Il Papa: “Tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato” di Mattia Cirilli La Discussione, 29 settembre 2024 “Tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato. Nessuno è perduto per sempre. È giusto, allora, seguire tutti i percorsi della giustizia terrena e i percorsi umani, psicologici e penali; ma la pena dev’essere una medicina, deve portare alla guarigione”. Con queste parole il Papa si è rivolto ieri agli operatori della pastorale carceraria, incontrati assieme a tutti gli altri membri del clero nella Cattedrale di Koelkberg, in Belgio, dove il Santo Padre sta compiendo il suo 46esimo viaggio apostolico. Poi si è espresso sull’attuale crisi della fede e del mondo contemporaneo: “La crisi, ogni crisi, è un tempo che ci è offerto per scuoterci, per interrogarci e per cambiare”. Si avvicina dunque alla fine il 46esimo viaggio apostolico di Francesco, che questa volta si è dedicato al Belgio e al Lussemburgo, luoghi essenziali per la vita economica e politica del Vecchio Continente. Dopo aver incontrato i regnanti e le principali autorità politiche di entrambi i Paesi, il Pontefice ha discusso nuovamente di alcune tematiche essenziali di fronte alla comunità ecclesiastica, incontrata nella Basilica del Sacro Cuore di Koelkberg. Ritorno all’essenziale - Nel suo intervento di ieri mattina il Santo Padre ha parlato di come i cambiamenti della nostra epoca e la crisi della fede che sperimentiamo in Occidente “ci hanno spinto a ritornare all’essenziale, cioè al Vangelo. La crisi, ogni crisi, è un tempo che ci è offerto per scuoterci, per interrogarci e per cambiare. Si tratta di un’occasione preziosa - nel linguaggio biblico si dice kairòs - per essere svegliati dal torpore e ritrovare i sentieri dello Spirito, come è successo ad Abramo, a Mosè e ai profeti. Quando sperimentiamo la desolazione, infatti, sempre dobbiamo chiederci quale messaggio il Signore ci vuole comunicare. E cosa ci fa vedere la crisi?”. Ha poi concluso parlando del vivissimo problema delle carceri e dei suoi sistemi, affermando che “bisogna aiutare le persone a rialzarsi e a ritrovare la loro strada nella vita e nella società. Ricordiamoci: tutti possiamo sbagliare, ma nessuno è sbagliato, nessuno è perduto per sempre. Misericordia, sempre misericordia”. L’incontro con gli studenti - Alle 16.30 invece, il Santo Padre si è recato all’Université Catholique de Louvain, un’università belga francofona che si trova a Ottignies-Louvain-la-Neuve, a circa 30 chilometri da Bruxelles, per incontrare il mondo degli studenti, futuro dell’umanità e generazione pienamente coinvolta nella crisi di cui Francesco ha parlato. In quest’occasione il Santo Padre ha parlato approfonditamente delle ingiustizie commesse in passato, e tutt’ora, a sfavore delle donne. Si tratta di un tema che “sta a cuore a me, e ancora prima ai miei predecessori”. Il Papa ha richiamato tutti al punto di partenza: “Chi è la donna? E chi è la Chiesa? La Chiesa è donna, non è IL Chiesa, è LA Chiesa”, ha detto a braccio. “La Chiesa è il popolo di Dio, non un’azienda multinazionale”, aggiunge. E la donna, “è figlia, sorella, madre”. È restato poi anche spazio per discutere dei mali contemporanei di cui la guerra ne è “espressione più brutale. Voi sapete che in un Paese che non nomino gli investimenti che danno più rendita sono la fabbrica delle armi”. Anche corruzione e moderne schiavitù sono mali, mali che talvolta “inquinano la stessa religione” rendendola “strumento di dominio”. “Ma questa è una bestemmia”, ha affermato il Papa. Il programma di oggi - Ricordiamo qui di seguito il programma della giornata odierna. Dopo un incontro privato con il Presidente (uscente) del Consiglio europeo Charles Michel, Papa Francesco presiederà la messa nello Stadio ‘Re Baldovino’ di Bruxelles, nella quale sarà beatificata la serva di Dio Ana de Jesus. Poi la cerimonia di congedo presso la Base aerea di Melsbroek e la ripartenza per Roma. L’arrivo a Fiumicino è previsto alle 14.55. Decreto sicurezza, l’inganno securitario partorisce reati e aggravanti a prezzi di saldo di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 29 settembre 2024 Quello della sicurezza è un tema molto serio, altroché. La legittima aspettativa dei cittadini di poter circolare a qualsiasi ora in città senza dover temere per la propria incolumità; di poter utilizzare senza timori un sottopasso; di poter entrare o uscire dalle stazioni ferroviarie senza la sensazione di dover attraversare una giungla di pericoli ed insidie; beh questa è una legittima aspettativa di tutti noi, e chi ha la responsabilità di governare il Paese ha il dovere di dare ad essa risposte concrete ed efficaci. La politica appalta il tema al populismo securitario - I radicati condizionamenti ideologici della sinistra italiana ed una assai malintesa idea “liberale” della vita sociale hanno purtroppo diffuso la convinzione che mettere mano con decisione a queste problematiche rischiasse - come dire - di dare coloriture antidemocratiche al proprio agire politico. Un errore tragico, con il quale si è definitivamente appaltato il tema al populismo securitario e giustizialista, che ne ha fatto il suo principale, formidabile serbatoio di consenso popolare. Ma il populismo securitario, dal canto suo, non sa essere altro che un produttore seriale, tossico quanto impotente, di idee sciagurate per la convivenza civile, attento solo a “lanciare messaggi”, ad assecondare ed anzi coltivare paure ed odio sociale, insomma a costruire non già soluzioni - che imporrebbero costi elevati ed accurato studio e conoscenza dei problemi - ma risposte a costo zero fatte di lenzuolate di nuovi reati, di aggravanti cervellotiche, di sanzioni ottusamente insensate e manifestamente ineseguibili, tutte immancabilmente modellate sulle ribollenti aspettative social. Nuove aggravanti a prezzi di saldo - In quale altro modo, per fare un esempio, potrebbe mai giustificarsi una aggravante comune per qualsivoglia reato, se commesso nella metro o nelle stazioni, condotta dunque insensatamente ritenuta più grave del medesimo reato commesso - chessò - fuori da un supermercato, ma perfettamente sagomata sul materiale video e testimoniale che ribolle, furioso, sulle piattaforme social? Così come sparare a cannonate sulla detenzione delle mamme incinte - un dramma per quei figli innocenti, ben più e prima che per le madri - per colpire il ben più ridotto fenomeno della impunità di qualche decina di madri seriali Rom in giro per metropolitane, è un’altra nitida fotografia di questo impazzimento, di questa ubriacatura securitaria a prezzi di saldo. Punire la protesta non violenta - C’è davvero un senso diverso da questa voluttà populista e securitaria in favore di like e di telecamere, nella irresponsabile equiparazione tra la ribellione violenta e quella non violenta nelle carceri? Invece di farsi carico del catastrofico sovraffollamento carcerario, da un lato si moltiplicano reati e pene, così inesorabilmente aggravandolo, e dall’altro in via preventiva si puniscono non solo eventuali atti di ribellione violenta in quelle carceri (ma non ce ne era alcun bisogno, sono condotte già ampiamente coperte da un vasto catalogo di reati), ma perfino la protesta non violenta di chi si limiti a non accettare il vitto, o a non fare l’ora d’aria. E sono certo che nessuna persona dotata di senno potrà pensare che condotte devianti già da sempre punite, possano essere scoraggiate perché si va ad innalzare di qualche mese o anno il minimo e/o il massimo della pena. Il decreto sicurezza che non porta soluzioni - Lanciare messaggi non costa nulla, mentre rafforzare vigilanza e controllo preventivo nelle città da parte delle Forze dell’ordine richiede risorse finanziarie ingenti e quindi scelte politiche e riscrittura delle priorità che, alla fine dei conti, non si ha nessuna voglia di fare. Ecco perché dedichiamo questa settimana l’approfondimento a questo Decreto Sicurezza, un inutile e pericoloso hellzapoppin di reati, aggravanti e divieti (guardate lo schema analitico alla fine del paragrafo) dato in pasto alla pancia della gente impaurita e rabbiosa, per riceverne un fragoroso applauso che il tempo, anche breve, inesorabilmente scolorirà nella ennesima constatazione di un provvedimento legislativo che avrà prodotto non pochi danni, ma non una sola soluzione. Più sicurezza? Solo per chi usa i manganelli di Paolo Biondani L’Espresso, 29 settembre 2024 Il disegno di legge sulla sicurezza, criticato come “illiberale”, punisce le proteste pacifiche e non affronta i reati finanziari, evidenziando una preoccupante deriva autoritaria. Per la sicurezza reale dei cittadini, non c’è niente di concreto. Ci sono molte norme da sventolare come slogan elettorali, ma inutili nei fatti. E ci sono novità pericolose per la democrazia: si pretende di punire con la galera perfino le proteste pacifiche, non violente. Da autorevoli giuristi, magistrati e sindacati di polizia arriva una bocciatura solenne del disegno di legge sulla sicurezza approvato nei giorni scorsi dalla Camera, in attesa del voto finale del Senato. Secondo Nello Rossi, direttore di “Questione giustizia”, la rivista-pensatoio di Magistratura democratica, si tratta di “una selva di norme in molti casi illiberali, accomunate da una concezione unilaterale della sicurezza. L’unica che conta è la sicurezza nelle strade, l’unica minaccia è la criminalità urbana, visibile. In Italia stanno aumentando a dismisura i reati finanziari, le frodi via web, ma di questi non si fa parola. Non si parla di sicurezza economica, l’evasione fiscale si può condonare. Non si fa niente per la sicurezza del lavoro, dell’ambiente, del territorio. Con l’abolizione dell’abuso d’ufficio si nega anche la sicurezza dei cittadini rispetto agli abusi del potere. Anche quello giudiziario: un giudice può incontrare di nascosto un suo imputato e dargli consigli perché è amico degli amici. Siamo alla follia”. “Penso che questo governo confidi in una miopia dell’opinione pubblica, che tende ad accorgersi solo dei problemi che ha sotto gli occhi. Per i reati di strada c’è un continuo gioco al rialzo, demagogico e spregiudicato: si aumentano le pene minacciate e le misure di polizia. Ma non si mandano più agenti nelle strade: si fa solo propaganda. Intanto ceto politico e classe economica puntano a recuperare l’immunità. C’è un’immensa opera di minimizzazione dei reati della politica e discredito della magistratura. Il caso Toti è emblematico”. Armando Spataro è stato procuratore antimafia e antiterrorismo. Ha anche rappresentato al Csm il Movimento per la giustizia, la corrente di cui era stato uno dei fondatori con giudici come Giovanni Falcone. Anche per lui, le nuove norme sono un disastro. “Il ddl sicurezza è perfettamente in linea con le tante riforme della giustizia, che dovrebbero invece definirsi controriforme, approvate o annunciate da questo governo con cadenza quasi giornaliera: basti pensare, ad esempio, alla riduzione della possibilità e durata delle intercettazioni; all’obbligo per alcuni tipi di reato di interrogare l’indagato prima di un eventuale arresto; alla competenza di un collegio di giudici per le ordinanze di custodia in carcere; e tante altre norme che allungano i tempi del processo e rendono più difficile il contrasto alla criminalità organizzata. E ora si introducono nuovi reati e si inaspriscono le pene per condotte marginali o di gravità non certo elevata: si usa il diritto penale per guadagnare consensi, trasmettendo messaggi securitari a un elettorato disinformato. È chiaro che occorre punire con decisione ogni reato, in particolare quelli che ledono il diritto alla sicurezza: ho sempre svolto funzioni di pubblico ministero e non posso certo essere accusato di eccesso di garantismo. Ma moltiplicare i reati è inutile e spesso è dannoso. Che senso ha punire la resistenza passiva? I comportamenti illegali sono già ora punibili. Si vuole contrastare il diritto alla protesta pacifica di studenti, lavoratori, ambientalisti? Anche il ministro delle Infrastrutture dimostra di rivendicarlo, questo diritto, quando auspica una manifestazione dinanzi al Palazzo di Giustizia di Palermo a sostegno della sua dichiarata innocenza nel processo Open Arms”. Contro il ddl si scaglia anche Pietro Colapietro, il segretario generale del Silp Cgil: “Lo critichiamo sia come poliziotti che come cittadini. Nei fatti non si fa nulla contro la criminalità: si vuole usare la polizia per colpire il disagio sociale. Per molti di noi è una grande sofferenza arrestare l’operaio che occupa per disperazione la strada davanti alla fabbrica che chiude. In una democrazia non si punisce la protesta, si fa sicurezza reale. In polizia abbiamo bisogno di nuove assunzioni, di non dover fare straordinari obbligati, pagati sempre in ritardo. Ora non copriamo nemmeno il turn over, perdiamo più di tremila poliziotti all’anno. Non ci