Non è più il tempo per gli eufemismi: questo carcere uccide di Andrea Molteni* Ristretti Orizzonti, 27 settembre 2024 Questo carcere sovraffollato e spietato, uccide. Uccide la speranza, uccide le persone. Siamo rimasti ancora una volta attoniti di fronte all’ennesima morte insensata e inaccettabile avvenuta nel carcere milanese di San Vittore. Youssef Mokhtar Loka Barsom è morto nella sua cella incendiata, senza che gli agenti intervenuti potessero salvarlo. Youssef aveva solo 18 anni e già una vita di difficoltà e sofferenze alle spalle. Youssef è solo l’ultimo di una insopportabilmente lunga - davvero troppo lunga - lista di persone morte in carcere quest’anno: 180 secondo il conteggio di Ristretti Orizzonti. Settantatré di loro sono morte per suicidio accertato, un numero già di per sé impressionante a cui andrebbero aggiunti i probabili suicidi, registrati sotto un’altra voce, e i tentativi di suicidio. Il giorno precedente alla morte di Youssef un uomo detenuto anch’egli a San Vittore aveva tentato il suicidio inalando gas dal fornelletto in dotazione. Pochi giorni dopo un altro ragazzo, nello stesso reparto di Youssef, ha incendiato il materasso nella propria cella finendo ustionato in ospedale. È davvero finito il tempo degli eufemismi: il carcere, questo carcere sovraffollato e spietato, uccide. Uccide la speranza, uccide le persone. Troppi morti di questi anni sono giovani e giovanissimi. Tutti con storie familiari e sociali travagliate alle spalle, molto spesso con vissuti di grave sofferenza, anche mentale. Perché erano in carcere? Perché hanno potuto suicidarsi nelle strutture che dovevano ‘custodirli’? Perché non siamo più capaci di affrontare diversamente una questione giovanile che, evidentemente, è sfuggita totalmente alle maglie della cura familiare, scolastica, sociale, sanitaria? Mentre ci interroghiamo sul fallimento evitabile delle politiche sociali e giovanili veniamo a sapere, ma speriamo di essere smentiti, che sempre più spesso giovani detenuti nel carcere minorile Cesare Beccaria vengono trasferiti, al compimento della maggiore età, in istituti penitenziari per adulti, in barba al diritto e al buon senso, e in spregio del nome stesso di quell’istituto. Anche la situazione del carcere minorile è allo sbando, come si è purtroppo visto negli ultimi mesi, con le indagini in corso per episodi di violenza e maltrattamenti ai danni dei ragazzi detenuti, con le rivolte, gli incendi nelle sezioni detentive e nelle celle, le evasioni, gli atti di autolesionismo. Di nuovo: non è più tempo di eufemismi. Basaglia, di cui stiamo ancora celebrando il centenario, diceva che i manicomi erano istituzioni della violenza. Quella violenza oggi si è del tutto travasata dentro l’istituzione carceraria. I provvedimenti presi o paventati dal governo non sono solo insufficienti, ma pesano come macigni su una situazione già insostenibile, in nome di un malinteso senso della giustizia, di una retorica giustizialista che serve solo a compattare intorno a un nemico, debole e senza voce, un diffuso disagio a cui non si è capaci di dare nome e risposte concrete. Si tratta di una ragione politica fondata sulla rabbia e sul nemico: le donne incinte che devono finire in galera, fregandosene dei figli che lì nasceranno e cresceranno per i primi fondamentali anni della propria vita; i giovani raccontati come violenti e ingestibili, magari minori stranieri non accompagnati a cui non si sanno o vogliono offrire prospettive di integrazione e un’idea di futuro; i disperati che commettono reati dettati dalla loro difficile situazione e che, non avendo casa, famiglia, risorse su cui contare per una misura alternativa, finiscono in galera; le persone con problemi di abuso di alcol e sostanze, che magari finiscono per essere i terminali sfruttati della catena dello spaccio. La propaganda ci consegna così un perfetto capro espiatorio, costruito attraverso retoriche con la bava alla bocca, che si avventano, mai sazie, su quei pochi casi di reati molto gravi e violenti che magari occupano le pagine dei giornali per molti e molti giorni, sfruttando un diffuso voyeurismo del macabro. Finito il tempo degli eufemismi è ora di tornare al coraggio delle parole giuste. La prima è ‘amnistia’: cioè ammettere l’impossibilità di governare l’istituzione penitenziaria nelle condizioni in cui versa oggi e ribadire il primato della dignità umana sul desiderio di vendetta sociale anticipando la fine della pena per chi, in ogni caso, è destinato a uscire dal carcere nei prossimi anni. La seconda è ‘giustizia’: correttamente intesa, innanzitutto, come giustizia sociale prima che penale; vuol dire, per esempio, garantire l’accesso alle misure alternative anche a chi non ha le risorse economiche per ‘potersele permettere’. La terza è ‘depenalizzazione’: la saggezza politica di sfrondare un codice penale ipertrofico da tutti quei reati, accumulati nel tempo, per cui il carcere e la giustizia penale non rappresentano una soluzione e di investire invece in politiche sanitarie, sociali e giovanili, che sono più efficaci e meno costose. Poi, ancora, ‘emergenza’: quella in cui versa l’istituzione penitenziaria, che andrebbe affrontata per quello che è, con mezzi e azioni straordinarie e urgenti, come si fa quando ci si trova di fronte a una catastrofe. Infine, “compassione”: da opporre all’indifferenza generale in cui si sta compiendo questa inaudita strage carceraria. *Segreteria Osservatorio Carcere e Territorio di Milano Soluzioni per le carceri sovraffollate di Carlo Alberto Tregua* Quotidiano di Sicilia, 27 settembre 2024 Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha ben evidenziato come nelle carceri italiane vi sia un soprannumero di detenuti insopportabile, perché gli spazi sono gli stessi ma al loro interno il numero di reclusi è aumentato, con la conseguenza che le loro condizioni di vita sono disumane e che quei luoghi diventano veri e propri supplizi, cosa che non corrisponde ai dettami costituzionali. Come si fa a svuotare i penitenziari di qualche decina di migliaia di detenuti? Il ministro Nordio ha pensato alcune cose. La prima è quella di restituire ai loro Paesi gli stranieri affinché possano scontare la pena nei luoghi d’origine. Siccome essi superano il numero dei diecimila, ecco che un sesto della popolazione carceraria sarebbe ridotto. Non serve la bacchetta magica per fare questa operazione, bensì gli accordi con gli Stati di origine dei prigionieri. In questa direzione dovrebbero essere informate e indirizzate ambasciate e consolati nel mondo - quasi duecento - per iniziare le relative trattative. Siccome stiamo con i piedi a terra, riteniamo che nessun Paese d’origine dei detenuti stranieri in Italia prenderebbe indietro i suoi cittadini, per poi inserirli nelle carceri e quindi doverli mantenere. Motivo per cui ambasciatori e consoli dovrebbero essere muniti di accrediti bancari da mettere sul campo nella trattativa, dicendo per esempio che per ogni persona che viene riportata nel proprio Paese d’origine, quest’ultimo riceverà una somma definita. Questo importo a prima vista potrebbe sembrare un esborso pesante, ma sarebbe l’equivalente del costo annuo del mantenimento di ciascun carcerato moltiplicato per il numero di anni della detenzione. Si tratta di vedere se ambasciatori e consoli sono capaci di fare opera di persuasione per fare accettare la proposta che prima vi abbiamo descritto. L’operazione non è facile, ma non è detto che sulle decine di Stati cui si dovesse proporre tale iniziativa non ve ne possano essere alcuni disposti ad accettare l’offerta. Altro problema è che tali detenuti verrebbero sradicati dalla vita che si sono costruiti in Italia, per cui bisognerebbe pensare anche a questo aspetto psicologico. Il ministro Nordio ha pensato anche a una seconda soluzione per svuotare i penitenziari e cioè quella di mandare gli ammalati in apposite strutture (case di cura, Rsa o simili) ove potrebbero essere curati meglio e in modo più appropriato. Ma questa soluzione ha un tallone d’Achille e cioè che gli stessi identici problemi che oggi vi sono nelle carceri si trasferirebbero nelle elencate strutture. È vero che i detenuti sarebbero curati meglio, ma non sarebbe risolto il problema del sovraffollamento. Vi è una terza possibilità, dice Nordio, e cioè trasferire tutti i detenuti in attesa di giudizio presso le rispettive abitazioni, in detenzione controllata, con i braccialetti e con altri mezzi. Anche questa ci sembra una soluzione percorribile, ovviamente da applicare nei casi ove sia possibile e dove i reclusi non presentino elementi di pericolosità, possibilità di fuga o altro. Anche questa proposta è da studiare trovandovi la soluzione in tempi brevi. Da quanto precede si evince che il problema del sovraffollamento carcerario ha delle soluzioni, anche altre rispetto a quelle proposte da Nordio, per esempio ampliare le carceri o studiare programmi di reinserimento nella società civile. Si tratta solo di studiarle e realizzarle con le leggi in tempi ragionevolmente brevi, per poi effettuare le relative operazioni dei trasferimenti nel senso indicato, anche in ulteriori tempi relativamente brevi. Se la legge fosse approvata entro quest’anno si potrebbe pensare a realizzarne l’obiettivo nel corso del 2025. Non sembri strano che noi indichiamo delle date, perché una legge senza data di attuazione è solo un pezzo di carta o, se volete, una manifestazione di intenzioni. Una legge dovrebbe sempre essere corredata di rigoroso cronoprogramma e di sanzioni nei confronti di chi non lo osserva con precisione. Ci riferiamo a sanzioni progressive rispetto al ritardo: se è un mese, un euro; se sono due mesi, quattro euro e via elencando. È capace il Governo di approvare in tempi brevi una legge organica e organizzata? Non sappiamo, ma lo auguriamo nell’interesse generale. *Fondatore e direttore del Quotidiano di Sicilia Considerare “rivolta” i comportamenti di mera resistenza passiva dei detenuti è un grave errore di Antonio Gelardi* lacivettapress.it, 27 settembre 2024 Il disegno di legge c.d. “sicurezza”, approvato dalla Camera e ora in discussione al Senato, contiene diverse norme di carattere eterogeneo ispirate, secondo critiche diffuse, ad una logica ultra securitaria e, fra le altre misure, inasprisce le pene, ed introduce nuove fattispecie di reato, senza che ciò significhi garantire strumenti dotati di maggior efficacia nella tutela della sicurezza individuale e collettiva. Limitando queste osservazioni a ciò che riguarda l’ambito penitenziario, soffermiamoci sull’introduzione della fattispecie di reato di rivolta in carcere. Occorre subito precisare che l’attuale legislazione non prevede affatto l’immunità per gli episodi di turbamento in forma violenta dell’ordine negli istituti penitenziari, già puniti da reati quali violenza, resistenza, danneggiamento, devastazione nei casi più