Carcere, bilancio di un fallimento di Claudio Castelli Giornale di Brescia, 30 settembre 2024 Un sovraffollamento del 131%, un suicidio ogni 4 giorni nei primi otto mesi dell’anno, sei tentati suicidi al giorno. L’attenzione per la situazione carceraria e? episodica e viene rapidamente dimenticata. La realtà è che il carcere per noi normali cittadini è disturbante e preferiamo rimuoverlo, piuttosto che affrontarlo. Un grave errore perché la situazione delle nostre carceri e? un problema di tutti, che riguarda la nostra coesione sociale e la nostra sicurezza. Carceri invivibili e disumane in cui i detenuti non ricevono alcun trattamento e alcuna formazione sono criminogene e portano alla recidiva e quindi ad altra insicurezza. “Le carceri sono una discarica sociale misurata da suicidi, sovraffollamento e dalla recidiva. Misuriamo se facciamo bene questo mestiere e la recidiva è stabilmente sopra al 70%. Perché chi esce dal carcere torna a fare quello che faceva prima di entrarci”. Sono dichiarazioni di una persona non sospettabile come il Presidente del Cnel Renato Brunetta. Mentre, va aggiunto, chi e? sottoposto a misure alternative ha un tasso di recidiva che non arriva al 20%. Un quadro desolante, quello carcerario, che evidenzia un vero e proprio fallimento come momento di rieducazione. Crisi accentuata in Italia dall’assenza oggi di una prospettiva di intervento credibile. L’ultimo decreto carceri, a detta di tutti, a partire dagli stessi autori, e? inefficace, mentre contemporaneamente il Parlamento continua a introdurre nuovi reati con pene severissime. La situazione non può che peggiorare perché ogni nuovo reato che preveda pene congrue porta inevitabilmente a nuovo carcere, come insegna il secreto Caivano che ha portato id un aumento del 50% dei carcerati minorenni. E continua a non essere affrontata l’altra grave emergenza data da autori di reato con problemi psichici che, stante lo scandaloso ritardo con cui si stanno realizzando le Rems ovvero le strutture che dovrebbero prendersene carico con ricovero e cura in sostituzione dei vecchi manicomi giudiziari), finiscono in carcere o restano in liberta?. La soluzione sinora adottata per le carceri pare puntare solo sulla sicurezza, minacciando la repressione di qualsiasi protesta. Una decisione di poco respiro come il passato dimostra: suicidi, proteste e tentativi di evasione continueranno inevitabilmente. Anche le strade che sono state indicate come risolutive rischiano di rivelarsi pura propaganda. Rimandare nei loro paesi di origine i detenuti stranieri (circa il 30%) è impossibile senza accordi con questi Paesi, ben difficili da ottenere. Cos?? e? anche per il trasferimento dei detenuti tossicodipendenti (circa il 30%) in comunità di accoglienza a fronte del limitato numero di comunità e della loro capienza, già oggi in enormi difficolta?. L’eventuale trasformazione di caserme in nuove carceri richiederebbe radicali ristrutturazioni (con relativi costi) e produrrebbe probabilmente edifici inadeguati come spazi e strutture rieducative. Perché si dimentica che uno dei problemi delle carceri italiane non e? solo il sovraffollamento, ma la vetusta? e l’inadeguatezza di molte delle nostre carceri nate con altri fini (monasteri, castelli) o in altre epoche. Cos?? non solo molte nostre carceri non agevolano il controllo, costringendo la polizia penitenziaria ad un lavoro massacrante, ma sono del tutto prive di laboratori di formazione e di spazi per attività lavorative e sportive. Negando in tal modo ogni promessa di rieducazione. Occorrerebbe un intervento su due livelli: uno immediato da un lato che consenta la scarcerazione di chi è in carcere per reati minori o ha residui di pena modesti oltre che l’attuazione delle Rems, e dall’altro lato un progetto pluriennale con impegni (anche finanziari) e scadenze chiare. Sarebbe auspicabile una visione nuova e diversa che davvero limiti il ricorso al carcere allo strettissimo indispensabile, che punti su sanzioni alternative sempre inevitabilmente punitive, ma anche con un fine di reinserimento e utili per la società (lavori di pubblica utilità, sanzioni pecuniarie, confische), con un piano di edilizia penitenziaria che costruisca nuove carceri con strutture rieducative e di formazione abbandonando le attuali fatiscenti strutture e puntando sul lavoro carcerario. Forse un’illusione, ma la politica intesa come perseguimento del bene comune deve nutrirsi anche di illusioni e sogni. In fuga dalle carceri anche le guardie per la disumanità del sovraffollamento di Donatella Stasio La Stampa, 30 settembre 2024 Aumenta il numero di poliziotti che lasciano gli istituti di detenzione in condizioni inumane. Non è disimpegno, ma scarsa fiducia nel governo. “Se c’è qualcosa da spartire tra un prigioniero e il suo piantone, che non sia l’aria di quel cortile, voglio soltanto che sia prigione”, canta Fabrizio De André. Ed è la prigione peggiore degli ultimi anni quella che, oggi, stanno “spartendo” prigionieri e piantoni, per dirla con Faber. Segregazione, repressione, violenza, perdita della speranza e della dignità. Regina Coeli che brucia, il carcere con il primato dei suicidi, è l’immagine emblematica della sorte comune e tragica di carcerieri e carcerati, intrappolati in una polveriera pronta a esplodere per rabbia, paura, umiliazione, abbandono. Un carcere illegale, trasformato dal governo Meloni in un’arena di scontro tra “nemici”, i detenuti e i poliziotti. E se i primi, per uscire dall’invisibilità, si ammazzano, danno fuoco ai materassi, si tagliano, aggrediscono chiunque, disobbediscono agli ordini ed evadono, ecco che anche gli altri, i poliziotti, vittime del medesimo sistema, si suicidano, aggrediscono, picchiano, reprimono ciecamente. Ed “evadono”. Proprio così, fuggono da questo carcere senza speranza e dignità, da una politica che li mette gli uni contro gli altri e che, invece di inculcare la cultura costituzionale del rispetto, fomenta quella del nemico e della forza (che purtroppo spesso trasmoda in tortura) come arma per garantire ordine e sicurezza. Quanto si può sopravvivere in questa polveriera? A differenza dei detenuti - che non hanno scampo visto che il governo esibisce i muscoli per tenerli dentro anche in condizioni inumane e degradanti, accentuate dal sovraffollamento, e addirittura li punisce se protestano pacificamente - i poliziotti hanno una via di fuga (non a costo zero), perché possono chiedere di andarsene prima del previsto. E così fanno, sempre di più negli ultimi anni. Non è disimpegno ma demotivazione, frustrazione, perdita di fiducia in chi dovrebbe dotarli degli strumenti previsti dalla Costituzione, dalle Convenzioni internazionali, dalle leggi e dai regolamenti vigenti, e cioè organici adeguati, costante formazione professionale, ambiente di lavoro vivibile e rispettoso della dignità e dei diritti fondamentali di tutti, collaborazione con altre figure professionali, come interpreti e mediatori culturali, medici e psichiatri, affinché il loro lavoro non sia solo vigilanza e repressione. Niente di tutto questo. La dotazione dei circa 25mila poliziotti che lavorano dentro-dentro il carcere è fatta di tute mimetiche e antisommossa, di manganelli e reati contro i detenuti (come la “rivolta passiva”, previsto dal Ddl sicurezza, punito con la reclusione da 1 a 5 anni). Tutti simboli della repressione. A qualcuno piace, ad altri no e se ne vanno. Negli ultimi tre anni, più del doppio dei poliziotti andati in pensione ha abbandonato il campo di battaglia anticipatamente, persino entro il primo anno dall’ingresso in servizio. Si sussurra, coperti dall’anonimato, che addirittura il 25% dei neo assunti “scappa da quest’inferno e da questa guerra insensata” dopo 12 mesi di servizio. Difficile trovare un riscontro puntuale nei dati del Dap, che però confermano la progressiva fuga dal carcere. Nel 2021, sono andati via anticipatamente 966 poliziotti (rispetto ai 463 pensionati); 971 nel 2022; addirittura 1025 (di cui 917 agenti) nel 2023 e 763 fino a settembre di quest’anno. Il sistema carcere ha perso la bussola e non può ritrovarla con un governo privo di una vera mentalità costituzionale e con la continua crescita della popolazione carceraria (il tasso di sovraffollamento è del 130% con punte del 220%), perché il sovraffollamento (persino negli istituti minorili) impedisce qualunque seria offerta rieducativa e, al contrario, esaspera i conflitti. A fine settembre i detenuti erano 62mila per 46mila posti regolamentari. I condannati a pene brevi (fino a 5 anni) sono circa la metà di tutti i detenuti definitivi, ma aumenteranno con la politica del governo Meloni, che, lungi dall’affrontare i problemi sociali del Paese, quei problemi li scarica sul carcere, non a caso zeppo di malati mentali, di tossicodipendenti, di poveri e senzatetto, di migranti irregolari e - se sarà approvato l’ultimo capolavoro delle destre “garantiste” - anche di chi protesta pacificamente, a cominciare dai giovani, visto che il Ddl sicurezza criminalizza ufficialmente il dissenso, considerato un “pericolo per la sicurezza” e sbatte tutti in galera. In compenso, cancella i reati dei colletti bianchi. L’estate è stata scandita dai suicidi dei detenuti (72), dei poliziotti (7) e dall’implacabile sovraffollamento. Ad agosto, il governo ha illuso (ingannato?) l’opinione pubblica, e soprattutto i detenuti e i poliziotti, con il decreto legge “Carcere sicuro” che sembrava destinato a dare una boccata d’ossigeno alle patrie galere e che invece serviva solo a introdurre in corsa il reato di “peculato per distrazione”, senza il quale il presidente della Repubblica Sergio Mattarella non avrebbe potuto promulgare (per violazione degli obblighi internazionali) la legge di abrogazione dell’abuso d’ufficio. Nessuna misura per affrontare l’emergenza carcere. Svelato l’inganno, il ministro della Giustizia Carlo Nordio si è affrettato a preannunciare (in modo anche un po’ maldestro) altre misure urgenti sul carcere, giurando che le avrebbe presentate a settembre previo confronto con Mattarella. Bugie. Ad oggi, non risulta nulla. Anzi. Nella sua prima uscita pubblica via social, dopo le vacanze estive, la premier ha annunciato che la priorità del suo governo sarebbe stata “la sicurezza” identificata con l’immigrazione irregolare, giusto per consolidare l’idea del “nemico” che viene da fuori a insediare i nostri confini e le nostre libertà. E a razzo la Camera ha approvato il “Pacchetto sicurezza”, che è un oltraggio allo stato di diritto. Come in passato, è probabile che anche queste norme da stato di polizia (se diventeranno legge) verranno cancellate dalla Corte costituzionale, sempre che nel frattempo Meloni non se ne sia appropriata, mandando a palazzo della Consulta i suoi “soldatini” in sostituzione dei 4 giudici mancanti (uno da novembre 2023 e altri tre da dicembre 2024). Ma poiché sono misure che incidono sulla libertà personale e di espressione, occorrerà alzare subito un argine robusto, la Costituzione, e fermare la deriva illiberale in cui stiamo precipitando. Mettere al centro la Costituzione è l’unica strada per ridare ossigeno anche al carcere dei diritti. “Tutti evadono da questo carcere senza speranza”, dice Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa, uno dei sindacati della polizia penitenziaria. “Agenti, comandanti, direttori, capi dipartimento, alti dirigenti del Dap: tutti fuggono via - aggiunge -. L’ultimo caso è quello di Giancarlo Cirielli, capo della Direzione generale dei detenuti e del trattamento, che si è trasferito all’Ispettorato del ministero. È normale che a scappare siano i detenuti, lo è meno se a farlo sono i poliziotti, ma qualunque cosa è meglio dell’inferno delle prigioni italiane, dove ogni giorno va in scena il paradosso per cui lo Stato punisce chi viola la legge violando a sua volta la legge, calpestando i diritti delle persone e alimentando conflitti violenti”. Davvero il governo Meloni può chiamarsi fuori da questa responsabilità? Riascoltate De André, perché nella sua ballata c’è, alla fine, anche la risposta a questa domanda. La pena che può diventare di morte di Francesco P. Esposito* osservatoriosullalegalita.org, 30 settembre 2024 In Italia vige la pena di morte: è il carcere la sua sedia elettrica. Se sei ristretto e hai problemi di salute oltre alla condanna da espiare avrai la tortura di soffrire mentre sei malato e, spesso, morire d’incuria. Ma si può fare qualcosa? Secondo me sì e vediamolo in qualche punto. Partire dal concetto che anche la salute del detenuto degrada e che non sono tutti malati immaginari, questa è la base. - più libertà e autonomia al medico penitenziario che dovrebbe avere anche più potere per invii a strutture ospedaliere per esami primari di routine; - i farmaci devono essere prescritti con visita e dialogo confidenziale medico-paziente proprio come si fa fuori; - ci vuole un’assistenza di notte per le emergenze e un’apertura celere dei blindati in caso di malessere; - serve subito un’autombulanza del carcere per non rischiare che il detenuto arrivi morto in ospedale; - l’infermeria del carcere dovrebbe avere tutto! Dai medicinali ad attrezzature idonee per fare schermografie, tac, analisi e molto altro; - i detenuti devono aver accesso a visite specialistiche prenotabili dopo il vaglio del medico della struttura ma senza troppe burocrazie e proprio come si fa fuori; - visite mediche più frequenti e dirette secondo un calendario di salute pubblica del detenuto, stessa cosa per l’accesso al dentista; - ricordare che la salute del corpo passa anche dai denti e che un dentista per 700 detenuti è una tortura, un omicidio; - l’introduzione di integratori, vitamine e ricostituenti per sostenere il detenuto nei periodi di grande caldo o molto freddo; - accorciare i tempi di attesa, spesso le visite non si possono fare perché non c’è personale penitenziario sufficiente e questo aggrava la maggior parte delle patologie; - diete differenziate in base alle patologie e assistenza psicologica; - alzare il livello igienico delle celle e degli spazi comuni con prodotti di qualità, disinfettanti e apertura ai controlli dei NAS. Potrei continuare ma per oggi basta così, sarebbe già meraviglioso che uno solo dei punti sopra elencati diventasse realtà. *Criminologo forense, componente del Comitato Tecnico-Giuridico dell’Osservatorio sulla Legalità e sui Diritti La repressione è servita di Carlotta Caciagli* unimondo.org, 30 settembre 2024 Il Ddl 1660 è un giro di vite su comportamenti individuali e collettivi nello spazio pubblico, condizioni imposte ai detenuti nelle carceri, restrizioni per i migranti e l’operatività delle forze dell’ordine. Che per il governo Meloni la priorità non fosse la sicurezza sociale era già chiaro senza dover attendere l’ultimo provvedimento. Ma che ben 162 deputati avrebbero tentato di trasformare in legge il vecchio mantra “olio di ricino e manganello”, questo no. Il Ddl sicurezza è una stretta repressiva certo, ma non solo. Non ci sono frasi o figure retoriche che siano in grado di restituire anche parzialmente l’assurda pericolosità, la tracotanza e al tempo stesso la cialtroneria di questa classe dirigente. Sì, perché le responsabilità di questo atto oltraggioso rispetto alle urgenze e i bisogni della collettività e del pianeta non sono solo del governo ma anche di tutti quei politici e amministratori che, dal locale al nazionale, hanno fatto in tempi non sospetti da apripista: dai Marco Minniti e Maurizio Lupi fino all’ultimo dei sindaci che ha applicato il daspo urbano. Chiunque adesso si stracci le vesti, ma abbia sostenuto anche uno solo dei decreti degli ultimi 15 anni è corresponsabile di quello che il nuovo Ddl renderà possibile. Ma cosa, in particolare, renderà possibile? In che modo si è potuto peggiorare ulteriormente un quadro nel quale ogni questione di disuguaglianza di classe e