servono nuovi reati, ma più mezzi, macchine adeguate, alloggi di servizio”. Il sindacalista della polizia attacca anche la norma di favore: “Un agente normale non vuole la seconda arma: abbiamo il problema opposto, non sappiamo dove lasciare quella di servizio. Se è una questione operativa, se si vuole fornire a chi lavora in abiti civili una pistola più pratica della calibro 9 parabellum, allora si aumenti la dotazione: perché dovremmo pagarcela noi? A chi serve tenere una seconda arma senza licenza? Riempire un Paese di armi è un errore tragico. C’è una rincorsa al consenso immediato, mentre mancano interventi strutturali per la sicurezza”. Anche tra i giuristi le critiche sono pesanti. Il professor Marco Pelissero, che insegna all’università di Torino, è il presidente dell’associazione italiana dei docenti di diritto penale. Nel maggio scorso è stato sentito come esperto alla Camera proprio sul ddl sicurezza. E ora spiega a L’Espresso: “In generale, è una legge che si muove in chiave repressiva senza aumentare la sicurezza effettiva. Le norme penali vengono usate in funzione simbolica e comunicativa”. Il giurista conferma la presenza di parti discriminatorie e antidemocratiche. “Le norme contro l’occupazione di immobili e quelle sul Daspo urbano sono scritte in modo da consentire applicazioni abnormi, anche in situazioni di reale emarginazione e marginalità. È paradossale che questo disegno venga portato avanti da un ministro della giustizia che si era insediato promettendo di ridurre il controllo penale: l’ha fatto solo con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio”. La norma peggiore del ddl è quella che si potrebbe definire “ingabbia-Gandhi”. “Diventa reato il blocco di strade o ferrovie attuato in forma di resistenza passiva, solo con il proprio corpo”, chiarisce il professore. “Era già un illecito amministrativo, sanzionato con una multa, ora diventa penale ed è punito con la reclusione fino a due anni se commesso da almeno tre persone, anche senza alcuna violenza o minaccia. In questo modo si criminalizza la protesta pacifica. È una deriva molto preoccupante”. La svolta autoritaria è estesa anche alle prigioni. “Nel reato di rivolta in un carcere, o in un centro detentivo per immigrati, ora rientra pure la resistenza passiva: anche qui si punisce il solo fatto di non obbedire a un ordine, senza alcun elemento di violenza, minaccia o tentata evasione. Di fronte all’incapacità di affrontare i problemi delle carceri, sovraffollate di detenuti, si incrimina come rivolta la protesta puramente passiva. È una norma pericolosissima, che si presta a diventare uno strumento di gestione arbitraria delle prigioni e a favorire l’uso della forza”. Ci mancava solo la legge salva-lager. Viva il garantismo! Sicurezza, facciamo parlare i numeri di Giorgio Antoniacomi Corriere del Trentino, 29 settembre 2024 Semplificando molto, ma non banalizzando, ci sono due modi alternativi per parlare di sicurezza nelle nostre città. Sono due narrazioni diverse, inconciliabili. Quella che sembra prevalere oggi, e ci riferiamo anche alla situazione della città di Trento, mira a rappresentare una situazione estrema, talora fuori controllo. È un’analisi sommaria, che prelude a risposte altrettanto sommarie: il carcere, le espulsioni, la chiusura delle frontiere. Un’altra narrazione è quella che considera la sicurezza a partire dai dati. Il Ministero dell’Interno, in un Rapporto di ricerca realizzato con Eurispes e pubblicato nel maggio 2023, intitolato “La criminalità fra realtà e percezione”, ci informa che dal 2007 al 2013 il numero di reati commessi in Italia ha avuto un andamento altalenante, salvo diminuire costantemente dal 2014 al 2020. Al netto del periodo della pandemia, caratterizzato da limitazioni al movimento delle persone, il confronto fra il 2019 e il 2022 conferma un trend in diminuzione. L’indice della criminalità 2024, elaborato dal Sole 24 Ore, pone la provincia di Trento all’88° posto della classifica per tasso di reati denunciati, con 2.643,2 denunce ogni 100.000 abitanti (al primo posto c’è Milano, con 7.093,9 denunce per 100.000 abitanti). Un secondo aspetto che va puntualizzato è che i reati che più si temono sono quelli che creano allarme sociale e, in particolare, quelli di natura predatoria. Non sempre, però, i comportamenti che provocano allarme sono reati, ma esprimono disordine e maleducazione e, viceversa, non sempre i reati più gravi provocano allarme: pensiamo che Trento “risale” in classifica per numero di denunce, collocandosi al 19° posto fra tutte le province italiane (Fonte: Lab24, Sole 24 Ore) per il reato di associazione a delinquere. Un terzo aspetto da considerare riguarda la rappresentazione mediatica dei reati. Non si finirà mai di sottolineare abbastanza come alcuni pericoli evitabili, come gli incidenti stradali, gli incidenti sul lavoro e quelli domestici, che spesso hanno conseguenze letali (3.039 persone sono morte sulle nostre strade nel 2023, fonte: Istat), vengano attribuiti alla fatalità. Accenniamo, infine, ai femminicidi e alla violenza di genere, comportamenti che per oltre l’80% (il riferimento all’anno 2022, fonte: Istat 2024) avvengono per mano di partner, ex partner o parenti. I numeri, se fatti “parlare”, dovrebbero dunque contribuire a modificare le nostre percezioni e, soprattutto, le loro distorsioni. Sarebbe d’altra parte sbagliato non ricordare che reati e percezioni di vulnerabilità toccano corde emotive profonde, destinate a diventare sempre più sensibili in una società come la nostra che, per diverse ragioni, possiamo definire la società dell’incertezza: non si può dunque, e anzi sarebbe un grave errore, archiviare preoccupazioni e disagi limitandosi ad affermare che non sempre e non tutti hanno un fondamento oggettivo. Da queste brevi considerazioni si possono trarre alcune conclusioni. La prima è che, indipendentemente dal fatto che sia fondata su circostanze obiettive o su percezioni, la sicurezza deve costituire un problema e, dunque, deve essere oggetto di politiche mirate ed efficaci. A una più che legittima domanda di sicurezza, però, si possono dare risposte diverse. Le due narrazioni che abbiamo descritto aprono la strada ad altrettante prospettive divergenti. La visione che risolve le criticità sociali in termini di ordine pubblico contiene alcuni salti logici e alcune forzature: afferma l’equivalenza, o quasi, fra immigrazione e incremento dei reati; coltiva la convinzione, del tutto illusoria, che lo strumento penale (soprattutto il carcere) sia la soluzione alla maggior parte dei problemi (in un momento nel quale un dibattito molto autorevole si interroga sulla sua effettiva utilità anche sia come deterrente, sia per evitare la commissione di nuovi reati); rinnova la scelta di concentrare in pochi luoghi le contraddizioni, finendo in questo modo per contribuire a riprodurle; promette, e qualche volta realizza, il dispiegamento visibile di forze dell’ordine che, se da un lato contribuisce ad attenuare la sensazione di pericolo, dall’altro incrementa la percezione della sua esistenza, spostando i problemi da un’altra parte. La seconda prospettiva si concentra, a partire dal rispetto delle regole, sul tentativo di dare risposte diverse a problemi differenti. Certo, è una strada più lunga e più impegnativa, che mette in relazione diritti, doveri e responsabilità; che si interroga sull’efficacia delle politiche; che non alimenta l’allarmismo, anche se è consapevole che le paure vanno ascoltate e comprese; che crede al valore dell’integrazione e alla possibilità, faticosa e mai scontata negli esiti, di integrare le differenze. Il mondo non è fuori controllo. L’alternativa che abbiamo di fronte è abbastanza netta e si pone tra amplificare e cavalcare le paure o, al contrario, provare a recuperarle a una capacità matura di pensiero. Nordio: “Ci sono pochi magistrati, finora si è investito poco nella giustizia” di Petronilla Carillo Il Mattino, 29 settembre 2024 Si è sentito a proprio agio tra gli ex colleghi di Magistratura Indipendente tanto da trattenersi ben oltre il proprio intervento prima di andare via “solo” perché “ho un aereo da prendere”. La partecipazione del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, alla due giorni a Cetara sul tema de “L’intelligenza artificiale: la rivoluzione culturale del Millennio”, è stata l’occasione per il Guardasigilli per anticipare due iniziative importanti: la riforma della norma sulla malattia dei magistrati e l’avvio della procedure concorsuali per l’arruolamento di toghe: “quattro i concorsi già banditi, un quinto lo stiamo approntando ma dobbiamo soprattutto snellire la burocrazia”. Temi molto cari alla platea di magistrati che hanno consentito al ministro di intascare due lunghi applausi di almeno un minuto ciascuno. Il guardasigilli si è anche concesso qualche battuta con la stampa rispondendo anche alla domanda sulla sicurezza negli ospedali: “Abbiamo fatto, credo, un’ottima legge, un ottimo decreto e penso che sarà convertito in termini rapidissimi e immagino che sarà anche ampiamente condiviso perché la tutela dei sanitari è un principio che non può avere oppositori”, ha commentato prima di lasciare il piccolo centro della Costiera amalfitana. Soltanto qualche minuto prima, nel congedo con i suoi “ex colleghi” ha anticipato l’incontro di novembre in Laguna veneta. il Venice Justice group, un organismo che “consenta di rafforzare e coordinare ancor di più le nostre iniziative; un nuovo strumento a tutela dello stato di diritto anche rispetto ai nuovi scenari aperti dall’intelligenza artificiale”. “I magistrati lavorano troppo e sono pochi”, dice il ministro nel corso del suo intervento a Magistratura Indipendente “sindacato al quale mi sono iscritto appena diventato pm ma che non ho mai vissuto attivamente”. Poi cita i numeri: “abbiamo circa 9mila magistrati sui diecimila previsti, abbiamo messo a bando 1.400 posti e questa volta cambieremo davvero le cose perché io fondi ci sono e li dobbiamo utilizzare”. Poi precisa: “Il mondo giudiziario non produce voti, perciò finora si è investito poco. Poi ci sono le solite polemiche, tipo che i magistrati lavorano poco, sono stupidaggini colossali. Io non ho mai osato dire che lavorano poco anzi talvolta lavorano troppo soprattutto in ambito penale perché, quando sei stanco, rischi di commettere un errore”. “La modalità di ingresso nel mondo della magistratura è la stessa di quando ho fatto io il concorso: cinque anni per avere la toga. Non si può andare avanti così: bisogna creare più sottocommissioni di valutazione composte d magistrati. Oggi in queste commissioni ci sono professori universitari, avvocati... se hanno un impegno fanno saltare la seduta e si rinvia. Non è vero che avere magistrati fuori ruolo rallenta la giustizia, la giustizia è lenta perché ci sono pochi magistrati”. Sulla nuova norma sulla malattia dei magistrati, Nordio, spiega di non avere idea di quanto fosse penalizzante quella precedente che, di fatto, toglie le indennità (che rappresentano il 30% dello stipendio) in caso di riposo sanitario. “È uno spauracchio perché molte persone la vedono sotto l’aspetto patologico, cioè sotto i pericoli e i rischi che può rappresentare. Noi dobbiamo trasformare questi pericoli e questi rischi, che esistono, in opportunità e strumenti. Gli strumenti dell’intelligenza artificiale, come tutti quelli della scienza umana, non sono né buoni né cattivi, sono neutrali” ha detto il ministro della Giustizia. “È l’uomo che deve saper governare, anche l’intelligenza artificiale, che è pur sempre una creazione dell’uomo. Quindi, anche per quanto riguarda la giustizia, “l’intelligenza artificiale servirà a dare un aiuto ma non certo a sostituire il giudice, cosa che è impossibile perché la macchina non ha sentimento, la macchina non ha cuore, la macchina può soltanto razionalizzare, se l’algoritmo peraltro è costruito bene, dei dati facendoci risparmiare molto tempo”. E l’esempio che riporta è quello di un investimento: per la macchina l’automobilista ha investito un uomo ma non può valutare se quell’omicidio è doloso, colposo, volontario o preterintenziale. “In questo senso - ha ribadito - è molto utile, com’è stato utile Google per cercare, per esempio, le sentenze che una volta si sfogliava. Ma, non potrà mai sostituire la sensibilità, l’intelligenza, il buon senso del magistrato, però sarà un grandissimo aiuto per accelerare i processi, nella comprensione di interpretazione del diritto, che altrimenti sarebbero difficile reperimento. E, quindi, saranno degli strumenti che, se usati bene, rivoluzioneranno in molti aspetti la giustizia. Ma, non la rivoluzioneranno nel merito, non sostituiranno la mente del giudice nei repertori manuali”. Giustizia-lumaca, il governo accelera sugli indennizzi per le vittime di Francesco Bechis Il Mattino, 29 settembre 2024 Accordo tra il ministero di