In carcere c’è detenzione sociale. Contromisure? Inesistenti di Paolo Foschini Corriere della Sera, 3 settembre 2024 Parla Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti: allarme suicidi e condizioni in cella insostenibili: “Non avevo mai vissuto un periodo così terribile per la desolazione e la mancanza di fiducia”. “Oggi in galera soprattutto poveri e disagiati, servono pene diverse dalla prigione come vendetta”. Sicurezza e calo dei reati si ottengono con l’apertura: “Più Terzo settore, più volontari, più telefonate”. Ornella Favero è la direttrice di Ristretti Orizzonti, rivista che con 184 numeri realizzati finora dagli ospiti del “Due Palazzi” di Padova costituisce da 26 anni un punto di riferimento e in fondo un modello - oltre che un archivio preziosissimo di dati e notizie sull’universo carcerario - per i tanti periodici prodotti da detenuti e detenute, quasi sempre con l’aiuto determinante del volontariato, tra istituti di pena e case circondariali d’Italia: in tutto 190 strutture con una capienza di 51mila ospiti ma che ne contengono attualmente oltre 61mila, più 3imila agenti, e in cui finora quest’anno si sono suicidati in 67 tra i primi e sette tra i secondi. Con rivolte sempre più frequenti anche nei minorili, l’ultima pochi giorni fa di nuovo al Beccaria di Milano. E insomma Ornella Favero rappresenta un punto di vista qualificato e una memoria storica importante. E dice: “Sì, ne ho viste parecchie. Tuttavia un periodo così drammatico, per numeri ma soprattutto per desolazione e assenza di speranza, non lo avevo vissuto mai”. Eppure per l’Italia il carcere come buco nero della società non è un fatto nuovo: nel 2012 il nostro Paese era stato condannato dall’Europa addirittura per tortura…. “Senza dubbio. Ma è cambiata la popolazione carceraria. Anni fa la maggior parte di quanti finivano in galera lo aveva messo in conto, diciamo così, per la propria scelta di vita. Persone che la galera “sapevano farsela”, come si diceva una volta, e in qualche modo preparate. Oggi a finire dentro non sono più i criminali di mestiere. Oggi siamo di fronte a una detenzione sociale, con tanto disagio mentale, tanta povertà. E, posto che la galera attuale non è una risposta praticamente per nessuno, per queste persone lo è meno che mai”. Come ci si è arrivati? “A forza di indirizzare le risorse non sulla soluzione dei problemi ma costruendo il mito della sicurezza. E a forza di insistere, fino ad averne fatto oggi un profilo della cultura generale, sull’idea che la pena debba infliggere sofferenza. In altre parole che debba essere non una via di ricostruzione e reinserimento, come vorrebbe la Costituzione, ma semplicemente una vendetta. Su questo soffia la politica di chi oggi comanda, in Italia e non solo. E questo purtroppo è il vento che tira tra la gente. Come dire: più la pena è cattiva, più li facciamo star male là dentro, e più noialtri qua fuori stiamo sicuri. Ma è una illusione. E su questo anche l’informazione ha importanti responsabilità”. E le misure del Governo? “Non ce n’è neanche una che punti a ottenere un miglioramento immediato”. Cosa sarebbe possibile? “Per la prevenzione dei suicidi una cosa sarebbe facilissima e a costo zero: fateli telefonare a casa”. Non è appunto una delle misure annunciate? “Ma va. Hanno sbandierato l’aumento delle telefonate, sempre pochi minuti al mese intendiamoci, come novità: in realtà resta nella discrezionalità dei direttori come prima. Gli fosse almeno data come disposizione precisa. Per non parlare della chiusura delle celle disposta ormai più di un anno fa con la media sicurezza. Una catastrofe”. Altro che si potrebbe fare? “In Italia ci sono ottomila persone detenute con un residuo di pena sotto un anno, altrettante sotto i due, complessivamente circa ventimila sotto i tre anni: tutte persone che, senza bisogno di alcuna riforma, potrebbero accedere a misure diverse dal carcere”. Metterle fuori tutte? “Le risorse dovrebbero essere indirizzate ad accompagnare fuori loro, non a metterne dentro altre. Dico accompagnarle, non a caso: la maggior parte, come dicevo prima, sono sole. E da sole, quando usciranno, torneranno alla stessa identica vita che le aveva portate dentro”. Siamo sempre lì: e se le risorse non ci sono? “Una c’è. È il Terzo settore. Basterebbe non ostacolarlo. Rendere l’ingresso dei volontari in carcere molto più ampio di quanto già sia oggi. E formarli. E indirizzarli, aggiungo, sempre di più a interventi accanto a chi esce, non solo a chi è dentro. La sicurezza si ottiene aprendole, le carceri, non il contrario”. Speranze? “I giovani. Quando andiamo nelle scuole a parlare con loro, quanto vedo le loro facce ascoltare le nostre storie anziché la televisione, mi si riaccende l’ottimismo”. Oltre la custodia cautelare, le possibili misure “dimenticate” da Nordio di Antonio Pagliano ilsussidiario.net, 3 settembre 2024 Per svuotare le carceri si pensa a togliere le recidiva come motivo di arresto o di usare di più i domiciliari. Per ora i veti interni bloccano il Governo. Chiusi gli ombrelloni e ripiegati sdraio e lettini, il Governo Meloni si è ritrovato a Palazzo Chigi per riaprire i fascicoli interni più delicati, fra i quali, insieme al premierato e all’autonomia differenziata, quello sulla giustizia. Su questo fronte, ci eravamo lasciati il 9 agosto, con l’apposizione della firma del Presidente della Repubblica alla legge sulla prima trance di riforme targate Nordio, che ha cancellato il reato di abuso d’ufficio e riformulato quello del traffico d’influenze. Legge i cui effetti non tardano a palesarsi: tanto per fare due esempi, la riformulazione del reato di traffico d’influenze tornerà particolarmente utile a Palamara, che potrebbe chiedere l’annullamento della condanna a un anno e quattro mesi e altrettanto potrebbe fare Alemanno, condannato a 22 mesi nel processo mafia capitale. In quegli stessi giorni di inizio agosto, era particolarmente salita l’irritazione del Colle per la richiesta di un colloquio da parte del ministro della Giustizia sull’affollamento delle carceri, vera emergenza e principale nodo del ministro, insieme al tema delle nuove modifiche al sistema penale. Alla luce del caso Toti, la Lega è infatti pronta a puntare i piedi per eliminare quella parte della legge Severino che prevede la sospensione dei governatori e sindaci già alla condanna in primo grado. L’idea, condivisa anche dal Pd, è di far scattare la sanzione della sospensione anche per gli amministratori locali solo in caso di sentenza definitiva. Ma non tutto il Governo sembra pienamente allineato. Il vero nodo, si diceva, è tuttavia quello delle carceri, tema che nella sua drammaticità rischia di essere cavalcato per fare da sponda al prossimo provvedimento in materia di giustizia allo studio del ministro, che sarà rivolto a modificare la custodia cautelare in carcere. Il Governo è sicuro che tra un paio di mesi si cominceranno a vedere gli effetti del decreto carceri, e le condizioni di vita dei detenuti miglioreranno. Secondo la pressoché unanimità degli addetti ai lavori, invece, il decreto non cambierà nulla poiché le misure previste non riusciranno a contrastare il fenomeno del sovraffollamento e, di fatto, non miglioreranno le condizioni di vita dei detenuti. Basti pensare che in merito alla possibilità dei domiciliari per chi ha un residuo di pena di un anno, gran parte di questi soggetti avrebbero già dovuto poter beneficiare di questa misura in vigore da tempo. L’unica misura che potrebbe avere una certa efficacia è quella relativa alla possibilità di esecuzione della pena in ambienti diversi dal carcere, come le comunità per tossicodipendenti, ma sta ai magistrati decidere se mandarvi i detenuti o meno e pertanto essa non può essere ritenuta una misura strutturale in gradi di offrire riscontri oggettivi. Occorre allora lavorare su altre misure. Ed ecco che una parte della maggioranza, insieme al Guardasigilli, sarebbe favorevole ad eliminare il pericolo di reiterazione del reato fra i requisiti per cui si può ricorrere alla carcerazione preventiva. Una vera rivoluzione che farebbe cadere più dei due terzi delle misure cautelari in corso. Il principio di fondo, per la verità non senza fondate ragioni giuridiche, risiede nella considerazione che il concetto di “rischio di reiterazione del reato” è troppo vago ed elastico. D’altronde, in Parlamento giacciono ben 11 proposte di legge sul tema. La più ragionevole, prevede, sul modello tedesco, che dopo 60 giorni dall’applicazione della misura cautelare, tranne quando si sia in presenza di reati gravi come mafia e terrorismo, il giudice debba rivalutare il rischio di reiterazione e se non emergono ulteriori esigenze cautelari, l’indagato debba tornare in libertà. Il tema è quanto mai divisivo e non sarà facile per il ministro fare una sintesi da presentare al Governo prima e al Parlamento poi. Resta il fatto che il sistema penitenziario italiano è una polveriera pronta a esplodere e una vera soluzione non sembra di facile individuazione. Certo, anche in Francia si segnala un picco di suicidi e in Gran Bretagna ci sono forti proteste. Il dato di fatto ineludibile è che in carcere ci sono tante, troppe persone in condizioni contrarie a ogni dignità e per di più si continua ad usare il carcere come unica soluzione ai problemi della società, come dimostrato dal fatto che anche gli istituti per minori, cosa senza precedenti nella storia, sono al collasso come conseguenza delle nuove norme introdotte dal Governo con il cosiddetto decreto Caivano. Pochi ricordano che 10 anni fa l’Italia subì una condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la non umanità delle condizioni detentive. Da allora, al di là di aver garantito lo spazio minimo di 3 mq per ciascun detenuto, non sono stati fatti grandi progressi e anzi, negli ultimi tempi si sono fatti passi indietro. Basti pensate che una disposizione amministrativa aveva decretato che le porte delle celle dovessero rimanere aperte per almeno otto ore al giorno, cosicché le persone potessero venire impegnate in significative attività diurne e tornare in stanza per il solo pernottamento; poi si è tornati indietro sulla spinta di alcuni sindacati autonomi di polizia penitenziaria conviti che le disposizioni adottate nel 2013 portassero a un carcere fuori controllo. Inoltre, con l’esplosione della pandemia e la chiusura dei colloqui con le famiglie, si era estesa la possibilità di contatti telefonici fino a una telefonata al giorno; prassi restate in vigore per un po’ anche quando le visite in presenza erano ormai riprese; ma anche su questo si è deciso di tornare indietro, ovvero a una telefonata a settimana di soli dieci minuti. Altro aspetto poco trattato è che il regolamento penitenziario risale a ben 24 anni fa e pertanto una significativa revisione sarebbe una prima vera azione concreta da realizzare, fra l’altro in tempi brevi e con potenziali grandi benefici nella gestione dei detenuti. Qualcosa occorre fare, si diceva. Esclusa allo stato l’ipotesi amnistia e nella consapevolezza che l’idea di procedere a un intervento sulla custodia cautelare richiederò tempo, nella consapevolezza che Lega e Fratelli d’Italia hanno sensibilità diverse, al ministero si sta valutando il modo di far tornare nel proprio Paese i detenuti stranieri, misura che riguarderebbe dai 15 ai 20mila detenuti. Della cosa, per la verità, si parla da anni e soprattutto non si comprende per quale ragione tale possibilità non sia stata fatta oggetto di trattazione nel provvedimento appena varato dal Governo. Anche un’altra misura ventilata dallo stesso ministro, ovvero quella delle strutture esterne per chi ha già diritto ai domiciliari ma non dispone di una casa, non si comprende perché non sia stata oggetto dell’emanato decreto. Secondo Nordio, dei 16mila detenuti in custodia cautelare o in esecuzione della pena in carcere ce ne sono migliaia che non dovrebbero essere lì in quanto pur avendo i requisiti per poter andare agli arresti domiciliari, non hanno un posto dove andare. Di certo, i detenuti con fine pena non superiore a un anno sono circa 8.000. La stragrande maggioranza sarebbe composta da stranieri, arrivati clandestinamente. Tuttavia, come lo stesso ministro ammette, non sarebbe possibile mandarli fuori dall’oggi al domani. Il problema resta aperto e il tempo non pare abbondare. La percezione è che sia forte il percolo di spaccare la maggioranza: un intervento legislativo immediato come quello di trasformare in arresti domiciliari, in caso di reati di non grave allarme sociale (e fra questi c’era chi voleva includere anche la corruzione) gli ultimi due anni di pena e le custodie cautelari in carcere, apertamente auspicato da Forza Italia, trova il muro in Fratelli d’Italia. Il governo sembra proprio essersi messo in un vicolo cieco dal quale ha difficoltà ad uscire. Tuttavia, l’unica vera certezza è che l’art. 27 della Costituzione italiana dispone che le pene devono rispondere a due requisiti: non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Insomma, per quanto il problema sia oggettivamente complesso e sconti inerzie ataviche, non è più tempo per veti ideologici e proposte inconsistenti nell’immediato. Il Decreto legge del Governo sulle carceri è un’occasione persa di Maria Pellino alessandria.today, 3 settembre 2024 C’è una grande delusione perché il decreto-legge sulle carceri avrebbe dovuto affrontare una vera emergenza di questo paese. E dopo 70 decreti legge che non avevano alcun carattere di necessità e urgenza, il carcere meritava una decretazione d’urgenza. Il governo - come ha sottolineato il nostro Segretario nazionale e deputato Paolo Ciani - ha preferito varare un decreto-legge che non ha nulla di realmente risolutivo del dramma che stanno vivendo le nostre carceri. Tant’è che mentre il Parlamento votava, il ministro Nordio era dalla presidente Meloni per parlare di “future misure per le carceri”, dimostrando l’inutilità del decreto per l’emergenza in corso oltre ad una scarsa considerazione del Parlamento. Una situazione drammatica in cui l’aspetto del sovraffollamento è una realtà evidente, con punte del 190%. E i dati drammatici dei suicidi ne sono una dolorosa riprova: quelli dei 65 detenuti dall’inizio dell’anno, ma anche quelli dei 7 agenti della Polizia penitenziaria. Vale la pena evidenziare come tra gli agenti che operano in carcere ci sia un tasso di suicidi doppio rispetto a quello delle persone comuni: un evidente segnale di come il carcere sia un mondo veramente alla deriva, un pezzo di Stato alla deriva. Suicidi a cui vanno aggiunti 15 “decessi per cause da accertare”. Nel provvedimento si parla di “strutture residenziali di emergenza” (unica previsione che potrebbe incidere sul sovraffollamento): ma di che si tratta? Nessuno lo sa e visto quello che questo governo ha fatto sui centri per i migranti la cosa ci preoccupa molto… È chiaro che dinanzi a questo dramma, sentir parlare di “potentissimo dl carceri” stona parecchio. Il carcere è un microcosmo, abitato da cittadini che hanno compiuto dei reati o accusati di averlo fatto, ma che rimangono persone e cittadini. Con loro tutti gli altri, dalla Polizia penitenziaria a chi lavora nell’Amministrazione penitenziaria, ai servizi sociali, gli infermieri, i medici, i volontari. È sciocco pensare al carcere come a qualcosa di estraneo alla città, allo Stato e alla vita comune. Come è sciocco pensare che il malessere di uno non ricada sugli altri. Purtroppo, negli ultimi anni è cresciuta una subcultura molto violenta: quando si sentono persone delle istituzioni dire “buttiamo le chiavi” riferendosi a detenuti, è molto grave. Non solo perché per la legge italiana la pena e la detenzione servono per il corretto reinserimento sociale di chi ha commesso il reato, ma perché sottintendono un senso di vendetta e di disumanizzazione del detenuto. Non è la nostra cultura, non è la cultura giuridica del nostro paese. In carcere incontriamo persone molto differenti: tanti detenuti comuni, molte persone che sono in carcere perché povere (e non possono accedere a misure alternative per questo motivo), ma anche imprenditori o politici: per tutti è un momento di grande difficoltà e prova. Per questo ci dispiace molto sentirne parlare con superficialità o disprezzo. “Ma non pensi al male che loro hanno procurato?”, ci sento dire talvolta. Certo che ci pensiamo, ma tutelare i diritti anche di chi ha commesso reati è la resistenza all’imbarbarimento della società che ricadrebbe negativamente su tutti, a cominciare dai più deboli. Purtroppo invece, ci sembra che, quando parliamo di carcere e di detenuti, tanti politici parlino di qualcosa di cui veramente non sanno nulla. Lo diciamo con rammarico, perché parliamo di una realtà molto importante dove vivono e muoiono tante persone, dove lo Stato dovrebbe essere molto presente. C’è la propaganda, poi c’è la realtà. Purtroppo, la dottrina di questo governo e della sua maggioranza è: più reati, più pene e più carcere. Per troppo tempo in Italia c’è stata una contrapposizione macchiettistica tra “garantisti” e “giustizialisti” che non ha prodotto nulla. Anche perché quasi sempre i “garantisti” lo sono per i “propri” e diventano manettari con “gli altri”. Lo abbiamo sempre detto e lo ribadiamo: è necessario un sistema più efficiente, che garantisca il rispetto della legalità insieme alla certezza del diritto e dei diritti dei cittadini, anzitutto quello di ottenere giustizia in tempi rapidi. Un sistema giustizia più giusto ed efficiente, e sottratto alle contrapposizioni politiche, rende lo Stato maggiormente in grado di rivolgere tutte le energie nel contrasto all’illegalità e alla criminalità, a partire da quella organizzata. Perché l’altro paradosso è che nelle beghe quotidiane sulla giustizia ci si dimentica quasi sempre il contrasto alle mafie, alla criminalità organizzata, alla corruzione, allo sfruttamento delle persone. Certo, la giustizia ha il compito di porre rimedio al “male” e di combatterlo. Ma se la giustizia si limita a essere solo retributiva, rimanendo legata alla logica cieca e senza prospettive della rabbia e della violenza, non crediamo riesca a porre termine alla spirale del male, sia dal punto di vista di chi commina la pena sia di chi la subisce. Nell’abisso delle carceri italiane di Jessica Reatini ilmillimetro.it, 3 settembre 2024 Tra suicidi e sovraffollamento, la situazione negli istituti penitenziari è sempre più degradante per i detenuti e per chi lavora all’interno delle carceri italiane. Storie di vite spezzate, di uomini e donne che in carcere non hanno trovato solo la loro condanna, ma anche la morte, o meglio, che hanno deciso di andarci incontro, che non hanno visto nessuna prospettiva di vita oltre quelle sbarre. Da inizio 2024 sono 62 i detenuti che si sono suicidati in carcere, uomini e donne, giovani o meno rinchiusi nei penitenziari di tutto lo Stivale da nord a sud, senza differenze. Sono 20 decessi in più rispetto allo stesso periodo del 2023 e con un aumento di 15 rispetto al 2022. Nell’abisso delle carceri in Italia - Differenti sono le loro storie, le loro condanne, che vanno dalla truffa all’omicidio, o alla semplice detenzione in attesa di giudizio. Il comun denominatore però è ben chiaro: il problema delle carceri in Italia è sempre più grave e queste vittime, queste persone che un tempo sono state bambine, che hanno avuto sogni, magari una famiglia, dei figli, ora sono solo un tragico numero diventato un grido di allarme. L’obiettivo primario del carcere, come previsto dall’art. 27, è quello di rieducare il detenuto che non viene inserito nel circuito penitenziario solo per essere punito per il reato commesso. Questa è l’utopia, ben lontana da quelle che sono le reali condizioni delle carceri italiane: sovraffollate, carenti nei servizi primari, spesso luoghi fatiscenti. Basti pensare che al 31 maggio del 2024 i detenuti in Italia erano 61.049 a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 per un indice di affollamento del 130.06% a livello nazionale. Non solo, nel recente focus del Garante dei detenuti emerge che circa una persona su due si è tolta la vita nei primi sei mesi di detenzione e che solo il 38% dei morti aveva una condanna definitiva. Sovraffollamento, situazione fuori controllo - Quello che emerge poi dal dossier di Antigone, che dal 1991 si occupa dei diritti dei detenuti, non fa ben sperare per il futuro. La media è quella di un suicidio ogni tre giorni, circa il 12% dei detenuti ha una diagnosi psichiatrica grave che raramente viene gestita nel modo corretto e che, quasi sempre, viene tamponata con l’uso massiccio di psicofarmaci. Stando al report, il 20% delle persone detenute (oltre 15.000) fanno regolarmente uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi e, circa il 40% (oltre 30.000 persone) fa uso di sedativi o ipnotici. Situazione fuori controllo per il sovraffollamento - La situazione più allarmante è quella del carcere milanese di San Vittore, con una percentuale di sovraffollamento del 231.15%. Ma la quasi totalità delle regioni (17) registra un indice superiore agli standard e solo tre si collocano al di sotto della soglia regolamentare. In generale, tra le regioni che fanno registrare numeri peggiori c’è la Puglia (152.1%), seguita dalla Lombardia (143.9%) e dal Veneto (134.4%). A questo si aggiunge poi lo stato fatiscente di molti istituti: il 31.4% delle carceri presenti sul territorio italiano è stato costruito prima del 1950. Nel 10.5% degli istituti non tutte le celle sono riscaldate e nel 60.5% nelle stesse non è garantito un bene primario come l’acqua. Ma ancora, il 