Quale sicurezza? di Agostino Giovagnoli Avvenire, 28 settembre 2024 C’è bisogno di sicurezza. Impossibile negarlo, tra spaventose minacce di guerra e inedite inquietudini come quelle suscitate dall’intelligenza artificiale. Il Disegno di legge “Sicurezza”, appena approvato dalla Camera, risponde a questo bisogno? Promette ordine, ma crescono le proteste contro un provvedimento da molti definito liberticida. A giudicare da questo disegno di legge sembrerebbe che grandi pericoli vengano oggi dalla resistenza passiva o dalla protesta non violenta. Mentre la violenza, in tante forme diverse, è al centro della comunicazione, corpi volutamente disarmati trasmettono principi, valori, idee con una forza straordinaria, specie se si uniscono ad altri ugualmente disarmati. Ora si cerca di fermarli. Non si tratta infatti - come spiegano Antigone e Asgi, due importanti associazioni in difesa dei diritti umani - di un’ennesima espressione di panpenalismo (creazione di nuovi reati, accrescimento delle pene, introduzione di aggravanti ecc.) ma di un salto di qualità nelle forme e tecniche di controllo sociale. Se, prima, i giovani che si mobilitavano contro il dramma di una guerra sdraiandosi per strada e bloccando il traffico, incorrevano solo in un illecito amministrativo, dopo la definitiva approvazione di questo ddl commetteranno un reato penale da punire con il carcere fino a un mese. Che però si estende a due anni se a farlo sono in più d’uno. (Analoghe le pene se si blocca la rete ferroviaria). I manganelli contro i giovanissimi di Pisa, insomma, non sarebbero più un episodio increscioso da deplorare. Le pene sono inoltre inasprite se qualcuno - per richiamare l’attenzione sull’emergenza ambientale - non agisce con violenza ma sparge vernice su un edificio pubblico durante una manifestazione. In caso di resistenza a pubblico ufficiale, poi, è prevista un’aggravante se il fine è “impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica”, come la Tav o il Ponte sullo Stretto di Messina. Difficile non pensare a vicende che hanno infastidito la politica. La volontà di reprimere la protesta non violenta è ancora più evidente per quel che riguarda il carcere. Il numero dei suicidi - non solo di detenuti ma anche di guardie carcerarie - ha raggiunto quest’anno un livello altissimo. Tantissime anche le rivolte prodotte dall’esasperazione per caldo, sovraffollamento, quotidiana disumanità. Si aspettavano provvedimenti per affrontare questi problemi. Ma il ddl sicurezza va in direzione opposta. Equipara infatti resistenza passiva e atti di violenza. Tre detenuti in una cella sovraffollata che si rifiutano di obbedire in modo non violento all’ordine di un agente di polizia saranno accusati di rivolta. Anche uno sciopero della fame potrebbe essere considerato allo stesso modo? Un detenuto entrato in carcere per scontare pochi mesi potrebbe rimanervi per otto anni, senza poter più accedere ai benefici che diminuiscano la pena, perché sotto questo profilo la rivolta è equiparata ai reati di mafia e terrorismo. Stessa sorte per chi si trova in un centro “di trattenimento ed accoglienza” per richiedenti asilo e dunque senza aver commesso reati ma perché sta fuggendo da una guerra o da una persecuzione. Se protesta in modo non violento per il degrado in cui è costretto a vivere o per un grave pericolo rischia anche lui fino ad otto anni di carcere. Non a caso, il ddl sicurezza è stato ribattezzato legge anti-Gandhi. Senza contare gli effetti pratici: a parità di punizione, perché scegliere la non violenza? Difficile trovare in queste disposizioni garanzie di maggior sicurezza. Anche la debolezza dei poveri sembra far paura. Chi è senza casa e occupa un appartamento vuoto rischierà fino a sette anni di carcere. Uno straniero extracomunitario non in regola con il permesso di soggiorno non potrà più comprare una scheda telefonica. Minori non accompagnati che arrivano in Italia dopo viaggi drammatici non potranno quindi avvisare i familiari del loro arrivo, persone che vogliono ricongiungersi a parenti nel nord Europa non potranno usare Google Maps. Facile, inoltre, che cerchino illegalmente di procurarsi una scheda telefonica, il che di certo non aumenta la sicurezza. Con il ddl sicurezza ora anche una donna incinta o una madre di un bambino con meno di un anno di età potrà andare in carcere. È quasi una norma ad hoc, anti-rom, di cui le vittime principali però saranno sicuramente innocenti: i bambini. Ci sono infine norme contro l’accattonaggio che fanno ricordare il tristemente famoso Codice Rocco. (Non mancano gli effetti paradossali: l’aggravante per i reati commessi dentro o vicino a stazioni ferroviarie e della metropolitana o sui treni, introdotta presumibilmente per colpire i borseggiatori, varrebbe anche per chi insulta il suo vicino di casa in metropolitana invece che per strada). Il disegno di legge sicurezza sembra esprimere una grammatica del potere che si piega ai forti e opprime i deboli. Se sarà approvato definitivamente, rischia di portare più dolore e sofferenze che provocheranno rabbia, odio, violenza contro gli altri e contro sé stessi. E, quindi, meno sicurezza. Molti costituzionalisti sono convinti che in questo ddl diverse disposizioni contraddicano la Costituzione. Appare soprattutto incostituzionale l’impianto di fondo, perché respinge la centralità della persona, che è alla base della Carta. C’è davvero da sperare che il Senato cambi profondamente questo disegno di legge. L’ossessione bulimica dei decreti punitivi di Filippo Miraglia Il Manifesto, 28 settembre 2024 Leggi come spot. Se proviamo ad elencare il numero di decreti legge e provvedimenti legislativi in genere su questo argomento, sapendo di sbagliare per difetto, emerge con chiarezza la totale incapacità di intervenire in maniera seria e giusta su un argomento così complesso. Il governo Meloni ha una palese ossessione per l’immigrazione. Certamente legata all’efficacia, sul piano del consenso, della campagna permanente d’odio contro le persone di origine straniera e le associazioni che si battono per i diritti umani. Ma da questo ennesimo intervento legislativo emerge, come già dai precedenti, una quota importante di pressapochismo e confusione. Nessun governo mai, in Italia e forse in nessun altro Paese, ha legiferato così tanto e in maniera così cialtrona su un unico argomento. In un decreto legge che dovrebbe implementare regole relative all’ingresso per lavoro, sono riusciti, secondo le bozze circolate e che non sono state approvate, a introdurre modifiche sull’applicazione della procedura accelerata alle frontiere, sulla disciplina riguardante le Ong che operano in mare ricerca e salvataggio e, addirittura, per aeromobili e droni che monitorano il mediterraneo per dare l’allarme in caso di rischio di naufragi. Se proviamo ad elencare il numero di decreti legge e provvedimenti legislativi in genere su questo argomento, sapendo di sbagliare per difetto, emerge con chiarezza la totale incapacità di intervenire in maniera seria e giusta su un argomento così complesso. A inizio 2023 il decreto per ostacolare le operazioni Sar delle Ong. Dopo poche settimane il decreto 20/2023, dopo la strage di Cutro, che punta a ridurre il diritto d’asilo, implementando la procedura accelerata e cercando di cancellare la protezione speciale, destrutturando il sistema di accoglienza e impedendo la conversione in lavoro della protezione speciale, cure mediche e calamità. A seguire l’aumento della lista dei Paesi sicuri, per i quali si può applicare la procedura di frontiera con garanzie molto minori e maggiore discrezionalità. Subito dopo la dichiarazione dello stato di emergenza, nonostante i numeri degli arrivi siano più bassi di quelli tra il 2015 e il 2017. A settembre, nel cosiddetto decreto sud viene aumentato il periodo di trattenimento nei Cpr e le strutture d’accoglienza straordinarie come quelle di trattenimento vengono assegnate al ministero della difesa, diventando così aree di pertinenza della difesa nazionale. Ancora a settembre 2023 viene introdotta la garanzia finanziaria per evitare il trattenimento per i richiedenti sottoposti a procedura di frontiera. Subito dopo il decreto che, tra le altre cose, abbassa a 16 anni l’età per accogliere i minori soli nei centri per adulti, insieme ad un abbassamento generale delle garanzie per i minori. Contemporaneamente viene siglato un altro accordo con il governo tunisino, proprio mentre in quel Paese si scatena la caccia allo straniero e vengono cancellate gran parte delle garanzie democratiche introdotte dalla giovane costituzione. Per arrivare all’accordo con l’Albania che segna una accelerazione senza precedenti nelle politiche di esternalizzazione delle frontiere, cancellando decenni di civiltà giuridica e di cultura dei diritti umani. In questo 2024 tanti altri interventi, tutti con l’obiettivo di aggirare le convenzioni internazionali e le direttive europee, che i tribunali italiani, sempre oggetto di attacchi da parte del governo, sono obbligati ad applicare, cancellando alcune delle norme illegittime approvate dalla maggioranza. Quasi tutti i provvedimenti adottati producono maggiori difficoltà per la gestione ordinaria dell’accoglienza e introducono maggiori ostacoli per gli ingressi, rappresentando un regalo a trafficanti e criminalità. Anche quest’ultimo intervento se dovesse essere approvato come da bozze, ed è difficile purtroppo sperare in rilevanti novità, introduce piccole modifiche di scarso impatto sulla questione principale per la quale è stato scritto, l’ingresso per lavoro, lasciando inalterata una procedura impraticabile di incontro tra domanda e offerta di lavoro a livello planetario. Si continuerà a fingere che le aziende e le famiglie, quelle 10mila nuove istanze di cui si parla per persone disabili, siano disponibili ad assumere lavoratori e lavoratrici che non conoscono e che sono dall’altra parte del mondo. Nonostante sindacati, aziende, associazioni abbiano più volte espresso la necessità, per il mondo del lavoro, di introdurre procedure trasparenti e praticabili, il governo si ostina a legiferare solo per fini elettorali e di consenso, non certamente nell’interesse del Paese. Per Meloni, Salvini e compagnia questi interventi sono parte di quello che possiamo chiamare il loro business dell’immigrazione. Meriterebbe una attenzione diversa da parte delle opposizioni e delle forze democratiche, non solo in Italia. Il Ddl Sicurezza mette al sicuro solo il Governo e i grandi interessi di Giorgia Serughetti* Il Domani, 28 settembre 2024 Ci troviamo al cuore della crisi della democrazia. Una crisi che ha due volti. Da un lato, la sfiducia delle persone nella capacità dei partiti, dei sindacati, degli strumenti della deliberazione e decisione politica di far fronte alla complessità del presente e all’imprevedibilità del futuro. Dall’altro, governi autoritari riducono fino a soffocare gli spazi di confronto e di dissenso. Quale sicurezza? E la sicurezza di chi? Sono domande che da decenni orientano la critica all’approccio securitario nel governo dei fenomeni che provocano allarme sociale. Come ha ricordato Tamar Pitch su questo giornale, è almeno dagli anni Novanta che la parola “sicurezza” ha abbandonato l’area semantica della protezione sociale, per finire a indicare la sterilizzazione dei territori urbani dal degrado, il contrasto alla microcriminalità, la sorveglianza dei marginali. Il moltiplicarsi di interventi e “pacchetti” che negli anni hanno preso di mira persone migranti e povere ha risposto alla logica di immunizzare i cittadini e le cittadine “per bene” - gli inclusi - dai rischi derivanti dalla crescita delle diseguaglianze sociali. Il disegno di legge che porta la firma dei ministri Matteo Piantedosi, Carlo Nordio e Guido Crosetto segna però un salto di qualità anche rispetto al passato, già piuttosto inglorioso. Perché solo la retorica governativa, e dei media che se ne fanno portavoce, può azzardarsi a giustificare i più di venti interventi punitivi contenuti nel testo - con tredici nuove fattispecie di reato - come norme a protezione della sicurezza dei cittadini. Potere dal volto cattivo - Nei fatti, le “vittime” a cui il ddl intende dare protezione sono le imprese che violano i diritti dei lavoratori, i costruttori di grandi opere, i proprietari di edifici in stato di abbandono. Mentre il beneficiario finale delle misure pare il governo stesso, che - punendo ogni forma di protesta, anche la disobbedienza non-violenta - ambisce a mettersi al riparo dal dissenso. Senza trascurare il nuovo giro di vite sul carcere e i centri di permanenza per il rimpatrio, dove le nuove pene mirano a chiudere la bocca a chi si ribella, anche solo mediante la resistenza passiva agli ordini. E poi l’ennesima norma “manifesto” contro le “borseggiatrici” - s’intende, rom - da anni al centro di politiche di costruzione del consenso di stampo razzista e classista. Un governo, insomma, “forte con i deboli e sodale con i forti”, come ha scritto Emiliano Fittipaldi. Nei decenni in cui l’ossessione della sicurezza è riuscita a conquistare i cuori e le menti, la contropartita del controllo sociale crescente era, per gli “inclusi”, la promessa di benessere derivante dalle magnifiche sorti e progressive del mercato globalizzato. Oggi, è la crisi di quella promessa, la perdita di capacità seduttiva di un ordine dominato da parole come “proprietà”, “merito”, “responsabilità”, a favorire l’ascesa di un potere dal volto cattivo. Un potere apertamente ostile alla “libertà”, se intesa nel suo significato politico e sociale; favorevole invece alla “libertà” neoliberale degli attori economici. Un ordine ingiusto - L’indebolimento del welfare e della protezione del lavoro, l’aumento delle diseguaglianze, la crescita di insicurezza sociale e ansia per il futuro minano il consenso “spontaneo” verso il paradigma della competizione e del “fare da sé” che ha dominato il discorso politico nell’ultimo mezzo secolo, o quasi. E la risposta autoritaria, apertamente repressiva, del governo appare come l’ultimo tentativo di difendere un ordine ingiusto dalle inevitabili contestazioni che produce. Se è vero che una parte della popolazione sembra avere fiducia nel fatto che un potere “forte” possa mettere tutti, anche gli ultimi, al riparo dalle molteplici “crisi” che gravano sul presente, questo tempo di ritorno della storia, con le sue contraddizioni, ci ha messo anche di fronte al ritorno di conflitti: dalle lotte ambientali a quelle per il lavoro, dalle mobilitazioni femministe a quelle antirazziste. Ed è la paura di insorgenze radicali, di mobilitazioni che non si accontentano di una grammatica riformista delle rivendicazioni, di proteste che chiedono a voce altra “una vita bella”, come recita uno slogan del collettivo della ex-Gkn - è questa paura, forse, a spiegare il passaggio di scala verso l’impiego apertamente repressivo, e a tutto campo, degli strumenti di polizia e del diritto penale. Ci troviamo al cuore della crisi della democrazia. Una crisi che ha due volti. Da un lato, la sfiducia delle persone nella capacità dei partiti, dei sindacati, degli strumenti della deliberazione e decisione politica di far fronte alla complessità del presente e all’imprevedibilità del futuro, porta consenso a esperimenti di governo di stampo sempre più apertamente autoritari. Dall’altro, simili governi riducono fino a soffocare gli spazi di confronto e di dissenso. Abolendo, con il conflitto sociale, anche uno degli ingredienti vitali per la sopravvivenza della democrazia stessa. *Filosofa Ilaria Cucchi: “Il Governo parla di sicurezza, ma è solo odio” di Angela Stella L’Unità, 28 settembre 2024 Emergenza carceri e ddl sicurezza: intervista alla senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi: “Sono stata a Regina Coeli dopo l’incendio, la situazione è drammatica. Nordio? Ogni volta che parla c’è da tremare, dice che la causa del sovraffollamento sono i migranti ma chi governa dà la colpa di tutto ai migranti per salvarsi dai propri fallimenti. Il ddl sicurezza è macelleria sociale” Qualche giorno fa a Regina Coeli c’è stata una rivolta. Solo l’apice di una situazione drammatica che si sta vivendo nelle carceri. Quali le soluzioni adottabili? Mi sono recata nel carcere di Regina Coeli quando ho saputo dell’ultimo incendio. Vi ho trovato una situazione drammatica. L’aria era irrespirabile. Mi hanno dato una mascherina per stare meglio. Quella stessa che portava il personale che vi è costretto a lavorare, ma i detenuti no. Ne erano sprovvisti. Mi è stato detto che era stata loro fornita ma, di fatto, non la portavano. La situazione delle carceri è oggi esplosiva. Le condizioni di vita dei detenuti e quelle degli agenti che vi lavorano, tutti abbandonati a se stessi sono inaccettabili. Fatiscenti condizioni strutturali, drammatica carenza di organici e sovraffollamento delineano una situazione emergenziale che andrebbe affrontata seriamente. Le soluzioni esigono investimenti e competenza, cose che il nostro Governo non conosce e rifiuta. Più facile mettere detenuti contro agenti e voler dare la percezione di voler proteggere questi ultimi, dei quali, di fatto, ci si disinteressa bellamente. Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio emana ogni giorno un comunicato stampa sulla qualunque. Nulla però sulle carceri. Che ne pensa? Il Ministro Nordio sembra un’altra persona rispetto al Nordio-magistrato. Parlava di diritti e garanzie, di pensare ad una vasta opera di depenalizzazione per dare fiato al sistema giustizia. Diceva di avere a cuore le condizioni delle nostre carceri ma non sta facendo nulla per risolvere il sovraffollamento. Oggi, sembra che sia soltanto un sosia. Ogni volta che interviene pubblicamente io tremo. La causa del sovraffollamento delle carceri per il ministro Nordio sarebbero anche i migranti... Non la cultura della repressione che incarna questo governo; nemmeno il classismo che rinchiude in cella tutte le fasce più deboli della nostra società, fregandosene delle loro necessità di supporto. Niente, per la destra la causa sono i migranti. Come sempre, quando si tratta di individuare un problema, il loro capro espiatorio preferito. Lo ripetono a giorni alterni: il lunedì per convinzione, il martedì per inerzia. Si danno il cambio: una volta è Nordio, un’altra Delmastro e poi a scendere. Un impegno quotidiano, forse l’unico al quale tengono davvero, per alimentare la propaganda. La ragione è semplice. E qual è? Se danno la colpa ai migranti, quelli al potere sono salvi dal proprio fallimento; hanno anzi le mani libere per imprimere un’ulteriore svolta autoritaria. Perché migrante uguale criminale, e quindi da condannare il più duramente possibile. Senza aver paura di violarne la dignità, di ammutolirne il futuro. La demagogia del governo si regge solo su questo. Cosa comporta lo vediamo. Più sicurezza, dicono loro. Diritti negati e scariche di odio, dice la realtà. In carcere, ormai miscela di sofferenze incurabili. E fuori. In una democrazia che giorno dopo giorno si scopre sempre più povera e vulnerabile. A questo punto diventa ancora più urgente nominare un Garante dei diritti delle persone private della libertà personale? Si è molto urgente anche se, in questa situazione, il Garante non ha certo i poteri sufficienti per risolvere tutti i problemi. È grave, comunque, l’assenza di questa figura. Il ddl sicurezza è arrivato al Senato. La Lega in primis, ma tutta la maggioranza, vorrebbero un iter veloce. Si svilisce ancora di più il ruolo del Parlamento? Il ddl 166 di sicurezza ha solo il nome. Svilimento del Parlamento? Per la maggioranza il Parlamento non esiste. La norma introduce nuovi reati e nuove aggravanti. Ci sarebbe bisogno di una depenalizzazione? Questa non è una “norma”. È un sistema misto di propaganda ed autoprotezione governativa dal dissenso manifestato in modo legittimo. Certo che sarebbe necessaria un’ampia opera di depenalizzazione dei reati cosiddetti bagatellari. Questo governo, tuttavia, ambisce soltanto alla depenalizzazione dei reati contro la pubblica amministrazione e rimane freddo per quelli di mafia. In una intervista a questo giornale il magistrato Alfonso Sabella ha messo in evidenza che questo provvedimento è nato per colpire i più deboli - gli immigrati, i carcerati, i dissidenti, i diversi - e favorire invece le forze di polizia. Si va sempre di più verso uno Stato repressivo, poliziesco ed autoritario? Sono assolutamente d’accordo con il giudice Sabella. Il ddl 166 in realtà è un vero e proprio atto di macelleria sociale. Una scure sui diritti umani dei più deboli, un bavaglio violento alla libertà di manifestazione del pensiero. Repressione, polizia ed ancora carcere per tutti coloro che non sono allineati col grande manovratore. Il tutto condito di pura, cinica ed ignorante propaganda rassicurante per un popolo troppo distratto per rendersi conto della cancellazione dei propri diritti costituzionali, tanto faticosamente conquistati con un secolo di lotte e sangue. Il diritto penale può ripartire dalla giustizia riparativa di Edoardo Caprino L’Unità, 28 settembre 2024 La giustizia riparativa è una delle discipline di saperi che si stanno ampliando maggiormente ed è il più nuovo di tutti gli sviluppi dell’ambito giuridico. Ed è proprio la giustizia riparativa a essere scelta tra le materie premiate dalla Fondazione Internazionale Balzan che ha attribuito il prestigioso premio a John Braithwaite, professore emerito dell’Australian National University “per il suo contributo allo sviluppo teorico e alla diffusione della prassi della giustizia riparativa contemporanea, per il suo impegno a servizio delle istituzioni e della costruzione sociale, per il suo lavoro di alta divulgazione scientifica ed editoriale, per la sua dedizione alla crescita culturale delle più giovani generazioni nei valori della giustizia riparativa”. La giustizia riparativa nasce dalla constatazione che il reato è esercizio di potere, di sopraffazione sulla vittima, è un’azione violenta che provoca una ferita molto spesso fisica ma anche materiale e morale e la giustizia ha il compito di innescare un processo di guarigione. Per questo motivo la giustizia riparativa si affianca alla giustizia tradizionale che si amministra nei tribunali manifestandosi nella rappresentazione dell’incontro, che ne è un punto cardine. Un incontro che è liberamente accettato al momento opportuno tra le vittime e i difensori, ed eventualmente da altre persone significative per gli uni e per gli altri. Con l’aiuto di un mediatore si affrontano domande molto semplici ma decisive per le persone coinvolte: Cos’è accaduto? Perché quel fatto? Quali persone sono state colpite? Perché proprio loro? Cosa si può fare per dare prospettive future a tutti i soggetti coinvolti? La giustizia riparativa non va quindi confusa con un atto di clemenza, pe rché essa richiede al difensore di assumersi tutte le proprie responsabilità davanti alle vittime e alla comunità coinvolta. Reintegrative Shaming è il concetto elaborato da John Braithwaite che riassume perfettamente questa tipologia di approccio. Trent’anni di pratica della giustizia riparativa contemporanea e di studi su di essa mostrano che questi incontri danno un grande sollievo alle vittime, permettendo un’idea di ristoro. Ed è importante sottolineare come questo approccio permetta una significativa diminuzione della recidiva attraverso la reintegrazione sociale degli offensori. John Braithwaite è uno dei fondatori degli studi e della prassi della giustizia in epoca contemporanea, senza le sue opere la giustizia riparativa non avrebbe guadagnato né la necessaria credibilità accademica, né la fiducia delle Istituzioni internazionali che ora la promuovono e la supportano a ogni livello. Alcuni dei suoi concetti sono divenuti di dominio generale, in particolare l’idea di Responsive Regulation, che allude a una forma di regolamentazione responsiva che sa valorizzare i comportamenti positivi dei consociati che, fin dall’inizio o a valle di un illecito, decidono di osservare volontariamente le regole. L’ampiezza delle pubblicazioni di Braithwaite è sconfinata sia per interessi coltivati sia per il numero di volumi e di articoli pubblicati ma soprattutto è ampia la comunità di studiosi, di giovani generazioni che in tutto il mondo diffondono la cultura e gli studi sulla giustizia riparativa. Braithwaite non si è mai chiuso nella sua torre d’avorio, ha speso moltissime energie nella costruzione di realtà sociali e di una società civile dove la giustizia riparativa potesse essere praticata. Ha contribuito in modo decisivo a sorreggere questa prassi sociale con un’architettura normativa istituzionale riconosciuta e che potesse dare vita a un sistema complementare alla giustizia tradizionale. Negli anni più recenti si è sviluppata la riflessione su questo ambito in relazione ai grandi problemi della nostra epoca: sostenibilità, guerra, pace, cambiamento climatico, finanza, salute; e lo ha fatto con il pensiero rivolto ai grandi conflitti del nostro tempo. Merita una particolare sottolineatura il progetto di Braithwaite: Peacebuilding compared che studia i grandi conflitti di oggi e i processi di ripristino della pacificazione, per mettere in evidenza gli elementi di successo anche a fronte dei grandi conflitti armati che affliggono il nostro tempo. La giustizia riparativa è una strada fruttuosa e semplice, percorribile sia per i grandi dilemmi del nostro tempo, sia per piccole ma brucianti conflittualità che affliggono la vita quotidiana di ognuno. Lavori di pubblica utilità. Il Ministero della Giustizia firma protocolli d’intesa nazionali di Catia Paluzzi gnewsonline.it, 28 settembre 2024 “Tutte le misure alternative al carcere, in particolare i lavori di pubblica utilità, rappresentano importanti strumenti di risocializzazione dell’imputato - condannato, di maieutica civica e di prospettiva assistenziale. Sicurezza sociale e misure di comunità devono andare al passo con la fattiva adesione dei condannati/imputati, ai quali lo Stato offre un’opportunità da non sprecare”. Con queste parole, Antonio Sangermano, capo del dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità ha introdotto la riunione che si è tenuta il 26 settembre 2024 presso la sede del dipartimento, in cui il Viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha sottoscritto tre protocolli d’intesa a carattere nazionale per promuovere la stipula di convenzioni locali per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità finalizzati alla messa alla prova dei maggiorenni, con l’obiettivo di risarcire la comunità per il danno causato e contribuire alla prevenzione della recidiva, sensibilizzando e coinvolgendo l’imputato attraverso una presa di coscienza circa il valore delle azioni e le ricadute comportamentali che le stesse hanno nella vita sociale. Paolo Sisto, che si dice convinto che “il futuro del carcere è fuori dal carcere”, ha dichiarato che: “L’appartenenza, qualunque essa sia, non deve far venire mai meno l’attenzione ai valori fondanti che sono quelli della comprensione, dell’aiuto, anche della severità per certi versi ma comunque nella umanizzazione del nostro lavoro, neo-umanesimo sanzionatorio, che non vuol dire essere meno severi, vuole dire essere severi ma consapevoli della dimensione in cui questa severità si va a collocare. Questo neoumanesimo trapela dalla nobiltà delle istituzioni che sono impegnate e che ci danno l’onore oggi di sottoscrivere questi protocolli, perché il mantenimento di questo asset valoriale è per noi un grande impegno. La firma è soltanto un punto di partenza, il nostro impegno è quello di darle un valore di implementazione e di efficienza”. I protocolli si propongono anche di favorire la stipula di accordi locali volti all’accesso a programmi di inclusione sociale per i soggetti in carico agli Uffici di esecuzione penale esterna. Con il primo protocollo, firmato con il presidente nazionale di Salesiani per il Sociale, don Francesco Preite, l’associazione si impegna ad accogliere gli imputati maggiorenni per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità presso le proprie strutture, prevalentemente in attività di tipo socio-educativo a favore di soggetti minorenni e in condizioni di marginalità sociale. Il secondo protocollo, firmato con l’avvocato Alessandra Itro, delegata dalla Lega nazionale per la difesa del cane - L.N.D.C. - Animal Protection, favorirà l’implementazione del ricorso all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova per adulti attraverso l’ampliamento e la differenziazione delle opportunità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità in attività connesse al benessere dell’animale e alla tutela del patrimonio ambientale, rispettando le specifiche attitudini e le competenze personali di ciascun imputato. L’ultimo protocollo, per ordine ma non per importanza, è quello sottoscritto con Paola Da Ros, presidente della Federazione nazionale italiana “Società di San Vincenzo De Paoli ODV” in cui i soggetti ammessi ai lavori di pubblica utilità presteranno attività di supporto ai servizi socio-assistenziali e socio-sanitarie dell’associazione, rivolte a persone in stato di bisogno e di emarginazione, sia individuali che collettive. Il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità per il tramite deli Uffici di esecuzione penale esterna garantirà la corretta gestione della messa alla prova per gli imputati adulti e il pieno rispetto dell’attuazione dei protocolli. Prescrizione, Forza Italia “scongela” la nuova legge: riparte l’iter dopo 8 mesi di silenzio di Errico Novi Il Dubbio, 28 settembre 2024 Non è mai facile riformare la prescrizione. Soprattutto quando, come in questo caso, si tratta di ripristinare principi di garanzia. Tutto si complica, cioè, se l’obiettivo è tornare a norme coerenti con la Costituzione, e in particolare con i pilastri del diritto di difesa e della ragionevole durata. Ma dopo il provvedimento sulle intercettazioni, riemerso martedì scorso dall’incertezza estiva, anche la nuova legge sull’estinzione dei reati è prossima a riaffiorare in superficie: sarà incardinata nei prossimi giorni in commissione Giustizia a Palazzo Madama. A dare il via libera decisivo è stata in Fratelli d’Italia. Che - come sul limite del mese e mezzo per gli “ascolti” previsto dalla legge Zanettin - aveva contribuito al congelamento del dossier. A Palazzo Madama, sulla giustizia, il partito di Giorgia Meloni schiera in prima linea, per due avvocati: il ligure Gianni Berrino, capogruppo in commissione, e il napoletano Sergio Rastrelli, segretario dello stesso organismo. Hanno comunicato ai partner di maggioranza - Lega e Forza Italia - che intendono procedere a nuove audizioni, nonostante la materia fosse stata ampiamente approfondita, con mondo forense, magistratura e accademia, già a Montecitorio. Sarebbe catastrofistico interpretare la richiesta come volontà di sollecitare un ripensamento o di chiedere comunque una modifica della legge. Ma in assoluto non si può escludere nulla. Sicuramente anche per la prescrizione l’iniziativa di Forza Italia è stata decisiva nello sblocco del dossier. Nella riunione che gli azzurri attivi sul fronte giustizia hanno tenuto lunedì scorso con il viceministro Francesco Paolo Sisto e il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri, si era concordato di tornare alla carica non solo per la calendarizzazione della legge Zanettin sugli “ascolti” ma, appunto, anche per far ripartire la prescrizione. E proprio Zanettin, che dei berlusconiani è il capogruppo in commissione Giustizia al Senato, ha presentato la richiesta alla presidente Giulia Bongiorno, della Lega, e ai colleghi di Fratelli d’Italia. E l’intesa, nel giro di poche ore, è stata raggiunta. Nel caso delle norme che ripristinano, per l’estinzione dei reati, il regime sostanziale, un via libera senza modifiche ne sancirebbe l’entrata in vigore. Bisognerà fare i conti con le resistenze della magistratura: prima che lo scorso 16 gennaio l’aula della Camera approvasse la riforma, i presidenti delle 26 Corti d’appello italiane avevano inviato una lettera a governo e Parlamento per chiedere che il testo fosse corretto da una “clausola di differimento”. In pratica i vertici della magistratura giudicante ritenevano pericoloso far rotolare il ritorno alla “vecchia” prescrizione (l’impianto è assai vicino alla riforma Orlando) nel pieno della rincorsa ai target di smaltimento del Pnrr: saremmo costretti a ricalcolare i termini di estinzione dei reati per tutti i procedimenti che oggi pendono presso le Corti d’appello, avevano avvertito i 26 presidenti, dal momento che oggi quei giudizi sono regolati dalla cosiddetta improcedibilità, introdotta nel 2021 con la riforma penale di Cartabia, e che con la modifica in cantiere, invece, bisognerebbe prendere di nuovo in considerazione il tempo trascorso dal momento dell’ipotetico reato, che nel regime tuttora vigente non ha rilievo. A fronte del limite di durata del processo d’appello, fissato in due anni (con varie eccezioni) dall’improcedibilità, la prescrizione del reato è di fatto annullata, in base a quanto sancito dalla norma Bonafede, che Marta Cartabia ha in parte “neutralizzato” ma non cancellato. Ovvio che la ripresa dei lavori al Senato innescherà anche un nuovo pressing da parte della magistratura. E non si tratta solo delle Corti d’appello ma della stessa Anm, che ha tutto l’interesse a rappresentare governo e maggioranza come un’accolita di spericolati arruffoni. L’associazionismo giudiziario punta ad accumulare credito presso l’opinione pubblica in vista della vera, decisiva battaglia, quella sul referendum per la separazione delle carriere. Ma in realtà l’irragionevolezza, sulla prescrizione, sarebbe tutta dalla parte delle toghe. Le norme in questione, infatti, hanno carattere “sostanziale”, e quindi agiscono, in base al principio del “favor rei”, anche in forma retroattiva. Se passasse la richiesta di differire l’efficacia della riforma, tutti gli imputati che nel frattempo avrebbero ottenuto un beneficio dalla “nuova” prescrizione potrebbero impugnare eventuali condanne, con conseguenze apocalittiche proprio per quell’efficienza che le Corti d’appello vorrebbero preservare. Dettaglio che l’anno scorso aveva convinto il guardasigilli Carlo Nordio e il viceministro Francesco Paolo Sisto, che segue il dossier in Parlamento, a tirare dritto e a ottenere alla Camera il sì a un testo privo della clausola sollecitata dai magistrati. In teoria l’atteggiamento dell’opposizione dovrebbe essere assai meno conflittuale: alla Camera la riforma è stata votata sia da Azione - dove militava ancora Enrico Costa - che da Italia viva. Non solo. Come ricordato, l’impianto della riforma è ispirato alla proposta base della commissione Lattanzi, che ha molte affinità con la legge del dem Andrea Orlando: prevede una sospensione di due anni dopo l’eventuale condanna in primo grado e un’altra di 12 mesi se il processo d’appello conferma il primo giudizio di