povertà era già trattata come mero problema di ordine pubblico? Le misure già in vigore erano inadeguate e, sotto molti aspetti, anticostituzionali, tanto che sembrava difficile immaginare peggioramenti. Ma il governo italiano, maestro nel distinguersi in negativo, ci è riuscito. Come? Per lo più modificando ad hoc e in modo un po’ posticcio il codice di procedura penale. Chapeau. Senza entrare nel dettaglio dei singoli articoli (sarebbe dispersivo, dato che il disegno di legge tiene insieme regole per l’uso di strumenti pirotecnici con l’attività lavorativa dei detenuti, con le disposizioni per le vittime dell’usura) proviamo a vedere quali sono gli zoccoli duri di questa ingegneria legislativa. Il Ddl interviene principalmente in quattro ambiti: la gestione dei comportamenti individuali e collettivi nello spazio pubblico e urbano; le condizioni imposte ai detenuti nelle carceri; le restrizioni per i migranti; e l’operatività delle forze dell’ordine. In ciascuno di questi ambiti, ogni misura si traduce in una significativa limitazione dei diritti sociali e umani, accompagnata da un’ulteriore svendita di tali diritti a soggetti privati, che, come il prezzemolo, sta bene un po’ ovunque. Vediamo più nel dettaglio. Per quanto riguarda lo spazio pubblico e urbano si mettono a punto correttivi, anche se minimi, che stigmatizzano come criminale, come se non lo si fosse sempre fatto abbastanza, azioni come quella “dell’occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui” prevedendo una pena da due a sette anni per chi occupi case o annessi (garage, giardini, terrazzi). Non ci sono attenuanti nel decreto per le motivazioni dell’occupante, ma solo aggravanti in base al profilo di colui a cui viene occupato l’immobile. Un correttivo certo non migliorativo, ma su questo il fu ministro Maurizio Lupi e il suo Piano Casa aveva già giocato delle belle carte. Più degna di nota è l’introduzione della norma soprannominata “anti-Gandhi”, volta a punire con la reclusione chiunque blocchi una strada o una ferrovia: se si è in tanti - cioè se si sta organizzando una protesta politica - le pene sono aumentate. Se durante la protesta ci sono lesioni (di qualunque natura, anche morali) ai pubblici ufficiali, la pena aumenta, così come aumenta se “la violenza o la minaccia è commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica” (art.19, modifica all’articolo 339 del codice di procedura penale). Strategica come il Ponte sullo stretto, come la Tav Torino Lione e come tutti gli inceneritori, gassificatori e basi militari che si cerca puntualmente di calare sui territori. Si modifica il codice penale anche per punire di più chi commette reati nei pressi delle stazioni ferroviarie (che d’altronde, si sa, peccano in decoro). Sul carcere invece si interviene in due modi degni di nota. In primis, si cerca di normare le rivolte nei penitenziari - identificate come atti di violenza o minaccia o resistenza agli ordini impartiti - introducendo il reato di resistenza passiva (introduzione art 415bis), ovvero “condotte […] che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. Chi diceva che il Covid ci avrebbe reso migliori forse sbagliava. Perché quelle rivolte di fame e dignità non ci hanno lasciato nulla se è, per loro, storicamente e culturalmente possibile proporre questo articolo nelle istituzioni democratiche. In secondo luogo, si mette mano all’organizzazione del lavoro dei detenuti dicendo, per decreto, che le iniziative di promozione del lavoro devono coinvolgere sempre di più e meglio le imprese private. Finanziamenti pubblici alle aziende, insomma. In carcere si può pure morire (e si fa) di mancanza di prospettive e alternative, ma se lo si fa con una co-progettazione pubblico-privato è senz’altro meglio. Il reato di resistenza passiva si applica anche ai migranti nei Cpr, così come l’innalzamento delle pene per atti di violenza, minaccia o resistenza attiva. Ma è forse sui diritti dei migranti fuori e dentro le strutture di accoglienza che quello che non sembrava possibile diventa di colpo realtà. L’articolo 32 introduce delle modifiche al codice delle comunicazioni elettroniche secondo le quali, le imprese di vendita di schede mobili (ovvero i punti vendita Tim, Wind, Vodafone) “Se il cliente è cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea”“sono tenute ad acquisire “copia del titolo di soggiorno di cui è in possesso”. Nel mondo digitale, nel quale la ricerca di lavoro, l’iscrizione dei figli a scuola, l’accesso al welfare avviene tramite dispositivi elettronici, si annuncia di voler contrastare la marginalità aggiungendone un’altra. Limitazioni di diritti per tutte e tutti, ma non per le forze dell’ordine. Oltre a consentire a poliziotti e carabinieri di poter portare l’arma d’ordinanza anche fuori servizio, si introduce la possibilità, senza vincoli di sorta, per il personale di polizia, anche ferroviaria, di dotarsi di “dispositivi di videosorveglianza indossabili, idonei a registrare l’attività operativa e il suo svolgimento”. Dispositivi da potersi usare anche nei luoghi - qualsiasi luogo - dove siano trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale. Possibilità, ça va sans dire, che non si applica alle persone in stato di fermo. Niente da fare invece per l’introduzione di numeri identificativi sulle divise degli agenti. Queste dotazioni, anche se non obbligatorie, sono attuabili grazie a un’autorizzazione di spesa per il 2024, 2025 e 2026. Per il lavoro in carcere si chiede l’ingresso più consistente possibile delle imprese, ma per le “body-cam” degli agenti della Polfer no: per quelli pagano i contribuenti. Accanto a questi molti altri articoli: limitazioni sulla coltivazione della cannabis light, antiracket, benefici per vittime della criminalità organizzata. Tutti articoli animati dallo stesso principio repressivo e anti-sociale di cui questo governo ha già dato prova. Non solo si cerca - come si è fatto in passato - di rispondere a questioni sociali con misure di ordine pubblico, ma ci si pone in netto contrasto rispetto ad alcuni fra i più basilari diritti umani. Di fronte a un attacco così massiccio e trasversale non sarà sufficiente che siano i militanti politici a farsi sentire e non basterà indignarsi e gridare alle “misure fasciste”. Non basterà dirsi contro. È necessario muoversi come associazioni di categoria, sindacati, partiti. Perché questo insulto all’umana intelligenza che il Ddl rappresenta per alcuni potrà essere un esercizio manieristico, ma per molti sarà un sostanziale peggioramento delle proprie condizioni di vita. *Assegnista di ricerca al Dastu, Politecnico di Milano. Si occupa di movimenti urbani nel capitalismo digitale. È autrice del manuale Movimenti urbani. Teorie e problemi (Mondadori, 2021). “Il ddl sicurezza mina lo stato di rischio”. La lezione dell’Osce al governo Meloni di Lorenzo Stasi Il Domani, 30 settembre 2024 L’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), boccia il disegno di legge sulla sicurezza presentato e voluto fortemente dal governo Meloni. L’Osce è perentoria: la maggior parte dei 38 articoli del ddl numero 1660 andrebbe a “minare i princìpi fondamentali del diritto penale e dello Stato di diritto”, è scritto nel documento integrale letto da Domani. “Nel complesso - continua - il disegno di legge evidenzia diverse criticità che potrebbero ostacolare l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. La più grande organizzazione sovranazionale di sicurezza al mondo, che ha tra i suoi scopi costitutivi il rafforzamento delle istituzioni democratiche dei 57 Paesi aderenti e il rispetto dei diritti umani, lancia l’ennesimo campanello di allarme a un governo che finora non ha voluto ascoltare le critiche. Alla luce degli standard internazionali e dei suoi impegni in tema di diritti umani, nel suo Parere non vincolante l’Osce chiede al governo italiano che molte delle disposizioni vengano “riconsiderate interamente o modificate in modo sostanziale”. E lo fa mettendo sotto una lente analitica la maggior parte delle previsioni contenute nel testo, che introducono una trentina tra nuovi reati, ampliamenti di pena e aggravanti. L’Osce chiede, per esempio, di “riconsiderare l’inasprimento delle sanzioni e la criminalizzazione di comportamenti di natura pacifica che arrecano disturbo o intralcio alla circolazione stradale” e chiede che, in questi casi, “non sia prevista la pena della reclusione”. Il governo mira infatti a trasformare in illecito penale il blocco stradale, laddove prima aveva solo valenza amministrativa (se commesso con il proprio corpo) e una multa fino a 4mila euro, e prevede il carcere da sei mesi a due anni se commesso insieme ad altre persone. Da molti ribattezzata “norma anti ecoattivisti”, in realtà andrebbe a impattare anche e fortemente sul diritto di sciopero. Anche le norme che rendono facoltativo, per le donne incinte o con figli di età inferiore a un anno, il rinvio obbligatorio di una pena detentiva sono da “riconsiderare completamente”. O per lo meno, continua l’Osce, vanno specificate “le ragioni, al di là della gravità o della natura violenta del reato, da prendere in considerazione, tra cui l’interesse prevalente del bambino”. Il ddl Sicurezza entra anche dentro gli istituti penitenziari prevedendo il nuovo reato di “rivolta in carcere”, che insieme ad altri previsti dal testo si aggiunge alle oltre 5mila fattispecie penali già presenti nel nostro ordinamento. Non solo, perché tra gli “atti di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti” rientrano anche i comportamenti di resistenza passiva. Anche lo sciopero della fame o altre forme di proteste pacifiche all’interno degli istituti penitenziari? Anche questa previsione, per l’Osce, è “particolarmente problematica” e “può essere considerata sproporzionata, soprattutto se utilizzata come mezzo per punire l’espressione pacifica del dissenso”. Insomma, per l’Osce, con l’obiettivo di dissuadere potenziali trasgressori dal commettere futuri reati, c’è il rischio di calpestare diritti fondamentali, come “il divieto di maltrattamento e i diritti alla libertà e alla sicurezza della persona, le libertà di riunione pacifica, di espressione e di movimento, nonché i diritti a un processo equo e al rispetto della vita privata e familiare”. Decreto sicurezza: emergenze fasulle create nelle trasmissioni tv in prima serata di Valentina Alberta* Il Riformista, 30 settembre 2024 Il ddl sicurezza è stato approvato alla Camera. Ed è un provvedimento che per genesi e sviluppo, e soprattutto per contenuto, deve preoccupare tutti rispetto alla salvaguardia dei diritti di libertà delle persone in uno stato democratico moderno. Il punto di partenza è la creazione di emergenze fasulle attraverso la narrazione in trasmissioni di prima serata di situazioni senza dubbio sgradevoli, ma certo non numericamente idonee a costituire motivo di allarme sociale, le cui vittime vengono aizzate e strumentalizzate. Ddl sicurezza e le emergenze fasulle narrate in prima serata - Le “borseggiatrici”, gli “occupanti abusivi”, le “carceri fuori controllo”. Tutto diviene emergenza purché come tale passi in prima serata; contro ogni dato statistico e scientifico, la politica, sulla spinta delle paure ingenerate, agisce. In qualche caso, addirittura con anticipazioni da parte di alcune solerti Procure. A Milano, uno dei primi provvedimenti del nuovo Procuratore fu la revoca di una circolare che evitava un inutile passaggio in carcere (inutile almeno fino a che ci sarà quell’istituto del codice Rocco che viene ora messo in discussione e che faceva prevalere l’interesse del minore - non della madre - su quello punitivo dello Stato e disponeva il differimento obbligatorio della pena) per le donne incinte o madri di prole di età inferiore all’anno. Che ora, con il ddl sicurezza, finiranno dritte in ICAM, che ha i muri colorati ma resta un carcere, peraltro spesso lontano centinaia di chilometri dagli affetti famigliari delle mamme (ve ne sono solo 4 in tutta Italia). Il diritto dell’infante, dunque, da preminente in termini assoluti (tanto che la Corte costituzionale 260/09 aveva sottolineato come l’eventuale sfruttamento dello stato di gravidanza per commettere reati vada fronteggiato con i rimedi civilistici sulla potestà genitoriale e non certo con il carcere) diventa recessivo rispetto alla prevenzione del crimine. L’aggravante delle stazioni, la criminalizzazione della cannabis light senza basi scientifiche - Secondo punto: individuati i fenomeni, essi vanno puniti in modo implacabile. Poco importa se con ottime probabilità di future dichiarazioni di incostituzionalità. Una fantasia sorprendente: l’aggravante delle stazioni ferroviarie o metropolitane, l’estensione a dismisura delle ipotesi di reato legate all’accattonaggio, la criminalizzazione della cannabis light senza alcuna base scientifica, persino il divieto di vendere sim agli extracomunitari non in grado di esibire un documento di soggiorno. Nuovi reati, anticipazione della soglia di punibilità in quell’area grigia che rasenta quella del reato di opinione, pene esemplari, divieti di bilanciamento di aggravanti. Il tutto con il chiaro fine di coltivare la narrazione di “Gotham City” e soprattutto dell’emarginazione del diverso, di volta in volta straniero, psichiatrico, tossico, ragazzo sbandato. Purché il bersaglio finisca per colpire il disagio sociale e stipare le carceri. E in carcere ci si deve restare il più a lungo possibile; e allora si alimenta in ogni modo la tensione negli istituti penitenziari con provvedimenti vari (circolare sulle celle chiuse, corpi speciali ad hoc per le rivolte, enfatizzazione di eventi critici e atti di aggressione). Divieto di protesta - Altro aspetto rilevante: molte delle norme approvate mirano alla repressione di qualsiasi manifestazione di protesta. Si criminalizzano in modo specifico e con pene pesanti reati quali i danneggiamenti nel corso di manifestazioni, si introducono divieti di accesso in luoghi ove vi siano infrastrutture, da rispettare pena revoca sospensione condizionale nel caso di condanne per reati ivi commessi; viene aggravato il blocco stradale con uso del corpo; ancora, vengono approvate norme a tutela delle forze di polizia, con aumenti di pena, divieti di bilanciamento, tutela legale; il reato di imbrattamento diviene gravissimo, vengono persino ritoccate le norme a tutela degli agenti della polizia locale rispetto ad attività di verifica sulla strada. Ed infine, la rivolta in carcere con il nuovo articolo 415bis c.p. (esteso ai CPR), che incrimina il concorso nel reato anche mediante resistenza passiva rispetto all’esecuzione di un ordine. Con il che, anche in carcere, chiunque voglia protestare in modo pacifico non lo può fare. Occorre fermare questo scempio. *Avvocato penalista Inasprire le pene non disincentiva i reati. È pura propaganda di Enrico Magni* merateonline.it, 30 settembre 2024 Il disegno di legge “sicurezza”, approvato alla Camera dei Deputati il 18 settembre, introduce una trentina di nuovi reati: aggravanti, sanzioni e ampliamento di pena. C’è da mettersi le mani nei capelli. Al posto di scrivere un nuovo Codice Penale si usa il vecchio sgangherato codice Rocco del 1930 integrandolo e deformandolo. Siamo nel 2024, sono passati più di cent’anni e la patria di Cesare Beccaria è incapace di produrre un testo innovativo in grado di rispondere alla situazione attuale. Il disegno di legge “sicurezza” è tutto all’infuori di un disegno di legge riguardante la sicurezza sociale, ambientale, personale. È un testo che propone soltanto l’inasprimento di pene penali quando le carceri sono sovraffollate da una folla di disagiati. Le carceri attuali non rispondono al principio rieducativo (Legge Gozzini 1986), ma a quello custodialistico e repressivo. La legge “sicurezza” prevalentemente si occupa di reprimere dei disagi sociali