L’inesorabile declino delle carceri italiane di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 2 settembre 2024 Le carceri italiane sono diventate prigioni non solo per i detenuti, ma anche per coloro che vi lavorano. Le mura delle carceri italiane, come quelle di un’antica fortezza ormai in rovina, trattengono non solo corpi, ma anche anime spezzate e sogni infranti. Ieri, a Ivrea, questo dramma ha raggiunto un nuovo picco di tensione. Nel reparto isolamento, i detenuti, esasperati da una condizione che sembra non avere fine, hanno inscenato una protesta rumorosa, sbattendo con forza le ante degli armadietti. Un suono metallico, acuto, quasi disumano, ha riecheggiato nei corridoi come l’urlo di una bestia ferita, un richiamo disperato che ha attraversato ogni angolo della struttura. “A Ivrea - commenta amaro Leo Beneduci, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp - la situazione è identica a quella di altre strutture penitenziarie italiane; non riusciamo però a comprendere come mai dal carcere di Ivrea i detenuti responsabili di violenze ed aggressioni nei confronti del personale di polizia penitenziaria non vengono trasferiti e al contrario sono gli agenti aggrediti ad essere spostati d’incarico o sede, quasi a giustificare i comportamenti di maggiore pericolosità da parte dei ristretti”. Un po’ come nel film “Le ali della libertà”, dove la linea tra giustizia e ingiustizia si confonde fino a scomparire del tutto, le carceri italiane sono diventate prigioni non solo per i detenuti, ma anche per coloro che vi lavorano, intrappolati in un sistema che sembra avvitarsi su sé stesso, come in un loop infinito. Il sovraffollamento, simile a una pentola a pressione sul punto di esplodere, è solo uno dei problemi. La situazione igienico-sanitaria, già di per sé precaria, si aggrava di giorno in giorno, facendo delle carceri un inferno sulla terra, dove il caldo soffocante dell’estate si mescola con l’odore acre di sudore e disperazione. A Ivrea s’aggiunge la mancanza di un comandante di reparto titolare, un po’ come togliere il timone a una nave già in balia delle onde. Senza una guida, gli agenti di polizia penitenziaria sono costretti a navigare a vista in un mare tempestoso, dove ogni giorno può essere l’ultimo. La funzione riabilitativa del carcere sembra ormai una eco lontana, persa tra le pareti di cemento e le sbarre arrugginite. Nelle carceri italiane non c’è spazio per la speranza, solo per il tempo che scorre lento, inesorabile, spezzando ogni volontà di cambiamento. L’estate del 2024 è stata segnata da una serie di eventi tragici che hanno gettato un’ombra cupa sul già oscuro mondo delle carceri italiane. Ogni episodio di violenza e disperazione sembra strappato da una sceneggiatura di un film drammatico, ma purtroppo è la realtà che i detenuti e gli agenti vivono quotidianamente. A giugno, nel carcere di Poggioreale a Napoli, un detenuto, che avrebbe dovuto essere trasferito per motivi di sicurezza, è stato brutalmente aggredito da un gruppo di altri detenuti. Le urla di dolore si sono propagate lungo i corridoi e nonostante l’intervento degli agenti, per l’uomo non c’è stato nulla da fare. La sua morte ha sollevato polemiche sul sistema di gestione delle carceri e sul perché, ancora una volta, chi avrebbe dovuto essere protetto non lo è stato. Poco dopo, a luglio, un altro tragico evento ha sconvolto il carcere di Rebibbia a Roma. Un giovane detenuto si è tolto la vita nella sua cella, impiccandosi con un lenzuolo. Era stato recentemente trasferito dopo una serie di episodi di autolesionismo, ma la sua sofferenza interiore è rimasta ignorata fino a che non è stato troppo tardi. Il silenzio assordante che ha seguito la scoperta del corpo ha riacceso il dibattito sulla necessità di un supporto psicologico adeguato per i detenuti, che spesso vengono lasciati soli a combattere i loro demoni. Agosto ha visto l’esplosione di una violenta rivolta anche nel carcere di San Vittore a Milano. Qui, i detenuti, esasperati dalle condizioni disumane e dal sovraffollamento, hanno dato fuoco ai materassi e preso in ostaggio alcuni agenti di polizia penitenziaria. La situazione è degenerata rapidamente, e solo dopo ore di trattative e l’intervento delle forze speciali si è riusciti a ristabilire l’ordine. Tuttavia, il bilancio è stato drammatico: diversi feriti, sia tra i detenuti che tra gli agenti, e un carcere devastato dalla furia della rivolta Le carceri italiane, così come la società nel suo complesso, stanno attraversando un momento di profonda crisi. Come in un film dove i protagonisti lottano contro un destino avverso, il sistema sembra condannato a ripetere i propri errori, intrappolato in un ciclo di violenza e disperazione. Il grido d’aiuto dei detenuti di Ivrea, così come il sangue versato nelle carceri di Napoli, Roma e Milano, sono segnali che non possiamo più ignorare. È necessario fermarsi e riflettere, come farebbe il protagonista di un dramma giudiziario, pronto a tutto pur di scoprire la verità. I Radicali: “Chiudere le carceri minorili”. FdI: lo Stato non fa passi indietro di Giulia Bonezzi Il Giorno, 2 settembre 2024 Opposizioni all’attacco sul decreto Caivano: “Inerzia colpevole del Governo”. Quella dell’Osapp, sindacato autonomo della Penitenziaria che suggerisce di chiudere il Beccaria, potrebbe anche essere una provocazione, ma non lo è sicuramente la posizione espressa dai Radicali: “Da anni chiediamo la chiusura dei minorili e torneremo a Milano nelle prossime settimane per chiederla nuovamente. Non è possibile assistere ogni giorno a questa continua violazione dei diritti umani”, dichiara il tesoriere Filippo Blengino, secondo il quale “le continue rivolte, diventate drammaticamente ordinarie” rappresentano “la cronaca di un fallimento annunciato, quello di uno Stato incapace di garantire condizioni umane. Manca tutto: educatori, personale, attività rieducative. Durante le nostre visite di agosto, abbiamo riscontrato una situazione avvilente: ragazzi con evidenti tagli sulle braccia, un disagio psichico fuori controllo, atti di autolesionismo ripetuti. Questi sono i nostri istituti: mentre il Governo ragiona con serenità su riforme aleatorie e compassate, in carcere si muore”. La replica arriva a stretto giro dal deputato milanese di Fratelli d’Italia Riccardo De Corato: “Nessun passo indietro da parte dello Stato rispetto alle rivolte del Beccaria. Cedere a queste, come vorrebbero i radicali che ne chiedono la chiusura, vorrebbe dire dare ragione alla delinquenza minorile come ha fatto il centrosinistra per oltre dieci anni. Il risultato su Milano lo abbiamo visto tutti e non pare dei migliori. Ai giovani va ora dato un segnale chiaro, chi sbaglia paga”. Ma le opposizioni al Governo Meloni sono già sul piede di guerra, e si uniscono al coro dei sindacati della Polizia penitenziaria che chiedono un intervento del Governo. “Mentre il centrodestra ancora esulta per l’approvazione di un decreto che non produce alcun miglioramento delle tragiche condizioni delle carceri, questo è il segnale di un sistema carcerario al collasso che si regge in piedi solo grazie all’intervento di un personale sottodimensionato, costretto a turni massacranti di lavoro, la cui incolumità è in pericolo tutti i giorni”, tuona Ivan Scalfarotto, capogruppo di Italia viva in Commissione Giustizia al Senato, esprimendo “la mia solidarietà e vicinanza al personale di polizia penitenziaria che, nell’inerzia del governo, fa fronte come può alla drammatica situazione. Lo abbiamo detto con chiarezza nelle scorse settimane. È evidente a tutti che c’è bisogno urgente di provvedimenti che producano un’immediata deflazione del numero dei detenuti. Se questa emergenza non viene risolta, ormai è chiaro, è perché scientemente si vuole tenerla in piedi”. “L’ennesima esplosione di violenza all’interno dell’istituto Beccaria è la dimostrazione della incapacità del governo ad affrontare una situazione da lui stesso creata - aggiunge il senatore milanese Franco Mirabelli, vicepresidente del gruppo Pd a Palazzo Madama -. Il decreto “Caivano” ha aumentato il numero di minori reclusi senza alcun adeguamento delle strutture e del personale, in particolare degli educatori. Si lascia che negli istituti per minori restino detenuti fino ai 25 anni. La vicenda del Beccaria, che è in emergenza da mesi, mostra un’inerzia colpevole del governo e l’incapacità ad affrontare i problemi”. Soumahoro e Salis vogliono chiudere le carceri in Italia di Luigi Frasca Il Tempo, 2 settembre 2024 Soumahoro, il parlamentare diventato famoso per la moglie e suocera, che, a parere degli inquirenti, sarebbero state protagoniste di una vita a cinque stelle a discapito dei poveri migranti che dovevano difendere, scende in campo per dire che le carceri vanno chiuse. A parte la sacrosanta battaglia per i diritti sui detenuti, sul miglioramento di istituti penitenziari che, da anni e non da oggi, vessano in condizioni di precarietà, non passa inosservato il grido di allarme di Aboubakar per il Beccaria di Milano: “Va chiuso - scrive in una nota - perché non è un luogo umano di detenzione”. Striglia, dunque, il governo Meloni: “Ha deciso in modo politicamente miope ed ideologico di affrontare il tema”. Il pupillo di Fratoianni, infatti, è stato protagonista di un’ispezione parlamentare in cui avrebbe trovato tracce di sangue su materassi e pareti, ragazzi con tagli di autolesionismo sulle braccia in segno di protesta. “Un detenuto - riferisce l’ex sindacalista - aveva digerito addirittura un pezzo di vetro. Una situazione di anomia e disumanizzazione”. Un viaggio che somiglia tanto a quello effettuato soltanto un giorno fa dall’europarlamentare di Sinistra Italiana. Ilaria Salis, infatti, era stata protagonista di un incontro a sorpresa al San Michele di Alessandria, che mediante Instagram, descrive come un vero e proprio tugurio: “Una situazione raccapricciante - aveva detto ai suoi follower. C’è immondizia nei corridoi e nelle docce. Oltre a constatare il pessimo stato delle varie sezioni e la carenza di personale sociosanitario, ho avuto modo di ascoltare le testimonianze di molti detenuti. Siamo oltre la capienza, c’è difficoltà ad accedere alle cure mediche e c’è grave sotto organico del personale educativo”. Tutti problemi importanti, ma che purtroppo con cui si convive da anni, ovvero da quando a Palazzo Chigi non c’era quella destra di Meloni, oggi bersagliata. A far discutere sul tour della paladina delle occupazioni, però, è soprattutto l’incontro con Luigi Spera, il pompiere siciliano accusato di terrorismo, che lei tranquillamente chiama “il compagno di Palermo” e per il quale chiede di “far convergere le energie solidali”. Speriamo per lui che siano come quelle del ministro Tajani, che l’hanno nei fatti tirata fuori dalle prigioni di Orban o come quelle dei suoi amici di Avs, che hanno messo nel cassetto il suo passato e pur di salvarla dalla giustizia ungherese l’hanno portata direttamente nel palazzo più importante d’Europa. Ultimo strano ritorno è quello della senatrice Ilaria Cucchi. Dopo mesi e mesi di silenzio, torna a fiatare e seguendo, a telecomando, quanto professato dagli amici di partito, senza se e senza ma, bersaglia la premier e il sottosegretario Del Mastro che questa estate avrebbe fatto il giro delle carceri “solo per farsi dei selfie con gli agenti, che però ormai si sentono presi in giro”. La situazione degli istituti penitenziari, a suo parere, è “sotto gli occhi di tutti. Il governo non sta facendo nulla per affrontare il problema. Anzi, lo usa come discarica sociale”. Ovviamente anche per lei il classico giro tra le sbarre, con tanto di book fotografico in quel di Villa Fastiggi a Pesaro: “Una struttura - spiega - che presenta diversi problemi e mancanze a cui gli agenti di polizia, gli operatori e i volontari sopperiscono come possono. Le condizioni di vita dei detenuti e delle detenute non sono migliorate”. Non viene, però, ricordato che quell’edificio da lei visitato aveva le stesse difficoltà anche non c’era a Palazzo Chigi questa maggioranza. Ecco perché c’è più di qualche malpensante che ritiene che quella che una battaglia più condivisibile sia stata strumentalizzata da chi non sapendo cosa dire, prova a cavalcare ogni onda, anche di chi ha bisogno di fatti e non di ulteriori note stampa. Sarebbe, piuttosto, interessante capire perché per anni, chi dice di essere garante non ha mosso un dito affinché la situazione di disagio cambiasse e non si arrivasse a quella che, oggi, viene considerata una vera e propria emergenza. La notte del garantismo e i pregiudizi di genere della giustizia italiana di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 2 settembre 2024 A volte, per capire a che punto è la notte del garantismo nel nostro paese, bastano piccoli episodi relegati nella cronaca ordinaria del pettegolezzo. Prendiamo due vicende apparentemente slegate e che invece sono connesse, ed eloquentemente emblematiche. La prima riguarda un austero manuale di diritto privato, giunto a una sua ultra-ventennale edizione in cui l’autore, il professor Francesco Gazzoni, emerito della materia all’Università di Roma, ha lamentato testualmente che “i magistrati entrano in ruolo in base a un mero concorso per laureati in giurisprudenza e appartengono in maggioranza al genere femminile, che giudica non di rado in modo eccellente, ma è in equilibrio molto instabile nei giudizi di merito in materia di famiglia e figli”. Gazzoni con vero sprezzo del pericolo si addentra in una materia scivolosa e difficile suscitando vigorose reazioni di suoi colleghi e della Associazione nazionale magistrati, il cui vigile presidente Giuseppe Santalucia ha stigmatizzato (definendole “stupide”) le “espressioni che al contempo avviliscono e indignano, mortificando chi le ha pensate, chi le ha scritte e chi ha ritenuto di pubblicarle”. La provocazione del professor Gazzoni indubbiamente pecca di un eccesso di sintesi e di incontinenza verbale. Egli pone l’accento in particolare su un presunto monopolio della componente femminile della magistratura nella giurisdizione sulle vertenze familiari. Le relative sezioni dei tribunali civili, argomenta, sono rette da donne che risentirebbero nelle loro valutazioni di “un equilibrio molto instabile”, in quanto presumibilmente influenzate in molti casi dalla loro stessa natura e condizione familiare. Invero curioso che il professor Gazzoni ritenga che nessun pregiudizio possa affliggere il magistrato pater familias alle prese pure lui con i suoi privati drammi familiari ormai così diffusi. Sia consentito dissentire e osservare che il focus della critica di Gazzoni è errato. Non c’entra nulla la componente di genere femminile che ormai è maggioranza in tutte le branche della magistratura (a Roma e Milano le sezioni penali ad esempio sono prevalentemente composte da donne). Il punto semmai, qui se ne è scritto diverse volte, riguarda l’applicazione di una certa giurisprudenza in materia non solo di diritto di famiglia ma ad esempio anche per i reati sessuali monoliticamente a favore della vittima reale o presunta e delle ragioni della donna intesa come l’anello debole della