colpevolezza. Ma già a Montecitorio il Pd ha preferito difendere la riforma Cartabia. Ed è scontato che manterrà la stessa linea al Senato. Circostanza che Fratelli d’Italia, se volesse, potrebbe utilizzare per irrobustire la propria posizione prudente sul testo caro agli azzurri. Giustizia, i confini della critica di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 28 settembre 2024 Una delle maggiori anomalie italiane è l’ostilità verso la giurisdizione: il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti “celebri”. I magistrati cui capiti la “sventura” (è purtroppo la parola giusta) di imbattersi in vicende “delicate” riguardanti imputati “eccellenti”, restii al controllo di legalità, devono mettere in conto polemiche e attacchi furiosi. È storia dei nostri ultimi trent’anni. Antesignano Berlusconi, che insaporiva le farneticazioni su golpe ed eversione giudiziaria sostenendo che “per fare questo lavoro (di magistrati) bisogna essere matti; se fanno questo lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana”. In questi giorni le polemiche sono riesplose violente con il processo a carico di Matteo Salvini, quando i Pm del Tribunale di Palermo hanno osato chiedere la sua condanna con una requisitoria dibattimentale puntualmente motivata in fatto e in diritto. Poiché l’insofferenza ostile verso i magistrati è un fenomeno ricorrente e preoccupante, conviene inquadrarlo in un contesto più generale. Da tempo l’intervento giudiziario è in espansione. Ciò avviene in tutti i sistemi democratici. Con una diffusione che sembra segnalarne la dimensione oggettiva, escludendo che alla sua base stiano - quantomeno in misura prevalente - forzature soggettive. Gli effetti a volte arrivano a turbare equilibri politici e destini di governi. A questo trend il nostro Paese (è sotto gli occhi di tutti) non fa eccezione. Anzi, ha vissuto la situazione in modo particolarmente acuto, al punto che una delle maggiori anomalie italiane è l’ostilità verso la giurisdizione: il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti “celebri”; in una sorta di impropria riedizione del cosiddetto “processo di rottura”, utilizzato però da membri dello Stato anziché, come negli anni di piombo, da sue antitesi. In altre parole, una strategia di difesa “dal” processo anziché “nel” processo, che non ha nulla a che vedere con un sistema di stretta legalità. Un’anomalia che possiamo provare a dimostrare citando un testimone eccezionale, Bill Clinton, 42° presidente degli Stati Uniti, sottoposto a un processo condotto da un magistrato nominato apposta per il suo caso. Clinton dovette sottostare a un accertamento medico-legale circa la provenienza di alcune tracce organiche che una giovane stagista aveva “diligentemente” conservato sul suo abito. Un’umiliazione tremenda per l’uomo più potente del mondo. I suoi biografi raccontano che ne fu scosso al punto che per un bel po’ non riuscì a ritrovare la chiave in suo possesso (l’altra era custodita dal ministro della difesa) della valigetta che consentiva di accedere all’arsenale nucleare USA. Eppure, nonostante il turbamento profondissimo, a Clinton non passò mai neanche per l’anticamera del cervello l’idea di prendersela con il giudice. A differenza di quel che è accaduto ieri e accade oggi in Italia. Per molto meno. Come dimostra anche il caso Salvini ricordato all’inizio di questo articolo, con la sequela di personaggi illustri pronti a sostenere il ministro ad ogni costo, contro quei poco di buono dei giudici che si ostinano a essere indipendenti. Con l’incivile corredo di feroci insulti e minacce che stanno sommergendo i Pm e i loro familiari, mettendone a rischio la sicurezza. Preludio alla mobilitazione, con tanto di marcia sul Palagiustizia, di cui si parla per il giorno dell’arringa del difensore di Salvini. Di qui un interrogativo: siamo alle porte di uno sfondamento del confine tra critica e intimidazione e della sovversione delle regole fondamentali della giustizia? Sanità, il Governo vara il Dl anti-violenze: pene fino a 5 anni, arresto nelle 48 ore di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2024 Il Ministro Nordio: “Reato intollerabile contro chi si pone al servizio del cittadino nel momento più delicato della vita”. Anelli (Fnomceo): “Si adottino sistemi di videosorveglianza per rendere la norma efficace”. Via libera dal Consiglio dei ministri di oggi ad un decreto legge contro le violenze nei confronti di medici e sanitari che prevede un generale inasprimento delle pene. Il Dl, redatto su impulso dei Ministeri della Giustizia e della Salute, è intitolato: “Misure urgenti per contrastare i fenomeni di violenza nei confronti dei professionisti sanitari, socio-sanitari, ausiliari e di assistenza e cura nell’esercizio delle loro funzioni nonché di danneggiamento dei beni destinati all’assistenza sanitaria”. Rinviata invece l’approvazione del Dl migranti (Disposizioni urgenti in materia di ingresso in Italia di lavoratori stranieri, di tutela e assistenza alle vittime di caporalato, nonché di gestione dei flussi migratori e di protezione internazionale). Il Sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano ha spiegato: “È stato avviato l’esame di una materia molto complessa, il testo richiede qualche affinamento e qualche precisazione che avverrà in maniera auspicabilmente conclusiva al prossimo Cdm”. Nel complesso sono diciassette articoli che riscrivono la disciplina dell’ingresso in Italia dei lavoratori stranieri. In conferenza stampa, il ministro della Giustizia Carlo Nordio presentando il Dl anti violenze ha affermato: “È un provvedimento chiesto praticamente da tutto il mondo sanitario e presumo anche dai cittadini che tende a proteggere l’esercizio della professione sanitaria da quelle forme di aggressioni particolarmente odiose, dal devastamento delle strutture sanitarie pubbliche e private”. “Abbiamo provveduto - spiega Nordio - in due direzioni. La prima è sostanziale, aumentando la pena per il danneggiamento aggravato sulle pertinenze di strutture sanitarie e non solo fino a 5 anni, che viene coniugato con l’elemento procedurale che impone l’arresto obbligatorio nella flagranza di reato quando sono commesse lesioni, minacce aggravate o danneggiamento nell’ambito delle strutture sanitarie. Il secondo aspetto - prosegue il Guardasigilli - riguarda la flagranza di reato che, in questo caso, è estesa nell’ambito delle 48 ore successive. Si tratta di un arresto differito quando le ragioni di incolumità o impossibilità di effettuare l’arresto non consentano l’arresto, che è possibile differire appena scoperti gli autori di questi reati”. “Quelli contro il personale sanitario - ha proseguito - non sono paragonabili ad altri reati di reati di violenza o minaccia, anche contro altri pubblici ufficiali. Chi lavora con grande fatica e sacrificio negli ambulatori e nei pronti soccorsi si pone al servizio del cittadino nel momento più delicato della vita dell’esistenza. Il fatto che vengono offese, malmenati, devastati ambienti e strumenti essenziali è una cosa intollerabile”. “Malgrado le critiche che qualche volta abbiamo sentito che questo governo tende a panpenalizzare, estendere la tutela penale magari in modo ingiustificato, io ritengo - ha concluso Nordio - che questo provvedimento abbia una generale condivisione”. “Soddisfazione” è stata espressa da parte della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri. “Il decreto - afferma il Presidente Anelli - adotta finalmente l’estensione dell’arresto in flagranza differita anche alle violenze operate nei confronti dei professionisti sanitari o comunque nelle strutture sanitarie, attraverso un filmato, una videoregistrazione o qualsiasi altro strumento che consenta di poter individuare l’aggressore”. “Come noto - prosegue - l’arresto in flagranza differita dà la possibilità al personale di pubblica sicurezza di poter arrestare entro le 48 ore il soggetto che ha procurato violenza e quindi di assicurarlo alla giustizia”. Si tratta di un istituto già adottato in altri contesti come le manifestazioni sportive o i reati inerenti alla violenza domestica. “Il decreto - evidenzia Anelli - introduce anche multe pecuniarie fino a 10mila euro per chi produce qualsiasi tipo di violenza e di distruzione di suppellettili o di ambienti nelle strutture sanitarie. Rappresenta quindi oggi un primo passo importante”. “Crediamo che il Governo ora debba dare delle precise indicazioni alle Aziende Sanitarie e alle Regioni perché adottino sistemi di videosorveglianza, utilizzando eventualmente anche i fondi del Pnrr, per poter consentire a questa norma di diventare realmente efficace”, ha concluso Anelli. Aggressioni in ospedale, arriva l’arresto in “quasi flagranza” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 28 settembre 2024 Decreto del governo sulle botte a medici e infermieri. Nordio: “Avrà effetto deterrente”. Ma le norme già ci sono. “È un provvedimento molto importante, siamo certi che avrà forte effetto deterrente”. Nella conferenza stampa post-Consiglio dei ministri, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha difeso le ragioni che hanno portato l’esecutivo a licenziare un decreto ad hoc per punire con maggiore severità le aggressioni contro il personale medico. Un fenomeno in crescita, documentato da immagini come quelle del pronto soccorso di Foggia, che hanno destato grande indignazione presso l’opinione pubblica. Non era mancata negli ultimi giorni, quando l’ipotesi del decreto ha iniziato a circolare, qualche perplessità, dovuta principalmente al fatto che i reati per contrastare il fenomeno esistessero già e che sarebbe potuto risultare controproducente “rincorrere” legislativamente i fatti di cronaca. Il guardasigilli, però, ha voluto dissipare i dubbi sulla necessità del Dl ed è sceso in sala stampa per illustrarne le principali norme: “Per le aggressioni in ospedale”, ha spiegato, “è già previsto l’arresto in flagranza. Ma in questo caso la flagranza è estesa come una sorta di ‘quasi flagranza’ nell’ambito delle 48 ore successive”. “Si tratta di un arresto differito”, ha proseguito, “quando è impossibile effettuarlo nell’immediato. Ora c’è la possibilità di differire questo arresto non appena identificati gli autori del reato comunque, anche se non oltre le 48 ore”. Tornando sulla ratio del provvedimento, Nordio ha sottolineato di essere convinto che questo “abbia una generale condivisione”, e ha ringraziato il ministro della Salute Orazio Schillaci per “un’iniziativa arrivata dal Ministero della Salute che ha trovato subito concordia col Ministero della Giustizia”. “Si tratta di un provvedimento”, ha detto Nordio, “chiesto da tutto il mondo sanitario e dai cittadini per proteggere la professione sanitaria dalle forme odiose di aggressione a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi, con forme di devastazione, saccheggio e danneggiamento. Abbiamo provveduto in due direzioni: la prima è sostanziale e prevede l’aumento della pena fino a 5 anni per il danneggiamento aggravato sulle pertinenze delle strutture sanitarie e socio-sanitarie fatte con violenza, con minaccia o con lesioni al personale. Questo aumento”, ha detto ancora il ministro, “viene coniugato con un altro provvedimento di ordine procedurale, che impone l’arresto obbligatorio nella flagranza di reato quando il reato viene commesso nell’ambito delle strutture sanitarie”. “I reati contro il personale sanitario”, ha concluso Nordio, “non sono paragonabili alla violenza o alla minaccia verso gli altri pubblici ufficiali: chi lavora con grande sacrificio nei laboratori, nei pronto soccorso o simili, si pone al servizio del cittadino nel momento più delicato dell’esistenza individuale, quello della cura della salute. Che vengano malmenati, aggrediti e offesi o che vengano devastati strumenti e ambienti essenziali per la cura e la diagnosi delle malattie è assolutamente intollerabile”. Un’altra parte rilevante del provvedimento è quella che prevede la predisposizione di linee guida da parte dei ministeri dell’Interno e della Salute, per l’utilizzo dei dispositivi di videosorveglianza negli ospedali e nei pronto soccorso. “Oggi”, ha commentato il ministro della Salute Orazio Schillaci, “abbiamo dato un’altra risposta concreta a tutela di medici, infermieri e di tutti gli operatori sanitari e sociosanitari. Abbiamo mantenuto un impegno”, ha aggiunto, “preso con chi ogni giorno si dedica con competenza e dedizione alla cura dei cittadini e non merita di essere oggetto di violenza”. Gli articoli del codice di procedura penale su cui interviene il decreto legge sono il 380 (arresto obbligatorio in flagranza) e il 382 bis (arresto in flagranza differita).Viene modificato anche l’articolo 365 del codice penale, con l’aggravio della pena per chi danneggia “beni mobili o immobili all’interno o nelle pertinenze di strutture sanitarie o socio-sanitarie residenziali o semiresidenziali, pubbliche o private, compresi beni di medici e personale sanitario”. L’approvazione del decreto è stata accolta favorevolmente dagli ordini professionali e dalle associazioni delle categorie interessate dalle sue norme. Per la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri “si adotta finalmente l’estensione dell’arresto in flagranza differita anche alle violenze operate nei confronti dei professionisti sanitari o comunque nelle strutture sanitarie, attraverso un filmato, una videoregistrazione o qualsiasi altro strumento che consenta di poter individuare l’aggressore. Crediamo che il Governo”, aggiunge la Federazione, “ora debba dare delle precise indicazioni alle aziende sanitarie e alle Regioni, perché adottino sistemi di videosorveglianza, utilizzando eventualmente anche i fondi del Pnrr, per poter consentire a questa norma di diventare realmente efficace”. Sì allo “sconto” di pena per il mancato appello di condanne definitive post Cartabia di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2024 La Cassazione chiarisce che la riduzione di un sesto vale anche per pronunce ante 30 dicembre 2022, ma diventate definitive dopo tale data, e alla relativa istanza non si applica il termine di 30 giorni previsto per le pene sostitutive. Lo sconto di pena di un sesto introdotto dalla Riforma Cartabia, a favore del condannato con rito abbreviato quando non appelli la sentenza di primo grado, va applicato dal giudice dell’esecuzione se la decisione di condanna è divenuta definitiva dopo l’entrata in vigore della novella. Cioè successivamente al 30 dicembre 2022. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 36083/2024 - ha ribadito il perimetro temporale di applicabilità del beneficio della riduzione della pena inflitta a fronte dell’effetto deflattivo dispiegato a favore della macchina della giustizia dalla scelta di rinunciare a un ulteriore grado di giudizio. L’applicabilità del beneficio sostanziale sulla pena, in base al favor rei, si estende anche ai procedimenti pendenti di cui non risulti instaurata la fase impugnatoria. Con esclusione solo di quelli per cui la condanna sia divenuta definitiva prima dell’entrata in vigore della Riforma. L’ordinanza del tribunale, annullata con rinvio, è stata ritenuta viziata dove affermava la tardività dell’istanza presentata in sede di esecuzione, perché era scaduto il termine di 30 giorni dalla definitività della condanna. L’ordinanza si riferiva al termine imposto dall’articolo 95 del Dlgs 150/2022. Ma, come spiega la Suprema Corte, l’articolo 95 è norma transitoria che regola la sostituzione delle pene detentive brevi come si evince dal titolo stesso della norma (Disposizioni transitorie in materia di pene sostitutive delle pene detentive brevi) e che consente di chiederne l’applicazione ai processi pendenti, ma con istanza da presentare al giudice dell’esecuzione entro trenta giorni dalla defnitività della sentenza. Il giudice del rinvio dovrà quindi verificare le condizioni per la riduzione della pena e l’inesistenza di atti impugnatori dell’imputato e del difensore. Appello con parte civile, sì alla assoluzione nel merito anche se il reato si è prescritto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2024 Per le SU della Cassazione, sentenza n. 36208 depositata oggi, nel giudizio di appello contro la condanna anche al risarcimento dei danni, il giudice è comunque tenuto, vista la presenza della parte civile, a valutare la sussistenza dei presupposti per l’assoluzione nel merito. Nel giudizio di appello contro una sentenza di condanna penale ed al risarcimento del danno, il giudice dell’impugnazione deve poter valutare l’assoluzione nel merito anche qualora il reato si è prescritto in corso di causa, senza dunque doversi limitare a prendere atto della causa estintiva. Lo hanno stabilito le Sezioni unite penali, sentenza n. 36208 depositata oggi, respingendo il ricorso degli eredi di un uomo deceduto a seguito di un incidente nautico e confermando la decisione della Corte di appello di Catania. Il giudice di secondo grado, premesso che il reato risultava prescritto, in considerazione della presenza delle parti civili, aveva valutato i fatti nel merito, pervenendo alla conclusione che, contrariamente a quanto affermato in primo grado, l’istruttoria non era giunta alla prova della responsabilità penale dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio. E così, in riforma della sentenza, aveva assolto l’imputato perché il fatto non sussiste, con revoca delle statuizioni civili. Contro questa decisione hanno proposto ricorso le parti civili. La Quarta Sezione