34.2% degli istituti non sono dotati di spazi lavorativi, il 25% non ha una palestra o, se c’è, non è funzionante. A questo si aggiunge poi la difficile situazione di chi è dall’altro lato, ovvero della Polizia Penitenziaria. In Italia gli agenti di polizia penitenziaria sono 31.546, con un rapporto detenuti-agenti pari all’1.8 a fronte di una previsione di 1.5. Uomini e donne della polizia penitenziaria vivono sempre in agguato, in attesa che qualcosa di grave succeda, come peraltro puntualmente accade. Stando ai dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), nel 2023 sono state registrate 1.612 aggressioni di detenuti ad agenti della penitenziaria. “Decreto Carceri”, una soluzione impalpabile - Insomma, un quadro tutt’altro che rassicurante e che testimonia come l’istituto della legalità per eccellenza, il carcere, sia diventato esattamente l’opposto, con detenuti spesso abbandonati a loro stessi, assistenza sanitaria molto scarsa, assistenza psicologica quasi inesistente in molte strutture. Un mix, questo, che come testimoniano i numeri è letteralmente letale e che non può certo essere risolto con il decreto-legge ribattezzato “Carcere sicuro”, approvato dal Consiglio dei ministri, che dovrebbe ridurre, almeno in parte, la questione del sovraffollamento. Decreto carceri, una soluzione impalpabile - Il decreto portato in Cdm da Nordio è infatti una misura quasi impalpabile e prevede che, quando un detenuto fa richiesta per ottenere una misura alternativa al carcere, sia direttamente il giudice a valutare se ci siano i presupposti o meno. In questo modo, quindi, per decidere sulle misure alternative non bisognerà più attendere il via libera di un altro giudice. Tra gli altri provvedimenti è presente l’inasprimento del regime di 41 bis, il così detto “carcere duro”, che esclude la possibilità ai detenuti di accedere ai programmi di giustizia riparativa, mentre è arrivato il via libera per l’aumento delle telefonate da quattro a sei al mese. A concludere, l’assunzione di mille nuovi agenti di polizia penitenziaria: 500 per il 2025 e 500 per il 2026. Quanto accaduto in questa prima parte di 2024 e gli innumerevoli casi di suicidio non hanno lasciato indifferenti i detenuti che in molte carceri hanno dato vita a diverse proteste. Dall’istituto romano di Regina Coeli, dove i detenuti hanno bruciato materassi e rotto alcuni tavoli, passando per il carcere di Vibo Valentia fino a quello di Velletri e di Trieste, in un moto che ha investito senza distinzioni tutta Italia e che ha messo sotto gli occhi di tutti, se ancora ce ne fosse bisogno, la situazione in cui i detenuti sono costretti a vivere e per la quale, spesso, decidono che forse è meglio morire. Italia, maglia nera anche in Europa - Guardando all’Europa la situazione non migliora, e anzi l’Italia si colloca al sesto posto nelle carceri più affollate tra i 46 paesi membri del Consiglio d’Europa (CoE) ed è al 28° posto per numero di persone detenute ogni 100mila abitanti. Non solo, nell’ultimo rapporto del Consiglio D’Europa, Space I, il sistema carcerario italiano è stato considerato tra i peggiori d’Europa in termini di sovraffollamento, suicidi tra i detenuti e carcerazione preventiva. L’Italia tra le peggiori in Europa - Da qui è arrivato anche il monito del comitato dei ministri dell’organizzazione paneuropea che in documento si è così espresso: “Constatiamo con grande preoccupazione che le misure adottate finora dalle autorità non sono riuscite ad arrestare l’allarmante tendenza negativa dei suicidi in carcere, osservata dal 2016 e proseguita nel 2023 e all’inizio del 2024. Per questo esorta le autorità ad adottare rapidamente ulteriori misure correttive e a garantire lo stanziamento di adeguate risorse finanziarie aggiuntive per rafforzare la capacità di prevenire i suicidi nelle carceri”. La rivoluzione della Norvegia: ecco il carcere di Halden - Se in Europa il sistema carcerario sembra fare acqua da tutte le parti, c’è l’eccezione della Norvegia che ha invece adottato un modello nettamente diverso, il cui obiettivo primario è quello di reinserire i detenuti nella società trattandoli nel modo più “umano” possibile, affinché siano scoraggiati dal commettere nuovamente reati. Il carcere di Halden è stato per questo dichiarato il “carcere più umano del mondo” e non fatichiamo a comprenderne il motivo. In Norvegia hanno cambiato le regole del gioco in carcere - Progettato dall’architetto Erick Møller, è stato inaugurato nel 2010 e può contenere fino a 252 individui e accoglie detenuti accusati di omicidi, sex offenders, tossicodipendenti e autori di crimini minori. Nessuna recinzione elettrificata, niente filo spinato, niente sbarre alle finestre o telecamere di sorveglianza. Ma la rivoluzione non finisce qui: all’interno del carcere di Halden le guardie sono disarmate e seguono il principio della “sicurezza dinamica”, ovvero un sistema in cui le guardie si mescolano ai detenuti prevenendo così conflitti attraverso il dialogo e l’interazione. Gli agenti non pattugliano, ma interagiscono e sono circa 350 per 250 detenuti, una proporzione impensabile nelle carceri italiane. In questo istituto penitenziario, semplicemente, i carcerati non vivono in carcere: hanno celle di 12 mq dotate di televisori, frigoriferi, bagni privati. Condividono una cucina e un soggiorno e sono incoraggiati a seguire programmi rieducativi e di formazione professionale. Non solo, la prigione offre anche consulenze individuali per aiutarli a fare del loro meglio, preparandoli poi per essere reinseriti nella società. Un esperimento riuscito? Come sempre i numeri possono dare un quadro generale: la filosofia messa in campo nel carcere di Halden ha portato a un tasso di recidività del 20%, percentuale tra le più basse al mondo. Quello di Halden non è però l’unico esempio che troviamo in Norvegia, dove è presente anche l’istituto di Bastøy, situato a 50 km da Oslo. L’edificio ospita 115 detenuti, la maggior parte dei quali ha scontato la maggior parte della pena, che possono rimanere nel penitenziario per massimo cinque anni. Quella di Bastøy è una prigione ecologia: la terra viene lavorata dagli stessi detenuti e i rifiuti vengono riutilizzati. Ma non c’è solo l’agricoltura: i lavori sono diversi e spaziano dalla cucina alla gestione dei negozi passando per la guida delle barche. Tutti impieghi che permettono ai detenuti di essere pagati 8 euro per turno, ai quali di aggiungono 24 euro a settimana, garantiti dalla prigione, da poter spendere per i pasti o per effettuare delle chiamate. Numeri alla mano, questo approccio funziona, con appena il 16% di tasso di recidiva: nulla se si considera che la percentuale europea di aggira attorno al 70-75% e quella americana sfiora addirittura l’80%. Da Leboen a Suomenlinna: saranno così le carceri del futuro? - Gli esempi delle carceri di Halden e Bastøy non sono gli unici da cui prendere spunto. Proprio in Austria, infatti, il centro di giustizia di Leoben segue il modello del carcere aperto, dove è l’architettura della struttura a fare in primis la differenza. In questo caso gli spazi sono stati pensati per una giusta qualità di vita per i detenuti e non per soddisfare solo ed esclusivamente meri requisiti di sicurezza. Il vetro della facciata riduce la distanza dal mondo esterno, le celle sono luminose con bagno e cucina privata e sono presenti spazi collettivi e ambienti dedicati all’incontro con i famigliari. Le carceri del futuro come saranno? - Discorso molto simile anche per la prigione che si trova in Finlandia e, più precisamente, sull’isola di Suomenlinna, a Helsinki, dove i detenuti vivono la prigionia creando di fatto una loro personale realtà. Quindi lavorano, pagano le tasse e contribuiscono anche alla riparazione e al restauro della fortezza di Suomenlinna, patrimonio mondiale dell’Unesco. Questa prigione può ospitare circa 100 detenuti, quasi tutti vicini al completamento della loro pena. Il focus è quello di cui sopra: preparare e insegnare al detenuto come reinserirsi nella civiltà rendendosi utile al resto della società. Non solo in Europa, esempi di approcci diversi sono visibili anche in un luogo remoto come quello dell’Isola di Pasqua. A più di 3.600 km dalle coste del Cile si trova l’enigmatica e remota Isola di Pasqua, che ospita un carcere definito dagli stessi detenuti come “un posto accogliente”. Ovviamente i numeri fanno la differenza: i detenuti sono appena 12 con 23 guardie che non hanno uniforme, non ci sono torri di vigilanza e la struttura offre la possibilità di impegnarsi nello scolpire il legno con riproduzioni dei famosi moai dell’isola. I turisti possono inoltre acquistarli e, con il ricavato, i detenuti possono comprare beni. Rieducazione in carcere, è solo utopia? - Alcuni potrebbero pensare che i modelli adottati in Norvegia (e non solo) siano troppo buonisti, che si trasformi il carcere in un luogo di villeggiatura, che si diano troppi comfort a persone che di fatto hanno commesso un errore, violato le regole, insomma si sono resi protagonisti di fatti incresciosi e per questo devono pagare. La rieducazione forse non è solo utopia - Ma siamo veramente sicuri che il sistema europeo di limitare, rinchiudere ed esasperare di fatto sia quello giusto? Proprio le parole del direttore del carcere di Bastøy inducono a una riflessione: “Noi siamo qui per formare dei cittadini, dei vicini di casa. Un giorno queste persone usciranno di prigione e saranno libere. Tu chi vorresti come ipotetico vicino di casa, nel tuo futuro, per te e la tua famiglia? Un uomo ristabilito e reintegrato nella società oppure un uomo ancora malato, arrabbiato, che è stato richiuso per anni in condizioni incivili?”. Ecco, il presupposto da cui partire deve essere questo: il castigo e la negazione dell’umanità e della dignità non potranno mai essere la soluzione, non potranno rieducare in nessun modo un detenuto che, quindi, non sarà in grado di reinserirsi nella società. Anzi, con moltissima probabilità tornerà a commettere reati entrando e uscendo di prigione senza realmente cambiare, confermando il fallimento di un sistema che ci si ostina a portare avanti in ogni modo, quando forse basterebbe guardare oltre il proprio naso per capire che una soluzione diversa può esistere. Rita Bernardini è una donna capace e appassionata. Perché non nominarla Garante dei detenuti? di Francesca Scopelliti* Il Dubbio, 3 settembre 2024 Ha fatto della civiltà delle carceri la sua ragione di vita senza chiedere nulla in cambio. E affidare la responsabilità di un settore così complesso a chi è in grado di “sanarlo” farebbe eccellere il nominato ma soprattutto chi lo ha nominato. Si sa, le nomine del governo sono sempre di parte, sono appunto politiche. E nessun partito può recriminare o accusare il governo di turno per questa consueta abitudine, perché tutte le amministrazioni hanno sempre adottato questo comportamento: la persona giusta al posto giusto, si giustificano, dove l’aggettivo “giusta” che farebbe presupporre una competenza, un merito, indica invece la persona che non crea problemi, che si allinea spontaneamente alle indicazioni partitiche. Un ragionamento che si può addire a tutti i ministeri, economia, sanità, cultura ecc., ma quando si parla di giustizia o ancor più di carcere deve esserci un pensiero unico perché si parla di diritto, di rispetto delle norme costituzionali, che appunto non sono “interpretabili”. Qualche giorno fa è mancato prematuramente il Garante dei detenuti, Felice Maurizio D’Ettore, avvocato calabrese, già deputato di Fratelli d’Italia, che ha avuto poco tempo per mostrare le sue capacità e dare in piena libertà qualche risposta alle tante questioni che il carcere si porta dietro da anni, oggi più di ieri. E la premier Meloni con il governo, insieme al Presidente della Repubblica, devono procedere ad una nuova nomina. Ora, di carcere tutti ne parlano ma pochi lo conoscono perché, diciamo la verità, quel settore sfiora la politica ma non l’abbraccia mai. D’altronde a chi vuoi che interessi il drogato chiuso in una cella alla ricerca disperata di una dose, o l’extracomunitario che non parla neanche l’italiano, o quel qualcuno in attesa di giudizio che magari poi risulta anche innocente a conferma che il sistema non funziona? Non interessa a nessuno. Tranne a chi si è sempre occupato delle minoranze, delle fasce più deboli, degli emarginati. Interessava a Enzo Tortora, a Marco Pannella, interessa ancora oggi a Rita Bernardini, che del leader radicale ha ereditato la cultura e la passione, la compassione. Una donna “tosta”, che ha maturato buoni rapporti con i dirigenti del Dap, con i direttori degli istituti penitenziari (li ha visitati davvero tutti!) e con gli stessi detenenti e detenuti, per restituire la dignità a chi è privato della libertà. Per ridare quella speranza rimasta fuori dalle celle. C’è un vecchio bellissimo film, “La locanda della sesta felicità”, dove una giovane Ingrid Bergman va in Cina come missionaria, lo fa con il cuore e con la testa, sentimento e ragione, tanto da ritrovarsi, strada facendo, funzionario del Mandarino: salva tanti bambini dall’atrocità della guerra, convince le donne cinesi a non fasciare strettamente i piedi dei figli per mantenerli piccoli, placa una sanguinosa rivolta in carcere con la forza delle sue buone parole e non con la repressione militare chiesta dai funzionari del Mandarino. Ecco quando penso a questa scena del film mi viene in mente Rita. Retorica, mi si potrà dire. Forse, ma sono certa che la sua competenza unita al riconoscimento che ha meritatamente conquistato nelle carceri le darebbe la capacità di affrontare anche situazioni difficili. E va detto, oggi le carceri stanno vivendo un brutto momento con edifici in rovina, necessari di “cure” strutturali e igieniche, con una grave carenza di personale, con un sovraffollamento che ha raggiunto percentuali inaccettabili per la dignità delle persone e per la civiltà di un Paese. Un problema che nasce da responsabilità condivise dalla politica e dalla magistratura, ambedue convinte che il carcere sia la soluzione di ogni male, la certezza della sicurezza sociale, la cura adeguata per sconfiggere la delinquenza. Argomenti, questi, che portano l’Italia a denunciare in questo anno oltre 70 suicidi tra detenuti e detenenti. Una denuncia vergognosa per uno Stato di diritto, per una democrazia moderna. Se fossi Giorgia Meloni, donna che ritengo intelligente e - a volte - capace di scelte giuste e libere, non avrei dubbi sulla nomina di Rita Bernardini. E se mi chiedesse “perché Bernardini” risponderei “perché Rita fa politica con passione, per convinzione e non certo per convenienza, perché ha fatto della civiltà delle carceri la sua ragione di vita senza chiedere nulla in cambio, perché saprebbe affrontare i problemi (che sono tantissimi, non si può immaginare quanti) penitenziari e cercare di dare loro una soluzione. E perché affidare la responsabilità di questo o quel settore a chi è in grado di sanare il ‘bilancio’ di quelle deficienze fa eccellere il nominato, certo, ma soprattutto chi lo ha nominato”. Bernardini fa paura? Credo faccia più paura il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro che rivendica di aver visitato “il carcere di Taranto per incontrare solo la polizia penitenziaria, perché lui non si inchina alla Mecca dei detenuti”. È questo il modello anche culturale che vogliamo trasferire all’estero? *Fondazione Enzo Tortora “Sembra ci sia una regia occulta”. I dubbi sulle rivolte nelle carceri italiane di Francesca Galici Il Giornale, 3 settembre 2024 Dopo il grave episodio (l’ennesimo) nel carcere minorile di Milano, ancora una rivolta si è verificata in una struttura per minori, stavolta a Bari. I sindacati: “Fa riflettere la tempistica di questi episodi”. Continuano le rivolte nelle carceri italiane e dopo il grave episodio che si è registrato nella struttura minorile di Milano, un episodio simile si è verificato in quello barese. E ora, al di là della gravità dei fatti, delle riflessioni che devono essere fatte sulla situazione carceraria italiana, è forse ragionare anche su altri elementi e su altri fattori, perché le rivolte si stanno facendo sempre più frequenti e sempre più violente, a scapito degli agenti di Polizia Penitenziaria. Ma, soprattutto, quel che ora desta molti dubbi sono le tempistiche dei tumulti, che si sono sempre verificati nelle carceri ma ora emergono elementi che destano qualche perplessità. “Fa riflettere la tempistica di questi episodi: Roma, Torino, Milano e ora Bari”, ha dichiarato Federico Pilagatti, segretario del Sappe. Ed è proprio la tempistica a far sorgere gravi sospetti: “Quello che sta accadendo nel carcere minorile di Bari sembra frutto di una regia occulta”. Le parole di Pilagatti aprono scenari che non possono restare inesplorati, perché se così fosse bisognerebbe capire cosa sta realmente succedendo nelle case circondariali ma, soprattutto, chi c’è dietro. “Alcuni prima avrebbero minacciato verbalmente il dirigente del carcere alla presenza anche del comandante di reparto, e poi aggredito un poliziotto”, spiega ancora il sindacalista del Sappe, che aggiunge come a questo punto “è scoppiata la protesta all’interno del penitenziario ed anche in questo caso i pochi agenti in servizio a rischio della loro incolumità, stanno operando con molta difficoltà per riportare la calma”. La rissa nel carcere barese sarebbe scoppiata tra detenuti italiani e stranieri, che si sono affrontati prima che venissero separati dalle autorità. Fortunatamente, questa volta, non è stato necessario allertare i servizi di emergenza del soccorso e tutto si è risolto all’interno del carcere, nonostante ci siano stati agenti feriti. Ma il fatto che sia esploso l’ennesimo episodio non è normale. “Le carceri per minori sono fuori controllo”, ha aggiunto Aldo di Giacomo, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Spp. Nel carcere di massima sicurezza Pigliarelli di Palermo, nella giornata di ieri, “tre detenuti appartenenti al reparto di alta sicurezza, provenienti dalla Campania, hanno accerchiato un assistente capo in servizio, colpendolo con calci e pugni nel tentativo di sottrargli la chiave delle celle”. Così ha raccontato la Consipe (Confederazione sindacati penitenziaria), esprimendo “massima preoccupazione” per i “gravi eventi”. Serracchiani: “Su carcere e diritti Tajani faccia sul serio. Noi del Pd aspettiamo” di Errico Novi Il Dubbio, 3 settembre 2024 Intervista alla responsabile Giustizia dem: finora Forza Italia ha solo parlato e poi è tornata nei ranghi. “Vorremmo vedere fatti concreti. Se ci fossero, non abbiamo mai negato di poter dare la nostra disponibilità. Se davvero Forza Italia, su temi come lo Ius scholae o le carceri, si mostrasse capace di affrancarsi dalla linea dominante nella maggioranza e agisse in modo serio, il Partito democratico, ripeto, sarebbe disponibile a parlarne”. Ma? “Ma i fatti”, chiarisce subito Debora Serracchiani, deputata e responsabile Giustizia dem, “dicono che Forza Italia avanza propositi e poi torna puntualmente nei ranghi della maggioranza. E sinceramente, noi non abbiamo alcuna intenzione di farci prendere in giro”. Si riferisce al Decreto Carceri? Sembrava che fossero disponibili a sostenere la liberazione anticipata: e invece hanno virato in tutt’altra direzione. Sono stati perfettamente allineati al resto della maggioranza sulle detenute madri. Potrei fare altri esempi. Li faccia... Abbiamo riproposto tutte le norme sul carcere adottate durante il periodo covid, sotto forma di emendamenti. Dalle videocall all’aumento del numero delle telefonate e ai permessi. Niente da fare. Respinti tutti. Forza Italia non è mai andata oltre la teoria. All’atto pratico, ci hanno votato contro pure loro. Più chiaro di così... Avevate riproposto anche la più che ragionevole norma, accantonata dall’attuale governo, che eliminava l’obbligo di rientro serale in cella per i semiliberi? Certo. Una norma nata per limitare i contagi ma che serve anche a enfatizzare il percorso di reinserimento. Il governo l’ha eliminata subito. Quando l’abbiamo riproposta, tutta la maggioranza è rimasta indifferente. Anche Forza Italia. Senta, onorevole Serracchiani, possiamo dire comunque che la leggenda nera secondo cui il carcere e il garantismo provocherebbero emorragie di voti è smentita dagli ultimi risultati elettorali? Sia voi, che sul carcere vi siete battuti, sia FI che, almeno nei propositi, ha una linea diversa dal resto del governo, siete andati bene... C’è sicuramente una grande attenzione dell’opinione pubblica a proposte e soluzioni che fino a poco tempo fa avrebbero suscitato allarme. E però, se è vero che ci sarebbero le condizioni per assumere determinati provvedimenti, è vero pure che finora la maggioranza non è mai andata fino in fondo nel sostenerli. Dimostrano di essere garantisti solo sulla carta. Custodia cautelare e garanzie per gli amministratori locali. C’è l’ipotesi di modificare il presupposto della reiterazione del reato: secondo il centrodestra, applicarlo a chi è incensurato contrasta con la presunzione d’innocenza... Aspettiamo di leggere qualcosa che assomigli a una proposta di modifica. A di là delle ipotesi ventilate o vagheggiate, testi non ce ne sono. Comunque bisogna anche stare attenti a non indebolire gli strumenti di cui oggi la magistratura è dotata per contrastare i reati. Più in generale, si ipotizza la modifica della legge Severino, in particolare con l’addio alla sospensione di quegli amministratori condannati solo in primo grado, dunque presunti innocenti... Noi sulla Severino abbiamo già delineato