Nordio e Formez per accelerare sui rimborsi. Lo sprint per evitare una condanna alla Cedu e sminare il percorso del Pnrr. Una corsia preferenziale per le vittime della “giustizia-lumaca”, gli italiani che hanno diritto a un equo risarcimento per aver subito processi ingiustamente lunghi, infiniti, con danni gravissimi alla propria vita e quella dei loro cari. E una scappatoia per evitare una doppia, salatissima multa, dall’Ue e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il governo mette mano alla annosa questione degli indennizzi della legge Pinto, i soldi che lo Stato deve ai cittadini travolti dagli effetti collaterali di una giustizia lenta, inefficiente. Un emendamento del ministero di Carlo Nordio al decreto infrazioni annuncia la svolta. Il dicastero di via Arenula ingaggerà Formez, l’istituto per la modernizzazione della Pa, per accelerare le pratiche di rimborso. L’associazione sotto il controllo di Palazzo Chigi che il governo Meloni ha commissariato un anno fa, metterà a disposizione “risorse umane e materiali e necessarie a garantire il celere smaltimento delle istanze di liquidazione degli indennizzi allo stato impagati” si legge nell’emendamento e l’obiettivo è assicurare “il più celere soddisfacimento della pretesa di chi è in attesa di ricevere quanto gli è dovuto”. Il costo dell’operazione è contenuto: per tre anni, dal 2024 al 2026, 5 milioni e mezzo di euro. Non è di poco conto però, spiegano fonti di via Arenula, la missione del ministero costretto ad accelerare per evitare al governo un inciampo in Europa. Già, perché il ritardo degli indennizzi alle vittime della giustizia lenta è un guaio tutto italiano e da tempo l’Ue richiama all’ordine chi governa a Roma. Di più: pagare in tempo chi ne ha diritto è un obiettivo esplicito del Pnrr tricolore appeso alla “riduzione dei tempi di pagamento delle pubbliche amministrazioni e delle autorità sanitarie”. Non è dunque solo afflato garantista quello che muove il governo alla vigilia di un’altra scadenza. Entro domani infatti il comitato dei ministri della Corte europea dei diritti dell’uomo, attende spiegazioni da Palazzo Chigi sulle iniziative assunte per mettere fine ai gravissimi ritardi negli indennizzi. Pena una nuova condanna con annessa sanzione da pagare. L’Italia è da anni ormai osservata speciale dalla Corte di Strasburgo. Tra i 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa ha il primato assoluto di condanne per processi troppo lunghi: più di 1200 dal 1959, seguita (a distanza) da Turchia, Francia e Germania. Un procedimento su cinque davanti alla Corte riguarda proprio i ritardi nei rimborsi e ad oggi sono 68 quelli aperti. Tra i pagamenti in ritardo, ammette il governo nella relazione illustrativa dell’emendamento, “vi sono proprio quelli collegati agli indennizzi liquidati in relazione alla violazione del principio di ragionevole durata dei processi”. Fosse solo un problema di immagine. E invece è un serio guaio per le casse dello Stato: dal 2001, anno in cui è entrata in vigore la legge Pinto sui risarcimenti, ha pagato centinaia di milioni di euro alle vittime. Quasi un miliardo solo negli ultimi cinque anni. Se poi arriva la condanna della Corte di Strasburgo, e arriva quasi sempre, il conto aumenta: lo Stato non solo paga l’indennizzo, ma è obbligato a versare “una ulteriore somma, anche di notevole entità, a titolo di danno morale e di rimborso spese” entro tre mesi dal pronunciamento. Di qui la corsa ai ripari, last minute. Per scongiurare una nuova condanna della Cedu e sminare una salatissima procedura di infrazione Ue. Non è un caso che del piano Formez studiato a via Arenula sia stato informato anche Raffaele Fitto, il ministro agli Affari europei nominato Commissario che ha promesso a Giorgia Meloni di lasciare in ordine i dossier “di casa” prima di partire per Bruxelles. A cominciare dalla mannaia delle procedure di infrazione. Insomma, cosa farà per i prossimi tre anni Formez? La struttura commissariale guidata dal Capo dipartimento della funzione pubblica di Palazzo Chigi, Marcello Fiori, dovrà supportare il ministero di Nordio “nelle fasi preparatorie del pagamento delle somme riconosciute agli aventi diritto dalle competenti corti d’appello a titolo di indennizzo e delle relative spese processuali”. Tradotto: accelerare le pratiche e i bonifici che lo Stato deve da anni a chi chiede giustizia, e dalla giustizia invece subisce un torto. “L’Ia è una risorsa, ma il lavoro del giudice va preservato” di Giulia Merlo Il Domani, 29 settembre 2024 Sul sorteggio dei consiglieri togati, su cui è orientato il governo: “L’autorevolezza del governo autonomo della magistratura deve essere salvaguardata non attraverso riforme qualunquiste e populiste, ma al contrario battendosi per il merito e la qualità”. Anche la magistratura ha cominciato a parlare di intelligenza artificiale: “La rivoluzione culturale del millennio”, viene definita nel titolo del convegno nazionale promossa da Magistratura Indipendente e dedicato al tema. “Dobbiamo lavorare per rafforzare ciò che continuerà a differenziare l’uomo dalle macchine e cioè lo sviluppo di un pensiero critico”, spiega il segretario nazionale di Mi, Claudio Galoppi. Anche la magistratura ha iniziato a parlare di intelligenza artificiale: pericolo o risorsa? La magistratura ha il dovere di occuparsi della rivoluzione culturale del millennio che interroga tutti i cittadini ed in particolare coloro che svolgono professioni intellettuali perché, più di altri, dovranno confrontarsi con le nuove ed inedite abilità delle macchine. Anche per le professioni giuridiche l’intelligenza artificiale comincia a manifestarsi come un fattore decisivo di cambiamento: certamente una risorsa, laddove potrà servire a rendere più agevole, più rapido e più accessibile il servizio giustizia, ma anche e soprattutto un grave pericolo se non si porranno regole chiare e precise sui limiti di utilizzo dell’intelligenza artificiale in questo settore. Dobbiamo lavorare per rafforzare ciò che continuerà a differenziare l’uomo dalle macchine e cioè lo sviluppo di un pensiero critico che non accetti passivamente ciò che viene prodotto dalle macchine e la centralità delle relazioni umane e professionali, perché il valore di quello che si crea assieme sarà sempre infinitamente superiore al prodotto dei robot. E’ immaginabile, in ottica di efficienza, che l’intelligenza artificiale sia di ausilio al giudice? C’è il timore che lo sostituisca? L’attività del giudicare deve essere preservata nella sua unicità e originalità, caratterizzata come è dalla centralità dell’uomo che deve rimanere insostituibile nel processo decisionale. Per questo l’applicazione dell’intelligenza artificiale al lavoro del magistrato dovrà procedere da un principio fondamentale per cui è il robot che coopera con l’uomo e non l’uomo che assiste la macchina. In altri termini la decisione non potrà mai essere demandata all’algoritmo e ai suoi automatismi. Intanto, la giustizia italiana è ancora alle prese con l’informatizzazione. Il Pnrr è stato investito anche per questo, ma i risultati sembrano ancora scarsi in particolare sul processo penale telematico... Effettivamente l’applicazione al settore penale del processo telematico presenta molte criticità. Occorre però evidenziare che il Ministero ha preso atto delle indicazioni e dei correttivi suggeriti da chi opera direttamente negli uffici giudiziari e sta provvedendo in tal senso. E’ chiaro però che nessuna innovazione tecnologica potrà essere efficace se non supportata da investimenti strutturali, che consentano soprattutto formazione degli operatori, flessibilità di soluzioni e assistenza continua. E su questo occorre lavorare di più. Venendo alla fase di riforme, quella più significativa per la magistratura è la separazione delle carriere. Al vostro convegno ci sarà anche il ministro Carlo Nordio, c’è ascolto su questo fronte? Come ho già avuto occasione di ricordare il nostro atteggiamento, pur caratterizzato da un giudizio complessivamente negativo, è di apertura ad un dialogo serio e costruttivo. Nella chiarezza però della convinzione, maturata sul campo, che la separazione delle carriere non porterà nessun vantaggio all’efficienza della giustizia, alla sua rapidità, alla sua qualità, ma soprattutto non aumenterà affatto le garanzie dei cittadini. Nella riforma costituzionale si prevede anche il sorteggio dei togati del Csm e, a giustificazione, si porta la deriva correntista emersa col caso Palamara. Cosa obietta? Rispondo che il rimedio è peggiore del male. Sono convinto che l’autorevolezza del governo autonomo della magistratura debba essere salvaguardata non attraverso riforme qualunquiste e populiste, ma al contrario battendosi per il merito e la qualità anche nella selezione dei rappresentanti istituzionali oltre che, naturalmente, mediante la definizione di regole certe per l’esercizio dei poteri discrezionali del CSM. In questa direzione peraltro vanno proprio i decreti attuativi della riforma Cartabia. Il Csm sta vivendo un momento difficile a causa del caso della laica Rosanna Natoli, ora sospesa. Sarebbero auspicabili le sue dimissioni? Si tratta di una vicenda complessa e delicata sulla quale, non avendo alcuna conoscenza, non posso esprimere valutazioni e sulla quale peraltro il CSM si è già pronunciato. Si apre, alla luce di questo caso, una questione anche sul profilo dei componenti laici del consiglio? Si tratta di una responsabilità del Parlamento chiamato ad effettuare una designazione di personalità autorevoli e competenti. Premiando il merito si avrà la garanzia di realizzare quella osmosi virtuosa tra giurisdizione, avvocatura e accademia, saggiamente prefigurata dalla nostra Costituzione. Il processo di Palermo a Matteo Salvini ha riportato nelle cronache lo scontro tra politica e giustizia. Un magistrato sente, nel lavoro di tutti i giorni, la pressione mediatica o politica? Il magistrato deve svolgere il suo lavoro quotidiano senza preoccuparsi dei risvolti mediatici, a volte inevitabili, della sua attività e delle sue decisioni. L’importante è il rigore professionale, l’assoluto rispetto delle regole, dei diritti e delle prerogative delle parti. E naturalmente l’assenza di ogni pregiudizio. “Sull’IA i giuristi devono fare la propria parte per scongiurare ricadute negative” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 settembre 2024 A Cetara il dibattito sull’impatto dell’intelligenza artificiale sulla magistratura, parla Loredana Miccichè, presidente di Magistratura indipendente. Si è chiuso ieri a Cetara, in provincia di Salerno, il convegno nazionale promosso da Magistratura indipendente, dedicato al tema “L’intelligenza artificiale: la rivoluzione culturale del millennio”. Previsti, tra gli altri, gli interventi del guardasigilli Carlo Nordio e del vicepresidente del Csm Fabio Pinelli. Ne parliamo con Loredana Miccichè, presidente di Mi, che dice: “La magistratura deve fare la sua parte per indicare al legislatore i necessari ambiti di intervento. Per fare questo è necessaria una riflessione seria e approfondita che faccia emergere le criticità e, al tempo stesso, le opportunità che l’innovazione ci offre”. Durante il congresso dell’Associazione nazionale forense tenutosi a Parma dal 16 al 19 settembre è emerso il timore da parte di alcuni avvocati che l’Intelligenza artificiale possa sostituirsi al giudice. Esiste questo reale pericolo? Allargherei la prospettiva di analisi. Esiste in generale il pericolo che l’Intelligenza artificiale possa invadere il campo riservato alla intelligenza dell’uomo. Il problema riguarda tutte le professioni intellettuali e dunque anche la stessa avvocatura. La magistratura, da parte sua, ha il dovere di intervenire ed è proprio questo l’obiettivo che Magistratura indipendente si è prefissa, organizzando a Cetara una “due giorni” dedicata alle ricadute che l’introduzione dell’Intelligenza artificiale potrebbe avere sul funzionamento della giustizia nel nostro Paese. Questo convegno si snoda su una direttrice logica: il tema dell’Intelligenza artificiale tra tecnica, etica e diritto e in una prospettiva dialogante con la politica. A noi preme ribadire l’insostituibilità della sensibilità umana e, contestualmente, il principio intangibile del libero convincimento del giudice. È comunque opportuno definire gli ambiti in cui, nel settore della giurisdizione, l’Ai può invece fornire un supporto concreto e auspicabile. In tutti i campi di applicazione dell’Ai nel vivere quotidiano si pone il problema della responsabilità/ imputabilità. Pensiamo ad una macchina senza guidatore che uccide una persona. Quali sono i fattori in gioco? Si tratta di un ulteriore aspetto problematico che l’Intelligenza artificiale può comportare. Su questo l’intervento della comunità dei giuristi può rivestire un ruolo fondamentale. La personalità della responsabilità penale