relazione familiare-affettiva. Ciò non ha a che fare con “l’equilibrio instabile” femminile ma piuttosto con l’affermazione di un preciso indirizzo culturale culminato nella fioritura di movimenti d’opinione come il MeToo e come diversi altri a tutela delle minoranze di genere. Si è originata così una corrente di giurisprudenza tropo spesso irrigidita su stereotipi di genere e pregiudizi che rendono difficile ormai la tutela degli interessi delle controparti maschili nelle vertenze civili e penali. Un eloquente esempio (ed è il secondo caso) è una vicenda che coinvolge una autorevole coppia di giornalisti per i quali la procura di Roma ha richiesto recentemente l’archiviazione di una infamante accusa di violenza sessuale di gruppo in danno di una collega. Il difensore della denunciante si è opposto lamentando la mancata applicazione del codice rosso, vale a dire della normativa che costituisce la concreta applicazione del prevalente indirizzo culturale in favore della vittima. A Roma una donna, apprezzata sostituto in procura, ha ritenuto di dover disattendere le tesi della vittima ritenendo non sia sufficiente la sua sola parola per incriminare gli indagati. Questa è un’ottima notizia per un garantista perché si oppone a un pregiudizio di genere che troppe volte si risolve in una condanna anticipata e senza scampo per le ragioni dell’accusato chiamato a dimostrare la sua innocenza con un incostituzionale capovolgimento dell’onere della prova, secondo il più bieco giustizialismo. Si avverte un certo qual imbarazzo in quegli ambienti giornalistici tradizionalmente vicini all’orientamento colpevolista e a un certo intransigente femminismo a senso unico, cui sono vicini peraltro gli stessi protagonisti della spiacevole vicenda. Se tale lacerante vicenda susciterà un’opportuna riflessione sull’iniquità di un sistema e di un orientamento culturale appiattito sul pregiudizio di genere una volta tanto non in danno dell’ennesimo indagato fascistoide ma di una coppia di onesti progressisti il rumore suscitato da Gazzoni sia pure con espressioni inopportune e sbagliate paradossalmente servirà alle ragioni del diritto. Strage di Paderno Dugnano, Matteo Lancini: “Ecco perché potrebbe capitare anche a noi” di Andrea Siravo La Stampa, 2 settembre 2024 Lo psicologo: “Tutti cercano i segnali premonitori. Non dobbiamo mai smettere di dare voce alle emozioni anche quelle più disturbanti dei nostri ragazzi”. “Sin dall’inizio sembrava non reggere il racconto del ragazzo. Fortunatamente stragi così gravi capitano raramente. Anche in casi in cui non è stato portato a compimento il progetto omicidiario sappiamo che queste vicende hanno a che fare con ciò che accade all’interno della famiglia. Ognuna di esse ha delle caratteristiche uniche e specifiche che difficilmente si possono generalizzare”. L’auspicio di Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano, è che la strage famigliare di Paderno Dugnano diventi un’occasione di riflessione più ampia sul tema del disagio giovanile. Lancini, allo stato non sembra esserci un movente chiaro dietro la scelta del ragazzo di annientare all’improvviso la propria famiglia. Come si spiega tanta violenza? “Sempre più spesso i fatti di cronaca e il lavoro quotidiano che facciamo anche al centro Minotauro ci restituiscono un quadro di ragazzi che faticano enormemente a esprimere gli aspetti emotivi, i conflitti e i sentimenti più disturbanti relativi al proprio contesto familiare e amicale in qualche cosa che diventi simbolo, parola e condivisione. La relazione viene annullata e si ricorre al gesto disperato”. Dai primi riscontri sembra che il 17enne non avesse problemi di natura psichica o di tossicodipendenza. Chi lo conosceva lo ha descritto “l’ultima persona dalla quale ti aspetteresti una cosa del genere... “Bisogna attendere le perizie e tutti gli accertamenti della procura e del tribunale minorile. Senza dubbio ci troviamo davanti a un disagio e un dolore mentale che, però, non necessariamente possiamo subito attribuire a una psicopatologia”. L’esercizio della violenza, come in questa tragedia, è stato commesso attraverso un coltello. Non un caso isolato come dimostrano i recenti dati... “L’uso da armi da taglio tra i giovani è sempre più diffuso. Anche in età anticipata e tra ragazzi provenienti da contesti socio-economici non svantaggiati, come nella vicenda di specie, che regolano le vicende emotive attraverso l’utilizzo di quest’arma. Il ragazzo ha agito con gesto particolarmente violento e ripetuto. Prima contro un bambino di 12 anni e poi contro una madre e un padre”. Nella prima chiamata al 112 il 17enne ha detto di aver ucciso solo il padre incolpando lui dell’omicidio della madre e del fratello più piccolo. Quale può essere il motivo? “L’essere umano, quando è di fronte a esperienze anche meno drammatiche e devastanti di questa, reagisce attraverso dei meccanismi che sono di difese emotive in cui ognuno prende il proprio percorso. Sono delle difese difficili da comprendere e a cui attribuire un significato. Posso solo dire che spesso non sono premeditate e strutturate”. Quando accadono queste vicende così tragiche ci si interroga, soprattutto quando tra genitori, se ci sia un modo per cogliere un disagio prima che sia troppo tardi. Esistono dei segnali premonitori? “Tutti lo cercano ex post in tragedie così inimmaginabili, come quando un adolescente si suicida. L’unica risposta, che spesso non piace agli adulti, ma che possiamo trarre da queste vicende è che non dobbiamo mai smettere di dare voce alle emozioni anche più disturbanti che hanno i ragazzi. Oggi abbiamo più che mai la necessità di partire da questa terribile vicenda per parlarne e fare in modo che i propri figli esprimano il proprio pensiero sul gesto e anche lasciarli dire delle cose che ci possano disturbare e non vorremmo sentire”. Quindi censurare e far finta di nulla non è l’approccio corretto? “Dobbiamo trasformare questa terribile vicenda in un’occasione di sviluppo, crescita e possibilità di mettere in parola. Quando si consente a un adolescente di verbalizzare il proprio stato d’animo non vuol dire che gli si dà ragione solo perché lo si ascolta. Vuol dire gli si dà legittimità di parola e di pensiero, qualunque esso sia. Ed è meglio qualsiasi parola, anche la più disturbante, che un gesto violento dal quale non si torna più indietro. Più che mai oggi, in questa grande crisi valoriale, c’è bisogno di puntare tutto sulla relazione, ma una relazione capace davvero di identificarsi con l’altro”. In questa prospettiva sembra che alle famiglie sia lasciata tutta la responsabilità. Non servirebbe un aiuto anche dal sistema scolastico? “Si parla da anni di una psicologia strutturata a scuola. Serve una figura di psicologo di comunità e di integrazione che collabora alla creazione di una comunità di ascolto che comprenda anche genitori e insegnanti. Tuttavia, il problema è che si può fare di più, solo se ci sono degli investimenti. La verità che, di fatto, c’è un disinteresse nella salute mentale di sistemi scolastici in generale ma soprattutto nei giovani. Ci sarebbe moltissimo da fare, però è un discorso politico”. Ammaniti: “La fantasia di eliminare i genitori è ricorrente, poi scompare. Ma in rari casi si trasforma in ferocia” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 2 settembre 2024 Lo psichiatra sulla strage familiare di Paderno Dugnano: “È un pensiero che può annidarsi nella mente degli adolescenti in quella fase di vita, spesso conflittuale: alcuni vedono madri e padri come ostacoli alla loro libertà. È quel che avvenne per Erika e Omar”. “La fantasia di sopprimere i genitori, vissuti come un ostacolo per la propria libertà, è un pensiero che si annida, a volte, nella mente degli adolescenti. Lo spiega con chiarezza Winnicott, lo sappiamo, è un tema ricorrente, simbolico, che resta naturalmente a livello di fantasia e poi scompare, crescendo. Ma ci sono casi invece, penso a Erika e Omar, penso a questo ragazzo di Paderno Dugnano, nei quali con ferocia inaudita degli adolescenti scelgono di dare corpo a questo pensiero. Il risultato è la strage che abbiamo sotto gli occhi”. Non è facile, nemmeno per uno psichiatra come Massimo Ammaniti, trovare una spiegazione al gesto di un diciassettenne che stermina a coltellate la famiglia. Professore, cosa c’è nella testa e nel cuore di quel ragazzo? “Come possiamo dirlo? Però accade. Sempre più spesso. Anche in situazioni che sembrano, apparentemente, serene. Tra i minori assistiamo a un incremento esponenziale della violenza, in famiglia, nel gruppo, contro le donne. C’è una assuefazione alla ferocia, amplificata dai social che hanno fatto cadere la barriera tra vita reale e vita immaginata”. Forse non conta ma è un dato di cronaca. Tutto il paese oggi dice: “Era una famiglia serena, senza problemi economici, e lui un ragazzo tranquillo”... “Infatti non conta. Questa violenza può esplodere ovunque, non è figlia del disagio. Torno, ancora, a Erika e Omar, vivevano in un contesto borghese. Eppure uccisero con 40 coltellate Susanna, la mamma di Erika, e il fratellino. E Pietro Maso aveva 18 anni quando assassinò i genitori e non viveva in un contesto disagiato”. Questo ragazzo ha infierito sui corpi con decine di coltellate. In particolare sul fratellino... “Una volta deciso di realizzare quella fantasia di morte la violenza diventa fine a se stessa, un modo, terribile, per scaricare la rabbia”. Avrebbe detto che si sentiva oppresso dalla famiglia, voleva essere libero... “La fantasia della soppressione dei genitori nasce proprio dal senso di limitazione che gli adolescenti provano in quella fase della vita, quando tutte le regole sembrano imposizioni. O dalla rabbia se si percepiscono inadeguati rispetto alle aspettative, se provano umiliazione. Però, come dicevo, si tratta di fantasie”. Ombre della mente e del cuore che tali restano fino a quando però un ragazzino non le mette in pratica. In questo caso, poi, il 17enne aveva provato a sviare le indagini, dicendo di aver ucciso il padre perché lui, il padre, aveva ammazzato la moglie e l’altro figlio... “In questi soggetti il tentativo di organizzare il delitto perfetto dura poco. Piano piano il ragazzo parlerà, ma non è detto che spieghi perché ha sterminato la sua famiglia, sempre che un perché ci sia”. Parlerebbe di follia? “Francamente no, dobbiamo essere cauti, pur nello sgomento”. Omessa notifica del decreto di fissazione udienza configurabile una nullità a regime intermedio di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2024 Nel caso di nomina di due difensori il decreto di fissazione dell’udienza camerale deve essere notificato ad entrambi. Lo afferma la Corte di cassazione con la sentenza 32599 depositata il giorno 14 agosto 2024. Il caso di specie trae origine dall’emissione di un’ordinanza da parte del Tribunale del riesame di Sondrio tramite la quale veniva confermato il decreto di sequestro preventivo diretto e per equivalente di alcuni beni in disponibilità dell’indagata. Si trattava di un provvedimento ablatorio emesso nel corso di un procedimento diretto alla contestazione di numerosi reati tributari. Ricorreva il difensore dell’imputato deducendo in apposito motivo di ricorso la violazione della legge processuale e del diritto di difesa conseguenti alla mancata comunicazione del decreto di fissazione dell’udienza camerale ad uno dei difensori nominati dall’indagata. Il procedimento dopo avere compiuto il proprio corso veniva deciso con il provvedimento qui in commento. La motivazione della sentenza qui in commento presenta un certo interesse in relazione alla natura della questione decisa ed alle conclusioni raggiunte. Il caso di specie si caratterizzava per la contestuale nomina di due difensori da parte dell’indagata. Tuttavia a seguito di un errore compiuto da parte dell’autorità procedente il decreto che fissava l’udienza camerale veniva notificato solo ad uno dei difensori nominati. Si trattava di una vera e propria omissione conseguente ad un errore nella lettura degli atti del processo in quanto la presenza del difensore al quale non era stato notificato il decreto di fissazione dell’udienza, era comunque nota all’autorità procedente in quanto essa aveva in precedenza provveduto a notificargli un verbale di perquisizione relativo al medesimo procedimento. Da ciò non poteva che conseguire, osservano gli ermellini un obbligo di informazione per l’autorità procedente che le imponeva di dare corso alla notifica del decreto nei confronti di entrambi i difensori nominati da parte dell’indagata. Nel caso di specie la comunicazione aveva avuto corso solo nei confronti di uno dei due difensori conseguendone una palese violazione del diritto di difesa dell’indagata che avrebbe dovuto essere garantito con la comunicazione ad entrambi i professionisti della fissazione di un imminente udienza camerale. La violazione non poteva comunque essere ovviata da parte della comparsa dell’altro difensore adeguatamente informato nel corso dell’udienza camerale. Nel caso di specie proseguono i giudici della Corte di cassazione, infatti l’imputata durante l’esercizio del suo diritto di difesa ed al fine di garantirlo in maniera più adeguata aveva provveduto ad una duplice nomina. Il conferimento dell’incarico a due difensori pertanto costituiva un aspetto del diritto di difesa e come tale avrebbe dovuto essere tutelato nel corso dell’intero procedimento. La sua garanzia imponeva all’autorità procedente di comunicare ad entrambi i difensori l’imminente svolgimento dell’udienza camerale. Da tali considerazioni i giudici della Corte di cassazione ricavano una importante conclusione circa gli effetti della mancata comunicazione del decreto. Ci trova in presenza di una nullità di regime intermedio. Si tratta di una categoria di invalidità che si colloca in posizione in un certo senso intermedia tra quelle denominate come assolute e quelle invece definite come relative. Esse si connotano per una specifica caratteristica conseguente alla natura ed alla funzione delle disposizioni violate. In linea di massima si parla infatti di una nullità a regime intermedio nel caso in cui l’invalidità tragga origine da una violazione di norme poste a tutela del diritto di rappresentanza dell’imputato. Dalla mancata informazione deriva infatti una violazione del diritto di difesa dell’imputato pertanto l’invalidità appartiene alla categoria delle nullità a regime intermedio. Da tale qualificazione discende una conseguenza di non poco conto circa la sua rilevabilità nel corso del processo. Infatti anche se la normativa non esclude che essa possa venire rilevata d’ufficio da parte del giudice, sarà onere della parte interessata sollevare nel corso del giudizio la relativa eccezione circa la sua presenza. In altri termini sarà onere del difensore informato e comparso rappresentare al giudice investito del procedimento il difetto in atti della prova circa la comunicazione anche all’ altro difensore effettivamente non comparso. La mancata rilevazione d’ufficio o su di una istanza di parte determina una importante conseguenza circa i suoi effetti nel corso del procedimento. Nel caso