una soluzione, che però è diversa dall’ipotesi lasciata circolare dalla maggioranza: riteniamo che si possa eliminare la sospensione dopo la sola condanna in primo grado, ma non per i reati che generano grave allarme sociale. E mi riferisco non solo alla mafia e al terrorismo ma anche ai reati di corruzione. Lascereste la Severino anche per reati contro la Pa non particolarmente “offensivi”, dalla generica malversazione al peculato d’uso? Noi abbiamo parlato di fattispecie corruttive. Al momento in cui ci fosse la possibilità di discutere su un provvedimento vero, articoleremmo in modo puntuale la proposta del Pd, che certamente comprenderà, ed è nei testi già depositati, pure la revisione della responsabilità civile e penale degli amministratori. Anche qui però, come per il resto, dobbiamo riferirci, riguardo alla presunta iniziativa della maggioranza, a ipotesi aeree, non a fatti concreti. Di certo, ci pare vi sia la tendenza a un generale allentamento sui soli reati contro la pubblica amministrazione, insieme con una particolare asprezza, capace magari di suscitare consenso, spesso esibita rispetto ai reati che possono essere commessi nell’ambito delle realtà sociali più fragili. Il garantismo di questa maggioranza, quando c’è, riguarda solo i colletti bianchi. Da ultimo, non possiamo trascurare che a breve entrerà nel vivo l’iter sulla separazione delle carriere. Avrete una linea integralmente oppositiva o, su alcuni aspetti, potreste discutere? Ad esempio, sull’avvocato in Costituzione o sull’ipotesi di derubricare il sorteggio dei togati da integrale a temperato. Noi siamo nettamente contrari alla proposta di riforma avanzata dal governo. La troviamo irricevibile. Intanto, l’avvocato in Costituzione non c’è. È vero, ma se nel corso dell’iter tornasse sul tavolo? Noi saremmo anche d’accordo, con il riconoscimento dell’avvocato in Costituzione. Ma torno a dire: parliamo di qualcosa che nel ddl del governo non esiste. Riguardo al sorteggio, non siamo d’accordo, e anche aspetti sui quali pure in partenza saremmo favorevoli sono stati formulati dal governo in modo sbagliato. Mi riferisco in particolare all’Alta Corte. Che in effetti è, originariamente, un’idea avanzata da uno dei “padri costituenti” del Pd, cioè Luciano Violante... Solo che, secondo la nostra impostazione, l’Alta Corte avrebbe dovuto avere un senso ben diverso, innanzitutto perché da introdurre per tutte le magistrature, non solo per quella ordinaria, come invece avviene nel testo del centrodestra. Vi si sarebbe potuto fare ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm, per esempio, sezione che noi, diversamente dal governo, riteniamo non debba essere portata via al Consiglio superiore. Tanto più che non ci convince neppure la composizione e il metodo di elezione dell’Alta Corte disegnata nel ddl dell’Esecutivo. Infine: i ricorsi avrebbero dovuto riguardare non solo le questioni disciplinari ma anche quelle amministrative, relative per esempio agli incarichi. È tutt’altra cosa, la nostra proposta rispetto al loro ddl. Che invece, me lo lasci dire, ci pare davvero una riforma surreale. La deriva etica di alcuni magistrati è frutto di una politica sedotta dal populismo penale di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 3 settembre 2024 Nel mese di agosto la polemica tra la politica e la magistratura o meglio tra i politici e i magistrati si è acuita tanto da scadere in una bega e un turpiloquio rifiutato da chi ha un minimo di buonsenso. Lo scontro tra i due poteri ha origini antiche, dall’antica Grecia per il conflitto tra “i signori del diritto”, come uno studio di grande spessore del professor Ortensio Zecchino spiega e dimostra, ma quando scade a scontro di cortile risulta insopportabile e deleterio. D’altra parte se a ogni indiscrezione della stampa su una qualunque pretesa iniziativa giudiziaria, gli esponenti politici reagiscono e minacciano di riformare la giustizia è inevitabile la protesta dei magistrati e della Associazione che ritiene di essere punita da un legislatore “avversario”. Esaminiamo qualche avvenimento che negli ultimi mesi ha posto in contrasto i politici (non la politica) con la magistratura. La vicenda del presidente della Regione Liguria Toti è certamente emblematica per dare un giudizio sereno e obiettivo sul ruolo atipico che la magistratura vuole assumere in questo periodo storico che in verità dura da molto tempo, da quando il potere politico ha dimostrato segni di crisi. Si dice sbrigativamente che c’è una parte anche rilevante della magistratura politicizzata: è vero ma è un giudizio sommario e approssimativo che va approfondito. Il magistrato, come tutti gli esseri viventi, vive in una società, quella attuale, moralistica e rancorosa dove trionfa il personalismo che ha fatto perdere alla società quella solidarietà e quella unità che aveva caratterizzato gli anni del dopoguerra, e ahimè! Influenzato! La legislazione è figlia di questo clima che ha fatto perdere valori e consistenza storica e la cultura di riferimento, e quindi è moralistica imperfetta e primitiva, per cui la delega che il legislatore dà a chi deve applicare la norma è ampia e al tempo stesso “incerta”. E questa è la principale patologia Bisogna riconoscere però che la magistratura ha preteso e pretende questa delega perché ha possibilità di poter “interpretare” in maniera assoluta, ma al tempo si lamenta: sta di fatto che l’apparato del ministero di Giustizia fatto di magistrati è tutto proteso a questo fine! Orbene siccome la magistratura è in qualche modo irresponsabile perché “autonoma” sotto tutti gli aspetti, mostra sempre di più un ruolo anomalo, etico, di chi è chiamato non ad applicare la norma ma a far vincere il bene sul male. C’è chi strumentalizza questo politicamente, ma la cosa pericolosa per l’equilibrio democratico è questa tendenza - cultural - moralistica che è diventata comune a tutti gli operatori della giustizia, accettata dalla società che ha tanto rancore sociale. Il cittadino ormai critica il giudice che assolve e non condanna per cui la giustizia è solo la condanna; e la pena è solo vendetta soprattutto se “pena esemplare”. Non si chiede più giustizia ma condanna, anche perché la vittima, come ha spiegato magistralmente il professor Vittorio Manes, è sempre più protagonista “prima e fuori dal processo” in modo da “modificare i principi di fatto che guidano e debbono guidare l’accertamento penale. Il ruolo della vittima ha tale “autorevolezza morale” che la si vuole inserire inutilmente nella Costituzione per avere una tutela che è naturalmente nella natura del processo. Se questo è il quadro di riferimento la presa di posizione, questa volta formale ed esplicita del Pm e del giudice di Genova nei confronti di Toti nel pretendere di attuare le dimissioni da presidente della Regione, è un intervento anomalo e irrituale ma è legato alla pretesa di liberare la società ligure da una politica ritenuta negativa attraverso indagini giudiziarie prive ancora di prove. Quando anche nel collegio del riesame per attuare la libertà si dice che non è possibile la scarcerazione di Toti per la sua “incapacità ad ammettere il reato”, si svela senza remore il ruolo etico del magistrato che vuole la catarsi del presunto reo e della società. Leggendo queste motivazioni mi è venuto in mente quello che qualche anno fa mi raccontò un mio congiunto, valente magistrato, che interrogando un detenuto e probabilmente spiegandogli il disvalore del reato, si sentì dire “Lei faccia il giudice perché io faccio l’imputato” ed evidentemente non accettava giudizi morali. Credo che il magistrato ebbe una lezione di procedura penale e di deontologia professionale che gli è valsa per tutta la vita. Altri episodi sarebbe lungo ricordare degli ultimi mesi e certamente non mi soffermo sulla signora Arianna Meloni, meglio conosciuta come sorella del presidente del Consiglio. È invece importante ricordare il contenuto dell’archiviazione del giudice sulla querela presentata da Davigo sulle sue vicende giudiziarie contro il direttore del Foglio, che segna un punto importante di interpretazione del ruolo e delle modalità a cui la stampa deve attenersi nel criticare o nel raccontare i fatti. Claudio Cerasa sul Foglio fa un ampio commento che vale la pena approfondire, ma una cosa è importante da osservare subito che il giustizialismo sfacciato e insopportabile di Davigo è stato stigmatizzato da un giudice che conosce la Costituzione, che ha contezza del suo ruolo indipendente capace di regolare gli accadimenti della società e degli individui che debbono essere in armonia “per far vivere la democrazia”. Ecco due criteri diversi per esercitare il difficile ruolo del magistrato che deve essere lontano mille miglia dal moralismo dannoso per le persone e per la società. Se non affrontiamo questi problemi che sono pregiudiziali a tutte le altre riforme non risolviamo la “questione giustizia” e lo scontro si inasprisce; la colpa sarà sempre del legislatore che se approva leggi come il “traffico di influenze”, per fare un solo esempio, che aumenta il populismo penale e il circo mediatico, il magistrato sarà sempre più tentato a interpretare la legge secondo le sue idee politiche o morali o filosofiche! Violenze di genere. “È inutile l’allontanamento contro le persone violente” di Hoara Borselli Il Giornale, 3 settembre 2024 Intervista a Giulia Bongiorno. La presidente della commissione Giustizia sul caso di Sharon: “Leggi inefficaci se applicate male”. Giulia Bongiorno, 57 anni, è una delle più apprezzate avvocate italiane. È diventata celebre sbaragliando le procure che accusavano Giulio Andreotti. Ora è senatrice, eletta con la Lega, ed è presidente della commissione giustizia. Sulla base delle denunce che c’erano state contro l’assassino di Sharon esistevano le condizioni per fare scattare il Codice Rosso. Cosa non ha funzionato? “I familiari del presunto colpevole hanno dichiarato di aver presentato tre denunce. È essenziale, dopo le denunce, un’immediata e adeguata valutazione dei casi. Da quel che leggo, sarebbe stata applicata solo la misura dell’allontanamento da casa”. Quindi lo reputa un errore? “Non conoscendo il caso, la prudenza è indispensabile. Ma va detto che le personalità violente tendono a reiterare i propri gesti, con il rischio di escalation. Nei casi di violenza, troppo spesso le misure cautelari come l’allontanamento e il divieto di avvicinamento sono del tutto inutili”. Una sua dichiarazione: Le leggi ci sono ma vengono applicate male. Troppo spesso accade questo. Come si può intervenire? “È un problema molto serio, sul quale insisto da tempo. Non posso dimenticare che poco dopo l’entrata in vigore del Codice Rosso da me firmato, che impone all’autorità giudiziaria di accelerare le procedure, da più parti arrivarono lamentele perché l’aumento delle denunce aveva causato un intasamento degli uffici giudiziari. Come se si stesse parlando di un accumulo di residui nello scolo di un lavello, anziché di donne che chiedono aiuto per uscire dalla violenza. È un successo del Codice Rosso aiutare le donne a denunciare, ed è un dovere aiutarle tempestivamente. Anche se questo richiede maggiore impegno da parte di tutti”. Troppi femminicidi e troppo spesso le vittime avevano denunciato... “Anche la migliore delle leggi è inefficace se non viene applicata nel modo giusto. Non sempre, purtroppo, il termine fissato dal Codice Rosso viene rispettato e questo aumenta il rischio di violenze ulteriori. Ecco perché è nata una nuova legge volta a rafforzare il Codice Rosso: adesso, se una donna che denuncia una violenza non viene ascoltata entro tre giorni dall’avvio del procedimento, il Procuratore Capo potrà assegnare il fascicolo a un altro pm o occuparsi direttamente del caso. Se questa ulteriore stretta si rivelasse inefficace, potrebbe essere utile un sistema specifico di sanzioni contro le inerzie colpevoli. Ma è assurdo che il Parlamento sia costretto a fare leggi per garantire l’applicazione di leggi in vigore!”. Altro tema: i minori violenti. Perché ha proposto di abbassare la soglia di imputabilità? “Oggi i minori maturano molto più in fretta: internet e i social sono strumento di conoscenze e informazioni che prima si acquisivano a un’età più avanzata. Le norme devono seguire l’evoluzione dei fenomeni sociali”. Quali possono essere le conseguenze dell’invasività della rete nella vita dei giovanissimi? “C’è il dato, drammatico, dei giochi violenti e delle sfide mortali proposti in rete, da cui sono derivate nuove forme di aggressività e autolesionismo. È compito sia dello Stato sia delle famiglie vigilare su queste realtà, secondo i rispettivi ruoli e competenze. Non voglio demonizzare internet, ma non è da trascurare da un lato l’aggressività, dall’altro la depressione, generata dall’impossibilità di aderire a modelli, fasulli, di successo, ricchezza, bellezza. Quanto alla pornografia, veicola un’immagine distorta del sesso, che genera ansia, insicurezza, e un’idea del corpo femminile come carne sulla quale sfogare gli istinti più bestiali, magari facendo passare in modo più o meno velato il concetto che la violenza potrebbe anche essere gradita, dunque legittima”. Che senso ha la richiesta di arresto per Laudati e Striano avanzata dalla Procura di Perugia? “Non entro nel merito del caso, posso solo sottolineare che da alcuni anni cresce in modo esponenziale il numero degli accessi abusivi. Chi ha l’enorme potere di accedere a banche dati deve imparare a considerare che la disponibilità di accedere non equivale al diritto di farlo per qualsiasi scopo. Serve massimo rigore. Ma, ripeto, non mi riferisco al caso specifico”. Cosa pensa delle voci di inchieste giudiziarie contro Arianna Meloni? “Mi ha colpito che molti si siano scandalizzati di fronte alle parole del premier, che ha ritenuto verosimile l’esistenza di un sistema di potere che usa ogni metodo pur di sconfiggere un nemico politico. Io credo nell’onestà intellettuale della stragrande maggioranza dei magistrati, ma nessuna categoria è esente da mele marce, nemmeno la magistratura. Chi sostiene il contrario dimentica non solo quanto emerso dal libro di Palamara, ma anche dalle sue chat con i colleghi; in particolare, mi riferisco a quando Palamara scriveva a un altro magistrato che bisognava attaccare Salvini, anche se era convinto che la sua politica contro l’immigrazione fosse corretta. A me quelle frasi son rimaste impresse nella memoria, e spero non soltanto a me”. La giustizia così non funziona. In che direzione va riformata? “Molte leggi sono state approvate. Altre di rango costituzionale avranno un percorso più lungo. Credo che una riforma del Csm che elimini le degenerazioni del correntismo e assicuri un’effettiva indipendenza dei magistrati da ogni potere e condizionamento possa avere un impatto importante sui cittadini. La magistratura può e deve recuperare una credibilità offuscata dagli ultimi scandali e i cittadini potranno essere più sereni”. I magistrati fanno fronte contro la riforma. È giusto così? “Non è vero che i magistrati sono tutti schierati contro una riforma incisiva che valorizzi il merito dei singoli e depotenzi le correnti. Tantissimi di loro lavorano silenziosamente, giorno e notte; magistrati di grande valore che magari non hanno avuto un incarico perché non appartengono a nessuna corrente. Se dovessero cominciare a pensare che vivere onestamente è inutile, sarebbe la morte della giustizia”. La giusta indagine sui “dossieraggi” e gli atti irrituali di Cantone di Ermes Antonucci Il Foglio, 3 settembre 2024 Il procuratore di Perugia attacca in una nota il giudice che ha negato gli arresti nell’indagine sugli accessi abusivi alle banche dati e manda le carte alla commissione Antimafia. Atti inusuali su un’inchiesta ancora in corso. Nuovi colpi di scena riportano alla ribalta il cosiddetto “scandalo dossieraggio”, esploso un anno fa e incentrato sulle migliaia di accessi abusivi effettuati dal finanziere Pasquale Striano alle banche dati a disposizione della Direzione nazionale antimafia (Dna). Dopo il respingimento da parte del gip della richiesta di arresto per Striano e l’ex pm antimafia Antonio Laudati, il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ha diffuso ieri un comunicato stampa per fornire precisazioni sull’indagine. Il comunicato, in verità, ha più le forme di una critica pubblica alle censure avanzate dal gip. Un atto inusuale, tanto quanto la lunga audizione che lo scorso marzo Cantone tenne alla commissione Antimafia del Parlamento per illustrare i contenuti dell’indagine ancora in corso. Nella nota Cantone fa sapere che le indagini sui presunti dossieraggi ai danni di vip e politici “non sono affatto concluse”, anche perché dagli accertamenti effettuati “sono emersi ulteriori episodi di possibili accessi abusivi” alle banche dati. Ma nel comunicato il procuratore di Perugia ribadisce come siano emersi anche “gravi fatti di inquinamento probatorio in grado di danneggiare” le prove finora acquisite. Si tratta delle accuse mosse nei confronti di Striano e Laudati per chiedere il loro arresto, poi negato dal gip. Nella nota, Cantone riporta che il gip “ha ritenuto non configurabili le prospettate esigenze cautelari”, ma allo stesso tempo attacca pubblicamente alcune affermazioni del giudice delle indagini preliminari, come quella secondo la quale “gli indagati avrebbero avuto in tutto o in parte accesso agli atti processuali”. “Al contrario, ad oggi, nessuna discovery degli atti vi era mai stata e non erano stati nemmeno contestati gli esiti delle indagini agli indagati”, replica Cantone. Viene da chiedersi se lo scopo del comunicato stampa da parte di un procuratore della Repubblica sia criticare un provvedimento sfavorevole adottato da un giudice, peraltro impugnato in sede di Riesame. Non è tutto. Nel comunicato, infatti, Cantone annuncia che gli atti relativi all’indagine saranno trasmessi alla commissione Antimafia “nei prossimi giorni”, essendo venuto meno il segreto dopo che gli atti sono stati trasmessi al gip con la richiesta cautelare. Anche in questo caso, viene da chiedersi se sia normale che la commissione Antimafia si trasformi in una sorta di tribunale parallelo, dove celebrare processi mediatico-politici sulla base di indagini neppure ancora concluse, con buona pace del rispetto del principio di presunzione di innocenza. Perplessità su questo modus operandi, d’altronde, erano già state espresse dal procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani, dopo la lunga audizione in commissione Antimafia da parte di Cantone a marzo. In una nota, Sottani aveva definito “inusuale” la richiesta di Cantone di essere audito all’Antimafia. Il pg aveva avanzato, indirettamente, alcuni dubbi sull’opportunità di rivelare in audizione all’Antimafia i contenuti dell’indagine in corso, ricordando l’importanza del “corretto bilanciamento tra il doveroso diritto dell’opinione pubblica ad essere informata nella fase delle indagini e il rispetto della presunzione di innocenza”. “La richiesta di arresti domiciliari e l’appello interposto dalla procura, così come l’iniziativa di diffondere una nota, ci hanno sorpreso per l’irritualità di tutto ciò”, ha dichiarato ieri il professore Andrea Castaldo, legale di Laudati, aggiungendo di essere “estremamente fiduciosi che il tribunale del Riesame, all’udienza del 24 settembre, fornirà una conferma della estraneità e pericolo di inquinamento probatorio che riteniamo non sussistere”. Curiosamente, comunque, ciò che avrebbe dovuto in teoria rappresentare un punto a sfavore della procura perugina (il rigetto della richiesta di arresto per i due principali indagati) è diventato il pretesto per diversi organi di informazione per rilanciare il “caso dossieraggio”, presentandolo come il più grave scandalo giudiziario della storia repubblicana. Nessuno nega la gravità della vicenda (gli accertamenti avrebbero verificato decine di migliaia di accessi abusivi alle banche dati segrete della procura nazionale antimafia), ma al momento non è emerso alcun elemento sull’esistenza di una vera “centrale di dossieraggio” (lo stesso Cantone all’Antimafia negò l’esistenza di archivi, finalità economiche o il coinvolgimento di servizi segreti esteri). Insomma, il caso degli accessi abusivi è ancora tutto da chiarire. Sarebbe auspicabile che ciò avvenisse nella sede opportuna, quella giudiziaria. Benevento. Detenuto si impicca in cella: è l’ottavo suicidio in Campania nel 2024 di Valerio Papadia fanpage.it, 3 settembre 2024 Un detenuto di 62 anni si è tolto la vita nella mattinata di oggi all’interno della sua cella nel carcere di Benevento: si tratta dell’ottavo detenuto morto suicida in Campania nel 2024. Ennesimo suicidio in un carcere della Campania: si tratta dell’ottavo detenuto che si toglie la vita nella regione dall’inizio del 2024. Ieri mattina, lunedì 2 settembre, un detenuto di 62 anni si è suicidato impiccandosi all’interno della sua cella nel carcere di Benevento. A darne notizia è stato il Garante per i detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, che ha dichiarato: “Il numero di decessi per suicidio nella nostra regione continua a crescere, evidenziando un incremento nel tasso di suicidi. Siamo a 68 a livello nazionale e a otto in Campania”. “Occorre fare qualcosa di concreto adesso: Se non ora quando? Un dramma, una strage di Stato - conclude Ciambriello - che si consuma nell’indifferenza della politica e della società civile”. “I suicidi, le aggressioni e quanto sta avvenendo nei penitenziari italiani deve indurci a serie riflessioni tali da concretizzarsi in provvedimenti