penale ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa al potere del giudice di appello di pronunciare l’assoluzione nel merito ponendo il seguente quesito: “Se, nel giudizio di appello promosso avverso la sentenza di condanna dell’imputato anche al risarcimento dei danni, il giudice, intervenuta nelle more l’estinzione del reato per prescrizione, possa pronunciare l’assoluzione nel merito anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie, sulla base della regola di giudizio processual-penalistica dell’oltre ogni ragionevole dubbio, ovvero debba far prevalere la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, pronunciandosi sulle statuizioni civili secondo la regola processual-civilistica del ‘più probabile che non’ “. Per risolvere il quesito, prosegue la decisone, occorre valutare se dalla lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 578 cod. proc. pen. operata dalla Consulta (sent. 182/2021) consegua che è precluso al giudice di appello penale, al maturare del termine di prescrizione del reato, l’accertamento a favore dell’imputato dei presupposti per l’assoluzione nel merito nei termini nei quali è stato, invece, ammesso dalla Cassazione (Sez. U, Tettamanti). Ebbene, il Collegio ritiene che alla questione debba essere data soluzione negativa perchè non vi è incompatibilità tra le due pronunce. Per la Suprema corte, infatti, il principio consacrato in Sez. U., Tettamanti, che assicura la più ampia tutela del diritto di difesa, non può ritenersi in contrasto con la tutela della presunzione di innocenza secondo quanto indicato dalla Corte costituzionale sentenza n. 182/2021. I giudici hanno dunque affermato il seguente principio di diritto: “Nel giudizio di appello avverso la sentenza di condanna dell’imputato anche al risarcimento dei danni, il giudice, intervenuta nelle more l’estinzione del reato per prescrizione, non può limitarsi a prendere atto della causa estintiva, adottando le conseguenti statuizioni civili fondate sui criteri enunciati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 182 del 2021, ma è comunque tenuto, stante la presenza della parte civile, a valutare, anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie, la sussistenza dei presupposti per l’assoluzione nel merito “. L’intervento della Corte costituzionale, argomenta la decisione, pone come punto fermo che alla pronuncia di estinzione del reato (ai sensi dell’articolo 578 cod. proc. pen.) non possa accompagnarsi l’affermazione, sia pur incidentale, della responsabilità penale dell’autore del danno. Tuttavia, prosegue, la tesi che fa derivare da tale esegesi il ripudio del principio espresso da Sez. U, Tettamanti “finisce per imporre al giudice di appello la mera presa d’atto della causa estintiva”. Si tratta, osserva il Supremo Collegio, di un ragionamento che incorre “nel paradosso di negare, in virtù del principio di presunta innocenza, la possibilità per il giudice di valutare i presupposti dell’assoluzione nel merito, che rappresenta l’obiettivo primario del diritto di difesa”. Tanto più che l’imputato potrebbe aver scelto di non rinunciare alla causa estintiva confidando nel “diritto vivente” originatosi da tale sentenza e dalla consolidata giurisprudenza di legittimità che vi ha fatto seguito. Comunicazioni tra avvocato e cliente, la Corte di Giustizia Ue: “Va sempre protetto” di Tiziana Roselli Il Dubbio, 28 settembre 2024 La sentenza dei giudici di Lussemburgo: il segreto professionale non è derogabile, neanche se a richiedere le informazioni sono le autorità fiscali. La riservatezza delle comunicazioni tra avvocato e cliente è un diritto fondamentale che deve essere salvaguardato, anche di fronte alle pressioni legate alle esigenze fiscali. Questo principio è stato chiaramente affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sentenza del 26 settembre, che rappresenta un passo significativo verso il rafforzamento del segreto professionale. La decisione è emersa da un contenzioso tra l’Ordine degli avvocati del Lussemburgo e l’Amministrazione dei contributi diretti, che aveva intimato a un avvocato di fornire documentazione riguardante una consulenza societaria. Lo studio legale ha contestato la richiesta, sostenendo che la documentazione era tutelata dal segreto professionale, in quanto riguardava esclusivamente aspetti legali e non fiscali. La Corte ha esaminato la questione alla luce della Direttiva 2011/16/Ue, che regola la cooperazione tra Stati membri in materia fiscale, valutando la sua compatibilità con l’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il quale garantisce il diritto alla riservatezza delle comunicazioni tra avvocato e cliente. Ha stabilito che, pur essendo necessaria la cooperazione tra le autorità fiscali, questa non può mai giungere a compromettere il segreto professionale, essenziale per una consulenza legale libera e affidabile. Inoltre, la Corte ha evidenziato l’importanza di mantenere la riservatezza non solo nei procedimenti giudiziari, ma anche nelle consulenze legali “stricto sensu”, che includono i settori del diritto societario e fiscale. Le persone che si rivolgono a un avvocato devono poter contare sulla privacy delle loro comunicazioni e avere fiducia che, salvo eccezioni straordinarie, il loro avvocato non rivelerà mai la consulenza a terzi senza il loro consenso. Questo aspetto è cruciale non solo per il benessere individuale del cliente, ma anche per il corretto funzionamento della società giuridica nel suo complesso. La tutela del segreto professionale è quindi fondamentale per garantire il corretto funzionamento del sistema giuridico e democratico, consentendo ai cittadini di consultare liberamente i propri legali senza timori di ritorsioni o interferenze esterne. La sentenza ha anche chiarito che, sebbene la Direttiva Ue non preveda norme specifiche per la protezione delle comunicazioni tra avvocati e clienti, gli Stati membri devono comunque rispettare i principi stabiliti dalla Carta dei diritti fondamentali. La legislazione nazionale lussemburghese, che escludeva praticamente la protezione del segreto professionale in ambito fiscale, è stata considerata eccessiva e in violazione dei diritti fondamentali garantiti dall’articolo 7. Un aspetto cruciale della decisione è stato il riconoscimento che l’accesso alle informazioni da parte delle autorità fiscali, se non opportunamente regolato, potrebbe comportare un’invasione indebita della sfera privata del cliente, soprattutto in relazione a consulenze legali non direttamente collegate a questioni fiscali. In questo caso, l’ingiunzione che imponeva allo studio legale di fornire documenti relativi a una consulenza societaria è stata considerata una violazione sproporzionata e ingiustificabile rispetto al principio del segreto professionale. Questa sentenza rappresenta un precedente significativo nella giurisprudenza europea, riaffermando l’importanza del segreto professionale anche in un contesto di crescente cooperazione internazionale per combattere l’evasione e l’elusione fiscale. La Corte ha trasmesso un messaggio chiaro: sebbene la trasparenza e la cooperazione fiscale siano obiettivi fondamentali per le autorità statali, non possono mai prevalere sui diritti fondamentali dei cittadini, inclusa la riservatezza nelle comunicazioni legali. La protezione del segreto professionale, conclude la sentenza, è un elemento imprescindibile che deve rimanere intatto, indipendentemente dal contesto in cui si trova l’avvocato a operare. Infatti, garantire che le comunicazioni tra avvocato e cliente rimangano riservate è essenziale per sostenere un clima di fiducia, dove i clienti possano sentirsi al sicuro nel condividere informazioni sensibili con i loro legali. Senza questa protezione, il rischio è di minare la fiducia necessaria per una consulenza legale efficace, compromettendo non solo il diritto alla difesa, ma anche la stabilità del sistema giuridico stesso. Roma. Regina Coeli, l’Inferno nel centro di Roma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 settembre 2024 La rivolta di giovedì notte nel carcere della capitale ha messo per l’ennesima volta al centro dell’attenzione le condizioni disumane e il sovraffollamento dell’istituto romano. La rivolta avvenuta giovedì notte nella ottava sezione del carcere di Regina Coeli non è stata un’azione inaspettata. Con 1.170 detenuti a fronte di 626 posti disponibili e un surplus del 184%, il carcere romano è uno dei penitenziari più sovraffollati del Paese. Ma non è solo questo il problema. Parliamo di una struttura antica, incompatibile con la detenzione moderna. Non a caso, anche recentemente, si è tornati a parlare della sua chiusura. Ma per ora, sono solo parole. La Casa Circondariale di Regina Coeli, situata nel cuore di Roma in via della Lungara, è uno degli istituti penitenziari più antichi d’Italia. È composta da diversi padiglioni distribuiti in una struttura complessa che, nonostante le difficoltà, continua a svolgere il suo ruolo di detenzione preventiva e custodia cautelare. Il carcere romano, un inferno nel cuore della capitale - Regina Coeli ospita principalmente detenuti in attesa di giudizio e coloro che devono scontare pene brevi. La struttura del carcere, posta in pieno centro storico, crea numerose problematiche logistiche e funzionali. Data la sua collocazione, ci sono gravi difficoltà nell’ampliamento e nella ristrutturazione delle aree interne. Questo aspetto si combina con una situazione di sovraffollamento e carenza di risorse, rendendo la gestione dell’istituto particolarmente complessa. Nel corso degli anni, Regina Coeli è stata oggetto di numerose critiche per le condizioni di detenzione, soprattutto a causa del sovraffollamento e delle strutture obsolete. La capienza regolamentare dell’istituto è di circa 630 detenuti, ma spesso il numero effettivo di persone recluse supera questa soglia, aggravando le condizioni di vita all’interno. Le celle sono spesso sovraffollate, con spazi insufficienti per i detenuti, che devono condividere ambienti molto ristretti. Questo porta a un aumento delle tensioni tra i detenuti stessi e complica il lavoro del personale di custodia. Le condizioni igieniche sono altrettanto precarie, con bagni mal funzionanti e insufficienti per il numero di persone presenti. Come si può apprendere dalla scheda riportata sul sito dell’associazione Antigone, un altro problema critico di Regina Coeli riguarda l’assistenza sanitaria. La presenza di un centro medico interno non basta a soddisfare le esigenze dei detenuti, che spesso soffrono di patologie croniche o malattie mentali. Il numero di medici e infermieri è insufficiente rispetto alla popolazione carceraria, e le attese per le visite mediche possono essere molto lunghe. Molti detenuti segnalano difficoltà nell’accesso alle cure specialistiche e nella gestione delle emergenze mediche. La scarsità di personale sanitario comporta inoltre un ritardo nella diagnosi e nel trattamento di malattie che potrebbero aggravarsi con il tempo. Nonostante le difficoltà, all’interno di Regina Coeli si svolgono alcune attività di rieducazione e formazione. Sono presenti corsi scolastici e professionali che offrono ai detenuti l’opportunità di acquisire competenze utili per il reinserimento nella società una volta scontata la pena. Tuttavia, il numero di partecipanti è limitato, e non tutti i detenuti riescono a beneficiare di questi programmi a causa della mancanza di risorse e di personale qualificato. Le attività ricreative sono altrettanto scarse, con pochi spazi destinati allo sport o al tempo libero. Questo incide negativamente sul benessere psicologico dei detenuti, che passano la maggior parte del tempo chiusi in cella, spesso senza accesso ad attività che possano alleviare lo stress e le tensioni quotidiane. La notte dell’incendio - “I medici hanno visitato tutte le celle e mi hanno parlato di una sezione devastata, c’era molta acqua, molto fumo”, ha riferito il Garante dei detenuti di Roma Capitale, Valentina Calderone, che nella notte ha fatto un sopralluogo. Secondo la testimonianza della garante, lo scenario che si è presentato era di assoluta emergenza. Calderoni ha descritto una scena di devastazione: “Fuoco, fumo, tetto sfondato e tegole lanciate sulla strada”. La presenza massiccia delle forze dell’ordine, equipaggiate con “scudi, manganelli, caschi”, ha sottolineato la gravità della situazione. Nonostante il suo ruolo, alla Garante è stato negato l’accesso alle sezioni del carcere. “Stasera non mi hanno fatta entrare nelle sezioni di Regina Coeli, nonostante la mia insistenza sono dovuta rimanere fuori dalla prima rotonda”, ha riferito la Calderoni. La Garante ha riportato informazioni frammentarie raccolte sul posto. L’VIII sezione del carcere è stata descritta come “devastata”, con acqua che scorreva “come cascata dai ballatoi” e celle con “blindati rotti”. La situazione era talmente critica che il personale temeva di non poter richiudere le celle una volta aperte per i controlli. Calderone ha anche evidenziato la presenza di “pezzi di ferro, cocci, materiale bruciato sparso per terra”, sottolineando i rischi per la sicurezza di tutti i presenti. Il racconto si conclude con un’immagine potente: la Garante seduta su uno scalino, osservando il via vai di “agenti in antisommossa che uscivano, infermieri in camice verde che entravano”, mentre rimaneva ad “immaginare gli uomini rinchiusi lì dentro”. Roma. Regina Coeli, un carcere polveriera tra sovraffollamento e condizioni allo stremo di Gaetano De Monte Il Domani, 28 settembre 2024 Due giorni fa la protesta dei detenuti nel carcere di via della Lungara ha peggiorato le condizioni strutturali dell’edificio dove nell’ultimo anno si sono tolte la vita tre persone. E, mentre entravano lì dentro agenti provenienti da altre carceri, la Garante dei detenuti non è stata fatta entrare per visitare le sezioni. L’ottava sezione del carcere di Regina Coeli, a Roma, è quella in cui vengono recluse persone molto diverse tra loro ma che sono accomunate tutte dall’essere “persone protette”, nella terminologia carceraria, si tratta di ex appartenenti alle forze dell’ordine che hanno commesso reati, collaboratori di giustizia, persone transgender, infine, sex offender, cioè autori di reati di natura sessuale. “Staticamente, è una parte del penitenziario in cui non avvengono proteste, questo tipo di episodi sono molto rari”, spiega a Domani, Valentina Calderone, Garante dei diritti delle persone private delle libertà del comune di Roma. I fatti a cui Calderone si riferisce sono accaduti due sere fa, quando dal lungotevere erano visibili il fumo e le fiamme, e gli abitanti delle case poco distanti da via della Lungara dove ha sede il “carcere dei tre scalini”, hanno dato l’allarme alla polizia. La protesta dei ristretti è scattata intorno alle ore 22, quando il tetto già pericolante dell’edificio è stato in parte sfondato e alcuni detenuti hanno lanciato alcune tegole in strada. Calderone racconta: “Non mi hanno fatta entrare nelle sezioni di Regina Coeli, nonostante la mia insistenza sono dovuta rimanere fuori dalla prima rotonda. Mi è stato chiesto di andarmene, più di una volta”. Così, la Garante ha potuto soltanto immaginare ciò che stava accadendo all’interno, mentre medici e infermieri entravano e gli agenti della polizia antisommossa uscivano, contemporaneamente, con i caschi abbassati. “Non mi è piaciuto assistere a quelle scene da fuori, seduta su di uno scalino, al margine di qualcosa che non ho potuto vedere, ma percepire solo in minima parte”. Continua Calderone: “Dal punto di vista strutturale la situazione è molto seria, l’odore di fumo si sentiva ancora il giorno dopo la protesta, la luce è tornata soltanto oggi, tanto che i medici in un primo momento hanno dovuto visitare i detenuti con la torcia”. E sulle probabili cause delle proteste, aggiunge: “È sempre complicato trovarne una soltanto, qualunque sia stata l’origine, l’effettiva miccia, l’innesco, di certo dobbiamo considerare che questi fatti sono accaduti in un contesto come quello di Regina Coeli dove la rabbia e la frustrazione delle persone recluse è tantissima. A questo si deve aggiungere il sovraffollamento e la condizione strutturale dell’edificio”, conclude. Alle parole della Garante fanno eco quelle dei sindacati della polizia penitenziaria che da mesi lanciano l’allarme sull’intera gestione del sistema carcerario italiano, denunciando anche le carenze nell’assistenza sanitaria e psichiatrica. E quelle del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, che, a margine della visita di Ferragosto proprio nel penitenziario trasteverino, si era appellato al governo Meloni “perché non è possibile che nella capitale d’Italia ci sia un istituto con quasi il doppio di detenuti rispetto alla capienza e con un terzo in meno di polizia penitenziaria. Servono misure per le pene alternative che evitino l’abuso della detenzione, situazioni dignitose, e percorsi di reinserimento nella società”, aveva ribadito il sindaco. Suicidi record - Secondo i dati del centro studi “Ristretti Orizzonti” di Padova, Regina Coeli è uno dei penitenziari più sovraffollati d’Italia, ma anche quello in cui avvengono più suicidi. Negli ultimi cinque anni si sono tolte la vita quindici persone qui dentro. Una media di tre all’anno, un dato tristemente rispettato anche per il 2024. Soltanto qualche giorno fa, infatti, ha scelto di togliersi la vita la terza persona da gennaio a oggi. Anche lui, come gli altri due reclusi, si trovava nella