infatti in cui essa non venga rilevata non si produrrà più alcun effetto potendo la stessa considerarsi come sanata. Il ricorso viene pertanto accolto ed il provvedimento emesso in sede di merito annullato. Reggio Emilia. Suicidio in carcere, l’avvocato Scarcella: “In atto una strage di Stato. La misura è colma” di Gabriele Gallo Il Resto del Carlino, 2 settembre 2024 Dopo la tragedia del cuoco 54enne, padre di due figli, che si è ucciso alla Pulce “Liberazione anticipata e incentivo delle misure alternative alla detenzione”. “Non conosco il detenuto che si è tolto la vita, i particolari della vicenda, per la quale è stato peraltro aperto un fascicolo di indagine, ma mi è sufficiente quello che è noto per affermare senza esitazioni che è in atto una strage di Stato”. Così l’avvocato Luigi Scarcella, presidente della Camera penale di Reggio Emilia, dopo che un uomo di 54 anni di origine marocchina, detenuto alla Pulce per un cumulo di pena per furti, rapina e resistenza a pubblico ufficiale, si è tolto la vita nella serata nella sua cella, giovedì scorso. Gli restava all’incirca un solo altro anno di reclusione da scontare. È il settimo caso di suicidio carcerario in Emilia Romagna e il 67esimo in Italia dall’inizio dell’anno. Il 54enne, padre di due figli, era molto conosciuto tra carcerati e secondini, anche perché faceva il cuoco nelle cucine del penitenziario e gli rimaneva più o meno un altro anno di reclusione da scontare. “L’ennesimo suicidio - commenta Scarcella. Il 10 luglio scorso, in occasione della maratona oratoria sul tema, dal titolo ‘Non c’è più tempo…’, le persone che si erano tolte la vita - mentre erano affidate nelle mani dello Stato - erano 54. Oggi, siamo arrivati a 67, l’ultimo dei quali presso il nostro carcere cittadino - sottolinea. La misura non è colma, molto di più”. E punta l’accento sulla vita dietro le sbarre, sia dei carcerati che del personale impiegato: “Le condizioni detentive sono talmente inumane e degradanti che si tolgono la vita anche coloro che partecipano all’attività rieducativa e hanno un residuo pena breve (quale pare fosse anche la condizione del signore detenuto in città). A fronte delle condizioni in cui è costretto a operare chi il carcere lo vive e ci lavora (polizia penitenziaria, educatori e sanitari), occorrono interventi seri, ora, non l’ultimo, inefficace, “decreto carceri”. Si cominci, subito, con l’approvazione della liberazione anticipata speciale, di modo da scarcerare chi ha un residuo pena breve ed è meritevole del beneficio. Si abbia il coraggio di affrontare seriamente il tema indulto/amnistia, così da risolvere immediatamente l’ingravescente sovraffollamento”. Non solo. “Ragionando poi in una prospettiva di medio termine, occorre una riforma del sistema esecutivo penale che abbandoni l’attuale visione “carcerocentrica” e volga lo sguardo verso l’incentivazione delle misure alternative alla detenzione, che, è certo, abbattono il pericolo di recidiva. La detenzione in carcere deve essere rispettosa dell’art. 27 della Costituzione, consentendo a tutti attività di istruzione, lavorativa e di cura, di modo da restituire alla società un soggetto migliore. O, quantomeno, che abbia ancora voglia di vivere - incalza l’avvocato Scarcella -. Non c’è più tempo. Per questo, la Camera Penale di Reggio Emilia, oltre a proseguire nella propria attività di denuncia, continuerà a dialogare con tutti i soggetti, istituzionali e non, e a partecipare a qualsiasi iniziativa utile per la risoluzione di questo dramma”. Milano. Ipm Beccaria, nuova rivolta: “Tutti e 58 i ragazzi detenuti coinvolti, ma l’evasione è fallita” di Matteo Castagnoli Corriere della Sera, 2 settembre 2024 Materassi a fuoco e lenzuola annodate, 8 feriti. In quattro tentano di scavalcare il muro di cinta ma non ci riescono: trovati dalla polizia ancora all’interno. I sindacati: ora interventi urgenti. Un lungo lenzuolo bianco annodato e steso all’ingresso del carcere minorile Beccaria. Mancano un paio di minuti all’una di notte tra sabato e domenica quando gli agenti srotolano quello “strumento artigianale” costruito dai detenuti per evadere. Un tentativo, però, fallito. La polizia penitenziaria interviene subito, quando scatta l’allarme per un principio d’incendio in alcune celle, poco prima delle 21 di sabato. All’appello, dei 58 ragazzi detenuti ne mancano quattro. Uno viene rintracciato poco dopo l’inizio della protesta, gli altri vengono trovati alla fine di ricerche durate tutta la notte fino a domenica mattina quando “tutto era rientrato”. Protesta finita all’estrema periferia ovest della città, in via dei Calchi Taeggi. Il perimetro del carcere è stato cinturato da volanti della polizia e da pattuglie dei vigili per ore. Gli agenti con torce hanno cercato tracce di eventuali fuggiaschi, mentre dalle celle e dall’interno delle mura arrivavano grida. I quattro avevano provato a scavalcare le mura di cinta ma senza riuscirci. “Tre sono stati trovati mentre erano nascosti nel perimetro del carcere”, all’interno, precisa in una nota il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. Dunque nessuna evasione. Tutto era partito da alcune fiamme partite da dei materassi. Per questo fuori dal Beccaria s’erano precipitati anche i vigili del fuoco. “Nel corso dei disordini, avrebbero preso parte tutti i 58 reclusi presenti”, ha spiegato Gennarino De Fazio, segretario nazionale del sindacato Uilpa della polizia penitenziaria. Alla fine il bilancio è di otto detenuti feriti, di cui uno portato in ospedale e ora piantonato a vista, oltre ad alcuni danni strutturali ma “senza conseguenze irreparabili”. “Una notte di ordinaria follia” ha concluso De Fazio. Ma non era di certo la prima volta. Il carcere per minorenni Cesare Beccaria, anche al centro di un’inchiesta della Procura che ha portato all’arresto di 13 agenti per presunte violenze e torture, nei mesi scorsi è stato protagonista di altri disordini simili, alcune finite con evasioni di detenuti poi presi. L’ultima, undici giorni prima. Tra il 20 e il 21 agosto, sempre intorno all’1 di notte, era stato bruciato un materasso. Quella volta cinque agenti della penitenziaria e tre detenuti erano stati portati in ospedale per una leggera intossicazione. Copione simile a luglio e a giugno. E così, dopo l’ennesimo caso, scoppia la polemica. Da un lato sindacati e politici degli schieramenti di opposizione chiedono interventi urgenti e i radicali italiani parlano di “fallimento dello Stato” e chiedono la “chiusura” dell’istituto; dall’altro invece il deciso “No” del governo. “Non intravediamo alcun segnale, nel merito delle carenze di strutture e di gestione del personale penitenziario e non - tuona il segretario generale del sindacato di Polizia Penitenziaria Aldo Di Giacomo -. Il recente decreto carcere testimonia come il Governo sia lontano mille miglia dai veri problemi delle carceri e ancor più lontano da quelli del personale penitenziario”. Controbatte Riccardo De Corato, deputato di Fratelli d’Italia ed ex vicesindaco di Milano: “Nessun passo indietro rispetto alle rivolte del Beccaria. Cedere a queste, come vorrebbero i radicali che ne chiedono la chiusura, vorrebbe dire dare ragione alla delinquenza minorile. Ai giovani va ora dato un segnale chiaro, chi sbaglia paga”. Milano. Ipm Beccaria, l’ultima rivolta di un’estate bollente: danni alla struttura e dieci feriti di Nicola Palma Il Giorno, 2 settembre 2024 Quattro detenuti hanno tentato di allontanarsi: uno è stato riacciuffato subito, altri tre sono stati trovati sui tetti dell’istituto. È iniziata col fuoco - un piccolo incendio in cella, materassi o quel che si trova - anche la rivolta di sabato sera all’Ipm (Istituto penale minorile) Beccaria di Milano. L’ultima di una serie che s’è intensificata in questa calda estate, nonostante l’immissione progressiva di almeno una cinquantina di agenti (seguita alla sospensione, a primavera, di 21 poliziotti penitenziari accusati di torture e violenze ai baby detenuti) e la riduzione dei reclusi da 92 ai 58 che avrebbero partecipato “tutti” a “gravissimi disordini” e una “tentata evasione di massa”, denunciava Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato UilPa Polizia penitenziaria, mentre l’istituto veniva cinturato in forze dalla polizia di Stato e dai carabinieri. Il bilancio - Oltre a vigili del fuoco e ambulanze per una decina di contusi non gravi tra agenti e detenuti, uno dei quali è finito in ospedale piantonato fino alle 8 del mattino da personale della Questura “per mancanza di operatori della Penitenziaria”, chiariva De Fazio, diramando, intorno alle sei del mattino, il bilancio della “notte di ordinaria follia”, che solo “grazie alla straordinaria opera delle donne e degli uomini della Penitenziaria presenti e intervenuti liberi dal servizio” non ha avuto “conseguenze irreparabili”, benché si registrino “ingenti danni alla struttura”. Gli “scomparsi” rintracciati - Nel caos generale, “diversi detenuti hanno tentato di evadere e ben quattro sono riusciti a scavalcare il muro di cinta”, ricostruisce il segretario della UilPa Penitenziaria: uno è stato subito bloccato, altri tre sedicenni di origine nordafricana - uno era già evaso dal Beccaria a metà giugno - sono stati irreperibili per diverse ore, le foto segnaletiche distribuite alle macchine delle forze dell’ordine di pattuglia in città finché non sono stati rintracciati “sui tetti, ma sempre all’interno del penitenziario, dopo qualche ora”. Al Beccaria sono state pure trovate delle “lenzuola annodate” ma “nessuno è riuscito ad evadere”, preciserà De Fazio dopo una nota del dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità del ministero che sostiene che “non vi è stato alcun tentativo di evasione”, confermando invece “ingenti danni” e “tre detenuti nascosti nel perimetro murato del carcere”. Insomma non si è ripetuto il copione di Natale 2022, quando sette reclusi tra i 17 e i 19 anni (tutti rientrati alla base o riacciuffati in qualche giorno) scapparono dal campo di calcio approfittando del cantiere che al Beccaria va avanti da oltre tre lustri, complici danni che s’aggiungono di rivolta in rivolta. Estate bollente - Sabato erano passati appena dieci giorni dagli ultimi disordini, nella notte tra il 20 e il 21 agosto, durante un’evacuazione sempre a seguito del rogo di un materasso. Il 7 luglio altro incendio, alcune celle inagibili, un agente e due reclusi lievemente intossicati; il 14 giugno l’evasione di due sedicenni, all’indomani del ritrovamento di dosi di hashish e di un cellulare in carcere da parte della Penitenziaria. Era la terza in meno di un mese: il 19 maggio un fuggitivo era stato preso appena uscito dal carcere, il 30 maggio un altro s’era dato alla macchia durante il trasferimento in comunità seguito ai disordini del giorno prima, quando cinquanta detenuti s’erano ribellati a un’ispezione antidroga barricandosi in un’ala dell’istituto, e c’erano volute tre ore per calmarli. Neanche tre settimane prima, tra il 5 e il 6 maggio, altra rivolta: materasso bruciato, danni e, in quel caso, pure aggressioni verbali ai soccorritori del 118. Milano. Ipm Beccaria, l’estate dei veleni di Giulia Bonezzi Il Giorno, 2 settembre 2024 Gli agenti arrestati. Poi 5 rivolte e 4 evasi in appena quattro mesi. L’ira dei sindacati della Penitenziaria per l’inchiesta sui presunti abusi. Nonostante l’arrivo di 50 nuovi poliziotti e la riduzione dei reclusi. secondo i rappresentanti dei lavoratori l’Ipm va commissariato. Quattro rivolte e quattro evasioni-lampo in quattro mesi. Senza contare i disordini di sabato notte e i quattro baby detenuti che avrebbero tentato la fuga, tre rimasti irreperibili per ore con tanto di foto segnaletiche diramate a tutte le auto finché non sono stati trovati, forse sui tetti, comunque all’”interno del perimetro murato del carcere”, rimarca il dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità smentendo che vi sia stato sabato “alcun tentativo di evasione” dall’Istituto penale per minori Beccaria di Milano. Unica nota ufficiale in una ricostruzione per il resto affidata, come sempre, ai sindacati della Polizia penitenziaria, che denunciano una situazione “letteralmente allo sbando” nelle parole di Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa Pp, che al Beccaria era emersa con clamore a seguito della maxi-evasione del giorno di Natale del 2022 (sette detenuti tra i 17 e i 19 anni scappati dal cantiere e rientrati nel giro di qualche giorno). Ma che alle cronache appare precipitata soprattutto dopo il terremoto dello scorso 22 aprile, tredici agenti della Penitenziaria arrestati e altri otto sospesi, accusati di torture e violenze nei confronti dei baby reclusi in un’inchiesta condotta dai colleghi con la squadra mobile della Questura e coordinata dall’aggiunto Letizia Mannella e dalle pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena della Procura di Milano. Cinque episodi a maggio tra rivolte, evasioni e il tentativo di strangolamento di un agente da parte di un detenuto con problemi psichiatrici; due a metà giugno, quando la Penitenziaria trova hashish e un cellulare in carcere e, due giorni dopo, due sedicenni riescono a scavalcare le recinzioni e scappare in metrò: uno è un ragazzino di origini marocchine, residente con i genitori nel Comasco, che era pure fra i tre che l’altra notte si sono nascosti per ore all’interno del minorile di via dei Calchi Taeggi. Terza notte di “ordinaria follia”, per dirla con De Fazio, con materassi incendiati e disordini durante la conseguente evacuazione, in meno di un mese e mezzo, dopo gli episodi del 7 luglio e del 21 agosto. Il segretario della UilPa Pp si rivolge al guardasigilli Carlo Nordio, chiedendo “un cambio di passo” con “immediati provvedimenti tangibili, a cominciare dal deflazionamento della densità detentiva e dal potenziamento dei presidi di sicurezza, anche rimpinguando gli organici della Polizia penitenziaria, mancanti di 18 mila unità” e, per gli istituti penali minorili, di “ripensare la scelta” di tenervi detenuti “fino ai 25 anni d’età”. Alcune di queste cose, come la riduzione dei reclusi rispetto ai 92 di primavera e l’esclusione dei maggiorenni ad eccezione dei neodiciottenni, sono state tentate al Beccaria dopo gli arresti degli agenti, che ieri sono stati tirati in ballo da altri sindacalisti della Penitenziaria intervenuti sugli ultimi disordini: “Nessuno può più scaricare una situazione di gravissima emergenza sulla polizia penitenziaria che, invece, con i 13 arresti al Beccaria ha pagato sulla propria pelle le conseguenze maggiori”, ha dichiarato Aldo Di Giacomo, segretario del Spp, chiedendo “di rivedere se non abolire del tutto il reato di tortura che grava come una spada di Damocle sugli agenti, numerosi ancora in stato di detenzione e in numero maggiore sospesi dal servizio”. E Leo Beneduci, segretario dell’Osapp, arriva a proporre la chiusura del Beccaria, che “con 50 detenuti e 124 poliziotti penitenziari nonché oltre 20 ulteriori poliziotti sospesi dal servizio è la dimostrazione pratica delle incapacità e dell’inefficienza del sistema penitenziario italiano compreso quello per i minori”. Un mese fa il Sappe