gravi, ed altre specifiche fattispecie. Senza scendere in eccessivi tecnicismi e considerando l’ipotesi più semplice, quella della “partecipazione” alle rivolte, può dirsi che le più rilevanti peculiarità e le innovazioni previste nel disegno di legge consistono in quanto segue: a) L’equiparazione ai fini della sussistenza del reato di rivolta, della resistenza anche solo passiva ai fatti commessi con violenza o minaccia; b) Il considerare rivolta la resistenza passiva all’esecuzione di ordini qualora consista in atti che impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza. c) L’indeterminatezza dell’espressione “atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”, carattere contrario agli elementi essenziali della norma penale. d) Il fatto di inserire il nuovo reato fra quelli per i quali vi sono restrizioni all’accesso ai benefici penitenziari (ci si riferisce alla disciplina dettata dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, originariamente previsto per i reati associativi quali associazione mafiosa, terrorismo, traffico di stupefacenti e poi esteso a numerosi altri reati di diversa indole facendo diventare la casistica quasi una sorta di passepartout per un inasprimento dell’esecuzione penale). Sotto il primo aspetto stride anche dal punto di vista lessicale il fatto di considerare rivolta, termine che rinvia all’uso della violenza o minaccia, comportamenti di mera resistenza passiva. Considerare quindi rivolta il resistere passivamente conduce a ritenere penalmente rilevante il semplice fatto di non obbedire, sia pure commesso da parte di tre o più persone: comportamento che è punito nell’attuale ordinamento come infrazione disciplinare (lo stesso avveniva sotto la vigenza del regolamento penitenziario di epoca fascista, pur ad impronta fortemente autoritaria che prevedeva fra le mancanze disciplinari la “violazione dell’obbligo di eseguire prontamente e rispettosamente gli ordini ricevuti” sanzionata appunto solo disciplinarmente). La nuova norma all’esame del parlamento realizza in sostanza un’abnorme dilatazione della fattispecie che risiede proprio nella rilevanza data alla semplice mancata esecuzione degli ordini impartiti, senza che la condotta assuma i connotati di una resistenza aggressiva connotata da atteggiamenti violenti o minatori. L’inserimento del reato di rivolta nel già citato articolo 4 bis aumenta la pletora dei reati per i quali è più difficile l’ottenimento di misure extracarcerarie ed è precluso l’ottenimento della detenzione domiciliare per chi ha un breve fine pena, andando fra l’altro in controtendenza rispetto all’intendimento del Ministro Nordio di favorire la diminuzione della permanenza delle persone in carcere nell’ultimo scorcio della carcerazione. Dal punto di vista esperienziale devo osservare che nella vita di un istituto penitenziario, specie in periodi di sovraffollamento e di conseguenti criticità, episodi in cui alcuni detenuti rifiutavano di risalire in sezione dal cortile passeggio, o sostavano in messo alla sezione rifiutando di rientrare in cella erano quasi pane quotidiano. Si trattava per lo più di atti dimostrativi ed avevano alla base richieste spicciole, come parlare con il magistrato di sorveglianza, protestare per il ritardo dell’effettuazione di una visita medica, ottenere il lavoro. Posso dire che questi episodi di microconflittualità, grazie alla saggezza e all’esperienza del personale sia di polizia penitenziaria sia educativo, venivano risolti quasi sempre in maniera dialogica e le volte in cui ho dovuto dare disposizioni di uso della forza si possono davvero contare sulle dita di una mano; e così per quel che mi risulta avviene in tutti gli istituti. È da ritenersi invece che estremizzare a livello ordinamentale l’inquadramento normativo di questi episodi non giova affatto a mantenere o ristabilire condizioni di ordine e sicurezza ma risponde, a parere di molti osservatori ad una visione panpenalistica e ad una risposta autoritaria nella gestione dei conflitti. Ci si chiede se questo tipo di azione possa essere positiva e conducente in un contesto, il carcere, nel quale il rischio dell’insorgere di conflitti è sempre in agguato ed occorre attuare lo sforzo di “gestirli” e di stemperarli. Ci si augura che nel corso dell’iter parlamentare vi siano opportune correzioni ispirate ad uno spirito liberale e risolutivo delle tensioni. Non va comunque dimenticato, anche in relazione a possibili successivi esami da parte degli organi competenti, che vi è sì un ampio spazio del legislatore, per la scelta di beni-interessi-valori meritevoli di tutela penale; e tuttavia va sempre rispettato un principio di ragionevolezza, che troverebbe in questo caso nocumento nell’equiparare atti non violenti ad atti violenti, e di offensività che dovrebbe riservare la tutela penale a comportamenti che portano una sensibile lesione del bene protetto (in questo caso l’ordine interno negli istituti) non intaccato da comportamenti che si limitino alla resistenza passiva. *Già dirigente penitenziario La storia infinita dei “Piani carceri” e dei “Commissari straordinari”, tra fallimenti e tangenti di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 27 settembre 2024 Il governo ha nominato Marco Doglio: obiettivo, 7mila posti detentivi da realizzare in 15 mesi. Ma costruire istituti penitenziari è opera improba e lunga. E non è detto sia l’unica soluzione. A luglio ne erano stati contati sul sito del governo 60, ma non c’è niente di più deperibile di un articolo di giornale sulle nomine e così a oggi, giovedì sera alle 20, i Commissari straordinari sono arrivati a quota 66. Confermando la nota massima per cui siamo un popolo di santi, navigatori e commissari. Straordinari, però, non tecnici. L’ultimo è il commissario all’edilizia penitenziaria, dunque numero 67. Come se ci fosse un commissario all’edilizia scolastica (c’è?). Il ragionamento alla base è semplice: c’è un’emergenza (c’è sempre un’emergenza), ovvero il sovraffollamento delle carceri. Che si fa? Nominiamo un commissario. Detto fatto. Si chiama Marco Doglio, fortunatamente non è un pm (come gli ultimi capi del Dap, il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria), ma un manager, fino al 2022 responsabile della Direzione immobiliare di Cassa depositi e prestiti. E pazienza se non ha esperienza specifica nel settore delle carceri. Il suo compito è scritto nero su bianco sul decreto di nomina: “Dovrà provvedere alla realizzazione delle opere necessarie per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari”. Opere necessarie, dunque. Andrea Ostellari, sottosegretario leghista alla Giustizia, esulta e chiarisce il senso: “Rispedita al mittente la ricetta fallimentare della sinistra che chiedeva un ennesimo svuota carceri. Finalmente una riforma strutturale”. Strutturale, dice, con uno slancio di ottimismo. C’è da notare subito come Doglio resterà in carica fino al 31 dicembre 2025. Poco più di un anno, dunque, con una dotazione di 250 milioni di euro, cinque tecnici a disposizione e l’obiettivo dichiarato dal ministro Carlo Nordio di 7 mila nuovi posti. Se l’obiettivo è costruire nuove carceri, che è il riflesso condizionato della destra quando si parla sovraffollamento, Doglio avrà poco più di un anno a disposizione. Per costruirne di nuove ci vogliono intorno ai dieci-venti anni, se tutto va bene. La costruzione della casa circondariale di Gela iniziò nel 1959: all’epoca c’era il Fanfani II, un giovane barbuto andava al potere a Cuba, un altro giovane glabro ma molleggiato spopolava con “Il tuo bacio è come un rock”. Più di 50 anni dopo, nel 2011, l’istituto siciliano veniva inaugurato, già pronto per la pensione. Non è escluso, dunque, che gli entusiasmi per la nuova nomina possano scemare in fretta. I precedenti, del resto, non sono incoraggianti. Anzi, come dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, “sono almeno tre e non sono affatto commendevoli”. Eccoli. Correvano gli anni 80 e c’era un ministro dei Lavori Pubblici, socialdemocratico, che si impegnò molto nella costruzione di istituti con il suo “piano carceri”. Si chiamava Franco Nicolazzi e aveva con il costruttore Bruno De Mico rapporti stretti. Troppo stretti. Finì che il ministro fu condannato per una tangente da due miliardi e costretto a dimettersi. Molte delle “carceri d’oro”, chiamate così per il loro costo triplicato, restarono a metà, alcune senza la pavimentazione. A metà degli anni Duemila arriva un nuovo “Piano carceri”, stavolta del guardasigilli leghista Roberto Castelli. L’idea era di vendere le prigioni in disuso per finanziare la costruzione di nuovi penitenziari, attraverso il leasing e una società ad hoc, la Dike Aedifica. Come andò a finire lo spiega bene un titolo di Italia Oggi: “Dike Aedifica, fallita la società che non ha edificato nulla”. Nel 2009 il ministro Angelino Alfano presenta, indovinate un po’, un “piano carceri” e nomina (lo avrete capito) un nuovo commissario straordinario all’edilizia penitenziaria, Franco Ionta. Gonnella, già all’epoca, commenta la notizia: “Aria fritta”. Considerando gli spazi ristretti delle celle, i pertugi minuscoli e i miasmi dei servizi igienici, l’afflusso di nuova aria fritta sicuramente non avrà fatto bene ai detenuti. Che nel frattempo sono cresciuti di numero e hanno continuato a stare sempre peggio. C’è una quarta storia ed è del 2012, quando viene nominato un nuovo commissario straordinario all’edilizia penitenziaria, Angelo Sinesio. Che subito litiga con l’ex pm antimafia Alfonso Sabella, che lo accusa di contabilità creativa, diciamo così, nel conteggio dei posti del nuovo “piano carceri”. A seguito della denuncia, si attiva la magistratura. Cosa è successo, dunque, in tutti questi anni? È successo che l’unico provvedimento che ha ridotto il sovraffollamento è stato l’indulto, concesso quando era ministro Clemente Mastella, con il via libera bipartisan da sinistra (Prodi) e da destra (Berlusconi). Poi, certo, dopo due anni i reclusi tornarono a crescere, perché servono provvedimenti strutturali, come per esempio considerare il carcere l’extrema ratio della pena e non il fulcro indispensabile del sistema. Gonnella spiega: “Va bene che si lavori sull’edilizia, a patto che non sia costruire solo casermoni che accumulano posti letto su posti letto. Bisogna adeguare gli standard alle norme, costruire luoghi per la socialità, lo sport, l’educazione. E poi guardiamo ai numeri: si vogliono trovare 7 mila nuovi posti? Bene, solo quest’anno i detenuti sono cresciuti di 4 mila unità. Il governo continua a creare nuove fattispecie di reato e ad aumentare le pene. Se considerassimo carceri da 400 posti, ne servirebbero 10 solo per assorbire i nuovi arrivi di quest’anno. Quanto ci si mette a costruirle?”