extrema ratio. Ma il nodo del problema è la governance del sistema penitenziario”, chiosa. “Ci vuole un progetto per rendere l’espiazione della pena un percorso che serva alla rieducazione, sia per gli adulti sia per i minori. E invece oggi più che mai gli istituti di pena sono delle discariche sociali”, conclude Pagano che è stato anche l’ideatore della casa di reclusione modello di Bollate. “Il Beccaria non è un’isola in mezzo al mare, fa parte di un arcipelago: presenta le criticità di tutti gli altri istituti per i minorenni, specchio di un sistema che andrebbe riformato”, ha detto il Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano, il magistrato Francesco Maisto. Don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria che accoglie nella sua comunità Kayros tanti ragazzi che escono, sottolinea che oltre al combinato disposto di estate afosa, meno attività e celle affollate e chiuse che hanno innescato la polveriera c’è il sospetto “che tanti ragazzi facciano parte di una rete criminale, soprattutto egiziana, su cui bisognerebbe indagare”. E lo dice un educatore che ha coniato il motto “Non esistono ragazzi cattivi”. Morale: smettete di usare gli slogan politici e ascoltate chi si sporca le mani la realtà. Milano. La proposta del prete del Beccaria: “Un imam al carcere per aiutare i minori stranieri” di Serena Coppetti Il Giornale, 5 settembre 2024 Il cappellano don Burgio ora propone l’inserimento di un’autorità spirituale e religiosa per i minori stranieri. “Li aiuterebbe a recuperare il codice etico che hanno smarrito”. Un imam a disposizione dei minori stranieri detenuti al carcere Beccaria. Una figura religiosa che parli al loro cuore con la loro lingua, che li aiuti a recuperare un comune codice etico evidentemente smarrito. È una proposta forte quella che avanza don Claudio Burgio, il cappellano dell’istituto minorile ma ritenuta utile anche dal garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano, Francesco Maisto. Una proposta non prevista peraltro dal regolamento degli istituti minorili ma che si inserisce proprio all’interno di quel “dialogo interreligioso portato avanti dalla diocesi” e sui ha posto l’accento ormai più volte anche il Papa. “Non è facile individuare la persona e non è certo la soluzione ai tanti problemi del Beccaria, ma credo che potrebbe essere un contributo diverso e importante”, spiega don Burgio. Che ha già fatto dei passi avanti in questa direzione. “Sto verificando con la Diocesi la possibilità di individuare figure che possano ricoprire questo ruolo”. Da anni ci sono persone, spiega con cui c’è una collaborazione. Ovviamente, sottolinea, “ci vogliono figure comprovate, non deve essere ingenuo questo accompagnamento spirituale” per escludere “pericolose derive di radicalizzazione”. “Ci vogliono figure molto conosciute. L’islam sono tanti islam. E non tutti vengono accettati da tutti. Vanno ricercate persone che appartengono alla loro storia e cultura, che possano essere recepite bene per una rielaborazione di senso anche nella loro lingua, a partire dal Corano”. Quello che è importante per don Burgio è che per i minori stranieri del Beccaria, senza legami e senza famiglia, sarebbe necessario “ritrovare anche le loro radici religiose, etiche, quella vita interiore dove non può arrivare un prete cattolico”. Ecco perché una collaborazione con un imam. “Io riesco a incidere con i ragazzi, perché ho una comunità e non vedono l’ora di venire da me. Ho un dialogo molto aperto con lor”. Ma come succede anche in Occidente “anche per i giovani musulmani un tempo più radicati nel loro credo, l’aspetto religioso è diventato più formale, e se c’è da trasgredire non c’è problema. Andrebbe rivisitato, con una voce autorevole capace di pacificare il cuore di questi ragazzi e aiutarli a trovare un senso”. Perché alla fine “quello che attraversa i ragazzi del Beccaria è un vuoto di senso, che è la causa di questo malessere. In un dialogo nuovo andrebbe ritrovato il modo di guardare alle prospettive di futuro che vogliono immaginare”. Loro, spiega don Burgio, dicono che sono qui perché “cercano lavoro per aiutare le famiglie di origine. Per i ragazzi che abbiamo seguito era davvero così e alcuni hanno trasformato la loro vita. Ma c’è quest’ultima ondata di minori, egiziani soprattutto, che ho la sensazione vengano gestiti da un’organizzazione criminale internazionale. È solo un’ipotesi, non ho indizi per dire che sia davvero cosi. Ma sono ragazzi troppo informati, sanno dove andare, come muoversi, in Francia, in Spagna, sanno dove approdare. Ho sensazione che ci possa essere una rete gestita da persone più grandi di loro, a livello europeo che li spinge a commettere reati e ottenere guadagni”. Roma. Il governatore Rocca visita Regina Coeli sulla scia dei dati sempre più allarmanti di Marianna Rizzini Il Foglio, 5 settembre 2024 Sovraffollamento (a un tasso regionale del 143 per cento), strutture obsolete, carenza di personale, suicidi: la situazione delle carceri nel Lazio, come anche a livello nazionale, è allarmante. A inizio luglio, dunque, il garante dei detenuti della Regione Lazio Stefano Anastasìa aveva lanciato un appello: “È una lunga scia di morti quella che vediamo allungarsi sul nostro percorso in questo 2024”, diceva. “Una scia che non può lasciarci indifferenti. Poco distante da noi, nel Cpr di Ponte Galeria, pochi mesi fa un ragazzo della Guinea si è tolto la vita, lasciando scritto sul muro il suo ultimo desiderio: che il suo corpo tornasse a casa dalla madre”. Nella sua relazione, il garante esponeva i dati relativi alla popolazione degli istituti penitenziari del Lazio, tra cui l’istituto penale minorile Casal del Marmo, le Rems e Ponte Galeria, e concludeva l’intervento con le raccomandazioni indirizzate alle amministrazioni e autorità competenti, individuando i campi di intervento più urgenti nella responsabilità della Regione: l’assistenza sanitaria, le politiche attive del lavoro e la programmazione dell’intervento sociale. E due giorni fa - trascorsa un’estate in cui le cronache hanno registrato altri episodi drammatici nelle carceri, tra cui i recenti disordini all’interno di Regina Coeli, con aree vandalizzate, celle incendiate e detenuti ustionati - il presidente di centrodestra del Lazio, Francesco Rocca, ha fatto visita al penitenziario per “essere al fianco di chi”, ha detto, “nonostante le enormi difficoltà quotidiane e dopo i tumulti dei giorni scorsi, lavora per garantire condizioni dignitose ai detenuti”. “In questo carcere il sovraffollamento raggiunge picchi del 185 per cento”, ha aggiunto Rocca, “il personale di Polizia penitenziaria e quello sanitario sono in grande sofferenza; tuttavia assolvono al loro dovere con dedizione e tenacia”. Ma che cosa può fare in concreto la Regione? Per il governatore “le strutture penitenziarie del Lazio necessitano di attenzione e di una riorganizzazione puntuale. A mio avviso Regina Coeli dovrebbe essere chiusa ma, vista la carenza di posti e in questa fase di riorganizzazione generale delle strutture penitenziarie, una strada percorribile potrebbe essere quella di trasformarla in casa di reclusione, utilizzando invece Rebibbia come carcere giudiziario”. Resta l’urgenza di un piano strutturato di risanamento degli istituti e di adeguamento normativo per servizi e percorsi di formazione professionali. Verona. “Più personale e migliori condizioni per il carcere di Montorio” veronatomorrow.it, 5 settembre 2024 I Consiglieri regionali Tomas Piccinini ed Enrico Corsi hanno recentemente effettuato una visita presso l’istituto penitenziario di Montorio, a Verona, e hanno lanciato un appello per affrontare una situazione divenuta ormai insostenibile sia per i detenuti che per il personale. Le condizioni critiche all’interno del carcere sono state denunciate da diverse organizzazioni, tra cui Alsippe (Alleanza sindacale polizia penitenziaria) e la Camera Penale, e sono state ulteriormente aggravate dal sovraffollamento e dalle condizioni di vita precarie. Secondo i dati forniti, a fine giugno, il carcere ospitava 608 detenuti, quasi il doppio rispetto alla capienza massima prevista di 335 persone. Questo sovraffollamento ha creato una situazione estremamente tesa all’interno della struttura, con episodi sempre più frequenti di violenza e autolesionismo tra i detenuti. Tomas Piccinini, consigliere di Veneta Autonomia, ha sottolineato come questa condizione crei un ambiente di lavoro insostenibile per gli agenti penitenziari, che si trovano a dover gestire un numero eccessivo di detenuti, spesso caratterizzati da problematiche psichiche o comportamentali. Le richieste dei consiglieri regionali si concentrano su due aspetti principali: l’aumento del personale penitenziario e il miglioramento delle condizioni di abitabilità per i detenuti. Piccinini ha evidenziato come sia fondamentale alleggerire il carico di lavoro degli agenti, aumentando il numero di operatori all’interno della struttura, per ridurre i rischi e lo stress a cui sono quotidianamente esposti. Inoltre, ha insistito sulla necessità di migliorare le condizioni di vita dei detenuti, per ridurre la tensione e prevenire episodi di violenza. Enrico Corsi, consigliere della Lega, ha collegato parte dei problemi del carcere alla mancanza di una politica migratoria efficace, che contribuisce al sovraffollamento delle carceri. Nel carcere di Montorio sono rappresentate oltre 40 nazionalità diverse tra i detenuti, con conseguenti difficoltà legate alla gestione delle diversità linguistiche, religiose e alimentari. Corsi ha sottolineato l’importanza di strutturare un sistema di accoglienza controllato e virtuoso, che possa prevenire ulteriori complicazioni legate all’immigrazione e ridurre il numero di detenuti stranieri nelle carceri italiane. In conclusione, i consiglieri regionali hanno richiesto interventi immediati e concreti per risolvere una situazione che potrebbe peggiorare ulteriormente se non affrontata in modo adeguato. L’obiettivo è quello di migliorare la qualità della vita all’interno del carcere, sia per i detenuti che per il personale, attraverso un aumento delle risorse umane e un miglioramento delle infrastrutture. Parma. La parlamentare del M5S Stefania Ascari in visita al carcere: “Situazione drammatica” di Chiara Corradi ilparmense.net, 5 settembre 2024 “Le carceri non sono discariche sociali, ma devono essere luoghi di umanità”. Il giorno di Ferragosto un detenuto di 36 anni si è suicidato nel carcere di Parma. Si tratta del terzo caso di suicidio all’interno delle mura della casa circondariale cittadina da inizio 2023. Nell’arco