chiedeva invece il commissariamento dell’Ipm, perché “nonostante la sostituzione di direttore (Claudio Ferrari, in carica da dicembre 2023, è il primo in esclusiva dopo anni, ndr) e comandante (proprio il 6 maggio, all’indomani della prima rivolta di questa infuocata primavera-estate, è entrato in carica Daniele Alborghetti, anche lui con un incarico stabile a differenza di chi l’ha preceduto e non era comunque indagata nell’inchiesta della Procura, ndr) e nonostante l’assegnazione di ulteriori cinquanta agenti, non si riesce a riprendere il controllo del Beccaria”, ha detto Alfonso Greco, segretario lombardo del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. A metà agosto il Sappe aveva denunciato il rinvenimento, da parte degli agenti del minorile, di “90 grammi circa di sostanza stupefacente tipo hashish introdotta da un operatore del Beccaria”, e a Ferragosto, “durante la bonifica quotidiana del campo da calcio” di altra “sostanza lanciata dall’esterno”, e una successiva aggressione del poliziotto che l’aveva scovata da parte di alcuni baby detenuti. A gettare altra benzina sul fuoco. Ivrea. Protesta dei detenuti del Reparto Isolamento, chiedono il trasferimento in un’altra struttura Corriere della Sera, 2 settembre 2024 Tensione nel carcere di Ivrea dove sabato i detenuti del reparto isolamento, per chiedere il trasferimento in un’altra struttura, hanno sbattuto le ante degli armadietti dando vita ad una rumorosa protesta. “Nel carcere di Ivrea - commenta Leo Beneduci, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp - la situazione è identica a quella di altre strutture penitenziarie italiane; non riusciamo però a comprendere come mai dal carcere di Ivrea i detenuti responsabili di violenze ed aggressioni nei confronti del personale di polizia penitenziaria non vengono trasferiti e al contrario sono gli agenti aggrediti ad essere spostati d’incarico o sede, quasi a giustificare i comportamenti di maggiore pericolosità da parte dei ristretti”. L’Osapp ribadisce che ancora oggi l’amministrazione penitenziaria non ha designato un comandante di reparto titolare ad Ivrea, privando così gli agenti di un “irrinunciabile punto di riferimento”. Rimini. Nelle celle dove il “garantismo” di Nordio è soltanto una formula vuota di Onide Donati strisciarossa.it, 2 settembre 2024 Tre carceri nello stesso carcere, tre condizioni di vita che partono dalla sezione-modello “Andromeda” e scendono fino alla pessima e degradante sezione 1 passando per la sezione 2 dove la situazione è su standard accettabili se confrontata con la media delle condizioni nelle carceri italiane. Dalle stelle alle stalle in poche centinaia di metri e una decina di porte a sbarre. La Casa circondariale di Rimini è, tutto sommato, un carcere moderno: ha “solo” cinquant’anni ed è nata per la specifica funzione di custodire detenuti maschi, non come adattamento a prigione di rocche e castelli che la storia ha consegnato al demanio statale. Le porte dei “Casetti” - così da queste parti chiamano il carcere che ha assunto il nome dell’omonima frazione - si sono aperte per una delle periodiche visite ispettive dell’associazione radicali di Rimini “Piergiorgio Welby”. Nulla a che fare con le passerelle occasionali di qualche politico, moda del momento a volte per mostrarsi preoccupati per le condizioni delle prigioni ma anche per qualche miserabile esibizione muscolare come quella del sottosegretario Andrea Delmastro che, a Taranto, non ha messo piede nelle celle perché “io non mi inchino alla mecca dei detenuti”. Rimini con i suoi 118 posti “regolamentari” e i 165 “tollerabili” è un carcere piccolo. Sette sezioni in tutto, due delle quali a custodia attenuata. Attualmente i detenuti sono 158, un numero che oscilla giorno per giorno ma resta abbastanza stabile: in estate è condizionato dalla forte presenza turistica che attrae anche il crimine, nei mesi invernali diventa il “refugium peccatorum” di chi commette reati con pena a circa sei mesi per avere un tetto sopra la testa in una cella calda: non sono pochi quelli che preferiscono stare dentro se fuori non hanno nulla. Sembra impossibile ma esiste anche “l’albergo a cinque sbarre”, carcere con inclusa l’assistenza sociale. Un piccolo carcere con detenuti di basso rango criminale - La polizia penitenziaria ha 111 effettivi, dovrebbero essere 150. Le immissioni in ruolo, come in tutte le carceri, avvengono col contagocce e scontano rinunce alte dopo il periodo di prova. Non è un lavoro facile. Circa la metà dei detenuti (82, per la precisione) sconta pene fino a 5 anni, gli altri sono in attesa di giudizio. Metà della popolazione carceraria è straniera, metà è tossicodipendente. L’età media è abbastanza bassa. L’ultimo caso di suicidio risale al 2022. “Ma attenzione - avverte Palma Mercurio, la direttrice dei Casetti - i nostri detenuti sono la punta di un iceberg ben più grande. In provincia di Rimini vi sono altre 650 persone assegnate alle misure alternative al carcere”. Con reati al di sotto di cinque anni di pena è facile immaginare che non vi siano criminali di alto rango. Infatti la polizia penitenziaria asseconda le richieste dei visitatori di girare per le celle. Il gruppo ispettivo, organizzato dal radicale Jacopo Vasini, è abbastanza trasversale, comprende alcuni avvocati, il tesoriere dei radicali, l’assessora del Comune di Rimini Francesca Mattei, il consigliere comunale del Pd Edoardo Carminucci. Dieci persone in tutto. È una immersione completa nel mondo carcerario, nei suoi limiti e nelle sue risorse, nelle sue vergogne e nelle sue speranze. Nell’inferno della sezione 1 certificata “inumana e degradante” - Si inizia dalla sezione 1, una specie di inferno in terra con 31 detenuti, in prevalenza ragazzi, ammassati in celle da 12 metri, quasi tutte da quattro con due letti a castello. I due ispettori penitenziari che ci accompagnano sono chiari: “Qui le carenze della struttura sono tanto grandi da rendere inumana e degradante la vita dei reclusi e difficile il nostro lavoro”. Così inumana e degradante che il giudice di sorveglianza, quando ricalcola la pena e applica i benefici di legge per la buona condotta, aggiunge ai detenuti della sezione 1 un ulteriore “sconto”: un giorno in meno di reclusione ogni dieci giorni passati in quella sezione. La situazione è nota alle istituzioni, al Garante dei detenuti, all’Azienda sanitaria. La direttrice spiega che dipende da un appalto di due milioni, per rifare la sezione, incagliato da anni nelle maglie della burocrazia. Il 2027 potrebbe essere l’anno buono dei lavori per chiudere finalmente questa vergogna. Intanto il caldo è asfissiante, le zanzare non danno tregua. Le celle dei detenuti sono aperte, si dialoga senza filtri e censure. Ne viene fuori uno spaccato potente, quasi pasoliniano per come il contatto dal vivo trascina nel mondo “dei delitti e delle pene”, in un luogo che non può fornire alcun aiuto. La delegazione che ha visitato il carcere di Rimini - Capita di trovare il writer di talento che a Bologna all’ingresso della stazione ferroviaria, in una esplosione creativa probabilmente aiutata da una fase lisergica, ha disegnato centinaia di metri quadrati di graffiti di forte impatto artistico; oppure incroci il ragazzo milanese con una piccola biblioteca fantasy che mette la sua immaginazione in un diario dove illustra la sua detenzione. Sono racconti realistici per destinatari virtuali con un’eccezione: “Ho spedito un solo racconto a quella che era la mia ragazza prima di finire qui dentro. Dopo la mia lettera ha contattato mio padre. Forse la ritroverò una volta fuori di qui, se riuscirò a superare i problemi di droga”. Gli consiglio di depositare le sue opere all’archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano fondato da Saverio Tutino: “Esiste davvero?”, chiede perplesso. Mi piacerebbe che lo facesse, le lettere dal carcere hanno prodotto grandi pensieri. Contemporaneamente si sentono le proteste dei quattro detenuti di una cella, allagati dal sifone del lavandino del bagno che perde: “Ispettore, venga a vedere. Ci vuole un idraulico, noi non siamo capaci a fare la riparazione”. La sezione è un cantiere di rattoppi che in agosto si fermano. Il sifone è da cambiare ma con i magazzini chiusi il pezzo non si trova. La vita di giorno è questa. Di notte è peggio. “La luce viene spenta da fuori, se devi andare in bagno ti devi muovere al buio, l’alba col suo fresco diventa una liberazione”. Di notte se qualcuno sta male non ha assistenza medica. In caso di emergenza, la tutela della salute è affidata alla polizia penitenziaria. Se il caso sembra lieve si aspetta il medico che arriva alle 8 e termina il servizio alle 20. Se sembra grave viene chiamata l’ambulanza e il detenuto portato all’ospedale, ovviamente con la scorta della polizia penitenziaria. “Dobbiamo fare noi una sorta di triage sanitario, cosa per la quale non abbiamo competenze”, dice uno degli ispettori che ci accompagna. Se capitano tre casi in una notte la vigilanza del carcere va in crisi. Condizioni migliore per i “definitivi” della sezione 2 - Sullo stesso piano della sezione 1 c’è la 2 che ospita una quindicina di detenuti con sentenza definitiva. Le condizioni sono decisamente migliori: celle da due, anche queste aperte, docce nel bagno, una situazione più strutturata e rilassata. In comune con la 1 ci sono il caldo e le zanzare. Come nella 1, i detenuti offrono caffè e accettarlo sembra un dovere, anche se immagini che nelle dotazioni individuali di generi di conforto quel gesto abbia un peso per il recluso. In attesa del sibilo della moka, un albanese sintetizza la sua storia ventennale in Italia, racconta di avere moglie e due figli che lo vanno a trovare ogni settimana agevolati dal fatto che abitano in provincia di Rimini, ma non è facile arrivare fino ai Casetti perché le corse dei bus sono poche. Aspetta il fine pena e dice che fuori righerà dritto. Si passa alla sezione Andromeda, il fiore all’occhiello dei Casetti, oltre la recinzione di cinta del carcere. Dieci detenuti in tutto, nove provenienti dalla tossicodipendenza. Hanno a disposizione due grandi camere da quattro e una da due, un grande salotto in comune, cucina autogestita. È una micro comunità con custodia attenuata e sbarre che vengono chiuse solo di notte. Riceve alcuni aiuti esterni, i reclusi hanno accettato di entrare in specifici progetti individuali. Sanno che se sgarrano sono fuori da quella oasi. Lavorano per un’azienda del territorio che produce telai per porte a scomparsa: assemblano sul tavolo del salotto i kit di piccoli pezzi per il montaggio del prodotto, 4 centesimi e mezzo a confezione che formano un “capitale” elargito sotto forma di generi di consumo, dal caffè, agli alimentari, alle sigarette. Un baratto, insomma. I risultati sono incoraggianti: recidiva bassa, buon successo nel reinserimento sociale. “Quel che manca è la disponibilità degli imprenditori a portare il lavoro in carcere. Eppure è un meccanismo che offrirebbe loro notevoli sgravi fiscali”, dice la direttrice. Ecco, il lavoro. È oramai provato che un’attività professionalizzante in carcere offrirebbe molte opportunità e farebbe calare le recidive. Ma è quello che il territorio, anche per la sua struttura economica piccola e imperniata sul turismo, non sa dare. E intanto il dibattito sui reati si è fermato alla soppressione dell’abuso di ufficio che di celle non ne svuota nessuna e alla introduzione dell’omicidio stradale che le celle le riempie. Della riforma “garantista” di Nordio qui interessa poco, anche agli addetti ai lavori: dietro le sbarre c’è un’umanità disperata di detenuti ignoti che da questo garantiamo per i noti non riceverà mai niente. Napoli. “La tempesta del Teatro” nel carcere di Secondigliano Il Mattino, 2 settembre 2024 Si parte con “La Domanda di Matrimonio e altre storie” di Cechov. Grande attesa per la messa in scena de “La Domanda di Matrimonio e altre storie” di Cechov nell’ambito de “La Tempesta del Teatro”, il nuovo progetto ideato ed attivato dalla Loups Garoux srl di Marta Bifano e Francesca Pedrazza Gorlero, sostenuto dal Comune di Napoli nell’ambito della terza edizione di “Affabulazione”. Il progetto si ispira alla proposta di Legge -”Disposizioni per la promozione e il sostegno delle attività teatrali negli istituti penitenziari” che mira a sostenere l’attività artistica con i detenuti per i suoi effetti tangibili sull’individuo, sulla comunità che abita, e sulla società tutta a cui lo stesso, una volta scontata la pena, verrà restituito con una nuova luce. La Tempesta del Teatro, prevede l’allestimento e la realizzazione di due spettacoli all’interno del carcere Pasquale Mandato di Secondigliano quali appunto La Domanda di Matrimonio ed altre storie di Anton ?echov (4 settembre, con 3 repliche fino al 7 settembre) e “La Tempesta” di Shakespeare che debutterà il prossimo 2 ottobre con repliche fino al 12 ottobre). “Il teatro dentro le mura di Secondigliano allunga lo sguardo verso una società inclusiva”: questo è il messaggio diretto a promuovere l’esperienza di teatro carcere aperto alla città, nell’ambito del laboratorio interno al penitenziario realizzato da un gruppo di artisti sotto la guida di Marta Bifano, che da anni s’impegna per offrire un’opportunità di recupero alle persone recluse. Perché “La Domanda di Matrimonio e altre storie” di Cechov? “Tra tanti testi teatrali che Salvo Lupo e Arianna Bonardi spesso mi propongono da mettere in scena”, dice testualmente Marta Bifano. “Ho individuato il copione di Cechov perché ben si presta ad esaltare l’ironia e la profonda umanità. Così ho deciso di proporlo anche ai detenuti, i quali hanno accolto la proposta di collaborazione, reinventando il testo, originariamente composto da tre personaggi, trasformandolo in un lavoro corale con ben 34 attori sul palco”. Pesaro. A Mondavio si parla del mondo delle carceri ilmetauro.it, 2 settembre 2024 Incontro nel chiostro francescano organizzato da Fuoritempo. Intervengono Monia Caroti e Giorgio Magnanelli. Giovedì 5 settembre alle ore 21 il Gruppo Fuoritempo organizza l’incontro “Il mondo del carcere” presso il Chiostro francescano. Interverranno Monia Caroti, dell’associazione “Antigone Marche” e Giorgio Magnanelli, dell’associazione “Un Mondo a Quadretti”. I suicidi in carcere hanno toccato un picco (60 già quest’anno), il sovraffollamento pure (130 per cento, con punte del 177 per cento nelle prigioni minorili), mentre crescono gli atti di autolesionismo (184 in più rispetto al 2023), le risse, le rivolte. Una condizione che il presidente Mattarella ha definito “straziante”, otre che indegna d’un popolo civile. Del resto lo diceva già Voltaire: “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Durante la serata sarà possibile firmare per richiedere il referendum contro la legge sull’autonomia differenziata. L’iniziativa è realizzata con il patrocinio gratuito dell’amministrazione comunale di Mondavio. L’appuntamento si inserisce all’interno delle iniziative della Primavera della legalità 2024, un calendario che si concentra su temi quali la lotta alle mafie e alla criminalità organizzata, il rispetto dei diritti umani, il