e l’obbligatorietà della assicurazione per le vittime della strada e degli infortuni sul lavoro costituiscono principi fondamentali di un moderno Stato di Diritto e vanno sempre difesi con l’avanzare dei sistemi automatizzati. Si profila uno scenario in cui l’Intelligenza artificiale sia gestita solo da privati senza controllo da parte di autorità di garanzia. La giustizia potrebbe avere un ruolo in questo? La giustizia può intervenire in un contesto di norme applicabili. Come detto, la magistratura deve fare la sua parte per indicare al legislatore i necessari ambiti di intervento. Per fare questo è necessaria una riflessione seria e approfondita che faccia emergere le criticità e, al tempo stesso, le opportunità che l’innovazione ci offre. Come difendersi da una Intelligenza artificiale che produce sempre più fake news o realizzato falsi video di politici? Ribadisco che allo stato attuale delle cose la giustizia può intervenire solo con gli strumenti disponibili. Questo significa, ad esempio, che essa si può mettere in moto soltanto se la diffusione della fake news integra un reato di diffamazione o se si generano pericoli per l’ordine pubblico. Certamente sono strumenti che possono rivelarsi inadeguati: anche su tale aspetto si rivela urgente una riflessione propositiva della comunità dei giuristi. Piemonte. Il Garante dei detenuti: “Sovraffollamento, suicidi e aumento di minori” vconews.it, 29 settembre 2024 Bruno Mellano ha presentato in Regione la sua relazione annuale sulle condizioni delle carceri piemontesi. “Riavviare e valorizzare la Cabina di regia tra istituzioni e potenziare le risposte sulla Sanità penitenziaria” sono due delle richieste formulate dal Garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano nel corso dell’illustrazione - in Aula - della relazione annuale del proprio Ufficio. Prendendo le mosse dalle conclusioni del convegno Carcere: il ruolo delle Regioni, svoltosi nell’ottobre scorso a Torino, Mellano ha aggiunto, tra le richieste, la necessità “di fare sistema con le politiche attive del lavoro, la formazione professionale, la scuola e i progetti avviati con il privato sociale e il territorio”. “Occorre inoltre affrontare - ha proseguito - le questioni relative ai servizi dedicati al disagio mentale: le Articolazioni per la tutela della salute mentale (Atsm), le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) e i servizi dedicati sul territorio” e ha richiamato l’attenzione sulla prossima riapertura del Centro per il rimpatrio (Cpr) di corso Brunelleschi, a Torino. Mellano, il cui mandato scadrà nel febbraio 2025, ha sottolineato che “le funzioni del Garante non sono limitate entro il perimetro del carcere ma si estendono all’esecuzione penale esterna, in continua espansione, se si considera che, a livello nazionale, al 31 dicembre 2023 erano 60.166 i detenuti in carcere e 130.406 persone erano seguite dagli Uffici per l’esecuzione penale esterna (Uepe)”. Per quanto riguarda la giustizia minorile Mellano si è, inoltre, soffermato “sul fortissimo incremento, negli ultimi tre anni, dei detenuti nel sistema penale minorile: 318 al dicembre 2021; 400 al dicembre 2022; 495 al dicembre 2023 e 580 all’agosto 2024. Una situazione che, a causa di crescenti disagi, proprio all’inizio di agosto ha provocato una rivolta all’Istituto minorile Ferrante Aporti di Torino dove, su una capienza massima di 46 posti, i detenuti erano 60 e da settimane una dozzina dormivano su brandine da spiaggia aggiunte nelle stanze”. Mellano ha anche puntato l’attenzione sull’alto numero di suicidi, “che dall’inizio dell’anno sono 73 in Italia, di cui 6 in Piemonte, mentre in tutto il 2023 sono stati 69, di cui 5 nella nostra regione” e sui procedimenti penali per tortura e violenza in corso a Biella, Cuneo, Ivrea e Torino. “Il Garante - ha sottolineato - si è costituito parte civile a Torino e a Ivrea e intende farlo anche a Biella e a Cuneo grazie al patrocinio ‘pro bono’ del presidente della Camera penale del Piemonte occidentale e della Valle d’Aosta”. Il dibattito è stato aperto da Domenico Rossi - intervenuto per il Pd con Nadia Conticelli ed Emanuela Verzella - che ha sottolineato come, di anno in anno, le criticità denunciate rimangano più o meno le medesime, suggerendo di “provare a elencare i problemi in modo puntuale e tentare di risolverli dandoci delle scadenze. Occorre, inoltre, puntare su lavoro e formazione perché è chiaro che più le persone hanno titoli di studio elevati meno hanno possibilità di andare in carcere”. Roberto Ravello (Fdi) ha rivendicato “che il Piemonte, con la rete dei Garanti comunali, è tra le Regioni più avanzate d’Italia” e dichiarato la contrarietà “a indulti, amnistie e abolizione delle carceri minorili”, illustrando “quanto fatto dal Governo negli ultimi venti mesi per la sicurezza all’interno del carcere, per il sovraffollamento, per la rieducazione e il reinserimento dei detenuti”. Ha invece espresso riserve sulla decisione del Garante di costituirsi “parte civile nei processi contro la polizia penitenziaria senza averlo mai fatto in nessun procedimento nei confronti della popolazione carceraria quando si è resa responsabile di disordini e distruzioni”. Giulia Marro - intervenuta per Avs con Alice Ravinale - ha evidenziato come “il ruolo del Garante sia fondamentale, essendo l’unica voce che porta dal carcere le istanze di chi è dentro, diversamente da chi ci lavora che può rivolgersi ai propri sindacati di riferimento”, ha espresso preoccupazione “per il nuovo Ddl sicurezza proposto dal Governo, che rischia di inasprire l’emergenza carceraria il cui effetto sono sovraffollamento, suicidi e scioperi della fame e per l’aumento delle persone tossicodipendenti in carcere perché manca il personale medico e gli educatori per seguirli”. Gianna Gancia (Lega) ha affermato di “avere a cuore i seri problemi delle persone con disagio mentale e psichiatrico: dobbiamo fare in modo che chi ne soffre venga curato, ma non nel sistema carcerario, soprattutto per chi ha commesso reati minori”. Anche lei ha espresso qualche perplessità “sulla costituzione di parte civile, perché credo che le guardie carcerarie lavorino in un clima di forti difficoltà”. Alberto Unia (M5s) ha ribadito la necessità di aprire una discussione “per cercare di trovare soluzioni affinché la detenzione rappresenti sempre più un’occasione per i detenuti per crescere e per imparare in maniera continuativa”, facendo riferimento “a un’epoca in cui si parlava di progetti di lavori socialmente utili sia all’esterno sia all’interno del carcere”. Silvio Magliano (Lista Cirio) ha sottolineato “la necessità di impegnarsi sui temi della Sanità penitenziaria e sulla formazione e l’inserimento nel mondo del lavoro, strumenti insostituibili per aiutare i detenuti a riscattarsi e a diminuire i rischi di recidiva grazie anche al contributo del Terzo settore e delle associazioni no profit”. Paolo Ruzzola (Fi), osservando che “il numero dei detenuti e il conseguente sovraffollamento, fonte di esasperazione e di proteste, sia in ulteriore aumento” ha ricordato “l’importanza di accrescere il numero del personale e aiutare i detenuti a riscattarsi per evitare il rischio di recidiva. Alla certezza della pena dobbiamo affiancare politiche educative e di reintegrazione nel tessuto sociale”. Torino. Carceri, maratona oratoria di Europa Radicale sotto sede RAI regionale torinoggi.it, 29 settembre 2024 Venerdì mattina a Torino si è tenuta sotto la sede della RAI regionale una “maratona oratoria” organizzata da Europa Radicale a sostegno della richiesta, rivolta ai vertici RAI nazionali, di realizzare uno “speciale carceri” in prima serata, che garantisca ai cittadini il “diritto alla conoscenza” sulla situazione esistente nelle carceri italiane. Sono intervenuti alla “maratona oratoria”, tra gli altri: Michela Favaro (vice sindaca di Torino); Ludovica Cioria (vice presidente Consiglio Comunale di Torino); Francesco Aglieri Rinella (vicepresidente Circoscrizione 3); Cesare Burdese (architetto esperto in edilizia penitenziaria, Nessuno tocchi Caino). Hanno partecipato al sit in gli esponenti storici radicali Igor Boni, Giulio Manfredi, Silvja Manzi, Beatrice Pizzini e Chiara Squarcione. Nel corso della “maratona oratoria” sono stati letti i nomi (o i riferimenti) dei 73 uomini e donne detenuti che da gennaio 2024 si sono suicidati in carcere nonché dei 7 agenti dì polizia penitenziaria che si sono tolti la vita negli stessi mesi. Sono stati anche letti stralci del D. lgs. 230/1999, con cui, 25 anni fa, si garantivano ai cittadini detenuti le stesse prestazioni sanitarie degli altri cittadini. Una legge rimasta sulla carta. Una delegazione del Comitato di Redazione della RAI regionale e’ scesa in strada ed ha ricevuto dai radicali il testo dell’Appello promosso da Europa Radicale, già sottoscritto da 400 personalità della politica, dell’associazionismo. del giornalismo e della cultura, che i cittadini possono sottoscrivere al seguente link: https://europaradicale.eu/appello-alla-rai-per-speciale-carceri-in-prima-serata/ Venezia. In migliaia a Mestre per Giacomo e contro le politiche securitarie di Brugnaro di Riccardo Bottazzo Il Manifesto, 29 settembre 2024 “Riprendiamoci la città” Il Cso Rivolta e tante associazioni hanno ricordato il ragazzo morto il 20 settembre. “Riprendiamoci la città. l sindaco ha tagliato tutti i servizi di welfare a Venezia, noi reagiamo: oggi noi chiediamo una radicale inversione di rotta”. Più di cento sigle tra comitati di quartiere, associazioni cittadine, movimenti, partiti, sindacati, comunità di migranti, hanno aderito all’appello lanciato da “Riprendiamoci la città” e dal Cso Rivolta e si sono date appuntamento nel pomeriggio di ieri davanti alla stazione di Mestre per manifestare dietro al grande striscione con la scritta: “Per Jack, per noi, per tutti: riprendiamoci la città”. Il corteo ha sfilato lungo corso del Popolo sino alla cancellata ricoperta di mazzi di fiori del liceo Guggenheim, davanti alla quale, nella notte di giovedì 20 settembre, il 26enne Giacomo Gobbato è stato ucciso e il suo amico Sebastiano Bergamaschi ferito a una gamba nel tentativo di soccorrere una donna aggredita. Nel febbraio dello scorso anno, un simile corteo aveva sfilato per la stessa strada per commemorare un’altra vittima del degrado in cui la città è sprofondata dopo nove anni di amministrazione del sindaco Luigi Brugnaro. In cinquemila erano scesi in piazza per commemorare un altro ragazzo, ucciso da un’auto che condotta da un tossicodipendente che guidava contromano, e chiedere un’inversione di rotta nelle politiche sicurtarie dell’amministrazione. Una richiesta che il sindaco non si è nemmeno degnato di prendere in considerazione. Ma la manifestazione di ieri ha visto la mobilitazione di un numero davvero impressionante di cittadini. Almeno 12mila persone hanno riempito le strade chiedendo una “sicurezza” diversa da quella tanto vantata dalla Giunta e concentrata su interventi temporanei e operazioni ad effetto che non hanno fatto altro che emarginare e criminalizzare tante persone in difficoltà. “Hanno tagliato tutti quei servizi di welfare indispensabili per chi si trova in difficoltà, hanno chiuso tutti gli spazi di socialità, smantellato i presidi di prevenzione delle dipendenze - denuncia Sebastiano Bergamaschi -. È stata la scelta precisa di una amministrazione che ha sempre privilegiato gli interessi privati al bene pubblico. Oggi noi chiediamo una radicale inversione di rotta. Oggi noi vogliamo riprenderci la città”. Una presa di posizione che Brugnaro non ha preso bene. Fallito il tentativo di santificare i due ragazzi come “eroi cittadini” - né Sebastiano, né la famiglia hanno voluto incontrare il sindaco - e di cavalcare la protesta invocando come soluzione all’innegabile degrado in cui Mestre è precipitata misura ancora più repressive - “è necessario un inasprimento delle pene anche per i micro reati” -, il sindaco ha bollato la manifestazione come un inutile “sventolio di bandiere rosse”. “Ci andranno solo quelli che difendono chi gira col coltello”, ha rimarcato dopo aver invocato non meglio precisati “poteri speciali” per i primi cittadini. Intanto anche questa settimana, le pagine di cronaca nera non sono rimaste senza notizie. Martedì notte, nella parallela via Piave, si è verificata una violenta aggressione a colpi di cocci di bottiglia. Solo questa settimana, due vetrine sono state spaccate per bottini di poche decine di euro. Una anziana l’altro ieri è stata aggredita sul portone di casa per strapparle una collanina. Il fallimento delle politiche sicuritarie di Brugnaro sono oramai sotto gli occhi di tutti. Compresi di quei negozianti che magari avranno anche lo avranno anche votato ma che ieri esponevano nelle vetrine dei loro negozi il manifesto che Zero Calcare ha dedicato a Jack. I funerali del ragazzo si svolgeranno