dell’anno, a livello nazionale, sono stati 67 i suicidi di detenuti. Nei mesi scorsi, a Parma, c’era anche stata una protesta pacifica di 114 detenuti della sezione Alta Sicurezza che, con lo sciopero della fame, avevano voluto porre attenzione sulle problematiche strutturali ed assistenziali del complesso. Stefania Ascari, parlamentare del Movimento 5 Stelle eletta nel collegio dell’Emilia Romagna, ha fatto visita all’istituto penitenziario di Parma insieme a Simone Guernelli, esponente locale del Movimento. La visita - senza preavviso - è stata l’occasione per vedere le condizioni del carcere, annotare le criticità e poi portare in una relazione al Ministero della Giustizia. L’abbiamo intervistata - in questa prima puntata di un’inchiesta che porterà i nostri lettori a conoscere la realtà del carcere di Parma - per farci raccontare qual è la situazione. Recentemente è stata in ispezione al carcere di Parma: quali sono le condizioni dei detenuti? Quali le criticità più importanti? Sì, a seguito del suicidio di un detenuto avvenuto nel giorno di ferragosto, ho deciso di fare una nuova ispezione al carcere di Parma assieme al collega Simone Guernelli. La situazione che abbiamo trovato è drammatica tanto per i detenuti quanto per chi nel carcere ci lavora. Celle vecchie, maleodoranti e sovraffollate, caldo insopportabile, bagni indecorosi, assenza di progetti lavorativi ed educativi. Una carcerazione nella carcerazione. E la polizia penitenziaria, già in carenza di personale, si trova a sua volta costretta a sopperire alla mancanza di psicologi, psichiatri ed educatori e a cercare di fornire ogni tipo di supporto trovandosi così allo stremo delle forze. Impossibile lavorare bene in queste condizioni. Segnalerò quanto visto al Ministero della Giustizia. Ha avuto modo anche di vedere i reparti del 41/bis? Lì come è la situazione? Sì, e purtroppo ho verificato che dal punto di vista strutturale non sono a norma perché non viene assicurata l’impermeabilità delle comunicazioni. Un problema comune al resto del Paese su cui ho avuto modo di scrivere anche una relazione in Commissione Antimafia: delle 12 sezioni del 41/bis presenti in Italia nessuna è a norma, tranne Bancali-Sassari. Ciò significa che le mafie continuano a comandare anche negli istituti di pena. Quali migliorie strutturali andrebbero apportate per migliorare le condizioni di detenzione? Le carceri non sono discariche sociali, ma devono essere luoghi di umanità. Si chiede che siano vivibili e dignitose. Chi è detenuto sta già scontando la sua pena, non dobbiamo infliggergliene un’altra. Inoltre se le condizioni sono queste, i percorsi di rieducazione difficilmente si rivelano efficaci. Infatti in media 7 detenuti su 10, una volta in libertà, commettono di nuovo reati. Dal punto di vista umano e relazionale come viene gestita la situazione? Ci sono attività per il recupero e il reinserimento dei detenuti? O eventuali laboratori che possono fare durante la detenzione? No, mancano progetti lavorativi e ricreativi perché non si investono sufficienti risorse umane ed economiche nelle carceri. Non ci sono abbastanza assunzioni di operatori giuridico-pedagogici, mediatori culturali, personale sanitario, psicologi per incrementare l’attività trattamentale. Oltre la metà dei soggetti che si tolgono la vita, lo fa nei primi mesi di detenzione, perché l’impatto con il carcere è devastante, quindi sono necessari un supporto psicologico e attività rieducative costanti. Ha parlato con la direzione o con il garante dei detenuti in merito alla situazione del carcere di Parma e anche al recente suicidio? Purtroppo non c’è stata la possibilità, ma mi metterò in contatto al più presto con il garante dei detenuti. Secondo lei cosa servirebbe, a livello normativo, per migliorare le carceri italiane? Servono risorse economiche e umane ed è fondamentale intervenire sul lavoro per la riduzione della recidiva e per favorire la rieducazione, anche attraverso progetti che comprendano, ad esempio, il teatro e lo sport utili per insegnare il rispetto delle regole e degli altri, a fare squadra, a canalizzare l’aggressività. E poi la polizia penitenziaria deve essere potenziata e lo stress psicofisico a cui è sottoposta deve essere alleggerito: non si parla abbastanza dei suicidi anche nelle forze dell’ordine e armate su cui ho presentato una proposta di legge per l’istituzione di una commissione di inchiesta. Il carcere deve essere luogo di recupero e di reinserimento sociale in grado di offrire un’occasione di riscatto per chi ha sbagliato e speranza per il futuro. Oggi purtroppo non è così. Napoli. L’on. Ferrante all’Ipm di Nisida: “Luci e ombre, serve impegno per valorizzare istituto” dentrosalerno.it, 5 settembre 2024 “Ho voluto visitare l’istituto penitenziario per minori di Nisida per accendere i riflettori su una struttura che merita tutta l’attenzione delle istituzioni. Ho trovato una situazione complessa, fatta di luci ed ombre, con criticità che vanno affrontate e risolte ma anche con molti aspetti positivi da consolidare e sui quali occorre investire. Serve il massimo impegno da parte dello Stato per valorizzare un istituto come quello di Nisida in grado di offrire ai ragazzi, che hanno smarrito la strada, l’occasione di riscattarsi e iniziare un nuovo percorso di vita”. Lo dichiara il deputato di Forza Italia e Sottosegretario di Stato al Mit, Tullio Ferrante, a margine della visita che ha effettuato presso l’Istituto Penale per i minorenni di Nisida (NA). Ferrante ha incontrato il direttore del carcere, Gianluca Guida, il comandante degli Agenti di Polizia penitenziaria, Eleonora Ascione, il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, nonché una rappresentanza dei detenuti e del personale della struttura. “La realtà carceraria che riguarda i minori è particolarmente delicata e, per questo, richiede sforzi ancora maggiori per garantire adeguate condizioni detentive ai giovani detenuti insieme alla funzione rieducativa della pena, che mai come in questo caso dev’essere pienamente garantita. Il carcere di Nisida - aggiunge Ferrante - è in questo senso un istituto modello: vengono svolte tantissime attività formative, didattiche e professionalizzanti che favoriscono la risocializzazione dei minori. Voglio esprimere la mia sincera gratitudine al direttore Guida, e per il suo tramite a tutti gli operatori della struttura, per lo straordinario lavoro portato avanti con l’obiettivo di accompagnare i giovani detenuti verso il reinserimento sociale. Tuttavia l’istituto ospita attualmente 73 detenuti che sono in sovrannumero rispetto allo standard ottimale, con la presenza di ragazzi di diversa estrazione culturale che causa notevoli problemi di integrazione. Di contro il personale di Polizia Penitenziaria, che di fatto si attesta sulle circa 50 unità effettive a fronte di un organico previsto pari a 90 unità, va necessariamente potenziato. Un punto fondamentale è poi il tema della salute mentale, che all’interno di un istituto penale minorile è ancora più delicato: chiederò espressamente azioni concrete per assicurare che nel carcere di Nisida venga fornita l’assistenza psichiatrica adeguata alle necessità dei giovani detenuti. Anche sul piano degli interventi infrastrutturali, oltre quelli già in corso per la messa in sicurezza e quelli occorrenti per una manutenzione straordinaria ormai improcrastinabile, mi farò carico di interessare il Ministero della Giustizia e quello della Cultura per avviare i lavori di ripristino del teatro voluto da Eduardo De Filippo all’interno del carcere: un piccolo gioiello che deve tornare a disposizione dei minori. Nisida rappresenta un piccolo mondo che mette al centro la qualità del percorso di recupero offerto ai minori detenuti: è l’isola della seconda possibilità ed è nostro dovere - conclude Ferrante- lavorare per risolvere le criticità esistenti e garantire la piena efficacia di un istituto che prepara i ragazzi ad essere nuovamente accolti nella nostra comunità, verso quel mare che dà loro speranza e che li aspetta fuori”. Torino. Detenuti in carcere a caccia di farmaci? “Il Rivotril è di moda” di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 5 settembre 2024 Ne abbiamo parlato con Roberto Testi, medico legale e responsabile Asl per la struttura penitenziaria. “Per i detenuti stesso trattamento dei cittadini liberi”. “C’è un solo posto dove una persona preferisce stare male, piuttosto che bene: il carcere”. Parole forti quelle di Roberto Testi, medico legale e responsabile Asl per la struttura penitenziaria. Qualche settimana fa il sindacato di polizia penitenziaria descriveva una situazione dove diversi detenuti cercavano di farsi portare all’ospedale alla ricerca di farmaci. “Sicuramente in alcuni casi è vero” conferma Testi. Ma come funziona l’accesso alle strutture ospedaliere per i ristretti? “È importante assicurare ai detenuti lo stesso trattamento che è riservato ai cittadini liberi” attacca. “In carcere comanda la droga” i racconti di Andrea, detenuto uscito qualche settimana fa - Il 37enne è italiano e la prima volta in cui è finito in un penitenziario faceva le scuole medie. Eppure arriva da una famiglia per bene e in pagella aveva ottimi voti in tutte le materia (a parte la condotta. “Ecco perché se un detenuto segnala di stare male la prima cosa da fare è una visita - che viene effettuata all’interno del penitenziario - e poi nel caso viene predisposta una scorta che lo accompagna in ospedale. Diversi sono i casi dove l’invio al pronto soccorso è stato decisivo per preservare la vita del detenuto. In alcune situazioni sono stati letteralmente presi per i capelli”. In media, ogni mese, sono 20 le uscite dirette al pronto soccorso. Poi ci sono le visite programmate. “Sei al giorno. Esami prescritti dal sottoscritto o da colleghi. Una tac, un esame specifico: quello che serve. Anche in questo caso ovviamente il detenuto viene scortato”. C’è da specificare che come per le persone libere, anche per i ristretti ci sono tempi di attesa che riguardano la sanità. E se il dottore riducesse le uscite sicuramente inciderebbe meno sulla penitenziaria che deve scortarli -però allungherebbe i tempi di attesa non solo di chi deve essere visitato ma anche degli altri. Un cane che si morde la coda, in quanto come abbiamo spesso ripetuto la polizia penitenziaria è allo stremo in quanto mancano le unità. Al Lorusso e Cutugno ci sono sei persone dializzate e diversi cardiopatici. “Abbiamo diversi detenuti che soffrono di problemi di salute”. E dire che il carcere di Torino eccelle a livello sanitario. Infatti