carcere e la finalità della pena detentiva, l’educazione alla legalità, la tutela delle garanzie e dei doveri costituzionali. Cremona. Gigi, il ct dei detenuti: “Così faccio del bene” di Gilberto Bazoli La Provincia di Cremona, 2 settembre 2024 Il 76enne Bertoletti, ex litografo e calciatore, da 21 anni è il mister a Ca’ del Ferro.Il suo predecessore ha resistito per pochi giorni. Lui, dopo una vita, è ancora al suo posto, con la stessa passione degli inizi. “È il mio modo di fare del bene”, si schermisce Pierluigi Bertoletti, per tutti Gigi, 76 anni: da 21 è il mister dei detenuti di Ca’ del Ferro. Li allena e allo stesso tempo dirige le loro partite. Li aiuta a crescere come atleti e anche come uomini. Bertoletti faceva il litografo e il calcio è sempre stato il suo secondo mestiere. Un po’ tutti nel settore lo conoscono. “Militavo in Prima Categoria nel ruolo di attaccante. Ho smesso, a parte i tornei notturni e qualche partita, a 23 anni quando mi sono sposato”. Appese le scarpe con i tacchetti al chiodo, ha cominciato a insegnare alle squadre giovanili di mezza provincia. Nella scorsa stagione ha fatto tappa a Castelverde. Non poteva immaginare che tra una società e l’altra si sarebbe imbattuto nel carcere. “Era il 2003: un amico mi ha chiesto di sostituirlo come ct nella casa circondariale. Ci ho pensato qualche giorno, ero dubbioso, confesso che avevo una certa paura”. Ma alla fine ha accettato. “La prima mezz’ora dietro le sbarre la ricordo nitidamente. Un gruppetto di detenuti mi ha circondato: chi è lei, cosa viene a fare qui? Sentivo che riferivano le risposte all’interno delle celle. Adesso, con i nuovi, non ho nemmeno bisogno di presentarmi perché so che gli altri hanno già raccontato tutto di me”. Per quattro mesi, d’estate il mattino e il pomeriggio in inverno, si presenta all’ingresso di Ca’ del Ferro mostrando il tesserino di volontario dell’Uisp (Unione italiana sport per tutti). “È il mio lasciapassare. Non entro nei raggi, li vedo da fuori e resto in attesa sul campo”. Ce n’era un solo sintetico per il calcetto a 5, ora è stato affiancato da un altro in terra battuta per quello a 7. Bertoletti ha molti compiti: allena i carcerati, arbitra gli incontri tra le formazioni delle sezioni interne, sceglie i componenti della ‘nazionale’ per le sfide con le rappresentative esterne. Quelle del mondo fuori: il Comune, le scuole, le canottieri. In genere si gioca a Ca’ del Ferro. Non sempre, però. “Com’è successo al Cral di via Postumia. C’erano 7 detenuti e una trentina di agenti di custodia ad accompagnarli. Ha vinto il Cral”. Terminata la seduta di allenamento, il volontario del pallone si avvia verso l’uscita. “È successo che il secondino mi abbia domandato: da quale cella arriva lei? ‘Sono il mister’, ho risposto”. E la sbarra si è alzata. Racconta divertito un episodio accaduto ai tempi del Calcioscommesse. “Mi sono ritrovato davanti Marco Paoloni (l’ex portiere della Cremonese coinvolto nell’inchiesta, ndr). Ci conoscevamo perché allora lavoravo per la Cremo. Mi dice lui: ‘Cosa ci fai qua dentro’? Io: ‘No, cosa ci fai tu? Io da qui esco’. L’ho poi arruolato nella squadra dei detenuti, non però tra i pali”. Ha avuto a che fare con giovani e meno giovani che forse, se avessero rispettato la legge, avrebbero potuto sfondare. “C’era un centravanti che aveva militato in serie C, e si vedeva. Poi un marocchino che faceva numeri alla Messi e un paio di albanesi che provenivano dalla Seconda Divisione del loro Paese d’origine. Il livello è complessivamente buono, non a caso non abbiamo quasi mai perso”. Quello del carcere è un universo difficile, spesso senza regole. Quelle regole che Bertoletti, nella doppia veste di ct e giacchetta nera, ha cercato di far osservare. “Non ne avevano, facevano tutto come volevano. Penso di averli migliorati limitando l’irruenza degli interventi. I primi tempi molti finivano in infermeria. In linea di massima adesso sono diventati corretti, ma può sempre capitare l’eccezione. Come quel bulgaro che giocava in porta: mi ha riempito di parolacce, non le capivo alla lettera ma non era difficile intuirne il senso. Il giorno dopo i suoi compagni lo hanno mandato da me per scusarsi. È capitato lo stesso con un altro che avevo espulso. Quando qualcuno brontola, non indietreggio: se vi va bene, è così; altrimenti, smettiamo”. La maggior parte sono stranieri. “Qualche problema c’è con il Ramadan: i musulmani non bevono, sono deboli e rendono di meno”. Un commissario tecnico esperto, un ‘fischietto’ paziente e all’occorrenza severo, un uomo ironico che sembra un duro ma è un generoso. “Ho conosciuto tanti che hanno fatto la spola tra dentro e fuori. Se non sono loro i primi a rompere il ghiaccio, a parlare, non chiedo niente. Ho cercato di dare una mano a uno tornato in libertà a trovare una squadra, ma senza avere la residenza e un lavoro è difficile”. In altre occasioni ci è riuscito. “Qualcuno è venuto nella Sospirese dov’ero allora”. Con i reclusi, come pure con gli agenti di custodia, si è instaurato un buon rapporto. “C’era un personaggio che aveva girato non so quanti penitenziari per poi uscire per l’indulto. È diventato mio amico, si confidava con me. Andavo d’accordo anche con un altro che aveva trascorso 23 anni dietro le sbarre. Ce ne sono alcuni che erano in prigione quando ho iniziato io e me li ritrovo ancora qui”. Tra un tiro, un passaggio e un piegamento si scherza. “Una volta mi hanno detto: metta un cartello fuori casa, così non veniamo a rubarle”. Nel 2022 il Coni, durante una cerimonia in Comune, lo ha premiato per il suo impegno encomiabile che alza un ponte tra sport e solidarietà. “È stata una bella soddisfazione”. Ma c’è un altro momento indimenticabile. “Pochi anni fa un immigrato, a nome dei suoi compagni, mi ha regalato un borsone. L’ho aperto: all’interno la maglia della squadra del carcere di Opera e una saponetta. ‘Mi spiace, ma non abbiamo altro’, mi ha detto quel ragazzo”. Il mister si è commosso. Gabbie, rabbia e violenza nella “Familia” di Costabile di Teresa Marchesi Il Domani, 2 settembre 2024 Il film di Costabile è la vera epopea familiare di Luigi Celeste, incarcerato per l’omicidio del padre violento, un gesto di autodifesa e disperazione. È un classico, soprattutto a Venezia: si borbotta (quasi sempre a ragione) sulla selezione italiana in concorso e si protesta perché un film migliore di quelli in corsa per il Leone d’oro è stato relegato in una sezione minore. Tra i “casi” quest’anno brilla Familia di Francesco Costabile, nella sezione Orizzonti. È la vera epopea familiare di Luigi Celeste, incarcerato per l’omicidio del padre violento, un gesto di autodifesa e disperazione. Il romanzo autobiografico Non sarà sempre così è la base del film, che sarà in sala con Medusa dal 2 ottobre. È una storia di botte domestiche e di manipolazioni affettive non diversa da tante altre, ma con il bonus speciale di alcune interpretazioni superlative. Da spettatrice mi ha inchiodato, letteralmente, una scena in apparenza banale, con Francesco Di Leva, il padre, a un baracchino di strada discute col figlio Luigi (Francesco Gheghi) mangiando un panino. Francesco Di Leva ne ha fatta parecchia di strada da quando nel 2019 Mario Martone gli ha messo sulle spalle il peso massimo di Eduardo De Filippo e de Il sindaco del Rione Sanità. Di quel panino bisognerebbe fare tesoro nelle scuole di recitazione. Scherzando mi ha raccontato che i ciak sono stati otto: otto panini. La violenza produce rabbia - E comunque lo standard è alto, Barbara Ronchi è la moglie terrorizzata e incapace di denunciare: quando rilasciano in anticipo il consorte finito in galera l’incubo ricomincia. Quello dei maschi violenti è un veleno che segna la vita dei figli. Perseguitato dall’idea di avere dentro “lo stesso sangue maledetto” del padre Luigi verrà risucchiato da un’orrida formazione neonazista, che Costabile tratteggia con preziosa (di questi tempi) precisione. Ma ci sono gioiellini nascosti di regia, come un dialogo nel Padiglione degli Specchi del Lunapark che cita Orson Welles e La Signora di Shanghai. E c’è emozione, in questo melodramma nero: è merce rara. So che Ficarra e Picone non vogliono che parli del loro lavoro di produttori, ma dietro il film di Costabile c’è anche la loro Tramp LTD. Si sono ben guardati dal dirmelo, l’ho scoperto da me. Dice il regista che la violenza che vivi produce rabbia. “Gigi diventerà a sua volta un uomo violento, avvicinandosi all’estrema destra e facendo del fascismo una religione, una seconda famiglia, un luogo di appartenenza che gli dà sicurezza e conforto”. Forma-carcere - Visivamente, il film ruota intorno alla forma-carcere. Luigi è prigioniero di innumerevoli gabbie, galere che sono innanzitutto emotive. Ed è fisicamente una gabbia l’estrema periferia romana dove il cemento finisce e inizia l’aperta campagna. Introduco di soppiatto una mia storica fissazione: l’estetica è etica, quello che coglie il tuo sguardo ti scava caverne dentro la testa e nel cuore. Familia è un film fatto di quinte, di soglie da superare, impedimenti, geometrie rigide. Anche reagire diventa difficile. I messaggi funzionano solo se fai un buon film, sennò sono sprecati. In questo caso, l’appello alle istituzioni, ad ascoltare ogni minimo segnale, ogni richiesta di aiuto, arriva a destinazione. La storia della famiglia Celeste ci racconta anche questo, secondo il regista: “È quella di una famiglia che viene abbandonata dalle istituzioni e che finisce per implodere su se stessa con le più tragiche conseguenze”. Social, l’adolescenza in rovina: i ragazzi di oggi sempre connessi, quindi depressi e angosciati di Walter Veltroni Corriere della Sera, 2 settembre 2024 “La generazione ansiosa” (in arrivo per Rizzoli il 10 settembre) dello psicologo Jonathan Haidt. Sotto accusa l’abuso degli smartphone e l’iperprotettività dei genitori. Leggevo il libro di Jonathan Haidt “La generazione ansiosa”, colpito in primo luogo dall’esplicito sottotitolo: “Come i social hanno rovinato i nostri figli” quando, a causa di un incendio avvenuto in zona, improvvisamente è saltato ogni collegamento telefonico. Non il wifi, non l’operatore mobile. Nulla. Silenzio. Con quel telefono, che un incendio ha momentaneamente reso un ninnolo superfluo, di solito si può: parlare, scrivere, acquistare, leggere, giocare, controllare il conto in banca, il peso, la cartella sanitaria, scattare fotografie, girare video, ascoltare musica, ordinare cibo, organizzare viaggi, definire percorsi stradali. Tutto in un clic. Tutto tempo restituito alla propria vita. Cose che richiedevano ore, come andare in banca, sostituite da un gesto. Diciamoci la verità: una meraviglia. In teoria, questo oggetto ci restituisce tempo di vita. Ma come lo usiamo noi? Sul cellulare. Un paradosso. Il problema è particolarmente acuto tra gli adolescenti. Haidt, nel libro (Rizzoli, in arrivo il 10 settembre) che molto farà discutere, sostiene che, con l’arrivo dei social, si è progressivamente passati, tra i ragazzi, dalla “generazione del gioco a quella del telefono”. Parla di una “Grande Riconfigurazione dell’infanzia” come “unica e sostanziale ragione alla base dell’ondata di malattie mentali tra gli adolescenti iniziata nei primi anni Dieci del Duemila”. E aggiunge: “La prima generazione di americani che ha attraversato la pubertà con in mano lo smartphone (e internet) è diventata sempre più ansiosa, depressa, soggetta a episodi di autolesionismo e suicidari”. Secondo i dati pubblicati nel libro la depressione tra i ragazzi americani, in questo periodo, è cresciuta del 161% per i maschi e del 145% per le femmine, l’ansia è incrementata del 139% e il tasso di suicidi del 91% tra i maschi e del 167% tra le femmine. È chiaro, almeno per me, che altri fattori - storici, sociali, ambientali - hanno inciso nel profondo sul grado di fiducia nella vita e nel futuro di questa generazione. Dice Haidt: “Il cervello umano contiene due sottosistemi che lo mettono in due modalità: la modalità di scoperta (per approcciare le opportunità) e la modalità di difesa (per difendersi dalle minacce). I giovani nati dopo il 1995 hanno maggiori probabilità di attenersi alla modalità di difesa, rispetto a quelli nati negli anni precedenti. Sono costantemente in allerta in previsione di pericoli, invece che in cerca di nuove esperienze. Soffrono di ansia”. Per Haidt ciò che sta accadendo ha a che fare con la rimozione del gioco, esperienza individuale e collettiva, dalla formazione infantile. “Proprio come il sistema immunitario deve essere esposto ai germi e gli alberi devono essere esposti al vento, i bambini devono essere esposti a ostacoli, insuccessi, shock e inciampi per poter sviluppare forza e autosufficienza. L’iperprotezione interferisce con questo sviluppo e rende più probabile che questi giovani diventino adulti fragili e apprensivi. I bambini cercano il livello di rischio ed emozione per cui sono pronti, in modo da dominare le proprie paure e sviluppare competenze”. Nel libro si denuncia l’iperprotettività dei genitori che, resi ansiosi dalla società della paura, proiettano questi timori sui figli, privandoli della fiducia nel futuro e nel prossimo. “Questo atteggiamento è pericoloso perché rende più difficile per i bambini imparare a badare a sé stessi e a gestire rischi, conflitti e frustrazioni”. Con il paradosso di bambini sottoposti a un ipercontrollo fisico e poi lasciati completamente liberi di vagare nei boschi della Rete. La diagnosi di Haidt delle conseguenze della “rovina” di una intera generazione è durissima. Indica quattro fenomeni. Il primo: la riduzione dei momenti di socializzazione. Le occasioni di incontro tra amici sarebbero, con l’avvento dello smartphone, passate da centoventidue minuti al giorno nel 2012 a sessantasette minuti al giorno nel 2019. Il secondo: “Appena gli adolescenti sono passati dal telefono modello base allo smartphone, il loro sonno è peggiorato in quantità e qualità in tutto il mondo industrializzato”. Il terzo: la frammentazione dell’attenzione. “Gli smartphone sono kryptonite per l’attenzione. Molti adolescenti ricevono centinaia di notifiche al giorno, vale a dire che raramente hanno cinque o dieci minuti per pensare senza interruzioni”. Quarto, e più pericoloso, è la dipendenza: “Molti adolescenti hanno sviluppato dipendenze comportamentali molto simili a quelle causate dal gioco con le slot-machine, con profonde conseguenze per il loro benessere, lo sviluppo sociale e la famiglia”. La dipendenza si manifesta - me lo hanno confermato personalmente degli psicologi infantili italiani - in ansia, irritabilità, insonnia. Il libro si conclude con una serie di saggi consigli a insegnanti, governi, genitori. Ma il problema è reale, di fondo e merita una discussione. Non bisogna accettare il catastrofismo dei nemici delle tecnologie, dei luddisti della evoluzione scientifica, ma cercare, secondo me, di distinguere le opportunità della rete dalle distorsioni dei social. Ci deve preoccupare l’affermarsi di una sollecitazione costante al pensiero puramente binario, alla rimozione della complessità e, ancor di più, dell’accoglienza del pensiero e dell’identità