con norme in parte già presenti nel Codice penale. La legge “sicurezza” propone che chi occupa arbitrariamente immobili altrui rischia il carcere da due ai sette anni -esiste già l’art. 633 e l’art.634 - così pure chi cede un immobile occupato; non è punito chi collabora con le forze dell’ordine e lascia l’immobile. In merito alla truffa aggravata - alle diciannove già presenti (art. 61) - si aggiunge quella commessa all’interno della stazione ferroviaria o metropolitana, o nelle loro vicinanze, o dentro un vagone di un treno o della metropolitana. La pena è aumentata per un terzo di quella già prevista (i senzatetto sono a rischio). È ampliato il reato di danneggiamento (art.635) con una multa fino a 15 mila euro e con la reclusione da un anno e sei mesi e a cinque anni chi distrugge o rovina cose mobili o immobili durante le manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico (la generazione z ecologista è avvisata). Per il reato di deturpamento e imbrattamento di cose altrui (art.639) il disegno di legge “sicurezza” propone la reclusione a un anno e sei mesi con una multa da mille a tre mila euro (avviso ai naviganti con la bomboletta spray.) È punito con un mese di carcere e una multa di 300 euro chi impedisce la circolazione su strada ordinaria, l’aggravante prevede da sei mesi a due anni se il blocco è commesso con altre persone (i lavoratori che manifestano sono a rischio). Per quanto riguarda la pena per una donna incinta l’art.146 c.p. prevede il rinvio dell’esecuzione della pena; l’attuale proposta la vuole eliminare rendendola facoltativa (le donne non devono far figli). Per l’accattonaggio - uso di un minore di 14 anni - adesso la pena è di tre anni di carcere; con la legge “sicurezza” l’età del minore si alza a 16 anni e la pena è da uno a cinque anni. In caso di recidiva aumenta la pena da sei mesi a tre anni con una multa fino a dodicimila euro. (massima integrazione del disagio). La legge “sicurezza” vuole emendare la legge del 2016 riguardante la cannabis light con una bassa percentuale di tetraidrocannabinolo (THC) perché è una droga; vuole bloccare la coltivazione e l’attività commerciale. (La canna fa male sempre anche se è solo fumo inerte). Per quanto riguarda il Daspo urbano si dà ai questori il potere di disporre il divieto di accesso anche senza una sentenza definitiva (il questore sostituisce il sindaco). È ampliata la possibilità all’arresto in flagranza (art.583) entro 48 ore nei confronti di chi ha aggredito un pubblico ufficiale durante manifestazioni sportive, o nei confronti di un medico o di un infermiere. È aumentata di un terzo la pena (art.336) da sei a cinque anni per chi minaccia un pubblico ufficiale (già presente art.337). Con la legge “sicurezza” le lesioni considerate semplici sono punite da quattro a cinque anni di reclusione Il reato di truffa (art.640) è punito con il carcere da due a sei anni e con una multa da 700 a 3 mila euro. Inoltre, le forze dell’ordine hanno l’obbligo di arrestare chi commette questo reato nel momento in cui lo commette. Le pene per chi istiga (art. 415) in carcere alla disobbedienza delle leggi, all’odio fra le classi sociali è punito con il carcere da sei mesi a cinque anni; con la legge “sicurezza” le pene sono aumentate anche fino a vent’anni per chi partecipa a rivolte, minacce attive e passive. Il disegno di legge “sicurezza” punisce con il carcere da uno a sei anni, chiunque, insieme con almeno tre persone, organizzi o partecipi a una manifestazione in un centro di accoglienza. (immigrati). Il disegno di legge “sicurezza” obbliga i negozianti che vendono le schede telefoniche SIM a chiedere una copia del permesso di soggiorno ai clienti non appartenenti all’Unione europea; il commerciante che non rispetta questa norma rischia di chiudere il negozio per un periodo da cinque a trenta giorni. (induzione al controllo sociale…). I capitani delle navi straniere o italiane se non obbediscono all’intimidazione del fermo della GF possono essere puniti con il carcere fino a due anni - già in vigore - (le ONG sono a rischio.) Chi detiene materiale con finalità di terrorismo, esplosivi, armi da fuoco o sostanze chimiche e batteriologiche è punito con il carcere da due a sei anni. Chi fabbrica o detiene materiale esplosivo - già esistente - rischia da sei a quattro anni, così pure chi pubblicizza istruzioni per preparare esplosivi Per quanto riguarda il Codice della strada gli autisti che non mostrano il documento d’identità o la patente rischiano una multa da cento a quattrocento euro e altre sanzioni pecuniarie. La legge “sicurezza” vuole far credere che con l’inasprimento delle pene si disincentivino i reati: è solo pura propaganda. Si pone al centro di questa logica il Nomos. Ma il Nomos non tiene conto della complessità della realtà. Non basta una norma repressiva o preventiva per governare la complessità di una società. *Psicologo e giornalista L’assoluzione penale non esclude il risarcimento di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2024 Un ente pubblico, proprietario di un’area aperta alla collettività, è responsabile oggettivamente per i danni causati ai terzi dall’omessa manutenzione di un bene soggetto al proprio dominio. Ed è irrilevante, ai fini della responsabilità dell’ente, la colpa dei dipendenti: la responsabilità, essendo oggettiva, prescinde dalle condotte dei singoli. Tanto che è possibile l’assoluzione dei dipendenti nel giudizio penale e la condanna dell’ente a risarcire il danno in quello civile. È quanto è accaduto nel giudizio deciso dalla Cassazione con la sentenza 25200 del 19 settembre scorso. Il procedimento è scaturito da una vicenda molto grave, che aveva riguardato un giovane morto folgorato a causa di un lampione della rete pubblica che presentava dei fili scoperti. Il ragazzo stava giocando a pallone in un’area pubblica vicino alla scuola e si era appoggiato al lampione per recuperare il pallone finito fuori dalla recinzione. I giudizi penali avviati dopo la morte del ragazzo si erano conclusi con l’assoluzione del responsabile dell’ufficio tecnico del Comune e la condanna per omicidio colposo del titolare della ditta che aveva svolto le opere di manutenzione dell’area interessata dall’incidente. Sul fronte civilistico, invece, la Corte d’appello aveva condannato il Comune al risarcimento del danno ai parenti della vittima per il danno morale da privazione del rapporto parentale. Il Comune ha quindi presentato ricorso in Cassazione facendo valere, tra l’altro, proprio l’assoluzione nel procedimento penale. Processo penale e civile I giudici di legittimità ribadiscono che “la colpa dei dipendenti del Comune è completamente irrilevante ai fini del titolo di responsabilità di quest’ultimo, la quale è pressoché oggettiva e prescinde dalle condotte negligenti di chicchessia”. Del resto, rileva la Corte, in materia di rapporti tra giudizio penale e civile, l’assoluzione dell’imputato non preclude la possibilità di pervenire, nel giudizio di risarcimento danni a carico dello stesso soggetto, alla sua condanna “considerato il diverso atteggiarsi (...) sia dell’elemento della colpa che delle modalità di accertamento del nesso di causalità materiale”. Mentre infatti nel giudizio penale (nel caso affrontato dalla Cassazione, svolto a carico del responsabile dell’ufficio tecnico del Comune) la condotta deve essere sempre valutata sul piano causale quale idonea “oltre il ragionevole dubbio” a determinare l’evento-reato, nel giudizio civile il Comune, per effetto dell’articolo del Codice civile, è responsabile oggettivamente del danno provocato dal bene in custodia, salvo che provi il caso fortuito oppure che il danno sia stato causato da altro soggetto estraneo alla sua sfera di governo. Ciò anche quando, come nel caso esaminato, lo stato di pericolosità del bene era stato determinato da un negligente intervento della ditta alla quale l’ente pubblico aveva appaltato i lavori di manutenzione, posto che, una volta cessati i lavori affidati a terzi, il Comune torna a essere custode e responsabile del bene, avendo sempre l’onere di verificare la non pericolosità intrinseca del manufatto di proprietà. Parenti risarciti La sentenza amplia anche il raggio dei congiunti della persona deceduta per fatto illecito altrui che possono chiedere il danno morale per la perdita del rapporto parentale. In particolare, il Comune aveva contestato il risarcimento riconosciuto dalla Corte d’appello al nonno della vittima. L’ente infatti faceva notare che i due non erano conviventi e che non doveva essere riconosciuto alcunché a un membro non appartenente al nucleo familiare primario. Ma la Cassazione disattende la censura sollevata, rammentando che il legame parentale fra nonno e nipote consente di presumere sempre che il secondo subisca un pregiudizio non patrimoniale per la morte del giovane congiunto. Ciò anche quando non esista un rapporto di convivenza, che non costituisce un criterio per la sussistenza del danno ma solo, semmai, un elemento per valutare l’entità del danno risarcibile. Treviso. “In carcere condizioni disumane e degradanti”. Esposto contro il ministro Nordio di Nicola Cendron trevisotoday.it, 30 settembre 2024 Letti a castello a tre piani (con il rischio concreto di cadere e farsi molto male), fino a undici detenuti per ogni cella, con un solo bagno alla turca. Doveva essere una visita per constatare la precaria situazione del carcere di Treviso ma si è trasformato in una sorta di viaggio negli inferi. Venerdì scorso una delegazione di Più Europa e “Nessuno tocchi Caino”, guidata da Rita Bernardini, è entrata nella casa circondariale di Santa Bona: insieme a lei i consiglieri regionali Arturo Lorenzoni, Elena Ostanel (Veneto che vogliamo), Renzo Masolo (Europa Verde) e le consigliere comunali dem Maria Tocchetto e Carlotta Bazza. Alla luce di quanto constatato a Treviso “Nessuno tocchi Caino” presenterà nei confronti del ministro della giustizia, Carlo Nordio, un esposto per denunciare la scarsità di risorse e personale (anche se non mancano nella struttura trevigiana delle storture), oltre ad un sovraffollamento che ha raggiunto ormai livelli insopportabili. Rita Bernardini è intervenuta così venerdì scorsi a Trevisotoday. Bernardini, che situazione ha trovato nel carcere di Santa Bona? Siamo stati nella casa circondariale che oggi ospita 233 detenuti in 138 posti, quindi con un sovraffollamento del 168%, sovraffollamento che ci è apparso ancora più forte visitando sia le sezioni del circondariale, sia le sezioni della reclusione, perché sostanzialmente i detenuti sono tutti di media sicurezza, divisi in due parti, circondariale e reclusione. Devo dire che fondamentalmente troviamo le stesse tipologie sia da una parte che dall’altra, perché teoricamente al circondariale non dovrebbero esserci definitivi, invece li abbiamo trovati, così come nella casa di reclusione abbiamo trovato diversi detenuti in attesa di giudizio. Insomma diciamo che sono un po’ mischiati proprio perché per ragioni di spazio è difficile dividerli. Il sovraffollamento si fa molto sentire e determina condizioni che noi riteniamo e abbiamo valutato disumane, degradanti proprio per lo stato dei luoghi che abbiamo trovato fatiscenti, sporchi, con i detenuti che devono stare in letti a castello a tre piani. Tra l’altro diversi di loro sono caduti, facendosi anche molto male. Nel contesto italiano come si colloca la struttura di Treviso? Si considera che il sovraffollamento medio è del 131%, qui siamo al 168% quindi siamo ben al di sopra della media italiana. Questo si ripercuote anche sul fatto che il personale è veramente scarso rispetto al numero degli detenuti. Attualmente gli educatori per esempio dovrebbero essere tre, ma non tutti sono nella piena funzione lavorativa, tranne la capoarea che è veramente molto brava. Teoricamente significa che ogni educatore, funzionario giuridico pedagogico, come si chiamano adesso, dovrebbe seguire più di 100 detenuti, considerando che non lavorano tutti a tempo completo. Questo significa difficoltà per accedere alle misure alternative, perché le relazioni di sintesi che sono necessarie per poter far accedere i detenuti alle misure alternative spesso non vengono chiuse. Noi sappiamo che le misure alternative sono fondamentali per far abbassare la recidiva, che per chi sconta la pena in carcere è molto alta, cioè chi finisce di scontare la pena in carcere ha una recidiva altissima. Certamente interpellerete il ministro Nordio, peraltro trevigiano. In che modo? È ben al corrente della situazione anche perché abbiamo presentato nei suoi confronti un’esposta denuncia che richiama questo tema del sovraffollamento, che va rapportato non solo alle condizioni materiali di detenzione ma anche al personale che è molto scarso, soprattutto se pensiamo alla polizia penitenziaria, agli educatori, agli psicologi e agli assistenti sociali che ormai raramente fanno il loro ingresso in carcere, invece dovrebbero essere un punto di raccordo fondamentale per il ritorno in società di queste persone. I magistrati di sorveglianza sono troppo pochi, però ci sono dei compiti affidati ai magistrati di sorveglianza dalla legge che non vengono mai portati avanti. Il magistrato di sorveglianza è vero che va in carcere ma da quello che ci hanno raccontato un po’ tutti non visitano mai le stanze detentive. Io penso che non lo facciano perché dovrebbero denunciare l’amministrazione penitenziaria, però fatto sta che da quello che so se il detenuto presenta la domanda risarcitoria in base all’articolo 35 ter dell’ordinamento penitenziario, poi alla fine gli danno questi rimedi risarcitori che consistono in un giorno di sconto di pena ogni 10 vissuti in quelle condizioni. Qual’è la situazione dal punto di vista sanitario? C’erano anche dei casi di Covid, che però venivano gestiti in sezione, quindi in una condizione di promiscuità molto elevata. Non è più virulento come lo era in passato, però dobbiamo tenere presente che il carcere soprattutto quando è così fatiscente e l’igiene non può essere assicurata è un moltiplicatore di virus, quindi bisogna stare molto attenti. Un altro dato sicuramente non positivo, anche se ci sono all’interno del carcere di Treviso delle lavorazioni esterne e cooperative, quindi per lavori qualificanti, facendo il totale di tutte le persone che lavorano, compresi quelle che fanno lavori di poche ore al giorno e saltuariamente sono in tutto il 23% della popolazione detenuta, quindi un numero molto basso. La scuola anche presenta dei problemi di spazio: ci facevano presente alla casa circondariale che la sala usata per le lezioni scolastiche - ma stiamo parlando solamente di scuola media, perché al massimo c’è il biennio delle superiori - sono le stesse dove dovrebbero fare la socialità, quindi c’è una mancanza di spazi per le attività trattamentali che si fa molto sentire. Napoli. “Un Chicco di Speranza”: il caffè come nuovo progetto di vita per i detenuti di Stefania Blasioli Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2024 Lo scorso 16 settembre, dopo mesi di incontri, studi, confronti e approfondimenti tra Giulia Russo, direttrice della Casa Circondariale “P. Mandato” di Secondigliano, e Mario Rubino, presidente di Kimbo S.p.A., si è giunti alla firma, nella sala conferenza del Carcere, del protocollo d’intesa del progetto “Un Chicco di Speranza”, siglato anche da monsignor Domenico Battaglia per la Diocesi di Napoli, e da Patrizia Mirra, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, parti attive e fondamentali per l’attuazione e lo sviluppo del progetto. Il progetto è partito dall’Ufficio per la pastorale sociale e del lavoro dell’Arcidiocesi di Napoli che si è adoperato a sensibilizzare la Kimbo affinché proponesse, in favore dei detenuti del Carcere di Secondigliano, un progetto di formazione e di avviamento al lavoro “reale e costruttivo”. Il