. Molto meglio, dice Gonnella, ascoltare i suggerimenti di Unione europea e Consiglio d’Europa, che parlano di “small-scale detention, con istituti da 50-100 posti. Bisogna modernizzare, umanizzare e riequilibrare gli spazi”. Mauro Palma è stato a lungo apprezzato garante delle persone prive di libertà: “Quando mi sono insediato, nel 2016, il totale di chi era in carcere e chi in misura alternativa sfiorava le 100 mila persone. Otto anni dopo, quando me ne sono andato, superava le 150 mila. Bisogna ragionare in termini di tasso di incremento, non di valori assoluti. La pena, e la prigione, sono rimedi adrenalinici: eccitano le persone e i politici. Ma non si vuole prendere atto che in carcere non ci sono tutti ergastolani, anzi. I quattro quinti dei definitivi sono in uscita entro cinque anni. Vogliamo occuparci di come usciranno?”. Palma aggiunge un capitolo più recente ai famigerati “piani carceri”: “Ci sono otto padiglioni progettati durante il mandato della ministra Cartabia e sono ancora fermi. Ma sono ognuno da 80 posti letto: 80 per 8 fa 640. Poi ci sono progetti per altri padiglioni, da sottrarre alle zone verdi esistenti negli istituti, che non è una buona idea. E l’ipotesi di utilizzare una caserma di Grosseto per chi è a fine pena, idea che non condivido, ma che anche lei è ferma. Come si arriva dunque a 7 mila? Come si riduce il sovraffollamento attuale e come si affronteranno le migliaia di nuovi reclusi in arrivo? Temo che servirà un commissario permanente, a vita. Faccio i miei migliori auguri al nuovo commissario, ma neanche Mandrake riuscirebbe a trovare tutti quei posti in 15 mesi”. Sovraffollamento, violenze suicidi: cosa sta succedendo nelle carceri italiane? di Manuela Mazzariol lavitadelpopolo.it, 27 settembre 2024 Ne parliamo con don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane. Sovraffollamento, violenze, suicidi. Le carceri italiane rimangono sotto i riflettori della cronaca, mentre i problemi crescono e le soluzioni appaiono sempre più lontane. Abbiamo provato a comprendere qualcosa in più sulla situazione con l’ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi, che nelle scorse settimane è venuto in visita alla casa circondariale e all’istituto penale per minorenni di Treviso. Don Raffaele, cosa sta succedendo nelle carceri italiane? Ci troviamo di fronte a una situazione di sovraffollamento che tocca praticamente tutte le carceri. Ed è proprio il problema degli spazi ad alimentare disagio e violenze. Infatti, nei luoghi in cui gli spazi ci sono, le situazioni sono più tranquille. Quando la popolazione detenuta è in sovrannumero, il personale non basta più per offrire delle attività, le richieste sono più difficili da soddisfare, aumentano le tensioni, che possono sfociare in proteste violente. Senza contare che, con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, le carceri italiane si sono riempite anche di persone con problematiche di salute mentale, che gli agenti di polizia penitenziaria non sono preparati ad affrontare. Anche loro sono sempre in tensione, sono pochi, stanno comunque in prigione, come le persone detenute, affrontano quotidianamente situazioni di emergenza. Una polveriera pronta a esplodere... Certo, una persona con disagio psichico può avere reazioni violente anche di fronte a piccole cose che non vanno. L’aggressività allora diventa il pane quotidiano, perché le persone non vivono bene. Ed è sotto questa lente che dobbiamo leggere l’enorme numero di suicidi e di tentati suicidi in carcere. A metà settembre, le persone che si erano tolte la vita in carcere erano 72, ma il tragico bilancio è in continuo aggiornamento. Se, in totale, quelli accertati per il 2023 erano stati 70, ora si rischia di superare il macabro record del 2022, con 85 persone morte... E quelli che ci provano e non ci riescono sono almeno altrettanti. Ogni suicidio è un fallimento per tutti noi. Per noi cappellani che cerchiamo di stare ogni giorno accanto alle persone detenute e aiutarle nei momenti più difficili, per il sistema carcere e per lo Stato tutto. Perché in queste condizioni viene meno lo scopo rieducativo della pena, chi si toglie la vita non ha intravisto la possibilità di intraprendere un percorso e trovare un nuovo progetto di vita, non ha visto alcuna opportunità nel tempo della detenzione. Soprattutto le persone con un disagio psichico faticano a sopportare il peso della carcerazione. E molti detenuti che si tolgono la vita sono giovani e quasi a fine pena. Allora perché il suicidio? Molte volte perché hanno paura. Paura del vuoto che c’è fuori, gli manca la speranza e non vedono un futuro. Una persona che si toglie la vita dovrebbe interrogare tutta la comunità civile. Se chi sta per uscire dal carcere ha paura di essere stigmatizzato ed escluso, tutti noi siamo colpevoli. A proposito di società. Papa Francesco ha molto a cuore il tema, è stato in visita alla Giudecca, aprirà una porta santa per il Giubileo in un carcere. Il nostro giornale, nel suo piccolo, propone una rubrica mensile sui temi legati al carcere proprio per provare a sfatare pregiudizi e abbattere muri. Tuttavia, in generale, spesso si ci si trova di fronte a una grande ostilità nei confronti delle persone detenute, possiamo fare di più? Se la società esterna fa fatica a recepire il messaggio di accoglienza è perché manca una visione evangelica. Chi ha sbagliato deve pagare, ma manca una cultura della misericordia, la giustizia diventa vendetta. C’è bisogno di una cultura nuova di accoglienza. E noi come Chiesa facciamo proprio questo, portando avanti il messaggio di solidarietà e accoglienza dell’altro. Serve una formazione culturale all’accoglienza, e la Chiesa è maestra in questo. Nel dare voce a chi non ne ha, nello scuotere le coscienze di chi vive senza farsi coinvolgere, nell’incontrare chi è ai margini. Anche tra cappellani delle carceri e parroci dovrebbe esserci più collaborazione, per creare ponti tra il dentro e il fuori, coinvolgere le comunità. La Chiesa è una delle poche realtà accoglienti, può essere esempio di amore, può aiutare a produrre uno sguardo diverso sulla persona detenuta. Importante è continuare a seminare il più possibile. In generale, quando si sente parlare di carcere, si ha l’impressione che le problematiche continuino a sommarsi una con l’altra, senza grandi speranze di risoluzione... Le carceri italiane, in effetti, sono cambiate in peggio. Sono luoghi pieni di poveri. Molti detenuti, come già detto, hanno problemi legati alla salute mentale, poi, ci sono tossicodipendenti, migranti, senza dimora, le persone che si trovano più in difficoltà. Mancano gli spazi, gli edifici sono in larga parte fatiscenti. Così, quotidianamente, viene calpestata la dignità delle persone. Quella stessa dignità che, invece, aiuterebbe le persone a individuare un percorso per il futuro. Cosa serve per poter migliorare la situazione? Il punto più complesso da affrontare sono le pene alternative, che non sono uno svuotacarceri, ma un modo per dare alla persona detenuta la speranza per ritrovare se stessa e la propria strada. Percorsi volti alla riabilitazione della persona, per aiutarla a cambiare vita. Poi, una comunità accogliente, una società civile che, invece di puntare il dito, aiuti le persone a reinserirsi. C’è anche un mondo di associazioni e volontariato, cattolico e non, che dà un grande supporto alle persone che si trovano in carcere. Spesso questo mondo non emerge abbastanza, ma riesce a stare vicino sia ai detenuti che ai loro familiari. Infine, è stato in visita a Treviso, com’è la situazione nella nostra città? Era la prima volta che venivo in visita a Treviso, e mi ha colpito soprattutto la situazione del minorile. Quello di Treviso non è un luogo che può accogliere questi ragazzi al fine di riprendere in mano la loro vita, c’è bisogno di spazi che qui non ci sono. La situazione ora è esplosiva, c’è il rischio di nuove violenze. Per questo ci auguriamo che la nuova struttura di Rovigo venga aperta al più presto. Speriamo che le promesse fatte siano mantenute. C’è “Mare fuori” e ci sono i veri Istituti Penali per Minori. Un cappellano racconta di Sara Del Corona marieclaire.it, 27 settembre 2024 Ultimamente si parla molto di carcere minorile. È iniziata con la serie ambientata a Napoli ed è continuata coi fatti di cronaca nera, quelli annunciati e quelli inspiegabili, under 18. Don Domenico Cambareri, cappellano dell’Ipm di Bologna, lo racconta sul serio, con un libro dedicato ai suoi “ragazzi dentro”. Dice che da quando è uscito Mare fuori il concetto di Ipm, Istituto Penale per i Minorenni, si è finalmente affacciato nei pensieri delle persone, e questo è senz’altro un bene perché dentro ogni Ipm - e in Italia ne abbiamo 17 - ci sono molti ragazzi - circa 1.500 e in aumento - a cui non pensa mai nessuno. Però anche se una serie è una serie e lui capisce benissimo le ragioni artistiche e di narrazione (del resto si è laureato in Lettere), in quella fiction gran successo di pubblico e critica ambientata a Napoli un personaggio manca che nella realtà del carcere minorile invece esiste sempre: il cappellano. E una cosa viene messa in scena che invece in quelle realtà, nella realtà, manca: i percorsi riabilitativi, i laboratori, le attività che servono a recuperare e rimettere al mondo con nuove premesse i ragazzi che hanno compiuto dei crimini. Dice questo Don Domenico Cambareri, che per l’appunto è cappellano dell’IPM di Bologna e in quattro anni e mezzo di lavoro ha accumulato così tante cose da dire da farci un libro, che doveva intitolarsi Muore fuori, ma poi sembrava troppo. Ti sogno fuori - Lettere da un prete di galera (San Paolo), da pochi giorni in libreria verrà presentato il 30 settembre a Bologna, il 10 ottobre a Castelmaggiore e a novembre a Milano in occasione di BookCity, ma noi vogliamo presentarlo prima. Si tratta di un dialogo epistolare con Y, uno dei tanti reclusi under 18 che ha incontrato, perché, come scrive a un certo punto, “non ti levi più dalla testa la disperazione di un ragazzo” e allora anche la scrittura può servire. Cosa succede frequentando quotidianamente un carcere minorile? Quando ho iniziato mi sentivo a posto, aperto, protetto dalla mia formazione liberale, e invece ho scoperto che ero pieno di pregiudizi. Ero convinto che i ragazzi, in maggioranza musulmani, fossero religiosamente ottusi, fondamentalisti, e che non mi avrebbero accettato in quanto prete. Tutto si è smentito, sono fortemente secolarizzati, proprio come i “nostri”. Addirittura a fine agosto è morto in un incidente stradale un ex detenuto, un musulmano, ma per celebrare il funerale i suoi ex compagni non hanno voluto un imam, hanno detto sei tu che l’hai conosciuto e lui conosceva te, che c’entra l’imam? Con questa freschezza, con questa libertà me l’hanno chiesto. Mi hanno fatto capire che per loro prevale la dimensione umana, a loro importa che tu sia un adulto affidabile. Ti provocano, ti distruggono, ti mettono alla prova, però dopo ti consegnano il