lunedì a Jesolo. Gli amici potranno dargli l’ultimo saluto la mattina all’obitorio di Mestre. Niente fiori, hanno chiesto i genitori, ma offerte per Mediterranea, l’ong che soccorre chi ha bisogno di essere soccorso e non si gira dall’altra parte. Proprio come ha fatto Jack. Salerno. Ho il terrore che una telefonata mi annunci: “Suo figlio è riuscito a suicidarsi” rtalive.it, 29 settembre 2024 Il padre di un detenuto dell’Agro nocerino denuncia l’amministrazione penitenziaria per come viene trattato il figlio tossicodipendente e con problemi psichiatrici. Affetto da un ritardo mentale, con problemi psichiatrici che si sono acuiti nel tempo a caso dell’assunzione di sostanze stupefacenti. Finito nel circuito carcerario per furti e rapine, solitamente di poco conto, anche di qualche decina di euro di valore, ha tentato più volte il suicidio. Chiede solo di andare a curarsi in una struttura sanitaria e così anche il padre che ha sporto ai carabinieri denuncia per omessa assistenza di persone detenute nei confronti dell’amministrazione penitenziaria. “Mio figlio a 27 anni conta l’ennesimo tentativo di suicidio. In cella, da anni, nonostante più relazioni attestino l’incompatibile con il regime carcerario dovrebbe essere trasferito in una struttura idonea a curare i detenuti con patologie psichiatriche, ma non ce ne sono a sufficienza in tutta l’Italia meridionale. Mio figlio è stato detenuto Salerno, Napoli e ora è in quello di Catanzaro. Per l’ennesima volta, nelle scorse ore, ha ingerito oggetti che hanno portato ad intervento chirurgici. Ha tentato nel corso degli anni di suicidarsi, cercando di impiccarsi, tagliandosi le vene o in più parti del corpo, ingoiando lamette e diversi oggetti, come gli spazzolini da denti e sempre salvato per tempo dalla polizia penitenziaria. Arrestato per furto e rapina a Salerno, è stato trasferito dal carcere di Salerno a Napoli, poi a Catanzaro e successivamente a Barcellona Pozzo di Gotto, casa circondariale con reparto specializzata nella salute mentale. Da ultimo è ritornato nel penitenziario di Catanzaro dove attualmente è ristretto. A Salerno, il 27enne aveva tentato di impiccarsi, ha cercato di suicidarsi ingoiando lamette o con i rebbi delle forchette. A Napoli è stato sottoposto ad intervento chirurgico all’addome per aver ingerito materiale in ferro per la terza o quarta volta. Trasferito a Catanzaro e poi a Barcellona Pozzo di Gotto dove è stato sottoposto a visita specialistica per la diagnosi precisa della sua patologia. Durante la permanenza nella struttura specializzata in provincia di Messina non ha avuto alcun problema, ricominciati al rientro al penitenziario di Catanzaro a fine di agosto. Il giovane paganese ha quindi ingerito uno spazzolino da denti che gli è stato rimosso con un intervento di gastroscopia. Rimesso in cella, che sarebbe stata dotata di telecamera, e dopo pochi giorni ha ingerito nuovamente un altro spazzolino, per estrarre il quale è stato sottoposto a un intervento chirurgico”. Il padre del detenuto è preoccupato si è detto fortemente preoccupato per la salute del figli: “Per quanto tempo ancora mio figlio potrà sostenere altri intervento chirurgici all’addome? Nell’attesa che, finalmente, venga trasferito in una struttura idonea per coloro che sono affetti da patologie psichiatriche, ha chiesto anche che la polizia penitenziaria vigili più incisivamente sulla condotta di mio figlio, potendo compiere altri gesti inconsulti”. Il padre ha aggiunto: “È stata riscontrata l’incompatibilità con il carcere da più psichiatri di diversi penitenziari, ma mio figlio non riesce a trovare una struttura idonea che possa ospitarlo. Cosa aspettiamo? che riesca a suicidarsi? Così risolviamo il problema all’amministrazione penitenziaria? Ora è ricoverato nel reparto di chirurgia di urgenza del ospedale di Catanzaro dopo l’ennesimo intervento per la rimozione spazzolino dallo stomaco. Ho il terrore che possa rientrare in carcere”. Milano. “Io, custode nelle case popolari a 18 anni dopo rapine e comunità”: il riscatto di Edison di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 29 settembre 2024 Arrivato due anni fa dall’Albania come minore straniero non accompagnato, con una serie di turbolenze giudiziarie alle spalle. È il primo caso in cui Mm dà fiducia e assume come custode un ragazzo con una storia come la sua. “Una seconda possibilità può spesso segnare la svolta nella vita delle persone, in particolare la mia, perché mi sono reso conto di alcuni errori che avevo commesso, ho capito meglio me stesso e adesso so per certo che qui dove sono, io voglio restare”. Edison ha tutta l’energia e l’ingenuità dei suoi 18 anni: quelle che adesso gli sembrano certezze in realtà sono ipotesi fragili, lo capirà più avanti, le metterà in discussione tante volte e forse tornerà sui suoi passi. Ora, però, è convinto di avere raggiunto un risultato definitivo di cui andare orgogliosi, e non sbaglia. È il primo caso in cui Mm dà fiducia e assume come custode un ragazzo con una storia come la sua. A lui si affezionano tutti: gli educatori, i datori di lavoro e i residenti di quell’enorme palazzo in fondo al Naviglio Pavese dove ormai lui arriva all’alba, con regolarità, per prestare servizio. Edison è arrivato due anni fa dall’Albania come minore straniero non accompagnato e ha avuto turbolenze giudiziarie ma in meno di due anni ha fatto un percorso, gli è stata concessa la Messa alla prova e adesso è qui, che se la gioca, anche con l’impegno del lavoro. Una sfida, per lui: “È successo tutto in pochissimo tempo. Durante il corso di formazione mi sono reso conto che probabilmente questo è proprio quello che voglio fare nella vita”. A vederlo così, rispetto a come era solo qualche tempo fa, sembra successo il miracolo. Sta conoscendo i condomini - e sono tanti, perché il complesso di edilizia popolare è enorme. Ma lui non si scoraggia e ha una passione “strana” vista la sua età: le pulizie: “Era l’unica cosa che facevo veramente bene anche a casa, mia mamma mi faceva sistemare tutto in ordine, era la mia specialità”, si prende in giro. Il rapporto con i genitori era buono, e allora com’è che un sedicenne prende e parte? La decisione non è stata facile: “Lì lavoravo, facevo il cameriere e il lavapiatti per non chiedere soldi ai miei che già erano in difficoltà. Il fatto è che non vedevo un futuro”, cerca di spiegare. Il papà lo capiva: lo ha portato lui con il pullman e il traghetto fino alla casa della sorella, in Sicilia, ma è ripartito subito dopo per tornare in Albania, a lavorare. “Da mia sorella non c’erano possibilità per me, io avevo il miraggio di Milano e con una barca e altri due pullman ci sono arrivato”. Era in stazione Centrale, da solo con una piccola valigia, non parlava l’italiano. Per un po’ ha dormito sulle panchine, ha chiesto aiuto, lo hanno inserito in comunità e insegnato l’italiano. Poi in tempo record lo hanno collocato in un alloggio per l’autonomia, al Corvetto. Forse però per lui era troppo presto. È finito preda di ragazzi che lo hanno trascinato in un giro di piccole rapine. È passato dal Beccaria e dal carcere minorile di Potenza. E poi di nuovo in comunità. Oggi si sveglia alle 5 del mattino per arrivare al lavoro ed è contento, ha una ragazza che gli piace e tanti sogni, anche se gli amici sono lontani. Non è facile trovare la forza di essere all’altezza della fiducia altrui. E non è facile neanche impegnarsi per mantenere un impiego. Secondo le stime annuali del Bollettino del Sistema informativo Excelsior di Unioncamere su Milano, ci sono 500 mila assunzioni in vista per il 2025 ma il 40 per cento delle aziende che vuole assumere ha difficoltà a trovare personale, in particolare quello giovane e da formare. Stima poi Camera di Commercio che almeno un nuovo addetto su cinque sarà di origine straniera, e questo apre un’altra riflessione: “Una bella parte del primo stipendio lo manderò ai miei genitori in Albania”, promette Edison. Lui ha seguito uno dei corsi di formazione offerti da Fondazione di Comunità Milano con il progetto Ad Astra che a sua volta è supportato da varie altre realtà: Mm sostiene i corsi destinati ad aspiranti custodi e manutentori edili, ad esempio, con la cooperativa sociale A&I che segue i percorsi. Nel caso di Edison, però, la motivazione c’è. A sentire lui, sta anzi crescendo. Cuneo. Da detenuto panettiere a responsabile del panificio del carcere di Roberta Barbi vaticannews.va, 29 settembre 2024 È la storia di Massimiliano Cirillo, 42 anni di cui 8 trascorsi nella Casa circondariale di Cuneo, dove ha imparato il mestiere di panettiere nel laboratorio della cooperativa “Panaté Glievitati” di cui, ora che è un uomo libero, è diventato il responsabile: “Ogni giorno torno in carcere, ma con il cuore leggero”. Prima voleva che le giornate passassero in fretta, una di seguito all’altra, in un vortice che l’avrebbe condotto più velocemente verso la fine della pena. Ora che quel giorno è arrivato ed è stato oltrepassato, pur rientrando quotidianamente in carcere, vorrebbe che le giornate non finissero mai: “Perché lavorare è bello ed è importante”. È tutta in queste poche parole la storia di Massimiliano, la storia di uno che ce l’ha fatta e oggi è un esempio per gli altri detenuti, innanzitutto per i 12 con cui lavora dentro il laboratorio di panificazione della casa circondariale di Cuneo, da cui escono pane e focacce acquistate da diversi esercizi e pale alla romana che vengono esportate addirittura a Londra, a Zurigo e in Romania. La nuova vita di Massimiliano è partita da qui, dall’esigenza di fare qualcosa in un luogo dove da fare c’è ben poco: “Per me era impensabile restare tutto il giorno chiuso in cella - racconta a Radio Vaticana-Vatican News - così, anche se avevo un passato da muratore, ho iniziato a studiare alla scuola alberghiera, ho preso due diplomi, di sala e di cucina, e poi c’è stata questa occasione di lavorare nel panificio di Panaté”. Di opportunità come questa in carcere dovrebbero essercene di più: “Il lavoro in carcere è una possibilità che tutti i detenuti che possono dovrebbero cogliere - afferma Massimiliano - io non so cosa farei adesso se non fosse stato per Panaté. Mi sarei trovato fuori da solo, in mezzo alla strada, invece con questo lavoro, anche quando stavo dentro, ho potuto risparmiare così, una volta uscito, ho comprato una macchina e affittato un appartamento. Ho potuto ricominciare”. Al momento del fine pena, però - uno dei più delicati della vita detentiva - anche Massimiliano ha dovuto scontrarsi con il pregiudizio che c’è fuori: “All’inizio nonostante avessi un lavoro non volevano affittarmi una casa - racconta - la gente ha sempre pregiudizi, ma poi riesce anche a superarli. Ora chi mi conosce ha cambiato opinione sul carcere e sulle persone che lo abitano; è stato bello smentirli”. Una vita completamente cambiata, quella di Massimiliano che oggi, a ragione, si sente un uomo nuovo: “Io posso dire di avercela fatta, ho una vita normale, non ho più paura - conclude - anche il carcere, dove torno ogni mattina per lavorare, non mi fa più effetto e sono contento di poter essere utile a chi è ancora detenuto e mi chiede consiglio non solo sul lavoro, ma su tutto”. La cooperativa “Panaté Glievitati” è un progetto nato nel 2019 a Cuneo, che poi è stato esteso anche alla casa di reclusione di Fossano, sempre in Piemonte, e da poco conta anche un punto vendita esterno, in quel di Magliano Alpi. È una realtà lavorativa vera e propria come ce ne sono molte, ma mai abbastanza in Italia, per soddisfare pienamente il dettame dell’articolo 27 della nostra Costituzione che vuole la pena non punitiva bensì riabilitativa per i detenuti. Dai dati forniti dal Cnel - il Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro - nel 2023 il lavoro in carcere è in grado di abbattere la recidiva dalla media nazionale che si attesta intorno al 70%, addirittura fino al 2%. “I detenuti sono una risorsa e lo Stato deve capirlo; laddove non ci sono realtà esterne come Panaté si possono comunque impiegare per la pulizia delle strade o delle fognature, anche come alternativa al carcere, perché non si può stare tutto il giorno in una cella”. E questo è il pensiero di uno che ce l’ha fatta. Monza. Il mercato che rende liberi. In mostra i lavori artigianali preparati dalle mani dei detenuti di Cristina Bertolini Il Giorno, 29 settembre 2024 Braccialetti, portachiavi, portadocumenti, portaocchiali, bracciali, borse, zaini e giubbotti. Tutto fatto nei laboratori del carcere con materiali di scarto anche delle griffe del lusso. Le pelli scartate da Gucci diventano braccialetti, portachiavi, portadocumenti, portaocchiali, bracciali, borse, zaini e giubbotti. Materiale di scarto, destinato alla discarica, viene recuperato creando pezzi unici, come uniche le persone riabilitate al lavoro nei laboratori di pelletteria, sartoria, falegnameria, bigiotteria