protocollo impegna le parti al raggiungimento di tre obiettivi diversi. Il primo obiettivo è il Corso per Barista Professionista che dieci detenuti già individuati seguiranno nei mesi di ottobre e novembre 2024 negli spazi del Kimbo Training Center di Scampia, un’attività di training funzionale che rappresenta una concreta opportunità di reinserimento sociale e lavorativo. Il secondo obiettivo prevede un corso di formazione specializzata per manutentori di macchine da bar e l’allestimento, all’interno dell’istituto, di un magazzino ricambi per le macchine di proprietà della Kimbo da riparare o rigenerare, nonché, per i detenuti in semi-libertà, la possibilità di prelievo e riconsegna presso i punti vendita bar del circuito Kimbo. Il terzo obiettivo, ancora oggetto di studi e approfondimento scientifico, sfruttando le potenzialità organolettiche di un appezzamento di terreno, dell’estensione di 10.000 mq, ubicato nel perimetro dell’istituto penitenziario e non ancora utilizzato, prevede il coinvolgimento della Facoltà di Agraria della “Federico II” per la strutturazione e la successiva coltivazione di una piccola piantagione di caffè, da inquadrare in un percorso di sostenibilità e qualità. “L’educazione alla cittadinanza è da intendersi come una attività che mira ad aiutare le persone in esecuzione penale a diventare cittadini attivi, informati, responsabili e capaci di assumersi responsabilità per loro stessi e per le loro comunità, una volta reinseriti nella società”, ha dichiarato Giulia Russo a margine della visita al Kimbo Training Center alla quale hanno potuto partecipare anche i 10 detenuti selezionati per le prime attività del progetto. “Abbiamo ricevuto tanto dalla città di Napoli, in 60 e più di attività, ed oggi siamo e restiamo in questa area della città per manifestare la nostra gratitudine - ha affermato Mario Rubino - “Se oggi Kimbo è il caffè di Napoli distribuito in 100 paesi del mondo lo dobbiamo anche alle nostre radici. Siamo nati nel Rione Sanità nel 1963 e i fondatori della nostra azienda, Elio, Francesco e Gerardo Rubino, hanno scelto Melito di Napoli come area per impiantare lo stabilimento industriale credendo e investendo sul territorio. Con la sensibilità acquisita nell’esperienza di trent’anni di medico del Pronto Soccorso del più grande ospedale del Sud Italia, sento il dovere, condiviso con tutta la mia famiglia, di restituire, nel nostro piccolo, a chi tanto ci ha dato. Spero tanto di non essere l’unico ad avere questo senso di gratitudine e di attenzione verso i meno fortunati tra noi, e di riuscire a coinvolgere presto altri imprenditori nella mia visione di benessere e di sostenibilità sociale”. “L’idea dell’amministrazione penitenziaria moderna è quella di puntare verso una esecuzione della pena che non sia un fenomeno soltanto segregativo - ha spiegato in collegamento da Roma Giovanni Russo, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia - Il nostro concetto di umanizzazione della pena passa proprio per una revisione del significato stesso delle modalità attraverso le quali noi intendiamo affrontare il detenuto e le sue attività. E l’iniziativa che Kimbo, Diocesi di Napoli e Casa Circondariale di Secondigliano hanno siglato è un esempio virtuoso, lo strumento attraverso il quale agenzie sociali così importanti come la chiesa e un’impresa affermata desiderano in qualche modo partecipare all’operazione di rieducazione che non può spettare soltanto solo all’amministrazione penitenziaria e non può essere confinata alle sue sole forze”. “Questo progetto non è un atto di pietismo - ha concluso monsignor Battaglia - non è una solidarietà vuota, piuttosto è un senso di giustizia. Perché il diritto da solo non basta. Quello che ci salva, quello che fa bene alla società, è la capacità di fare rete, tutti insieme. Quello che ci salva è il “noi”, una società dove chi sta dietro può andare avanti. Il “fare rete” e il “noi” sono il senso di questo progetto di speranza”. L’Arcidiocesi di Napoli, nella sua azione di impegno nella pastorale carceraria, si è adoperata per stimolare l’interesse dei detenuti nei confronti del progetto favorendone la comprensione e sostenendo moralmente i destinatari nella prospettiva di un nuovo progetto di vita. Fossano (Cn). Il Garante regionale Mellano: “Un carcere che si distingue dagli altri” di Laura Serafini La Fedeltà, 30 settembre 2024 Certo, è pur sempre un carcere, ma quello di Fossano si distingue ed è emblematico rispetto agli altri. Soprattutto qui non ci sono state, almeno negli ultimi 10 anni, contestazioni per reati di tortura che invece si sono verificate - guadagnandosi la ribalta delle cronache - in 4 istituti piemontesi: oltre a Torino, Ivrea e Biella si è aggiunta Cuneo, la cui inchiesta con 33 agenti indagati dovrebbe andare a giudizio in questi giorni. Sono proprio le cronache di presunta (così va definita prima che si arrivi a sentenza) violenza in alcune carceri chi ci hanno spinto a parlare con Bruno Mellano, garante dei detenuti del Piemonte che martedì 24 settembre ha presentato una relazione sulla situazione nelle 13 carceri piemontesi al Consiglio regionale. “Va detto che sotto il termine carcere ci sono situazioni molto diverse tra loro - sottolinea Mellano. Un conto è, ad esempio, la casa circondariale di Torino che conta 1.500 detenuti, 500 in più della capienza massima, e un altissimo tasso di stranieri. Un conto è Fossano, Casa di reclusione a custodia attenuata che da tempo non raggiunge la capienza massima e che per storia, vocazione, struttura e soprattutto tessuto sociale, lavorativo e formativo è un luogo emblematico, in cui la pena - che va scontata - può essere occasione per creare opportunità”. Il carcere di Fossano ad oggi conta 104 detenuti (48 sono stranieri) a fronte di una capienza massima di 136. “Faccio il Garante da 10 anni, non ho mai ricevuto segnalazioni di nessun tipo - continua Mellano - c’è un rapporto molto positivo con il personale. Gli spazi, un’altra variabile non indifferente, in questo caso aiutano. Quel cortile centrale che diventa campo da calcio/pallavolo/ tennis... è una cosa unica. A inizio 2000 l’edificio è stato restaurato e ne sono state ricavate camere grandi, luminose, con un angolo per farsi il caffè o la pasta e un bagno separato in cui c’è anche una doccia. E guardate che non è una cosa scontata potersi fare la doccia nella propria cella e non con altri 50 detenuti contemporaneamente in locali umidi, bagnati, tutt’altro che accoglienti”. Il Santa Caterina conta 3 educatrici, una direttrice stabile, e tanti progetti, sia educativi che lavorativi importanti: “Quelli portati avanti grazie a Cascina Pensolato e la Caritas hanno una grande valenza. Così come i laboratori e i progetti di scuola e formazione. C’è una filiera di interventi - formazione, scuola, lavoro interno, lavoro esterno, in cui i detenuti possono costruirsi occasioni di futuro e in cui si può davvero valutare la loro affidabilità”. Nella relazione di Mellano al Consiglio regionale emerge un elemento di criticità che Fossano condivide anche con le altre carceri: i magistrati di sorveglianza e i cancellieri sono abbondantemente sotto organico e questo crea un imbuto enorme per le pratiche burocratiche che così vengono gestite con tempi lunghi, troppo. “La mancanza di personale riduce anche la possibilità per il magistrato di sorveglianza di svolgere quello che sarebbe un obbligo di legge: visitare le strutture, incontrare i detenuti. Forse parlando con loro e scoprendo se c’è del malessere, magari si riuscirebbe a intervenire prima”. Macerata. Gran finale di “Teatro in carcere”. L’assessore D’Alessandro: “Noi città inclusiva” di Alessandro Bianchi Corriere Adriatico, 30 settembre 2024 Si è svolto nei giorni scorsi a Macerata l’evento conclusivo del secondo festival regionale del Teatro in Carcere, manifestazione che quest’anno ha scelto come sede finale Macerata. A realizzare il tutto l’Ufficio del Garante regionale dei diritti della persona delle Marche, in collaborazione con il Comune di Macerata, e l’Associazione Culturale Cittadina Universitaria “Aenigma APS”, capofila del Coordinamento Regionale Teatro in Carcere Marche. Il festival ha come scopo, tramite l’adempimento a lavori teatrali attivi presso gli istituti penitenziari marchigiani, la rieducazione per i detenuti tramite le arti sceniche. Alla biblioteca comunale Mozzi Borgetti è andato in scena l’evento Tavola Rotonda - Teatro e Diritti con i protagonisti delle esperienze attive nei sei Istituti penitenziari marchigiani e la proiezione di un video sugli spettacoli teatrali realizzati in quattro di essi dal 21 al 25 maggio 2024 alla presenza anche di studenti di Istituti scolastici delle Marche. Ad essere presenti molte autorità, con l’avvocato Giancarlo Giulianelli, garante regionale per i diritti della persona a mediare gli interventi. “Da diverso tempo sto cercando di unire le varie attività di cui mi occupo e di far dialogare questi mondi - dice Giulianelli -. I carceri non devono essere concepiti come discariche sociali”. Francesca D’Alessandro, assessore delle politiche sociali: “Stiamo ospitando il secondo festival in Carcere nelle Marche. L’obiettivo dell’amministrazione è quello fare di Macerata città inclusiva a 360 gradi: noi parliamo di fragilità ed essere umano sotto più visioni. Viviamo in quella che è definita cultura dello scarto, con una società poco disposta ad accettare le fragilità altrui. La cultura deve essere uno strumento di inclusione. Quando si parla di detenuti, parliamo di persone con un trascorso di fragilità, che hanno commesso errori anche gravi, ma non per questo viene meno il loro valore. In una società civile che vuole progredire umanamente bisogna confrontarsi con questa fragilità. Il teatro è importante dal punto di vista riabilitativo e formativo. Parlare di inclusione rende la società migliore, con un umanesimo che mette al centro la persona”. Cremona. La musica oltre le mura del carcere imgpress.it, 30 settembre 2024 É Paolo Bedini della casa discografica Baracca & Burattini il vincitore di un Award speciale di Cremona Musica International Exhibitions and Festival per l’album Parole Liberate nel 2022 e nel 2024, il progetto che ha trasformato in canzoni i testi scritti dai detenuti grazie al contributo di noti musicisti italiani e stranieri, realizzato grazie anche al bando del Ministero della Giustizia che ha promosso l’iniziativa. “Abbiamo deciso - spiega Massimo De Bellis, Direttore Generale di Cremona Fiere - di premiare ‘Parole Liberatè perché è la sintesi di quello che deve essere la musica: libera, aperta a tutti, che ha la capacità di guardare oltre e di dare nuove prospettive. Questo progetto, attraverso la musica, aiuta i detenuti a trovare un nuovo rilancio.” Questa iniziativa rappresenta un potente messaggio di riscatto e inclusione sociale, dimostrando come l’arte e la musica possano essere strumenti di trasformazione personale e collettiva. “Parole Liberate” è nato dalla collaborazione tra musicisti professionisti e detenuti, offrendo a questi ultimi un’opportunità per esprimere le proprie emozioni e storie attraverso la musica. I due album, che hanno riscosso grande successo di pubblico e critica, sono un esempio concreto di come la musica possa abbattere barriere e creare nuove possibilità di dialogo e comprensione. “Nonostante abbia lavorato con diversi artisti importanti - spiega Paolo Bedini, produttore discografico Baracca & Burattini - questo progetto per me è stato un arricchimento importante. La parola cantata ha un impatto diverso e dei testi, a cui spesso non avevo dato la meritata attenzione, cantati, mi hanno fatto scoprire ciò che non avevo letto la prima volta, e poi mi ha davvero commosso l’adesione entusiasta e volontaria di artisti così importanti”. Alla pubblicazione sono seguite esibizioni on stage nelle carceri di tutta la penisola e in luoghi esterni. Tra i nomi più conosciuti dal grande pubblico, Cesareo - chitarrista di Elio e le Storie Tese, qui in veste di produttore, - Morgan, lo statunitense Pat Mastelotto - percussionista dei King Crimson - assieme alla moglie Deborah Carter, la Bandabardò e il bassista Tony Levin che ha suonato, tra gli altri, con John Lennon, Peter Gabriel, King Crimson e Pink Floyd. Tra gli artisti che hanno partecipato al primo volume di questo progetto discografico ricordiamo i Nuovo Normale, Petra Magoni, Ambrogio Sparagna, Yo Yo Mundi e Acquaragia Drom. A fianco di questi troviamo anche band giovanissime, come la livornese Synaesthesia. “Un’esperienza davvero appagante, coinvolgente, perché mettere in musica le parole di persone che sono recluse e che hanno grandi sogni, come quello di tornare a una vita normale, è davvero bello.” È il commento di Paolo Archetti Maestri, cantante, chitarrista degli Yo-yo Mundi, che segue l’entusiasmo degli altri artisti presenti alla premiazione come quello di Maria Mirani, cantante di ‘viadellironia’. “Siamo molto contenti di aver partecipato perché pensiamo che questo sia un progetto che getta un fascio di luce sulla vita delle carcerate. È una forma di dissidenza pacifica, artistica e forse, anche la forma di avversione a noi più nota”. I due dischi hanno ottenuto dal Ministero della Cultura, per due anni consecutivi, il primo posto nella sezione Progetti Speciali. Il volume n. 1 ha ricevuto inoltre il prestigioso Premio Lunezia e il secondo posto alle Targhe Tenco, la più importante rassegna italiana della canzone d’autore. Anche il noto fotografo Oliviero Toscani ha dato il proprio contributo, con lo scatto utilizzato per la copertina. Oltre che in formato cd, gli album “Parole Liberate” n. 1 e n. 2 sono disponibili su tutte le piattaforme digitali, con distribuzione di The Orchard (Sony Music). “Un Award speciale che conferma l’attenzione della manifestazione verso la musica come elemento portante della cultura e della vita dell’uomo. - spiega il Presidente di CremonaFiere Roberto Biloni - La scelta di premiare Paolo Bedini sottolinea l’importanza di iniziative che coniugano arte e impegno sociale, aprendo nuove prospettive e offrendo speranza attraverso la creatività. La musica ha un potere straordinario e premiare questo progetto significa anche dare voce a chi spesso non ne ha. Una fiera specializzata come la nostra ha anche questo ruolo”. Presente a Cremona Musica International Exhibitions and Festival anche la cooperativa sociale Alternativa Ambiente che insegna ai detenuti il mestiere del liutaio. “Progetto Claustrofobico - spiega Marco Toffoli, Presidente di Alternativa Ambiente - è nato, nel carcere di Treviso alla fine del 2023, in risposta alle necessità di trovare nuove professionalità per i detenuti del carcere. Quello che insegniamo è lavorare sul legno costruendo corpi e manici per chitarre, fare le verniciature e assemblare e regolare la chitarra”. La solitudine delle vittime collaterali di Giusi Fasano Corriere della Sera, 30 settembre 2024 I familiari delle vittime di femminicidi o di incidenti sul lavoro. Sulle loro spalle irrompe il peso della sofferenza sommato poi ad anni di processi penali e civili, a contenziosi per l’eventuale eredità, a intoppi continui per la tutela degli orfani minorenni. Un uomo anziano che sta crescendo i suoi nipotini dopo l’omicidio della figlia l’altro giorno mi ha detto: “Non è mai finita, non soltanto per il dolore di aver perso una figlia, che non passerà mai. Non è mai finita perché da quel giorno io e mia moglie camminiamo su un terreno minato. C’è sempre qualche problema pronto a scoppiare; se non è fisico è psicologico, burocratico, economico. Siamo vecchi e non era questa la vecchiaia che avevamo immaginato. I nipotini oggi sono adolescenti difficili, come si dice, ed era inevitabile dopo quello che hanno vissuto, povere creature. Né loro né noi siamo stati uccisi, quel giorno. Ma siamo tutti quanti vittime lo