risolutivi ad un sistema penitenziario imploso, al collasso, che urge una terapia appropriata vista la complessità. Da tempo suggeriamo provvedimenti sulla gestione dei casi psichiatrici, sugli extracomunitari ed altro e pertanto il 12 settembre saremo a gridare questo allarme sociale davanti ai Prap di diverse regioni, affinché sia ridata dignità e decoro al Corpo di Polizia Penitenziaria con una nuova organizzazione del sistema penitenziario” ha dichiarato invece Luigi Castaldo, vicepresidente del Consipe, sindacato di Polizia Penitenziaria. Reggio Emilia. Suicidio in carcere, la famiglia: “Noi non ci crediamo, il pm faccia piena luce” di Nicola Bonafini Il Resto del Carlino, 3 settembre 2024 Il fratello della moglie di Saddiki, morto impiccato in cella: “L’aveva sentito mercoledì e contava i giorni per uscire. Aveva preso il diploma da cuoco e stava mettendo via i soldi”. “Saddiki? Era l’uomo più tranquillo che ci fosse. Ce l’hanno detto tutti quelli con cui abbiamo parlato del carcere di Reggio Emilia che non avevamai dato un problema. E poi, come fa un uomo di 1.90, quasi 2 metri, a togliersi la vita impiccandosi con una maglietta alle grate della porta della cella?” (in realtà pare si trattasse delle grate della finestra; ndr). I famigliari non credono alla versione del suicidio. Saddiki, il marocchino di 54 anni, sposato, padre di due figli (avuti da una precedente compagna), è l’uomo che nella serata di giovedì si sarebbe tolto la vita impiccandosi nella cella dove era rinchiuso, dopo una lite scoppiata col suo compagno, da cui era stato separato, lasciandolo solo in cella. Una versione, quella del gesto volontario, che non convince la moglie Suuad, 36 anni, attualmente in Marocco, né le famiglie dell’uomo e della consorte. Ad esplicitare tutto questo è il fratello della moglie di Saddiki, Tarik Baissiri, che racconta gli ultimi giorni del 54enne extracomunitario e i punti ‘oscuri’ della versione suicidaria. Signor Baissiri, perché, dal vostro punto di vista, la visione di un suicidio puro e semplice non è esaustiva? “Perché né mia sorella (la moglie di Saddiki, ndr), né gli altri membri delle nostre famiglie che hanno potuto parlare con lui nei giorni precedenti, hanno avuto la netta percezione che ci fosse qualcosa che non andasse. Anzi, era estremamente sereno e positivo”. Andiamo con ordine. Quando è stata l’ultima volta che sua sorella e il marito si sono sentiti? “Mercoledì della scorsa settimana. Esattamente un giorno prima di quando gli eventi sono precipitati” Come è stata quella conversazione? “Estremamente serena. Saddiki stava raccontando alla moglie che dopo aver frequentato un corso da cuoco in carcere e averne conseguito il diploma, stava dando una mano a cucinare i pasti dentro al carcere e si stava dando da fare per fare ulteriori lavori all’interno per guadagnare qualche soldo per sostentare lei e i suoi figli (che abitano a Reggio, ndr)”. Insomma, nulla che lasciasse presagire un gesto estremo. È così? “Assolutamente no. Anche perché lui stava ‘contando i giorni’ che lo separavano dall’uscire. Diceva a Suuad che tra Natale e il Primo dell’anno sarebbe potuto tornare in libertà (in realtà sarebbe andato ai domiciliari, ndr) e costruirsi una nuova vita, imparando dagli errori commessi prima. Questo il mercoledì. Poi giovedì sera, saranno state le 22.30, 23 circa, hanno chiamato dal carcere per dirci che era morto. Da non credere. Poi ci sono altri dettagli che non ci tornano”. Quali? “Saddiki è un uomo di 1.90 metri di altezza. Come può essersi impiccato alle grate della porta del carcere? Con una maglietta fatta a pezzi? Come sarebbe fisicamente possibile?” Pare che poco prima abbia litigato col suo compagno di cella… “È ciò che sappiamo anche noi. Però sappiamo anche che in tutto il suo periodo in carcere non ha mai litigato con nessuno e non ha mai creato un problema disciplinare”. Si può dire, quindi, che non credete fino in fondo all’ipotesi del suicidio? “Esatto. Anzi, chiediamo che la Procura faccia tutto il possibile per arrivare a fare piena luce su quanto accaduto. Di poter acquisire e valutare la videosorveglianza interna al carcere e a fare tutto quanto è in suo potere per arrivare alla verità” Perché il marito di sua sorella era finito in carcere? Si legge di un cumulo di pene per furti, rapina e resistenza a pubblico ufficiale… “Saddiki era il primo ad essere consapevole di aver sbagliato e di averlo fatto più di una volta. Purtroppo quando arrivi in Italia senza documenti e con una famiglia da mantenere, è difficile che qualcuno ti dia un lavoro o un tetto sotto cui stare. Ovviamente se era finito in carcere, è perché non si era comportato come doveva. Ma aveva capito. Era pronto a ricominciare. E quella telefonata di mercoledì ne è una testimonianza sincera”. Infine, come sta la moglie e le vostre famiglie? Come stanno vivendo questo lutto? “Male. Molto male. Proprio perché al di là della perdita che è enorme, sono le circostanze che non convincono. E questo aspetto non fa altro che aggiunge angoscia a un dolore fortissimo”. Frosinone. Disordini nel carcere dopo la morte di un detenuto italiano di 62 anni 9colonne.it, 3 settembre 2024 “Apprendiamo che ieri sera nel carcere di Frosinone è deceduto un detenuto italiano di 62 anni. Probabilmente i disordini sono avvenuti dopo tale evento”. Così il segretario generale Fns Cisl Lazio Massimo Costantino riferendo che ieri sera “detenuti della prima sezione e poi anche quelli della seconda sezione hanno creato disordini, rotto vetri, allagato ambienti, si è reso necessario l’intervento del gruppo di intervento. Da quanto apprendiamo in serata è stata ripristinato l’ordine e la sicurezza. Attualmente vi è un solo comandante, mancano capo reparti ispettori e vice comandanti e non si riescono a coprire i turni per tale carenza. Dei 38 assegnati di Polizia Penitenziaria da interpello ne sono arrivati solo 20 unità”. La Fns Cisl Lazio evidenzia la “gravissima situazione della carenza di personale di Polizia Penitenziaria in ambito regionale che è di -652 unità mentre alla CC Frosinone - 27 secondo il DAp ma effettivamente ne mancano 100 - il tasso di sovraffollamento è al 127%”, “la carenza di personale è cronica e non bastano le unità pochissime arrivate a rimpinguare il turnover. Oggi si paga una ripartizione regionale della dotazione organica del Corpo di Polizia Penitenziaria appartenente ai ruoli degli agenti, assistenti, sovrintendenti ed ispettori che avevamo fortemente contestato in ambito regionale poiché i numeri non solo erano esigui ma mal ripartiti”. E ribadisce “la necessità di intervenire sulla gestione dei detenuti con problemi psichiatrici e quelli legati alla mancanza di posti nelle Rems e della gestione degli stessi da parte da della polizia penitenziaria e ricordano, altresì, che nell’incontro del 9 settembre, relativo al tavolo di lavoro e di studio interistituzionale per avviare un percorso finalizzato alla stesura di un Piano regionale aggiornato per la prevenzione del rischio suicidario negli istituti penitenziari del Lazio”. E conclude: “Servono urgentemente correttivi per evitare criticità nelle carceri della regione Lazio data la gravissima situazione della carenza di personale di Polizia Penitenziaria, aggiornata al 13.08.2024, che è di - 652 unità, così ripartite: Rieti NC -35; Regina Coeli -150; Viterbo-88; Civitavecchia nuovo complesso- 20; CR Civitavecchia - 12; Cassino - 35; Latina - 7; Velletri -80; NC Rebibbia - 109; CC Frosinone -27; CR Paliano -8; CR Rebibbia -55; CCF Rebibbia -11: 3^ CC Rebibbia -15”. Firenze. Ancora venti detenuti nel settore che prese fuoco: non hanno luce né docce di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 3 settembre 2024 Sono ancora nel settore che a luglio fu incendiato durante la rivolta per il suicidio. Sono in venti e si trovano ancora nel settore che, a inizio luglio, fu devastato dalla rivolta dei detenuti per il suicidio di un giovane di 20 anni. Durante la protesta furono incendiati oggetti e materassi che hanno reso inagibile le celle. Ma ancora venti detenuti si trovano lì, senza luce né acqua per le docce. Sulle pareti annerite c’è ancora l’odore lasciato dall’incendio. A volte l’aria è irrespirabile. E poi non c’è più corrente elettrica, questo significa che manca la luce, che non funzionano i ventilatori, che non si può accendere la televisione. E poi le docce, fuori uso anche queste. La sesta sezione del carcere di Sollicciano, dopo la rivolta con urla e roghi di inizio luglio, è ancora semi devastata. E dentro, nonostante buona parte dei reclusi sia stata trasferita in altri penitenziari toscani e italiani, ci sono ancora circa venti detenuti. “Vivono in condizioni da Terzo Mondo”, è la denuncia di Eleuterio Grieco, segretario regionale della Uil Pa, che lancia un appello all’amministrazione penitenziaria affinché siano trasferiti nel più breve tempo possibile. “Le condizioni di questa sezione, dove vivono perlopiù detenuti stranieri, sono drammatiche - aggiunge il sindacalista - Ci sono pareti nere, l’ambiente è malsano e anche noi agenti siamo costretti a lavorare in condizioni molto dure, sono condizioni non accettabili. Il paradosso è che tutti lo sanno ma nessuno sembra muoversi concretamente per cambiare la situazione”. Grieco se la prende anche con la nuova provveditrice regionale all’amministrazione penitenziaria, Gloria Manzelli, che “si è insediata da circa tre mesi ma che ancora non ha ricevuto le organizzazioni sindacali per discutitere delle forti criticità del carcere più complesso della Toscana”. La sezione numero 6 era stata devastata a inizio luglio. I reclusi avevano scatenato una rivolta incendiando materassi e distruggendo numerosi oggetti a poche ore di distanza dal suicidio di un detenuto nordafricano di vent’anni. Nel frattempo, continuano a Sollicciano le visite dei parlamentari. Ieri mattina è stata la volta della deputata di Forza Italia Erica Mazzetti, che al termine della visita ha detto: “Ho constatato una situazione preoccupante ed emergenziale, tra cemento armato deteriorato, infiltrazioni, insetti, riscaldamento, con problemi gravi per i detenuti e per i lavoratori. Ovviamente, ci sono criticità evidenti anche riguardo l’organico visto che mancano ispettori e non solo. Ho parlato con i dipendenti del carcere, ma anche con i detenuti che comprensibilmente chiedono condizioni più umane”. Ecco perché Mazzetti ha segnalato i problemi al viceministro della Giustizia e proposto “di fare subito una ricognizione e un tavolo per individuare una strategia, senza slogan”. Oggi sarà la volta di un’altra delegazione di Forza Italia, nell’ambito della campagna sull’emergenza carceri avviata dal segretario nazionale del partito Antonio Tajani. A entrare in visita a Sollicciano saranno Deborah Bergamini, vicesegretario nazionale di Forza Italia, il segretario regionale toscano, Marco Stella e i dirigenti Nicola Nascosti ed Eros Baldini. “Occorre andare nella direzione di un alleggerimento della popolazione carceraria, specie per la popolazione anziana e per i tossicodipendenti - hanno detto gli esponenti di Forza Italia - Ciò non significa che noi non vogliamo che ci sia l’esecuzione della pena. Ma non vogliamo che in carcere peggiori la situazione”. Firenze. L’inferno di Sollicciano, mentre la politica si limita all’indignazione di Vincenzo Russo* perunaltracitta.org, 3 settembre 2024 Dopo i provvedimenti prescrittivi giunti a carico della Direzione della Casa Circondariale di Sollicciano a seguito delle visite ispettive svoltesi nell’Istituto, la questione del carcere fiorentino è diventata centro di dibattito politico. L’attenzione è interamente rivolta al confronto fra Direzione e Ministero della Giustizia e le parti politiche manifestano impegno solo nello schierarsi con l’una o con l’altro. E così i detenuti sono schiacciati dentro una diatriba che ha altro come vero oggetto di interesse e non loro i quali, ancora una volta, diventano occasione per parlare di altro e non affrontare la vera questione che è in gioco: la loro vita. Intanto, amaramente, tra le mura di quell’Istituto come fra quelle di tante altre carceri italiane, si continua a patire condizioni disumane e a morire. Mentre infatti va in scena il dibattito che occupa le pagine dei giornali e rischia di distrarre l’attenzione dai veri problemi che affliggono il mondo carcere, quotidianamente si consuma l’immane tragedia. Non trovo altre parole per descrivere la condizione nella quale i detenuti si trovano a vivere ogni giorno, condizione resa ancora simbolicamente più infernale dalle calde temperature di questi giorni estivi. Ciò che accade dinanzi ai nostri occhi, che pure non riescono a vedere fino in fondo quella realtà tenuta appositamente nascosta, è il perdurare di trattamenti fortemente lesivi della dignità umana a danno di persone costrette a vivere in ambienti indegni, in situazione di grande privazione, nel vuoto di un tempo nel quale poco o nulla è fatto per la costruzione di percorsi rieducativi e nel quale si concretizza uno stato di non ascolto e abbandono. In questo contesto crescono disagio e fragilità, si sviluppano rabbia e violenza, si cancella ogni forma di speranza. Anche se espressione forte, la parola tortura è una parola appropriata se utilizzata oggi per descrivere ciò che si vive all’interno del carcere. Di fronte a questo è veramente ipocrita il dibattito politico in corso, che si rivela anche svuotato di senso. I partiti di “sinistra” impugnano l’arma dell’indignazione contro i partiti di governo, accusandoli di essere la causa di questa mala gestio e della drammatica situazione delle carceri. Ma nel fare questo dimenticano che tali problemi affliggono gli istituti di pena da lungo tempo e che negli anni in cui loro erano al governo nulla hanno fatto per realizzare riforme capaci di incidere e portare al cambiamento tanto sbandierato. Ogni attuale indignazione e accusa appare in questo senso oltremodo tardiva ed ipocrita, più finalizzata alla dinamica della contrapposizione politica che ad affrontare il problema. Trovo tutto questo non solo contraddittorio ma fortemente strumentale e di facciata; di fatto si fa politica sul sangue della gente. Nell’ambito del generale fallimento di tutto il sistema penitenziario, Sollicciano è esempio eccellente di disastro. Oggi si grida allo scandalo, ma fino a ieri chi lo asseriva era screditato e ostacolato in ogni modo, come ho sperimentato sulla mia stessa pelle. La cosa grave è che, però, oggi non si risalta tanto lo scandalo delle condizioni che in quell’Istituto affliggono i detenuti, quanto quello relativo alle prescrizioni ricevute dalla Direzione da parte del D.A.P. Lo scandalo è questo, non gli otto morti negli ultimi due anni! Mi chiedo: chi risarcisce quei morti? Quelle persone hanno scelto di evadere da un sistema che produce morte, sia fisica che spirituale, e che nei fatti non sa proporre altro. Tale sistema si conserva e rimane quasi inalterato, peggiorando soltanto, mentre le responsabilità passano di mano fra “destra” e “sinistra”, senza che ci sia segnale di concreto ravvedimento per quanto non fatto o fatto male. Noi cittadini siamo stanchi ed indignati di fronte a questo scempio che esclude non soltanto i detenuti dalla vita sociale ma più in generale tutti i poveri. È assolutamente doveroso ed urgente iniziare seriamente ad occuparsi dei carcerati che vivono stipati dentro le celle ma, insieme, anche di quelli che vivono dentro la città, che sono abbandonati nelle strade, di quei poveri cioè che sono come prigionieri rinchiusi in spazi di “non diritto e privazione”, da un sistema che si ammanta di ipocrita premura nei confronti dei più poveri ma, in realtà, per la maggior parte è interessato solo ad altre finalità tutte politiche. Come non preoccuparsi, ed in modo serio, per le nostre città invase dallo spaccio di sostanze, una delle condizioni capaci di imprigionare i più fragili e svantaggiati, che sono tanti. Le nostre carceri sono piene di persone che hanno problemi con le sostanze e che certo, per affrontare il delicato aspetto della tossicodipendenza, avrebbero bisogno di altri contesti, di luoghi e percorsi di cura e non di azioni repressive e semplicemente contenitive. Dentro e fuori, come vediamo, sono strettamente connessi, l’uno specchio dell’altro: così come succede all’interno delle mura del carcere, nei fatti, anche fuori molte persone sono destinate alla morte sociale, all’esclusione. Non si può non avvertire la priorità di interventi dedicati proprio a queste persone, in grado realmente non solo di individuare il problema ma anche di affrontarlo. L’invito che rivolgo è quello di iniziare ad occuparsi di ciò e di non consentire più che, in un contesto di indifferenza diffusa, si continui ad esercitare abbandono verso intere porzioni di cittadinanza, fuori e dentro il carcere. Tornando nello specifico a quest’ultimo, non occorre molto per capire quale sia oggi la situazione. Basta camminare nei corridoi o lungo le sezioni dei nostri istituti di pena per vedere come sono ridotte a vivere le vittime di questo sistema, per capire che le responsabilità ci sono e sono gravi. Il carcere non può più continuare ad essere luogo oscurato allo sguardo del mondo; eppure oggi è ancora molto difficile entrare, visitare. Lo è anche per le commissioni di controllo, le cui visite non riescono ad andare al fondo del problema e si trasformano più spesso in occasione di dibattito politico senza porre l’attenzione, come dovrebbe essere, su chi genera tali ingiustizie. C’è bisogno urgente di speranza, di prospettive. Ma ciò non può reggersi su vuote parole. Occorrono soluzioni concrete, percorsi di vita vera da offrire alle persone detenute. Solo questo può e deve essere alla base di un serio affrontare la questione carcere, a tutela di ciò che è il tesoro più importante che fonda la vita della comunità e dello Stato: il bene della persona. *Già cappellano di Sollicciano, Associazione Fuori Binario Milano. Ipm Beccaria, il Garante dei detenuti: “Servono soluzioni immediate per tutto il sistema” di Andrea Gianni Il Giorno, 3 settembre 2024 Intervista a Francesco Maisto: va combattuta anche la diffusione di esempi negativi, nei linguaggi come nelle azioni. “Il Beccaria non è un’isola in mezzo al mare, ma fa parte di un arcipelago: presenta le criticità di tutti gli altri Istituti penali per i minorenni, specchio di un sistema che andrebbe riformato”. È l’analisi del Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano, il magistrato Francesco Maisto, dopo gli ultimi disordini che hanno interessato il carcere minorile Beccaria di Milano. Evidenzia una “mancanza di sinergia” fra la realtà della dimensione carceraria e la “legislazione messa in atto negli ultimi anni”. Come si concretizza questo scollamento? “È evidente che quando per legge si opera un maggior numero di arresti bisognerebbe avere un numero adeguato di strutture, invece si è messo il carro davanti ai buoi e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Vorrei precisare, però, che al Beccaria si sono verificati alcuni eventi critici ma è sbagliato dire che c’è il caos, è un’esagerazione parlare di rivolte”. C’è un problema che riguarda anche la preparazione del personale che lavora nelle carceri? “Il problema è cronico, ma si è accentuato negli ultimi anni anche per la maggior presenza di minori stranieri non accompagnati, che non conoscono le regole. Per questo servirebbe un approccio diverso, sarebbe utile, ad esempio, anche la presenza di un imam, di figure in grado di comunicare con loro. Al Beccaria non c’è una situazione di sovraffollamento e il numero di operativi è adeguato. Il problema è che a causa delle proteste vengono danneggiate aree del carcere e i minorenni vengono trasferiti in spazi inagibili che vengono però dichiarati agibili. Poi c’è il problema delle comunità”. Come incide? “Le comunità per minori chiudono, c’è una cronica carenza di posti. E così minori che avrebbero i requisiti per andare in comunità restano invece in carcere. Da parte dei nuovi vertici del Beccaria e della polizia penitenziaria c’è un impegno concreto per migliorare le condizioni, il problema è che ci sono alcune resistenze a questo nuovo volto che si vuole dare all’istituto. Non tutti digeriscono l’innovazione”. Da alcune segnalazioni arrivate al Garante è scaturita l’inchiesta che ha portato alla luce le violenze contro i detenuti. Avete ricevuto altri esposti? “Al Beccaria è stata messa in atto una forte azione di vigilanza e c’è una concreta spinta verso il cambiamento, ci sono stati segnalati però altri fatti che sarebbero avvenuti nel carcere di Opera (episodi al centro di un fascicolo d’inchiesta aperto dalla Procura di Milano, ndr)”. Quali soluzioni concrete e reali si potrebbero attuare per migliorare le condizioni nelle carceri? “È una domanda a cui è difficile trovare risposte. Sono stati fatti progressi, prese misure e innovazioni che potrebbero far vedere i loro effetti positivi nei prossimi dieci anni. Il problema è che per gli Istituti penali per i minorenni sono necessarie soluzioni concrete, nell’immediato. Serve però la volontà politica per attuarle e per arrivare a un cambiamento”. La strage familiare di Paderno Dugnano, dove un 17enne ha ucciso il fratellino e i genitori, è un nuovo segnale d’allarme. Quale riflessione può emergere di fronte a questa tragedia enorme? “Non conosco nei dettagli la vicenda e non posso esprimermi nel merito. Quello che posso dire è che bisogna prestare la massima attenzione, cogliere segni di disagio, interpretare quei segni prodromici di azioni violente”. È