del carcere di Sanquirico a Monza. Tutto in collaborazione con l’associazione “Catena in Movimento”, il Patrocinio del Ministero della Giustizia, Provincia e Comune di Monza, e il sostegno del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Ieri un’ala del carcere è stata allestita a mercato, con tanto di bancarelle, per presentare la Mostra mercato in. Circa 70 detenuti/artigiani, impegnati da mesi nella preparazione, hanno esposto e venduto i loro manufatti realizzati nei laboratori del carcere. Alcuni di questi oggetti sono stati pre-lavorati nel laboratorio di Catena in Movimento a Trezzano sul Naviglio da alcuni detenuti in articolo 21 O.P. già assunti, per poi essere assemblati e rifiniti in carcere. Ultimo nato, il laboratorio di pasticceria: “Manette in pasta” che ieri ha presentato i suoi primi prodotti da forno. “Vogliamo promuovere l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti - commenta Cristian Loor Loor, ideatore dell’associazione - avvicinando la cittadinanza alla realtà carceraria attraverso il lavoro artigianale, si propone di abbattere le barriere che separano la cittadinanza dalla popolazione detenuta”. La direttrice Cosima Buccoliero ha visto nascere Catena in Movimento nel 2017, dal carcere di Bollate, dove era vicedirettrice. Quindi anche a Monza ha promosso i laboratori e la collaborazione con l’associazione, coinvolgendo un gran numero di detenuti. L’evento è stato accolto con grande interesse dalla città: circa 500 i visitatori durante la giornata e tanti gli articoli venduti. Alcuni poi, si portano a casa un “pezzetto” di Casa della Poesia di Monza: in occasione di in è stata presentata una capsule collection della linea di accessori “Poetica Bag” con il marchio AC. Si tratta di una borsa da donna, all’interno versi della poetessa Antonetta Carrabs, ideatrice del progetto. Il ricavato delle vendite dei manufatti sarà utilizzato per creare nuovi posti di lavoro per i detenuti e per l’acquisto di beni di uso comune nel carcere. Eboli (Sa). Signor D ed Exretro, i due rapper incontrano i giovani dell’Icatt di Ersilia Gillio Corriere del Mezzogiorno, 29 settembre 2024 “Abbiamo raccontato ai ragazzi come la musica può essere messaggio di pace e libertà”. Il rap e l’hip hop come messaggio di pace e libertà e non come una mitizzazione della criminalità. Se negli ultimi periodi si è andato affermando il concetto che la musica possa essere usata come veicolo di messaggi subliminali e di proselitismo criminale, va ricordato invece che proprio il rap è nato come una forma espressiva strettamente legata alla necessità di denuncia contro la realtà di disagio, violenza e soprusi. Signor D ed Exretr0 due rapper della Revolutionary Records di Battipaglia lo hanno voluto raccontare e dimostrare dinanzi a una platea molto particolare, i detenuti dell’Icatt, l’Istituto a custodia attenuata di Eboli. La musica e soprattutto il rap, in carcere, è una delle migliori forme di riabilitazione e di ricerca della libertà. Ne sa qualcosa Signor D, rapper per passione, avvocato per professione. Lui, Dario De Rosa in toga, di casi di disagio ne ha visti. Con lui, a parlare e rappare, anche Exretr0, ovvero il producer Mario Barbato, faccia a faccia con i giovani reclusi a Castello Colonna. 70 minuti di intensa partecipazione in cui sono state proprio riscoperte le origini dell’hip hop che fonda la sua forza sulla libertà espressiva che, tra le pareti di un carcere, sono viatico e occasione di rieducazione. Naturalmente, dalle parole “parlate” a quelle rappate, è stato un attimo e Signor D ed Exretr0 hanno entusiasmato i presenti con la musica, gli scratch e un dj-set. “La maggior parte dei ragazzi dell’Icatt - ha detto al termine, il rapper avvocato - si trova in queste condizioni perché spesso ha un destino già scritto, senza altre alternative per poter vivere dignitosamente. Mi chiedo perché, ad eccezione di alcune validissime figure, come la direttrice dell’Icatt e i suoi collaboratori, iniziative simili non vengano promosse da chi di dovere e invece devono sempre partire dai cittadini. Il messaggio valoriale che ho espresso credo sia stato percepito”. La principale missione dell’Icatt è soprattutto la riabilitazione. I detenuti sono in gran parte giovani che hanno compiuto reati collegati alle droghe e alla tossicodipendenza. “Parlare della libertà espressiva e di essere sé stesso è un modo unico per poter coltivare i valori della rieducazione, a noi tanto cari”, ha precisato la direttrice dell’Istituto, Concetta Felaco. L’iniziativa di profondo valore educativo e rieducativo, è stata messa in campo dalla Revolutionary Records, l’etichetta discografica nata in seno all’Empa, associazione di promozione sociale battipagliese con il supporto di Ets Eda, Ecologia diritto e ambiente, l’etichetta discografica Bm Records, il collettivo nazionale hip hop Connectio e Intellectus e la Pst Young, Trapani. Festival delle Libertà, l’ex ergastolano Musumeci: “Vincere il male con il bene” trapanisi.it, 29 settembre 2024 “Carcere: vendetta di Stato”, questo il titolo della seconda giornata del “Festival delle Libertà” in corso a Trapani. Il tema è stato affrontato con la partecipazione della giornalista Ornella Fulco in un dialogo con l’ospite dell’evento, Carmelo Musumeci, ex ergastolano ostativo liberato dopo 27 anni di prigione. Natale Salvo, portavoce di Sinistra Libertaria e organizzatore della manifestazione, patrocinata dal sindacato CUB, ha aperto l’incontro che si è svolto in una sala dell’Oratorio Salesiano di Trapani. Salvo ha ricordato le parole dell’anarchico Alexandr Berkman: “Il progresso sociale tende a contenere ed eliminare la consuetudine della vendetta diretta e personale. Nelle cosiddette società civili, l’individuo, in genere, non vendica i torti subiti. Delega i suoi “diritti” in tal senso allo Stato, al governo, il quale, tra i suoi “doveri”, ha appunto quello di vendicare i torti subiti”. Questa citazione ha spiegato il titolo dell’incontro. Sono state messe in luce le contraddizioni del sistema carcerario, definito costoso e inefficace. La poca efficacia del sistema carcere in Italia è dimostrata dall’alto tasso di recidiva tra i prigionieri una volta tornati nella società civile. Inoltre, il sistema è costoso: ogni detenuto, in media, costa 160 euro al giorno. Per esempio, i 27 anni di carcere di Carmelo Musumeci sono costati alla collettività circa un milione e mezzo di euro. Durante l’incontro si è parlato di aspetti come il sovraffollamento delle carceri, i suicidi tra i detenuti, ma anche tra i poliziotti penitenziari, della privazione dell’affettività, dell’ergastolo e del regime 41 bis a cui lo stesso Musumeci, per un periodo della sua lunga carcerazione, è stato sottoposto. Nel suo intervento, Carmelo Musumeci ha sottolineato l’importanza di prendersi cura dei luoghi delle nostre città, dei quartieri e degli aspetti sociali ad essi connessi anche come mezzo di prevenzione del crimine. Ha definito il quartiere di Fontanelle-Milo a Trapani (noto come “Bronx”) - che ha visitato ieri mattina - come un ambiente criminogeno e ha richiamato i responsabili delle politiche pubbliche alle loro responsabilità. Musumeci ha, inoltre, affermato che il suo impegno nel portare all’attenzione dell’opinione pubblica la condizione carceraria e la necessità di un corretto recupero dei soggetti che mettono in atto condotte devianti è un “dovere civico”. Ha sostenuto che non è la lunghezza o la crudeltà della pena a cambiare un criminale, ma l’attenzione e il bene ricevuti da cittadini comuni e da volontari disinteressati. Come ricorda il Vangelo in Romani 12:21: “Vincere il male con il bene”. Chi sconta la pena in forme alternative, contribuendo al benessere della società, ha infatti un tasso di recidiva significativamente più basso rispetto a chi subisce la brutale repressione del carcere. Musumeci, concludendo l’incontro, ha reclamato il “diritto all’affettività” per i detenuti, non solo come spazio per incontri intimi con il coniuge, ma anche per incontri significativi con i figli, magari per svolgere insieme i compiti. Secondo Carmelo Musumeci, coniugi e figli non possono essere condannati a perdere un marito, una moglie, un padre o una madre per colpe che non hanno commesso. Significativo e stimolante il dibattito instauratosi con gli svariati interventi del pubblico presente: domande e riflessioni che hanno testimoniato la necessità di attivare occasioni di reale confronto su temi importanti, come il “Festival delle Libertà” sta facendo e ha intenzione di continuare a fare. Gli appuntamenti proseguiranno mercoledì prossimo, 2 ottobre, sempre alle 17 presso l’Oratorio Salesiano, con un dibattito sul tema dell’informazione manipolata, ospiti il giornalista marsalese Giacomo Di Girolamo e Giuliano Marrucci di Ottolina TV, che collabora da anni con la trasmissione Report di Rai3. Paderno, Cesano, Viadana: quei giovani violenti senza un perché di Simone Marcer Avvenire, 29 settembre 2024 Dal “mi sentivo un corpo estraneo”, confessato dal 17enne che ha sterminato la famiglia a Paderno Dugnano il 31 agosto, a “non so perché l’ho fatto”, detto dal 16enne che ha ridotto in fin di vita il vicino di casa colpendolo con una mazza da baseball, martedì scorso a Cesano Maderno, fino all’ultimo, straniante perché: “Volevo vedere cosa si prova a uccidere”. Questa la spiegazione data dal 17enne che ha ucciso Maria Campai, 42 anni, dopo aver avuto un rapporto con la donna, contattata on-line, a Viadana, nel Mantovano. In tutti gli ultimi casi di cronaca che coinvolgono minori (e anche in molti delitti commessi da persone adulte, come nel caso di Terno d’Isola, tanto per citare un caso limite, e il limite in questo caso è la follia) il movente sembra una pura formalità. Per lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lacini, presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano e docente all’Università Milano-Bicocca e all’Università Cattolica di Milano “il fatto che non ci sia il movente nel senso classico, ovvero nei termini di causa - effetto, non significa che non esista”. “Il movente è nell’aspetto emotivo, che rimane inespresso e confinato in una dinamica interna al giovane”, sostiene Lancini. Apparentemente lucido, senza segni di pentimento e senza versare una lacrima, collaborativo, ma allo stesso tempo distaccato nello spiegare agli investigatori dove andare a cercare il cadavere: “È lì, sotto a quella pianta, l’ho nascosto in quel giardino, sotto delle foglie”. Anche nel caso dell’ultimo giovane presunto omicida sembra emergere il ritratto in fotocopia di una persona che non vuol mostrare emozioni. “Senza entrare nel caso specifico, che sarà di competenza degli specialisti che sentiranno questo ragazzo, possiamo dire che quando ci troviamo di fronte a una situazione apparentemente senza spiegazione, è nella dimensione emotiva ed affettiva che dobbiamo ricercare i motivi. Le emozioni che rimangono senza voce trovano espressione in azioni disperate; azioni violente rivolte contro il prossimo, e gesti di autolesionismo, che sono la maggioranza, e di cui si registra un aumento, anche se non hanno naturalmente la stessa visibilità delle prime”, prosegue Lancini. Il giovane fermato è un appassionato di arti marziali e, ossessionato dalla forma fisica: “Essere magro per tutta la vita mi ha fatto pensare di farla finita, non sono riuscito a trovare una ragazza (e non ci riesco ancora e ho perso fiducia in me stesso). Ma il giorno in cui ho scoperto la palestra e ho iniziato ad allenarmi e a mettere su massa muscolare ho continuato ad andare avanti e ora sono andato in palestra per un anno. Mi pento di molte cose che ho fatto, ma andare in palestra non è una di queste”, scriveva su Tiktok. Ha postato lo screenshot di un giocatore che a Fortnight aveva scelto come nickname “Filippo Turetta”. Su internet ha cercato: “Come neutralizzare una persona a mani nude”. Cosa che, stando al primo esame del medico legale avrebbe messo in pratica nel sopprimere la sua vittima. Al momento del delitto, avvenuto nel garage attrezzato a palestra, la sera stessa della scomparsa della donna, il 19 settembre, i genitori erano in casa e non si sono accorti di nulla. Il padre l’ha descritto come un “pezzo di pane”, la madre ha detto che studia e basta. Nel caso di Paderno Dugnano la fiducia assoluta che il genitore aveva per suo figlio è comprovata dalla dinamica della strage: gli ha chiesto di posare il coltello e di chiamare il 118, dopo che aveva già colpito mortalmente il figlio più giovane e la moglie, e quando l’uomo si è chinato a soccorrere quest’ultima è stato colpito a sua volta. Diverso ancora è il caso di Cesano, dove anche se il ragazzo non era in cura, pare soffrisse di disturbi mentali. “Tengo sempre a precisare che non parlo dei singoli casi specifici. Ma, in base alla mia esperienza, la domanda che mi faccio è: come mai oggi nelle