sono tanti i ristretti che vengono inviati da altre città proprio al penitenziario torinese. Con il dottore parliamo anche del problema di abuso di sostanze “Fino a un po’ di anni fa il tossico era per eccellenza colui che faceva uso di droghe. Oggi c’è un nuovo fenomeno e riguarda gli psicofarmaci. Nella farmacia del carcere io non ho il Rivotril, farmaco molto “di moda” attualmente”. Intervistando un ex detenuto ci era stato detto che spesso quelle pasticche diventano vera e propria merce di scambio. “In carcere tutto lo diventa” aveva raccontato Andrea. “Si, purtroppo è così. E i costi degli psicofarmaci incidono tantissimo sui bilanci” ammette Testi. Al suo arrivo ai nuovi giunti un detenuto viene visitato subito. Se prima di entrare stava seguendo una terapia farmacologica allora questa continua anche durante il periodo di detenzione. Le visite dagli specialisti sono pagate dai detenuti: ad esempio, chi viene arrestato e aveva un suo dentista può continuare dallo stesso dottore. Intanto lunedì alle Vallette ci sono state nuove proteste: praticamente tutto il blocco B si è rifiutato di rientrare in cella e si sono ammassati chiedendo di parlare con la direttrice in merito alle risse dei giorni scorsi tra albanesi e magrebini. Disordini anche a Biella dove detenuti lanciavano oggetti incendiati nei corridoi e un ristretto ha puntato un oggetto contundente al collo di un agente. “Aspettiamo il morto?” chiede il leader di Osapp, Leo Beneduci. Bologna. Pasti degni in carcere. Un altro diritto negato di quel mondo a parte di Raffaella Collina, Roberto Morgantini e Andrea Segrè* Corriere di Bologna, 5 settembre 2024 Il 30 agosto abbiamo portato il pranzo a un gruppo di detenuti nel carcere della Dozza. Varcata la soglia, lasciati cellulari e documenti, si entra davvero in un altro mondo. Un mondo a parte, senza più identità. Lo ascolti nelle voci che escono dalle celle, lo vedi nei vestiti variopinti appesi alle finestre sbarrate, lo senti nei cancelli che si aprono e chiudono al tuo passaggio. Nella sala cinema ci siamo trovati con una trentina di uomini, di ogni età e diverse origini. A ognuno abbiamo dato un piatto con il cibo preparato da Raffaella. C’è chi ha mangiato due volte il primo, chi tre volte il secondo, chi ha portato il dolce in cella. In cambio ognuno di loro ci ha detto una parola, anche solo “grazie” con accenti sempre diversi. Una ricchezza, questa diversità, che si vede a tavola quando si mangia assieme. È così è stato per loro, finalmente riuniti attorno a un tavolo in quattro, in sei, in otto. Un sovraffollamento, questo sì, che crea legame, relazione, condivisione, convivialità. Seppure in una cucina, è proprio il caso di dire, in massima sicurezza. Tutto è durato due ore, proprio il tempo di un film. Poi le luci si sono spente e gli attori “esterni” se ne sono andati. Mentre quelli interni sono rimasti e continueranno a vivere e a mangiare nel carcere come prima: male. Tranne chi può permetterselo: un’altra diversità, un’altra ricchezza, un’ulteriore disuguaglianza. A noi, e non è la prima volta che andiamo a vedere come si mangia solitamente in carcere, è rimasta la certezza che qui si nega un altro diritto: il diritto al cibo. Perché mangiare bene, in quantità e qualità sufficiente, nutriente, compatibile culturalmente dovrebbe essere un diritto. Anzi lo è, se è vero che il diritto al cibo viene riconosciuto nella Dichiarazione universale dei diritti umani. Non è accettabile che in questo mondo a parte, ristretto, ma pieno di umanità, non si riesca a garantire almeno un pasto adeguato, tutti i giorni dell’anno. Dobbiamo fare qualcosa, anche se sappiamo bene che si tratta di un contesto molto difficile. Qualcosa di più di attirare l’attenzione delle istituzioni. È un impegno. Grazie alle guardie carcerarie, all’educatrice Valentina e alla direttrice Rosa Alba Casella che dedicano la loro vita professionale agli istituti penitenziari. *Cucine Popolari di Bologna Milano. Artigianato: il carcere apre le porte di Roberta Rampini Il Giorno, 5 settembre 2024 Il carcere di Bollate apre le porte per mostrare i prodotti artigianali realizzati dai detenuti. L’appuntamento con la mostra-mercato è organizzato dall’associazione di volontariato Catena in Movimento, creata da persone detenute nel VII reparto del carcere, in collaborazione con la direzione della casa di reclusione e con il patrocinio del ministero della Giustizia, della Città Metropolitana, del Comune di Milano, oltre al sostegno istituzionale del Dap e del Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Milano. Sabato 21 settembre chi lo desidera, previa iscrizione sul sito www.catenainmovimento.com, può varcare la soglia del carcere per avvicinarsi a questo mondo e conoscere le abilità dei detenuti in vari campi, dall’artigianato alla gastronomia (pasticceria), dalle produzioni artistiche del laboratorio Artemisia alle performance musicali del gruppo Behind Team del 7° reparto. “Questo evento ha come obiettivo promuovere l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti, avvicinando la cittadinanza alla realtà carceraria attraverso il lavoro artigianale - spiegano gli organizzatori - Oltre 30 detenuti, impegnati da mesi nella preparazione, esporranno i loro manufatti artigianali realizzati nei laboratori del carcere con il coordinamento di Catena in Movimento. Tra gli articoli in mostra ci saranno prodotti di sartoria, falegnameria, accessori di bigiotteria, borse, zaini e portacarte in pelle. Alcuni di questi oggetti hanno preso vita nel laboratorio di Catena in Movimento a Trezzano sul Naviglio grazie al lavoro di alcuni detenuti in articolo 21 già assunti, poi sono stati assemblati all’interno del carcere”. Il ricavato delle vendite dei prodotti sarà utilizzato per creare nuovi posti di lavoro per i detenuti e per l’acquisto di beni di uso comune all’interno del carcere. Gorizia. Le porte del carcere si riaprono col teatro, ritorna lo spettacolo dei detenuti di Timothy Dissegna ilgoriziano.it, 5 settembre 2024 Presentata la rassegna che partirà a metà settembre e proseguirà fino a ottobre, arriva l’iniziativa del libro sospeso per regalare un volume al carcere. Ritorna l’appuntamento che unisce le anime culturali e sociali del teatro, in un intreccio che apre reciprocamente quel luogo invisibile ai più: il carcere. Da settembre a ottobre andrà in scena a Gorizia la quinta edizione di “Se io fossi Caino”, festival di teatro e arte ideato da Fierascena presentato questa mattina in municipio. Proprio per questa sua doppia anima, per illustrare il programma oltre alla direttrice artistica Elisa Menon c’erano anche gli assessori al welfare, Silvana Romano, e alla cultura, Fabrizio Oreti. Il progetto, come ha ricordato Menon, va avanti dal 2016 e “si è sviluppato affinché fosse coerente e integrato con la città”, aprendo uno squarcio oltre quelle mura che costeggiano via Barzellini. Proprio quel piccolo carcere diventa così il luogo ideale per sperimentare, andando oltre a un’idea di assistenzialismo tout court verso le persone rinchiuse dietro le sbarre, aprendo allo stesso tempo “spazi ulteriori su ciò che pensiamo sia il carcere”. Un lavoro portato avanti insieme a Caritas e Comune, con il contributo economico della Regione. L’aspetto sociale emergerà fin da subito con il primo evento in programma, il 14 settembre riservato ai detenuti e alle loro famiglie: i bambini potranno entrare nella struttura per trascorrere una giornata con i padri, assistendo allo spettacolo di burattini di Michele Polo. Aspetto sottolineato da Romano, questo, rilevando come a Gorizia ci siano 41 detenuti con figli e 84 bambini. Oreti, dal canto suo, ha evidenziato come “troppe volte la cultura è vista solo come occupazione del tempo libero, invece può cambiare un aspetto della nostra vita quotidiana”. Gli appuntamenti aperti al pubblico, invece, saranno sabato 21 e mercoledì 25 settembre. La prima data vedrà la messa in scena dello spettacolo diretto dalla stessa Menon, Effetto Bosco, che ha coinvolto una decina di detenuti (sette saranno in scena, due sono usciti nel frattempo e un altro ha ottenuto il regime di semi-libertà) grazie anche alle docenze offerte dall’ente di formazione professionalizzate Soform. Partiti da gennaio, il debutto è atteso alle 14 e per poter assistervi è richiesta la prenotazione entro le 12 di giovedì 12 settembre: il modulo è online su www.fierascena.org. Analoga procedura anche per il secondo appuntamento, che vedrà protagonista il mago-comico Luca Regina alle 14: ha lavorato in tutti i principali Festival di teatro di strada in Italia e in Europa, al New Orleans Fringe Festival, in Messico per la Caruana de la Risa, in Bosnia per progetti di recupero post bellici. Entrambi gli appuntamenti saranno nel cortile interno della casa circondariale. Lunedì 23 settembre, invece, lo spettacolo sarà riservato ai detenuti con la proiezione del film La seconda vita, alla presenza del regista Vito Palmieri con la collaborazione del Kinemax. L’ultimo evento teatrale del Festival si terrà a ottobre, in data ancora da fissare, all’Auditorium della cultura friulana di via Roma dove andrà in scena in matinée lo spettacolo Il giovane criminale, di e con Salvatore Striano, ex detenuto e oggi attore di cinema e teatro che ha lavorato con Matteo Garrone, i fratelli Taviani e molti altri. Lo spettacolo è organizzato per gli alunni delle scuole di Gorizia e provincia ma sarà comunque possibile accedere fino a esaurimento posti disponibili. “Se io fossi Caino” ha anche in programma un seminario di formazione sul teatro in carcere, con partecipanti attesi da tutta Italia e al cui termine verranno selezionati alcuni allievi per seguire la rassegna. A ottobre saranno poi organizzati tre appuntamenti aperti al pubblico dal titolo “Aria e luce. Il teatro in carcere: istruzioni per l’uso”, per offrire uno sguardo non standardizzato sul luogo carcere attraverso il racconto delle complessità che esso incarna. Infine, spazio all’iniziativa del Libro sospeso, realizzata in collaborazione con la libreria Ubik di Gorizia, presso la quale sarà possibile acquistare un libro da donare alla biblioteca del carcere allegando una propria recensione. I testi saranno poi inclusi in un catalogo a disposizione degli stessi detenuti. Da segnalare anche la distribuzione di Numero 8, il magazine del Festival che sarà redatto dai detenuti sotto la direzione di Marco Bisiach, giornalista de Il Piccolo, e distribuito durante gli incontri di restituzione dei risultati. Torino. Non solo suicidi e degrado: l’arte e il teatro per alleviare la sofferenza dei