stesso. Le nostre vite sono marchiate, e da quel fatto in poi hanno preso una strada rischiosa e sono finite in questo campo minato. Solo l’amore per sti’ due ragazzini, ci aiuta. Per il resto siamo morti anche noi quel giorno disgraziato”. Le chiamano vittime collaterali. Finiscono nei racconti di cronaca della prima ora e il più delle volte, poi, spariscono dalla scena. Sulle loro spalle irrompe il peso della sofferenza sommato poi ad anni di processi penali e civili, a contenziosi per l’eventuale eredità, a intoppi continui per la tutela degli orfani minorenni, quando esistono come in questo caso. La cronaca passa e tutti dimenticano in fretta l’abisso che si apre sotto i loro piedi. E non stiamo parlando soltanto dei femminicidi. Parliamo anche dei morti sul lavoro, per dire. E parliamo dei feriti, anche. Il dramma di un lavoratore che perde le mani non è soltanto il suo dramma, diventa tragedia per la sua cerchia familiare, diventa una vita nuova mille volte più problematica di quella precedente. Per queste persone o per chi ha perduto qualcuno per sempre, uno dei rischi del “dopo” è l’isolamento o il taglio drastico delle relazioni, ed è per questo che scrivo di tutti loro, qui. Perché ho sentito la gratitudine di quel signore anziano di cui parlavo: gratitudine perché ogni tanto, come questa volta, lo chiamo per due chiacchiere in libertà. Non importa se poi in quelle chiacchiere c’è l’elenco infinito delle cose che non vanno. Importa il senso di vicinanza e di calore umano che lui, vittima collaterale, ha sentito e mi ha trasmesso per il solo fatto di non essere stato dimenticato. Ci vuole poco, a volte, per rendere migliore la giornata di qualcuno. Ricordiamocelo. Migranti. Lo scaricabarile della strage di Cutro di Vittorio Alessandro* L’Unità, 30 settembre 2024 Assistiamo a uno scarico delle responsabilità, mentre il “livello politico”, che ha messo due benemerite istituzioni dello Stato a beccarsi l’una con l’altra, rimane tranquillo a guardare. Nel corso dell’inchiesta sul naufragio di Cutro, i testimoni della Guardia costiera chiamati a deporre hanno più volte dichiarato che l’imbarcazione naufragata, al momento dell’avvistamento aereo (avvenuto sei ore prima del sinistro), non dava adito a preoccupazioni circa le condizioni di sicurezza. “Per noi sta navigando appieno”, si dicono, infatti, le sale operative e l’imbarcazione viene pertanto affidata alle funzioni di polizia della Guardia di finanza, peraltro bene attenta ad evitare intromissioni che potrebbero compromettere l’”effetto sorpresa” al confine fatidico delle dodici miglia. Per i testimoni, poi, lo stato del mare “non sembrava inficiare la sicurezza” (la persona avvistata in coperta - precisano - non aveva difficoltà a mantenersi in equilibrio). Nell’ultimo segmento del video diffuso da Frontex - che riprende la barca in diversi momenti - si vedono, però, mutare le condizioni del mare: si sapeva che sarebbero peggiorate e, infatti, poco più tardi, una motovedetta di trenta metri sarà costretta a rientrare in porto. Affermano poi che, vista dall’alto, la navigazione pareva “gestita da persone con competenze nautiche”. In realtà, la conduzione del timone in mare aperto, affidabile anche ad un semplice autopilota, non rivela alcuna particolare perizia. Né appare significativo l’altro argomento secondo cui non vi fossero “mezzi di salvataggio visibili” in coperta, poiché i salvagente vengono sempre tenuti al riparo e, del resto, si sa che i migranti che viaggiano sulle rotte disperate non ne dispongono affatto. Gli operatori di quella notte ritennero peraltro di rilievo che sul ponte apparisse una sola persona, non considerando l’esperienza di molti naufraghi costretti dagli scafisti a tenersi sottocoperta per non essere avvistati. Argomentano ancora i testimoni che l’alta temperatura all’interno del caicco - evidenziata dalle immagini aeree e possibile indizio della presenza di molte persone a bordo - avrebbe potuto dipendere dal riscaldamento provocato dai motori, da una stufa o dalla cucina. Sarebbe stata più credibile l’ipotesi drammaticamente confermata dai fatti (nel soccorso vale il principio di precauzione) e, del resto, nelle conversazioni registrate quella notte fra gli operatori, uno di loro dice al collega: “Roma l’ha classificato come evento SAR… migratorio però”. Lo dimostravano, oltretutto, anche gli ombrinali, ovvero gli sbocchi di scarico delle acque di raffreddamento del motore (che, essendo calde, nelle riprese agli infrarossi appaiono di diverso colore). I testimoni asseverano che “il bordo libero era effettivamente non critico, tanto che si vedeva lo scarico dell’acqua di raffreddamento del motore ben sopra la linea di galleggiamento”. Ma non è così: nelle prime immagini, riprese quando l’onda era ancora bassa, lo scarico appare solo a tratti fuori dall’acqua, e il limite di immersione raggiunge quasi gli oblò; più avanti, con il mare agitato, l’ombrinale, ormai immerso, non si vede più. Il pericolo, insomma, fu sottovalutato. Dice un alto responsabile: “Ritengo che il nostro unico errore sia stato quello di fidarci della Guardia di finanza che ci ha dato informazioni mendaci”. Assistiamo, dunque, a uno scarico delle responsabilità, mentre il “livello politico”, che ha messo due benemerite istituzioni dello Stato a beccarsi l’una con l’altra come i capponi di Renzo, rimane tranquillo a guardare. *Ammiraglio della Guardia Costiera in pensione Migranti. Così il caso Open Arms è finito in tribunale di Emilio Minervini Il Dubbio, 30 settembre 2024 Dal divieto di sbarco per i migranti soccorsi nel 2019, alla richiesta di sei anni per l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini: tutte le tappe. Agosto 2019: il Governo di coalizione Lega-M5S naviga ormai da qualche tempo in acque poco tranquille. L’asse Conte-Salvini si è incrinato e sul governo gialloverde aleggiano nubi di tempesta che porteranno al suo scioglimento il mese successivo. Negli stessi giorni l’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini, seguendo il suo indirizzo politico dei porti chiusi ai migranti, omette il soccorso e nega lo sbarco a 147 naufraghi. Cinque anni dopo, in seguito alla concessione dell’autorizzazione a procedere, i pm di Palermo depositano la requisitoria in cui chiedono per l’attuale Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti una pena detentiva pari a sei anni. A questa va aggiunta la richiesta di risarcimento di quasi un milione di euro avanzata dalle parti civili. Due sono i reati contestati a Salvini: sequestro di persona plurimo a danno anche di minori ex art. 605 comma 1, comma 2 n. 2 e comma 3 c.p. e rifiuto d’atti d’ufficio ex art. 328 comma 1 c.p., ciò in base all’art. 96 Cost. per il quale i Ministri, anche se cessati dalla loro carica, possono essere sottoposti a processo per reati compiuti nell’esercizio delle loro funzioni. All’ex Ministro dell’Interno sono inoltre attribuite numerose violazioni del diritto internazionale come le Convenzioni UNCLOS, SOLAS e SAR da cui derivano precisi obblighi per i paesi firmatari. Queste, tra le altre, stabiliscono la regola che bisogna dar terra ai naufraghi, principio secolare di diritto naturale poi trasposto nel diritto positivo internazionale e nazionale per il valore dei beni coinvolti quali vita, salute e libertà. Nello specifico, dalle Convenzioni SOLAS e SAR derivano l’obbligo per il comandante di una nave di prestare soccorso a chi si trovi in pericolo o difficoltà in mare, e il correlativo obbligo per gli Stati di cooperare al fine di sollevare il comandante della nave soccorritrice quanto prima dai propri oneri tramite l’indicazione di un POS (Place of safety). A questo proposito va puntualizzato che, come stabilito dalla Sentenza n. 6626 del 16.01.2020 emessa dalla Corte di Cassazione, solo la terraferma può essere considerata come POS. Una nave, a meno che non risponda a determinati requisiti, non può quindi considerarsi come posto sicuro anche solo temporaneo. Anzi, la permanenza coatta a bordo di una nave si qualifica come trattenimento ai sensi della Direttiva 33/2013 art. 2 lettera H). Inoltre, le linee guida della Risoluzione MSC 167-78 fissano il principio per cui un migrante naufrago in mare è da considerarsi unicamente come una persona da salvare, ai fini del salvataggio non rilevano né il motivo per cui si trova in situazione di pericolo né la sua nazionalità. Per facilitare la cooperazione tra gli Stati sono state stabilite delle cosiddette Zone SAR (Search and rescue), zone di controllo affidate agli stati senza essere direttamente collegate ai confini. Esse sono da considerarsi quali zone di responsabilità. Lo stato a cui sono attribuite è ritenuto responsabile delle operazioni di salvataggio per eventuali situazioni di difficoltà o pericolo che si concretizzino al loro interno. Il primo agosto la nave Open Arms, di proprietà della Ong spagnola Proactive Open Arms, raccoglie 55 persone in zona SAR libica e lo segnala alle autorità libiche, maltesi e italiane. Il medesimo giorno a Roma l’allora Ministro dell’Interno Salvini, il Ministro dei Trasporti Toninelli e il Ministro degli Esteri Trenta firmano il decreto interministeriale che, sulla scorta del Decreto Sicurezza bis divenuto legge il 5 agosto, vieta alla nave battente bandiera spagnola di entrare in acque territoriali italiane. Il giorno seguente Open Arms trae in salvo altre 69 persone in zona SAR Malta, richiede la designazione di un POS alle autorità italiane e maltesi senza però avere riscontro positivo. Il 3 agosto vengono fatte sbarcare e condotte a terra due donne in stato di gravidanza e un’altra donna. In assenza della designazione di un POS, Open Arms riceve un’altra richiesta d’intervento e il 9 agosto accoglie a bordo altre 39 persone. Tra l’11 e il 14 agosto tredici persone vengono fatte sbarcare date le loro condizioni di salute divenute critiche. Alla vigilia di ferragosto, grazie alla sospensione del decreto amministrativo da parte del TAR del Lazio a seguito di ricorso presentato dai legali della Ong, Open Arms entra in acque territoriali italiane e si ferma al largo di Lampedusa. Lo stesso giorno Salvini firma un altro decreto per fermare la nave, che non viene emesso per mancanza della firma del Ministro Trenta. Dati i numerosi appelli fatti a Salvini dall’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e le pressioni provenienti da diversi Stati europei, il 18 agosto viene permesso a 27 minorenni di scendere a terra. Due giorni dopo a seguito di un’ispezione della nave il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ordina il sequestro della nave e il conseguente sbarco di tutte le persone a bordo. La parola passa ora alla difesa che avrà tempo fino al 18 ottobre per preparare le arringhe difensive. Nel frattempo Salvini ha dichiarato che non patteggerà e sfrutterà tutti e tre i gradi di giudizio. Il leader del Carroccio ha inoltre affermato che in caso di condanna rimarrà in carica. Soccorrere i naufraghi. L’imperativo delle Convenzioni che Salvini è convinto di aver rispettato di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 30 settembre 2024 “Le norme prevedono un obbligo di soccorso in mare per le persone in difficoltà. Ciò che accade dopo è un altro discorso”, afferma Pino Di Iorio, comandante di Unità da diporto di Civitavecchia, anticipando quelli che potrebbero essere i contenuti dell’arringa, prevista per il mese prossimo, dei difensori di Matteo Salvini. Nel caso “Open Arms” il leader della Lega è imputato di sequestro di persona per avere, nella sua qualità di ministro dell’Interno, “privato della libertà personale 147 migranti di varie nazionalità giunti in prossimità delle coste di Lampedusa nella notte tra il 14 ed il 15 agosto 2019”. Secondo i pm di Palermo, che hanno chiesto per Salvini la condanna a sei anni di prigione, la questione principale ruota intorno alla sussistenza o meno dell’obbligo, da parte dell’allora Capo del Viminale, di “procedere all’indicazione del posto sicuro per consentire lo sbarco”, sul territorio nazionale, di questi migranti salvati in acque internazionali dalla Ong spagnola. La risposta a tale interrogativo, hanno sottolineato i magistrati, è indubbia, in ossequio alle leggi del mare secondo cui “bisogna dare terra ai naufraghi”. Nella lunghissima requisitoria, durata circa 6 ore, i pm hanno dedicato molto spazio alla ricostruzione del quadro giuridico che imporrebbe tale obbligo. A parte, infatti, quanto indicato dal Codice della navigazione, risalente al 1942, il tema del soccorso in mare passa attraverso diverse Convenzioni che si sono susseguite negli ultimi secoli. Già nel 1681, nella Grande Ordonnance De La Marine d’août della Francia, si faceva accenno al recupero dei relitti. Con la Convenzione di Bruxelles del 1910, si iniziò a parlare di unificazione di regole in materia di assistenza e soccorso marittimo. Nel 1914 venne approvata a Londra la prima versione della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in Mare (Solas). E nel 1948 vide la luce l’International maritime organization (Imo), un istituto specializzato delle Nazioni unite incaricato di sviluppare i principi e le tecniche della navigazione marittima internazionale al fine di promuovere la progettazione e lo sviluppo del trasporto marittimo internazionale rendendolo più sicuro e ordinato. Trent’anni dopo, nel 1978, l’Imo adottò la Convenzione internazionale sugli standard di addestramento, abilitazione e tenuta della guardia per i marittimi (Stcw). Nell’anno successivo, il 1979, fu approvata la Convenzione internazionale di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio marittimo (Sar), con l’obiettivo di organizzare in maniera efficace il soccorso in mare, basandosi su un principio di cooperazione internazionale. Dieci dopo, a Londra, venne infine siglata la Convenzione internazionale sull’Assistenza (Salvage) che delineò i principi guida del salvataggio o assistenza in mare, anche per quanto concerne il corrispettivo economico dovuto. In Italia, comunque, per veder ratificata la Convenzione di Amburgo, bisognerà aspettare il 1989, con la pubblicazione del Piano Sar nazionale. Con tale atto, uniformando l’ordinamento nazionale a ciò che avveniva negli altri Paesi aderenti, si standardizzarono l’organizzazione, i ruoli e le procedure operative coinvolti nel “Search and Rescue”. L’ultima edizione del Piano risale al 2020, ed è quindi successiva al periodo oggetto delle contestazioni penali a Salvini. A essere investito per legge delle funzioni Sar in mare (soccorso d’ufficio) in Italia è il Corpo delle capitanerie di porto, il quale, pur essendo uno dei corpi specialistici della Marina militare italiana, svolge compiti relativi agli usi civili del mare con funzioni amministrativo- burocratiche, di polizia giudiziaria e di guardia costiera. Il soccorso obbligatorio in mare, come detto, è quello a favore delle persone. Non lo è per le cose: ad esempio l’unità in avaria, a meno che intervenire in soccorso della stessa non sia poi necessario per salvare anche le persone. Uno dei temi difensivi di Salvini riguarderà proprio questo aspetto: il soccorso non venne mai negato, con la conseguente messa in sicurezza dei migranti a bordo della Ong spagnola. Tutti, dopo essere stati accompagnati al porto di Lampedusa, furono rifocillati e sottoposti a visita medica. I minori e quelli in difficoltà furono fatti sbarcare, gli altri invece trattenuti a bordo in ossequio a quanto stabilito dai decreti Sicurezza del governo Conte, che prevedevano una redistribuzione degli stessi all’interno dell’Europa. Ed è dunque questo il punto nodale che i giudici del Tribunale di Palermo dovranno dirimere: una inevitabile valutazione dei vari interessi in gioco. La tutela dei diritti umani dei singoli, per quanto imprescindibili, andrebbe bilanciata, secondo l’interpretazione dei legali di