loro cuore. Siamo nel tempo di Crono, che mangia i suoi figli, le istituzioni li mangiano e li buttano via. Li disperdiamo. Li sprechiamo. Oggi in Italia a cosa serve un Istituto Penale per i Minorenni? A nulla. Tutto il sistema si è inceppato, il carcere dei minorenni assomiglia sempre di più a quello dei maggiorenni. I ragazzi recuperati sono nell’ordine delle poche unità, nel senso che a Bologna, che è un istituto virtuoso, su 100 ne saranno stati restituiti alla vita sociale vediamo, cinque? Sei? E gli altri che escono? Si disperdono, rientrano nel ciclo criminale, o lasciano l’Italia. Per essere molto pratici, gli IPM sono una realtà dispendiosa per l’erario pubblico che non raggiunge il suo obiettivo. E le persone che ci lavorano, dai secondini agli educatori agli psicologi? Sono donne e uomini estremamente motivati che ci provano. Vedo quotidianamente i loro tentativi frustrati da un sistema che non riesce più ad assicurare la fondamentale vicinanza ai ragazzi. Per dire, a seguito dell’impennata di carcerazioni, un’educatrice o un educatore, che sono il cervello del percorso di recupero, a Bologna adesso hanno una media di 10 ragazzi, di cui si riducono a seguire di fatto solo l’iter burocratico e non propositivo. A questo primo e grave sbilanciamento si aggiungono la mancanza di fondi e le impossibilità: ai ragazzi non vengono proposte opportunità e occasioni per mettersi in gioco e crearsi un’alternativa attraverso lo studio e il lavoro. Scuola, lavoro ed esperienze totalmente diverse dai loro vissuti dovrebbero essere i tre pilastri. E i cappellani? La nostra fortuna è che siamo liberi da tutte le trafile, andiamo in cella, guardiamo un ragazzo, lo ascoltiamo. Magari ci facciamo dire vaffanculo, ma almeno si è instaurata una relazione. Poi, come tutti i lavori coi ragazzi dovrebbero essere sostenuti da un’etica personale esigente, non si può fare l’insegnante, il prete o l’educatore per lo stipendio e basta. Anche perché è pesantissimo. In una prima conversazione, cosa riesce ad agganciare l’attenzione di un ragazzo? Hai presente Azzurro? A un certo punto dice “nemmeno un prete per chiacchierare”. In carcere paradossalmente quando uno è lì dietro le sbarre, e comunque per un ragazzo è scioccante, circondato da detenuti e poliziotti, io rappresento una di quelle figure esotiche che fanno due chiacchiere, ed essendo anche tutelati dalla segretezza delle nostre conversazioni, per cui si sentono molto liberi. Inizio con un “ciao”, e poi si vede. Paradossalmente è molto più semplice accostare loro che i ragazzi della mia parrocchia, sono più disponibili a incontrare un adulto, forse perché quelli “fuori” non ne possono più, degli adulti, mentre quelli “dentro” ne hanno avuti pochi. A volte siamo i primi adulti che li ascoltano e che gli parlano. Sono molto affettuosi, ti abbracciano, ti dicono che ti vogliono bene, ti telefonano se non ti fai vedere da un po’ e ti dicono che gli manchi. E i ragazzi fuori, come li trova, visto che dicono tutti che sono poco empatici? Non sono un fan delle generalizzazioni, ma penso che da un punto di vista emotivo e sentimentale siano meglio degli adulti, sia quelli dentro che quelli fuori. Mantengono una freschezza che ci mette in difficoltà, è di quella che ci lamentiamo. Perché un ragazzo finisce in un IPM? Famiglie disfunzionali e scuola assente: sono le due motivazioni che generano la devianza. Non ci sono ragazze? In Italia ci sono solo due carceri minorili femminili, uno a Roma e uno a Pontremoli. Però ho a che fare con le fidanzate, spesso. Dopo Mare Fuori, la gente si interessa di più ai ragazzi degli IPM? Sì, c’è del senso di colpa, perché la serie ha il grande pregio di mostrare che di fatto questi ragazzi sono il prodotto dei comportamenti degli adulti. Si riconosce che non sono dei mostri e che non sono necessariamente destinati a una vita criminale. Ora però dovrebbe scattare una fase critica, per chiedersi se le carceri minorili siano il vero posto dove possano vivere. Perché anche se è romanzato, Mare fuori mostra come il carcere abbruttisca e attivi la violenza. Non ha mai avuto cedimenti? Il momento più difficile è stato quando ho accolto la confessione di un ragazzo omicida in ambito familiare, è stato identificato la domenica e il lunedì, guardandomi negli occhi e tenendomi le mani mi ha confessato tutto per filo e per segno. Non ho dormito per tre notti, ho provato una galassia di emozioni, avevo continuamente in mente l’omicidio, e poi il senso di colpa di dare attenzione e tempo a un ragazzo che la stampa definiva un mostro. Mi ricordo la sua mano, mi teneva e intanto mi diceva “Prometti che non mi lasci?”. Ma quella mano aveva ammazzato una ragazzina quattro giorni prima. Questo mi ha fatto sentire davvero impotente. Da solo non ce la fai ad aiutare, dobbiamo sostenerci con una vera rete di adulti in relazione tra loro. Qualcuno ne esce? Sì. Quando un ragazzo ha superato lo shock del carcere e ha lasciato perdere la tentazione di una vita criminale e violenta lo vedo dallo sguardo, comincia a fidarsi e ad affidarsi, a sorridere. So che è lunghissima, che probabilmente non ce la farà ma è una luce che mi motiva, altrimenti questo lavoro l’avrei già mollato da un pezzo. Un genitore di un ragazzo fuori, cosa imparerebbe guardando i ragazzi di dentro? La sfida di parlare coi ragazzi non con quella morbosità che ogni tanto si vede e si sperimenta, ma facendo percepire di esserci. È un difficile equilibrio tra il “ci sono” e il “ti lascio la libertà, lo spazio”. I nostri ragazzi dell’IPM sono sempre frutto di un abbandono, di un vuoto di presenza per cui la libertà, essendo soli, gli è esplosa tra le mani. Tre cambiamenti che farebbe se potesse decidere lei come impostare le cose in un carcere minorile? I ragazzi che sono nelle condizioni giuridiche di lavorare e uscire dovrebbero stare in semilibertà, separati dagli altri, immersi in una situazione ibrida tra dentro e fuori. Potenzierei la presenza del volontariato all’interno, i ragazzi non possono annoiarsi e non devono avere momenti morti. Coinvolgerei la città, le associazioni, che possano proporre una presenza. Che è anche un’alternativa. Ddl Sicurezza, provvedimenti contro buon senso e Costituzione di Enrico Bellavia L’Espresso, 27 settembre 2024 Un’accozzaglia di norme che si abbatte sul sovraffollamento carcerario e l’arretrato giudiziario. Ciò che è bisogno diventa pericolo, quel che è dissenso si trasforma in minaccia, quanto di odioso riserva la quotidianità delle città assurge al rango di emergenza assoluta. Sembra scritto nel tinello di casa da una famigliola inebetita di fronte alle notizie dell’ultimo tg, tra prevedibili - e irripetibili - imprecazioni di contorno, ciò che con enfasi, da statisti minori, hanno chiamato disegno di legge sicurezza. Un’accozzaglia di norme che si abbatte come un macigno sul buon senso, la Costituzione, il Codice penale e, naturalmente, il sovraffollamento carcerario e l’atavico arretrato giudiziario. Un compendio di insulsa retorica forcaiola, una summa inconcludente di pensiero manettaro che si potrebbe liquidare con una risata se di mezzo non ci fosse l’intenzione, neanche troppo velata, di intimidire, annichilire, anestetizzare un Paese, fingendo di cullarlo per quelle paure indotte, ingigantite dalla propaganda. Va in onda la striscia sulle case occupate dai senzatetto ed ecco che il nonno impreca a difesa dei poveri proprietari deprivati dei loro beni dopo una vita di sacrifici. Non una parola, per dire, sul quartier generale di Casa Pound a Roma. Passa il video sulle proteste contro gli scempi ambientali o l’inerzia di fronte alle catastrofi ed ecco che l’attenzione devia dalla minestra a un’intemerata contro le code e a pieno sostegno delle ragioni degli automobilisti incolonnati. Inferociti e con il motore acceso. Si passa al piatto forte dell’offerta informativa: giovani nomadi incinte che alleggeriscono i passeggeri delle metro. Il tormentone tracima dall’alveo dei tg, invade la prima serata e dilaga nei talk show di approfondimento. Qui la famiglia ha già trascurato il frittatone e fieramente indignata insorge all’unisono invocando: galera. Per tutti: madri e figli, neonati e nascituri. Tutti dentro, al pari di quegli altri. Tutti in celle dove sarà reato anche solo resistere passivamente per far arrivare all’esterno il flebile lamento dei cancellati per sentenza dalla faccia della civiltà. E intanto un colpo dì spugna spazza via, per esempio, l’abuso d’ufficio e una spruzzata di bromuro, dopo gli scandali, intorpidisce le norme antimafia. Hai visto mai finissero per riguardare anche qualche colletto bianco e non i soliti quattro boss matricolati. Più galera per (quasi) tutti è il motto. E più galera promette la legge già passata alla Camera e ora al Senato. Galera per chi si oppone, dagli studenti ai No Tav, per chi solo fruga sul web alla ricerca di notizie su ordigni, galera per chi protesta, chi si ripara in un edificio che perfino i palazzinari disprezzano. Galera per chi borseggia. E niente cannabis light, assurta al rango di peste del Secolo mentre sulle droghe vere anche il più piccolo barlume di politica di contrasto e prevenzione sembra scomparso. Così come per il resto, se di fronte ai femminicidi e alle violenze di genere l’unica trovata a effetto è la solita panzana della castrazione chimica. Derubricare tutto a basso istinto è l’imperativo. Meglio risolverla con l’idea bislacca di una manciata di pillole che provare davvero a cambiare la testa alle future generazioni. Nel Paese dei “buoni a nulla, ma capaci di tutto”, il telepopolo trova ciò che non sapeva neppure di dover cercare fino a quando qualcuno non gli suggerisce la domanda per servirgli la risposta. E dal tinello alla cabina elettorale, è un attimo. Allarme Ocse: il Ddl Sicurezza violerebbe le Convenzioni internazionali sui diritti umani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 settembre 2024 La proposta di legge sulla sicurezza, ora all’esame del Senato, ha suscitato profonde preoccupazioni a livello internazionale. Come già noto, l’Ocse, su richiesta della vicepresidente della commissione Giustizia del Senato, Ilaria Cucchi, ha lanciato un allarme particolarmente grave, sottolineando come la normativa in questione violerebbe le convenzioni internazionali sui diritti umani. Le critiche si concentrano soprattutto sulle condizioni di detenzione, sulla tutela dei diritti delle donne e sulla criminalizzazione della resistenza passiva. Il fatto che a compiere tali osservazioni sia l’organizzazione per lo sviluppo economico, non dovrebbe sorprendere. Se diventasse legge, l’Italia risulterebbe un Paese illiberale e pagherebbe un caro prezzo in termini di reputazione e investimenti. Attualmente, gli articoli 146 e 147 del Codice Penale garantiscono il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne incinte o con figli piccoli. Il