detenuti torinoggi.it, 5 settembre 2024 Al Lorusso-Cutugno è in corso un progetto di performing art organizzato dall’associazione Avvalorado e dalla cooperativa Barbara B con la conduzione dell’attore e regista Beppe Rosso. Che la situazione delle carceri italiane sia critica è sotto gli occhi di tutti: tra suicidi e atti di violenza, acuiti dal sovraffollamento con detenuti e lavoratori esasperati dal caldo torrido dei mesi estivi, le cronache quasi quotidianamente sottolineano condizioni di vita al limite dell’impossibile. La situazione, come noto, interessa anche il “Lorusso-Cutugno” di Torino dove, però, c’è chi cerca di fare qualcosa per alleviare la sofferenza. Teatro in carcere - Stiamo parlando, nello specifico, dell’associazione Avvalorando e della cooperativa Barbara B, che insieme portando avanti proprio nella Casa Circondariale delle Vallette un progetto di teatro che coinvolge giovani detenuti: l’idea parte da un’indagine realizzata nel 2022 (“Giovani dentro e fuori” a cura di Monica Cristina Gallo e Cecilia Blengino, ndr). Il documento mette in evidenza come gli stessi siano più vulnerabili anche perché inseriti in un sistema scarsamente riabilitativo, poco votato alla relazione e povero di iniziative culturali: “Questa proposta - sottolineano i promotori - prende forma dalla constatazione di un insieme di emergenze e di urgenze che hanno a che fare con la condizione dei giovani adulti detenuti: all’interno del carcere, infatti, sperimentano una condizione di isolamento e atomizzazione che andrebbe sanata. Chi necessiterebbe di specifiche attenzioni, infatti, risulta destinatario dello stesso trattamento dedicato alle persone adulte, caratterizzato da tempo vuoto e sofferenza”. I benefici sui giovani detenuti - A quanto appena descritto si aggiunge un’altra riflessione, che considera fondamentali i benefici dell’iniziativa alla luce delle caratteristiche dell’attuale offerta culturale: “I percorsi - proseguono - offerti all’interno del carcere, per quanto essenziali, spesso non permettono ai giovani detenuti di raggiungere livelli soddisfacenti di realizzazione personale perché non aderiscono alle loro aspirazioni ed inclinazioni. I percorsi educativi, al contempo, non sono in grado di mettere in discussione la loro interpretazione della realtà e la loro definizione del sé, impedendo la costruzione collettiva di nuovi modelli di significazione del mondo”. Il laboratorio con Beppe Rosso - Il laboratorio di performing art, di durata biennale, è iniziato lo scorso 12 aprile ed è andato avanti tutta l’estate a cadenza settimanale (gli incontri durano 2 ore) coinvolgendo una media di 7/8 partecipanti inseriti nel Padiglione B di età compresa tra 18 e 25 anni. La conduzione è stata affidata al regista e attore teatrale Beppe Rosso e dalla psicologa Eloisa Cotza in collaborazione con gli operatori Alessandro Di Mauro, Yuri D’Agostino, Raffaele Musella, Monica Battaglia e Carolina Dardano: “L’obiettivo - concludono - concreto è quello di portarli in scena in un teatro torinese, mentre quello più ambizioso sarà quello di risvegliarli emotivamente affinché possano sentire il proprio ‘dentro’, riuscire ad aderirvi e farlo risuonare ‘al di fuori’. Portarli alla ribalta potrebbe anche riconciliarli con la comunità locale”. Ulteriori sviluppi - Ma non finisce qui, perché per il futuro è stata presentata una proposta per dipingere un murale all’interno del padiglione femminile con il coinvolgimento delle detenute; l’opera verrebbe realizzata con la collaborazione del Museo d’Arte Urbana di Torino e la supervisione dell’artista Francesca Nigra. La banalità di non trovare un perché di Mauro Magatti Corriere della Sera, 5 settembre 2024 La solitudine: le reti relazionali (famiglia, scuola, sport) sono slabbrate. Noi adulti abbiamo sempre meno tempo per stare con i nostri ragazzi. La mancanza di motivazione è ciò che accomuna gli ultimi due terribili fatti di cronaca che hanno sconvolto l’opinione pubblica. “Non so perché l’ho uccisa”, così avrebbe detto Moussa Sangare agli inquirenti che gli chiedevano conto dell’accoltellamento di Sarah. Mancanza di un perché che ritorna anche nella drammatica vicenda di Riccardo, il diciassettenne milanese che ha sterminato la sua famiglia. I due casi di cronaca rimandano, in condizioni storiche del tutto diverse, alla riflessione di Hannah Arendt sulla “banalità del male”. “Non so perché l’ho fatto” dice che lo stato confusionale in cui si sono ritrovati Moussa e Riccardo era arrivato al punto da aver reso indistinguibile ai loro occhi il bene dal male, la fantasia dalla realtà. Una perdita di senso dentro vite apparentemente normali. La determinazione del “perché” è compito difficile e pericoloso. Per delle buone ragioni, le nostre società hanno sviluppato una vera e propria allergia nei confronti di tutti i regimi etici che vogliono imporre la loro idea di verità. Il senso della vita, il perché di quello che si fa é prerogativa della singola persona. Di conseguenza, la nostra organizzazione sociale si concentra (per la verità sempre più ossessivamente) sui mezzi: accrescere le possibilità di vita (attraverso l’innovazione tecnologica, la crescita economica, i diritti individuali) è la precondizione per la libera scelta dei propri scopi. Arrivare a darsi un perché non è però compito facile. Né tanto meno qualcosa che si fa in solitudine. É solo in rapporto ai contesti relazionali, istituzionali e culturali in cui viviamo, alla loro qualità, alla loro capacità di permettere il riconoscimento di quello che siamo che è possibile arrivare a portare a termine quello che è uno dei compiti fondamentali del vivere. Quello che sappiamo di Moussa Sangare è che aveva cercato la strada del successo nella musica. Una via che ha sfiorato e per un po’ anche accarezzato. Senza riuscirci però. Ritrovandosi poi a gestire la delusione - con la relativa invidia - di conoscere chi il successo invece lo ha ottenuto. Da lì, come lasciano capire i racconti della sorella, Sangare ha cominciato a perdersi: come reggere una vita qualunque, condannata all’anonimato, all’insignificanza? Anche perché la sua famiglia - unico punto di riferimento - non aveva gli strumenti e le risorse per fermare quella deriva che lo ha portato a compiere un omicidio senza perché. Di Riccardo sappiamo troppo poco. E sarebbe sciacallaggio voler scandagliare la vita di una famiglia come tante. Ci vorrà del tempo per capire la ragioni di quello che è successo. Quello che però sappiamo è che la pandemia di disagio psicologico sta colpendo tanti adolescenti. Le ricerche fatte in questi anni arrivano tutte alla medesima conclusione: l’ambiente digitale da una parte isola, riducendo le esperienze concrete in cui apprendiamo la fatica e la bellezza dello stare con gli altri e del farci accettare per quello che siamo; dall’altra manda in tilt l’immaginario, fino al punto da far sfumare la differenza tra reale e irreale. In una società iperstimolata e ingabbiata in quello che Byung-chul Han chiama “l’eccesso di positività” - dove tutto, cioè, deve essere perfetto - la sofferenza psichica di tanti ragazzi si sviluppa nel nascondimento della propria interiorità. Anche perché le reti relazionali (famiglia, scuola, sport, ma anche gruppo dei pari) sono sempre più slabbrate. Noi adulti abbiamo sempre meno tempo per stare con i ragazzi. La mancanza di un perché è una cifra del nostro tempo. E forse non è a caso che, ai margini della nostra società, laddove le condizioni per riuscire a darsi da sé il senso sono più fragili - a partire proprio dai più giovani - il disorientamento esistenziale si trasforma in una precondizione per un male che si nasconde sotto le spoglie di una banalità che lo rende irriconoscibile. “Non era stupido: era semplicemente senza idee e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo”. Così scrive Hannah Arendt a proposito di Adolf Eichman, il mediocre impiegato che partecipò al genocidio per obbedienza burocratica ai comandi ricevuti. Oggi, nel caos della società contemporanea, la banalità del male ritorna per effetto della confusione che, nell’assenza di ogni perché, arriva fino a non far capire più cosa vuol dire uccidere. Come balene spiaggiate, persi in un’esperienza surrealista, si può arrivare a colpire chi è accanto: un passante casuale o le persone più care. Senza “noi” non c’è più futuro di Mons. Vincenzo Paglia L’Unità, 5 settembre 2024 Viviamo in una società anestetizzata nella quale impera il presente, la brama di “consumare” la vita e di autorealizzarsi. Nessuno pensa più collettivamente. Il risultato? Disumanità, razzismo e nazionalismi. Purtroppo, gli uomini e le donne di questo tempo non sentono più il tema grave della destinazione: né di quella personale, né di quella dei popoli, né di quella dell’intera umanità. E quindi non “aspettiamo” più nulla, schiacciati come siamo in un presente, in un oggi, senza più domani. Purtroppo, però, senza destinazione, non c’è attesa e neppure desiderio. C’è da dire che anche il largo e complesso mondo laico o dei non credenti vive un’asfissia di parole per la mancanza di visioni sul futuro dell’umanità. Il mondo è diventato globale, ma “liquido” (Bauman), senza punti stabili di riferimento. La cultura attuale è la prima nella storia dell’umanità in cui l’apertura a una eternità di pace non è né auspicata né indispensabile per rendere più vivibile la vita sulla terra. Il migrante non a caso è diventato il simbolo della miseria globale: senza terra e senza casa. E da tutti respinto. La globalizzazione è quella della finanza e delle merci, non certo dell’umanità e dello spirito che cercano senso e destinazione. Crescono, invece, i muri, il nazionalismo, il razzismo, l’antisemitismo. Siamo ben lontani dalla visione che il Vangelo propone: le frontiere sono un’illusione e i muri non proteggono; solo i legami, l’alleanza, la pace, la mutua conoscenza fanno vivere con l’altro come fratello e amico. Il ripiegamento nazionalistico è una follia: eppure risorge. Ovunque. La forza della ragione è stata sostituita dalle ragioni della forza. La vecchiaia non è solo età biologica, ma anche età spirituale, tempo di crescita interiore. E in questo senso va rivalutata e persino ripensata e riprogettata. Nel volume “Destinati alla Vita” (Edizioni San Paolo 2023, pp. 220, euro 18,00), mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, si occupa delle domande che riguardano il momento ultimo della nostra esistenza. L’Autore affronta la prospettiva cristiana di una vita che non finisce con la morte, del mistero della risurrezione della carne, della salvezza che va