aumentata, secondo la sua esperienza, la violenza tra i giovani? “La violenza è sicuramente aumentata fra la popolazione degli adolescenti. E una delle cause è anche la diffusione di modelli negativi, sia nel linguaggio sia nelle azioni. Bisognerebbe, per questo, lavorare sui modelli, fare in modo che si possano trasmettere messaggi positivi tra i giovani, fare di più per la prevenzione”. Milano. Don Rigoldi: “Al Beccaria arrivano i ragazzi più poveri e hanno bisogno di ascolto” di Lorenzo Garbarino chiesadimilano.it, 3 settembre 2024 Dopo la rivolta del 31 agosto il cappellano emerito dell’Istituto ricorda come la maggior parte dei giovani provenga da situazioni di estrema fragilità e povertà, anche educativa. Sabato 31 agosto al Beccaria, l’istituto penale minorile di Milano, è avvenuta l’ennesima rivolta dei detenuti. Oltre a un principio di incendio, quattro detenuti sarebbero evasi, per poi essere recuperati. La vicenda è avvenuta a poco più di dieci giorni dall’ultimo caso, quando martedì 20 agosto il sindacato autonomo della polizia penitenziaria aveva segnalato un’altra protesta. Allora un gruppo di detenuti avrebbe dato fuoco a un materasso, per poi colpire degli agenti. Le indagini della Procura - La vicenda è solo l’ultimo degli episodi avvenuti nel corso dell’anno in via dei Calchi Taeggi. All’inizio del 2024, da un’inchiesta della Procura di Milano erano emersi casi di presunti maltrattamenti dei giovani detenuti da parte degli agenti. Lo scorso aprile l’indagine portò all’applicazione di misure cautelari nei confronti di tredici agenti e la sospensione di altri otto. Oltre al caso giudiziario, il 6 e il 29 maggio scorso al Beccaria sono scoppiate altre due rivolte, a cui ha fatto seguito il 14 giugno l’evasione di due detenuti. Il secondo caso negli ultimi due anni: il 25 dicembre 2022, altri sette detenuti erano scappati dall’Istituto. In seguito a queste vicende, lo scorso luglio erano avvenuti alcuni cambiamenti all’interno del Beccaria: il numero dei ragazzi detenuti nella struttura era diminuito, senza che fossero previsti nuovi ingressi. Domenica 30 giugno il direttore Claudio Ferrari aveva affermato che dall’8 luglio sarebbero entrati in servizio stabile 44 nuovi agenti, disposti lo scorso maggio dal Dipartimento per la Giustizia minorile. Tuttavia, secondo i dati più recenti del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, e aggiornati al 15 agosto, al Beccaria erano presenti 60 detenuti. Ad aprile, quando è stata resa nota la notizia delle indagini sugli agenti, il numero dei detenuti era di 81. Rigoldi: “Agenti troppo giovani” - Don Gino Rigoldi, cappellano emerito dell’Istituto - che già la scorsa settimana aveva firmato sul quotidiano Avvenire una lettera di appello sul tema assieme all’attuale cappellano don Claudio Burgio - racconta come al Beccaria siano presenti numerosi problemi. In un’Istituto che, secondo il sacerdote, necessiterebbe prima di tutto di ulteriori ristrutturazioni, si affrontano le difficoltà di operare con una popolazione carceraria troppo numerosa. Senza contare le condizioni di estrema fragilità in cui si presentano. “Qui arrivano i ragazzi più destrutturati, poveri e arrabbiati in giro per Milano - spiega don Rigoldi -. Che avrebbero soprattutto bisogno di essere ascoltati. Mi è capitato di osservare come purtroppo, anche da alcuni operatori, alcuni ragazzi siano diventati solamente un nome, un cognome, un reato e un problema. Difficilmente si cerca di comprendere invece come sta, come ci si sente, come vivono e di cosa avrebbero bisogno”. La complessità di dover gestire sessanta persone è poi acuita dall’età anagrafica dei nuovi agenti di polizia penitenziaria. Rigoldi afferma che la maggior parte del personale che ha già cominciato a prestare servizio proviene direttamente dalla scuola di formazione. “Se gli agenti hanno 23 anni, potete immaginare come sia difficile presentarsi come figure autorevoli nei confronti di detenuti, che sono quasi coetanei. Quando cominciai a lavorare al Beccaria, i responsabili erano persone di 50 anni, con una esperienza tale da diventare anche una sorta di figura paterna”. Istruzione e avviamento al lavoro - A questi problemi si aggiungono quelli dell’istruzione dei detenuti. Don Rigoldi afferma come diversi di loro siano di fatto analfabeti, e che superare questa condizione sia imprescindibile da ogni percorso di riabilitazione. Senza questi sostegni, secondo il cappellano emerito, è come lasciare le persone in una condizione di disabilità, che non gli permette di vivere appieno la vita. “Cerchiamo di avviare i ragazzi al lavoro, anche per offrire loro la possibilità di una piccola remunerazione, che permetta loro di ricominciare. Il Comune di Milano e il Prefetto hanno dato alcune disponibilità in merito, in particolare con alcuni teatri e aziende. Con alcuni datori di lavoro inoltre abbiamo costruito percorsi che permettano di “reclutare” alcuni dei miei ragazzi. Questo potrebbe valere anche per il Beccaria”. Anche se questi obiettivi fossero raggiunti, per questi ragazzi si aprirebbero le sfide che già una fetta della popolazione di Milano affronta nella quotidianità. Oggi un appartamento costa quasi il 40% in più rispetto al 2015, e molte persone sono costrette a trovare casa altrove, anche fuori città. “I ragazzi andrebbero anche di corsa in un alloggio dell’Aler, anche se sappiamo benissimo che non sia il massimo. Esperimenti di alloggi per l’autonomia esistono, ma sono ancora troppo pochi. Il mio progetto sarebbe di ricreare quanto realizzato in Francia e Spagna, dove ci sono piccole comunità tra le quindici e le venti persone, tutte maggiorenni, di lavoratori, giovani studenti e ragazzi usciti dalle comunità, in modo tale che si crei un mix dal grande potenziale. Ma tutto questo, senza costruire nuove case, è complicato”. Roma. Il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, in visita al carcere di Regina Coeli regione.lazio.it, 3 settembre 2024 “Sovraffollamento, carenza di personale, strutture obsolete. Questi sono mali comuni a tutto il sistema carcerario laziale e nazionale. Ho voluto essere al fianco di chi, nonostante le enormi difficoltà quotidiane e dopo i tumulti dei giorni scorsi, lavora a Regina Coeli per garantire condizioni dignitose ai detenuti”. Il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, si è recato questa mattina in visita alla Casa circondariale “Regina Coeli” dopo i recenti fatti di cronaca che hanno visto disordini all’interno del carcere romano, con aree vandalizzate, celle incendiate e detenuti ustionati. Durante la sua visita, il presidente Francesco Rocca e il vicepresidente del Consiglio regionale, Giuseppe Cangemi hanno incontrato la direttrice della Casa circondariale, Claudia Clementi, il Comandante della Polizia Penitenziaria, Francesco Salemi, e il responsabile dell’Assistenza Sanitaria del Regine Coeli, Luigi Persico. Il Presidente ha ascoltato le necessità, le esigenze e le problematiche esposte dalla Direttrice, dal Comandante della Polizia Penitenziaria e dal responsabile dell’Assistenza Sanitaria del Regina Coeli. Rocca ha assicurato la massima collaborazione della Regione Lazio, per quanto di sua competenza, al fine di contribuire a migliorare le condizioni all’interno della Casa circondariale per il personale sanitario, la Polizia Penitenziaria e i detenuti. “Sovraffollamento, carenza di personale, strutture obsolete. Questi sono mali comuni a tutto il sistema carcerario laziale e nazionale. Ho voluto essere al fianco di chi, nonostante le enormi difficoltà quotidiane e dopo i tumulti dei giorni scorsi, lavora a Regina Coeli per garantire condizioni dignitose ai detenuti. In questo carcere il sovraffollamento raggiunge picchi del 185%, il personale di Polizia penitenziaria e quello sanitario sono in grande sofferenza; tuttavia, assolvono al loro dovere con dedizione e tenacia. Ho voluto portare loro la solidarietà della Regione Lazio e discutere rispetto alle necessità a cui la nostra amministrazione, nell’ambito delle sue competenze, può far fronte. Le strutture penitenziarie del Lazio necessitano di attenzione costante e di una riorganizzazione puntuale. A mio avviso Regina Coeli dovrebbe essere chiusa ma, vista la carenza di posti e in questa fase di riorganizzazione generale delle strutture penitenziarie, una strada percorribile potrebbe essere quella di trasformarla in casa di reclusione, utilizzando invece Rebibbia come carcere giudiziario. In questo modo, la struttura penitenziaria al centro di Roma potrebbe essere decongestionata e consentire condizioni di detenzione più umane” ha dichiarato il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca. Imperia. L’avvocato Bosio: “Costruire nuovi penitenziari non è la soluzione” di Alice Spagnolo riviera24.it, 3 settembre 2024 L’appello ai giovani del presidente della Camera Penale: “Leggete la Costituzione, dentro c’è tutto. I principi devono essere alla base della legislazione”. Dopo la “maratona oratoria” dello scorso 8 luglio, quando gli avvocati del foro di Imperia si sono radunati in via Escoffier, a Sanremo, per sensibilizzare la popolazione sulle problematiche delle carceri, l’avvocato Marco Bosio, nella sua veste di presidente della camera penale di Imperia-Sanremo, è tornato nello studio di Riviera24.it per parlare di un tema a lui, e ai suoi colleghi, particolarmente caro: quello delle condizioni di migliaia di detenuti all’interno delle strutture carcerarie. In Italia i detenuti sono 61.468 e condividono spazi pensati per accogliere, al massimo 46.067 persone. I conti sono presto fatti: il sovraffollamento è del 130,59 percento. Per far conoscere ai cittadini le criticità che si affrontano nei penitenziari, la camera penale imperiese ha organizzato la maratona oratoria “che è stata molto importante e ha avuto una buona partecipazione - sottolinea Bosio - anche perché noi partiamo da un dato allarmante e incredibile: al 15 agosto 2024 abbiamo 67 suicidi in carcere. Per noi la problematica del carcere è prioritaria. C’è un sovraffollamento incredibile della popolazione carceraria che vive in ambienti ristretti e in condizioni umane e sanitarie indescrivibili”. Per questo, nell’ambito dell’approfondimento sulla riforma della giustizia, non poteva mancare un passaggio sulle carceri. “Ci aspettavamo qualcosa di più da parte del decreto carceri, ma in realtà questo governo ha evidenziato una certa sensibilità per quanto riguarda la fase processuale e sostanziale, ma una visione ancora fortemente carcerocentrica per quanto riguarda il carcere - spiega l’avvocato penalista - La riforma non ha assolutamente sviluppato argomenti importanti e che servono veramente per decongestionare il carcere. Ne abbiamo un esempio qui, nelle carceri di Imperia e di Sanremo. E pensare che sono anche piccoli in confronto a istituti come San Vittore o Poggioreale. Inoltre ci sono molti casi psichiatrici, che sono i più difficili da gestire”. E allora, cosa fare? “Noi avevamo chiesto di potenziare l’accesso alle misure alternative e poi di fare una riforma seria sulla liberazione anticipata, che è una sorta di beneficio che il detenuto utilizza se si comporta bene in carcere, se partecipa all’opera di rieducazione”. In sostanza, se il detenuto si comporta bene, gode di una riduzione di 45 giorni di pena ogni semestre. “C’è una proposta di legge che giace in parlamento e che noi abbiamo caldeggiato, pensando che con questa si potesse cercare di decongestionare il carcere - aggiunge l’avvocato Marco Bosio -. Si tratta della proposta di legge Giachetti - Bernardini, che prevede l’aumento della detrazione di pena dagli attuali 45 giorni a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata. Ma è ferma. Con il decreto carceri è stato utilizzato un altro metodo, che è una rimodulazione della liberazione anticipata che si basa su un meccanismo di “concessione posticipata”, anche se in realtà il pubblico ministero nell’ordine di carcerazione dovrà già fare il conteggio e dovrà quindi dire di quanto sarà diminuita la pena nel caso in cui il detenuto si comporti bene”. “La visione del governo è questa: c’è sovraffollamento? Costruiamo nuove carceri - dichiara il presidente della camera penale - Ma questa non è la soluzione. È stato istituito il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria ma, ripeto, non è la soluzione perché si costruiranno nuovi carceri, aumenteranno i detenuti e i problemi ci saranno lo stesso. Poi la costruzione di nuovi carceri non è una cosa di adesso, con i templi biblici che hanno i nostri lavori pubblici sarebbe un problema”. E dunque?: “Noi azzardiamo un sogno - dice il legale - Che è quello di un piccolo indulto che possa dare, a chi ha una pena breve, una possibilità di uscire dal carcere”. L’avvocato Bosio sottolinea poi un’altra criticità: “Un’altra parte della riforma del decreto carceri di difficile attuazione è quella che riguarda le comunità - spiega - Alcuni soggetti, in particolare i tossicodipendenti, potranno trascorrere una parte della pena, e quindi scontarla in detenzione domiciliare, presso comunità che però, di fatto, non ci sono, quindi ci dovranno spiegare come si potrà attuare”. “La nostra non è una posizione di critica totale, ma ci aspettavamo di più da un ministro (il ministro della Giustizia Carlo Nordio, ndr) che è sempre stato un garantista, un giurista molto attento a queste problematiche - aggiunge -. Non voglio entrare nelle questioni politiche, perché mi rendo conto che probabilmente ha delle difficoltà all’interno della sua maggioranza ad essere eccessivamente garantista da questo punto di vista, però noi ci aspettavamo di più”. Marco Bosio conclude il suo intervento con un appello, rivolto soprattutto ai giovani: “Leggete la Costituzione, perché la Costituzione della Repubblica Italiana è la base. Per questo invito i giovani a leggerla, la nostra Costituzione, soprattutto i principi perché qui c’è tutto, c’è tutta la nostra convivenza civile e ci sono principi fondamentali che non moriranno mai e questi principi devono essere alla base della legislazione”. Taranto: “Condizioni non degne di un Paese civile, necessario intervento urgente” consiglio.puglia.it, 3 settembre 2024 “Oggi abbiamo constatato che c’è un gravissimo problema infrastrutturale che rende la pena a dir poco inumana”, ha commentato il consigliere regionale di Forza Italia Massimiliano Di Cuia, a margine della visita di oggi al carcere di Taranto assieme all’on Vito De Palma, al consigliere provinciale Raffaele Gentile e altri dirigenti locali del partito. “Abbiamo fotografato una situazione estremamente delicata in cui è compromessa la funzione educativa della pena. All’interno del carcere si svolgono diverse attività scolastiche e formative e di questo ci complimentiamo con la direzione. Ma i problemi restano e chi ha il potere di intervenire deve farlo con la massima celerità. Struttura fatiscente, assenza di docce, niente aria condizionata, 5-6 detenuti in una cella con un bagno solo utilizzato anche come cucina: sono solo alcuni dei disagi quotidiani che, tra l’altro, pongono in rilievo anche un problema di natura sanitaria”. “L’intuizione del nostro segretario nazionale Antonio Tajani, che ha lanciato l’iniziativa “Estate in carcere”, è stata quanto mai giusta perché le condizioni di vivibilità all’interno della Casa circondariale di Taranto sono scarsissime”. Così l’on Vito De Palma di Forza Italia che ha visitato la struttura e incontrato il direttore della casa circondariale, i sindacati di polizia penitenziaria. “Le criticità - ha aggiunto - non sono certamente ascrivibili alla direzione del carcere, che sta facendo un ottimo lavoro. Ma le condizioni, soprattutto in alcune zone del carcere, sono letteralmente disumane. La struttura di Taranto può ospitare 500 detenuti, ma attualmente ce ne sono quasi mille: una situazione che espone a rischi gli operatori penitenziari e impedisce ai detenuti di scontare la pena in modo civile. Sono problemi serissimi - ha concluso De Palma- che sottoporrò già oggi stesso al viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, unitamente all’urgenza di procedere al potenziamento del personale in servizio, affinché siano inseriti tra le urgenze dell’agenda di lavoro”. “Stamattina - ha affermato Raffaele Gentile - ci siamo recati qui in visita, come voluto giustamente dal nostro segretario nazionale Tajani. La pena deve avere una funzione rieducativa, come vuole la nostra Costituzione e noi ci auguriamo che la buona politica del governo nazionale possa avere effetti anche sulla vita nelle carceri”. Salerno. Il deputato Pino Bicchielli sul carcere di Fuorni: “Ottimi progetti per i detenuti” di Viviana De Vita Il Mattino, 3 settembre 2024 Sovraffollamento, carenza di personale e deficit strutturali all’interno di una struttura dove la direzione opera continui sforzi per far fronte alle emergenze quotidiane. È quanto emerso all’esito della visita di ieri presso la casa circondariale Antonio Caputo di Salerno da parte dell’onorevole Pino Bicchielli, vice presidente di Noi Moderati alla Camera dei Deputati e membro delle commissioni Difesa e Antimafia. Accompagnato dalla direttrice Gabriella Niccoli, l’onorevole ha visitato la struttura di via del Tonnazzo all’interno della quale “sono presenti - ha affermato - 520 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 350, e dove mancano ben 70 agenti di polizia penitenziaria”. “Ci sono circa 200 detenuti in più - ha spiegato l’onorevole - ma la dottoressa Niccoli, con il suo staff e i suoi collaboratori, sta facendo un ottimo lavoro perché ci sono condizioni di vivibilità nonostante le criticità oggettive”. Ventilatori e frigoriferi per offrire refrigerio ai detenuti con le alte temperature estive e tantissimi progetti: sono tanti gli elementi positivi evidenziati dall’onorevole al termine della sua visita. “Ho incontrato un gruppo di detenute impegnate in lavori sartoriali a favore dei bambini appartenenti a famiglie afflitte da problematiche economiche e ho potuto constatare che esistono decine di attività deputate al reinserimento lavorativo dei reclusi. A tale proposito il decreto carceri recentemente approvato alla Camera dei deputati va nella giusta direzione perché, dopo circa 15 anni, si rimette sotto i riflettori un problema che è stato accantonato per dare risposte alle tante criticità evidenziate. Abbiamo previsto l’assunzione di oltre 1000 agenti di polizia penitenziaria, la nomina di un commissario per l’edilizia carceraria e l’inserimento a pieno organico dei mediatori culturali: riteniamo, come ha detto il presidente Mattarella, che il carcere non debba mai essere un luogo in cui perdere la speranza e lo Stato deve lavorare per garantire il recupero del detenuto, come previsto dalla Costituzione”. Di fronte ad un’emergenza nazionale come quella del sovraffollamento, il carcere dovrebbe però essere davvero l’ultima spiaggia: “Ci sono tante modalità alternative al carcere - ha affermato Bicchielli - c’è la possibilità di recuperare in tanti altri modi e va fatta questa distinzione soprattutto se siamo di fronte a persone con disturbi psichici o tossicodipendenti per i quali si sta immaginando un percorso diverso”. Un problema, quello del sovraffollamento, comune purtroppo, a quasi tutte le strutture penitenziarie del territorio. “C’è una difficoltà non solo a Salerno ma a livello nazionale perché su 51mila posti carcerari abbiamo 61mila detenuti, una popolazione carceraria notevolmente superiore a quanto previsto”. Aosta. Il Ministro Zangrillo in visita al carcere: “Evoluzione virtuosa, ma diverse le criticità” aostanews24.it, 3 settembre 2024 Il Ministro della Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo, ieri mattina, 2 settembre, alle 10:00, ha effettuato una visita al carcere di Brissogne, accompagnato dagli esponenti regionali di Forza Italia. Un incontro - specifica Zangrillo, durante la conferenza stampa - in veste di Senatore degli Azzurri, un’occasione per fare il punto sulla situazione degli istituti di pena italiani, che oggi si è concentrata sulle problematiche croniche della casa circondariale di Brissogne. A fare gli onori di casa la Direttrice del carcere di Brissogne Velia Nobile Mattei, che - trapela dalla visita - ha tenuto una lunga e articolata descrizione della situazione dell’istituto penitenziario, sottolineando senza allarmismi le difficoltà di gestione della struttura. “Ho trovato il carcere di Brissogne in una situazione di evoluzione virtuosa rispetto alla mia ultima visita, avvenuta circa due anni e mezzo fa. Oggi i racconti dettagliati della Direttrice mi hanno offerto un quadro che non fa sconti dal punto di vista dei problemi, ma che guarda al futuro con ottimismo”, ha dichiarato Zangrillo al termine della visita. Il Ministro ha sottolineato come i problemi presenti a Brissogne siano ricorrenti, in parte simili a quelli di altri istituti penitenziari italiani. A Brissogne, però, non almeno non si registra il dato negativo del sovraffollamento: “per fortuna qui non c’è il tema di sovraffollamento, attualmente sono ristretti 140 detenuti su una capienza di 160”. Tuttavia, a pesare sarebbe la trascurabile carenza di personale: “c’è un tema che riguarda il personale di Polizia penitenziaria. Il benessere dei detenuti è proporzionale al benessere del personale di Polizia, su questo frangente abbiamo una carenza che deve essere colmata. Anche per quanto riguarda il personale amministrativo, vi è difficoltà”. Il Ministro si è comunque detto molto fiducioso sulla capacità dell’istituto di affrontare le sfide future, sottolineando il suo