nuovo disegno di legge, tuttavia, introdurrebbe un elemento di discrezionalità, subordinando tale rinvio a una valutazione del rischio di recidiva. Ciò significa che, se giudicata pericolosa, una madre potrebbe essere detenuta anche durante la gravidanza o nei primi mesi di vita del figlio. Questa modifica, secondo l’Ocse, erode gravemente la tutela dei diritti delle donne detenute e, soprattutto, compromette il superiore interesse del bambino, sancito dalla Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia. L’Ocse sottolinea inoltre come le Regole di Bangkok delle Nazioni Unite promuovano trattamenti specifici per le donne detenute, in particolare per quelle incinte o con figli piccoli, privilegiando misure alternative alla detenzione. La Regola 64, ad esempio, favorisce le sentenze non detentive, salvo casi eccezionali. La normativa italiana proposta, invece, sembra ignorare questi principi internazionali, non distinguendo tra la gravità del reato e il rischio di recidiva, e esponendo così tutte le madri detenute a un trattamento incoerente con l’interesse superiore del bambino. Un altro aspetto critico riguarda il diritto alla salute delle donne incinte detenute. Tale detenzione rappresenta già di per sé un grave rischio per la salute, come dimostrano i dati che evidenziano un aumento di nascite premature e di mortalità infantile tra le detenute. Le norme internazionali, come il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la Cedu, impongono agli Stati di tutelare il diritto alla vita e alla salute di tutte le persone, in particolare delle donne incinte. Il nuovo disegno di legge, tuttavia, non definisce chiaramente i criteri per valutare se rinviare o meno l’esecuzione della pena per una donna incinta, creando un vuoto normativo che rischia di portare a decisioni arbitrarie e di compromettere ulteriormente la salute delle detenute Un altro punto problematico del disegno di legge riguarda la gestione delle rivolte nelle carceri e nei centri di accoglienza. L’articolo 18 introduce sanzioni severe per chi promuove o organizza rivolte, equiparando però la resistenza passiva a una partecipazione attiva, punibile con pene detentive significative. Questa disposizione, secondo l’Ocse, è in contrasto con le Linee Guida Odihr e della Commissione di Venezia, che escludono la criminalizzazione automatica della resistenza passiva. La mancanza di una chiara distinzione tra resistenza pacifica e violenza rischia di limitare gravemente i diritti fondamentali dei detenuti, creando un clima di repressione e riduzione delle libertà civili all’interno delle strutture penitenziarie. L’Ocse sottolinea in modo particolare la vulnerabilità dei detenuti stranieri di fronte alle nuove norme. Le barriere linguistiche e culturali possono ostacolare la comprensione dei loro diritti, esponendoli al rischio di essere penalizzati per comportamenti che non sono in grado di spiegare adeguatamente. È fondamentale garantire che i detenuti stranieri abbiano accesso a interpreti e assistenza legale adeguata, al fine di tutelare i loro diritti e assicurare un trattamento equo. L’approvazione di questo disegno di legge avrebbe conseguenze negative anche sulla reputazione internazionale dell’Italia. Un Paese che viola le norme internazionali in materia di diritti umani rischia di essere isolato sulla scena internazionale e di perdere credibilità. L’Ocse ha espresso preoccupazione, ma anche altre organizzazioni internazionali hanno sottolineato le criticità del ddl sicurezza. È fondamentale che l’Italia si confermi come un Paese che rispetta i diritti umani. Il Senato, soprattutto la maggioranza, ha ora l’opportunità di dimostrare il proprio impegno in questa direzione. L’allarme lanciato dall’Ocse è un monito che il legislatore non può ignorare. Il Ddl Sicurezza lo dimostra: per il Governo il carcere è la panacea di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 27 settembre 2024 Tutti i provvedimenti inclusi nel Ddl Sicurezza sono legati da un filo conduttore: affrontare le questioni sociali con il sistema penale. Un approccio contestato anche dall’Osce, perché mina i principi della giustizia penale e lo stato di diritto. “Il più grande attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana”. Così Antigone ha definito il Ddl Sicurezza che la settimana scorsa è stato approvato dalla Camera dei Deputati per passare ora al Senato della Repubblica. Al suo interno sono presenti numerosi articoli che introducono nuove fattispecie penali, in alcuni casi con pene sproporzionate rispetto alla violazione commessa. Nuovi reati che hanno un unico filo conduttore, quello di colpire fenomeni sociali che generalmente richiedono invece ascolto, partecipazione, investimenti. Se anche il Senato dovesse approvare questo provvedimento, ci sarà il carcere per quei lavoratori che, per protestare contro i licenziamenti o contro condizioni di lavoro inadeguate, dovessero decidere di bloccare una strada davanti alla propria fabbrica. La stessa cosa potrebbe accadere a studenti che decidessero di far sentire così la propria voce per attirare l’attenzione su problematiche strutturali delle proprie scuole. E potrebbe accadere agli attivisti di alcune organizzazioni impegnate a sensibilizzare sui rischi del cambiamento climatico. Per tutti loro, la pena potrà arrivare fino a due anni. La possibilità di protestare viene meno anche in carcere (o in un centro di permanenza per il rimpatrio), laddove non obbedire agli ordini impartiti (anche quando questi siano illegittimi) o decidere pacificamente ad esempio di non rientrare in cella per far sentire la propria voce contro condizioni di detenzione spesso inadeguate e degradanti, potrà portare a una ulteriore pena da 2 a 8 anni di carcere. Si prevede peraltro l’applicazione del regime del 4-bis che, inizialmente pensato per reati di mafia e terrorismo, prevede l’esclusione dai benefici penitenziari. Il disegno di legge non riguarda solo la limitazione alla possibilità di protestare. Ad esempio l’occupazione di un immobile altrui (ma anche garage o terrazzi) diventa reato con una pena da due a sette anni. C’è poi una norma che probabilmente potrà avere un effetto opposto rispetto alla sicurezza cui il provvedimento fa riferimento, quella con cui si proibisce la possibilità di acquistare una scheda sim per il telefono cellulare alle persone straniere non dotate di permesso di soggiorno, aumentando così l’esclusione e l’atomizzazione dal contesto sociale di una categoria per certi versi già invisibile. Pure la norma che elimina la differibilità obbligatoria della pena per le donne incinte o per le donne con bambini al di sotto di un anno, ha il sapore della vendetta sociale. Si rivolge infatti verso una specifica categoria di persone (le donne rom implicate generalmente in piccoli furti), e non tiene in considerazione in alcun modo l’interesse ad una gravidanza sicura né alla salute del bambino, visto che nelle carceri servizi di ginecologia, ostetricia e pediatria sono presenti con il contagocce e non garantiscono un controllo quotidiano. *Responsabile comunicazione di Antigone Il ddl Sicurezza è roba da manettari, ma la sinistra non può ignorare l’ordine pubblico di Amedeo La Mattina linkiesta.it, 27 settembre 2024 Il governo allunga ancora il codice penale, con ventiquattro nuovi reati e aggravanti che intaseranno le carceri, perché questa è l’unica soluzione conosciuta dalla destra. Dall’altro lato però l’opposizione quando si parla di questi temi confonde il garantismo con l’ignavia e non propone nulla. Avremo un codice penale ancora più lungo. Altri ventiquattro reati e aggravanti che intaseranno le già affollate carceri italiane e le udienze giudiziarie. Criminalizzazione dei sit-in stradali e delle proteste davanti ai cantieri. Messa al bando della cannabis senza effetto psicotropo autorizzata e finanziata dalla Commissione (quindicimila i lavoratori di questo settore). Mano dura contro le rivolte carcerarie e la resistenza passiva. Il ddl Sicurezza, approvato alla Camera e ora all’esame del Senato, ha un sapore amaro: criminalizza gruppi di opposizione, al di là se siano minoritari e discutibili nelle loro finalità politiche. Il governo aveva debuttato al primo Consiglio dei ministri due anni fa con il giro di vite sui rave (risultati nulli), e ora celebra il secondo anniversario della vittoria elettorale con un altro provvedimento tutto legge e ordine e propagandistico, cosa che paga sempre in termine di consenso. Una mossa mediatica, il panpenalismo con cui si pensa di risolvere i problemi di ordine pubblico. Lo usano sempre le destre, ma anche le sinistre devono porsi il problema della richiesta (legittima) di sicurezza che ha penetrato un’opinione pubblica occidentale sempre più stanca e anziana. Non è casuale il nuovo reato di truffa: da due a sei anni di carcere a chi approfitta dell’età della vittima. Ma è sempre una rincorsa alle emergenze e agli episodi esaltati da alcuni programmi televisivi. È quindi diventa un’aggravante specifica per chi commette reati dentro o nelle vicinanze di una stazione ferroviaria e della metropolitana. Manette per le donne incinte o con neonati che borseggiano: il reato, per essere ancora più esplicito, è stato infatti dedicato nel titolo alle borseggiatrici rom. Si sentono già gli applausi dei pendolari che usano i mezzi pubblici, di quell’elettorato più indifeso e popolare. La sinistra che farebbe? Cosa propone in alternativa, in maniera organica? Giustissimo affermare che i tempi dei processi si allungano e di conseguenza aumentano le prescrizioni. Giustissimo fare presente che in Italia ci sono novantamila persone, condannate a pene inferiori a quattro anni e quindi sospese, che attendono una pena alternativa dagli oberati Tribunali di sorveglianza. Allora si corregga il tiro, ma senza voltarsi dall’altra parte. La sinistra e l’opposizione di qualunque sfumatura è opportuno che denuncino una politica manettara fatta di spot, che limita il dissenso, che non si preoccupa degli effetti che ricadono su chi (magistrati e polizia penitenziaria) deve, alla fine della giostra mediatica, farsene carico. Con quali risorse e strutture? Fanno bene a evidenziare l’antinomia tra la faccia cattiva per i piccoli reati e l’ipergarantismo per le truffe al fisco e all’Inps, per i reati contro la Pubblica amministrazione. L’opposizione potrebbe dire anche qualche sì, ad esempio all’arresto in flagranza di reato anche differito per chi aggredisce il personale sanitario. In ogni caso, chi di destra non è, culturalmente e politicamente, non può lasciare alla destra al governo la gestione di un sentimento popolare, non populista, di paura. Basta dare uno sguardo alle altre sinistre in giro per l’Europa e il mondo, alla stessa Kamala Harris che sta cercando di contendere questo terreno a Donald Trump, ma la candidata dei Democratici può permettersi di farlo