famiglie, dove, rispetto al passato, rispetto ai nostri genitori, alle vecchie generazioni, i figli sono sicuramente ascoltati di più, i giovani si sentono anche più soli?”, si chiede Lancini. “Attenzione non stiamo parlando di famiglie disagiate, ma di famiglie cosiddette normali. Ebbene, la prime risposte che si sentono è che gli adolescenti sono viziati, che non sanno cavarsela da soli: che i social, internet, ecc. Ma sono risposte stupide o superficiali. Io penso che i genitori oggi ascoltano... ma solo quello che vogliono, e che non li disturba. Con l’esclusione quindi delle emozioni autentiche dei figli, che sono perturbanti. Il lavoro, la vita di tutti i giorni ci spingono a questo (non) ascolto selettivo. Ma questo significa allontanare i propri figli, tradire il patto di fiducia con loro. Il che li rende (e ci rende) più soli e più fragili”. Lo Ius Scholae e lo scoglio dell’identità nazionale di Sergio Fabbrini Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2024 Si è aperto un dibattito importante. Mi riferisco allo ius scholae, in base al quale la cittadinanza italiana può essere riconosciuta a un minore, che sia nato in Italia o che vi abbia fatto ingresso entro i dodici anni di età, a condizione che abbia frequentato regolarmente, per almeno cinque anni, uno o più cicli scolastici presso istituti educativi italiani. La scuola come integrazione. La proposta, avanzata da +Europa (che ha promosso la raccolta on line delle firme per indire un referendum sul tema) oltre che da esponenti del centrosinistra, è sostenuta anche dai centristi non nazionalisti della coalizione di governo. Essa è invece contrastata da Giorgia Meloni e Matteo Salvini, per i quali non c’è alcun bisogno di cambiare la legge vigente (del 4 febbraio 1992), il cui scopo era (ed è) quello di ostacolare il processo di acquisizione della cittadinanza da parte dei non italiani. Gli immigrati vanno respinti, non integrati”, ha detto Salvini. Quali sono le radici culturali di tale divisione? La nostra premier, pochi giorni fa a New York, ha argomentato che la nazione costituisce “uno stato d’animo a cui si appartiene condividendo cultura, tradizioni e valori”. La nazione, però, non è la stessa cosa nei diversi contesti nazionali. Ha acquisito le caratteristiche del nazionalismo civico, nei Paesi che avviarono il processo di costruzione dello stato territoriale per primi (come la Francia e l’Inghilterra). Ovvero, ha acquisito le caratteristiche del nazionalismo etnico, nei Paesi che sono arrivati più tardi al processo di costruzione dello stato territoriale (come la Germania e l’Italia). Nei primi, la nazione è stata creata dopo lo stato, adattandosi al suo formato territoriale, amministrativo o rappresentativo. Si appartiene alla nazione perché si vive nel territorio dello stato, rispettandone l’autorità e i principi che la giustificano (è la nazione civica del cosiddetto ius soli). Nei secondi, invece, la nazione è giunta prima dello stato, in quanto la formazione di quest’ultimo è stata ostacolata dalla frammentazione territoriale e dalla rivalità politica tra diverse autorità civili e religiose. Alle minacce esterne, i Paesi privi di un’organizzazione statale hanno così opposto una barriera culturale, piuttosto che militare, costruendo la nazione etnica (costituita di comuni tradizioni, di una comune lingua, di una comune biologia, il cosiddetto ius sanguinis). Si è “inglesi” o è “francesi” perché si condivide la stessa si è “tedeschi” o “italiani” perché si condivide lo stesso sangue. Non può stupire che sia stato il nazionalismo etnico, e non civico, a degenerare verso esiti razzisti, oltre che autoritari. Il fascismo e il nazismo sono stati inventati in Italia e in Germania, non già in Francia e in Inghilterra. È stato il nazionalismo etnico che ha contribuito allo scoppio di due guerre mondiali, anche se il nazionalismo civico non ha mancato di giustificare l’imperialismo e il colonialismo. Ancora oggi, il nazionalismo etnico dei Paesi dell’Europa orientale, entrati nell’Unione (Ue) tra il 2004 e il 2013, è fonte di instabilità del processo integrativo. L’idea che esista un popolo (al singolare), omogeneo (linguisticamente) e coeso (religiosamente) conduce inevitabilmente a una visione illiberale del potere, se, per liberalismo, intendiamo una visione pluralista della società, dell’economia e della politica. In America come in Europa, sono i nazionalisti etnici che hanno diffuso la teoria della “grande sostituzione”, in base alla quale si ritiene che i bianchi di religione cristiana saranno sostituiti dai nuovi immigrati, che bianchi non sono e neppure cristiani. Il nazionalismo etnico connota la destra nazionalista ovunque, in Europa e in America. Meloni e Salvini sono esponenti di tale nazionalismo, anche se lo rappresentano con toni diversi. Un nazionalismo etnico che spinge inevitabilmente alla chiusura (delle frontiere, dei porti), nonostante la realtà sollevi la necessità di una loro apertura (regolata). In un Paese come l’Italia che perde popolazione ogni anno, che non sa come alimentare attività economiche ad alta intensità di lavoro (come l’agricoltura o l’edilizia), che presto non potrà garantire le pensioni e gli altri servizi sociali con una base lavorativa sempre più ridotta, il problema dell’immigrazione dovrebbe essere affrontato con razionalità. O almeno ciò dovrebbe essere la richiesta del mondo delle imprese, che non può non sapere che l’etnicismo della destra nazionalista costituisce un vincolo sull’economia (oltre che una minaccia per la democrazia). Eppure, così non avviene. Se il nazionalismo etnico è pericoloso, quello civico non è privo di limiti. Certamente, esso non minaccia la democrazia, rispettandone i principi e le istituzioni, ma non riconosce la necessità di una risposta sovranazionale, non nazionale, al problema migratorio. Insomma, la destra nazionalista italiana si oppone allo ius scholae sulla base di una visione etnica della nazione, visione difesa nonostante i danni che ha prodotto e che produce. L’alternativa al nazionalismo etnico non può essere però il nazionalismo civico, in quanto quest’ultimo (a Londra come a Oslo) fatica a riconoscere la necessità del suo sviluppo sovranazionale. Lo ius scholae è necessario, ma non sufficiente. Occorre anche ripensare la cittadinanza in una prospettiva europea, andando oltre il dualismo che ha caratterizzato la storia del nostro continente. Definire l’italianità. Cosa c’è alle radici dello Ius Scholae di Francesca Barra L’Espresso, 29 settembre 2024 Hilarry Sedu e? un avvocato di origini nigeriane che vive in Italia da quando aveva sei mesi. E? diventato un attivista per i diritti umani e ha scritto, a marzo del 2021, la proposta sullo ius scholae - da poco tornata alla ribalta nel nostro Paese dopo le dichiarazioni del ministro degli Esteri (di Forza Italia) Antonio Tajani - che ha riaperto il dibattito anche se nella maggioranza sostengono che “non sia prioritaria perché non e? nel programma di governo”. La proposta sarebbe quella di concedere la cittadinanza a chi e? nato o cresciuto in Italia da genitori stranieri, a condizione che il giovane abbia completato un ciclo di istruzione. “Io, la cittadinanza italiana, me la sono dovuta meritare, so bene cosa significhi. Per questo con Gabriella Nobile, che nel 2018 ha fondato l’associazione “Mamme per la Pelle”, con l’ex magistrato Gherardo Colombo, con Diana Pesci, anche lei attivista, e con un rifugiato etiope, abbiamo scritto i princi?pi dello ius scholae, una linea mediana che definisce il concetto classico di italianità. Sposavamo la stessa battaglia e abbiamo deciso di unire le nostre forze. Per un concetto, appunto, previsto per i cittadini che nascono gia? cittadini italiani, nascono nel nucleo di questo Paese, non sono soggetti sui quali discutere di integrazione. Nascono e studiano nelle scuole italiane, assorbono i nostri valori, la nostra cultura, hanno l’italiano quale lingua madre, ragionano nel dialetto locale della citta? in cui vivono. Nel mio caso, in napoletano. Mi sono interrogato sull’italianità e sul bisogno di definirla”. Riconoscere a livello legale e sociale questi cittadini e? un diritto necessario non solo per la loro dignità, ma per il progresso sociale ed economico del nostro Paese. Sono ponti tra le diverse comunità che non devono spaventare. “Sono contrario allo ius soli perché il fatto di nascere in questo Paese non vuole dire che tu sia italiano dal punto di vista identitario, per questo e? importante il ciclo scolastico. Non serve associare il dibattito sulla sicurezza alla cittadinanza, la prima c’entra con l’immigrazione irregolare. Bisogna scindere i due argomenti. Non sono stranieri, ma italiani. A seguito delle vicende italiane sportive, delle vittorie della squadra di pallavolo e del successo di Paola Egonu durante le Olimpiadi di Parigi 2024, c’e? effettivamente stato un moto di coscienze, sono caduti stereotipi e barriere. Peccato che poi il governo, la politica più gretta ha messo dei paletti. Roberto Vannacci ha un seguito rumoroso, ma non rappresenta l’Italia. La maggioranza dei cittadini italiani non la pensa come lui, anche se esistono i razzisti, esistono le derive più estreme; mi preoccuperei solo se la maggioranza fosse razzista”. Hilarry Sedu e? convinto che il lavoro che hanno fatto fino ad adesso, colloquiando anche con alcuni esponenti che rappresentano la maggioranza di governo, continuerà e che si arriverà a un accordo, malgrado gli sbarramenti di quelle forze politiche che vedono in questo diritto un rischio per la coesione sociale e per l’identità culturale. “Sul principio non ho trovato quasi nessuno in disaccordo, forse e? una questione di tempismo, ma e? stupida la retorica che dice che non rientra nel programma. Sono sicuro che ogni parlamentare libero di scegliere senza influenze di casacche o colore politico voterebbe lo ius scholae in pura convinzione”. Ius Scholae, il sondaggio: quattro italiani su dieci favorevoli alla cittadinanza dopo 5-8 anni di Alessandra Ghisleri La Stampa, 29 settembre 2024 Gli elettori di Forza Italia e delle opposizioni, Pd in testa, appoggiano il progetto. Contrari Lega e FdI. Ma la maggior parte delle persone non vuole accorciare i tempi di residenza legale nel nostro Paese. Il referendum sulla Cittadinanza promosso da +Europa ha raggiunto e superato le 500mila firme e per febbraio è annunciato l’esame della Corte Costituzionale sulla sua ammissibilità con la possibile chiamata al voto per i cittadini in primavera qualora fosse ammesso. Il quesito depositato propone di ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter avanzare la domanda di cittadinanza italiana che, una volta ottenuta, sarebbe automaticamente trasmessa ai propri figli minorenni. Questa modifica coinvolgerebbe circa 2,5 milioni di persone (fonte: portale integrazione migranti”. In un sondaggio realizzato per la trasmissione Porta a Porta, subito dopo il raggiungimento del quorum delle firme, risulta che il 52,4% dei cittadini italiani maggiorenni aventi diritto al voto sarebbe contrario a dimezzare gli anni di residenza legale nel nostro Paese per poter avanzare la domanda di cittadinanza italiana trasmettendola automaticamente ai propri figli minorenni. Il 35,6% invece si è dichiarato favorevole. È nettamente evidente che la maggioranza degli elettori dei partiti di governo si schiera tra i contrari a questa proposta con punte che sfiorano l’80,0% per Fratelli d’Italia (78,0%) e per la Lega (78,3%). I giudizi diventano più tiepidi tra le file di Forza Italia (49, 0%), dove 1 elettore su 3 è pure favorevole (27,7%). Sull’argomento si spacca il fronte delle opposizioni perché i sostenitori del Movimento 5 Stelle in netta maggioranza (48,0%) si oppongono alla mozione andando nella stessa direzione della maggioranza di governo. Partito Democratico (73,0%), Alleanza Verdi e Sinistra (88,5%) con Italia Viva (86,5%) e Azione (47,0%), invece, si dimostrano più compatti sul sì. Dai dati emergono tutte le preoccupazioni legate alla sicurezza del percorso di naturalizzazione, perché accorciando i tempi di attesa si potrebbe compromettere il controllo dei processi facilitando l’accesso senza alcuna selezione, limitando anche la capacità di assimilare i valori e le norme della nostra società. È facile comprendere che coloro che si oppongono a questa iniziativa ritengono che un periodo più lungo consenta una valutazione maggiormente accurata delle persone che richiedono la cittadinanza e una loro migliore preparazione. Questa indicazione trova una buona conferma nella seconda domanda proposta dal sondaggio sullo Ius Scholae dove il 44,2% degli intervistati si dice favorevole a dare la cittadinanza dopo un percorso di studio di 5 o 8 anni certificato e superato con la buona conoscenza della nostra lingua della storia e della geografia. I contrari a questo progetto sono riconoscibili