altrui. Il libro di Haidt dovrebbe essere discusso in classe, e letto tra genitori e figli. Spegnendo i cellulari, senza bisogno di un incendio. The Human Library, ecco i libri “viventi” contro i pregiudizi di Paola D’Amico Corriere della Sera, 2 settembre 2024 I volontari sono libri aperti, raccontano a chi li “prende in prestito” storie uniche. Una esperienza nata in Danimarca 24 anni fa, oggi è presente in sei Continenti. In Italia, il progetto è portato avanti dalla Associazione Pandora. È nata in Danimarca, a Copenaghen, nel 2000. In breve, si è diffusa a macchia d’olio in giro per il mondo. Si chiama The Human Library, e qui ad essere presi in prestito non sono i libri ma esseri umani che diventano dei “libri aperti”, raccontano la propria vita come fosse un libro. In questi anni è diventata un’organizzazione e un movimento internazionale il cui obiettivo è affrontare i pregiudizi delle persone aiutandole a parlare con coloro che normalmente non incontrerebbero. In Italia, per esempio, a divulgarla ci pensa l’Associazione culturale Pandora di cui è presidente Sandra Gambassi. A raccontarci come funziona è il responsabile del progetto Paolo Martinino: “Abbiamo iniziato nel 2015 quando siamo entrati in contatto con l’associazione internazionale di cui oggi siamo i referenti per l’Italia - spiega -, abbiamo fatto due convegni a Firenze e a Pistoia e iniziato a creare eventi. Individuiamo persone che possono diventare libri viventi su un territorio, li formiamo, allestiamo l’evento The Human Library, le persone arrivano, scelgono il libro, si siedono davanti alla persona, la ascoltano, dialogano per 30 minuti”. L’obiettivo, infatti, è la costruzione di relazioni tra persone e “gettare un seme - conclude Martinino - e spesso funziona, nascono localmente altre Human Library”. Biblioteca composta dai volontari - La biblioteca è anche itinerante. Perché i libri umani sono composti da volontari che hanno un’esperienza personale con il loro argomento. Spiega Ronni Abergel, uno dei fondatori con il fratello Dany e gli amici Asma Mouna e Christoffer Erichsen e - come si legge sul sito - “offre formazione sulla diversità, l’equità e l’inclusione per le aziende che desiderano incorporare meglio la comprensione sociale all’interno della propria forza lavoro, nonché accrescere la propria consapevolezza culturale per partnership più profonde con i client”. In altre parole, “la Human Library® è un luogo dove le domande difficili sono attese, apprezzate e ricevono risposta”. Un giardino per la libreria di Copenaghen - Prende vita in biblioteche, musei, festival, conferenze, scuole, università di 85 Paesi. “Ospitiamo eventi in cui i lettori possono prendere in prestito esseri umani che fungono da libri aperti e avere conversazioni a cui normalmente non avrebbero accesso. Ogni libro umano del nostro scaffale rappresenta un gruppo della nostra società che è spesso soggetto a pregiudizi, stigmatizzazione o discriminazione a causa del suo stile di vita, della sua diagnosi, delle sue convinzioni, della sua disabilità, del suo status sociale, della sua origine etnica, ecc.”. Ronni Abergel ha anche creato un giardino di lettura per la Human Library. Dopo aver ottenuto il sostegno della città di Copenaghen, il giardino è stato progettato in stretta collaborazione tra un team di volontari della Human Library e l’architetto Tina Vilfan: è un luogo in cui ci si può sedere comodamente e confrontarsi con persone che si sono offerte di essere un libro aperto sulla loro esperienza vissuta. Per un massimo di trenta minuti si può porre qualsiasi domanda sul loro argomento. Come funziona - È un luogo “sicuro in cui esplorare l’umanità, essere coraggiosi - si legge nel sito - e porre domande che possono aiutare a sfidare gli stereotipi e a comprendere meglio la diversità della nostra comunità. I nostri libri accolgono le vostre domande”. I libri vengono catalogati in schede, disponibili sul sito, che riportano la foto del protagonista accompagnata da una frase chiave, dal motivo per il quale la storia sia stata pubblicata e quali pregiudizi/stereotipi si vogliano sconfiggere attraverso di essa e da una fonte che approfondisca il tema trattato, soprattutto se si tratta di disturbi del neuro-sviluppo come l’autismo. Chiunque può diventare un libro umano e mettere gratuitamente a disposizione la propria storia e il proprio tempo. I nuovi poteri tecnologici e il concetto di libertà di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 2 settembre 2024 La rete e la sfida alla democrazia. Ormai da tempo i tycoon delle tecnologie digitali sono diventati più potenti degli Stati. A Capodanno del 2022, giocando a fare previsioni su Twitter (poi divenuta X), Dmitri Medvedev, un tempo presidente russo del dialogo con l’Occidente, ora falco putiniano, immaginò la secessione del Texas e della California dagli Stati Uniti con Elon Musk eletto presidente dell’Unione alla fine di una seconda guerra civile americana. L’imprenditore di Space X e Tesla, che aveva appena acquistato una rete sociale strategica per l’informazione, reagì con ironia e compiacimento. Da allora ha spostato sempre più il baricentro dei suoi interessi dall’industria alla politica. Due anni dopo fa discutere il suo appoggio entusiastico a Donald Trump, l’uso del suo social network e della sua enorme ricchezza per sostenere il candidato repubblicano e denigrare i democratici, anche rilanciando fake news. Ma non si tratta solo della battaglia per le elezioni del 5 novembre: Musk diffonde tra i suoi quasi 200 milioni di follower visioni care alla destra radicale sul razzismo (oggi i perseguitati sono i bianchi), l’identità sessuale e l’immigrazione: il complotto della “grande sostituzione” per trasformare i bianchi in minoranza sottomessa, secondo lui è reale. E Biden ne è il regista. Ma non si tratta solo di Stati Uniti, né solo di Musk: molti analisti avvertono da tempo che i tycoon delle tecnologie digitali sono diventati più potenti degli Stati, anche perché la loro influenza va oltre i confini nazionali e ci investe in vari modi: diffondono opinioni controverse o pure falsità coi loro megafoni e la capacità di manipolare gli algoritmi, ma c’è anche chi veicola messaggi, spesso criptati, di terroristi e criminali che incidono sulla nostra sicurezza. Le cronache delle ultime settimane dovrebbero scuoterci: Musk ha fatto notizia non solo sostenendo che Kamala Harris è ideologicamente una marxista, ma anche parlando ripetutamente di guerra civile inevitabile in Europa a causa dell’invasione di immigrati dal Sud del mondo e alimentando la tensione durante i disordini in Gran Bretagna. E anche quando ha diffuso informazioni sull’identità degli attentatori rivelatesi false, Musk ha rivendicato il diritto di pubblicare tutto: niente censura in nome di una libertà di parola senza limiti della quale si considera sommo sacerdote. Avanti, fino al punto di sfidare, quasi fosse un contropotere, il nuovo premier laburista Keir Starmer. O andando alla guerra con la Corte Suprema del Brasile che ora ha messo al bando X. Scontri anche con altri Paesi, dall’Australia all’India, che gli chiedono di moderare i contenuti immessi in rete: lui non molla e quando moltissimi inserzionisti abbandonano X non volendo trovare la loro pubblicità affiancata a messaggi infami, lui li denuncia accusandoli di congiurare contro di lui. Ma Elon non è l’unico a giustificare i comportamenti più spregiudicati col suo ruolo di “assolutista anticensura”. Il capo di Telegram, Pavel Durov, finito in carcere e poi ai domiciliari in Francia per il rifiuto di cooperare nella ricerca di criminali che hanno usato la sua rete per gestire traffici sessuali, di droga e di terrorismo, si presenta, lui pure, come un portabandiera della libertà. E all’inizio lo è stato: la sua rete ha protetto i dissidenti russi delle vendette del Cremlino. Ma poi, quando i criminali hanno scoperto la convenienza di comunicare in tutta segretezza sfruttando i sistemi di criptaggio end to end di Telegram, non ha fatto nulla per fermarli né li ha denunciati. Durov, cittadino russo-francese, difende il suo rifiuto di collaborare usando come scudo il Primo Emendamento della Costituzione Usa (quello che garantisce una libertà di espressione senza limiti) oltre che la Carta dell’Onu. Altrettanto fa Chris Pavlovski capo della piattaforma di video sharing Rumble che ha respinto le richieste di vari Paesi - Francia, Nuova Zelanda, Australia, Gran Bretagna, Brasile - di eliminare dalla sua rete contenuti estremi come le immagini di un accoltellamento in un centro commerciale di Sydney. Regolamentare fin qui è stato estremamente difficile soprattutto in America dove la lobby tecnologica è molto potente mentre la destra radicale si è impossessata della battaglia per una libertà assoluta usando in modo strumentale il vessillo del Primo emendamento. Ora, nell’inerzia del Congresso, per la prima volta qualcosa si muove in California (dove hanno sede i maggiori gruppi di big tech): il Parlamento dello Stato ha approvato a grande maggioranza la legge SB 1047 che introduce blandi vincoli per evitare che i nuovi modelli “di frontiera” di intelligenza artificiale abbiano effetti devastanti. Toccherà al governatore Gavin Newsom controfirmare o mettere il veto. Nonostante il vastissimo consenso per le regole in Parlamento e nei sondaggi, il via libera non è scontato: con poche eccezioni (tra le quali, curiosamente, Musk), i leader del settore, come OpenAI, vogliono bloccare la legge: temono che freni l’innovazione. La campagna, guidata dai venture capitalst Marc Andreessen e Ben Horowitz, ideologicamente contrari a ogni regola, anche la più blanda, fa proseliti non solo a destra: contro la legge anche Nancy Pelosi. Escluso dalla corsa per la Casa Bianca, in queste settimane di settembre Newsom avrà un’altra occasione per fare la storia. Chi ci deve proteggere dallo strapotere social di Nicoletta Verna La Stampa, 2 settembre 2024 La disputa sulla libertà di espressione, i suoi limiti e i suoi legami con il potere è antica quanto il linguaggio, anche se è solo con l’evoluzione dei media che acquisisce il peso e la controversa complessità dei nostri giorni. La censura come la intendiamo oggi nasce con l’invenzione della stampa. Per i media precedenti, i manoscritti, non c’era né il bisogno né la possibilità di controllo: gli amanuensi erano isolati, disseminati fra i monasteri e i loro scritti non avevano diffusione tale da causare scandali o contese. Controllare la stampa, invece, divenne subito fondamentale. Nel 1501 papa Alessandro VI emise la prima bolla contro la stampa, e nel 1559 arrivò il primo Indice. Da allora, la storia della libertà di espressione è l’eterna ricerca di equilibrio fra la tutela di un diritto inalienabile dell’uomo, la libertà di espressione, e la necessità di controllo da parte dell’autorità, nella doppia veste di controllo delle tecnologie di informazione e controllo delle opinioni che ne vengono veicolate. Una delle opere più illuminanti per capire questa tensione è “Tecnologie di libertà” (1983) del sociologo americano Ithiel De Sola Pool. L’autore parte dall’ovvio presupposto secondo cui la libertà di espressione sui media è questione anche e soprattutto giuridica: deve essere tutelata dalla legge, e la legge deve conoscere al meglio possibile la materia. La tecnologia, però, corre in genere più veloce della legge. I tribunali, nel dover intervenire come arbitri nei conflitti tra imprenditori, gruppi di interesse e organizzazioni politiche che si contendono il controllo dei nuovi media, procedono per analogie con il passato: il telegrafo fu paragonato alle ferrovie, il telefono al telegrafo e così via. La giurisprudenza concepita per ogni nuova tecnologia, così, in alcuni casi può dimostrarsi inadeguata: è ciò che sta avvenendo in questo momento storico (che De Sola Pool non ha visto, ma che aveva molto lucidamente predetto). Internet e i social network hanno determinato una rivoluzione con pochi precedenti nella storia dei media, rendendo difficilissimo inquadrare il problema della libertà di espressione (e non solo) nei modi consueti. Innanzitutto, i nuovi media hanno ribaltato il modello tradizionale di selezione all’ingresso: storicamente il problema della libertà di espressione era collegato al fatto che l’accesso ai media era limitato e dunque, per preservare il pluralismo, il legislatore doveva adoperarsi affinché l’accesso alle strutture dell’informazione fosse il più ampio ed equo possibile. Oggi, invece, tale accesso è allargato a una platea pressoché illimitata, a costi molto bassi e senza nessuna intermediazione. Questo ci riporta alla situazione degli amanuensi (l’impossibilità del controllo dall’alto), ma con una diffusione dell’informazione immensa. De Sola Pool lo chiama “determinismo tecnologico morbido”: la libertà è favorita quando i mezzi sono dispersi, decentralizzati e facilmente accessibili, e viceversa. Così, per citare Mark Twain, oggi “esistono leggi per proteggere la libertà di stampa, ma nessuna che faccia qualcosa per proteggere le persone dalla stampa”. Ovvero: per garantire la libertà di espressione, il legislatore deve più che mai tutelare i diritti di chi da quella libertà viene danneggiato. Questo è vero in relazione ai due grandi tratti favoriti dalle caratteristiche strutturali dei social network: l’hate speech e le fake news. In entrambi i casi, la scelta del legislatore è stata basarsi sull’autoregolazione. L’utente delle piattaforme social sottoscrive termini e condizioni d’uso che regolano l’hate speech, che è un reato. Quanto alle fake news, la Commissione europea ha sottoscritto con le piattaforme un Codice di condotta e autodisciplina per i contenuti diffusi online, rafforzato durante la pandemia per frenare la disinformazione sul Covid-19. È solo la punta di un frastagliatissimo iceberg dove la realtà e le sue implicazioni sono più complesse e articolate. La lotta alle fake news durante il coronavirus, nell’attribuire di fatto ai governi il monopolio della verità, ha spesso portato a un effetto contrario di scetticismo: come osservava il grande storico Marc Bloch, infatti, proprio dove si sa che l’informazione è controllata, la credibilità delle notizie ufficiali diminuisce e si attribuisce più fiducia alle dicerie. Lo dimostra il fatto che in tempo di guerra, quando massimo è il controllo dei governi sui media, le false notizie hanno massima diffusione. Ancora, smascherare l’anonimato online significa sì andare nella direzione di una maggiore trasparenza, ma anche ostacolare i dissidenti nei Paesi privi di libertà di espressione. E così via. È per questo che il caso Durov è così significativo: perché mette in luce queste ambivalenze e ambiguità. L’impossibilità di controllare le interazioni su Telegram significa favorire la libertà di espressione, ma anche, ovviamente, infinite possibilità criminali. Il punto più interessante, a questo riguardo, è il capo d’accusa a Durov, che sembra essere non la partecipazione attiva ai reati contestati, ma l’aver messo a disposizione la piattaforma per realizzarli. Questa visione rappresenterebbe un precedente giuridico sostanziale: equiparare i proprietari di reti di comunicazione alle attività illecite dei loro utenti modificherebbe fortemente le responsabilità (e l’identità) dei vettori d’informazione e il loro rapporto con il potere e l’opinione pubblica. Ancora una volta la tecnologia è stata più veloce della legge, rendendo fragile e controverso l’equilibrio fra tutela dei cittadini, potere politico, ruolo di chi informa e di chi quell’informazione è chiamato a controllare e difendere. Migranti. Molteni (Lega): “Sbarchi diminuiti grazie alla cooperazione extra Ue” di Grazia Longo La Stampa, 2 settembre 2024 Il sottosegretario: “La cittadinanza non si regala e non si può dare in automatico. Centrodestra unito”. Sottosegretario all’Interno Nicola Molteni: gli sbarchi sono diminuiti ma secondo alcuni osservatori e l’opposizione si registrano vessazioni da parte di Tunisia, Libia ed Egitto con cui l’Italia ha siglato accordi. “La diminuzione degli sbarchi è un risultato straordinario di questo governo e dell’impegno del ministro Piantedosi. Ad agosto si sono registrati 8.500 arrivi, contro i 25 mila di un anno fa, con 5 mila minori non accompagnati rispetto ai 18 mila dello scorso anno. Inoltre, c’è stato il 20% in più dei rimpatri. Tutto questo grazie alla cooperazione internazionale con Tunisia, Libia ed Egitto, per cui mentre l’anno scorso l’emergenza era a Lampedusa, oggi è alle Canarie, in Spagna”. Ma Tunisia, Libia ed Egitto non brillano per democrazia. I diritti umani sono garantiti? “La politica migratoria del nostro governo avviene in un quadro di politiche internazionali con il controllo di organizzazioni come Unhcr e Oim. I diritti umani sono quindi garantiti”. Ma non mancano le vittime in mare... “È vero che ci sono morti e dispersi, ma in quantità inferiore rispetto al passato. Azzerando le partenze si limiterà l’azione degli scafisti e dei trafficanti di esseri umani che speculano sulle vite di chi cerca un futuro migliore. E in questo modo si conterranno anche attività illegali come il traffico di armi e di droga che proliferano con i guadagni degli scafisti. Il senso di umanità non si coltiva sradicando i popoli dalle loro terre, ma incentivandoli a rimanere in Africa”. Eppure il Papa ha appena dichiarato che “respingere i migranti è peccato grave”. Che cosa ne pensa? “Il Papa è il capo della Chiesa e della comunità cattolica, ha una visione universale basata su accoglienza e fratellanza. Concordo con lui quando sostiene che l’accoglienza deve avvenire secondo logiche di integrazione. Chi scappa dalle guerre va aiutato, ma i migranti economici vanno espulsi. Il decreto flussi funziona, sì a immigrati con il permesso e un contratto di lavoro, no ai clandestini. Noi peraltro abbiamo attivato corridoi umanitari con la Chiesa e la comunità di Sant’Egidio”. Secondo l’opposizione il centro migranti in Albania è una costosa propaganda politica giuridicamente incerta. Quando e come entrerà in funzione? “Credo che il protocollo con l’Albania sia utile, necessario e moderno. Un’iniziativa che sui territori extra Ue sarà il futuro. È un accordo di deterrenza per le partenze e di alleggerimento delle nostre strutture approvato da 15 Paesi europei. Mi stupisco che la sinistra sbraiti contro il centro in Albania e non protesti contro la recente decisione della Germania di rimandare 28 afgani a Kabul, non proprio la culla della democrazia. La struttura in Albania sarà il modello per la gestione dei flussi migratori. La premier Meloni ha annunciato che dovrebbe essere operativo le prossime settimane, al di là delle strumentalizzazioni della sinistra che usa bandierine politiche per coprire vuoto politico. Come per il discorso della cittadinanza”. Ma il ministro degli Esteri e vice premier Tajani insistite invece sull’opportunità dello Ius scholae... “Penso sia solo una cotta estiva. Il centro destra non può spaccarsi sullo Ius scholae che non fa neppure parte del programma di governo. La cittadinanza non si regala e non si può dare in automatico. Nel nostro Paese i minori stranieri hanno già gli stessi diritti all’istruzione e alla sanità degli italiani. Manca solo il diritto di voto che però non può essere dato con la scorciatoia dello Ius scholae. Anche perché in quel modo avremmo figli italiani di genitori stranieri. Il tema della cittadinanza ha già diviso la sinistra, sia nel governo Renzi sia in quello Gentiloni, non ci dobbiamo spaccare anche noi nel centro destra. Del resto il M5S vuole lo Ius scholae ma il Pd vuole lo Ius soli”. Voi non volete dare la cittadinanza alle seconde generazioni, ma secondo la legge Tremaglia possono votare persone che non hanno nulla a che fare con l’Italia, che non parlano neppure l’italiano. Ius scholae no e Ius sanguinis sì? “L’anno scorso abbiamo concesso cittadinanza italiana a ben 213 mila cittadini, la legge c’è già, basta che gli stranieri raggiungano il diciottesimo anno d’età. Molti stranieri, come i cinesi, neanche chiedono la cittadinanza italiana. A me nei mercati nessuno mi ferma per chiedere lo Ius scholae, i problemi sono altri. A livello europeo la politica migratoria ha fallito, vincono le scelte autonome dei singoli Paesi”. Ius scholae, Tajani: “Chi studia10 anni nelle nostre scuole ha il diritto a diventare cittadino italiano” A proposito di autonomia quando bisogna partire? Quando bisogna approvare i primi Lep? “Il più rapidamente possibile, il ministro Calderoli ha già fissato il timing. I Lep vanno prima definiti e poi finanziati, ma ci sono già alcune Regioni come Piemonte, Lombardia e Veneto che hanno già chiesto di partire con autonomia per le materie non coperte dai Lep come commercio estero e protezione civile”. Si amplierà la differenza fra Nord e Sud? “No, le differenze sono già esistenti. L’autonomia è un importante passo verso la modernizzazione del Paese”. Migranti. “La cittadinanza? Un bene per i ragazzi e un valore per tutto il Paese” di Daniela Fassini Avvenire, 2 settembre 2024 Parla Raffaella Milano, direttrice Ricerca di Save the Children: negli anni la scuola è diventata il luogo principale dell’incontro, diventare italiani serve a costruire appartenenza. “La legge sulla cittadinanza è vecchia e completamente non corrispondente al paese attuale e alla condizione sociale che vediamo ogni giorno”. Raffaela Milano, direttrice Ricerca della Ong Save the Children, non ha dubbi. “In realtà noi abbiamo già iniziato la nostra campagna sulla riforma della cittadinanza diversi mesi fa, con una petizione che ha giù raccolto 100mila firme. Prima ancora quindi del dibattito politico di questi giorni”. Continuerete con la campagna? Si certo, sono anni che, assieme a tante organizzazioni civiche, chiediamo al Parlamento di rivedere questa legge per dare piena cittadinanza ai bambini e alle bambine che nascono o arrivano da piccoli nel nostro Paese. Adesso il nostro auspicio è che questa attenzione della politica si traduca di fatto in una discussione parlamentare, per la riforma della legge. Pensa che si sia arrivati a una svolta e non sia solo un dibattito estivo? Speriamo davvero che non sia solo un tema da dibattito estivo ma che finalmente dopo tanto tempo e tanti anni si arrivi a fare questo passo avanti. Io voglio crederci: voglio credere che sia un dibattito serio e politico che si dovrebbe riprendere con una realtà sociale cambiata, perché quando pensiamo alle scuole pensiamo anche alla società nel suo insieme. I tempi sono più che maturi e come abbiamo cercato di dire più volte la riforma non crea un beneficio solo per le bambini e i bambini che si sentono italiani a tutti gli effetti ma per tutto il Paese. Di fatto però questi bambini continuano a vivere come se fossero italiani a tutti gli effetti... Gli studenti se ne accorgono ad esempio quando c’è una gita scolastica all’estero o devono partecipare a una competizione sportiva. Ma da questa riforma, ripeto, ne trarrebbe un beneficio tutto il nostro paese perché questi ragazzi e ragazze rappresentano per il paese un patrimonio fondamentale. E la legge non solo avrebbe un impatto concreto e pratico nella vita di tutti i giorni ma rappresenterebbe anche un rafforzamento delle loro aspirazioni per il futuro. In che senso? Abbiamo fatto varie ricerche su questi temi e un dato che preoccupa è che per esempio proprio i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri sono quelli più propensi a immaginare un loro futuro lontano dall’Italia. Una recente indagine condotta da Save the Children su un campione rappresentativo di 15-16enni che vivono in Italia, in merito alle loro aspirazioni e aspettative sul futuro, rileva che, se l’aspirazione di trasferirsi all’estero è condivisa da un numero rilevante di adolescenti di origine italiana (il 34,9%), la percentuale di ragazzi e ragazze di seconda generazione che pensa a un futuro fuori dall’Italia raggiunge il 58,7%. Ci sono segnali di disagio anche tra studenti di 10-17 anni che frequentano la scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado in cinque città italiane (Catania, Milano, Napoli, Roma e Torino). Dallo studio emerge, tra l’altro, come gli studenti privi di cittadinanza italiana avvertano più dei coetanei un senso di estraneità alla comunità scolastica. La cittadinanza anche come senso di appartenenza, quindi? Si tratta di ragazzi che sono italiani a tutti gli effetti: la cittadinanza potrebbe avere un grande impatto anche in questa direzione, come senso di appartenenza alla comunità nella quale si cresce quindi il nostro auspicio è proprio questo. I numeri della scuola che cosa ci dicono? Negli anni, la scuola è diventata lo spazio principale di incontro tra studenti con provenienze diverse e, seppure spesso con pochi mezzi, oggi rappresenta la principale palestra di cittadinanza. Secondo gli ultimi dati nelle scuole ci sono 914.860 studenti con cittadinanza non italiana: i loro genitori provengono da 200 nazionalità diverse. La loro presenza rappresenta davvero una risorsa che va necessariamente messa a valore e non vediamo i motivi per non farlo. L’attuale governo però ha già detto che le priorità sono altre... Quella della riforma della cittadinanza è una questione urgente ed è fra le priorità del Paese quindi speriamo che si passi presto al dibattito parlamentare e che si trovi anche una convergenza sul tema. Pensate a un modello in particolare? Ius soli, scholae o culturae? Nella nostra petizione abbiamo chiesto al parlamento una riforma: lo ius scholae sarebbe un passo avanti, anche se sarebbe bene collegarlo alla previsione dello ius soli per i bambini nati in Italia da genitori regolarmente residenti. Ci sono tante combinazioni. Non abbiamo posto un vincolo perché speriamo che alla fine il parlamento possa trovare una convergenza e l’importante è che questa convergenza vada nella giusta direzione e che segni comunque un passo avanti. Tra gli albanesi d’Italia. “Solo chi non è stato migrante vuole prigioni per chi fugge di Niccolò Zancan La Stampa, 2 settembre 2024 A Gjadér il centro di detenzione assume personale “a tempo indeterminato”. Molti locali hanno un passato nel nostro Paese: “Le persone vanno accolte”. un piccolo paese conta - dino. Girano carretti trainati da cavalli. So- J no terre arse e campi di mais, orti di patate e cocomeri. Davanti al centro di detenzione per migranti italiano c’è solo una villetta nuova, con la facciata appena riverniciata. E la casa costruita dal signor Simon Gega dopo quarant’anni di lavoro. Dove ha lavorato? “Dal 1999 sempre in Italia, in Toscana, nelle serre di Torre del Lago Puccini. Facevo il contadino qui, così come faccio il contadino nel vostro Paese. Sono partito quando ho capito che non c’era più futuro, con la caduta del comunismo se ne sono andati via tutti, l’ho fatto anche io. Per quattro anni sono stato in Italia senza documenti, ed è stata durissima. Ma poi ce l’ho fatta. Ce l’abbiamo fatta: io, mia moglie Maria, i miei figli Alfrida e Andrea, tutti abbiamo la cittadinanza italiana”. E come uno specchio rovesciato. Il passato del signor Gega si riaffaccia adesso come una maledizione davanti alle finestre della sua casa nuova. “Io dico che i migranti vanno accolti. C’è posto per tutti su questa terra. C’era posto anche in Italia. Non ho capito perché sono venuti a costruire questa prigione proprio qui”. Alla prigione manca la recinzione. Hanno iniziato a montarla in questi giorni di sole a picco. Manca l’allacciamento fognario. Ma si vede il resto: ogni container avrà due letti a castello. C’è il lato per le pratiche legali, quello delle celle di sicurezza. Nei piani del governo di Giorgia Meloni verranno deportati qui 3 mila migranti al mese. Per un totale di 36 mila persone all’anno. Verranno selezionate direttamente sulle barche dei soccorsi, in mezzo al Mediterraneo, sulla base degli accordi con i Paesi d’origine per il rimpatrio. L’Albania sarà il posto peri migranti da rimandare indietro, questo pare di capire. Un luogo di afflizione, a scopo dimostrativo. L’Albania sarà il posto dei respingimenti per mano italiana in terra straniera. Straniera? Qui l’italiano è parlato come l’albanese. L’unica industria vicina al centro di detenzione è uno dei cementifici del gruppo Colacem, terzo produttore italiano, un colosso fondato a Gubbio nel 1966 dalla famiglia Colaiacovo. Nel 1990 la scuola di Gjadèr aveva mille bambini, oggi meno di cinquanta. Tutti quei bambini sono diventati grandi e poi sono andati a cercare fortuna dall’altra parte del mare. Ecco perché il signor Gega vive con amarezza quello che sta per succedere davanti alla casa costruita sulla terra ereditata dai genitori. “Solo chi non è stato un migrante può concepire un posto per respingere le persone in cerca di fortuna”. Il numero di italiani d’Albania qui è in continuo aumento. Non ci sono solo i migranti che tornano a casa per le vacanze o per la pensione, ci sono i nuovi arrivati: carabinieri, poliziotti, funzionari ministeriali, uomini dei servizi. “Hanno chiesto in affitto la mia casa, ma io non ho voluto darla”, dice ancora il signor Gega. “L’ho costruita con le mie mani. E la terra della mia famiglia. Ogni tanto devo tornare qui, anche solo per dieci giorni all’anno”. Le forze dell’ordine italiane avranno giurisdizione dentro il centro, ma solo lì. Non possono identificare una persona che cammina davanti alla gabbia di recinzione. Perché quello è di nuovo territorio sotto la giurisdizione albanese. E si capisce, già adesso, che non sarà semplice gestire questo doppio regime amministrativo. Cosa succederà in caso di rivolte dentro o fuori dal centro? Cosa succederà in caso di proteste odi fughe? Altri nuovi italiani stanno arrivando. Il reclutamento della mano d’opera albanese è stata affidato dal ministero dell’Interno alla cooperativa Medihospes di Bari che si è offerta di gestire il servizio a una cifra del 5% inferiore a quella indicata nel bando. Totale dell’investimento: 133,8 milioni di euro in due anni. Spese legali, sicurezza, consegna dei pocket money e delle tessere telefoniche ai migranti. Stipendi per tutte le persone coinvolte. E Medihospes che sta reclutando 300 lavoratori albanesi che ruoteranno fra questo centro di detenzione amministrativa di Gjadèr e