settima sezione, dove si affollano, allo stesso tempo, detenuti in transito e in ingresso, in condizioni di isolamento sanitario e anche quelli del “disciplinare”. Così, le celle di questa sezione non si aprono mai, quasi come se quei detenuti fossero al 41-bis. Tutto il giorno a non far nulla, reclusi in spazi che l’osservatorio di Antigone ha descritto così: “Le celle sono piccolissime e ospitano due o tre persone su un unico letto a castello. Il wc e il lavandino si trovano in una piccola stanza adiacente senza intimità. In questi spazi così ristretti, le persone trascorrono 23 ore al giorno. Le condizioni igienico sanitarie della sezione sono pessime”. La situazione del carcere di via Lungara è così drammatica che paragoni con quello che accade in altri istituti capitolini non reggono. Basti pensare che qui la maggior parte degli spazi ricreativi sono stati trasformati in celle, a causa del sovraffollamento della struttura. Nella relazione annuale presentata al luglio scorso dalla Garante di Roma, si fa riferimento al fatto che nel 2023, presso gli istituti penitenziari di Roma, è stato registrato un totale di 597 eventi critici, “intesi come atti che mettono a rischio la propria o l’altrui incolumità e, più in generale, la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari”. Si legge ancora: “Di questi, la maggior parte sono stati atti di autolesionismo, in totale 506, seguiti da 74 aggressioni al personale penitenziario o sanitario, da quattro sommosse e rivolte e, purtroppo, da quattro suicidi e una morte per cause ancora da accertare”, mentre sono stati registrati anche otto casi di decessi per cause naturali. È una fotografia della disperazione, su cui di certo incide il forte sovraffollamento delle strutture. Secondo i dati del ministero della Giustizia, infatti, al 30 giugno 2024, risultavano: “A Rebibbia Femminile, 358 presenze per una capienza regolamentare di 272 posti; a Rebibbia Nuovo Complesso, 1556 presenze per una capienza regolamentare di 1170 posti; a Rebibbia Casa, 81 presenze per una capienza regolamentare di 172 posti; a Rebibbia Reclusione, 286 presenze per una capienza regolamentare di 445 posti”. A Regina Coeli, invece, tre mesi fa il carcere conteneva 1129 persone, a fronte di una capienza regolare di 628. Oggi la situazione è addirittura peggiorata, con 1170 detenuti a contendersi un po’ di spazio, di luce e di aria. Pavia. Maltrattamenti sul trapper morto in carcere: sentenza il 18 ottobre di Luca Pattarini milanopavia.news, 28 settembre 2024 Sarà pronunciata il 18 ottobre la sentenza per il caso che vede imputato a Pavia il trapper noto come Traffik: Gianmarco Fagà, questo il suo vero nome, è accusato di maltrattamenti nei confronti di Jordan Tinti, noto nell’ambiente musicale come Jordan Jeffrey Baby, il 26enne trovato senza vita nella sua cella di Torre del Gallo lo scorso 12 marzo. Il giovane era finito in carcere in seguito a una rapina commessa proprio assieme a Fagà, avvenuta in una stazione ferroviaria di Carnate, in provincia di Monza. Pochi giorni prima del presunto suicidio Tinti aveva detto al padre di aver subito violenze fisiche e psicologiche da Fagà, con pugni, schiaffi e minacce. Una versione che era stata confermata da altri detenuti durante il processo. Venerdì pomeriggio in tribunale a Pavia sono stati sentiti gli ultimi testimoni e si è chiusa l’istruttoria dibattimentale. Spetterà ora al giudice stabilire se i maltrattamenti si sono effettivamente verificati o meno. Gianmarco Fagà, nel frattempo, è uscito dal carcere. I giudici della corte d’Appello hanno infatti riqualificato l’accusa da rapina a violenza privata e danneggiamento: la sua condanna è passata quindi da 5 anni e quattro mesi a due anni e sei mesi di reclusione. Sulla morte di Jordan Tinti la procura di Pavia ha invece aperto un fascicolo per omicidio colposo: il giovane era stato trovato senza vita nella sua cella, impiccato all’inferriata della finestra. I familiari del ragazzo, però, hanno sempre sollevato dubbi sull’ipotesi del suicidio. Bologna. Vite sospese e famiglie spesso assenti. La vita dei minorenni in carcere di Michele Maestroni bolognatoday.it, 28 settembre 2024 Evasioni (l’ultima due giorni fa), disordini e sovraffollamento con il 20% di detenuti in più. Siamo entrati nel carcere del Pratello, per capire cosa accade e quali sono i reati (sempre più gravi) commessi da chi finisce nell’Istituto penale minorile. L’intervista al direttore Alfonso Paggiarino. “Il carcere si trova dentro la città, e tutta la città se ne deve prendere cura”. Ne è convinto Alfonso Paggiarino, il direttore dell’Istituto penale minorile “Pietro Siciliani” di Bologna. Anche se la situazione all’interno della struttura carceraria di via del Pratello “è difficile” come non mai, soprattutto dopo un’estate in cui si sono verificate risse tra detenuti, aggressioni agli agenti penitenziari ed evasioni (l’ultima appena due giorni fa.) Paggiarino parte dai problemi dell’Ipm per raccontare com’è vivere dentro il carcere minorile cittadino, quali mancanze i detenuti devono vivere tutti i giorni e quali sono i reati più frequenti che commettono. Ma anche il ruolo fondamentale dell’educazione e della formazione in attesa di tornare in libertà. Paggiarino, anche all’Istituto penale minorile ci sono stati vari disordini ed episodi di evasioni e violenza nelle ultime settimane. Qual è la situazione? Complicata. L’Ipm è un carcere maschile e attualmente i detenuti sono quarantasette su una capienza massima di quaranta. La quasi totalità viene dal Maghreb, dalla Tunisia e dal Marocco, e solo due sono italiani. Ma al di là di questi freddi dati, in dodici anni di direzione dell’Ipm non mi sono mai trovato così in difficoltà. Perché? Il fatto che il comandante della polizia penitenziaria e un altro agente vengono feriti durante il trasferimento di un ragazzo problematico è esemplificativo. L’utenza dell’Ipm è cambiata ed è diventata più complicata da gestire. La maggior parte dei detenuti sono minori stranieri non accompagnati, arrivati in Italia con una storia complicata alle spalle e lontani dalla famiglia. Ragazzini anche di quindici anni che trovano accoglienza nelle comunità sociali o vivono per strada, e che finiscono per delinquere. E durante l’estate il caldo e la sospensione delle attività scolastiche e ricreative non aiutano. Com’è la vita di un detenuto dentro il carcere minorile? Dal 2022, dopo l’apertura di un secondo piano della struttura, minorenni e maggiorenni vivono separati. Dopo la sveglia, la pulizia delle camere e la colazione, la mattina c’è chi la passa seguendo i corsi formativi in ristorazione e orto-floro-vivaistica organizzati dalla Fondazione Opera Madonna del lavoro, e chi invece incontra gli educatori e gli assistenti sociali. Poi il pranzo e il pomeriggio dalle quattro alle sei e mezza al campo sportivo. Ogni giorno i ragazzi possono videochiamare i familiari nell’aula computer con i tablet e i pc della struttura. Menzionava anche altre attività... Nell’Ipm si tiene anche un laboratorio di teatro. E i detenuti hanno anche la possibilità di sostenere gli esami dell’Università di Bologna: un ragazzo è entrato in carcere che aveva la terza media e ora si sta per laureare in Scienze della formazione. Nel 2017 abbiamo aperto anche l’osteria ‘Brigata del Pratello’, dove i cuochi e i camerieri sono sei-otto ragazzi dell’Ipm che collaborano con chef e maître professionisti. Poi teniamo anche incontri su temi sociali, legalità, educazione civica… L’altra faccia dell’Ipm l’ha accennata prima: per tanti detenuti è difficile iniziare un percorso attraverso il carcere, la loro presa in carico è molto tortuosa e spesso questo ‘vuoto’ causa in loro rabbia e violenza. Quali sono i problemi? Le difficoltà principali riguardano i minori non accompagnati: le comunità che li dovrebbero accogliere sono sature. Chi compie un reato può rientrare in famiglia o può essere affidato a una di queste strutture. Nel caso di ragazzi che vengono da soli da lontano, ricollocarli in una comunità è spesso l’unica alternativa alla cella. Ma quelle private accolgono soprattutto chi compie illeciti civili e non reati. I ragazzi più problematici non si integrano e tornano a delinquere, così finiscono per entrare e uscire dal carcere in continuazione. Alle famiglie lontane non possono permettersi di fare sapere di essere finiti dentro. Ma anche i parenti, quando presenti, rinfacciano al figlio di essere finito in carcere. E in caso di detenuti che soffrono di malattie psichiatriche o di dipendenza da sostanze, trovare delle strutture socio-integrate che prendano in carico anche la parte sanitaria è diventato sempre più difficile. In tutto questo l’educatore ha un ruolo fondamentale. Che cosa fa un educatore? Un educatore è un po’ il ‘segretario’ dell’équipe che si deve occupare di chi è in carcere. Fa da raccordo tra il detenuto, il medico, i famigliari, i servizi sociali e la magistratura. Dal contatto con i familiari alla ricostruzione della storia personale, fino al lavoro sui permessi e la preparazione in vista dell’udienza davanti al giudice: l’educatore lavora con il ragazzo dal momento dell’arrivo fino alla dimissione per aiutarlo a capire quello che ha fatto e sviluppare una progettualità. E qual è il rapporto tra l’educatore e il detenuto? È un lavoro che si basa sull’ascolto e l’empatia. Dipende dai casi: c’è il ragazzo che riconosce il tuo ruolo, si affida a te e collabora, altri invece sono più ostili. Cambia anche in base alle fasi di giudizio, perché con una persona già condannata si può pensare a una prospetta a lungo termine, mentre una ancora in attesa di giudizio vive sospesa nell’incertezza. E per un giovane è difficile vivere nell’attesa. Dal punto di vista dei reati, è cambiato ‘tipo’ di autore che arriva all’Ipm? Fino a qualche anno fa i detenuti avevano compiuto soprattutto reati di spaccio. Ora sono molto frequenti le rapine aggravate, le risse con coltello che in un attimo possono diventare tentato omicidio, anche casi di violenza sessuale. Ma anche reati meno gravi per i quali prima non si finiva in carcere. Questo è un problema derivato soprattutto dai decreti dei governi, ultimo il ‘decreto Caivano’ che dispone la custodia cautelare in carcere anche per i casi che prima venivano trattati fuori dall’istituto. All’Ipm i detenuti con pena definitiva sono solo 13, 28 quelli in attesa di processo o appellanti. Ospitiamo ragazzi che hanno commesso un furto con scasso e hanno una custodia cautelare lunghissima. Questo non va bene perché contribuisce anche al sovraffollamento. E non avere una pena certa destabilizza i ragazzi. Paggiarino, dopo dodici anni a capo dell’Ipm l’anno prossimo andrà in pensione. Un bilancio della sua attività? Dopo trent’anni a Treviso, nel 2012 sono arrivato in questa città che mi ha accolto benissimo e per questo la ringrazio. Sono fiero del mio operato e soprattutto della Brigata, che ha richiesto un lavoro lungo anni. Durante la mia direzione ho cercato di far conoscere il carcere non solo per le sue parti negative ma anche per quelle positive, e dimostrare che nelle strutture di detenzione non c’è solo nero ma anche bianco. Io credo che, dato che il carcere si trova dentro la città, tutta la città se ne debba prendere cura. Treviso. Troppi detenuti anche a Santa Bona. “È allarme patologie psichiatriche” di Elena Dal Forno Corriere del Veneto, 28 settembre 2024 Il carcere di Treviso registra un sovraffollamento del 166% con celle che hanno undici brande. Duecento trentotto persone dentro un carcere che ne può ospitare al massimo centosessanta. Undici ammassati in una cella, con letti a castello che toccano il soffitto, strutture fatiscenti che non vengono sistemate dagli anni Novanta, degrado diffuso e ore insufficienti di servizi psicologici. È un’istantanea impietosa quella che viene restituita dalla visita di ieri della casa circondariale di Santa Bona, organizzata dall’associazione Nessuno Tocchi Caino cui hanno preso parte anche le consigliere comunali del Pd Antonella Tocchetto e Carlotta Bazza. Un sovraffollamento del 166% che non è nemmeno il peggiore in Italia (che è quello di Brescia, con oltre il 200%), ma che testimonia che la situazione, tragica, deve essere affrontata. Tocca proprio ad un indignato Arturo Lorenzoni, consigliere regionale del gruppo misto, chiedersi come si possa vivere in questo modo. “Ci si rende conto solo entrando in queste strutture quali siano le reali condizioni tra sovraffollamento e degrado, come si possa vivere in 11 in 15 metri quadri e un bagno non lo so sottolinea -. Privare della libertà le persone non deve tradursi in una perdita di dignità. Qui le patologie psichiatriche continuano anche ad aumentare, il direttore ci ha confermato che la quasi totalità dei detenuti fa uso di psicofarmaci”. Lo scorso anno ci fu anche un suicidio di un detenuto che apparentemente non aveva dato nessun segno di fragilità. “Questo dimostra come sia difficile intercettare il disagio - spiega Samuele Vianello, segretario di Radicali Venezia - Mancano medici, mancano fondi, ormai manca tutto. Il carcere non solo non riabilita, ma fa anche peggiorare le condizioni psicofisiche delle persone. A Treviso possiamo parlare di situazione miracolata, perché in queste condizioni assolutamente critiche è un miracolo che non succedano problemi. E questo per merito di tutti coloro che ci lavorano”. Le difficoltà non toccano infatti solo i detenuti, ma anche gli operatori interni alla struttura, dagli agenti di polizia penitenziaria al personale regolare. Sono tutti sottoposti a turni massacranti e a un degrado costante, frutto sia del sovraffollamento che delle strutture fatiscenti. Su questo punto Sergio D’Elia, il segretario di Nessuno Tocchi Caino è molto netto. “Se lo Stato non vuole occuparsi dei detenuti almeno si prenda cura dei suoi servitori - dice -. Sono costretti ad un lavoro umiliante, massacrante, degradante, in contatto costante col degrado. Qui la privazione è non solo della libertà, ma di tutto, anche per i lavoratori. E sono convinto che migliorando la condizione dei lavoratori, migliorerebbe anche quella dei detenuti”. Soluzioni possibili all’orizzonte? La ricetta di Nessuno Tocchi Caino è innanzitutto un miglioramento della situazione sanitaria poi la ricerca di spazi per le custodie attenuate per le misure alternative, per esempio per i tossicodipendenti. “Il decreto Caivano e il nuovo Ddl sicurezza - conclude Vianello - non rappresentano la soluzione al problema ma un peggioramento della situazione”. Lecce. Lavoro F.U.O.R.I.: insieme per l’inserimento lavorativo dei detenuti regione.puglia.it, 28 settembre 2024 Presentato l’accordo di rete promosso da Arpal Puglia per l’inserimento lavorativo dei detenuti della Casa circondariale di Lecce. “Lavoro F.U.O.R.I.” (Formazione Unita a Orientamento per il Reinserimento e l’Inclusione) è il protocollo d’intesa voluto per potenziare i servizi per l’inserimento e il reinserimento lavorativo delle persone private della libertà personale della Casa circondariale di Lecce. Promosso da ARPAL Puglia, conta l’adesione di Ministero della Giustizia-Dipartimento Amministrazione Penitenziaria della Casa circondariale “Borgo San Nicola”, Città di Lecce, Cpia Lecce, Confindustria Lecce e Federazione nazionale Maestri del Lavoro-Consolato provinciale di Lecce. Dal protocollo nasce un accordo di rete, presentato in conferenza stampa nella mattinata di venerdì 27 settembre, presso la sala conferenze della Regione Puglia, in viale A. Moro, a Lecce. “Credo sia necessario, in alcuni contesti più di altri, - ha detto Sebastiano Leo, assessore a Formazione e Lavoro, Politiche per il lavoro, Diritto allo studio, Scuola, Università, Formazione Professionale della Regione Puglia - credere nel potenziale delle persone, nel capitale umano da valorizzare e nella forza propulsiva che gli strumenti giusti possono generare. Ma, soprattutto, sono convinto che a cambiare la rotta siano le relazioni di fiducia che si generano e che indirizzano e nel lavoro come opportunità di riscatto sociale e allontanamento dallo stato di necessità. Tutto questo è racchiuso in questo protocollo, che mira a potenziare e rafforzare l’occupabilità attraverso un percorso di studi e formativo utile all’inserimento sociale e lavorativo degli utenti coinvolti e al trasferimento di competenze chiave di cittadinanza, e grazie anche all’analisi dei bisogni che Arpal fornisce per favorire la formazione e l’inserimento lavorativo”. Il protocollo, che ha valenza triennale, demanda ad Arpal Puglia l’analisi dei fabbisogni occupazionali del territorio, l’iscrizione degli utenti all’anagrafe dei servizi per il lavoro, la loro presa in carico amministrativa, l’orientamento e il trasferimento di strumenti utili per lo svolgimento di un’efficace ricerca attiva e passiva del lavoro: corretta redazione di un curriculum vitae, gestione di laboratori individuali e di gruppo sulle tecniche di svolgimento dei colloqui di lavoro, supporto e accompagnamento all’inserimento lavorativo. “Tutto questo - ha spiegato Beniamino Di Cagno, presidente del Consiglio di amministrazione Arpal Puglia - è il frutto di un lavoro lungimirante di costruzione di sinergie territoriali che l’Ambito di Lecce, guidato dal dirigente Luigi Mazzei, ha messo in campo da tempo. Sperimentato già a Brindisi, l’accordo punta a riabilitare innanzitutto la ‘persona’, aiutandola, durante la fase finale della detenzione, ad individuare la propria strada e ad acquisire competenze necessarie e