impegno nel rinnovo dei contratti collettivi del comparto: “esco da questa visita confortato, perché c’è lucidità nel comprendere quali sono i problemi da affrontare e grande determinazione nel volerlo fare. (…) Come Ministero della Pubblica Amministrazione siamo impegnati nel rinnovo dei contratti e uno di questi è quello del comparto sicurezza e difesa, quindi anche della Polizia penitenziaria e questo deve essere un segnale di fiducia per le persone che lavorano nelle carceri”. Zangrillo ha infine ricordato l’importanza del recente decreto carceri varato dal Governo Meloni, approvato alla Camera dei deputati il 7 agosto scorso: “non si tratta di un provvedimento svuota carceri, non è questo lo spirito, è una misura per rispettare il dettato che ci impone il recupero del detenuto e non una logica punitiva. Bisogna lavorare per individuare - quando ci sono i presupposti - pene alternative alla detenzione”. Roma. Colloqui intimi in carcere, Anastasìa e Calderone chiedono spazi idonei subito a Rebibbia garantedetenutilazio.it, 3 settembre 2024 Dalla Casa di Reclusione arriva un reclamo, per la mancata attuazione della sentenza della Corte costituzionale 10/2024. A seguito di un reclamo sottoscritto da 55 detenuti della Casa di Reclusione di Rebibbia, Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, e la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Valentina Calderone, hanno scritto alla direttrice dell’istituto, Maria Donata Iannantuono, per raccomandare l’immediata individuazione di spazi idonei all’effettuazione di colloqui intimi tra i detenuti e i propri partner, così come stabilito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 10 del 24 gennaio 2024. Numerose sono state le richieste di detenuti pervenute alla direzione dell’istituto che chiedevano di poter effettuare colloqui intimi con la propria moglie o convivente, ma, con un avviso del 6 giugno scorso, la direzione aveva comunicato alla popolazione detenuta che la questione era stata posta all’attenzione del superiore ufficio dipartimentale che, a sua volta, aveva informato di avere istituito un gruppo di studio “per verifiche e organizzazione”. Trascorso più di un mese e mezzo da tale avviso, 55 detenuti inoltravano lo scorso 31 luglio un reclamo (datato 22 luglio), ex articolo 35 dell’Ordinamento penitenziario, al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Giovanni Russo, alla direttrice dell’istituto, Iannantuono, alla presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, Marina Finiti, e ai Garanti Anastasìa e Calderone, denunciando la mancanza di operatività della sentenza della Corte Costituzionale 10/2024, e chiedendo “alle S.V. reclamate che si possano avere notizie e date precise di attuazione della legittima richiesta confortata dalla sentenza della Corte delle leggi”. ?Non si è fatta attendere la risposta di Anastasia e Calderone, indirizzata ai reclamanti, alla direttrice dell’istituto e, per conoscenza, al Capo del Dap e alla Presidente del Tribunale di sorveglianza. Considerato che il modello decisorio scelto dalla Corte in questa pronuncia è quello della sentenza avente efficacia erga omnes, “immediatamente applicativa, determinando l’esistenza di un diritto soggettivo di ciascuna persona in stato di detenzione a svolgere colloqui riservati (senza controllo a vista da parte degli operatori di polizia) con il/la propria partner”, i Garanti Anastasìa e Calderone, rilevato tra l’altro che “l’attuazione della sentenza della Corte costituzionale non sia procrastinabile e che di conseguenza il quesito dei reclamanti riguardo al quando della sua attuazione sia assorbito dalla vigenza normativa di quanto da essa disposto, che configura un obbligo di garanzia in capo all’Amministrazione penitenziaria”, “raccomandano alla direzione della Casa di reclusione di Roma-Rebibbia la immediata individuazione di spazi idonei all’effettuazione del colloquio senza controllo visivo e - in assenza di determinazioni ministeriali - la definizione con proprio ordine di servizio della regolamentazione dell’accesso al nuovo istituto, tenuto conto di quanto stabilito dalla Corte costituzionale nei punti 6 e seguenti delle considerazioni in diritto della sentenza 10/2024 e della necessità di garantire a tutti gli aventi diritto la sua fruizione in maniera omogenea quanto ai tempi e alla frequenza dei colloqui di che trattasi”. Bologna. Cucine popolari alla Dozza: “In carcere si mangia male, negato un altro diritto” di Noemi di Leonardo bolognatoday.it, 3 settembre 2024 Roberto Morgantini, patron delle Cucine popolari, Andrea Segrè, docente e fondatore di Last Minute Market, e la cuoca Raffaella Collina sono entrati in quel “mondo a parte” che è il carcere per servire un pranzo ai detenuti. Le Cucine popolari entrano alla Dozza per portare il pranzo a un gruppo di detenuti. Roberto Morgantini, patron delle Cucine popolari, Andrea Segrè, docente e fondatore di Last Minute Market, e la cuoca Raffaella Collina sono entrati in quel “mondo a parte” che è il carcere: “Varcata la soglia, lasciati cellulari e documenti, si entra davvero in un altro mondo. Un mondo a parte, senza più identità. Lo ascolti nelle voci che escono dalle celle, lo vedi nei vestiti variopinti appesi alle finestre sbarrate, lo senti nei cancelli che si aprono e chiudono al tuo passaggio”, hanno raccontato. Nella sala cinema con una trentina di uomini, di ogni età e diverse origini, è andato in scena il cibo preparato da Raffaella: “C’è chi ha mangiato due volte il primo, chi tre volte il secondo, chi ha portato il dolce in cella. In cambio ognuno di loro ci ha detto una parola, anche solo “grazie” con accenti sempre diversi. Una ricchezza, questa diversità - fanno notare - che si vede a tavola quando si mangia assieme. E’ così è stato per loro, finalmente riuniti attorno a un tavolo in quattro, in sei, in otto”. Riferendosi al tema che riguarda da anni tutti gli istituti penitenziari, Morgantini, Segrè e Collina parlano di un “sovraffollamento che crea legame, relazione, condivisione, convivialità. Seppure in una cucina, è proprio il caso di dire, in massima sicurezza”. “Tutto è durato due ore, proprio il tempo di un film - continuano - poi le luci si sono spente e gli attori ‘esterni’ se ne sono andati. Mentre quelli interni sono rimasti e continueranno a vivere e a mangiare nel carcere come prima: male. Tranne chi può permetterselo: un’altra diversità, un’altra ricchezza, un’ulteriore disuguaglianza.” Non è la prima visita alla Dozza: “Si manga male, è rimasta la certezza che qui si nega un altro diritto: il diritto al cibo. Perché mangiare bene, in quantità e qualità sufficiente, nutriente, compatibile culturalmente dovrebbe essere un diritto. Anzi lo è, se è vero che il diritto al cibo viene riconosciuto nella Dichiarazione universale dei diritti umani. Non è accettabile - concludono - che in questo mondo a parte, ristretto, ma pieno di umanità, non si riesca a garantire almeno un pasto adeguato, tutti i giorni dell’anno. Dobbiamo fare qualcosa, anche se sappiamo bene che si tratta di un contesto molto difficile. Qualcosa di più di attirare l’attenzione delle istituzioni. È un impegno”. Infine il ringraziamento alle guardie carcerarie, all’educatrice Valentina e alla direttrice Rosa Alba Casella “che dedicano la loro vita professionale agli istituti penitenziari”. Oristano. Convegno “Il carcere con le mura di vetro: trasparenza e prossimità” comune.oristano.it, 3 settembre 2024 Giovedì 5 settembre, alle 9.30, all’Hotel Mistral 2, confronto su trasparenza, diritti, condizioni di vita, stili di prossimità e partecipazione sociale al reinserimento. La Caritas Diocesana di Oristano e il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Oristano organizzano il convegno “Il carcere con le mura di vetro: trasparenza e prossimità”. Giovedì 5 settembre, dalle 9.30, nella Sala conferenze dell’Hotel Mistral 2, volontari e operatori del sistema penitenziario si confronteranno sui temi della trasparenza, dei diritti, delle condizioni di vita, degli stili di prossimità e partecipazione sociale al percorso trattamentale e al reinserimento. La giornata si articolerà in due sessioni. La prima, dalle 9.30 alle 12.30, sarà dedicata alla formazione alla testimonianza, sarà animata dai contributi di Padre Gabriele Iiriti (cappellano del Carcere di Cagliari-Uta) e di Carla Chiappini (giornalista, esperta di metodologia autobiografica e caporedattrice di Ristretti orizzonti per il carcere di Parma). La seconda, dalle 15.30 alle 19, metterà di fronte i rappresentanti delle istituzioni per un’analisi del problema e una riflessione sulle prospettive: dopo i saluti del Sindaco di Oristano Massimiliano Sanna e degli altri rappresentanti istituzionali, interverranno Monsignor Giuseppe Baturi (Segretario generale della CEI), Mario Galati (Provveditore per la Sardegna del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria), Maria Cristina Elisabetta Ornano (Presidente del Tribunale di sorveglianza di Cagliari), Desirè Manca (Assessore regionale al Lavoro, formazione professionale, cooperazione e sicurezza sociale), gli avvocati Irma Conti e Mario Serio (Collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà personale) e Maria Francesca Cortesi (docente di diritto processuale penale dell’Università di Cagliari). Interverrà il Senatore Andrea Ostellari (Sottosegretario di Stato alla Giustizia). I lavori saranno moderati dalla giornalista Carla Chiappini. “L’idea di un “carcere con mura di vetro” rappresenta una metafora potente e controversa per riflettere sul rapporto tra trasparenza, riabilitazione e giustizia sociale nel contesto penale - osserva il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Oristano, Paolo Mocci, presentando il convegno -. Esplorando questo concetto, si possono trarre spunti interessanti per un ripensamento del sistema carcerario. Un carcere con mura di vetro implica trasparenza, non solo nel senso fisico ma anche in quello etico e morale. La trasparenza può contribuire a una maggiore responsabilità da parte delle istituzioni penitenziarie e della società nel suo complesso. Le mura di vetro simboleggiano anche un sistema che non nasconde i detenuti ma li rende parte integrante della società, favorendo la loro riabilitazione. La società dovrebbe vedere e comprendere le condizioni dei detenuti, promuovendo un approccio più umano e riabilitativo”. “In una società giusta, il carcere dovrebbe essere uno strumento per la riabilitazione e il reinserimento, non solo per la punizione - sottolinea Mocci -. Questo richiede un approccio che riconosca la dignità intrinseca di ogni persona e l’opportunità di redenzione e crescita personale. Le mura di vetro possono simboleggiare la possibilità di redenzione e perdono, mostrando che i detenuti non sono esclusi definitivamente dalla società ma hanno l’opportunità di cambiare e migliorare. Un sistema penale trasparente, inoltre, dovrebbe offrire opportunità concrete di riabilitazione e reinserimento”. Grosseto. Il progetto “Compaio” entra in carcere per coltivare piante e mestieri corrieredimaremma.it, 3 settembre 2024 Il progetto “Compaio” sta dando i suoi frutti, e che frutti. Splendidi girasoli, gustosi pomodori e peperoncini, patate saporite, e ancora oleandri, piante grasse, carote, menta: sono alcune delle piante che i detenuti della Casa circondariale di Grosseto stanno coltivando con l’aiuto di Luigi Favilli, nell’ambito del progetto “Compaio-Competenze in panificazione interventi ortoflorovivaistici a Grosseto”, finanziato dalla Regione Toscana, sostenuto dal Comune di Grosseto e promosso da CNA Servizi, l’agenzia formativa di CNA Grosseto, in partenariato con Heimat, Cpia, cooperativa “Il Melograno”, e ideato in collaborazione con l’azienda sostenitrice Favilli srl. Prosegue, infatti, l’iniziativa avviata nella scorsa primavera, con l’intento di fornire una serie di competenze professionali alle persone che stanno scontando la loro pena detentiva, con l’obiettivo di favorirne il reinserimento sociale, rafforzando le politiche di inclusione e contrastando i fenomeni di discriminazione. Sono due i percorsi formativi intrapresi, per formare due figure molto richieste dal mercato del lavoro: il potino curatore di interventi ortoflorovivaistici e l’operatore della lavorazione di prodotti panari, dolciari e da forno, percorso che prenderà avvio nei prossimi giorni. I partecipanti, alla fine del percorso, potranno sostenere un esame e ottenere una certificazione delle competenze acquisite, spendibile sul mercato del lavoro. Inoltre, accanto al progetto “Compaio”, che ha raccolto l’appoggio anche del Comune di Grosseto, si è sviluppata un’altra iniziativa ideata dal progettista Marco Milaneschi e finanziata da CNA Grosseto: i partecipanti al corso, infatti, potranno partecipare all’ideazione e alla creazione di un murale che andrà a decorare, con elementi della natura che richiamano le piante coltivate durante la formazione, le scale interne della Casa circondariale di via Saffi a Grosseto. “Scrivere sulla morte di Mario Scrocca in carcere è lottare perché non accada di nuovo” di Francesco Troccoli Left, 3 settembre 2024 Un viaggio a ritroso negli anni di piombo a Roma, tra l’assalto ad una sede del Msi e una morte sospetta di un militante di sinistra in carcere. Ne parla Valentina Mira, autrice di “Dalla stessa parte mi troverai”. Il 5 settembre con l’Anpi provinciale presentiamo il suo libro a Roma. “Dalla stessa parte mi troverai” (Sem edizioni), che fu presentato da Franco Di Mare al Premio Strega 2024, è un libro coraggioso. Prima di tutto perché esplora la storia di una vittima a lungo dimenticata: Mario Scrocca, militante di sinistra che a quasi dieci anni di distanza fu ingiustamente accusato dell’aggressione alla sede del Msi di Acca Larenzia del 1978 (a maggio scorso acquistata dalla omonima associazione con soldi della Fondazione An nel cui cda siede Arianna Meloni ndr). Poco dopo l’arresto Scrocca fu trovato impiccato in una cella anti-impiccagione a Regina Coeli. È un libro coraggioso anche perché emozionante voce narrante dell’autrice coglie aspetti profondi della crisi in cui si annidano i germi della violenza e della sopraffazione, e i rischi che rendono fragili le libertà, nella vita delle persone come in quella dei Paesi e dei popoli. Con un’attenzione speciale per le donne. Valentina Mira, che effetto ha fatto essere stata selezionata per lo Strega con un libro così diverso da quanto viene proposto dall’editoria mainstream? Penso che mi avrebbe fatto effetto a prescindere dal tipo di libro, a essere sincera. Diciamo che la prima parte della mia vita è stata costellata di fallimenti e sfortune di vario genere, un precariato perenne e faticosissimo a fronte di un impegno gigante, in termini di studio e di lavoro: mi piace pensare che dovessi imparare delle lezioni importanti, e andare incontro con tutta l’umiltà e la gratitudine del mondo a questa nuova, insperata piccola gioia. Mario Scrocca è stato una vittima “indiretta”. Eppure, di lui si sono dimenticati quasi tutti. Perché? Credo che troppe poche persone si siano spese per ricordarlo, che troppo sia ricaduto sulle spalle di quella che all’epoca era una ragazza giovanissima (25 anni), con un bambino di 2 anni da crescere, all’improvviso, da sola. Dipende da tanti elementi: i tabù sul carcere e sulle persone che ci muoiono, il tabù sugli abusi in divisa, l’impianto martirologico che su Acca Larenzia ha messo paura a chiunque non parlasse di fascisti ma di antifascisti. Contribuì anche un pessimo giornalismo, che accompagnò la vicenda cercando di metterla a tacere fin dall’inizio. E poi c’è il dato umano. È proprio grazie a quanto Rossella è tenace se oggi parliamo di Mario. La moglie Rossella Scarponi è oggi un’attivista impegnata contro gli abusi sui detenuti, un’urgenza sulla quale il tuo libro riporta l’attenzione… Assolutamente sì, perché il modo migliore per ricordare una persona morta in carcere in circostanze così sospette è lottare affinché non accada di nuovo. Nel libro parlo di sovraffollamento carcerario, della Corte europea dei diritti dell’uomo che per l’Italia parla di trattamento inumano e degradante. Di un’Italia che però se ne frega. Dall’inizio del 2024 ci sono stati già più di 60 suicidi in carcere, è chiaro che non può continuare così. Oggi sono molti i libri che affrontano il neofascismo dal punto di vista saggistico, ma pochi quelli che usano la narrativa, anche se basata su storie vere come il tuo. Pensi che sia una modalità efficace per sensibilizzare il pubblico, soprattutto i giovani? Penso che sia un bel tabù. Che in letteratura il neofascismo sia trattato troppo spesso in modo binario: o demonizzazione assoluta (che però non te li fa riconoscere quando te li trovi vicino), o la risposta a questa mostrificazione che troppo spesso strizza l’occhio a una fascinazione mortifera. A me interessa indagare due elementi diversi e, mi sembra, più realistici: la banalità del male che riguarda le persone manipolate da quel tipo di pensiero, e l’eccezionalità del male che riguarda chi quella manipolazione la agisce dai vertici. Mi chiedi se sia efficace: non pensavo così tanto da farli reagire in modo violento, quindi probabilmente sì. Fra i tuoi libri, X e Dalla stessa parte mi troverai, pur diversi, c’è il filo conduttore della tua scrittura, messa “a disposizione” della collettività. Qual è per te il senso dello scrivere? Penso che ognuno abbia il diritto di trovare il proprio senso: la scrittura è un atto di libertà. Nel caso della mia, ha a che fare con un processo di liberazione; se la libertà non ti è data alla nascita, chiamare le cose col loro nome e rimettere le responsabilità al loro posto è qualcosa di magico. La scrittura questo lo permette, ed è uno dei tanti motivi per cui la amo. C’è anche un’attenzione al tema dell’identità e della libertà delle donne, perché non accettino situazioni di sottomissione, un voler far tesoro della tua esperienza e metterla a frutto delle altre... L’identità non è un tema che mi sta a cuore, anzi lo trovo piuttosto di destra. Si è parlato negli ultimi anni di identitary politics: ecco, questo a me non interessa, sono più vicina al femminismo intersezionale, che vede tutte le lotte legate tra loro. Invece sulla libertà, e ancor di più sulla liberazione, scrivo da diversi anni. L’intento che ho non è mai insegnare. Nell’assenza quasi assoluta di momenti rilevanti di autocritica maschile mi sembra comunque utile il lavoro di chi descrive dei pattern che si ripetono con poche variabili: la mia speranza è che, intanto, si riesca a scappare in tempo da certe relazioni. Non ti nego che inizia a infastidirmi l’incapacità maschile, anche in letteratura, di mettere in discussione il proprio agire e certi stereotipi. Mi pare che ci sia perfino chi ci lucra sopra, scrivendo libri che servono solo a dire “sono fatto male perché mio padre è fatto male” ma non a spezzare certi cicli mortiferi, e prendendosi applausi, come se fosse un approfondito lavoro antisessista. Diverso è con la saggistica e con qualche prodotto seriale. Lì qualcosa negli anni si è mosso, non solo in Italia. Una serie ben fatta sul rapporto padre-figlio, sulla mascolinità tossica e soprattutto su come la si spezza, è Eric, su Netflix. L’ho trovata molto bella. Quali sono gli autori e le autrici che più ami e hanno influenzato il tuo stile, le tue voci narranti? Uh, domanda difficile. Leggo un sacco, per cui scegliere è complicatissimo. Posso dirti i preferiti di ogni età, non l’ho mai fatto ma mi sa che è l’unico modo di dare una risposta onesta. Nell’infanzia ho amato Roald Dahl, J.K. Rowling (scoprirla transfobica mi ha spezzato il cuore) e trovavo esilarante Roddy Doyle. Volevo bene ai fumetti delle W.I.T.C.H., e conservo ancora uno scambio di lettere di quando avevo dodici anni, con Angelo Petrosino. Mi ha cambiato la vita rispondendo alla domanda su come si diventi scrittori o scrittrici: “È una strada laboriosa”, ha detto. Aveva ragione. Durante l’adolescenza ho amato Dostoevskij, Shakespeare, Sartre e De Beauvoir, in generale stavo in fissa per i classici. Oggi trovo Furore di Steinbeck una delle cose più belle mai scritte, e empatizzo facilmente con Martin Eden di London, che usa l’amore per questa donna che non se lo fila come stella polare, diventa uno scrittore e poi scopre che lei è meschina e che il mondo editoriale è spaventoso. Per un periodo ho amato molto Zerocalcare. E poi tutto quello che una penna femminista abbia partorito: Virginie Despentes, Valerie Solanas, Liv Stromquist, Vanessa Springora, Filo Sottile, Chanel Miller, un’infinità di meraviglia a cui sono approdata in età adulta, che mi dà una speranza che nient’altro sa darmi, facendomi sentire meno sola, trovando parole che neanche pensavo ci fossero. Progetti per il futuro? Nell’immediato futuro c’è un piccolo viaggio in un paesino del mio cuore, che per inciso è dove Hemingway scrisse Il vecchio e il mare, prima di ambientarlo a Cuba. È anche un piccolo posto dove mi portavano in vacanza i nonni (il nome non lo dirò mai, sennò si riempie di turisti): il piano è starci per un paio di settimane e scrivere come una matta, poi tornare e continuare a scrivere. Non dico ancora cosa, sono solo all’inizio. Però mi appassiona parecchio, e spero che leggerlo sarà bello come è per me, ora, scriverlo. Delitti e cadute, così ci facciamo male di Dacia Maraini Corriere della Sera, 3 settembre 2024 Le notizie degli eccidi di Gaza e i genocidi in Ucraina ci confermano la presenza di una malattia dello spirito che sembra stia contagiando il mondo come una pandemia. Se