intesa come universale e non individuale, della beatitudine celeste. Di seguito un estratto della Prefazione. Nel Credo cristiano, quando si afferma il futuro dell’uomo, non si parla semplicemente di uno stato di conservazione energetica e luminosa dello spirito e della materia, ma di una destinazione che, nel Simbolo niceno-costantinopolitano viene riassunta in due affermazioni: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”. Sono 1.700 anni che i cristiani, ogni domenica, chiudono la proclamazione della loro fede con l’attesa di questa visione. I padri del Concilio di Nicea (325), convocati dall’imperatore Costantino, redassero questa sintesi del “credo” che avrebbe dovuto rappresentare la spina dorsale della fede cristiana in tutto l’impero. Nelle parole finali, la Chiesa intendeva affermare con solennità la destinazione - riscattata e compiuta - della vita donataci alla nostra nascita. Da quell’inizio, ciascuno di noi ha riempito la sua propria vita di giorni e di anni sino alla sua conclusione (qualunque essa sia). E tutti siamo consapevoli che la nostra vita è il frutto della fatica e delle passioni, dei sacrifici e dei sogni, che abbiamo fatto, personalmente e insieme, per non cedere al nichilismo della morte e ai suoi frutti avvelenati. Purtroppo, gli uomini e le donne di questo tempo non sentono più il tema grave della destinazione: né di quella personale, né di quella dei popoli, né di quella dell’intera umanità. E quindi non “aspettiamo” più nulla, schiacciati come siamo in un presente, in un oggi, senza più domani. Purtroppo, però, senza destinazione, non c’è attesa e neppure desiderio. Per il cristiano, la consapevolezza di una destinazione significa invece cogliere il senso degli anni come una “iniziazione” alla destinazione finale. Pierangelo Sequeri, che affronta con lucidità il tema, si chiede se possa esistere per l’uomo di oggi un futuro senza destinazione. In effetti, la questione che in genere più preoccupa non è la destinazione, la salvezza personale e dell’umanità, bensì la riuscita della propria vita e dei propri affari. Insomma, realizzarsi individualmente! Godere la vita! Questo è l’imperativo dell’esistenza o, se volete, il “vangelo” del mondo. Il rischio? Una folla di uomini e donne in un’affannosa corsa per realizzare desideri e cogliere opportunità per un illusorio godimento. In altre parole, “consumare” la vita, per “realizzarla”! I più vi cadono: affannarsi ad appagare le emozioni. Alla fine vince la rassegnazione. L’orizzonte della “destinazione” (della mia vita e della storia umana e dello stesso creato) è per sua natura drammatico, e sembra non avere più spiriti forti che l’affrontino, né parole appassionate che la raccontino. Intendiamoci, parlare di destinazione significa intendere qualcosa in più del semplice senso della vita. Quante energie abbiamo speso, nei secoli, sul tema dell’origine! E sul futuro? Scrive Sequeri: “Più che cambiato, il futuro sembra evaporato: perlomeno, dico, come orizzonte che orienta il senso della storia verso una svolta che sinteticamente ne raccoglie gli sforzi, inaugurando una nuova epoca dell’avventura umana”. Anche le religioni e la stessa spiritualità si sono lasciate travolgere da una cultura individualista anestetizzante: devono consolare, rassicurare, smussare gli spigoli. Penso in particolare alle innumerevoli sette che, dall’inizio del Novecento, si sono moltiplicate e diffuse ovunque nel mondo: sono ormai scese nel mercato, si fanno concorrenza con varie proposte, mentre le Chiese storiche continuano ad avere la mentalità di sempre. Insomma, l’attesa della “parusìa” - che aveva caratterizzato l’inizio del cristianesimo - sembra essere scomparsa anche nella vita dei cristiani, assieme all’invocazione che chiude l’Apocalisse: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20). Sono finiti anche gli stimoli delle grandi ideologie: la lotta per la giustizia comunista, come anche quella dei cristiani per la salvezza, non mordono più la nostra carne con le passioni del riscatto e della giustizia che cercano un senso ultimo del loro dramma. Le società sono anestetizzate. Sì, resta qua e là qualche movimento di protesta, ma tutti interni a un quadro in realtà dormiente. La fede cristiana si conserva negli angoli, come minoranza (non così creativa come forse vorrebbe, oltretutto: ma al più come obiezione di coscienza nei confronti di un mondo cattivo). L’anestesia della società ha avvolto la cultura di solidarietà: ormai vivere e pensare a se stessi è purtroppo una dolente normalità. Il Censis parla degli italiani come uomini e donne che vivono da “sonnambuli”. Come cristiani non possiamo accontentarci dell’angolo confortato di una società anestetizzata: e magari di qualche complimento, articolo di giornale e premio che pure possiamo ricevere. La testimonianza della “vita eterna” non può ridursi a semplice obiezione di coscienza nei confronti del mondo immorale e godereccio. Né per questo dobbiamo ritornare alla militanza corporativa per la riconquista delle chiavi della città (la terza tentazione che il demonio prospettò a Gesù). C’è da dire che anche il largo e complesso mondo laico o dei non credenti vive un’asfissia di parole per la mancanza di visioni sul futuro dell’umanità. Il mondo è diventato globale, ma “liquido” (Bauman), senza punti stabili di riferimento. La cultura attuale è la prima nella storia dell’umanità in cui l’apertura a una eternità di pace non è né auspicata né indispensabile per rendere più vivibile la vita sulla terra. Il migrante non a caso è diventato il simbolo della miseria globale: senza terra e senza casa. E da tutti respinto. La globalizzazione è quella della finanza e delle merci, non certo dell’umanità e dello spirito che cercano senso e destinazione. Crescono, invece, i muri, il nazionalismo, il razzismo, l’antisemitismo. Quale tristezza vedere la compiacenza nello scartare dalla società anziani, disabili, stranieri, carcerati...! Siamo ben lontani dalla visione che il Vangelo propone: le frontiere sono un’illusione e i muri non proteggono; solo i legami, l’alleanza, la pace, la mutua conoscenza fanno vivere con l’altro come fratello e amico. Il ripiegamento nazionalistico è una follia: eppure risorge. Ovunque. È una febbre che spinge a un futuro separato, a considerare gli altri diversi, estranei, financo nemici. Le ragioni della forza tolgono forza alla ragione: “La volontà di potenza è sempre un ateismo - diceva il filosofo russo Berdiaev - e la volontà di potenza è volontà di uccidere”. L’apostolo Paolo proponeva l’opposto: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Tutti - tutti gli uomini e tutti i popoli di ogni tempo - siamo uno, in Cristo Gesù! È la profezia che i cristiani hanno ricevuto perché a loro volta la proclamino sino ai confini della terra. (…) Il disegno originario di Dio è la destinazione di tutti i popoli alla pienezza della vita. Nella tradizione cristiana, il cosiddetto peccato originale (la famosa “mela”) non è una questione alimentare, è la disobbedienza a Dio per scegliere la propria volontà di potenza, il primato assoluto dell’io sugli altri, con il conseguente spirito di divisione, di separazione, di conflitto. Ecco perché solo una civiltà ecumenica, senza frontiere, è capace di sognare una città - la Gerusalemme celeste, descritta dall’Apocalisse - come comunità di destino. È quello che papa Francesco ha espresso in maniera egregia con le due encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti: una casa comune per tutti e una famiglia plurale che non esclude nessuno. (…) Questa via - la via dell’amore, la via dell’ecumenismo universale, dell’umanesimo planetario - chiede di essere praticata il più largamente possibile e sin da ora. Tutti possono percorrerla perché è assieme particolare e universale. Permette che tutti possano incontrarsi riconoscendo le ricchezze di ciascuno per l’edificazione di tutti. È la storia della salvezza, l’unica storia umana. In questa via dell’amore c’è già tutto. Si può certo parlare di amore laico e di amore religioso, di filantropia e di amore sacro, un dibattito che ha attraversato i secoli, in particolare gli ultimi, quando, per fare un solo esempio, i termini “filantropia” e “solidarietà” venivano coniati esplicitamente in opposizione alla carità cristiana. Era l’ideologia (con l’inevitabile alto tasso di polemica) a dividere gli animi più che la sostanza delle cose. Ma l’amore - l’amore-agape - è sempre amore di Dio. La diversità è nel grado e nell’evidenza. La via dell’ecumenismo dell’amore trova il suo punto più evidente quando si manifesta piegata sui deboli, sui malati, sugli esclusi, sugli indigenti, sui poveri, sulla miseria umana. È la via “santa” nel senso più ampio del termine, perché riesce a unire persone diverse nell’amore per i poveri. Così si trasfigura la storia, come insegna il samaritano della parabola di Luca. Ed era un non credente. L’amore lo spinge a commuoversi, a fermarsi e a farsi carico dell’uomo mezzo morto. L’amore (di Dio) è un’energia interiore che cambia chi lo vive e trasfigura chi lo riceve. Mai, quell’amore, permette di chiudersi in se stessi. È sempre “oltre”, vera energia di libertà da se stessi e dalla mentalità egocentrica. Tale amore contesta in radice l’assolutezza dell’”io”, del proprio clan e persino della propria appartenenza religiosa, compresa quella cristiana. C’è l’altra pagina evangelica di Matteo 25, che il cardinale Martini chiamava il “Vangelo dei non credenti”, e che conferma la “via del samaritano”. L’evangelista scrive esplicitamente che colui che offre il bicchiere d’acqua è un non credente; eppure proprio lui, mentre professa davanti a Dio di non essere credente, si sentirà ripetere: “Quello che hai fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli l’hai fatto a me”. In questa via amoris tutti possiamo ritrovarci, credenti in Dio e credenti solo religiosi, credenti laici e non credenti affatto. Ovviamente, non ci si ritrova per caso su questa strada, ma per scelta; una scelta che impegna. L’istinto (come fidarsi di esso!?) è tirare diritti per la propria via, quella dell’individualismo, come fecero il prete e il sacrestano della parabola; e conosciamo bene quanto sia attuale questa pagina evangelica. L’amore (soprattutto quello per i poveri) è una scelta che scende nelle profondità, che si abbassa fino in fondo. E lì, in fondo, si trova anche Gesù di Nazareth, colui che si è abbassato senza porsi alcun limite. Questo amore è il presente assoluto e l’assoluto futuro. Alla fine della storia, quando tutto avrà termine, non ci sarà più nessuna