Salvini, con la difesa di interessi generali che tutelano anche altri diritti: il giudizio sulla prevalenza non può non essere prettamente politico, è la tesi. Che prescinde da ulteriori considerazioni pure fatte valere, nel 2019, dall’allora ministro dell’Interno, come il principio secondo cui un naufrago, una volta a bordo della nave che l’ha soccorso, si trova di fatto nel Paese di cui la nave stessa batte bandiera. Il centro della questione, alla fine, è stabilire chi decide come contrastare l’immigrazione clandestina: il governo o i magistrati? La sicurezza non giustifica tutto e non può certo vincere sui diritti fondamentali di Armando Spataro Il Dubbio, 30 settembre 2024 Le leggi in tema di immigrazione devono essere ispirate alla necessità di un corretto equilibrio tra esigenze di sicurezza sociale e rispetto dei diritti delle persone: è doveroso il contrasto dei fenomeni migratori illegali, ma non ne è accettabile la strumentalizzazione per ragioni di mera ricerca di consenso politico che spesso determina un diffuso odio razziale e la moltiplicazione di tragici episodi in ogni parte del mondo. La difesa dei diritti fondamentali, peraltro, costituisce ragione d’impegno non solo per politici e giuristi, ma anche per ogni cittadino sensibile ai valori su cui si fondano le democrazie. Sono infatti fuorvianti per l’opinione pubblica affermazioni e comportamenti diretti a insinuare la falsa convinzione che gli uomini e le donne provenienti da altri Paesi compromettano le possibilità di lavoro degli italiani e ne mettano a rischio la sicurezza: al massimo si potrebbe “aiutarli a casa loro”, pur se non si spiega come. Questo è un tema di costante attualità, ma specifiche vicende - come quella del “processo Open Arms” in corso dinanzi al Tribunale di Palermo a carico del ministro Salvini - continuano ad alimentare ben note e dure polemiche nei confronti della magistratura, rea di applicare il doveroso principio di obbligatorietà dell’azione penale, garanzia dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Qui non si intende affrontare il merito del citato processo, rispetto al quale deve essere rispettata ogni futura decisione dei giudici, ma ricordare quali sono le norme, anche di fonte sovranazionale, vigenti nel nostro Paese che non possono certo essere disattese per effetto di opzioni politiche. Intanto, si deve ribadire che gli stati democratici non solo non possono mai limitare il soccorso in mare ma neppure chiudere i porti o respingere i migranti richiedenti asilo, se non in presenza delle stringenti condizioni previste da leggi che devono essere conformi alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e alla nostra Costituzione. Nella prima, approvata il 10 dicembre 1948, dall’Assemblea generale delle Nazioni unite, si prevede tra l’altro che ogni individuo ha diritto “alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato… di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese” (art.13); ha diritto “di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni” (art.14); ha infine diritto “ad una cittadinanza” e a “mutare cittadinanza” (art.15). Dunque si afferma il generale diritto alla solidarietà e all’asilo e si disegnano i confini di ogni corretta logica di sicurezza, in base alla quale tali diritti non possono essere riconosciuti a chi “sia ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni unite”. La nostra Costituzione aggiunge che “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge” (art.10) e che, essendo la libertà personale inviolabile, “non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge” (art.13). Tali principi, peraltro, hanno trovato esplicita codificazione in diverse convenzioni sovranazionali ratificate dallo Stato italiano che non possono essere derogate, tra cui la Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 (e successivi aggiornamenti) relativa allo status dei rifugiati, alla protezione internazionale ed al divieto di respingimento; la Convenzione per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione Solas - Safety of life at sea, ratificata dall’Italia con L. 131/1980) che afferma l’obbligo dei comandanti delle navi a procedere con tutta rapidità alla assistenza in mare alle persone in pericolo; la Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il soccorso marittimi del 1979 (Convenzione Sar - Search and rescue, ratificata dall’Italia con L. 147/1989) la quale tra l’altro prevede che venga fornita assistenza “ad ogni persona in pericolo in mare, a prescindere dalla nazionalità o dello statuto di detta persona e delle circostanze nelle quali è stata trovata”; la risoluzione Msc 167-78 (allegata alla Convenzione Sar) ove è scritto che la nave che ha effettuato il soccorso non deve comunque essere considerata un luogo di sicurezza solo perché i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato una volta a bordo della nave. Da ricordare anche la Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare (Convenzione Unclos - United nations convention on the law of the sea) sottoscritta nel 1982 a Montego Bay, ratificata in Italia con legge n.689/1994, n. 689, che, tra l’altro, sancisce che “Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera… presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo”. Vanno ricordati poi la Convenzione di Dublino del 15.6.90 efficace dal 1.9.1997 ed il successivo Regolamento n. 604/2013 del 26.6.2013, in vigore da 1.1.2014, che prevede che sia lo Stato di primo arrivo quello competente ad esaminare la domanda di protezione, pur se non obbligato ad assorbirli, e il Patto globale per le migrazioni adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 19 dicembre 2018 ed approvato da ben 152 Stati tra cui l’Italia, con il quale si richiede una cooperazione per salvare le vite umane in mare, obiettivo primario anche nelle operazioni di search and rescue dei migranti. Tutti i principi sin qui descritti integrano gli obblighi di soccorso in nome dei diritti umani e di accoglienza, in base ai quali i Paesi devono innanzitutto dichiarare l’area marittima di propria competenza denominata Sar (più ampia delle acque territoriali), e dotarsi di un Centro nazionale di coordinamento e di appositi piani operativi. E gli Stati costieri devono anche costituire un servizio permanente di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea. Il primo centro che riceve la segnalazione di un pericolo per la vita umana coordina con urgenza le necessarie operazioni di salvataggio finché quello della Sar più vicina non ne assume la direzione. Il Centro di Coordinamento competente deve allora segnalare ai soccorritori o a chi si trova in pericolo il porto sicuro verso il quale dirigere la nave che ha effettuato il soccorso. Qui sarà quindi organizzato lo sbarco che deve avvenire quanto prima e in tempi ragionevoli, come da normativa nazionale, previo controllo medico per verificare la presenza a bordo di persone malate o portatrici di patologie infettive. Dopo le identificazioni, inizia la fase in cui devono essere vagliate le richieste di asilo- protezione, fino all’esaurimento delle relative procedure. Tali principi universalmente riconosciuti prevalgono su ogni altra norma nazionale o accordo fra Stati finalizzato al contrasto dell’immigrazione irregolare. Ma le nostre leggi nazionali sembrano ispirarsi piuttosto a scelte di segno opposto come quella di non fare arrivare in Italia nuovi migranti o di farne arrivare il minor numero possibile, comunque liberandosi di quelli che già sono sbarcati sulle nostre coste. Si tratta di leggi fondate sull’abuso del termine e del concetto di “sicurezza” che, come dico da tempo, è diventato un brand pubblicitario presente anche nelle denominazioni della gran parte dei provvedimenti approvati nel corso degli ultimi vent’anni. Come dimenticare il primo “pacchetto sicurezza” varato dal governo pro tempore (Decreto legge n. 92 del maggio 2008, conv. con L. n. 125/2008 intitolato “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”)? Prevedeva le nuova denominazione di “Centri di identificazione ed espulsione” per i centri di permanenza temporanea per gli immigrati irregolari e la nuova aggravante, dichiarata incostituzionale due anni dopo, per i reati commessi da un soggetto che si trovi illegalmente nel territorio nazionale: sin da allora il migrante “clandestino” diventava nemico ed il diritto-dovere d’asilo vacillava dimenticato. E cosa dire delle “ronde” inventate con il secondo “pacchetto” (Legge 15 luglio 2009 n. 94, intitolata “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”), formate da privati cittadini volontari che dovevano vegliare per la sicurezza nei quartieri cittadini, pur se la cura della sicurezza pubblica è una funzione tipica delle istituzioni dello Stato, come stabilito anche nell’art. 117 della Costituzione? Dai “pacchetti- sicurezza”, mutata la maggioranza di governo, si passò al varo del “Decreto Minniti” (decreto legge n. 13 del 2017, conv. nella L. n. 46/2017, denominata “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale”), che fortunatamente conteneva un articolato pacchetto di misure destinate ad incidere in modo rilevante, anche velocizzando i tempi delle procedure di identificazione e di riconoscimento della protezione internazionale. Mutato ancora il governo dopo le elezioni politiche del marzo del 2018, però, si è passati agli ormai famosi “decreti sicurezza”. Con il primo del 2018 (decreto legge n. 113 del 4.10.18, conv. in L. 1.12.18, n. 132- “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica… omissis…”, cd. “Decreto Salvini”), oltre a modificare ben 17 provvedimenti legislativi o dpr precedenti e ad introdurre varie altre previsioni penalizzanti per i migranti richiedenti asilo, venne abrogata la protezione “umanitaria” (che pure è forma di tutela non marginale riconosciuta dal diritto eurounitario), sostituita da permessi di soggiorno temporaneo per casi speciali. Con il decreto sicurezza-bis del 2019 (decreto legge 14.6.2019 n. 53, conv. in L. n. 77/2019 - “Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica”) venne rafforzata la “politica dei porti chiusi” e prevista l’irrogazione di una pesantissima sanzione amministrativa, fino a un milione di euro, e la confisca obbligatoria del natante a carico del comandante della nave - e dell’armatore responsabile in solido - che non osservi le limitazioni e i divieti eventualmente disposti dal ministro dell’Interno in base a nuovi poteri attribuitigli. Fortemente penalizzata ne risultava dunque l’attività/il dovere di soccorso in mare. Peraltro, l’inderogabilità della normativa internazionale sul soccorso in mare era stata evidenziata anche dal Presidente della Repubblica al momento della promulgazione della legge di conversione del decreto, segnalando alcuni profili che suscitavano “rilevanti perplessità”. Con il decreto sicurezza-ter del 2020 (Decreto legge 21.10.2020, n. 130, conv. in L. n. 173/2020 “Disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare… omissis…”), mutato il ministro dell’Interno, furono in parte cancellate o modificate alcune inaccettabili precedenti previsioni in tema di immigrazione, ma molti nodi rimasero irrisolti, come quello delle numerose navi delle Ong sottoposte a fermi amministrativi in porti italiani. Anche dopo le elezioni politiche del settembre del 2022, con l’attuale maggioranza di governo, è stato subito varato un altro provvedimento, che ha duramente penalizzato l’attività di soccorso in mare e di gestione degli immigrati. Si tratta del Decreto legge 2 gennaio 2023, n. 1, convertito in Legge n. 15/2024 recante “Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori”, che consente all’Esecutivo di “limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale” per motivi di ordine e sicurezza pubblica in conformità alla Convenzione delle N.U. sul diritto del mare del 1982. Sono tante le previsioni criticabili contenute in questo provvedimento, ma in particolare lo sono quelle secondo cui il porto di sbarco assegnato deve essere raggiunto “senza ritardo” e che le modalità di soccorso non possono impedire di raggiungerlo “tempestivamente”: le navi che hanno effettuato un salvataggio sarebbero dunque costrette a non soccorrere persone a rischio di naufragio diverse da quelle già soccorse e delle quali abbiano contezza nell’area di mare ove si trovano ad operare, così come sarebbe impedito che le persone soccorse siano trasbordate da una nave umanitaria all’altra (per consentire a una di esse di tornare a cercare persone in pericolo). La prassi conseguente all’approvazione del decreto legge ha poi determinato che le autorità italiane indichino spesso alle navi soccorritrici lo sbarco in un porto sicuro che si trova in zona molto lontana dall’area in cui è avvenuto il soccorso, determinando così spese e tempi maggiori per le attività delle Ong, nonché una minore loro presenza nelle aree marine ove i soccorsi normalmente avvengono: ciò è da ritenersi in contrasto con l’obbligo inderogabile di prestare soccorso a persone in mare in condizioni di pericolo. L’insieme delle regole imposte ai comandanti delle navi, ha scritto V. Zagrebelsky subito dopo l’approvazione del d.l., “rivela lo scopo della nuova legislazione: disciplinare per restringere l’attività di salvataggio di vite in mare, renderla più costosa per chi la svolge, imporre lunghi periodi di fermo delle navi o distogliere dall’opera di soccorso”. Il 26 febbraio 2023, come è noto, un caicco che trasportava molti migranti si frantumava ed affondava al largo della cittadina di Cutro, senza che le persone coinvolte fossero soccorse, come ci si sarebbe aspettato. Ne derivarono polemiche anche aspre, coinvolgenti l’organizzazione internazionale Frontex, la Guardia costiera e la Guardia di finanza italiane, nonché, in ragione di alcune loro inopportune affermazioni, ministri della Repubblica. Ecco allora che immediatamente veniva varato dal governo il D.L. 10 marzo 2023, n. 20, conv. in L. n. 50/2023 recante “Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare”, un provvedimento che, oltre a prevedere un inutile innalzamento di pene per gli scafisti, abroga norme contenute nel Testo unico sull’immigrazione del 1998 che consentivano il riconoscimento della protezione speciale alle persone che in Italia avevano costruito una vita privata e familiare. Il ddl Sicurezza, approvato dalla Camera dei Deputati il 18 settembre scorso, infine, contiene altre previsioni penalizzanti nei confronti degli immigrati che, se non in possesso di permesso di soggiorno, non potranno acquistare carte Sim. Tale ddl sarà prevedibilmente convertito in legge dal Senato, ma si può essere sicuri che non sarà l’ultimo provvedimento anti-immigrati: il governo in carica, infatti, può vantare un record in quanto, sin dai suoi primi passi, è intervenuto a pioggia sulla giustizia con una quantità di provvedimenti che non ha eguali nella nostra storia recente e tra questi si distinguono, oltre la cancellazione dell’abuso d’ufficio e il ddl con cui si vuole introdurre in Costituzione la tremenda impostura della separazione delle carriere, leggi e decreti nel campo dell’immigrazione. Ma quali sono stati gli effetti di questa normativa sui diritti umani? Definirli “disastrosi” è restrittivo. Il tema dell’immigrazione richiede certo particolare attenzione ma per contrastarne i pur esistenti profili di illegalità non si può fare perennemente ricorso a norme emergenziali: gli ordinamenti democratici, anche in situazioni difficili, non possono neppure occasionalmente tradire i principi su cui si fondano. I provvedimenti varati in tema di immigrazione negli ultimi anni hanno peraltro determinato in Italia una evidente tendenza alla criminalizzazione delle navi e imbarcazioni delle Ong che, quando operano senza ostacoli e limitazioni, salvano vite umane in numero elevatissimo. Il