credessi alle stelle direi che stiamo passando un periodo in cui ci osservano dal cielo con antipatia e si divertono a metterci nei guai. Amici cari si sono ammalati di cancro, un amico è andato a suicidarsi in Svizzera, tantissimi, anche giovani, girano col tutore al ginocchio improvvisamente uscito di senno, a mia volta, mi sono rotta il polso e ho preso una tale botta cadendo sulle pietre che cammino zoppicando. Solo a Pescasseroli, paese abruzzese di 2.000 abitanti, si contano in questi giorni otto braccia rotte. Ma non ci sono soltanto gambe e braccia spezzate. La notizia di quel ragazzo che ha ucciso a coltellate una giovane donna che correva di sera, senza una ragione comprensibile mi fa pensare che qualcosa si sia spaccata anche nel cuore e nella testa di molte persone che non riescono più a vedere nell’altro un essere umano. Le notizie degli eccidi di Gaza e i genocidi in Ucraina ci confermano la presenza di una malattia dello spirito che sembra stia contagiando il mondo come una pandemia. Al tempo del Dio biblico avremmo parlato di una punizione esemplare, un diluvio universale che cacci dalla terra i troppi uomini che hanno perso il senso delle cose. Ma il Dio della Bibbia era severissimo e non faceva distinzioni. Di fronte alle malefatte umane non si tratteneva dal fare affogare nel mare da lui creato tutti gli esseri umani, anche i bambini innocenti. Salvava solo un uomo, Noè, dichiarando “È venuta per me la fine di ogni uomo perché la terra, per causa loro è diventata carica di odio e di violenza... ecco io li distruggerò questi uomini assieme alla terra”. Ma probabilmente non si tratta né di stelle maligne né di un Dio offeso e vendicativo, ma di un momento di paura e di confusione che porta alla voglia disperata di autodistruzione. Quasi una ricerca di senso nell’affogare tutti insieme dentro un mare rabbioso e letale. Io non posso che sperare che il nuovo Noè sia una persona caritatevole e, assieme agli animali, decida di salvare sull’Arca tante persone sincere e oneste che amano la vita e non provano odio. Famiglie felici, ma Tolstoj aveva ragione? di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 3 settembre 2024 La tragedia di Paderno Dugnano: il protagonista era in apparenza un ragazzo come tanti, un ragazzo “normale”, serio, sportivo, tranquillo, studioso. Oggi ogni famiglia felice è infelice a modo suo. Mai come oggi, alla luce della strage di Paderno Dugnano, ci appare dubbio, per non dire sbagliato, il famoso incipit di Anna Karenina: “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Per accettarla come buona, bisognerebbe illudersi che al mondo ci siano solo famiglie perfettamente felici e famiglie imperfettamente infelici. Il guaio è che in quasi centocinquant’anni da quando uscì il romanzo di Tolstoj le cose sono molto cambiate. Anche se un poco ci speravamo, neanche i capolavori della letteratura offrono verità assolute valide per sempre. In realtà quella frase fu presa tanto sul serio da essere analizzata persino dall’illustre biologo americano Jared Diamond, che nel saggio Armi, acciaio e malattie ne fece un principio generale da verificare per tutte le bestie: le zebre, per esempio, che hanno “difetti” tali da non poter essere addomesticabili. Diamond terminava il capitolo, tra ironia e sconforto, affermando che di certo Tolstoj avrebbe sottoscritto una frase del Vangelo di Matteo: “Molti sono i chiamati, pochi gli eletti”. Pochi gli eletti, infatti. Il diciassettenne che ha ucciso il fratello e i due genitori non lo era (e nemmeno lo era la sua famiglia). “Mi sentivo un estraneo”, ha detto, “mi sentivo solo”. Eppure era in apparenza un ragazzo come tanti, un ragazzo “normale”, serio, sportivo, tranquillo, studioso. Un bravo studente con un debito in matematica. Neanche ha accusato la famiglia, se è vero che ha parlato solo di un suo “malessere”. Nient’altro che un malessere. Che sarà mai, un malessere? Per di più, la famiglia era una “famiglia modello”, secondo i vicini; nel pomeriggio avevano festeggiato insieme, con nonni e zii, il compleanno di papà. Nessun movente, esattamente come per l’omicidio di Terno d’Isola (l’avvocato di Moussa è arrivato a ipotizzare, pur non essendo uno psichiatra!, che secondo lui il suo cliente “ha dei problemi”!). Già. Forse oggi ogni giovane normale è “anormale” a modo suo, e soprattutto ogni famiglia felice è infelice a modo suo. Riccardo, che da vicino era “normale”, e i silenzi dei nostri ragazzi di Nicoletta Martinelli Avvenire, 3 settembre 2024 Tre esperti ci aiutano a capire cosa può essere successo nella testa di Riccardo, che a 17 anni ha sterminato la famiglia in cui si sentiva un “estraneo”. Eraldo Affinati non usa mezzi termini: “Di fronte alla tragedia di Paderno Dugnano ho difficoltà a usare il plurale per definire i giovani, gli adulti, le famiglie. Nella ferocia di questo adolescente c’è un’irriducibile singolarità con la quale fare i conti. Mi colpisce la solitudine lancinante del giovane omicida: non sociale, ma interiore. Sembra che soltanto adesso, paradossalmente, dopo il triplice assassinio, abbia ricevuto udienza”. “In Italia, fino al 1986 i canarini erano usati nelle miniere per segnalare la presenza di gas tossici, come il monossido di carbonio, che li avrebbe uccisi prima di avere effetti sui minatori. Un allarme visivo, perché cadevano stecchiti, e udibile anche da lontano: se non cantavano più, scattava l’allerta. Ecco - è l’immagine poetica e crudele al tempo stesso di Simone Feder, psicologo presso la Casa del Giovane, a Pavia - oggi i nostri canarini sono gli adolescenti. Ma il problema non va cercato nella morte del canarino, fuor di metafora nei gesti estremi in cui vediamo coinvolti i ragazzi, ma nell’aria che è tossica e, quindi, nella società”. “Da vicino nessuno è normale” cantava Caetano Veloso, smentito dal diciassettenne che a Paderno Dugnano ha cancellato la sua famiglia dalla faccia della Terra: normale anche da vicino, se si dà credito alle descrizioni che di lui fanno amici e parenti. Perché ne aveva, di amici e parenti, e anche parecchi, tra i quali, però, si sentiva un “corpo estraneo”, “oppresso” come ha confessato agli inquirenti. “Il disagio di un ragazzo può essere invisibile, spesso celato e gestito dal giovane con una sofferenza dentro le mura, privata, silenziosa. E poi ce un’altra specie di disagio - prosegue Simone Feder - che visibile lo è fin troppo, addirittura eclatante, sotto gli occhi di tutti. È quella delle bande giovanili, degli scatti d’ira incontrollati, della rabbia furibonda. Nel caso in oggetto, convivono la premeditazione e l’agito impulsivo. Oggi è molto comune nei giovani, come abbiamo occasione di vedere nel nostro centro. Aumentano i casi di autolesionismo, per esempio, eppure quel che mi spaventa di più non sono i tagli che i ragazzi si infliggono ma che in loro cresca l’idea di morte. Un pensiero, quello della morte, che lavora all’interno de giovane e che se non viene intercettato, si trasforma in un agito che, per quanto atroce, finisce per non meravigliare”. E qui, gioco forza, l’attenzione si concentra sugli adulti, bersaglio facile, da qualche tempo: dove sono e cosa fanno mentre i loro figli sbarellano? “Permetta una citazione, Donald Winnicot ha scritto che dovunque c’è un adolescente che lancia una sfida, deve esserci un adulto pronto ad accoglierla. Ma noi - si chiede lo psicologo - quanto siamo in grado di interpretare quel che è un sfida? Non sappiamo guardare oltre, ci manca la capacità o la voglia di aiutare i giovani a gestire anche le frustrazioni. Di fronte alla fatica dell’essere genitori si passa la responsabilità agli specialisti. Secondo le indagini del nostro del nostro centro studi, un dato è in continua crescita e cioè come i giovani vengano sempre più presi in carico dagli specialisti. Un problema di natura educativa si fa diventare un problema sanitario”. Fatto sta, che il mondo giovanile ha rotto gli argini e la comunità educante è ancora in cerca - disperata? - di un modo per assistere, accompagnare e intervenire sulle fragilità e le vulnerabilità dei giovani. Il risultato è, per usare una metafora automobilistica, che se prima si passava da zero a cento in un certo lasso di tempo, oggi basta un attimo per perdere il controllo. “Vero. Dipende da come si approccia la realtà. Proviamo a racchiuderla in un rettangolo. In alto, c’è una prima parte di stimolazione: provo qualcosa. A questa, segue una parte centrale di raffreddamento cognitivo logico: penso e rifletto su quello stimolo che mi ha provocato qualcosa. E, infine, la terza parte è l’azione. Ecco, la parte centrale che è il raffreddamento cognitivo - spiega Feder - negli anni si è ristretta fino a scomparire. Ma è sul raffreddamento cognitivo che dobbiamo lavorare, nel ragionare sullo stimolo e nel fermarsi prima che diventi azione perché l’agito impulsivo è sempre più presente nei giovani”. Sui segnali difficili da cogliere nella quotidianità, su quanto sia facile illudersi che chi ha una famiglia e degli amici e una vita normale non abbia delle fatiche e dei tormenti ragiona Matteo Fabris, responsabile dell’area adolescenti della Fom, la Federazione oratori milanesi: “A mio parere, il malessere che descrive questo ragazzo che ha ucciso la famiglia è lo stesso di molti altri ragazzi ed è l’incapacità di saper dare il nome alle cose, di saper definire con parole, concetti, idee e immagini quello che si sta provando. Vale per le emozioni che si provano, per le situazioni che si vivono. Una incapacità di analizzarle che diventa un malessere insuperabile. E questo perché sempre più spesso si trascura l’interiorità per proiettarsi verso l’esteriorità, l’essere performanti e tutte le energie vengono fatte confluire verso questo scopo”. Non saper descrivere un problema ha come conseguenza non saper chiedere aiuto per quel problema. Specie se non si individua nessuno, e questo pare il caso, con cui confidarsi, specie se non si riesce a trovare una propria collocazione nel mondo: “È una condizione diffusa tra i ragazzi. Spesso sono spaesati dalla vita che fanno e, sembrerà strano ma è così, proprio perché è piena di possibilità, piena di stimoli, di persone con cui misurarsi grazie alla rete e ai social... Il rischio di perdersi - è convinto Fabris - c’è ed è alto”. Insegnante e scrittore, Eraldo Affinati non usa mezzi termini: “Di fronte alla tragedia di Paderno Dugnano ho difficoltà a usare il plurale per definire i giovani, gli adulti, le famiglie. Nella ferocia di questo adolescente c’è un’irriducibile singolarità con la quale fare i conti. Mi colpisce - confessa - la solitudine lancinante del giovane omicida: non sociale, ma interiore. Sembra che soltanto adesso, paradossalmente, dopo il triplice assassinio, abbia ricevuto udienza. Ciò chiama in causa tutti noi. Lui voleva parlare e non ha trovato nessuno con cui farlo: dovremmo chiederci perché. Pensare alla rivoluzione digitale, che rischia di isolare tutti noi, non è sufficiente. L’abisso in cui è sprofondato questo ragazzo, prima e dopo la strage che ha commesso, ha qualcosa di raccapricciante che mina alla base la civiltà sociale”. “Famiglia perfetta? C’erano per forza segnali, che nessuno ha visto. Questo deve spaventare” di Tommaso Moretto Corriere della Sera, 3 settembre 2024 Lo psichiatra Paolo Crepet: “Perché lo ha fatto? Va chiesto all’Onnipotente ma parlare di ragazzo per bene è la controfirma di una società ormai sfaldata. Non ci parliamo più, non conosciamo l’altro: il vicino ma neppure chi vive con noi”. Un ragazzo di 17 anni a Paderno Dugnano, Comune della città metropolitana di Milano, ha ucciso con un coltello da carne il fratello di 12 anni e i genitori nella notte tra sabato e domenica. Ha confessato tutto davanti agli inquirenti, dicendo “non c’è un vero motivo per cui li ho uccisi, mi sentivo oppresso”. Paolo Crepet, 72 anni, psichiatra, sociologo e saggista, in passato pro-rettore dell’Università di Padova, invita a riflettere sulla nostra “comunità sfaldata”. Cos’è passato per la testa di questo ragazzo, si è dato una spiegazione? “Va chiesta all’Onnipotente. Criminologi e psicologi che rispondono ad una domanda del genere sono dei fanfaroni. Quello che mi spaventa invece è come mai non se n’è accorto nessuno”. Secondo lei c’erano per forza dei segnali? “È ovvio, un ragazzino di 17 anni prende in mano un coltello e fa una strage e non ci sono segnali? Stiamo scherzando?”. Il vicino di casa ha detto che era una famiglia tranquilla, che non aveva notato nulla di strano. “Questo è bestiale, è la controfirma di una civiltà morta. Chi dice che era una persona meravigliosa uno che ha fatto una strage perché lo dice? Ci è andato a bere un caffè alle otto? E cosa pensava gli dicesse, tra dieci minuti ammazzo tutti?” È una società dove non ci si conosce più? “Non ci parliamo più, io non conosco nessuno dei miei condomini. È una comunità sfaldata, una volta tra vicini ci si aiutava”. Paolo Crepet sulla strage di Paderno Dugnano: “Famiglia perfetta? C’erano per forza segnali, che nessuno ha visto. Questo deve spaventare” La famiglia di Paderno Dugnano coinvolta nel triplice omicidio: Fabio C., Daniela A., Riccardo C., Lorenzo C. La famiglia massacrata viveva in una zona di villette... “Perché Turetta dove abitava? Nel Bronx? Smettiamo di parlare di “famiglie per bene”, aboliamo questa dicitura”. Questo ragazzo non pensava che sarebbe stato scoperto e quindi che sarebbe finito in carcere? “Non gliene frega niente. Un’altra cosa che ci è sfuggita da Novi Ligure ad oggi, e son passati più di vent’anni, è la questione social. All’epoca di Novi Ligure sono stato preso per i fondelli dicevano che banalizzo soltanto perché chiedevo se in quelle famiglie - e all’epoca non c’erano i social - alla sera, a cena, ci si chiede anche come va. Figuriamoci oggi con i social”. I social network peggiorano la situazione? “Di un milione di volte. Chi dice di no è in malafede. Un ragazzino di 17 anni che si mette la “vision pro” sugli occhi è più o meno isolato? Ci vuol Marconi per capirlo?”. Comunque, dall’isolamento ai triplici omicidi resta un passaggio difficile da capire... “Mica tanto, quella è la punta di un iceberg. Lui l’ha fatto, mille altri ci hanno pensato. E poi comunque questi casi non sono così rari”. Perché scatta il meccanismo della violenza? “Perché siamo tutti violenti, questa è una società violentissima. A Torino hanno massacrato un signore che faceva le bolle di sapone alla stazione, non è follia, è odio. È odio anche andare a 200 chilometri l’ora in auto con la propria fidanzata e finire contro un albero, se ami la tua ragazza vai a 65 orari e le accarezzi la mano. Ai 200 all’ora si è indifferenti alla vita dell’altro, è ovvio”. È possibile un parallelo con quanto appena successo a Sharon Verzeni? “Anche lì, odio. Ogni evento ha un suo perché e una sua declinazione, non possiamo metterli nello stesso posto. Ma in comune ci sono l’odio e l’indifferenza per la vita altrui”. La prospettiva del carcere non è un deterrente? “Non gliene frega niente, zero. Siamo bombardati da mesi con quaranta morti al giorno in televisione per le guerre, è un continuo richiamo alla morte. E poi l’ergastolo non lo faranno. Questo ragazzo di 17 anni si farà 15 anni, ci sono già i periti al lavoro, poi è minorenne”. Il suo recupero psicologico è possibile? “Lo sarebbe se si volesse ma andrebbe cambiato il carcere minorile. Bisognerebbe ci fossero persone con capacità di intervento, non neolaureati”. Non ci sono? “Ma per carità. Noi evitiamo questi argomenti perché ci riguardano, ora per distrarci parleremo dell’Ultradestra in Germania”. E perché li evitiamo? “Perché ci riguardano. Le famiglie non funzionano, la scuola è abbandonata a sé stessa. Negli Stati Uniti ogni mese esce un libro sull’impatto della tecnologia digitale sui nostri figli ma non facciamo niente perché ci sono le Lobby che portano a cena un senatore e sono a posto”. Educazione civica, la Patria non è tutto: Rete di scuole per una cultura della pace di Orsola Riva Corriere della Sera, 3 settembre 2024 Si chiama “Immagina” l’iniziativa lanciata dalla Rete nazionale delle scuole per la Pace: è un “Programma di educazione civica per la formazione di giovani costruttori e costruttrici di pace”. E per coincidenza arriva in concomitanza con la bocciatura - invece - delle Linee guida per l’educazione civica proposte dal Ministero. “Quando ti viene data la possibilità di scegliere se avere ragione o essere gentile, scegli di essere gentile”. Si potrebbe partire da qui, da una delle tante pillole di saggezza di quel piccolo gioiello della letteratura per ragazzi che è Wonder di R. J. Palacio. Perché insegnare ai bambini e ai ragazzi l’arte della gentilezza significa educarli a far fare un passo indietro alle proprie ragioni e un passo avanti a quelle degli altri. Quale ricetta migliore per far avanzare la causa della pace in un momento in cui, dall’Ucraina a Gaza, interi popoli e nazioni, che vuol dire uomini, donne ma anche tantissimi bambini sono vittime dell’immane tragedia della guerra? Forse non tutti sanno che da quasi trent’anni esiste in Italia una Rete di scuole per la pace il cui scopo è proprio quello di educare i giovani alla cultura della pace. Alla vigilia della riapertura delle scuole, qualche giorno fa la Rete ha lanciato un nuovo “Programma di educazione civica per la formazione di giovani costruttrici e costruttori di pace sui passi di Francesco”. Si chiama “Immagina” ed è aperto alle scuole di ogni ordine e grado. Sarebbe bello che il ministero dell’Istruzione e del Merito, nelle nuove e controverse Linee guida per l’educazione civica (la settimana scorsa sono state bocciate dagli esperti del Consiglio superiore della pubblica istruzione in quanto inutilmente prescrittive e retoriche), accanto al “rafforzamento del senso di appartenenza a una comunità nazionale” e alla valorizzazione della “Patria come concetto espressamente richiamato dalla Costituzione”, non dimenticasse anche di menzionare un altro principio caro ai nostri costituenti che della barbarie della guerra avevano fatto esperienza diretta: la pace, appunto. Migranti. Meloni torna in tv e annuncia il superamento della Bossi-Fini di Francesco Olivo La Stampa, 3 settembre 2024 C’è una priorità di Giorgia Meloni: la sicurezza. La Camera alla sua lenta ripresa affronterà un disegno di legge che si chiama proprio così, “ddl sicurezza”, che qualche spaccatura ha creato nella maggioranza. Evidentemente, però, le nuove leggi non bastano e quindi il governo per l’ennesima volta rilancia con la proposta di superare la Bossi-Fini (“Fini-Bossi”, la chiama la premier con una reminiscenza dei tempi di Alleanza Nazionale). Al centro dei pensieri ci sono sempre i migranti: “Ho sempre detto che mi sarei presa il tempo necessario per trovare soluzioni strutturali e quest’anno abbiamo il 64% in meno di sbarchi, il 30% in meno rispetto al 2022 - dice intervistata da Paolo Del Debbio a 4 di sera -. Bisogna continuare a lavorare, lo facciamo anche con un prossimo provvedimento che arriverà in Consiglio dei ministri”. C’è anche Matteo Salvini da marcare stretto. Il leader della Lega ha rispolverato la strategia di commentare sui social e non solo i fatti cronaca, a cominciare dall’omicidio di Sharon Verzeni. Su questo episodio di cronaca nera, però, Meloni si distingue dal suo vicepremier: “Questo è un fatto ancora più spaventoso dei normali profili di sicurezza con cui noi leggiamo spesso questi fatti di cronaca. Qui non stiamo parlando di un immigrato illegale lasciato ai margini della società, senza un lavoro e senza una famiglia. Qui parliamo di un ragazzo cittadino italiano integrato, a cui sulla carta non manca niente. Per la sicurezza sappiamo come muoverci. Qui siamo in un dominio che dobbiamo affrontare con un dibattito serio, non stiamo capendo quello che sta succedendo alle nuove generazioni”. Con gli alleati, che hanno litigato per tutta l’estate, va tutto a meraviglia, “siamo compattissimi”, ma la premier evita (in mancanza di domande) di parlare del tema che più li continua a dividere: lo Ius scholae. Mentre sull’altro dossier che spacca la maggioranza, l’autonomia differenziata la premier precisa: “Il presupposto è una cosa che si chiama Livelli essenziali delle prestazioni (Lep)”. Un implicito richiamo alla Lega a non accelerare sui tempi. I governatori del Carroccio, infatti, non hanno aspettato la definizione dei Lep per chiedere la competenza su alcune materie (come prevede la legge), provocando l’irritazione di Forza Italia. Con le sue parole Meloni sembra andare nella direzione di Antonio Tajani: non verranno concessi nuovi poteri alle Regioni finché non saranno definiti e finanziati i livelli essenziali delle prestazioni. Nella Lega sale il nervosismo: “I forzisti dicono una cosa contraria alla legge votata da tutto il centrodestra - dice il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari, ad Affari Italiani - e contraddicono il compromesso trovato proprio per dare a loro e a FdI tutte le garanzie che chiedevano”. “Non è che stiamo spaccando l’Italia - prosegue Meloni - stiamo cercando di riunificarla proprio perché non aver identificato quei livelli minimi delle prestazioni che dovevano essere uguali per tutti ha creato sì la disparità che oggi noi vediamo”. Fuori da Rete 4 continua lo scontro: Forza Italia continua a lavorare a una proposta di legge da presentare sullo Ius scholae, “ma noi restiamo contrari”, puntano i piedi nella Lega. E in ogni caso, fanno sapere da Fratelli d’Italia, “ora ci sono altre cose a cui pensare”. Tajani prova a superare la contrarietà dei colleghi di