virtù umana, nessuna divisione, splenderà solo questo amore che sa abbassarsi. Giovani e violenza. I genitori sappiano stare alla larga dai figli adolescenti di Daniele Novara Avvenire, 5 settembre 2024 Proprio ieri ho ricevuto in studio una famiglia con tre figli maschi adolescenti. “Senta dottore, non è che alla fine ci ucciderà tutti?” è la domanda che mi sono sentito rivolgere e che chiarisce bene il momento che stiamo vivendo. La strage di Paderno Dugnano sta creando grande apprensione nei genitori, che spesso vivono già una situazione di fragilità nella gestione del proprio ruolo. Se ciò che è successo a Paderno è un caso limite, per niente rara risulta la naturale tendenza dei ragazzi e delle ragazze a creare con i propri genitori una tensione, una conflittualità, che fa parte della loro vita e della loro crescita. La parola chiave per gli adolescenti è allontanamento, il desiderio di staccarsi dal nido materno, dal controllo, dalla vita che per tutta l’infanzia è dipesa dalle volontà e dai comandi dei loro genitori. Con l’adolescenza si apre un nuovo mondo dove gli adulti non sono più al centro della scena, che viene invece occupata da amici e amiche, dal gruppo e da tutta una serie di interessi estremamente pervasivi. A fronte di genitori che cercano di restare in intimità coi loro figli, questi ribadiscono senza mezzi termini il bisogno di libertà e la necessità di abbandonare il controllo genitoriale per esplorare nuove possibilità. Questo è sempre accaduto, ma perché ora sembra esserci un picco di violenza? In un mondo sempre più narcisista, incapace di tollerare frustrazioni e contrarietà, tanti genitori si sono fatti soggiogare, in totale buona fede, dai miti dell’armonia, del dialogo con gli adolescenti, dell’essere amici dei figli e del condividere tutto con loro. Niente di più lontano dalle loro necessità. Il maternage, la continua ricerca di accudimento e controllo, è un atteggiamento dannoso. specialmente in adolescenza. Serve un cambiamento sostanziale, passando a un approccio basato sulla giusta distanza educativa. Costruire uno spazio che consenta di avere una buona organizzazione, differente da quella usata nei momenti di vita precedenti. Servono paletti chiari che permettano ai figli di agire le loro libertà senza che queste sfocino nel considerare i genitori come dei coetanei. Un’organizzazione educativa basata su paletti chiari rispetto agli orari, all’uso dei dispositivi digitali, agli impegni sportivi e quant’altro. Con limiti che lascino spazio di manovra e che evitino il ricorrere a continui richiami e rimproveri. “Sto alla larga”. Questa è una frase che converrebbe scrivere nelle case dove vivono degli adolescenti. Attenzione, un atteggiamento che non scaturisce dalla paura, ma dal desiderio di consentire loro di crescere e di affrontare le sfide. I genitori dovrebbero impegnarsi per mettere in campo un progetto concreto, pratico, non un profluvio di parole e di spiegoni che non ottengono nulla se non alzare ulteriormente la tensione di una generazione che vuole giustamente superare l’infanzia. Una componente conflittuale è quindi connaturata all’adolescenza ed è anche positiva, ma sempre tenendo a mente la differenza fondamentale tra conflitto e violenza. Perché la capacità di gestione dei conflitti è il miglior antidoto all’uso della forza distruttiva. Nel conflitto si riconosce l’altro e con lui si instaura uno scambio di opinioni che, seppur divergenti, condividono lo stesso campo di gioco. Nel conflitto l’altro viene accettato, con le sue idee e con la possibilità che sia io a dover cambiare posizione. L’eccesso di accudimento sta creando una generazione di ragazzi e ragazze scarsamente propensi a gestire le contrarietà, quelle situazioni in cui gli altri non sono d’accordo con te e le cose non vanno come volevi. Saper gestire la componente conflittuale nelle relazioni, comprese quelle con i genitori, è ciò che consente ai ragazzi di affrontare le sfide della vita. Un processo di apprendimento che riguarda le nuove generazioni, ma che anzitutto riguarda i genitori. Per coltivare le enormi risorse dei loro figli già grandi. Don Gino Rigoldi: “C’è un malessere generazionale, i ragazzi di oggi crescono omologati nel mito del successo” di Gianni Santucci Corriere della Sera, 5 settembre 2024 Le riflessioni dopo la strage di Paderno: “Sono in mano a queste macchinette malefiche. Sono spesso belli, muscolosi, sorridenti, ben vestiti, ma tanto fragili. E rischiano di ritrovarsi soli, in un deserto di cinismo”. “Credo ci siano dei disturbi psichici profondi, che vanno ben oltre il malessere, verranno valutati col tempo”, riflette don Gino Rigoldi, per cinquant’anni cappellano dell’Istituto penale minorile “Beccaria”, da cui ha dato le dimissioni (lasciando il posto a don Claudio Burgio): ma si tratta di un passaggio più che altro formale, perché don Gino e don Claudio continuano a lavorare insieme, come fanno da quasi vent’anni. Ecco, il “Beccaria”, che da qualche anno affronta situazioni di crisi interna, e dove è stato portato quel ragazzo, 17 anni, che nella notte di domenica ha ucciso la sua famiglia a Paderno Dugnano. Davanti ai magistrati ha detto di sentirsi oppresso da un “malessere”, creando una sorta di corto circuito tra quella sensazione così comune e un fatto di sangue tanto atroce. È per provare a dare un contenuto a una discrasia così incolmabile, che bisogna ascoltare le riflessioni di don Rigoldi. Cosa c’è, dentro quel malessere? “In quello specifico di quel ragazzo, ribadisco, c’è un disturbo di ordine diverso. Ma un malessere lo hanno tutti gli adolescenti”. Da cosa deriva? “Hanno bisogno che il proprio valore sia riconosciuto: dagli altri, dai genitori, dai compagni del proprio gruppo; ognuno occupa un posto, o più posti, e deve sentire che questi ambienti rimandano qualcosa. Se questi riconoscimenti non arrivano qualcuno di loro inizia a sentire di non valere”. Questo è un aspetto molto generale. “Vero, ora caliamo questi meccanismi nella cultura che respiriamo ogni giorno: agli adulti, e soprattutto ai ragazzi, che sono meno strutturati, manda di continuo e soltanto messaggi legati a un qualche obbligo di avere successo. Fare strada, porsi obiettivi sempre più alti, soprattutto essere visibili. È una sorta di modalità educativa omologata e generalizzata, indipendentemente dagli obiettivi che vengono perseguiti e magari a volte raggiunti, compresi quelli assolutamente positivi, come studiare e andare bene a scuola”. Cosa si perde in questa omologazione? “Il centro dell’educazione dev’essere la costruzione delle relazioni di comunità, intesa nel senso più ampio del termine, che sia familiare, di coppia, di amicizia. La cura degli amori, che sono relazioni. Si pensa che gli obiettivi educativi siano sempre altri, e che poi la cura degli amori e delle relazioni venga naturalmente, quasi in modo scontato e automatico. E invece non è così”. Gli adulti hanno poca attenzione? “Non è questo. Ce l’hanno. Ma l’adolescente deve sentirsi amato in maniera comprensibile per lui. Viviamo senza testa educativa, a tutti i livelli. “Devi imparare le lingue”, “studiare per trovare lavoro”, va benissimo. Ma chi dice ai ragazzi quanto è importante imparare a volersi bene e a voler bene? A creare comunità come luogo di crescita? Questo è il più grave peccato, ed è in questo vuoto che perdiamo rispetto al mito del successo”. Sarebbe sufficiente per curare il malessere? “È l’unica strada. I ragazzi sono in mano a queste macchinette malefiche, che alimentano questa cultura del successo e del percorso da fare a tutti i costi, senza gli altri o sopra agli altri. Questo è il vero veleno. E non trovano qualcuno che si sieda vicino a loro per chiedere “come stai?”, “come stai con i tuoi amici?”, o che provi a insegnare come diventare “professionista” anche nelle relazioni. Spesso mi infurio con gli educatori: devono voler bene ai ragazzi in senso specifico, non generico”. Vale anche per i genitori? “Senza dubbio, ma i genitori in qualche modo questa conferma di valore ai figli la devono dare per forza; serve che questo avvenga anche altrove. Comunque, tra la famiglia e gli altri ambienti, di educatori ce ne sono tanti, forse anche troppi, ma nessuno educa alla relazione. I ragazzi sono spesso belli, muscolosi, sorridenti, ben vestiti, ma tanto fragili. E rischiano di ritrovarsi soli, in un deserto di cinismo”. Cittadinanza, depositato il referendum in Cassazione di Marika Ikonomu Il Domani, 5 settembre 2024 Pd: “Firmeremo e presenteremo un nuovo progetto di legge”. Diverse organizzazioni di persone con background migratorio e alcuni partiti come +Europa hanno depositato il quesito referendario mercoledì 4 settembre. Dopo i tempi di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, inizierà la raccolta delle 500mila firme. Si chiede di ridurre gli anni di residenza da 10 a 5 necessari per poter fare richiesta. “Volete voi abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione” e lettera f) della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza?”