l’hotspot al porto di Shéngjin. Cercano, fra gli altri, 6 autisti per i continui trasporti in pullman fra le due strutture: “Il personale selezionato verrà assunto con contratto a tempo indeterminato con periodo di prova di 3 mesi. Disponibilità al turno notturno. E richiesta la conoscenza della lingua italiana, scritta e parlata”. Così c’è scritto nell’offerta di lavoro. “A tempo indeterminato”. Così questa zona, nel Nord dell’Albania, diventerà una specie di colonia penale italiana. Non ci sono precedenti analoghi. E una esternalizzazione delle frontiere sotto gestione del governo di Giorgia Meloni. Eppure: in Italia il tempo necessario per ottenere una risposta definitiva a una richiesta di asilo è di circa due anni. Come potranno ruotare qui 3 mila persone al mese nel rispetto dei diritti umani e costituzionali? Tutto questo non si sa. Qui si vede solo una terra povera, gente che fatica, file di container impilati l’uno sull’altro e l’inizio di una recinzione alta sette metri. La Ong tedesca “Mission Lifeline” nei giorni scorsi è venuta a prendere informazioni per stendere un report di denuncia. Titolo: “Campi di deportazione italiani in Albania”. Israele. Il disastro ostaggi e quelle colpe di Bibi di Stefano Stefanini La Stampa, 2 settembre 2024 Il “tutti e due” di Netanyahu è naufragato sui sei ostaggi caduti in un combattimento nei tunnel di Gaza. Israele sostiene che siano stati uccisi da Hamas che offre la versione opposta, che siano vittime del fuoco amico dell’Idf. Ne farà giustizia l’esame forense dei corpi che, anticipano già fonti israeliane, confermerà l’esecuzione degli ostaggi da parte dei carcerieri. Fa un’enorme differenza: trucidare gli ostaggi per vendetta o anche farsene scudo sarebbe l’ennesima barbarie dei massacratori del 7 ottobre. Tuttavia, la morte dei sei ostaggi mette ugualmente a nudo il drammatico dilemma del conflitto fra guerra senza quartiere ai resti del Movimento di Resistenza Islamica e salvataggio degli ostaggi. L’una mette a repentaglio il secondo. Gli israeliani sono supremamente addestrati nel recupero di ostaggi tenuti sotto minaccia di esecuzione. Ma, a Gaza, non stanno conducendo una singola operazione ma una guerra, con un numero ancora ampio di ostaggi, un centinaio anche se si può dubitare che siano ancora tutti vivi. Il successo in un salvataggio come quello di alcuni giorni fa è l’eccezione che conferma la regola. La regola è che nel momento in cui le operazioni militari di Israele contro Hamas giungono alla stretta finale, come sta avvenendo, i due obiettivi, sconfitta di Hamas e liberazione di Hamas, entrano in collisione. Perché mai i miliziani di Hamas, che non peccano certo di cuore tenero, sul punto di venir sopraffatti, dovrebbero lasciare incolumi gli ostaggi, tenuti in cattività da quasi un anno esattamente per tutelarsi dalla rappresaglia israeliana? La triste verità della guerra sulla pelle degli ostaggi è ben presente alle loro famiglie che da mesi scendono in piazza per chiedere la tregua a Gaza che consentirebbe lo scambio ostaggi israeliani-prigionieri palestinesi, oltre che il sollievo umanitario per la popolazione della Striscia e una finestra di opportunità per allentare la crescente conflittualità negli altri teatri, Libano e Cisgiordania. Il Foro delle Famiglie ha tenuto ieri una massiccia manifestazione di protesta; oggi, Histadrut, il sindacato del settore pubblico in Israele, ha proclamato lo sciopero generale. L’ira non è rivolta tanto o solo contro i carnefici di Hamas quanto soprattutto contro il primo ministro di Israele - Benjamin Netanyahu. Non a caso. Dall’inizio della crisi il primo ministro israeliano ha dato alla guerra la precedenza sugli ostaggi. Non ha mai avuto il coraggio di dirlo perché Bibi, pur genio politico inaffondabile, non ha il carisma dei grandi leader. All’indomani del 7 ottobre, quando Hamas conservava tutto l’ingente potenziale militare, era abbastanza comprensibile che prima di tutto venisse l’intervento militare - anche Hamas avrebbe dovuto sapere di aver firmato la propria condanna all’annientamento militare, e che gli ostaggi non lo avrebbero protetto da un Israele che vedeva a rischio la propria sopravvivenza. Sono passati undici mesi. A Gaza, asserragliato nei tunnel, il Movimento è al lumicino quanto a capacità offensive, in calo di popolarità nella popolazione civile che sa di essere stata usata come carne da cannone - al di là della Striscia non è eliminato come forza politica e movimento terrorista ma è un discorso più complesso. È arrivato il momento in cui la liberazione degli ostaggi ancora in vita sarebbe non solo possibile ma favorita dai fattori che spingono al cessate il fuoco: situazione umanitaria, apertura del fronte Nord con Hezbollah, rischio Iran, pressioni internazionali soprattutto americane - uno degli ostaggi deceduti, Hers Goldberg-Polin, era anche cittadino americano; Biden e Harris hanno immediatamente condannato Hamas, ma in cuor loro si domanderanno se la tregua non avrebbe potuto liberarlo. I media israeliani riportano che in un ennesimo scontro nel governo di Gerusalemme, il ministro della Difesa, Yoav Gallant, aveva accusato Netanyahu di dare la priorità al corridoio Philadelphi, fra Gaza ed Egitto, sulla vita degli ostaggi. Questo avveniva due giorni prima della morte di sei di loro. Che il loro sacrificio sblocchi finalmente la tregua e la liberazione degli altri? Nelle paradossali logiche del Medio Oriente premierebbe la barbarie di Hamas, ma non è impossibile. Israele. La rabbia dei parenti: scioperi contro il premier e tensioni nel governo di Francesca Caferri La Repubblica, 2 settembre 2024 Scende in campo il sindacato. In piazza centinaia di migliaia di persone. Le forze dell’ordine usano i cannoni ad acqua contro i dimostranti che gridano: “Chi state difendendo?”. Le strade di Tel Aviv sono un muro umano: decine di migliaia di persone circondano il ministero della Difesa, la Kiryat, il cuore della crisi che da quasi undici mesi sconvolge il Paese, da ogni lato: il grande viale di Kaplan, la piazza degli ostaggi, il Begin gate. È la rabbia che esplode, massiccia, quella che da settimane le famiglie degli ostaggi a Gaza invocavano e che solo ora, di fronte a sei corpi di giovani uccisi con colpi di pistola alla testa, arriva. Secondo gli organizzatori delle manifestazioni di protesta di ieri sera in strada sono scesi in 300 mila solo a Tel Aviv, mezzo milione in tutto il Paese. Un terremoto che forse, nei prossimi giorni, o nelle prossime settimane, sarà in grado di smuovere l’immobilismo in cui Israele pare bloccato da mesi e costringere il primo ministro Benjamin Netanyahu a un compromesso che né lui, né tantomeno gli alleati di estrema destra su cui si basa la sopravvivenza del suo governo, vogliono. Fuochi vengono accesi nelle strade, la polizia usa i cannoni ad acqua contro i manifestanti che gridano: “Chi state difendendo?”. Almeno quindici persone sono state fermate nelle prime ore di sit-in. “Gli ebrei non abbandonano gli ebrei, questo Paese sta andando verso la rovina politica. So che alcuni di voi volevano che ci fermassimo prima. Lo facciamo ora”, grida alla folla Arnon Bar David, il capo di HIstadrect, il più grande sindacato di Israele, che oggi promette di fermare il Paese. Allo stop si sono aggiunte alcune delle grandi imprese dell’high tech, uno dei motori dell’economia del Paese dove però il sindacato è poco presente, ma ci sono anche tanti settori che non si fermeranno. La maggior parte delle famiglie, ma anche l’opposizione guidata da Yair Lapid, considerano lo sciopero generale l’arma finale per costringere il governo al compromesso. Da vedere se funzionerà. Sarà la loro giovane età. Sarà che alcune delle loro famiglie - Goldberg-Polin, Gat, Yerushalmi- sono dal primo giorno in prima fila nelle proteste: fatto sta che la notizia della morte dei sei ostaggi ha fatto da detonatore a una crisi che da settimane cresceva e aspettava solo il momento per esplodere. “Sono stati sacrificati sull’altare del corridoio Philadelphi”, urla Einav Zangauker, madre di Matan, a Gaza dal 7 ottobre. Conservatrice, a lungo sostenitrice del Likud di Netanyahu, da settimane la più agguerrita delle madri di Begin gate, quella che ha detto alla stampa che anche i vertici del Mossad non ne possono più della politica del premier. E per questo è stata ricoperta di insulti. Sul corridoio si consuma in queste ore la più grave spaccatura politica degli ultimi mesi. Ieri su X - l’ex Twitter - il ministro della Difesa Yoav Gallant ha ribadito il suo dissenso nei confronti del primo ministro. “La decisione di restare è stata presa pensando che gli ostaggi avessero tempo. Ma non c’è tempo”, ha detto usando parole simili a quelle che aveva gridato alla riunione del governo sabato, quando Netanyahu aveva ottenuto dai suoi ministri la firma di un documento che impegnava Israele a mantenere il controllo della striscia di terreno al confine fra Gaza e l’Egitto. Il premier ha risposto ribadendo che non ci saranno passi indietro su questo punto. Gallant è il volto del governo - e dell’establishment della sicurezza - che chiede un accordo. Il suo braccio di ferro con Netanyahu va avanti da più di due anni ormai, sin da quando il premier cercò di licenziarlo in piena tempesta per la riforma giudiziaria. La convivenza fra i due sembra sempre più impossibile, ma Gallant - esponente del Likud - non ha alle spalle un pacchetto di voti sufficiente a spaventare il premier. Al suo opposto ci sono i ministri dell’estrema destra Itamar Ben Gvir e Bezolel Smotrich, i cui voti sono invece fondamentali per la tenuta del governo: in questi giorni nel Likud si starebbero esplorando strade per un possibile nuovo governo senza di loro. In mezzo resta gente furiosa: a Gerusalemme, ad Haifa, nel Nord, nel Sud, a Tel Aviv. Laici, religiosi, conservatori, pacifisti: divisi da tutto salvo che dalla richiesta di un compromesso da fare adesso. Le immagini della veglia spontanea che si è tenuta ieri sera nei pressi della sinagoga della famiglia Goldberg-Polin a Gerusalemme riassumevano alla perfezione il dolore e la svolta che forse la morte del 23nne Hersh e dei suoi compagni di prigionia ha provocato. In strada c’erano i suoi amici, gli ultrà dell’Hapoel, la sua squadra di calcio, gli ultraortodossi che di solito stanno lontano dalla politica, i laici, i religiosi come è la famiglia del ragazzo. Tutti alla ricerca di una strada diversa verso il futuro. Libia. Ucciso Bidja, il trafficante con la divisa della guardia costiera di Alessandra Ziniti La Repubblica, 2 settembre 2024 Agguato di stampo mafioso davanti all’Accademia navale di Tripoli. Diversi report dell’Onu da anni lo indicavano come uno dei più potenti capi dell’organizzazione che gestiva i viaggi dei migranti. Il trafficante di uomini in giacca e cravatta seduto attorno a un tavolo del Viminale nel 2017, indicato dall’Onu come uno dei più potenti capi delle organizzazioni criminali che gestiscono i viaggi dei migranti dalla Libia ma che indossava la divisa con le stellette della Marina libica, ha finito ieri la sua corsa crivellato di colpi sul sedile della sua auto blindata davanti all’Accademia navale di Tripoli di cui era stato persino nominato capo. L’agguato con armi pesanti - Un agguato in piena regola quello portato a termine da un commando con armi pesanti che ha sorpreso le guardie del corpo di Abd al-Rahman Milad, da tutti conosciuto come Bidja. Uomo potentissimo in Libia, cugino di Mohammed Koshalaf, capo della brigata di Al-Nasr, che negli ultimi dieci anni è riuscito nel paradosso di scalare i vertici di quella Guardia costiera a cui Tripoli (e l’Italia che la sostiene finanziandola) ha affidato il contrasto all’immigrazione clandestina che lui stesso gestiva. Non sono bastati ripetuti dossier dell’Onu e della Corte internazionale dell’Aja che, dal 2018, lo indicavano come uno dei più pericolosi trafficanti di uomini, non è servito neanche il mandato di cattura internazionale: Bidja, che era già a capo della guardia costiera di Zawija nel 2015, se l’è cavata con una sospensione dall’incarico per qualche mese nel 2018 e con qualche mese agli arresti nel 2020, poi il governo di Al Serraji lo ha reintegrato ed è tornato ad indossare la divisa. Prima quella verde e poi addirittura quella bianca immacolata di capo dell’Accademia navale di Janzour. E proprio lì davanti, e sicuramente non a caso, Bidja ieri è rimasto vittima di un agguato di stampo mafioso, portato a termine da un commando di professionisti che aveva ben studiato come annientare le sue difese. Temeva per la sua vita - Che temesse per la sua vita Abd al-Rahman Milad non era un mistero: andava in giro con guardie del corpo e un minivan blindato e dicono disponesse persino di due sosia che mandava avanti in situazioni particolarmente rischiose. Un omicidio, il suo, tutto da decifrare e che non potrà non incidere sui delicati equilibri della Libia. A Zawija la strada costiera è stata chiusa, con decine di veicoli carichi di armi pesanti, e centinaia di persone sono scese per strada. “Bidja ha costruito un impero sulla sofferenza umana, e la politica europea lo ha reso possibile - spiega Anas El Gomati, direttore del Sadeq institute - aveva trasformato i soccorsi in un riscatto: i più vulnerabili intercettati nel Mediterraneo venivano riportati in Libia per essere estorti nei centri di detenzione”. Gli accordi Italia-Libia - Trentacinque anni, padre di un bimbo di due anni, Bidja era il volto del paradosso degli accordi con cui dal 2017 l’Italia prova a fermare i flussi migratori dalla Libia: formando e finanziando quella guardia costiera che intercetta gommoni e barconi riportando indietro decine di migliaia di donne, uomini e bambini e riconsegnandole nelle mani dei trafficanti come Bidja che gestiscono i centri di detenzione in cui i migranti vengono torturati, violentati, uccisi, derubati di tutto e costretti a chiedere ripetuti riscatti alle famiglie nei Paesi d’origine. La foto che lo ritrae al Viminale - Un paradosso racchiuso in un’immagine nel 2017: una delegazione libica, e tra loro Bidja, in giacca e cravatta, immortalata al Viminale insieme a funzionari del ministero dell’Interno e dell’Oim che avevano organizzato un meeting proprio sulle strategie per il contrasto all’immigrazione clandestina. A rivelare la presenza di Bija in Italia, con tanto di foto, il giornalista di Avvenire Nello Scavo poi finito sotto scorta, così come la giornalista freelance Nancy Porsia, per le pesantissime minacce rivolte loro da Bd al-Rahman Milad a viso scoperto, persino sul suo profilo facebook. Lui stesso, qualche tempo dopo, aveva raccontato così quella missione in un’intervista all’Espresso: “Abbiamo incontrato i membri del ministero dell’Interno. Siamo andati anche alla Guardia costiera, alla Croce rossa, centri di accoglienza, ministero della Giustizia, poi siamo andati al palazzo del ministero dell’Interno”. Ministro dell’Interno nel 2017 era Marco Minniti che davanti a quella foto spiegò: “All’epoca su Bija non c’era il warning che successivamente è stato lanciato dall’Onu. Non ho incontrato Bija e non ho incontrato nessuno della delegazione libica”.