governo proponendo la concessione della cittadinanza ai minori stranieri dopo 10 anni di scuola e un esame sulla conoscenza della lingua e della storia italiane, sostituendo l’attuale normativa che prevede la cittadinanza automatica al diciottesimo anno d’età. Reazioni tiepide nella coalizione, mentre dal Pd Elly Schlein continua a tendere la mano: “Noi siamo pronti a discuterne”. Tajani voleva quindi affondare il colpo a fine mese, depositando il testo in Parlamento, ma ieri si è reso conto che è meglio aspettare: “L’obiettivo è lavorarci bene e adesso la priorità è mandare avanti la manovra e i provvedimenti d’iniziativa del governo”, dice il portavoce di FI, Raffaele Nevi. I forzisti prendono tempo soprattutto perché vorrebbero far partire il percorso parlamentare della legge non in Senato, ma alla Camera, dove presiedono con Nazario Pagano la commissione Affari costituzionali, anche se il calendario è particolarmente affollato. Tra i duelli c’è anche quello economico. Forza Italia vuole alzare le pensioni minime, la Lega punta Quota 41. Anche in questo caso Meloni pare optare per le richieste azzurre: “In generale, le pensioni basse sono una nostra priorità”. C’è il tempo per celebrare il più alto tasso di occupazione da quando Garibaldi ha unificato l’Italia”. Strage di Cutro, le chat cinque ore prima della tragedia: “Trattasi di migranti” di Simona Musco Il Dubbio, 3 settembre 2024 L’informativa dei carabinieri sulla catena dei soccorsi nel naufragio in Calabria in cui sono morte cento persone. “Trattasi di natante con migranti a bordo avvistato dall’Eagle 1 alle h. 21:26 Z, attualmente a Mgl 41 circa, da località Le Castella (KR)”. Sono le 23.30 del 25 febbraio 2023. A scrivere il messaggio è un ufficiale della Guardia di Finanza, che avvisa via whatsapp i colleghi delle informazioni appena ricevute da Frontex. La barca di cui parla è la Summer Love, il caicco che, ore dopo, si spezzerà su una secca, provocando la morte di circa 100 persone. La cui presenza in mare, a pochi passi dalle coste di Cutro, era dunque nota già cinque ore prima che la situazione fosse irrecuperabile. Questo messaggio, insieme a tanti altri, è stato estrapolato dai Carabinieri su delega della procura di Crotone dai telefoni degli uomini delle Fiamme Gialle e della Guardia costiera indagati con un’accusa pesantissima: naufragio colposo e omicidio colposo plurimo. Messaggi confluiti in un’informativa lunga 625 pagine e che secondo la procura dimostrerebbero un fatto: con un po’ di accortezza, avevano scritto a luglio gli inquirenti chiudendo le indagini, quella tragedia non sarebbe mai stata raccontata, semplicemente non sarebbe avvenuta. Per il pm Pasquale Festa e il procuratore Giuseppe Capoccia, i sei indagati avevano “tutti e indistintamente il prioritario, fondamentale e ineludibile obbligo di salvaguardare la vita in mare”. Con la Guardia di Finanza che aveva l’obbligo di comunicare (e la Capitaneria di Porto di acquisire) “tutte le informazioni idonee ad incidere sulla valutazione dello scenario operativo”. Cosa che non è avvenuta, stando alle indagini, causando una delle peggiori stragi che il Mediterraneo ricordi. “So migranti”, scrive esattamente un minuto dopo il primo messaggio che abbiamo riportato un altro indagato. Un altro minuto ancora, le 23.34, e un altro indagato aggiunge: “In realtà non s’è visto nessuno, ma è una barca tipica”. E poi ancora: “Sotto il flir (la tecnologia di visione infrarossi, ndr) è tutto nero”. Ci sono tutti gli indizi, dunque, per ipotizzare la presenza di persone, come più volte dichiarato anche dai legali delle famiglie delle vittime. Per il momento, però, nessuno si muove, “l’imbarcazione naviga autonomamente e dalle foto non si vedono migranti in coperta”, scrivono ancora in chat alle 23.45. Ma quando manca poco alle 2 la situazione comincia a farsi preoccupante. “Vento bruttissimo”, scrive una donna chattando con uno dei militari, che risponde: “E qui una barca di migranti in arrivo”. Non sembra avere più dubbi. Alle 3.48 un operatore della gdf comunica a quello della capitaneria di porto che le due unità navali impiegate nella ricerca del target hanno fatto rientro in porto per le condizioni meteo avverse. E a specifica domanda, l’operatore della capitaneria risponde di non avere nessuna unità in navigazione. “Al momento, noi in mare non abbiamo nulla” … “eh, poi vediamo” se … come si evolve la situazione perché al momento non … non abbiamo nessun genere di richiesta. Abbiamo solo quest’avvistamento fatto dall’Eagle”. La Capitaneria di Porto, alle 3.55, aspetta ancora una richiesta d’aiuto per intervenire: “La Cp - scrive uno dei finanzieri indagati - ha già riferito che se non hanno una richiesta di aiuto da bordo non intervengono”. La richiesta arriva quando ormai è troppo tardi per intervenire. Alle ore 04.11.18 un uomo chiama i Carabinieri, in quel momento in collegamento con la Finanza. “Help”, urla una voce straniera. Riesce a spiegare di essere in Italia, ma la telefonata dura troppo poco. “La telefonata era molto concitata… si sentivano urla, grida, help… help… però purtroppo io ho provato a transitartela ma hanno buttato giù”, spiega la Centrale operativa. Ed ora tra Finanza e Capitaneria di porto è un rimpallo di responsabilità. “Ritengo ancora oggi che non ci fossero le condizioni per l’attivazione del piano Sar perché non vi erano delle circostanze effettive e chiare, quali una telefonata di soccorso o altro idonee a far sorgere una situazione di incertezza sullo stato dell’imbarcazione e sulla sicurezza delle persone a bordo - ha dichiarato a sit l’ammiraglio Gianluca D’Agostino, responsabile della sala operativa delle Capitanerie di porto -. Ritengo che il nostro unico errore sia stato quello di fidarci della Guardia di finanza che ci ha dato informazioni mendaci”. Ma la Finanza la pensa diversamente: “Noi abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare”. Le spese folli del Cpr in Albania: quanto costerà il Centro per i migranti voluto dal Governo di Irene Famà La Stampa, 3 settembre 2024 Un milione al mese per pagare la diaria agli agenti italiani. A pieno regime saranno 1.120 i posti nel Centro per il trattenimento dei migranti; 300 nell’hot spot sulla costa. Tutti in corsa per l’Albania. Dove prestare servizio nei nuovi Cpr comporta un aumento in busta paga, un centinaio di euro in più al giorno per agenti penitenziari, poliziotti, carabinieri, finanzieri. Più vitto, alloggio, rientro a casa. E i calcoli, per quanto riguarda vita e spostamenti di chi parteciperà all’operazione, sono presto fatti. Trecento unità, spiega chi è ben informato. Per un costo che si aggira intorno ai 30 mila euro al giorno. Novecentomila euro al mese. Solo per quanto riguarda gli indennizzi di trasferimento. Il resto delle voci? Ancora da quantificare. Perché ogni area e ogni attività sono cosa a sé. Gli agenti della Polizia penitenziaria saranno perlopiù destinati in un carcere a Gjader, piccolo paese a nord dell’Albania. Lì verrà recluso chi creerà problemi al Centro di permanenza per il rimpatrio. Si tratterà di un penitenziario maschile con ventiquattro brandine. Quarantacinque i posti disponibili per gli agenti, oltre tremila le domande presentate. L’incarico è vantaggioso: 130 euro in più al giorno, un servizio previsto dai quattro ai sei mesi a seconda del grado con la possibilità di rientrare in Italia una volta al mese con spese a carico dell’amministrazione. Queste le cifre e le regole d’ingaggio. Almeno sulla carta. Perché le perplessità sono numerose. “È tutto un paradosso”, tuona il segretario generale Uilpa penitenziaria Gennarino De Fazio. Inizia dai numeri. “Una volta si tendeva a chiudere le carceri sotto i cento posti perché antieconomiche. Ora se ne costruisce una molto piccola, con un rapporto agenti - detenuti decisamente sproporzionato. Se in Italia c’è un poliziotto ogni tre reclusi, circa 25mila per oltre 61mila persone, lì ce ne saranno tre per ogni detenuto”. E ancora. “La spesa? Sarà esorbitante. In un momento di emergenza per le carceri italiane”. Al momento, in Albania, sono arrivati solo quattro agenti della polizia penitenziaria. D’altronde il carcere, che avrebbe dovuto essere pronto a giugno, poi ad agosto, poi a settembre, ancora non c’è. Si attende il primo lotto, dicono. Poi si penserà alle partenze. Ed ecco le altre perplessità. Le riassume bene Aldo Di Giacomo, segretario generale Spp, sindacato polizia penitenziaria. “Chi lavora con i detenuti, sa che un errore di comunicazione può creare problemi seri. Eppure nessuno di noi è stato formato sul come porsi con queste persone. Ad iniziare dal fattore linguistico”. Di Giacomo prosegue. “Un corso, ad esempio sarebbe stato utile. Così come sapere quali regolamenti faranno fede sul territorio. Invece ci si è soffermati solo sugli atteggiamenti da tenere in pubblico, senza considerare il duro lavoro con i detenuti”. Gjader, un centinaio di abitanti e una manciata di case, ex base militare durante la Guerra Fredda, ora si trova al centro dell’accordo tra il governo italiano e quello albanese. Un paese chiave per il primo centro di detenzione per migranti italiano costruito in terra straniera. C’è il penitenziario. E il Cpr vero e proprio con 1.120 posti per il trattenimento. Guai, in questo caso, a chiamarlo carcere. “Chi è al Cpr non è detenuto”, si ripete da sempre. Però da lì non si può uscire. E ci sono i container, le recinzioni, i muri. Le forze dell’ordine a controllare con numeri ingenti. A Gjader e a Shengjin, ventuno chilometri più in là. Quel paese sul mare, che raccoglie numerose recensioni su Tripadvisor non tutte entusiastiche, è la prima tappa per i migranti che sognavano l’Italia e si trovano confinati in Albania. Lì c’è l’hot spot per trecento persone. Lì, come si legge in una delle ultime circolari del Ministero dell’Interno, ci si occupa delle “procedure d’ingresso. Con attività connesse alla gestione delle operazioni di sbarco, pre-identificazione, registrazione della domanda di protezione internazionale”. A Gjader, poi, “gli accertamenti” per capire chi potrà raggiungere l’Italia e chi invece dovrà essere rimpatriato. Ogni area sarà presidiata dalle forze dell’ordine con un “contingente interforze”. Trenta i carabinieri scelti tra la Prima Brigata Mobile, centosettantasei i poliziotti, di cui settanta del reparto mobile e gli altri tra squadre mobili, Digos, polizia scientifica, ufficio immigrazione, uffici tecnico-logistici provinciali delle Questure. “Il periodo d’impiego sarà di un mese, salvo casi eccezionali”. Cento euro al giorno in più sullo stipendio, vitto e alloggio “saranno a carico dell’amministrazione” e la “Direzione centrale individuerà, mese per mese, le aliquote di personale da impiegare e gli uffici territoriali da cui il personale sarà tratto”. Chi andrà in Albania, sottolinea chi conosce il progetto, lo farà su base volontaria. Chi ha già lavorato nei diversi Cpr d’Italia mormora preoccupato: “E quando i volontari non si troveranno più?” Altre perplessità. Centri per migranti Albania, sindacati della Polizia penitenziaria contro il governo di Luca Sebastiani Il Riformista, 3 settembre 2024 In Italia caos carceri ma si inviano agenti nei “campi di prigionia”. I centri italiani per migranti costruiti in Albania e voluti dal governo di Giorgia Meloni continuano a far discutere. Nelle ultime ore, in particolare, a causa dell’uso di agenti italiani della penitenziaria pronti a essere dispiegati a vario titolo nelle strutture di Shengjin e Gjader. Alcuni sindacati hanno infatti protestato contro le scelte dell’esecutivo con un comunicato ufficiale, sottolineando come al momento, visto il caos totale all’interno delle carceri italiane, dovrebbe essere altre le priorità in merito all’utilizzo di risorse. A diffondere un comunicato sono stati la Federazione sindacale del Coordinamento sindacale penitenziario insieme alla Confederazione autonoma italiana polizia penitenziaria. Due sindacati che si dicono basiti “dalla notizia del provvedimento con cui l’Esecutivo avrebbe deciso l’invio in Albania, per un accordo internazionale tra i leader dei due Paesi di circa cinquanta unità del Corpo della polizia penitenziaria dei diversi ruoli e qualifiche con trattamento di missione Internazionale e con regole di ingaggio del tutto discutibili e non condivise con le organizzazioni sindacali”. Cinquanta agenti che quindi andranno a lavorare sull’altra sponda dell’Adriatico. Il problema, però, è che mentre il governo continua a porre attenzione e risorse sul piano Albania, la situazione nelle carceri italiane è sempre più emergenziale. Un aspetto rimarcato dai sindacati che criticano la missione “quando in Italia si registra una popolazione detenuta di oltre 62mila persone ristrette contro una capienza di 44mila posti letto e un organico di polizia al di sotto di 20mila unità, con 10.700 agenti feriti e diverse rivolte, tentativi di sommosse, autolesionismi a centinaia, suicidi 67 detenuti e 7 poliziotti”. La priorità per le organizzazioni di penitenziaria dovrebbe essere il quadro interno, non i centri in Albania in una “struttura che ricorda inquietantemente un campo di prigionia. E ora si parla addirittura di inviare i baschi verdi a presidiare questo complesso”. I due centri sono stati previsti e costruiti dopo l’accordo tra il governo italiano di Meloni e quello albanese di Edi Rama firmato il 6 novembre del 2023. Le strutture sono gestite e controllate dall’Italia nel territorio albanese e serviranno - almeno sulla carta - per l’esame delle domande di asilo dei richiedenti asilo. I migranti che vi saranno trasferiti saranno quelli salvati in mare da navi miliari italiane. I due centri, quello nel porto di Shengjin e quello di Gjader, avranno in teoria due ruoli diversi: il primo dedicato alle procedure di sbarco e identificazione, mentre il secondo al trattamento delle domande e alla contemporanea accoglienza. Secondo quanto stabilito da Roma e Tirana, i migranti trasferiti in Albania potranno essere al massimo 3000 al mese, per un totale di 36mila all’anno. Il tutto per un costo enorme, potenzialmente pari a 635 milioni in cinque anni. Ad aggiungersi alla bilancia dei costi rispetto ai vantaggi, c’è anche il fatto che della cifra totale, come si vede in un rapporto di Openpolis, più di un terzo - cioè quasi 252 milioni - è prevista per le trasferte dei funzionari italiani. Una voce di spesa che sarebbe stata ben diversa in caso di costruzione dei centri in Italia. Chi continua a lodare il piano Albania è Nicola Molteni. In un’intervista a La Stampa, il sottosegretario all’Interno della Lega ha parlato di quanto sia importante l’accordo con Tirana per Roma: “Credo che il protocollo con l’Albania sia utile, necessario e moderno. Un’iniziativa che sui territori extra Ue sarà il futuro. È un accordo di deterrenza per le partenze e di alleggerimento delle nostre strutture approvato da 15 Paesi europei. La struttura in Albania sarà il modello per la gestione dei flussi migratori”. Perché la morte di Bidja cambierà gli equilibri in Libia di Nancy Porsia Il Domani, 3 settembre 2024 Il potente trafficante di migranti è stato ucciso domenica all’uscita dall’accademia di Janzour. Dopo una lunga scalata nell’universo criminale credeva di essere al sicuro. Stava uscendo dall’Accademia Navale di Janzour da solo, senza autista né scorta, a bordo della sua Toyota Land Cruiser non blindata, quando domenica pomeriggio gli è stata scaricata addosso una raffica di proiettili di mitragliatrice: è morto così Bidja, al secolo Abdul Rahaman al Milad, l’ufficiale della Guardia Costiera libica noto a livello internazionale come il trafficante numero uno di esseri umani in Libia. Già nel 2015 Bidja ha iniziato a gestire il traffico di esseri umani stivando centinaia di migranti nei casolari di campagna alla periferia della sua città natale, Zawiya, 50 chilometri a ovest di Tripoli. Allo stesso tempo imponeva il pizzo come guardacoste agli altri trafficanti che organizzavano i viaggi della speranza attraverso Mediterraneo. Uno schema perfetto che garantiva al clan di guadagnare dal traffico dei migranti ma anche dall’Europa per il lavoro di “poliziotti” del mare. L’Italia nel 2017 con il Memorandum di Intesa a firma dell’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, delegò ai guardacoste libici il ruolo principale nel contrasto alla migrazione irregolare nel Mediterraneo centrale. Ma poi anche nella Libia anarchica gradualmente si sono formate alleanze più solide di quelle da ribelli armati di quartiere. Come tanti mafiosi, Bidja ha provato l’impresa della scalata sociale da esecutore materiale delle torture a mandante nei palazzi. Una transizione forse obbligatoria nel suo caso, dopo che è finito al centro di un’inchiesta giornalistica nel 2016 che svelò il suo ruolo centrale nel traffico di esseri umani. Tanto che al rientro dalla sua visita ufficiale a maggio del 2017 in Italia per un corso di formazione organizzato dal ministero dell’Interno di Roma sulla gestione della migrazione irregolare, le Nazioni Unite inserirono il suo nome nella blacklist dei trafficanti di esseri umani. Tuttavia, Roma e Bruxelles continuarono per anni a lavorare con la Guardia Costiera libica e quindi con Bidja, dicendo che nulla potevano per il principio di rispetto della sovranità nazionale. Fino a quando nel 2020 l’allora ministro dell’Interno del governo di base a Tripoli, Fathi Bashaga, decise che la testa di Bidja fosse un pegno necessario per ingraziarsi la comunità internazionale, nonostante fosse oramai uno della dozzina di trafficanti di esseri umani al soldo del governo: così Bidja fu arrestato con il beneplacito dell’allora presidente Fayaz al Serraj. Ma dopo cinque mesi viene nominato nuovo primo ministro Habdul Hamid Dbeibah, un imprenditore di memoria gheddafiana che ama definirsi “l’uomo della riconciliazione”: nel patto di riconciliazione con gli al Nasser, Bidja viene rimesso in libertà. Ma se per i libici era bastato un colpo di spugna per ripulire la fedina penale di Bidja, per il Consiglio di Sicurezza Bidja restava un ricercato. Così gli fu chiesto di fare un passo indietro, di rinunciare alla prima linea del pattugliamento in mare. In cambio gli fu data carta bianca nell’Accademia Navale a Tripoli. L’Accademia è così diventata il suo nuovo ufficio, o meglio la sua nuova cabina di comando sulle operazioni che le unità della Guardia Costiera conducono in mare. È dall’accademia di Janzour che dava direttive su dove far sbarcare i migranti intercettati in mare: insomma lui rimaneva l’uomo forte della Guardia Costiera libica con cui l’Italia negli anni ha incrementato accordi di partnership fino all’esternalizzazione totale del controllo delle frontiere del sud Europa. Nel frattempo ha messo a disposizione buona parte della sua fortuna accumulata con il traffico di esseri umani e diesel per ricostruire l’Accademia, incassando la gratitudine dei libici che in lui vedevano il patriota che si batte contro le ingerenze straniere. E poi suo cugino Essam Buzriba, uno dei principali attori del clan al-Nasser è diventato ministro dell’Interno del governo parallelo di base nell’Est del paese, sotto il controllo del generale Khalifa Haftar. Bidja aveva alleati su entrambe le barricate della linea del fronte, proprio come un mafioso che si rispetti. Pensava forse di essere finalmente salito al rango dei colletti bianchi, di quelli che non sparano più e quindi non rischiano neanche di essere ammazzati da un proiettile. E invece domenica Bidja è stato ucciso, in pieno giorno. In poche ore gli account social libici si sono riempiti di migliaia di messaggi di cordoglio: per tutti un eroe nazionale. Forse Bidja avrà avanzato una richiesta di troppo in uno di quei negoziati che la Guardia Costiera porta avanti con il Governo in Libia e indirettamente con gli europei. Forse qualcuno avrà voluto mettere fine a questa sua scalata. Ma al momento sono solo supposizioni. Ci vorrà tempo per trovare il mandante di questo omicidio, perché non sarà facile individuare chi tra i tanti che volevano Bidja morto lo ha poi ucciso. Di fatto è stato un’esecuzione eccellente, una di quelle che cambieranno comunque la storia delle relazioni e degli affari in Libia, un monito che risuona oltre i confini della Libia scuotendo anche i vetri dei palazzi in Europa. Stati Uniti. Trump: “Con me presidente riprenderanno le esecuzioni federali” di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 3 settembre 2024 Nel luglio 2021 Merrick Garland, procuratore generale degli Usa, annunciò una moratoria - ancora in vigore - sulle esecuzioni federali, ufficialmente per esaminare i protocolli usati per mettere a morte i condannati alla pena capitale. In realtà, era fresco il ricordo della scia di sangue lasciata da Donald Trump: 13 esecuzioni federali durante il suo mandato, mai così tante da120 anni ad allora, tutte negli ultimi sette mesi del suo mandato; tre addirittura nel gennaio 2021, nel periodo di transizione alla presidenza Biden, in violazione di una prassi che aveva retto 132 anni. Quella scia di sangue rischia di ripetersi nel caso in cui Trump sarà rieletto alla Casa bianca: cancellare la moratoria e ripristinare le esecuzioni federali “una delle prime priorità”. Secondo Trump, la pena di morte è un’arma efficace contro il traffico di droga. Non è chiaro a quali fonti abbia attinto per giungere a questa conclusione o se abbia intenzione di seguire il fallimentare, e terribilmente sanguinoso, esempio dell’Iran: chi si occupa di politiche di deterrenza la pensa diversamente. *Portavoce di Amnesty International Italia