. È questo il quesito referendario depositato mercoledì mattina in Cassazione da un insieme di associazioni, partiti politici e singole personalità politiche e istituzionali. L’articolo 9 della legge sulla cittadinanza, che risale al 1992, richiede 10 anni di residenza legale in Italia per poter presentare domanda di cittadinanza. Questo periodo è riferito ai cittadini di paesi fuori dall’Unione europea, mentre per i cittadini comunitari sono sufficienti quattro anni. Se si voterà “sì” al referendum abrogativo che verrà pubblicato in Gazzetta ufficiale si contribuirà a ridurre la residenza da 10 a 5 anni, così come accade in altri paesi europei e come accadeva anche in Italia prima dell’approvazione della legge ancora in vigore. La legge del 1992 “ha introdotto un’irrazionale penalizzazione per i cittadini di qualsiasi stato extra Ue”, scrivono gli organizzatori della campagna, quando si passò dall’esigere almeno 5 anni all’esigerne almeno 10, “inserendo una facilitazione a 4 anni per i cittadini degli stati Ue, che ovviamente presentano un numero inferiore di domande, visto che la cittadinanza europea si aggiunge alla cittadinanza degli altri stati Ue”. A promuovere il referendum abrogativo, per cui saranno necessarie 500mila firme, associazioni che rappresentano persone con background migratorio come Italiani senza Cittadinanza, Conngi, Idem Network, organizzazioni come Libera, Gruppo Abele, A Buon Diritto, Società della Ragione, e partiti Più Europa, Possibile, Partito Socialista, Radicali Italiani. Anche personalità come Mauro Palma, ex garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, l’ex senatore Luigi Manconi, l’ex parlamentare Pippo Civati hanno sostenuto l’iniziativa. Alla retorica del “prima gli italiani”, rispondiamo con “italiani prima” e con “la speranza e il messaggio positivo delle figlie e dei figli d’Italia”, spiega il deputato e segretario di Più Europa Riccardo Magi all’uscita dalla Cassazione, invitando “tutti coloro che si sono detti favorevoli alla riforma della cittadinanza durante il mese di agosto” a firmare per il referendum abrogativo. La riforma della legge “non riguarda solo chi vive questa condizione, ma il futuro dell’Italia”, prosegue Magi, precisando che questa “riforma ragionevole” avrebbe un impatto maggiore rispetto allo ius scholae. Nella serata di mercoledì anche il Partito democratico ha assicurato - in una dichiarazione di Marwa Mahmoud, responsabile Partecipazione e Formazione politica, e Pierfrancesco Majorino, responsabile Politiche migratorie e Diritto alla casa - la firma al referendum. Mahmoud e Majorino hanno poi aggiunto che serve “una nuova legge coraggiosa e ambiziosa che chiedono da tempo associazioni e movimenti”, di cui hanno discusso con un vasto gruppo di associazioni e movimenti, molti di persone con background migratorio. Per questo, scrivono, “presenteremo una nuova proposta di legge”, a partire dalla mozione presentata alla Camera, “per una riforma organica” che garantisca a chi nasce o cresce in Italia il riconoscimento della cittadinanza. Anche Arci ha deciso di aderire e sostenere l’iniziativa, con l’impegno, “nel poco tempo che ci separa dalla fine di settembre, attraverso la sua rete di circoli e comitati presenti in tutte le regioni”, di contribuire “a raggiungere l’obiettivo, impegnativo ma possibile, di mezzo milione di firme”. “Questo è un appello rivolto agli italiani e alle italiane, a quel popolo che abbiamo vicino nelle scuole, al lavoro, con cui condividiamo delle ambizioni”, dice davanti alla Corte di cassazione Simohamed Kaabour, di Idem Network e un’iniziativa dal basso perché l’Italia riconosca e capitalizzi l’investimento che ha fatto su di noi, che ci siamo formati in questo paese”. Le Olimpiadi, prosegue Kaabour, “sono uno dei tanti esempi di quanto l’investimento sulle persone può rendere”. L’iniziativa costituisce “solo il primo passo, un passo importante, in prospettiva di cambiare e riformare la legge”, spiega poi Daniela Ionita presidente e portavoce dell’associazione Italiani senza cittadinanza. Dimezzando i tempi necessari per poter presentare la domanda si amplia il bacino dei possibili richiedenti. In Italia sono circa 2,3 milioni i cittadini di origine straniera titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo, rilasciato proprio a chi è soggiornante da almeno 5 anni ininterrotti e rispetta una serie di altri requisiti come sul reddito, sulla conoscenza della lingua italiana e sull’assenza di condanne o carichi pendenti. Se lo ius scholae aprirebbe la possibilità di richiedere la cittadinanza a circa 500mila persone, la riduzione degli anni di residenza avrebbe un impatto maggiore, su 2,3 milioni di persone appunto, a cui devono essere aggiunti i figli e le figlie minori conviventi - circa 500mila - che la acquisirebbero automaticamente qualora i genitori ne fossero titolari. Nonostante l’abbaglio estivo sullo ius scholae da parte dell’alleato di governo, il leader di Forza Italia Antonio Tajani, il segretario della Lega continua a percorrere la via della chiusura. Interpellato alla Camera dopo il vertice del partito Matteo Salvini ha spiegato: “Noi stiamo lavorando alla revoca della cittadinanza per gli stranieri che commettono reati gravi”. Una possibilità che esiste già ed era stata introdotta da Salvini, quando era al Viminale, con i decreti sicurezza, relativa solo nei casi di condanna definitiva per reati collegati al terrorismo. La norma è rimasta in vigore anche dopo le modifiche ai decreti sicurezza introdotte dall’ex ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Luigi Manconi: “Cambiamo le regole sulla cittadinanza e rilanciamo lo Ius soli” Marika Ikonomu Il Domani, 5 settembre 2024 L’ex senatore: “Nel 2017 la sinistra è stata pavida. Riproviamoci”. “Questo referendum è un primo passo, che parte dal basso, di un percorso di riforma della legge sulla cittadinanza, che quest’anno compie 32 anni e non tiene “conto degli immensi cambiamenti” sociali che sono avvenuti nel nostro paese, dice Luigi Manconi, ex senatore ed ex presidente della commissione Diritti umani del Senato, tra i promotori di questa iniziativa. Nel quesito referendario si chiede dunque di tornare alla disciplina che esisteva prima del 1992. Votando sì e abrogando parte dell’articolo 9, che prevede il termine dei 10 anni, potrebbero fare richiesta di cittadinanza circa 2,3 milioni di persone. Un bacino che si amplia per chi ha figli minori conviventi, che la acquisirebbero automaticamente qualora i genitori ne divenissero titolari. Oltre a Manconi, a promuovere l’iniziativa le organizzazioni “Italiani senza cittadinanza”, Conngi, Idem Network, Libera, A Buon Diritto, Società della ragione, partiti come + Europa, Possibile, Psi, Radicali italiani e personalità politiche e istituzionali come Mauro Palma, Luigi Ciotti, Emma Bonino, Teresa Bellanova e Pippo Civati. Dopo i tempi tecnici per la pubblicazione del referendum in Gazzetta Ufficiale, partirà la raccolta delle 500mila firme necessarie. Il Partito democratico ha già assicurato che firmerà a sostegno della campagna. “Questo referendum rappresenta una mediazione possibile” tra le varie posizioni politiche, spiega Manconi, mentre lo Ius soli, da lui proposto e difeso con uno sciopero della fame nel 2017, non è stato approvato al termine della scorsa legislatura, “per l’opposizione brutale della destra e per la pavidità di gran parte della sinistra”. Perché è importante promuovere questo referendum? La legge sulla cittadinanza è vecchia di 32 anni, appartiene a un’epoca in cui la presenza straniera in Italia era limitata a poche centinaia di migliaia di persone. Se non sbaglio, nel 1992, data a cui risale l’approvazione della legge, in Italia gli stranieri erano circa 400mila persone. Nel frattempo la presenza è più che decuplicata. La legge deve tener conto degli immensi cambiamenti che questo ha comportato. Inoltre, quella normativa aveva un’ispirazione di tipo restrittivo, selettivo, mirava a contenere e limitare, a ridurre. Invece quanto è successo nel frattempo in Italia deve indurre proprio ad aprire e a tener conto che la società italiana, la sua crisi demografica acutissima e il mercato del lavoro pretendono che la possibilità di accedere alla cittadinanza - da parte di chi vive, studia, lavora in Italia - sia incentivata e non scoraggiata. In 32 anni non si è riusciti a riformare questa legge. Perché? Sono tante le ragioni. La prima, a mio parere, sta probabilmente in quel termine così frequentemente evocato, e che personalmente ritengo sciocco, cioè il termine “divisivo”. Ritengo che nella sfera pubblica, nella sede politica capitino sempre temi divisivi, cioè temi che mettono in discussione l’impianto valoriale e l’ispirazione culturale di diversi soggetti. La politica è per definizione quell’arte che dovrebbe trovare il punto di mediazione, lo spazio per il compromesso. Invece la parola “divisivo” è diventata nella percezione di tanti, nelle parole che si sprecano, una sorta di intimidazione, un tabù intoccabile, qualcosa che suscita allarme invece che sollecitare riflessioni e confronto. Non c’è dubbio che sul tema dell’immigrazione e della cittadinanza le posizioni possano essere e sono molto differenziate. Ma appunto la politica deve intervenire per trovare una mediazione, equilibrata ed equa. Penso che il referendum di cui stiamo parlando rappresenti questa mediazione possibile. Bisogna oltretutto tenere conto che qualora l’Italia assumesse tale posizione, cioè ridurre alla metà il tempo di attesa per poter accedere alla cittadinanza, si farebbe né più né meno che quello che ha fatto nei mesi scorsi la Germania, pur essendo la situazione della Germania oggi afflitta da disoccupazione reale e minacciata, da allarmi sociali, da crisi in campo economico, e non solo, da insorgenza di razzismi e fascismi. Ciononostante una classe politica responsabile ha voluto portare a cinque anni il tempo di attesa per poter accedere al diritto di cittadinanza. Quale paradigma di cittadinanza esiste oggi in Italia e in che direzione bisognerebbe andare? Bisogna trovare un punto di mediazione che consenta la formazione di una maggioranza parlamentare che approvi un disegno di legge equo ed equilibrato. Quello che chiamiamo Ius scholae o Ius culturae è oggi una concreta possibilità. Nel 2017 portammo avanti, direi fino allo stremo, anche perché sostenuta da uno sciopero della fame, una campagna per lo Ius soli. Non ebbe un esito positivo per l’opposizione brutale della destra e per la pavidità della sinistra. Bisogna riprovarci. Qual è il compito della sinistra? Far sì che la legge sulla cittadinanza abbia un impianto non dettato dagli allarmi sociali e dal panico morale, ma dettato da criteri di intelligenza e razionalità. Questi criteri possono essere riassunti in una formula: l’Italia ha bisogno di stranieri, e dunque di stranieri titolari di diritti, e gli stranieri hanno bisogno dell’Italia. In questa reciprocità, nello scoprirsi l’uno necessario all’altro, la sinistra può giocare un compito che è quello di perseguire la tutela dei diritti universali della persona. Per giustizia e umanità: l’abbraccio di Papa Francesco ai migranti di Mauro Magatti Avvenire, 5 settembre 2024 Il film “La zona di interesse”, Oscar come miglior film straniero e vincitore del premio speciale della giuria di Cannes, racconta la vita quotidiana del comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, e della sua famiglia. La villetta con il giardino dove l’ufficiale tedesco vive con la moglie e i figli confina con il campo dove arrivano i deportati ebrei. Ma il piano della vita famigliare e quello del campo di sterminio sono completamente separati. Binari paralleli destinati a non incontrarsi. Sandra Huller, l’attrice protagonista è particolarmente efficace nel mostrare la distanza siderale tra due mondi fisicamente vicinissimi ma di fatto abissalmente lontani, diametralmente antitetici. Il regista riprende i temi di cui si sono occupati autori come Hannah Arendt (La banalità del male) e Zygmunt Bauman (Modernità e olocausto): quando diventa sistema, il male è capace di installarsi nella quotidianità