populismo dilagante, che riflette lo spirito del tempo, ha indotto a definirle “taxi del mare” o “pull factor” e gli equipaggi delle navi che operano per le Ong sono stati accusati di essere responsabili di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina o di associazione per delinquere finalizzata al traffico di essere umani. Queste ultime accuse presupporrebbero che i responsabili delle Ong stabiliscano accordi con i cd. “scafisti”, ipotesi risultata priva di qualsiasi fondamento, al pari di quella secondo cui i terroristi, celandosi tra gli immigrati, potrebbero utilizzare quella via per giungere in Occidente e compiervi attentati. Si tratta di una massa di insulti che vanno respinti anche perché frutto di ignoranza di chi non conosce gli obblighi di salvataggio e le norme del codice penale italiano che non consentono la punizione di chi ha agito in stato di necessità o nell’adempimento di un dovere. La tesi prevalente è diventata allora un’altra: pur in assenza di accordi criminali, la sola presenza in Mediterraneo delle navi delle Ong spingerebbe i trafficanti di esseri umani a imbarcare i migranti in Africa e poi a lasciarli in mare, magari simulando naufragi di imbarcazioni insicure, dove potrebbero essere salvati. Ma anche in tal caso non pare in alcun modo possibile pretendere che le navi delle Ong si astengano dal soccorrere i naufraghi o che sia loro vietato navigare nel Mediterraneo o, ancora, che ne sia ridotto drasticamente il numero. Tutto ciò equivarrebbe a teorizzare crudeltà e insensibilità rispetto al dovere di soccorso. Dunque, fermo restando che chiunque risulti responsabile di reati deve essere perseguito con la massima determinazione, l’attività di soccorso in mare delle Ong merita gratitudine da parte di ogni cittadino. Non può insomma accettarsi un panpenalismo di matrice populistica per cui “tutto diventa reato in nome dell’ordine” e le pene aumentano anche per condotte quasi irrilevanti mentre si trascurano le condizioni di vita in carcere o quelle di “detenzione amministrativa” nei Cpr (Centri di permanenza per i rimpatri), già oggetto di condanne in sede europea. Piuttosto, occorre preoccuparsi dell’effetto delle tante leggi nazionali prima citate, quello della crescente xenofobia che si va diffondendo anche in Italia (e non solo), tale da favorire ripetute violazioni del diritto-dovere di solidarietà. Lo stesso Presidente della Repubblica Mattarella ha più volte lanciato l’allarme ricordando tra l’altro che “il veleno del razzismo continua a insinuarsi nelle fratture della società e in quelle tra i popoli. Crea barriere ed allarga le divisioni. Compito di ogni civiltà è evitare che si rigeneri”(Corriere della Sera, 26.7.2018). La politica dei “porti chiusi ai migranti”, comunque la si voglia giustificare, è esempio di prassi non conformi alla legge, al pari del mantenere per giorni e giorni persone bloccate su una nave italiana o straniera, prima in alto mare, poi in prossimità del porto ed infine nel porto. Ogni limitazione della libertà, come si è detto, è possibile a seguito di provvedimento motivato dell’A.G. e, se interviene su iniziativa di organi di polizia, prevede l’immediato controllo giurisdizionale. Il caso Khlaifia + altri contro Italia lo conferma: il 15 dicembre 2016 l’Italia fu condannata dalla Grande Camera della Corte dei diritti umani di Strasburgo perché per ovviare alla saturazione di Lampedusa, i migranti vennero “ospitati” in alcuni centri di soccorso e poi su alcune navi della Moby Line, per più di 48 ore, senza vedere un giudice e senza una serie di altre garanzie. I migranti non potevano scendere dalle navi. La Corte qualificò quel “trattenimento” come privazione della libertà personale senza base legale”. Tornando brevemente al processo Open Arms e senza venir meno alla scelta di non esaminare il merito delle accuse di sequestro di persona aggravato e di rifiuto di atti d’ufficio elevate a carico del ministro Salvini, va precisato che i pm di Palermo, in data 14 settembre 2024, hanno depositato dinanzi al Tribunale una memoria scritta a sostegno della loro richiesta di condanna. Si tratta di una memoria molto articolata in cui, come si è tentato anche qui di fare, viene ricostruito il complesso ed articolato quadro giuridico interno ed internazionale in tema di disciplina dell’immigrazione (Parte I), vengono poi ricostruiti i fatti oggetto del processo (Parte II) ed infine esaminati i reati contestati per dimostrarne la sussistenza. Soprattutto la prima parte dovrebbe essere attentamente letta da chi - anche rivestendo importanti cariche istituzionali - ha duramente messo in dubbio la correttezza dell’operato dei magistrati che hanno sostenuto l’accusa. È legittimo criticare chiunque e che l’imputato proclami ripetutamente la propria innocenza, pur affermando che la sua condotta era finalizzata alla difesa degli italiani e dei confini del nostro Paese, che evidentemente riteneva minacciati da 147 migranti di cui 32 minorenni raccolti in mare nell’agosto del 2019 dalla Open Arms. Più discutibili, invece, sono l’auspicio di una manifestazione in suo sostegno dinanzi al Palazzo di Giustizia di Palermo e che affermi che comunque non si dimetterà in caso di condanna. Ma non è accettabile che leaders politici con ruoli istituzionali ignorino il principio costituzionale della separazione dei tre poteri dello Stato, sostenendo perfino che ai magistrati non spetta in alcun modo interpretare le leggi, ma solo applicarle secondo le scelte politiche che ne costituiscono la base. E a suo tempo, lo stesso Matteo Salvini, quando era ministro dell’Interno, invitò i giudici ad applicare le leggi in materia di immigrazione senza rilievi critici, salvo “scendere in politica”. Marginali, ma espressione del clima che si vive, sono poi il plauso di Viktor Orban e l’auspicio che sia “quel folle pm di Palermo ad andare in carcere per sei anni” formulato da mr. Musk, ormai più famoso del mitico muschio islandese. Tutto però rimanda ad una domanda: quali sono i doveri della magistratura in casi come quello in discussione a Palermo? E rimanda anche a quanto si discusse in Senato a proposito del caso Diciotti (un’operazione di soccorso e salvataggio di 190 migranti, eseguita dalla Guardia costiera italiana il 15 agosto 2018 e poi conclusa, con lo sbarco di tutti gli extracomunitari tratti in salvo, solo il successivo 25 agosto), in relazione alla domanda di autorizzazione a procedere in giudizio nei confronti dell’allora ministro dell’Interno Salvini, per il reato di sequestro di persona aggravato. Anche in quella occasione Salvini sostenne che ogni sua azione aveva avuto esclusivamente una finalità di pubblico interesse e che non si era in presenza di una sua mera personale iniziativa politica, bensì di una iniziativa del governo, conforme a una precedente prassi. In data 20 marzo 2019 il Senato, contrariamente a quanto avvenuto il 30 luglio 2020 con il caso Open Arms, negò a maggioranza assoluta dei suoi componenti (237 contro 61, nessun astenuto), l’autorizzazione a procedere in giudizio nei confronti del ministro, avendo ritenuto che “con valutazione insindacabile, l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. Anche in quel caso si fece riferimento al rischio che tra i migranti a bordo della Diciotti potessero esservi terroristi, ma tale affermazione non trovò riscontro e, comunque, le ragioni di ordine pubblico e di tutela della sicurezza addotte in quel caso ed in quello Open Arms non possono essere addotte in modo generico ed insufficiente, in quanto si tratta di circostanze che, invece, devono essere indiscutibilmente dimostrate. Tra l’altro, l’avere agito a seguito di una scelta politica individuale o dell’intero governo, a parere di chi scrive, non può giustificare la mancata procedibilità penale nei confronti di un ministro: una decisione simile violerebbe i principi di obbligatorietà dell’azione penale e di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. “L’Italia è uno Stato di diritto e le scelte politiche del governo in ordine alla gestione dei flussi migratori e dell’accoglienza dei richiedenti asilo o protezione internazionale devono esprimersi con modalità conformi ai diritti fondamentali della persona quali riconosciuti dalla Costituzione e dalla Convenzione Edu” Si tratta di un’affermazione presente in una delibera del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Milano, inoltrata il 4.2.2019 al presidente del Consiglio dei ministri. Su analoghe posizioni è attestata la stragrande maggioranza di altri organismi ed associazioni di giuristi che, come la Corte di Cassazione, hanno più volte auspicato il rispetto dei diritti fondamentali delle persone nelle iniziative dei pm e nelle sentenze dei giudici riguardanti questo settore. Così deve essere, pur se inevitabilmente non mancherà chi accuserà la magistratura di forzare l’interpretazione delle leggi e di violarle in nome di opzioni politiche, ma i magistrati conoscono i loro doveri e, specie nella stagione del populismo, devono interrogarsi, sulla conformità delle leggi che applicano alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo ed alla Costituzione. Non tutto si giustifica in nome della sicurezza che non può certo vincere sui diritti fondamentali. Altrimenti, come l’ha definita Carlo Bonini, dovremmo parlare di “sicurezza immorale”. Ma la difesa dei diritti fondamentali deve costituire ragione di impegno anche per coloro che esercitano funzioni politiche: al di là degli schieramenti di appartenenza, si deve da loro pretendere di non alimentare sentimenti estremi e logiche populistiche! L’Europa, a sua volta, si impegni nel coinvolgere tutti gli Stati che la compongono nelle attività di accoglimento ed in quelle conseguenti, vincendo la resistenza di quanti vi si oppongono: un piano europeo in proposito deve essere effettivo e concreto, visto che la semplice programmazione non basta. Solo in tal modo l’Ue riacquisterebbe autorevolezza e il rispetto dei popoli. L’impegno civile nella società in cui viviamo, infine, deve contribuire a promuovere nell’opinione pubblica, un costante sostegno all’attività di salvataggio in mare, che solleciti e accompagni il ripristino di un efficace sistema istituzionale di ricerca e soccorso. Ciò al fine di affermare, ancora una volta, il senso di una condivisa responsabilità universale che fonda il diritto al soccorso e l’intero sistema dei diritti umani (così il Comitato per il diritto al soccorso, costituito alla fine del 2020, su iniziativa di otto Ong protagoniste di innumerevoli salvataggi nel Mediterraneo). Maiello: “È il comandante ad aver omesso di forzare il blocco, eppure accusano Salvini” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 30 settembre 2024 Per il professore di Diritto penale della Federico II, il processo Open Arms avrebbe dovuto riguardare il capo della nave, unico garante della vita e libertà dei passeggeri. Nel caso della Open Arms, che poi ha portato a processo il vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, non sono mancati condizionamenti emotivi, come rileva l’avvocato Vincenzo Maiello, professore ordinario di Diritto penale nell’Università di Napoli Federico II. Condizionamenti che avrebbero dovuto porre al centro della vicenda giudiziaria il comandante della nave, “considerato garante della vita e dell’incolumità personale dei passeggeri, oltre che della loro libertà”. Professor Maiello, nella vicenda a carico del ministro Matteo Salvini sono andati in scena gli orrori del fenomeno dell’immigrazione clandestina. Cosa ne pensa? Quanto vissuto a bordo dell’Open Arms, tra il 14 e il 20 agosto 2019, è qualcosa di atroce che annichilisce le coscienze e ci ricorda crudeltà e barbarie dell’immigrazione clandestina. La compressione di libertà e dignità dei 147 migranti a bordo è stata spaventosa e umiliante, ai limiti dell’asfissia. Una situazione di così grave e profonda lesione delle prerogative di vita di tanti esseri umani imponeva l’accertamento di eventuali responsabilità. Il punto, però, è proprio questo: in una democrazia costituzionale, ispirata alle regole dello Stato di diritto, questa cruciale funzione va esercitata nella rigorosa attuazione dei principi di legalità-determinatezza della legge penale e di personalità del giudizio di colpevolezza. Ritiene che questi principi non siano stati osservati? La vicenda dell’Open Arms è intervenuta in un momento nel quale uno dei punti programmatici dell’allora maggioranza di governo era la lotta senza quartiere all’immigrazione clandestina. Temo che questo contesto abbia potuto offuscare i termini dell’azione giudiziaria. È possibile che abbia preso il sopravvento la tentazione di mettere in diretta connessione l’ostracismo governativo verso gli sbarchi di migranti e il blocco della navigazione dell’Open Arms, che tanta indicibile sofferenza ha arrecato ai suoi passeggeri. Assai verosimile è che in questo clima sia maturata l’imputazione secondo cui il ministro Salvini, omettendo di accogliere le richieste di place of safety, inoltrate al suo Ufficio di Gabinetto dall’Italian Maritime Rescue Coordination Centre, avrebbe dovuto essere considerato l’effettivo, e unico, “autore” della libertà sequestrata a quei poveri sventurati. Si tratta di un’impostazione che finisce per aggirare i principi prima ricordati di legalità e personalità della responsabilità penale i quali, mi piace sottolineare, non rappresentano solo garanzie e diritti fondamentali dell’accusato, bensì anche presidii di un esercizio indipendente della giurisdizione. C’è stato, secondo lei, un trasporto emotivo, che ha condizionato i fatti che hanno interessato l’Open Arms e i risvolti giudiziari che ne sono derivati? Ritengo che una valutazione meno emotivamente condizionata della vicenda avrebbe dovuto orientare verso un’altra direzione, quella di addebitare l’evento al comandante della nave. Sia per il diritto interno, sia per il diritto internazionale, lo stesso richiamato dal capo d’imputazione al ministro Salvini e invocato a fondamento della presenza delle Ong, egli è considerato garante della vita e dell’incolumità personale dei passeggeri, oltre che della loro libertà. Nella situazione di crisi drammatica per le condizioni di vita dei passeggeri, che si era determinata in seguito alla mancata autorizzazione del ministro al cosiddetto porto sicuro, il comandante avrebbe avuto l’obbligo di raggiungere il porto più vicino. Avrebbe, realizzato, certo, una condotta di ingresso abusivo nello Stato, giustificata, però, dall’adempimento del dovere di proteggere l’incolumità dei passeggeri. In questa veste di soggetto tenuto all’osservanza delle fonti internazionali a tutela dei diritti umani dei passeggeri, sarebbe stato dovere del comandante disattendere norme e fatti giuridici del diritto interno confliggenti con quelle discipline, a fortiori se di rango secondario, come l’atto amministrativo che il ministro Salvini non avrebbe rilasciato, e ancor più ove espressi in forma omissiva. Insomma, la limitazione di libertà sofferta dai migranti a bordo dell’Open Arms appare conseguenza, diretta e immediata, della decisione del comandante della nave di non raggiungere il porto di Lampedusa, non già dell’omesso rilascio da parte del ministro dell’autorizzazione al place of safety. Curiosamente, il comandante della nave non figura neppure tra le vittime del sequestro: è una sorta di apolide nel processo. Una “non-persona” nell’ambito di una vicenda nella quale non si vede come possa esserci posto per chi non è né carnefice, né vittima. Secondo la sua ricostruzione, il ministro Salvini non avrebbe dovuto essere imputato? Avrebbe potuto esserlo, ma nella ben diversa veste di concorrente nel reato del comandante. In particolare, gli si sarebbe potuto ascrivere una forma di partecipazione criminosa di natura psichica, che richiede presupposti e