nella maggioranza degli elettori della Lega (54,3%) e di Fratelli d’Italia (60,0%). Da Forza Italia (51,0%) a tutti i partiti delle opposizioni arriva un buon sostegno che trova il suo apice nel Partito Democratico (81,1%). Se si osservano i dati suddivisi per aree geografiche emerge subito una certa riluttanza ad entrambi i progetti soprattutto al Nord, mentre sempre favorevoli nel meridione dove secondo l’Istat ci sarebbero le maggiori presenze della popolazione straniera richiedente. La questione della cittadinanza è politicamente sensibile e le diverse posizioni evidenziate riflettono le linee di divisione tra i partiti politici e le ideologie. L’innesto di nuove persone nel sistema Italia potrebbe favorire e aiutare la ricerca di manodopera tanto richiesta dalle imprese, soprattutto per alcuni lavori dove gli italiani non si presentano più, sostenere la crescita demografica, nonché offrire un maggiore apporto per il sistema pensionistico nazionale. Tuttavia, alcuni temono che un aumento del numero di cittadini potrebbe influire sulla domanda di servizi pubblici, lavoro e altre risorse. Insomma, uno scontro tra possibilità e visioni di un futuro che appare molto incerto per la maggioranza degli italiani che indicano tra le loro priorità l’inflazione e l’aumento dei prezzi, i temi legati alla salute e alla sanità pubblica, il lavoro, l’immigrazione, sicurezza e la guerra su più fronti che non presenta una via di uscita, le tasse che strozzano aziende e famiglie. Emerge una certa disconnessione tra il racconto delle indicazioni politiche e le percezioni dell’opinione pubblica e in un contesto di crisi il leader politico - e di conseguenza il partito - che si allinea ai desideri dei cittadini può portare alla convinzione che la sua agenda risponde alle necessità della popolazione. Osservando le tendenze delle intenzioni di voto di tutti gli istituti di ricerca, si evince che gli unici partiti che rilevano una crescita sono quelli della maggioranza di Governo e il Movimento 5 Stelle, forse perché i temi che devono affrontare coincidono con le emergenze del Paese, mentre le opposizioni faticano ad ottenere visibilità o ad ottenere valide alternative. “Destra e sinistra hanno fallito. Le loro politiche sui migranti rafforzano solo i criminali” di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 29 settembre 2024 Il sociologo olandese Hein De Haas: “C’è uno scontro ideologico che perde di vista la realtà. Il problema in Europa non sono i numeri. Gli ucraini erano molti di più dei rifugiati africani. Per l’integrazione è necessaria una vera accoglienza”. Scansare l’ideologia, analizzare i dati, capire cosa sono davvero le migrazioni. Hein de Haas, sociologo olandese, co-fondatore dell’International Migration Institute di Oxford, autore di Migrazioni. La verità oltre le ideologie. Dati alla mano, appena uscito per Einaudi Stile libero, davanti alla scelta su quale sia il principale mito da sfatare, quando si parla di migrazioni, risponde che non sa da dove iniziare. Ma che forse “il più rilevante è quello secondo cui la destra è contro la migrazione e la sinistra a favore”. Non è così? “Con il mio team a Oxford ho analizzato 6.500 politiche in tutta Europa e in Nord America cercando di capire se ci fosse una differenza tra i governi di destra e di sinistra, in termini di politiche migratorie, e non abbiamo trovato alcuna differenza significativa. Il che potrebbe sorprendere molte persone perché normalmente associamo la destra, e certamente l’estrema destra, a un atteggiamento duro sulla migrazione: chiusura delle frontiere, trafficanti da fermare. E alla sinistra una narrazione umanitaria, più morbida, di apertura”. È solo una questione di percezione? “Si tratta di stereotipi che si riflettono nel linguaggio. Ma è più complicato di così. Perché sia la destra sia la sinistra sono divise al loro interno. Secondo molti conservatori, gli immigrati minacciano l’identità della nostra società, starebbero minando la nostra cultura e religione. Allo stesso tempo però i partiti di destra sono molto influenzati dalle lobby imprenditoriali, che seguono ragioni economiche e hanno interesse ad aprire le frontiere. O anche se non lo fanno, in pratica sono tolleranti nei confronti dello sfruttamento degli immigranti legali e illegali”. E la sinistra perché è divisa? “In origine la sinistra era più contraria all’immigrazione della destra, principalmente per via dei sindacati. Gli stranieri erano visti come una minaccia per il lavoratore italiano o tedesco. Si temeva che l’importazione di manodopera a basso costo avrebbe diviso la classe operaia, abbassando i salari e facendo concorrenza sleale. Poi c’è la parte che chiamerei umanitaria e liberale, che affonda nelle radici culturali della sinistra ed è pronta ad accogliere lo straniero, la diversità. Nonostante tutto, però, la narrazione predominante è stata sempre quella che mirava a “fermare le barche”, indipendentemente dal colore politico del governo”. Il dibattito però è estremamente polarizzato... “Il problema più grande è proprio questo. Sappiamo così tanto sulla migrazione, c’è così tanta ricerca, un secolo di studi accademici, eppure pochissime di queste informazioni raggiungono le politiche pubbliche. Si tifa pro e contro, si perdono le sfumature. Il campo pro migrazione enfatizza solo quanto sia buona, il campo anti migrazione la trasforma in una minaccia esistenziale. Entrambi esagerano per fare il punto, diventa una questione ideologica, e si perde la vera conoscenza del fenomeno. Ma questo mi porta alla parte più importante del mio libro”. Qual è? “La vera domanda è perché negli ultimi 35 anni, da quando si parla di controllo della migrazione nel Mediterraneo e altrove, tutti i politici - nel lungo termine - hanno fallito”. E come si risponde a questa domanda? “Osservando come la maggior parte delle politiche costituiscano reazioni rapide al panico generalizzato, e derivino dalla volontà di vincere le prossime elezioni, senza basarsi su una conoscenza di come funziona veramente la migrazione, che è il titolo inglese del libro: How migration really works. Quindi dobbiamo comprendere scientificamente come funziona il processo, e poi possiamo pensare a politiche più efficaci”. Nel libro i dati mostrano che i migranti non “rubano il lavoro”, invece, colmano la carenza di manodopera... “Questo è molto evidente in Italia ed è vero per tutto l’Occidente. L’Europa occidentale un tempo era terra di migranti, l’Italia è stata uno dei maggiori Paesi di emigrazione nella storia mondiale. E non solo verso le Americhe, ma anche verso l’Europa del Nord. Questi modelli si sono invertiti dagli anni ‘50 e ‘60, perché gli europei hanno smesso di migrare fuori dal continente e l’Europa è diventata una destinazione. Non si tratta di un fenomeno naturale, è il risultato di una serie di tendenze economiche, sociali e demografiche strutturali che hanno aumentato l’immigrazione in Europa”. Quali sono queste tendenze? “La prima è la crescita economica, che ha portato con sé lo stato sociale e ha fatto sì che gli europei non avessero più bisogno di migrare all’estero. Poi però, dagli anni ‘60 e ‘70, è iniziata una carenza di manodopera ulteriormente incoraggiata dall’emancipazione delle donne e dal loro ingresso nel mercato del lavoro. Questo ha fatto sì che molti di quei lavori informali dentro e intorno alla casa, lavori di cura per bambini e anziani, non potessero più essere svolti dal modello della casalinga. La crescente carenza di manodopera in agricoltura, industria e servizi sono state il principale motore dell’immigrazione negli ultimi 30-40 anni e il fatto che l’Italia si sia trasformata da Paese di emigrazione a Paese di immigrazione è guidato da questi profondi cambiamenti economici, demografici e sociali”. L’immigrazione è arrivata a partire dal nostro bisogno, solo che ora vogliamo fermarla? “Un altro mito da sfatare è che possa funzionare come un rubinetto che si apre e si chiude. Se aumenti il controllo alle frontiere, i migranti troveranno un’altra strada. Sappiamo che la maggior parte di quelli che lavorano illegalmente in realtà sono arrivati legalmente con un visto e poi sono rimasti. Finché esisterà una domanda di lavoro, e noi lo tollereremo, i migranti continueranno ad arrivare in un modo o nell’altro”. Non ci sono solo i cosiddetti migranti economici. Lei contesta l’allarme della stessa Onu sul numero di rifugiati... “I rifugiati rappresentano un fenomeno molto più piccolo di quanto si pensi. Solo il 10% di tutti i migranti nel mondo - quindi lo 0,35% della popolazione mondiale - sono rifugiati, ma naturalmente l’Italia è molto esposta al fenomeno. Il problema in Europa però è soprattutto politico, non di numeri. Gli ucraini erano molto di più dei rifugiati africani, ma non sono stati trattati come un problema. È una questione di volontà politica. Il vero problema è la mancanza di solidarietà tra i Paesi europei, specialmente tra i Paesi del nord e quelli del sud come Grecia e Italia che affrontano maggiori arrivi sulle loro coste. Orbán può essere molto fiero della sua politica zero diritto d’asilo, ma la verità è che sposta il peso sugli altri Paesi perché li lascia passare”. Altra contestazione: non esiste nessuna invasione... “La stragrande maggioranza dei migranti arriva legalmente, anche in Italia. Solo che uno vede in televisione i barconi tutti i giorni e si convince che la realtà sia un’altra. Torniamo alle statistiche: di tutti gli africani che partono, 9 su 10 lo fanno legalmente, uno su dieci illegalmente. È sempre un numero significativo, ma non è un’invasione”. C’è una differenza di accoglienza tra profughi bianchi e profughi neri? “Anche qui, è complicato. È probabile che l’origine etnica giochi un ruolo, ma nella storia i profughi sono sempre stati accolti bene quando fuggivano da un nemico comune. Negli anni in cui vivevo in Inghilterra, a essere mal visti erano i migranti dell’Est Europa. Negli Stati Uniti lo sono i latinos, che non sono neri e sono cristiani”. L’Europa che fa patti con Libia e Tunisia rispetta le convenzioni internazionali? “No. Quello che l’Europa sta facendo è cercare di corrompere gli autocrati. Ed è ironico che per l’Italia sia stato più facile fare un patto con la Tunisia ora che è di nuovo governata da un autocrate, che non si cura degli stupri di massa e delle violazioni dei diritti umani. La verità è che queste persone hanno interesse a lasciare la porta aperta per negoziare il prossimo accordo. E che noi stiamo corrompendo e sostenendo regimi autocratici, aiutandoli a continuare la repressione sui loro popoli. Ci rendiamo vulnerabili, esposti ai loro ricatti, e così facendo miniamo la nostra credibilità come democrazie europee. Esiste da voi l’espressione lacrime da coccodrillo?”. È identica... “Il mio problema è l’ipocrisia. I politici vanno in tv a dire “dobbiamo salvare quelle persone, dobbiamo combattere i trafficanti”, ma sono le loro politiche ad aver reso quelle persone dipendenti dai trafficanti. Nei primi anni ‘90 i tunisini non avevano bisogno di visti per l’Italia, i marocchini non avevano bisogno di visti per la Spagna, andavano avanti e indietro. Adesso con i visti per Schengen, i controlli alle frontiere, se vogliono venire devono pagare un trafficante. Esistono a causa delle politiche anti-migranti, il danno collaterale sono le loro sofferenze”. Nel libro spiega come “aiutiamoli a casa loro” sia una ricetta sbagliata... “Quando i Paesi poveri del Sud del mondo cominciano a stare meglio, le persone cominciano ad avere le risorse per spostarsi e cercano un posto migliore dove vivere. Per questo l’emigrazione non si ferma finanziando quei Paesi. Anzi, bisogna ribaltare la prospettiva. Non è tanto la povertà, ma la domanda di lavoro che spinge le migrazioni. Ho studiato il caso degli immigrati marocchini in Spagna: sono arrivati in gran numero quando il Paese cresceva, e dopo la crisi del 2008 hanno smesso di venire perché non c’era lavoro e la disoccupazione era alta. Per fermare davvero la migrazione, dovremmo distruggere le economie dei nostri Paesi. Ma non è certo quello che vogliamo”. La scommessa è l’integrazione... “Che non può funzionare se non facciamo sentire queste persone benvenute. Se continuiamo a trattarle come una comoda forza lavoro che si prende cura dei nostri anziani, pulisce le nostre case, svolge compiti - nelle cucine dei ristoranti, negli hotel, in agricoltura - che noi non vogliamo più svolgere, ma nonostante questo non ha diritti. I problemi di integrazione nella seconda generazione si creano se un gruppo non si sente accettato, se viene ghettizzato. C’è una bella citazione dello scrittore Max Frisch riferita all’emigrazione italiana in Svizzera, che negli anni 60 era massiccia ed era vista come un problema enorme. Dice questo, e potrebbe essere il titolo di questa intervista: volevamo forza lavoro, sono arrivate persone”.