fino a diventare invisibile. In tutte le epoche, in qualsiasi società - anche nella raffinata Germania - la vita di tutti i giorni può imparare a convivare con il male estremo, lasciato fuori dall’uscio di casa. Nella più totale e fredda indifferenza. La nostra generazione si trova a dover fare i conti con l’enorme dramma umano dell’emigrazione (secondo l’Oim, l’agenzia dell’Onu per le migrazioni, sono 281 milioni i migranti a livello globale, a cui si devono aggiungere 117 milioni di persone in movimento a causa di conflitti, violenze, disastri). Effetto dell’accelerata globalizzazione degli ultimi decenni - che ha unito il mondo dal punto di vista della tecnologia, della mobilità, della comunicazione lasciando però enormi differenze dal punto di vista delle concrete possibilità di vita - i fenomeni migratori costituiscono uno dei grandi snodi della contemporaneità. Nessuno sa esattamente come gestire gli squilibri strutturali che ne sono all’origine. Ma sta di fatto che dietro a questi numeri si consumano vite concretissime, ormai sradicate dai vecchi equilibri della sussistenza senza però essere ammesse al banchetto della società del benessere. Voce di uno che grida nel deserto, le parole di Papa Francesco sulla necessità di non assumere come inevitabile l’inaccettabile strage di coloro che cercano di raggiungere l’Europa non sono state granché riprese dal circuito dell’informazione. Atterrato ieri a Giacarta, prima tappa del suo viaggio in Asia e Oceania, il Pontefice ha scelto di incontrare subito in nunziatura malati e rifugiati bambini rifugiati. C’è un evidente imbarazzo nella nostra cultura di fronte a un problema che inquieta. È chiaro che non si può accogliere tutti. Ma è altrettanto chiaro che non si può far finta che la cosa non ci riguardi. Né si può accettare di cancellare il senso della sacralità di ogni singola vita umana, che è uno dei capisaldi della nostra cultura. Eppure, la nostra società si rifiuta di guardare in faccia la realtà. Quasi che si trattasse di un capriccio di gente che vuole lasciare la propria terra per venire a godersi i piaceri di quella società del benessere che abbiamo sbandierato in tutto il mondo. E che poi un Bengodi non è, dati i tanti problemi anche di chi vive in Occidente. Il senso di giustizia si alimenta della reazione empatica di cui l’uomo è capace. È perché siamo capaci di sentire il dolore dell’altro che l’umanità ha potuto avanzare sulla strada della civiltà. Ma se noi non siamo più scossi davanti ai barconi che affondano nel mare Mediterraneo, e se, anzi, abbiamo programmaticamente deciso di non parlarne più per non farci inquietare, che cosa resta della nostra umanità? Non rischiamo di essere un po’ come la famiglia del comandante Rudolf Hoss che non voleva sapere cosa accadeva al di là del muro di confine con il campo? D’altra parte, non ci sarà alcuna politica che avrà il coraggio di affrontare seriamente la questione se dall’opinione pubblica non si eleverà un grido di giustizia e umanità. Non dimentichiamo che lo stato di diritto e la stessa democrazia sono sorti esattamente per la spinta ideale di tanti visionari che poi hanno fatto la storia. Ecco perché il richiamo del Papa è tutt’altro che retorico. Al contrario, le parole di Francesco hanno il timbro della concretezza e del realismo. Ognuno di noi ha la possibilità di farsi interrogare da questa enorme questione: è proprio la consapevolezza di non avere la soluzione che reclama il contributo di tanti uomini e donne di buona volontà capaci di spingere avanti la macchina lenta della politica e della burocrazia. Forse tutta questa indifferenza rivela solo paura: basta guardare le previsioni demografiche per capire come andranno le cose. Da qui al 2050 l’Africa crescerà di 700 milioni di persone, arrivando a 2,5 miliardi di abitanti, mentre l’Europa resterà più o meno stazionaria attorno ai 450 milioni. Uno squilibrio destinato a creare una pressione enorme. Pensare di risolvere il problema semplicemente bloccando gli ingressi non ha senso. Per la nostra dignità e per il futuro dei nostri figli, partiamo dalla parola di Francesco. E rimettiamoci in cammino. Migranti. Nel Mediterraneo un’altra strage di disperati: Cutro non ha insegnato niente di Nello Trocchia Il Domani, 5 settembre 2024 Il mare continua a ingoiare vite: 21 morti al largo delle coste di Lampedusa, tra queste anche tre bambini. Intanto dall’informativa sulla tragedia calabrese emergono le divergenze sul coordinamento nei soccorsi. Il bilancio è disastroso: 21 persone morte, tra queste tre bambini. Al largo di Lampedusa si è consumata l’ennesima tragedia del Mediterraneo, il mare ormai trasformato in un macabro cimitero. I migranti, partiti il primo settembre dalla Libia, erano 28, ma in Italia sono arrivati solo sette superstiti, di nazionalità siriana, che hanno raccontato il capovolgimento del barcone sul quale viaggiavano dopo il salvataggio effettuato dalla guardia Costiera. I superstiti sono stati portati a molo Favarolo di Lampedusa e trasferiti all’hotspot di contrada Imbriacola sull’isola. Nelle stesse ore sulla sponda libica, la Mezzaluna rossa ha annunciato che un’imbarcazione con 32 migranti a bordo è affondata al largo di Tobruk, nella zona orientale: un morto e 22 dispersi. Tragedie che imporrebbero risposte governative ed europee, ma poi passa il tempo e preparano il terreno solo alle successive conte dei morti. Il progetto albanese - Proprio mentre il Mediterraneo ingoiava altre vite, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha parlato anche di immigrazione nella sua relazione all’esecutivo del partito. Parole rilanciate dalle agenzie che raccontano di successi, riduzione di sbarchi e anche della diminuzione dei morti in mare. Gli arrivi sono diminuiti del 63 per cento rispetto all’anno scorso e del 20 per cento circa rispetto al 2022. Nonostante tutto, Meloni rilancia il suo progetto albanese: “Dovremmo essere molto attenti e scrupolosi perché abbiamo gli occhi del mondo puntati addosso”, ha detto prima di aggiungere: “Tutti capiscono che questa iniziativa può cambiare completamente il modo di governare l’immigrazione irregolare”. Un piano, quello relativo ai centri per migranti da realizzare in Albania, che rappresenta un salasso per le tasche degli italiani, sfiora il miliardo di euro, e che pregiudica le garanzie delle persone che verranno condotte in un altro paese e private della propria libertà con una ridotta possibilità di tutela e difesa. Insomma soldi al macero mentre gli sbarchi diminuiscono anche se i morti nel Mediterraneo sono la riprova che la disperazione non si ferma annunciando una inconcludente guerra al traffico di essere umani. Il tavolo di Cutro - Mentre il progetto Albania viaggia spedito è invece completamente inapplicata l’idea del governo di realizzare un centro per migranti in ogni regione, un piano elaborato dopo la tragedia di Cutro, nella quale morirono almeno 98 persone. Tragedia che ha portato all’apertura di un’indagine da parte della locale procura che si è conclusa con la richiesta di rinvio a giudizio per sei indagati, quattro finanzieri e due militari della guardia Costiera, accusati di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo. Sono oltre 600 le pagine di informativa, redatta dai carabinieri di Crotone, nelle quali gli inquirenti acquisiscono i messaggi che gli imputati si scambiano. “So’ migranti”, dice Alberto Lippolis, indagato in qualità di comandante del Roan di Vibo Valentia. Qualcuno replica: “Pazienza”. In quelle informative ci sono due elementi che tornano di attualità in queste ore, proprio ieri il comando generale del corpo delle capitanerie di porto ha fatto sapere: “Il livello politico non ha mai condizionato l’operato della Guardia Costiera, né potrebbe mai farlo: l’attività di soccorso in mare è un compito che lo Stato affida alla Guardia Costiera, con precise responsabilità giuridiche, anche di carattere personale. La storia e i numeri parlano chiaro, con le oltre 100 mila persone salvate solo nel 2023”. Il riferimento è alle cronache che hanno riportato quanto all’interno dell’informativa era contenuto, in particolare la testimonianza di Alberto Catone, già comandante del Roan della guardia di finanza di Vibo Valentia. Ascoltato, ma non indagato, ha riferito: “Quando sono arrivato in Calabria la Capitaneria di porto era molto restia a operare in mare in operazioni Sar laddove non c’era una situazione di conclamato pericolo. Questo aspetto dipendeva dall’approccio dell’allora ministro dell’interno balzato agli onori della cronaca con il caso Diciotti”. Queste le sue parole, il riferimento è alla nave della guardia costiera che nel 2018 aveva soccorso 190 migranti nelle acque internazionali al largo dell’isola di Malta. Una nave bloccata in mare per alcuni giorni per ordine dell’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Nell’informativa di Cutro c’è anche altro, in particolare si parla del tavolo tecnico di coordinamento ed emergono divergenze di vedute tra capitaneria di porto e guardia di Finanza. Divergenze che racconta Gianluca D’Agostino, a capo del centro di ricerca e soccorso della guardia costiera, ascoltato nell’ambito dell’indagine della procura. “Talvolta nei tavoli tecnici veniva insinuato che noi della Capitaneria di porto volevamo accreditarci come forza di polizia. Mi ricordo che in alcune occasioni io stesso chiesi di rivedere il decreto interministeriale in quanto l’intervento immediato verso un target poteva tranquillamente configurarsi come intervento contestuale di soccorso e polizia senza il bisogno di ombreggiamenti, che non sempre rappresentava un’attività funzionale all’individuazione degli scafisti. In questi casi veniva obiettato che così la Capitaneria di porto non avrebbe agito come organo di soccorso ma come forza di polizia e quindi l’accordo non è mai stato modificato”, ha riferito ai pubblici ministeri. Nelle carte viene raccontata anche una riunione svoltasi ad aprile di quest’anno, nella quale la guardia di Finanza esprimeva perplessità per le proposte della guardia Costiera “in relazione sia alla mancata previsione di disposizioni riguardanti il coordinamento delle attività in mare sia al riparto delle competenze nell’azione di contrasto all’immigrazione clandestina”. Osservazioni che ottenevano queste risposte: “La guardia Costiera rimane aperta a proposte modificative della sua bozza, ribadendo la necessità di pensare ad un modello differente da quello sino ad oggi disponibile e che, a parere, si è dimostrato non efficace”. Cutro e le tragedie di questi giorni stanno lì a dimostrarlo.