trasversali da poter spendere dopo il periodo detentivo, fase delicatissima, durante la quale si potrà ancora contare sul supporto della rete che sta nascendo. L’obiettivo più alto è implementare percorsi di legalità sul territorio”. “Iniziative di questo tipo - ha aggiunto Gianluca Budano, direttore generale Arpal Puglia - vanno replicate su tutto il territorio regionale perché rafforzano l’idea che il lavoro è la primaria forma di rieducazione e reinclusione nel tessuto sociale legale, abbattendo il pregiudizio e lo stigma sui reclusi, vero ‘carcere’ anche quando la permanenza nell’istituto penitenziario termina. È la curvatura sociale di Arpal la più profonda innovazione che stiamo mettendo in campo in progetti come ‘Lavoro F.U.O.R.I.’, per il quale va il ringraziamento al lavoro dei colleghi di Lecce e Brindisi”. Spetterà alla direzione della Casa circondariale Borgo San Nicola individuare gli utenti tra coloro per i quali è previsto un fine pena che va dai sei mesi ai tre anni. Si tratta di una fetta significativa della popolazione del carcere salentino, che conta in media 1.200 detenuti. Solo un terzo di questi attualmente lavora, nella gran parte dei casi (333) alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, impegnato nei servizi di pulizie, vitto e sopravvitto e nella manutenzione ordinaria, mentre in sette sono occupati nella falegnameria interna. In 37, invece, sono assunti da aziende e cooperative che svolgono attività lavorativa all’interno del penitenziario. In 24, infine, risultano lavoranti fuori dal carcere, in stato di semilibertà o impiegati in lavori di pubblica utilità. Tuttavia, per la direttrice Mariateresa Susca, “molto spesso l’esperienza lavorativa rimane circoscritta al periodo detentivo di esecuzione della pena e non si ha riscontro rispetto all’utilizzo delle esperienze maturate e delle competenze acquisite, una volta terminata la pena. Con la sinergia tra i diversi firmatari del protocollo, invece, attraverso la costruzione di competenze professionali e il potenziamento di quelle già esistenti, i detenuti avranno la possibilità di reinserirsi nel tessuto socio-lavorativo esterno al carcere con maggiori garanzie di riuscita, rifuggendo definitivamente da prospettive delinquenziali ed annullando, così, il rischio di recidiva”. All’interno del processo di costruzione delle competenze, un passaggio fondamentale sarà l’analisi del contesto socio-lavorativo territoriale, al fine di calibrare ed orientare la formazione in relazione a ciò che il mercato del lavoro offre. “In tal senso - continua Susca - l’opportunità di inserimento delle persone ristrette nelle liste dei Centri per l’Impiego della Regione Puglia riveste un’importanza fondamentale, sia in termini di accesso alle offerte di lavoro, ma soprattutto come strumento di inclusione sociale”. Sotto il profilo dell’istruzione e formazione, sono al momento oltre 200 i detenuti che seguono i corsi del Centro provinciale per l’istruzione degli adulti (CPIA) di Lecce, che nell’ambito del protocollo si occuperà di rilevare il fabbisogno formativo dei detenuti che verranno presi in carico, di potenziare le loro competenze chiave di cittadinanza e di intervenire per migliorare la loro istruzione e formazione professionale, in maniera coerente rispetto ai fabbisogni di capitale umano del mercato del lavoro locale. “Questo accordo - ha detto Anna Marinella Chezza, dirigente del CPIA - rappresenta una tappa essenziale nella costruzione di una filiera di governance che integra istruzione, formazione e inserimento lavorativo: la stretta collaborazione tra istituzioni pubbliche, aziende e associazioni dimostra come tale governance possa creare opportunità di sviluppo e inclusione sociale, con un impatto positivo sia per il territorio che per la vita delle persone coinvolte”. Il Comune di Lecce, per il tramite, in particolare, dell’Assessorato a Welfare, Casa e Pari opportunità, diritti civili, volontariato, politiche giovanili, politiche attive del lavoro, si impegna a supportare i progetti che scaturiranno dal protocollo e ad accompagnare gli utenti e le loro famiglie in un processo di inclusione sociale fuori dal carcere. “Condividiamo in maniera convinta il contenuto del protocollo - ha rimarcato Adriana Poli Bortone, sindaca della Città di Lecce - perché siamo molto fiduciosi nell’esercizio della funzione rieducativa che si deve affrontare nella struttura carceraria. Ci auguriamo che tutti i soggetti coinvolti possano fare fino in fondo la propria parte, in maniera che gli impegni non restino sulla carta e si realizzi una reale possibilità di reinserimento degli ex detenuti nella vita lavorativa e sociale”. Al fine di garantire la massima occupabilità, altro partner strategico è Confindustria Lecce, impegnata a promuovere tra le aziende associate “l’opportunità di inserire persone comunque formate, che hanno voglia di rimettersi in gioco con l’obiettivo di ricostruire il proprio percorso umano e professionale - è il commento del presidente Valentino Nicolì -. Per questo Confindustria Lecce si sta attivando sul territorio su più fronti e con diversi enti ed istituzioni per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro anche per soggetti ai margini della società. Continueremo a lavorare in sinergia con gli altri partner per garantire che questo protocollo possa portare risultati concreti”. Infine, vi è l’articolazione provinciale della Federazione nazionale dei Maestri del Lavoro. “Nostro compito - ha chiosato il console leccese, Anna Maria Bonci - è integrare il programma didattico attraverso nozioni riguardanti il mercato del lavoro locale, le tipologie contrattuali del rapporto di lavoro, diritti e doveri, sicurezza sui luoghi di lavoro e agevoleremo l’acquisizione di capacità professionali a completamento del percorso formativo” Macerata. I detenuti sul palco: “Così li rendiamo liberi. Il carcere non diventi discarica sociale” di Lorenzo Fava Il Resto del Carlino, 28 settembre 2024 Il progetto teatrale che coinvolge i penitenziari delle Marche “Momento difficile: novecento reclusi in regione, e poco personale”. “Lo scopo del teatro in carcere è quello di far conoscere alla gente le attività meritorie che i detenuti svolgono. Renderli partecipi di queste iniziative è un modo di farli liberi”. Alla tavola rotonda di ieri alla Mozzi Borgetti si è affrontato il delicato tema delle attività culturali che i detenuti svolgono nelle carceri. Marco Bonfiglioli, provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Emilia Romagna e Marche, Giancarlo Giulianelli, garante regionale dei diritti, Francesca D’Alessandro, assessore alle politiche sociali del Comune e Vito Minoia, responsabile del progetto teatrale, sono intervenuti sul tema di “Teatro e diritti”, portando testimonianze e pareri in merito ad un argomento delicato. Minoia descrive il progetto alla seconda edizione, “che tocca quest’anno la città di Macerata. All’interno degli istituti penitenziari si realizzano spettacoli teatrali. Il tema delle carceri dai media viene trattato poco, e sempre in termini di giustizia, mentre qui si fa un discorso di prospettive, di finalità inclusiva. Gli spettacoli mettono i carcerati a contatto anche con scolari e studenti universitari, come avvenuto per questa edizione del progetto a Barcaglione e Fossombrone”. L’avvocato Giulianelli ha raccontato le iniziative culturali nelle carceri come “L’ora d’aria”, che tramite la poesia ha fatto dialogare detenuti e studenti, arrivando a parlare di quello che è lo scopo della cultura in carcere. “Vorremmo portare queste attività fuori, l’opinione pubblica non deve concepire le carceri come discariche sociali. Le iniziative come questa hanno il pregio, sancito da diversi articoli della Costituzione, di rieducare e far conoscere alla società quelle attività meritevoli che avvengono nei penitenziari”. Bonfiglioli racconta “il momento difficile che l’istituzione penitenziaria vive. Nelle Marche ci sono 900 detenuti, e un personale esiguo, ma dobbiamo affrontare le situazioni forti del nostro mandato istituzionale”. D’Alessandro ha poi messo l’accento, con parole decise e al contempo delicate, sugli obiettivi condivisi dall’amministrazione: “Vogliamo fare di Macerata una città inclusiva. Viviamo in una società ipocrita: inclusione è una parola largamente spendibile, ma si fatica a guardare in faccia la fragilità. I valori intrinseci di una persona non vanno persi, anche se si fanno degli errori. Il teatro è uno strumento importantissimo. Insegna a misurarsi con l’altro. Va promosso un umanesimo che non perda mai di vista la persona”. Milano. La mostra che rende visibili gli invisibili di Daniele Erler Il Domani, 28 settembre 2024 Nella città del lusso, della moda e del design ci sono 1.500 persone che non hanno un tetto e che si dividono fra la strada e i centri di accoglienza. Ora le loro foto saranno esposte in una mostra, che sfida l’ipocrisia di chi finge di non vedere. Da qualche giorno si è chiusa a Milano la settimana della moda, con i riflettori di tutto il mondo accesi sulle passerelle, mentre nelle strade del centro le persone sfoggiavano i loro vestiti alla moda. Le foto di quei giorni, pubblicate un po’ ovunque, sono in netto contrasto con le foto che saranno invece esposte a una mostra che sarà inaugurata sempre a Milano, alla Fabbrica del Vapore, sabato 28 settembre. Si chiama semplicemente “Milano senza dimora”, l’ha promossa l’organizzazione indipendente Codici, in collaborazione con la direzione welfare e salute del comune di Milano e la Rete grave marginalità adulta del terzo settore e volontariato cittadino. In questo caso i protagonisti saranno infatti, per una volta, gli “invisibili”, le tante persone senza dimora che popolano la città, con tutte le sue contraddizioni. In un certo senso, è come se questo contrasto fosse la vera anima di Milano, da un lato la capitale della moda, la città veloce dove tutto è possibile, piena di cultura e di ingegno. Dall’altro lato appunto le persone più povere, che molti fingono di non vedere, ma che esistono, a rendere evidenti le disuguaglianze del nostro tempo. I dati - In realtà il comune di Milano sta già cercando di raccogliere più informazioni sui senza dimora, quanto meno per averne un censimento, che serve poi anche a chi si occupa di volontariato. Qualche mese fa ha promosso la quarta edizione di racContaMi, che è in sostanza una grande rilevazione di quanti siano gli invisibili (lo aveva già fatto nel 2008, 2013 e 2018), realizzata dalla Fondazione Debenedetti, in collaborazione con l’Università Bocconi e con la Rete grave marginalità adulta del terzo settore e volontariato cittadino. Ha coinvolto nove enti cittadini, 31 centri di accoglienza per persone senza dimora e circa 1.500 cittadini volontari, che hanno realizzato una sorta di grande indagine su tutto il territorio, a partire dal conteggio fatto direttamente in strada. I risultati sono questi: a Milano lo scorso febbraio c’erano 791 persone in strada, 1.089 nei centri di accoglienza e 463 nell’accoglienza residenziale diffusa, per un totale di 1552 persone senza una casa. In percentuale sono lo 0,17 per cento della popolazione, ma sono comunque una quota importante. Anche perché - ad accentuare ancora di più il contrasto - c’è il fatto che il 31 per cento delle persone contate si trova in centro, nel municipio 1, il cuore della città, dove c’è il Duomo e dove ci sono le vie dello shopping. Il 38 per cento è in questa condizione perché è senza lavoro (o lo ha perso). Il 16 per cento a causa di uno sfratto o di una migrazione. L’11 per cento per la fine di una relazione. Il 2 per cento dopo essere uscito di prigione. Già questi dati, per quanto figli della fredda statistica, fanno capire che le vicende dei senza dimora seguono trame diverse. L’intento della mostra, con le foto scattate da Luca Meola, è ora di dare un volto a questi invisibili, anche al di là dei numeri. Ma non solo. Si cerca di far emergere un’altra Milano parallela, quella fatta dai servizi di accoglienza, dai dormitori, dalle mense e dal volontariato, senza però censurare la solitudine degli invisibili e le disuguaglianze che li hanno resi tali. Per farlo, il fotografo ha collaborato attivamente con 15 persone senza dimora che hanno condiviso la loro esperienza. “Ho camminato per ore al loro fianco per realizzare questi scatti”, spiega Meola. “Ho raccolto immagini e storie per documentare la loro quotidianità, spesso fatta di attività e spostamenti ripetitivi, con uno sguardo di profonda vicinanza e condivisione. In un secondo momento, sono tornato da solo nei luoghi visitati per catturare l’ambiente urbano con un approccio più distaccato e analitico, mettendo in luce le contraddizioni di una città che da un lato offre risorse e servizi fondamentali, ma dall’altro alimenta dinamiche di esclusione”. La mostra sarà inaugurata sabato 28 settembre, alla Fabbrica del Vapore in via Procaccini 4. Sarà poi visitabile fino al 6 ottobre. Un lavoro di questo tipo sarebbe possibile probabilmente in ogni città, visto che le difficoltà di chi è posto al margine sono le stesse in ogni realtà urbana. Ci sono inoltre poi capitali europee in cui i problemi sono anche maggiori, o dove manca qualsiasi rete di sostegno. A Milano però assume comunque un significato particolare, proprio per questa sua caratteristica di città arrembante, che non è soltanto un’immagine stereotipata. Milano così veloce, da lasciarsi indietro qualcuno. “Questa iniziativa è un’opportunità per confrontarci con la città”, ammette Lamberto Bertolé, assessore al welfare di Milano. “Non vanno sottovalutate le contraddizioni e le difficoltà che caratterizzano Milano, come tutti i grandi centri urbani. L’impegno è quello di lavorare su risposte strutturali per sostenere le persone più vulnerabili in un percorso di riscatto sociale”. Il punto è forse capire - anche grazie alla mostra - quanto i cittadini si sentano partecipi di questo discorso. Ovvero, se gli invisibili sono nascosti solo per una nostra forma di distrazione o perché ci conviene fingere che non esistano. Vederli finalmente ritratti nelle fotografie è forse il modo migliore per capirlo. Nessuno si salva da solo, il filo dei migranti che unisce questa generazione di Marco Damilano* Il Domani, 28 settembre 2024 Oggi nelle società occidentali i fondamenti della democrazia sono messi a rischio, di fronte a nuovi autoritarismi, a poteri che fanno a meno della partecipazione, al ritorno dei nazionalismi e ai fondamentalismi che nella versione immanente sono culto delle leadership, della Nazione assolutizzata come una divinità, di un popolo predicato come unico, che esclude chi non ne fa parte. Nella solitudine crescono le paure, le ansie. Quelle individuali che prendono la forma delle sofferenze e dei disturbi mentali tra le ragazze e i ragazzi; quelle collettive che diventano indifferenza, apatia o richiesta di un potere verticalizzato, guardiano di esistenze recintate, blindate nei loro confini, in un orizzonte privo di apertura. La fiducia non è un atto solitario. La fiducia è inclusiva, è riparazione, ricostruzione, rigenerazione, risurrezione. La fiducia è il primato della relazione con l’altro. “È una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia”, diceva Aldo Moro nel 1968. […] La nuova umanità non è un’ideologia, non è un’utopia, è sempre un travaglio, un “già e non ancora” che è il cammino dell’uomo, la risposta a una chiamata, a una promessa, nelle viscere della storia. È, prima di tutto, un incontro, il volto di una persona che ti attraversa la strada. Per don Mattia è il volto di Samy, che sta morendo dopo le torture delle milizie libiche, ha il corpo massacrato e chiede una benedizione con una video-chiamata a un prete sconosciuto, lontano. “Oltre alla benedizione, mi sono sentito di dirgli solo una parola: “Scusa”. Sì, perché io sono cittadino italiano ed europeo, sono cittadino di quell’Italia e di quell’Unione europea che finanziando la cosiddetta Guardia costiera libica hanno causato la sofferenza immane inferta a Samy”, scrive don Mattia. In una seconda videochiamata dalla Libia i volti si moltiplicano, diventano “una selva umana, una folla immensa di persone migranti riunite a Tripoli, davanti al Community Day Center di UNHCR Libya. Era l’inizio dell’esperienza di Refugees in Libya, il primo movimento sociale dei migranti in Libia. Ci chiedevano aiuto nella loro lotta”. La solitudine diventa moltitudine. Non una massa indistinta, ma un popolo in cui ognuno arriva con la sua vicenda, le fragilità, le debolezze, la possibilità di riscatto e di lotta. “Le ferite dell’umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra carne”, dice papa Francesco. E prosegue: “Qualcosa di molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante. Questa emozione fatta azione comunitaria non si comprende unicamente con la ragione: ha un “più” di senso che solo la gente capisce e che dà la propria particolare mistica ai veri movimenti popolari”. C’è un verbo greco che don Mattia Ferrari ama citare, quello che racchiude tutto il senso del suo servizio cristiano e umano: splagchnìzomai. Indica le viscere della madre che si stringono, si contorcono di fronte al proprio bambino, l’amore viscerale. Nella Scrittura si usa riferito al Padre e a Gesù; solo una volta a una persona - nel Vangelo di Luca -, riferito al buon samaritano. Una parabola ascoltata mille volte, neutralizzata nella devozione, logorata nel suo significato che, invece, è rivoluzionario. Il samaritano soccorre