con l’autorevolezza di chi ha guidato procure e forze dell’ordine: “Sono una ex procuratrice e attorney general - ha detto all’inizio della sua campagna elettorale - conosco i tipi come Trump”. Nordio: “Pronte le proposte su arresti e limiti al trojan” di Errico Novi Il Dubbio, 27 settembre 2024 Regole sui virus spia in linea con la Carta Custodia cautelare, confermate le novità. La scena è di tre giorni fa. Via Arenula: il guardasigilli Carlo Nordio riceve i vertici dell’Unione Camere penali. Emergono le ormai cristallizzate distanze sul carcere. Il ministro illustra i progetti del governo, legati tra l’altro a un relativamente lento processo di osmosi fra istituti di pena e comunità di reinserimento. L’associazione presieduta da Francesco Petrelli ripete quanto ricordato nella lunga estate di iniziative a sostegno dei detenuti, promosse innanzitutto per contrastare la scia di morte dei suicidi in cella: serve qualcosa in più, che produca effetti più immediati. Fin qui nulla di nuovo (purtroppo). Ma è nella seconda parte dell’ampio confronto, durato un’ora e mezza, che sono venuti fuori gli elementi di maggiore interesse. Li si potrebbe sintetizzare così: Nordio è fermamente intenzionato a intervenire, a breve, su custodia cautelare e intercettazioni, in particolare sui trojan. “Abbiamo in preparazione ulteriori riforme del codice di rito”, ha assicurato il titolare della Giustizia. “L’intervento sulle misure cautelari personali avverrà anche in un’ottica di decongestione del sistema carcerario”. È la conferma che i propositi vagheggiati nei mesi addietro non dovrebbero perdersi con l’avanzare della stagione fredda. Non solo per le novità sui presupposti della custodia in carcere (e ai domiciliari) ma anche rispetto alla “limitazione delle intercettazioni”. Il guardasigilli conferma insomma che la calendarizzazione della legge Zanettin sulla soglia dei 45 giorni è stata decisa, mercoledì scorso, dalla Capigruppo di Palazzo Madama perché si vuole davvero arrivare al traguardo, e non semplicemente per arginare l’irritazione del presidente dei senatori forzisti Maurizio Gasparri. Il centrodestra - inclusa FdI che aveva manifestato perplessità - si è effettivamente deciso ad approvare la norma messa a punto da Pierantonio Zanettin, capogruppo Giustizia degli azzurri, secondo cui le Procure, trascorso il primo mese e mezzo, possono ottenere ulteriori proroghe delle intercettazioni solo a condizione che, dagli “ascolti” già effettuati, siano emersi “elementi specifici e concreti”. Sembra un intervento di “fine tuning”, di micro- manutenzione normativa. In realtà la correzione potrebbe contribuire ad arginare il metodo dello “strascico”, cioè un uso delle intercettazioni talmente prolungato da tradursi in una sorta di controllo permanente effettivo dei pm sulla vita pubblica, condotto in modo da intercettare prima o poi comportamenti che possano giustificare le pretese dell’accusa, e da squilibrare la giustizia penale, oltre a gravarla di costi notevoli. E ancora, nel colloquio con l’Unione Camere penali, il ministro della Giustizia ha assicurato anche di voler tenere fede all’impegno assunto, sulla questione del trojan, con i senatori di maggioranza: proporre in tempi brevi un disegno di legge governativo che disciplini il “captatore informatico” con l’obiettivo dichiarato di “tutelare il domicilio digitale e in particolare le comunicazioni”. Si tratterà dunque di modifiche orientate a garantire con maggiore effettività, anche nella giustizia penale, il principi di inviolabilità delle comunicazioni private sancito all’articolo 15 della Costituzione. Nordio insomma ha approfittato del clima cordiale e di “condivisione” - in termini di competenza tecnico- giuridica - che ha caratterizzato l’incontro con l’Ucpi per comunicare in maniera più esplicita i progetti sui quali via Arenula è al lavoro. È anche il segnale che l’orizzonte del ministro è, come già avvenuto in passato, tutt’altro che incompatibile con le idee di Forza Italia sulla giustizia. Il che, è evidente, non basta a garantire la determinazione e la compattezza del centrodestra. Sul trojan, per esempio, la prospettiva di Fratelli d’Italia è diversa. Non si può escludere che le proposte di Nordio si infrangano sul muro delle incomprensioni politiche più generali ancora non risolte nell’alleanza di governo. Sono i prodromi di quell’autunno caldo, e prolungato, che si profila con sempre maggiore chiarezza per la politica giudiziaria della maggioranza. Il messaggio di Nordio al congresso dell’AIGA - Va anche detto che l’incontro fra Nordio e l’Unione Camere penali ribadisce la particolare sintonia del ministro con l’avvocatura. Se n’è avuta prova nelle tante questioni affrontate, e in buona pare risolte, attraverso l’interlocuzione con il Cnf. Se n’è avuta ulteriore dimostrazione ieri a Napoli, nella giornata inaugurale del congresso nazionale dell’Aiga, l’Associazione italiana giovani avvocati. Il guardasigilli ha salutato le assise con un messaggio in cui ha ringraziato la rappresentanza attualmente presieduta da Carlo Foglieni “per l’intenso lavoro portato avanti, con idee e proposte concrete che vanno nella direzione di una professione forense in linea con l’evoluzione della società e del mercato, e sempre più attrattiva per i giovani”. Lo stesso Foglieni, nell’intervento di apertura pronunciato a Castel Capuano, ha puntato su un’Aiga capace di “accompagnare i giovani avvocati e avvocate verso un modo di svolgere la professione più al passo con i tempi e incline alla domanda dei servizi legali: un avvocato internazionale, europeo, digitale, qualificato e specializzato che, tramite lo strumento della rete tra professionisti, sappia conquistare vecchi e nuovi spazi di mercato, a partire da quelli legati al mondo della consulenza e dell’assistenza stragiudiziale”. Arresti ma in lunga attesa: buco della riforma Nordio di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2024 Ogni mattina, un indagato che è stato interrogato da un giudice, si sveglia e sa che quello potrebbe essere il giorno del suo arresto. Oppure no. Succede da una settimana all’amministratore unico della società pubblica umbra di rifiuti “So.Ge.Pu. Spa”, Cristian Goracci. Lui, con altri due coindagati in un’inchiesta per corruzione della Procura di Perugia, vive con una spada di Damocle sulla testa. Finirà in carcere oppure no? Quello che lo riguarda è, infatti, uno dei primi casi di “contraddittorio preventivo”. Si tratta della norma, prevista dalla riforma Nordio, in base alla quale in caso di pericolo di reiterazione del reato ed esclusi alcuni delitti, l’indagato - sul quale pende una richiesta di misura cautelare - deve essere sentito prima della decisione del giudice. È successo a Goracci di essere interrogato, ma anche ad altri. Ieri non c’era la decisione. E questo perché la norma appena varata manca di un termine entro il quale il Tribunale è obbligato ad esprimersi. Non c’è un limite. Come invece era previsto, ad esempio, dall’articolo 294 del codice di procedura penale: qui si stabiliva che, dopo la misura cautelare, il giudice doveva sentire l’arrestato non oltre 5 giorni dall’inizio dell’esecuzione della custodia. Ora con il nuovo corso del governo Meloni tutto è ribaltato: in determinate situazioni viene prima l’interrogatorio e poi l’eventuale arresto. Ovviamente ciò non è previsto per una serie di reati (mafia, estorsioni, terrorismo, rapine, violenze sessuali, stalking) o nel caso in cui vi sia pericolo di fuga o di inquinamento probatorio: qui l’arresto è ancora a sorpresa. Non lo sarà più però per altri delitti, come la corruzione (sempre qualora vi sia il solo pericolo di reiterazione del reato). Che poi sono le tipiche inchieste che coinvolgono colletti bianchi e politici. C’è dunque il caso di Goracci e degli altri indagati dell’inchiesta perugina. Il 5 settembre si sono visti recapitare un invito a presentarsi all’interrogatorio dal giudice Natalia Giubilei. Goracci “soggetto incaricato di pubblico servizio, in quanto amministratore unico della società ‘So.Ge.Pu. Spa’” è accusato, con altri, di corruzione. Secondo i pm - per citare un capo di imputazione - “riceveva indebitamente” 750 mila euro circa da Antonio Granieri, “legale rappresentante della società privata Ece srl, esercente l’attività di ‘recupero per il riciclaggio di rifiuti solidi e biomassè, per la messa a disposizione delle proprie funzioni”. Il denaro sarebbe stato corrisposto a Goracci tramite consulenze per i pm “mai effettuate” in favore della Ece srl. In questo “accordo corruttivo”, secondo i pm, Goracci “agevolava la partecipazione di Ece srl” in un bando di gara, vinto poi da “Sog. Eco. Srl” (51 per cento Ece srl, 49 per cento So.Ge.Pu Spa). L’indagato per difendersi da queste accuse (per le quali è stato chiesto il suo arresto) era stato convocato a rendere interrogatorio il 19 settembre. Da quel giorno attende la decisione del giudice. Una misura cautelare, essendo un provvedimento importante che limita la libertà delle persone, non si può scrivere in pochi giorni perché i giudici devono studiare, spesso, centinaia di atti. Sono decisioni importanti e delicate. E così la norma voluta da Nordio ha due effetti: da una parte aumenta il rischio del pericolo di fuga, come sottolineato da molte toghe; dall’altra, per i tribunali, si traduce in un ulteriore aggravio di lavoro, su un sistema già ingolfato da anni. Con gli indagati che ora attendono, giorno dopo giorno, senza neanche l’esistenza d’un termine stabilito, il loro destino. Risiko alla Consulta: l’ipotesi di una Corte più “conservatrice” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 settembre 2024 A dicembre il centrodestra potrebbe eleggere 3 nuovi giudici. Ma non è escluso un “incastro” con il Csm. E molte questioni di legittimità pendenti hanno valenza politica: dall’abuso d’ufficio alle coppie omogenitoriali. Il Tribunale di Firenze ha sollevato la questione di legittimità costituzionale in relazione al ddl penale di Nordio, e in particolare all’abrogazione dell’articolo 323 c.p., ossia l’abuso di ufficio. La domanda che sorge quasi spontanea è la seguente: quale tipo di Corte costituzionale, con quanti e quali giudici, si pronuncerà sulla questione? La Consulta sarà chiamata nei prossimi mesi a decidere anche su altre questioni molto importanti: l’accesso alla fecondazione assistita per le donne single, i figli di due madri “cancellati” da alcune Procure dopo la circolare del gennaio 2023 del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, e le note prefettizie relative a tutti i casi di coppie omogenitoriali, il decreto Caivano in tema di processo penale minorile e di messa alla prova, i ricorsi delle Regioni Puglia, Campania, Toscana e Sardegna contro la legge Calderoli sull’autonomia differenziata e la questione sul blocco della rivalutazione delle pensioni, avvenuto su iniziativa della