requisiti di prova non agevole. Difatti, dopo essere stata per molti versi banalizzata nell’esperienza giurisprudenziale, che, in tante occasioni, ne ha sancito la configurabilità senza richiedere la sua incidenza sulla decisione dell’autore del reato, il concorso morale ha trovato una perspicua valorizzazione nel più recente diritto della Corte di Cassazione. Penso alle illuminanti pagine della sentenza che ha definito il processo alla “Trattativa Stato-mafia”, dove i giudici di legittimità hanno ancorato la punibilità del concorso psichico all’accertamento, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sua reale rilevanza causale. Ma ecco il punto di domanda: sarebbe sostenibile che il comandante della nave abbia deciso di non raggiungere un place of safety per timore di incorrere nella violazione del diritto interno? Possiamo definire il processo a Salvini un “processo politico”? Il processo a carico di un ministro per reati funzionali è inesorabilmente connotato di elementi politici. Del resto, nel disegno del Costituente, i reati ministeriali appartenevano alla cosiddetta giustizia politica del Parlamento e, in ultima analisi, della Corte Costituzionale in composizione allargata. Penso, allora, che solo l’esercizio indipendente della giurisdizione, addestrato ai valori del garantismo costituzionale, possa scongiurare che quei fattori di precomprensione soggettiva prendano il sopravvento sulla struttura del giudizio, che deve essere conforme alla legalità e al diritto. Sullo sfondo vi è, comunque, la grande questione delle democrazie costituzionali, ove la supremazia dei diritti, riducendo gli spazi della discrezionalità politica, nei fatti rischia di porre quest’ultima sotto controllo giudiziario. Per questo, oltre a meccanismi selettivi di regolazione del rapporto tra poteri, occorre un costume culturale del giudice improntato ad una effettiva terzietà. Il dovere di salvare: così Rackete sbriciolò le leggi anti Ong di Simona Musco Il Dubbio, 30 settembre 2024 L’archiviazione del fascicolo sulla capitana della Sea Watch decostruì i decreti sicurezza, bandiera dell’allora Ministro dell’Interno. Facendo sbarcare in Italia i migranti salvati in mare, Carola Rackete fece solo il suo dovere. Con queste parole la gip del Tribunale di Agrigento Micaela Raimondi dispose, a dicembre 2021, l’archiviazione dell’indagine a carico della comandante tedesca della Sea Watch 3, accogliendo la richiesta della procura. Rackete era accusata di aver fatto entrare illegalmente in Italia 53 migranti, disobbedendo all’ordine imposto dalle Fiamme Gialle, che le avevano intimato di fermarsi. “Rackete - si legge nel decreto di archiviazione - ha agito nell’adempimento del dovere di salvataggio previsto dal diritto, nazionale ed internazionale, del mare, non potendosi considerare “place of safety” il porto di Tripoli, come anche sottolineato dall’Alto Commissario delle Nazioni unite per i rifugiati che ha di recente evidenziato, in un rapporto, come alcune migliaia di richiedenti asilo, rifugiati e migranti presenti in Libia versino in condizione di detenzione arbitraria e sono sottoposti a torture ed a trattamenti disumani e degradanti in violazioni dei loro diritti umani “. Una decisione che ricalca la richiesta che all’epoca era stata avanzata dalla procura e che chiuse dunque l’indagine sullo sbarco di giugno 2019, quando la comandante tedesca forzò il blocco della Guardia di Finanza per mettere in salvo le persone salvate in acque internazionali, tenute a mollo per due settimane per via dei no pronunciati dal Viminale, allora guidato da Matteo Salvini. “Sebbene in linea di principio la nave che presta assistenza può essere considerata temporaneamente un luogo sicuro - si legge nel decreto di archiviazione -, nel caso concreto (...) non può essere qualificato come “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi meteorologici avversi, non consente il rispetto dei diritto fondamentali delle persone soccorse, considerata la presenza a bordo, per diversi giorni, di persone particolarmente vulnerabili tra le quali donne anche in stato di gravidanza, sei minori di cui due neonati, migranti con ustioni da carburante, soggetti con sospetta tubercolosi “. Rackete, dunque, ha agito nell’adempimento di un dovere, aveva chiarito la giudice citando l’articolo 51 del codice penale. E in merito al provvedimento interministeriale del 15 giugno 2019 firmato dagli allora ministri Salvini, Danilo Toninelli e Elisabetta Trenta e che vietava alle navi che salvano migranti di entrare nelle acque italiane, pena una multa salatissima e il sequestro del mezzo -, non vi erano riferimenti “a specifiche ed individualizzanti situazioni di ordine e sicurezza pubblica che avrebbero potuto far ritenere pericoloso lo sbarco in Italia dei naufraghi, di talché, come condivisibilmente sostenuto dal pubblico ministero, non sussistono elementi sufficienti per ritenere che il passaggio della predetta imbarcazione possa definirsi “passaggio non inoffensivo”“. Per poter sostenere che quella nave fosse un pericolo, insomma, sarebbe stata necessaria una specifica attività istruttoria che nel caso in questione si sarebbe rivelata “carente” e basata solo sul presupposto “che i naufraghi fossero tutti stranieri senza documento”. Insomma, lo stesso concetto espresso già all’epoca dalla gip Antonella Vella, che nel respingere la richiesta di convalida della misura cautelare - Rackete passò diversi giorni ai domiciliari - aveva decostruito il Decreto Sicurezza bis, risultato inutile alla prova dei fatti e di fronte al suo primo obiettivo polemico, le ong. Quella norma, che voleva i porti chiusi per le organizzazioni non governative impegnate nel salvataggio dei migranti nel Mediterraneo, spiegò all’epoca la giudice, non si poteva applicare a chi salva vite. Proprio ciò che fece Rackete, per Salvini una semplice “sbruffoncella”. Alle stesse conclusioni era arrivata la Cassazione, che nel respingere il ricorso della procura di Agrigento contro l’ordinanza con cui non venne convalidato l’arresto di Rackete si era richiamata alle convenzioni internazionali in tema di soccorso in mare, e, prima ancora, all’obbligo consuetudinario di soccorso in mare. L’obbligo di prestare soccorso, scrivevano i giudici, non può considerarsi compiuto “con il salvataggio della nave” e con la permanenza dei migranti su di essa, “perché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave”. Rackete, dunque, non ha commesso alcun reato, ma ha rispettato l’obbligo di legge di soccorrere persone in pericolo. La logica delle guerre che uccide lo Stato di diritto di Massimo Cacciari La Stampa, 30 settembre 2024 Noi europei occidentali vi assistiamo, forti di crederci al riparo delle catastrofi globali. Ciò che più stupisce - o forse dovremmo dire atterrisce - nel modo in cui da ogni parte politica o quasi vengono seguite e commentate le tragedie di questo decisivo momento della nostra storia, quelle medio-orientali in particolare, è l’assoluta dimenticanza in cui sono precipitati principi, idee, simboli che, fino a un non remoto passato, avevano cercato di mantenere viva la speranza di poter giungere a un accordo, se non a una pace, nonostante la violenza del conflitto. Vi erano voci, sia israeliane che islamiche che europee, le quali facevano memoria della triplice preghiera di Abramo, per gli incirconcisi, per Isacco e per Ismaele, voci che non si arrendevano allo “scontro di civiltà” e ricordavano gli innumeri episodi che testimoniano come non solo la contrapposizione, ma anche la complementarietà abbiano caratterizzato nei secoli i loro rapporti. Non è un destino ineluttabile che il bellum civile tra i popoli che incarnano i grandi monoteismi abramitici debbano assumere l’aspetto della guerra assoluta, della guerra che non può finire se non con l’annullamento del nemico. Non è un destino, ma l’espressione della volontà perversa di élite culturali e politiche che hanno dimenticato i propri valori, il proprio Dio, o ne hanno interpretato la parola, bestemmiandola, come identità esclusiva, comando, imposizione, feroce intolleranza. È una gara a chi meglio dimentica la virtù senza la quale mai potrebbe darsi una pace in terra. Il torto chiama vendetta e basta, e se smisurato il torto, smisuratissima sia la vendetta. Il perdono non è possibilità prevista. Neppure un fantasma ormai, un puro nulla. Credete si tratti solo di virtù teologica? Poveri incantati realisti! Col vostro realismo si sono prodotti i trattati di “pace” seguenti la prima Grande Guerra; coi vostri disincanti si sono generati gli Hitler. La disponibilità al perdono è virtù quintessenzialmente politica. Dove sono passati fiumi di sangue, nessun cammino di pace è concepibile se essa non solo manca, ma viene assolutamente negata anche come pura, remota possibilità. Attenzione però, il Male assoluto non è perdonabile. E oggi il nemico è tale, così viene sempre rappresentato. Guerra infinita perciò sia. E noi europei occidentali? Vi assistiamo forti di crederci al riparo delle catastrofi globali che per due volte in mezzo secolo dal nostro cuore di tenebra si sono scatenate. Non abbiamo prevenuto il bellum civile balcanico, tantomeno quello ucraino-russo. Pensiamo di porre fine a quest’ultimo come si è fatto col primo, bombardando Belgrado? Nessun piano europeo di compromesso, neppure di armistizio, nessuna iniziativa autonoma. La discussione verte sul modello di missili di cui fornire l’Ucraina. Alta diplomazia invero, grande politica. Tanto, si pensa, l’ “affare” si risolverà attraverso distruzioni e massacri che riguardano “loro”. Le atomiche le hanno russi e americani e vedrete che non le useranno. Infatti, le grandi potenze imperiali progettano da tempo altre forme di guerra, per le quali investono trilioni di dollari. Troppo “sporca” l’atomica, e come è arcaica la sua stessa immagine, in fondo una bomba moltiplicata per miliardi di volte. Cerchiamo mezzi nuovi, armi batteriologiche, virus mirati a colpire a morte etnie specifiche, o magari per fasce di età. Progettiamo attacchi ai sistemi di comunicazione e informazione, capaci di distruggere “l’intelligenza” del nemico. La fantasia creatrice non si industria a esplorare la via del compromesso politico, ma a scoprire come farsi male in forme innovative, degne di bravi progressisti. Ci stiamo arrendendo all’idea dell’inevitabilità della guerra. È incredibile il salto mortale compiuto da tanti opinionisti e “scienziati” del Politico: dalla idea della pace universale garantita dalle “leggi” del libero scambio e del mercato, e dal crollo del Dittatore nemico, che a esse pretendeva di sottrarsi, al “realismo” che considera la guerra lo stato normale dei rapporti tra potenze e interbellum la pace. È un passo avanti, certo, rispetto alla strampalata fantasia di un Governo planetario retto da una presunta universale razionalità tecnico-economica. Peccato non si riesca a essere altrettanto razionali nell’indicare e praticare, in tutte le sedi, vie che possano condurre, sulla base del riconoscimento degli interessi vitali in gioco, a possibili punti di mediazione. Più facile calcolare quanti dollari ci vogliono per rinnovare i propri armamenti. Nessuno si illuda. Più si sviluppa questa mentalità di guerra, più essa influenzerà le nostre forme di vita, più difficile sarà difendere, non dico sviluppare, all’interno degli stessi Paesi occidentali i principi più autentici di uno Stato di diritto. Tutto si tiene. La tremenda guerra ai confini d’Europa, confini che appartengono all’Europa, determina fisiologicamente l’unilaterale rafforzamento degli Esecutivi, il silenzio dei Parlamenti, regimi dal carattere sempre più autoritario in nome della sicurezza nazionale. Determina esattamente ciò che si esprime nell’attuale iniziativa legislativa in materia di “ordine pubblico”: blocco stradale che diventa reato penale; proteste in carcere, proteste contro la “grandi opere”, propaganda in loro favore, che diventano punibili in quanto tali; carcere fino a 7 anni per chi occupa case sfitte; vietato l’acquisto della SIM per immigrati senza permesso (Trump applaude). Fare l’abitudine allo stato di guerra significa far l’abitudine a tutto ciò. Ma anche, cerchino di ricordarselo i nostri democratici, rendere inevitabile il progressivo avanzamento delle destre, e pure di quelle estreme, nell’Occidente sia europeo che americano. È del tutto logico che uno stato di guerra favorisca quelle forze culturali e politiche che proprio sull’inimicizia, sull’inospitalità, su sovranismi gelosi hanno costruito le loro ideologie. Non stupiamoci allora se in Brandeburgo, che ha capitale Berlino, una delle città simbolo, con Gerusalemme, delle tragedie della nostra civiltà, l’AfD sfiora il 30% dei voti, ma arriva al 40% tra i giovani dai 20 ai 30 anni. Non ha sfondato però! dicono i nostri democratici. Non ha sfondato la Le Pen, e, per carità, la Meloni è tutt’altra pasta. E Orbán pure. Non sfondano. E noi consoliamoci sopravvivendo. Sono ottomila i siriani alla fame in un campo per sfollati controllato dagli Usa di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2024 Almeno 8000 siriani sono letteralmente alla fame in un campo per sfollati sotto il controllo degli Usa al confine con la Giordania e l’Iraq e intorno al quale l’esercito di Damasco ha imposto un assedio sin dal 2015. Rukban, questo il nome del campo oggetto di una recente ricerca di Amnesty International, è situato nei pressi della base militare statunitense di Tanf. Gli Usa controllano - tra base e campo - un territorio di circa 55 chilometri quadrati. Inizialmente Rukban ospitava 80.000 sfollati, in fuga dagli attacchi russi e siriani e dalla violenza dello Stato islamico. Molti di loro appartenevano a gruppi di opposizione o avevano disertato dalle forze di sicurezza governative. A causa delle condizioni di vita impossibili acuite dall’assedio, la popolazione si è progressivamente ridotta del 90 per cento. La Giordania ha sigillato i suoi confini nel 2016 e da allora espelle ogni anno in media 100-150 siriani che hanno provato a superare la frontiera. Si stima che attualmente siano 1400 i siriani detenuti nei centri di espulsione giordani. I residenti di Rukban vivono in alloggi di fortuna, che non offrono la minima protezione dalle temperature estreme del deserto e dagli insetti, che irrompono nel campo a frotte. “D’inverno fa freddissimo. Per proteggerci usiamo carta di giornale e strati di nylon. Non abbiamo soldi per comprare cherosene da riscaldamento”, ha raccontato Nidal, uno degli sfollati. Mancano cibo e acqua potabile a sufficienza. L’ultimo convoglio umanitario autorizzato dal governo siriano è entrato nel settembre 2019. Le rotte del contrabbando, le uniche su cui gli sfollati di Rukban potevano contare per sopravvivere, non sono più utilizzabili. I neonati vengono alimentati solo con latte di capra e molti di loro muoiono di malnutrizione. I casi di ittero sono almeno 500. Sono stati segnalati casi di morbillo e di mpox. Nel centro medico del campo lavorano alcune infermiere, stipendiate dagli Usa, che non sono qualificate per eseguire interventi chirurgici. Non hanno a disposizione neanche il paracetamolo. Chi si avventura nelle zone della Siria controllate dal governo in cerca di cure mediche adeguate spesso non fa più ritorno e sparisce nel nulla. Amnesty International ha sollecitato le autorità siriane a porre fine all’assedio e a consentire il ripristino degli aiuti umanitari. Ma fino a quando ciò non accadrà, dovranno essere gli Usa - a causa della loro prossimità al campo - a garantire le minime condizioni di vita. Negli ultimi due anni, le forze Usa hanno saltuariamente consegnato al campo aiuti aviotrasportati alla base di Tanf. Segno che controllano la situazione e che hanno i mezzi per poter aiutare la popolazione di Rukban a sopravvivere. *Portavoce di Amnesty International Italia