il ferito, mentre gli altri passano indifferenti, e i più indifferenti sono i religiosi. Lo fa perché sente nelle viscere qualcosa che lo invade, un fuoco che lo consuma, come l’amore e il desiderio di reagire all’ingiustizia. Lo fa senza educazione religiosa, senza conoscere Gesù, al pari dei giusti del capitolo 25 del Vangelo di Matteo: “Ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito…”. Nessuno di loro l’ha fatto perché ha riconosciuto Gesù, ma perché spinti dall’umanità, dalle viscere che si avvolgono e non ti lasciano in pace. Ho conosciuto donne e uomini che non sono rimasti indifferenti. Alcuni di loro sono amici di don Mattia, come don Matteo Zuppi, don Paolo Lojudice, don Luigi Ciotti. Altri sono venuti prima, come don Luigi Di Liegro, il direttore della Caritas di Roma, che aprì una casa per i malati di AIDS quando erano gli appestati che non voleva nessuno, e che per primo studiò l’immigrazione già quarant’anni fa, soccorrendo insieme al suo amico Dino Frisullo i dannati della Terra rifugiati a migliaia in un ex pastificio alla periferia di Roma. Aggiungo Michela Murgia, scomparsa troppo presto, che nei suoi scritti postumi rivendica il suo modo di essere cristiana, sensibile a ogni ingiustizia, violenza sulle donne, nelle discriminazioni e nei tentativi di limitare i diritti delle persone Lgbtqia+. C’è un filo che intreccia storie e generazioni, perché laicamente la nostra Costituzione parla nel suo articolo più bello e programmatico, l’art. 3, di ostacoli da rimuovere, e ogni generazione avrà il suo contro cui lottare; e perché cristianamente il popolo è sempre in esodo verso la liberazione. Dalla schiavitù, dall’oppressione, ma anche dagli idoli, dai vitelli d’oro che separano le persone stordendole in un miraggio di salvezza individuale. Non ci si salva da soli, non si fa comunità e chiesa da soli. Ritrovo in queste pagine l’insegnamento migliore di papa Francesco sulla fraternità, che condizionerà i prossimi decenni della chiesa. Non c’è chiesa senza storia: è l’incarnazione di Gesù tra le donne e gli uomini il tratto distintivo dei cristiani, assieme all’attesa della risurrezione, ovvero la certezza che non tutto si gioca qui, non tutto finisce con la vittoria dei più forti e dei più grandi, che la pietra del sepolcro deve rotolare ogni giorno via dal nostro cuore. Nella storia, tra mille contraddizioni e tradimenti del vangelo, la chiesa si è lasciata convertire dai poveri, dagli esclusi, dai samaritani emarginati e disprezzati, stava con i borghesi ed è stata salvata dai proletari e dagli operai. “Essere liberi, avere in mano sacramenti, Camera (dei deputati), Senato, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi e di uomini raccogliere il bel fatto di essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Avere la chiesa vuota, vedersela vuotare ogni giorno di più, saper che presto sarà finita con la fede dei poveri”, scriveva don Lorenzo Milani in Esperienze pastorali settant’anni fa. Era l’Italia dei giorni dell’onnipotenza del mondo cattolico, pre-conciliare; il cattolicesimo sembrava trionfante e invece aveva perso la freschezza, la gioventù del mondo. Oggi le chiese sono vuote, è finita la fede dei ricchi che deridono il vangelo e non hanno più bisogno di un’appartenenza sociologica alla chiesa. Se considero questo libro di don Mattia Ferrari come le sue “esperienze pastorali”, le esperienze pastorali del XXI secolo deduco che il messaggio di Gesù è altrove, è nel mar Mediterraneo, culla delle tre grandi religioni monoteistiche, oggi è l’hotspot in cui sono evidenti gli effetti del cambiamento climatico; quello che vorrebbero trasformare in una fortezza, presidiata da milizie collegate con i governi. È a bordo di una piccola barca, com’è quella di Mediterranea Saving Humans, odiata dalle mafie libiche, ostacolata dalle autorità italiane, impegnata a “passare all’altra riva”, come indica di fare Gesù nel Vangelo di Marco, nonostante le onde, la tempesta, la paura di affondare, e nella condivisione di tutto questo. È nelle periferie geografiche ed esistenziali; e nel rapporto con i movimenti popolari; è nello Spin Time, in un palazzo del quartiere Esquilino in un angolo di Roma, dove vive una comunità di diversi e di uguali, è nel sorriso contagioso di sorella Adriana Domenici, che vive quotidianamente la fede ogni giorno nell’accoglienza; è sulla spiaggia di Cutro, dove all’alba di una domenica d’inverno del 2023, una nave naufragò, morirono oltre cento, tra cui tantissimi bambini, morti di indifferenza, di mancanza di soccorso, di patti scellerati sulla loro pelle. Serviranno forme inedite, creative, di presenza nella società, di partecipazione democratica, di evangelizzazione: accompagnare, non paternalizzare - come indica papa Francesco -, offrire amicizia, mai imporre dottrine o controllo. È una ricerca appena all’inizio; dovrebbe essere uno dei temi del Giubileo, che segna una tappa di questo viaggio che attraversa il primo quarto di secolo del nuovo millennio. È nella speranza che si muove oggi la nuova umanità: il vangelo, la persona di Gesù, di cui don Mattia Ferrari è innamorato, con lo spirito del profeta Isaia: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?”. *Marco Damilano ha scritto la postfazione a “Salvato dai migranti - Racconto di uno stile di vita” di don Mattia Ferrari. Il libro sarà presentato al Festival Francescano domenica 29 settembre alle ore 17 in Piazza Maggiore a Bologna. Dialogheranno con l’autore Carlo Albarello e Simone Arminio La “buona educazione” degli studenti e dei detenuti di Massimo Lensi Il Domani, 28 settembre 2024 La Camera ha approvato in via definitiva il ddl Valditara sul voto in condotta. Il provvedimento prevede diverse novità per la scuola: dalla bocciatura con il cinque in condotta al ritorno della valutazione numerica sul comportamento alle medie fino alle multe per aggressioni al personale scolastico. “Con la riforma del voto in condotta”, ha commentato il ministro Valditara, “si ripristina l’importanza della responsabilità individuale, si dà centralità al rispetto verso le persone e verso i beni pubblici e si ridà autorevolezza ai docenti”. Caro ministro Valditara, semmai è l’opposto: il 5 in condotta ripristina l’infantilizzazione, la privazione cioè della responsabilità, non l’opposto. L’autorevolezza dei docenti scade al livello di osservanza etica discrezionale. La disciplina, insegnata agli studenti con questa sottile tattica della sanzione, altro non è che la diretta conseguenza dell’introduzione di valori reazionari, che inseguono i principi della società punitiva nel mondo scolastico. Il cinque in condotta è l’altra faccia del 415 bis del codice penale novellato dal ddl Sicurezza (primavera di bellezza), il nuovo reato di resistenza passiva in carcere. In questo caso è la buona condotta del detenuto a giocare la partita decisiva. Rifiutarsi di eseguire un ordine - un qualsiasi ordine, attenzione - è passibile di punizione. Nel caso scolastico si ripete l’anno con il marchio della diminuzione virtuale di condotta (parola che deriva dal verbo “condurre”: la propria vita). Nel caso detentivo, la pena è una nuova carcerazione punitiva non di un reato vero e proprio, ma della mancata esecuzione di un ordine impartito dall’autorità. Punire, dunque, in nome dell’ideale decoro rappresentato dall’autorità morale. Roba che ricorda il corpo delle guardie della rivoluzione islamica, la pulizia (non polizia, pulizia) etica dei Pasdaran. “Se quindi la politica è il decoro, e il decoro è il bello, il decoro altro non è che estetizzazione della politica” (Wolf Bukowski, La buona educazione degli oppressi, 2019, p. 156). Ordine e Disciplina. Ong e migranti, il governo prepara la nuova stretta di Marina Della Croce Il Manifesto, 28 settembre 2024 Il governo si prepara a varare l’ennesimo giro di vite contro ong e migranti. Lo strumento scelto per ostacolare l’attività delle navi che soccorrono i barconi nel Mediterraneo questa volta è il nuovo decreto flussi al cui interno sono previste misure per velocizzare, in vista dell’apertura dei centri in Albania, le identificazioni dei richiedenti asilo. Ma anche maggiori controlli per evitare che finti datori di lavoro organizzino truffe dietro la promessa di assumere lavoratori stranieri. Dato praticamente per fatto, il provvedimento doveva essere licenziato dal consiglio dei ministri di ieri ma alla fine è stato deciso di far slittare tutto a mercoledì prossimo quando l’esecutivo tornerà a riunirsi. Una scelta che per le opposizioni sarebbe frutto di uno scontro tra i vari ministri. Ipotesi smentita però dal sottosegretario alla presidenza del consiglio Alfredo Mantovano: “Non c’è nessun contrasto tra le forze politiche”, ha spiegato. “C’è la necessità di un approfondimento su alcuni aspetti che richiedono la collaborazione e il coordinamento fra più strutture”. Un’esigenza che riguarda in particolare la necessità di consentire l’ingresso di un numero maggiore di badanti e quei lavoratori stranieri a cui scade il contratto di lavoro. Ma approfondimenti sarebbero in corso anche per la parte che riguarda le navi delle ong e i migranti. La bozza di decreto circolata ieri prevede infatti che le attività di ricerca e soccorso da parte delle navi non creino situazioni di pericolo non più “a bordo”, come previsto fino a oggi dal decreto Cutro, bensì, in maniera più generica, “per l’incolumità dei migranti”. Definizione estremamente vaga che lascia spazio a più di una interpretazione. Passano inoltre da 60 a 10 i giorni durate i quali è possibile fare opposizione al fermo della nave. Un capitolo a parte riguarda infine gli aerei delle ong che pattugliano le acque per intercettare le imbarcazioni in difficoltà. Le nuove norme prevedono l’obbligo per i piloti di avvisare “immediatamente e con priorità” gli enti competenti per l’area attenendosi alle loro indicazioni. Multa fino a 10 mila euro e fermo dell’aereo di 20 giorni per chi viola le disposizioni. Sottolineatura a dir poco strana, visto che comunicare con i centri di coordinamento dei soccorsi dei paesi costieri è una pratica svolta regolarmente dalle ong. Il provvedimento non scende nei dettagli ma una delle ipotesi è che si punti a limitare le operazioni di soccorso alle sole guardie costiere degli Stati mettendo fuori gioco le navi umanitarie. Ipotesi che sarebbe comunque in contrasto con quanto previsto dalle convenzioni internazionali. C’è poi una serie di misure per velocizzare l’identificazione dei migranti in modo da snellire le procedure accelerate di frontiera facilitando allo steso tempo anche il trasferimento nei centri in Albania e l’eventuale rimpatrio. La bozza introduce l’obbligo per il richiedente asilo di cooperare con le autorità italiane per l’accertamento della sua identità “e di esibire o produrre gli elementi in possesso anche se detenuti sui dispositivi elettronici mobili, relativi all’età, all’identità, alla cittadinanza, nonché al paese o ai paesi in cui ha soggiornato in precedenza”. Se il migrante non coopera, “il questore può richiedere all’autorità giudiziaria l’autorizzazione all’accesso ai dispositivi elettronici mobili”. Su questo punto i tecnici del ministero della Giustizia avrebbero sollevato la necessità di tutelare la riservatezza del richiedente asilo. Con una modifica a un precedente decreto del 2008, le procedure per l’identificazione potranno avvenire non più solo “durante la sua permanenza in Italia” bensì “durante la procedura di esame della domanda di protezione” che quindi può avvenire anche in Albania. Per quanto riguarda invece più specificatamente l’ingresso di lavoratori stranieri, il provvedimento prevede quote di ingresso sulla base dei fabbisogni di manodopera, cosa che prevederà più click day nel corso dell’anno per tipologie di settori. Per evitare il ripetersi di irregolarità come avvenuto in passato, sono previsti più controlli nelle aziende che impiegano lavoratori stranieri e la segnalazione degli imprenditori che non formalizzano i contratti di lavoro. Ma negli uffici tecnici si sta lavorando anche su altri due punti che riguardano badanti e lavoratori stranieri con contratto scaduto. Per quanto riguarda le prime, nei giorni scorsi le associazioni di categoria avevano segnalato al governo la necessità di tener conto delle necessità delle famiglie. Per questo si starebbe pensando a una “corsia dedicata” in modo da andare oltre le quote previste per consentire l’ingresso di un numero maggiore di colf e badanti. C’è, infine, il problema segnalato dalla ministra del Lavoro marina Calderone e che riguarda tutti quei lavoratori stranieri giunti alla fine del contratto di lavoro. Per evitare che precipitino nella clandestinità, come avviene oggi, si sta pensando a una sorta di permesso temporaneo che dia loro il tempo di cercare un nuovo impiego. Migranti. Il “caos normativo” per tagliare i diritti e i servizi di Angelo Mastrandrea Il Manifesto, 28 settembre 2024 La denuncia di Action Aid e Openpolis. Da quando si è insediato, alla fine del 2022, il governo Meloni ha prodotto sei modifiche delle norme sull’immigrazione, inserite ogni volta in decreti diversi, per tagliare poco alla volta i servizi e ridurre i diritti dei migranti. Lo sostiene uno studio della ong Action Aid e Openpolis, che denuncia come “l’iperproduzione normativa” ha prodotto caos amministrativo, bandi per l’accoglienza deserti e il raddoppio degli affidamenti diretti poco trasparenti alle imprese che gestiscono i Centri di accoglienza straordinaria (Cas). Secondo il rapporto, il governo farebbe anche molte resistenze a fornire i dati, “nonostante il diritto ad accedervi sia stato ribadito nelle aule di tribunale”. Per “comprendere il nuovo approccio all’accoglienza”, le due organizzazioni hanno analizzato le cifre fornite dal ministero dell’Interno e la banca dati dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), dove si trovano 3.195 bandi per la gestione dei centri. In sintesi, il rapporto dice che gli affidamenti diretti sono passati dal 35% del 2020 al 66% del 2023, per contratti da 83,1 milioni di euro nei soli primi 8 mesi del 2023. Nel 2020 si fermavano a 16,3. Nei primi mesi del 2023 ci sono stati 50 bandi per centri destinati ai minori stranieri non accompagnati, nonostante non ci sia stata nessuna emergenza sbarchi. Per usare un metro di paragone, nel 2020 ce n’erano stati solo tre. Secondo le ong, “i decreti del governo Meloni in materia di immigrazione e lo stato d’emergenza hanno trasformato in legge le consuetudini illegittime che ledono i diritti delle persone e dei minori, facendo di prassi eccezionali nuove norme”. Un’altra modifica riguarda chi chiede asilo: se non c’è posto nei centri, si aprono “strutture temporanee” in cui non è prevista nessuna competenza dei gestori e di cui non si conosce nulla. Su 1.500 posti attivati in questo modo in tutta Italia, nella banca dati dell’Anac risulta un solo bando. “Sono centri collocati sempre più ai margini, non solo delle città e dei luoghi abitati, ma anche del diritto” dice Chiara Marchetti dell’associazione Ciac di Parma, dove ci sono due strutture del genere, a Martorano e a Cornocchio. In questi centri finiscono famiglie, persone vulnerabili e minori non accompagnati, spesso costretti a convivere in promiscuità con adulti. Se anche il ricorso a queste strutture non è sufficiente, si possono raddoppiare i posti nei Cas già attivi. Secondo il dossier, la prassi di portare i minori nei centri per adulti “facilita il compito degli uffici territoriali del governo, ma certo non è nel supremo interesse del fanciullo”. Inoltre, “agevolare la concentrazione di persone in centri sempre più affollati aiuta le prefetture a trovare posti, ma derogare ai parametri di capienza può mettere concretamente a rischio qualsiasi tutela igienico-sanitaria e di sicurezza di chi vi è accolto”. Viene portato a esempio un atto della prefettura di Verbano Cusio Ossola che riporta una perizia tecnica per l’aumento a 100 posti di un centro nato per la metà degli ospiti. L’atto è stato emanato a maggio del 2023, ma il decreto che consente l’operazione è dell’ottobre successivo. “Prevedendo questa possibilità per legge, viene meno la possibilità di opporsi a quella che non sarà più considerata come un’eccezione alla regola”, dice Fabrizio Coresi di ActionAid. Nei primi 8 mesi del 2023 sono stati ripetuti 35 bandi che erano andati deserti, più di tutto il 2020. Due terzi di questi sono stati concessi con un’assegnazione diretta, per ché alla gara non si è presentato nessuno. Infine, è sempre più penalizzata l’accoglienza diffusa: l’importo messo a bando per i centri piccoli nel 2022 è sceso dal 52% del 2020 al 32%, mentre è salito dal 15% al 23% quello per le grandi strutture. Oltre la metà dei bandi anche in questo caso sono andati deserti. Mauro Palma: “Cittadinanza necessaria. Il Decreto anti-dissenso vergognoso, va fermato” di Marika Ikonomu Il Domani, 28 settembre 2024 Oggi si chiude la raccolta firme per il referendum, oltre 600mila quelle raccolte. L’ex garante: “Lo ius scholae è non adeguato al sentire sociale”. Si può essere cittadini e cittadine se radicati in un territorio, dove si decide di costruire la propria vita, frequentare la scuola, formare una famiglia. Questa è la cittadinanza in senso positivo e non difensivo che auspica Mauro Palma, ex garante delle persone private della libertà personale, ex presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e tra i promotori della campagna referendaria sulla cittadinanza. In pochi giorni l’iniziativa, che chiede di dimezzare - da 10 a 5 anni - il periodo di residenza necessario per chiedere la cittadinanza, ha raggiunto e superato le 500mila firme necessarie. Il termine per la raccolta firme, che avrebbe dovuto chiudere il 30 settembre, è stato anticipato alle 15 di oggi dal ministero della Giustizia per elaborare le firme digitali. Una grande partecipazione che per Palma è “un bisogno di reimpossessarsi della vita intesa come la intende il nostro impianto costituzionale”, che la difende nella sua dignità. Perché ha deciso di sostenere questo referendum? Bisogna fare uscire questo tema da una logica di convenienza politica. Perché dietro ci sono le molte persone che attendono, che riconosciamo nella nostra vita, che vivono la normalità molto meglio di come la rappresenta il mondo politico. Il problema di accesso completo ai diritti non è tema di schieramento politico, ma di democrazia e civiltà di un paese. Dal punto di vista politico, ho letto il passo avanti sullo ius scholae di Forza Italia, ma è inadeguato rispetto al sentire sociale. Non vorrei che si arrivasse al punto in cui la dispersione e la carenza scolastica si possano ripercuotere sulla possibilità di essere pienamente cittadino. Invece il referendum in un certo senso diminuendo quei cinque anni restituisce aria e attenzione al tema. Cosa comunica la grande adesione? Il prevalere del bisogno di riaffermare la vita rispetto a un accordo pianificato strategico tra forze politiche. Secondo me c’è un bisogno di reimpossessarsi della vita intesa come la intende il nostro impianto costituzionale, che non difende soltanto la vita in sé in senso astratto, come tutte le convenzioni internazionali, ma la difende nella sua dignità, nel suo essere totalmente appartenente a una determinata collettività. Qual è il paradigma su cui si fonda la legge sulla cittadinanza, che dopo 32 anni non si è ancora riusciti a modificare? Si ispira, secondo me, a un vecchio concetto del termine cittadinanza. Da un lato è un sostantivo che indica una pienezza di diritti, ma può essere anche interpretato in maniera negativa, cioè diritti per chi è in e non diritti per è out. Ad esempio, le mura di una città in passato definivano una cittadinanza difensiva rispetto ai possibili aggressori. Noi dovremmo intendere la cittadinanza non con la lente dell’esclusione - definendo chi non è cittadino - ma dell’inclusione, considerando che chi è in un territorio deve avere tutti i diritti che le carte hanno stabilito. Ricordo una vecchia distinzione di Stefano Rodotà che parlava non più dei diritti del citizen ma del denizen, cioè di quello che si trova ed è radicato in un territorio. Aver costruito la propria famiglia, la propria vita, la scuola rende cittadino in senso ampio. Quando i ragazzi (di nuova generazione con background migratorio, ndr) dicono “io qui mi sento” va letto come “anche se non me c’è scritto sulla carta d’identità, mi sento titolare di tutto ciò che questa collettività ha costruito”. Questa titolarità però nei fatti non è riconosciuta... La titolarità è un sentimento che ha un doppio aspetto: l’aspetto di come io mi sento e l’aspetto di come la collettività mi classifica. Ed è questo l’elemento da superare. Ci sono poi due valori importanti che vanno anche al di là di questo referendum. La diversità come un valore da vivere e quindi un valore che fa crescere: se mi misuro solo con le persone uguali a me non cresco. Il secondo è l’inclusione, una parola un po’ dimenticata. Oggi sembra sempre ritornare la parola “esclusione”, ma più si include più si costruisce una società sicura, dal punto di vista dei diritti. Come descriverebbe le politiche migratorie in Italia, dove persone che vi sono nate o cresciute vengono considerate straniere e migranti? Le politiche migratorie di questo paese sono respingenti e difensive. Tendono a difendersi attraverso il respingimento e non attraverso l’inclusione. Questa idea del difendersi da ciò che è diverso e non si conosce è un qualcosa di antico, ma la contaminazione si è dimostrata ogni volta un elemento di crescita, di nuova conoscenza. Sui giornali si scrive spesso l’origine di una persona che commette un reato. L’idea di ricostruire con l’origine e non con l’esistenza è arretrata e difensiva. È evidente la forte difesa di un mondo ricco rispetto alla povertà, che si pensa aggredisca il nostro benessere. Questo referendum e gli altri depositati negli scorsi mesi come quello sull’autonomia dimostrano una chiara volontà di partecipazione, in tempi in cui la partecipazione e il dissenso vengono criminalizzati. Che operazione sta facendo la maggioranza con il ddl sicurezza? Io ho grande fiducia nel parlamento, ciò che approva chiama anche la mia responsabilità, quella di aver permesso che certe idee si potessero affermare. Ma questo disegno di legge mi fa vergognare: è iper penalizzante, produttore di maggiore rischio di carcere, laddove dovrebbero essere introdotti altri strumenti. Ci sono alcuni punti totalmente inaccettabili: le conseguenze per l’interruzione di manifestazioni. Certo le interruzioni possono essere un problema, però è un lavoro da fare con i corpi intermedi, perché si tenga insieme sia il dettato costituzionale della libertà di manifestare sia il diritto delle persone a vivere la propria vita e accedere ai servizi. Il secondo punto molto grave è che le proteste in carcere, anche in forma passiva e pacifica, vengono punite come se il non agire costituisse di per sé atto criminale. Mentre il principio dell’atto criminale è l’atto positivo. Con la presenza di molti stranieri nelle carceri, molte volte si può non capire un ordine ricevuto e l’unico modo che ha uno straniero, che parla un’altra lingua, o una persona che socialmente rappresenta una minoranza, è quello di protestare non facendo. Poi, trovo incredibile la norma che consente agli agenti di polizia penitenziaria di portare con sé l’arma fuori dal servizio. Secondo l’idea che l’arma sia sinonimo di maggiore sicurezza. Se non altro la realtà sociale Usa, con più reati e più carcere, dovrebbe averci fatto capire quanto sia sbagliata. Questi elementi che tipo di società restituiscono? Una società molto rancorosa, chiusa, timorosa, che sembra sempre risentirsi assediata. Poi però contemporaneamente ci sono le firme e i referendum, un altro protagonismo, qualcosa che dice “non siamo tutti così”, “non è questa la nostra rappresentazione”. Un lumicino in un presente un po’ tetro, però credo che vadano colti i piccoli segni perché i mutamenti sociali non avvengono con grossi elementi. Purtroppo siamo immersi in uno scenario geopolitico in cui l’unica forma di dirimere i conflitti è la guerra. La guerra diventa linguaggio, diventa pensiero ed espressione. Questo rende molto difficile dare corpo a quei lumicini che vedo. La crisi del diritto internazionale di Sabino Cassese Corriere della Sera, 28 settembre 2024 Le istituzioni mondiali: l’urgenza di riformarle per rispondere ad una crisi profonda. In Europa e ai suoi confini sono ora in corso due guerre che violano i principi dell’Onu. Il diritto internazionale ha fallito la sua missione pacificatrice nel mondo? Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si era sperato in un mondo tranquillo, senza guerre, almeno nelle zone colpite dai due conflitti mondiali. Invece, in Europa e ai suoi confini sono ora in corso due scontri che, nella loro conduzione, violano non solo la Carta delle Nazioni Unite, ma anche i principi del diritto bellico, secondo i quali non bisogna colpire i civili. Da un lato, la strategia russa, attaccando le centrali elettriche, mira proprio a colpire i civili e a rendere loro difficile la vita all’approssimarsi dell’inverno. Dall’altro, Israele svolge una estesa azione di polizia in un territorio non proprio, per catturare o uccidere i membri di una organizzazione terroristica, operando con mezzi militari che danneggiano principalmente i civili. Il segretario generale delle Nazioni Unite, parlando all’Assemblea generale, il 24 settembre scorso, ha ripetuto più volte che lo stato del mondo è insostenibile e che sono minacciate le basi stesse del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite, con i civili che pagano il prezzo più alto. Il segretario di Stato americano Antony Blinken, parlando nei giorni scorsi al Consiglio di sicurezza dell’Onu, ha messo in evidenza la violazione della Carta delle Nazioni Unite da parte della Russia e in quell’occasione è emersa l’esistenza di una forte tensione tra Stati Uniti, da un lato, Russia e Cina dall’altro. La situazione del mondo è oggi molto difficile, ma non disperata. Innanzitutto, bisogna distinguere quella che gli inglesi chiamano “high politics” da quella che viene chiamata “low politics”. Infatti, la rete dei circa 250 mila trattati esistenti nel mondo, il diritto internazionale consuetudinario e i 2 mila sistemi regolatori globali assicurano ancora un ordine nel mondo; a livello più basso e minuto, è garantito un minimo di regole per i trasporti, il commercio, la circolazione delle persone, gli usi del mare e dell’aria, e così via. È a livello più alto, quello che riguarda la pace e la sicurezza nel mondo, che vi sono crescenti minacce che derivano non solo dalla fragilità della rete posta in essere ottant’anni fa, ma anche dalla stessa fragilità interna degli Stati, dove la debolezza o l’assenza di democrazia impedisce l’azione dei freni interni che possono impedire le aggressioni esterne. Nel 2025 si festeggeranno gli ottant’anni della Carta delle Nazioni Unite, frutto dell’accordo di 51 Stati (il cui numero si è ora quasi quadruplicato). È dunque giunto il momento di una riflessione sulla costituzione mondiale. Negli anni ‘30 e ‘40, quando il mondo era sottoposto a minacce ancora più gravi di quelle attuali, da più parti, con energia e lungimiranza, oltre che con una buona dose di utopismo, si pensò a una vera e propria costituzione mondiale. Uno dei progetti fu il frutto dell’iniziativa di un gruppo di intellettuali tra cui svolse un ruolo molto importante Giuseppe Antonio Borgese. Ora il mondo è cambiato, è diventato multipolare, come ha dimostrato nella sua ultima riflessione un grande esperto di geopolitica come Henry Kissinger. La struttura del nucleo essenziale delle Nazioni Unite, costituito dal Consiglio di sicurezza, l’organo chiamato al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, composto di 5 membri permanenti e 10 non permanenti, eletti per due anni per gruppi geografici e non immediatamente rieleggibili, va ripensata. Gli studi e le negoziazioni per la riforma del Consiglio di sicurezza sono stati avviati fin dal 2009, ma occorre il consenso di due terzi dei voti all’Assemblea generale, per decidere; a questo si deve aggiungere la ratifica degli Stati. Le proposte oggi sul tappeto sono numerose. Vi è quella degli Stati Uniti, che mira ad allargare la rappresentanza a due membri di Stati africani, a uno per gli Stati insulari, nonché all’India, al Giappone e alla Germania. La Federazione russa ha proposto un allargamento alla rappresentanza di Paesi africani, asiatici e dell’America latina, ma si oppone alla entrata nel Consiglio di sicurezza, con un membro permanente, della Germania e del Giappone. Più articolata e più intelligente la proposta del gruppo “Uniting for consensus”, che comprende 12 Paesi (Argentina, Canada, Colombia, Costa Rica, Italia, Malta, Messico, Pakistan, Corea, San Marino, Spagna, Turchia). Il gruppo propone l’allargamento nel Consiglio di sicurezza, a lunga durata e con la possibilità di rielezione immediata, a persone che rappresentino gruppi regionali, uno dei quali sarebbe l’Unione europea. Si otterrebbe, quindi, un risultato simile a quello della costituzione mondiale studiata a Chicago negli anni ‘40 del secolo scorso, che prevedeva un Parlamento universale, ma fondato su elezioni regionali, in modo da creare una sorta di piramide con una base molto larga, per assicurare il rispetto dei principi indicati dal presidente del Consiglio dei ministri italiano nel discorso tenuto il 25 settembre scorso alla settantanovesima riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, quelli di eguaglianza, di democraticità e di rappresentatività. Così si potrebbe superare la forte asimmetria tra un mondo composto di 193 Stati e il Consiglio di sicurezza, nel quale sono presenti stabilmente 5 Stati, con potere di veto, e, a rotazione, soltanto altri 10 Stati. Stati Uniti. Elezioni presidenziali, ci sono in bilico le vite di 40 condannati a morte di Valerio Fioravanti L’Unità, 28 settembre 2024 Tutti concordano che Trump e Harris sono praticamente pari nei sondaggi USA. L’ultimo, pubblicato domenica scorsa, li trova appaiati anche nel gradimento (scarso per entrambi a dire il vero) presso le varie comunità cristiane della nazione. Harris è Battista, Trump sarebbe Presbiteriano, ma ultimamente, per risultare meno divisivo si sta definendo genericamente “cristiano”. Il motivo potrebbe essere piuttosto semplice e avere poco a che fare con la dottrina: i Presbiteriani sono pochi, circa il 3% della popolazione USA, mentre i Battisti sono il 15%. Sono di più i Cattolici, 21%, ma qui le cose si complicano, elettoralmente parlando, perché sono quasi tutti messicani o sudamericani, e molti non hanno i documenti in regola, e quindi non votano. Comunque sia, secondo un sondaggio commissionato dall’Associated Press, solo il 14% degli americani ritiene che il termine “cristiano” descriva “molto bene” l’uno o l’altro candidato. Con una certa incoerenza tipica del candidato (ed evidentemente anche dei suoi elettori), il meno danneggiato è Trump: 7 su 10 dei suoi simpatizzanti lo voteranno anche se sono consapevoli che non sia un cristiano particolarmente fervente. Il poco peso della religione nelle elezioni non è un fenomeno nuovo negli Stati Uniti, viene commentato ormai da decenni. Ancor minor peso elettorale lo hanno le questioni legate alla giustizia e al carcere. Gli esperti di ABC News hanno messo a confronto i due candidati. Evidenziano che Trump ha svariati precedenti penali (è stato condannato per 34 reati), mentre la Harris ha iniziato la carriera come pubblico ministero in California, arrivando a diventare il Procuratore Generale di quello Stato. A San Francisco ha adottato misure “garantiste” per i giovani condannati la prima volta per reati di droga “di basso livello” da avviare alle pene alternative. Le viene riconosciuto di aver ridotto la recidiva tra giovani “tossici” dal 53% al 10%. Trump è sempre stato favorevole alla pena di morte, e negli ultimi mesi del suo mandato, nel 2020, ha fatto compiere 13 esecuzioni federali, dopo che le esecuzioni federali erano rimaste bloccate per 17 anni. La Harris si dice “contraria - personalmente contraria - alla pena di morte”. Ma, notano gli esperti, se come Procuratrice non aveva fatto condannare a morte nessuno, non era stata però di supporto a persone condannate a morte in precedenza che avevano validi motivi per chiedere una revisione dei processi. Recentemente ha dichiarato al New York Times: “Mi sento malissimo per questo”. Nella scorsa campagna elettorale, quella vinta, assieme a Biden avevano assicurato che avrebbero abolito la pena di morte federale. Non lo hanno fatto, e anzi, in due casi di terrorismo “interno” hanno lasciato che la pubblica accusa federale (che dipende direttamente dal governo) chiedesse la pena capitale. Ci sarebbe una posizione intermedia che Biden e Harris potrebbero ancora prendere: utilizzando i poteri presidenziali, che tutti i presidenti usano nelle ultime ore del mandato per prendere alcune decisioni impopolari, come concedere la grazia a qualche collaboratore condannato per corruzione o cose simili (lo fanno davvero tutti), potrebbero graziare i 40 detenuti, tutti uomini, rinchiusi nel braccio della morte federale. Così facendo, Trump non troverebbe più nessuno da far giustiziare. Ma questo non influirebbe comunque sulle elezioni di novembre, visto che per prassi l’alternanza vecchio/nuovo presidente si fa tre mesi dopo le elezioni, e quindi i “giorni delle grazie”, tradizionalmente, sono i primi di febbraio. In politica carceraria, Trump ha invertito la tendenza del suo predecessore Obama a diminuire gli appalti ai privati per la gestione delle carceri, e li aveva nuovamente aumentati. L’amministrazione Biden-Harris non ha rinnovato i contratti ai privati, e attualmente tutti i detenuti federali sono tornati sotto il controllo del Governo. Sulle misure di polizia, Harris, che ha un padre giamaicano, ha in passato simpatizzato per il movimento (considerato di estrema sinistra) “Black Lives Matter” che vuole meno fondi stanziati per la polizia, e più per i servizi sociali. Per un paio di anni molte città hanno adottato questa politica, e il risultato è stato un forte aumento dei crimini, non è chiaro se per motivi veri, o se per un boicottaggio da parte della polizia. Oggi l’idea di depotenziare la polizia non è più di moda, ma Harris è comunque in difficoltà con BLM perché il movimento contiene una forte componente pro-Palestina che ha già dichiarato più volte che “non voterà mai per Harris”. Neanche per Trump, ovviamente, anche perché Trump ha come cavallo di battaglia l’aumento di assunzioni e di stipendi per la polizia. Chi vincerà? Vorrei dire che, se vincesse Trump, Biden quasi certamente firmerebbe le grazie per i 40 condannati a morte. Nessuno tocchi Caino ha a cuore il destino dei condannati, ma forse è un po’ poco per auspicare davvero la vittoria di Trump.