Corte dei Conti Toscana. Come ha spiegato il professore, e avvocato, Vittorio Manes in un’intervista al Dubbio, “la Corte costituzionale è un organo tecnico, ma a composizione mista tecnico-politica: sarebbe ingenuo pensare che le valutazioni politiche non entrino affatto nel giudizio, ma sarebbe altrettanto azzardato, e forse ingeneroso, pensare che queste assumano un peso dirimente”. Non è dunque del tutto inopportuno chiedersi che orientamento prenderanno i nuovi giudici rispetto a temi politicamente divisivi. Come è noto, da quasi undici mesi la Camera e il Senato continuano a rimandare l’elezione di un nuovo giudice della Consulta, essendosi conclusi l’11 novembre 2023 i nove anni (suggellati dall’elezione a presidente) del mandato di Silvana Sciarra, eletta nel 2014 da un Parlamento in cui fu determinante l’indicazione di Pd e M5S. Il 24 settembre le attuali Camere si sono riunite per la settima volta in seduta comune con all’ordine del giorno l’elezione del nuovo giudice costituzionale, ma vi è stata l’ennesima fumata nera. Eppure il 24 luglio era stato lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella a parlare di “vulnus alla Costituzione” rispetto alla mancata elezione del quindicesimo giudice. Il Parlamento ha fatto finta di non ascoltarlo. Lo stesso attuale presidente della Consulta Augusto Barbera, in una intervista al Sole-24 Ore, aveva dichiarato: “Sul punto mi sento di esortare sia i gruppi di maggioranza, ma anche quelli di opposizione, a procedere all’elezione del giudice mancante sin da adesso, evitando di cedere alla tentazione di un’impropria attesa per un inammissibile spoil system su organi di garanzia”. La legge, inoltre, prevede chiaramente che i giudici costituzionali con mandato scaduto siano sostituiti entro un mese in modo da non pregiudicare il buon andamento dei lavori di Piazza del Quirinale. Un obbligo costantemente disatteso, con situazioni di stallo che in alcuni casi hanno raggiunto il parossismo. Il motivo dei ritardi ha a che fare con gli equilibri politici e con le logiche di spartizione tra i partiti. Teniamo anche presente che a dicembre scadranno i mandati di altri tre giudici: Giulio Prosperetti, eletto dal Parlamento in seduta comune su indicazione di Area popolare, quindi lo stesso Augusto Barbera e Franco Modugno, sostenuti rispettivamente, com’è noto, dal Partito democratico e dal Movimento 5 Stelle. Da gennaio 2025 i giudici da eleggere insomma sarebbero addirittura quattro, non più uno solo, e questo dovrebbe facilitare le trattative tra i partiti. La Costituzione prevede che i componenti della Consulta “spettanti” al Parlamento siano eletti con voto segreto e con la maggioranza dei due terzi dei deputati e dei senatori riuniti insieme. Questa soglia corrisponde oggi a 403 parlamentari sul totale dei 605 tra deputati e senatori. Se per tre votazioni il Parlamento in seduta comune non riesce a eleggere nessun giudice la soglia scende a tre quinti, ossia ad almeno 363 parlamentari. Come ha ricordato qualche giorno fa sulla Stampa l’ex responsabile della Comunicazione della Consulta Donatella Stasio, con i cambi di casacca di questi ultimi giorni, la maggioranza potrebbe anche contare su quota 363, ma il voto segreto non dà garanzie. A gennaio 2024 Giorgia Meloni aveva rivendicato la sua prerogativa di dare le “carte” nella partita della Corte costituzionale, ma ora tutti i giochi sono aperti. La prospettiva più probabile è che la maggioranza riempia tre caselle vuote con una lasciata all’opposizione. In via subordinata, potrebbe entrare nella partita l’elezione (con la maggioranza dei tre quinti dei componenti l’assemblea) del nuovo membro del Consiglio superiore della magistratura, qualora la consigliera laica Rosanna Natoli, da poco sospesa, decidesse di dimettersi. In passato nello stesso giorno il Parlamento ha eletto sia i giudici costituzionali che i membri laici del Csm, quindi non sarebbe assurdo che un accordo tra le parti tenesse insieme tutto. Certo l’ipotesi della marcia indietro di Natoli al momento sembra lontana, visto che l’avvocata siciliana è determinata a non mollare la presa. Tuttavia, qualora accadesse ciò che al momento appare improbabile, maggioranza e opposizione potrebbero sedersi al tavolo e discutere di cinque nomi, benché in teoria l’elezione di tutte le posizioni dovrebbe rispettare criteri di preparazione e cultura giuridica e non certo di appartenenza politica. Se la maggioranza di centrodestra riuscisse a eleggere tre giudici su quattro, e considerando anche che alla Consulta c’è Luca Antonini, eletto dal Parlamento in quota Lega, si potrebbe ipotizzare una certa sensibilità della Corte costituzionale verso posizioni più vicine a quelle del governo. Toccherà, insomma, monitorare con attenzione. I giudici nazionali possono disattendere norme costituzionali che contraddicono il diritto europeo di Monica Musso Il Dubbio, 27 settembre 2024 La decisione della Corte di Giustizia Ue: il quadro giuridico dell’Unione Europea prevale sull’ordinamento statale. “Il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa di uno Stato membro in base alla quale gli organi giurisdizionali nazionali di diritto comune non possono, a pena di procedimenti disciplinari a carico dei loro membri, disapplicare d’ufficio decisioni della Corte costituzionale di tale Stato membro. Ciò è valido anche se ritengono, alla luce dell’interpretazione fornita dalla Corte, che tali decisioni violino i diritti che i singoli traggono dalla direttiva 89/391”. A stabilirlo è la Corte di Giustizia Ue, che si è pronunciata su una causa sollevata dai tribunali della Romania. La vicenda riguarda il decesso di un elettricista per elettrocuzione. Dopo l’incidente, è stato avviato un procedimento amministrativo contro il datore di lavoro. Parallelamente, è stato promosso un procedimento penale per negligenza e omicidio colposo a carico del caposquadra. Anche i familiari della vittima hanno partecipato al procedimento penale. Il giudice amministrativo ha stabilito che, nel caso specifico, non si trattava di un “infortunio sul lavoro” e ha annullato le sanzioni amministrative inflitte al datore di lavoro. Secondo una normativa nazionale, come interpretata dalla Corte costituzionale rumena, questa decisione impedisce al giudice penale di rivalutare se l’incidente costituisca un infortunio sul lavoro. In questo contesto, la Corte d’appello di Bra?ov ha sospeso il procedimento e ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: se il principio della protezione dei lavoratori e il principio della responsabilità del datore di lavoro, sanciti dall’articolo 1, paragrafi 1 e 2, e dall’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 89/391, ostino a una normativa come quella applicabile nel procedimento principale. Questo è stato interpretato da una decisione del giudice costituzionale nazionale, secondo cui un giudice amministrativo può, su istanza del datore di lavoro e in contraddittorio solo con l’autorità amministrativa statale, decidere in via definitiva che un evento non può essere qualificato come infortunio sul lavoro ai sensi della direttiva. Tale decisione può impedire al giudice penale, sia adito dal pubblico ministero con un’azione penale contro il lavoratore responsabile, sia dalla parte civile con un’azione civile contro il datore di lavoro e il suo dipendente preposto, di pronunciare una decisione diversa riguardo alla qualificazione dell’evento come infortunio sul lavoro. Questa qualificazione integra un elemento costitutivo dei reati oggetto del procedimento penale. In assenza di tale qualificazione, non è possibile ravvisare né responsabilità penale né responsabilità civile accanto a quella penale, tenendo conto dell’autorità di giudicato della sentenza amministrativa definitiva. In caso di risposta affermativa alla prima questione, la Corte ha chiesto se il principio del primato del diritto dell’Unione debba essere interpretato nel senso che esso osta a una norma o a una prassi nazionale. Questa norma vincola i giudici nazionali di diritto comune alle decisioni della Corte costituzionale e non consente loro, per questo motivo, di disapplicare d’ufficio la giurisprudenza risultante da tali decisioni. Questo vale anche se ritengono, alla luce di una sentenza della Corte di giustizia, che tale giurisprudenza sia contraria agli articoli 1, paragrafi 1 e 2, e 5, paragrafo 1, della direttiva 89/391. Nella sua sentenza, la Corte di Giustizia ha stabilito che il diritto dell’Unione osta alla legge di uno Stato membro che, secondo la sua Corte costituzionale, rende la sentenza di un tribunale amministrativo definitiva per il tribunale penale. Questo è valido quando tale legge impedisca ai familiari della vittima di essere ascoltati. Il diritto dell’Unione mira a proteggere la sicurezza dei lavoratori e obbliga il datore di lavoro a garantire un ambiente di lavoro sicuro. Spetta alla competenza nazionale determinare le procedure per far valere la responsabilità del datore di lavoro in caso di inadempimento. Tuttavia, tali procedure non possono ostacolare l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione. La Corte ha ricordato che, nei procedimenti giudiziari, il diritto a un ricorso effettivo include il diritto di essere ascoltato. Se un organo giurisdizionale adotta una decisione sulla responsabilità civile senza consentire alle parti di presentare i propri argomenti, tale diritto è violato. A questo proposito, la Corte afferma che i giudici nazionali devono potersi astenere dal seguire una decisione della loro corte costituzionale qualora tale decisione sia in contrasto con il diritto dell’Unione. In tal caso, essi non possono essere oggetto di sanzioni disciplinari. Niente domiciliari a chi ha commesso evasione anche se la pena inflitta è inferiore ai tre anni di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2024 Il precedente è ostativo alla concessione della misura meno coercitiva del carcere anche se di regola l’applicazione della detenzione cautelare è esclusa per pene che prevedibilmente non saranno superiori ai tre anni. Il divieto di concedere i domiciliari, a chi nei 5 anni precedenti abbia commesso il reato di evasione, prevale sulla preclusione di applicare la misura cautelare detentiva anche se il giudice ritenga che, all’esito del giudizio, la pena irrogata in concreto non supererà i tre anni. Ma il divieto opera anche quando sia già intervenuta condanna inferiore a tale limite. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 35869/2024 - ha perciò respinto il ricorso dell’imputato che. all’esito dell’appello, era stato condannato a poco più di due anni per spaccio, derubricato in fattispecie di lieve entità dagli stessi giudici di secondo grado, ma si era comunque visto negare la detenzione domiciliare per aver commesso un precedente reato di evasione meno di 5 anni prima dell’ordinanza avversata ora in Cassazione e da questa confermata. Il difensore sosteneva nel ricorso di legittimità che il divieto di concedere all’evaso la misura meno afflittiva fosse recessivo di fronte alla pena inflitta per fattispecie di lieve entità in misura inferiore ai tre anni. Al contrario la Cassazione afferma che il divieto di concessione dei domiciliari, posto dal comma 5-bis dell’articolo 284 del Codice di procedura penale, supera per specialità l’altro opposto divieto recato dal comma 2-bis dell’articolo 275 dello stesso Codice, che non consente al giudice di applicare la misura cautelare coercitiva del carcere in caso di pena inferiore a 3 anni concretamente comminata o anche solo prevista con giudizio ex ante da parte del giudice. Il divieto di concedere i domiciliari a chi si sia macchiato del reato di evasione nel quinquennio precedente è superabile solo se il giudice ritenga che il fatto sia di lieve entità e che la misura risulti comunque adeguata ed eseguibile correttamente da parte dell’imputato. In assenza di tale giudizio prognostico favorevole, fondato su lieve entità e adeguatezza della misura, il divieto è assoluto e non recede di fronte all’opposto divieto di stabilire la misura personale detentiva per pene inferiori ai tre anni. Nel caso deciso nessuna prognosi favorevole poteva essere affermata dal giudice di appello sull’adeguatezza della misura cautelare degli arresti domiciliari - in prima battuta concessi - in quanto l’imputato era stato colto a spacciare cocaina dalla propria abitazione. Da cui l’inasprimento della cautela da arresti domiciliari a detenzione carceraria. Friuli Venezia Giulia. Sanità precaria nelle carceri di Lara Boccalon rainews.it, 27 settembre 2024 L’esperto penitenziarista Sbriglia denuncia una carenza di assistenza per i detenuti, un problema che, assieme al sovraffollamento, aumenta la tensione nei penitenziari. Denunce analoghe da associazioni mediche e del personale carcerario. La denuncia arriva dal presidente onorario del Centro europeo di studi penitenziari e futuro nuovo Garante regionale per i diritti della persona Enrico Sbriglia: l’assistenza sanitaria in carcere è inadeguata. Pochi medici, troppi detenuti in attesa di visita specialistica o intervento chirurgico, costretti a ricorrere al pronto soccorso e alla guardia medica in assenza di medici. A chiedere aiuto al Garante sono le stesse direzioni delle carceri. Un problema non nuovo, nato una quindicina di anni fa, quando la salute delle persone detenute in tutta Italia è passata di competenza al servizio sanitario nazionale con l’organizzazione delle cure in capo alle regioni e alle aziende sanitarie - ricorda Sbriglia. Assieme al sovraffollamento, è una delle cause principali delle tensioni emerse negli ultimi tempi nei penitenziari. Un clima che desta preoccupazione, oltre al fatto che tale situazione mette seriamente a rischio sul fronte della salute e sul piano della sicurezza, gli stessi operatori sanitari e di polizia. Il problema è in peggioramento in tutta Italia dopo il Covid e lamentano difficoltà anche la Società Italiana di Medicina, Sanità Penitenziaria e la Fimmg. Lo stesso il referente nazionale per la regione del sindacato della polizia penitenziaria Sappe Massimo Russo, il quale segnala personale costretto, a causa della carenza di medici, a organizzare scorte per frequenti trasferimenti di detenuti in ambulanza al pronto soccorso anche per problemi ordinari. Le situazioni più difficili a Udine, Pordenone e Gorizia, il rischio maggiore di notte. A Trieste tempo fa si sono dovute scortare contemporaneamente 4 ambulanze per altrettante urgenze notturne, a Udine decine i detenuti trasferiti al pronto soccorso in codice bianco e giallo solo nell’ultimo mese - rileva Russo. Il garante per i diritti della persona di Udine Andrea Sandra ricorda poi il problema dei malati psichiatrici che andrebbero gestiti nelle strutture dedicate. Alle direzioni generali delle tre aziende sanitarie l’Associazione Luca Coscioni ha inviato una diffida ad adempiere al proprio compito stabilito dalla legge: garantire la tutela del diritto alla salute dei detenuti. Seppure perfettibile, la norma che ha conferito la competenza alle regioni esiste e va rispettata, osserva il Garante regionale Sbriglia che annuncia l’intenzione di approfondire le disfunzioni del sistema per tentare di risolverle. Lombardia. Una ricerca sulle misure alternative al carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 27 settembre 2024 Perché detenuti che hanno tutti i requisiti per ottenere misure alternative, in Italia continuano a rimanere in carcere? Intende dare una risposta a questa domanda il progetto “L’accesso alle misure alternative: una ricerca sulle persone detenute negli istituti penitenziari italiani” finanziato dal ministero dell’Università e della Ricerca e dall’Unione Europea nell’ambito del piano “Next Generation EU”. Lo studio è oggetto di un accordo operativo sottoscritto dall’Amministrazione Penitenziaria e dalle Unità di ricerca delle Università degli Studi di Milano Bicocca, dell’Università Commerciale Luigi Bocconi e dell’Università degli Studi di Brescia. Secondo quanto convenuto nel protocollo, i ricercatori potranno accedere e utilizzare, nel rispetto delle norme sulla privacy, i dati quantitativi e qualitativi necessari per effettuare la ricerca relativi alla popolazione penitenziaria della Lombardia, campione ritenuto rappresentativo dello stato di detenzione in Italia. Previste anche interviste ai detenuti previo consenso degli stessi. Il protocollo è stato firmato da Giovanni Russo, Capo dell’Amministrazione penitenziaria, dalla principal investigator Claudia Pecorella per l’Università di Milano Bicocca, dalle associate investigator Melissa Miedico e Luisa Ravagnani rispettivamente per le Unità di ricerca delle Università Bocconi e di Brescia. Roma. Regina Coeli brucia. La protesta dei detenuti nel carcere dei suicidi di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 settembre 2024 La Garante Valentina Calderone: “Il reato di rivolta inserito nel ddl Sicurezza non ha alcun potere deterrente”. È il carcere dei suicidi, il primo in Italia nella triste classifica dei detenuti morti dietro le sbarre stilata da Ristretti Orizzonti: 15 negli ultimi quattro anni. Il carcere dei “tre scalini”, come viene chiamato da generazioni di romani, nella notte tra mercoledì e giovedì ha offerto agli abitanti di Trastevere, rione dove è ubicato in un ex convento seicentesco, lo “spettacolo” delle fiamme che uscivano dal tetto. Non è la prima volta che i detenuti per protesta appiccano il fuoco alle suppellettili; era accaduto anche un mese fa. Ma questa volta i disordini hanno prodotto - stando a quanto riportano i sindacati della polizia penitenziaria - “ingenti danni” alla struttura, a cominciare dal tetto, che sarebbe stato sfondato ancor prima che le fiamme divampassero, lasciando forti dubbi sull’attuale agibilità dell’ala. La protesta è scoppiata nell’Ottava sezione, di solito tra le più tranquille perché è riservata ai cosiddetti “protetti” (sex offender, collaboratori di giustizia, ex appartenenti alle forze dell’ordine), ma sovraffollata come tutte le altre. Secondo la Uilpa penitenziaria, “non ci sarebbero stati scontri fisici. Un agente sarebbe stato colpito da un leggero malore, probabilmente per l’inalazione di fumi sprigionati dagli incendi appiccati dai detenuti, mentre non ci sarebbero feriti o contusi”. Eppure la frequenza con la quale recentemente si registrano questo tipo di proteste un po’ in tutte le prigioni italiane, compresi gli istituti per minori, fa riflettere. C’è un problema di sovraffollamento, questo è certo: nel carcere più antico d’Italia, quello dove le SS segregarono antifascisti ed ebrei, oggi sono stipati 1.200 detenuti - di cui una gran parte tossicodipendenti, malati psichici e homeless - nei 626 posti disponibili. E la composizione dei soggetti reclusi, appartenenti a differenti e talvolta confliggenti comunità etniche, aumenta le difficoltà di polizia e operatori nel prevenire i disordini attraverso il dialogo. Sempre che lo si voglia. Anche per questo gli agenti insistono sulla necessità impellente di adeguare l’organico ai reali fabbisogni. Tanto più - va detto - se la legge sulla tortura, contestata dai sindacati autonomi, funge da argine alle reazioni violente e ai metodi “spicci” con cui sono state talvolta sedate le sommosse nel passato. Proprio per questo il governo Meloni ha fortemente voluto il nuovo reato di “rivolta”, inserito nel ddl Sicurezza appena approdato al Senato dopo l’ok della Camera. Una nuova fattispecie che punisce con la reclusione da uno a 5 anni la resistenza di più persone - anche passiva - all’esecuzione degli ordini impartiti, sia in carcere che nei Cpr e negli Ipm. La Garante dei detenuti di Roma, Valentina Calderone, ha denunciato ieri mattina di non aver potuto accedere alla sezione mentre gli agenti in tenuta antisommossa intervenivano, durante la notte, per ristabilirvi l’ordine. In ogni caso, afferma, “a me pare che quanto avvenuto sia la prova evidente di come inasprire le pene e introdurre il reato della cosiddetta rivolta passiva non avrà alcuna conseguenza positiva sulle tensioni all’interno delle carceri. Introdurre nuove fattispecie di reato non ha alcun potere deterrente”. Piuttosto, Calderone esorta ad “affrontare la questione seriamente” perché “non si può più ignorare che episodi come questi siano la conseguenza di una condizione di vita assolutamente insostenibile per migliaia di persone detenute”. La pensa così anche Stefano Anastasia, a capo dell’organo di garanzia dei diritti dei detenuti del Lazio: “Il problema è di carattere generale - dice - di un sistema che ha perso la bussola, in cui i detenuti evidentemente non hanno più fiducia rispetto ai loro percorsi detentivi, al fatto che, partecipando all’offerta rieducativa, possano avere una prospettiva di reinserimento. Qualsiasi occasione anche futile porta subito quindi alla protesta, ai danneggiamenti, agli incendi, ai materassi bruciati. Che poi finisce per essere l’unico modo con cui fuori dal carcere ci si accorge di chi vi vive dentro”. Parole che quasi certamente non troveranno orecchie nell’esecutivo. Il quale, alla tragica condizione dei detenuti stipati e abbandonati, ha trovato un’unica soluzione: la recente nomina di Marco Doglio a neo commissario per l’edilizia penitenziaria. Da super esperto di infrastrutture e reti, Doglio avrà un compito dispendioso quanto inutile: costruire nuove carceri mentre il numero di reclusi aumenta di pari passo con l’iper produzione di nuovi reati. Roma. Le proteste a Regina Coeli rivelano le terribili condizioni dei detenuti di Alessandro Villari Il Foglio, 27 settembre 2024 “Le celle sono piccolissime e ospitano due o tre persone su un unico letto a castello. Il wc e il lavandino si trovano in una piccola stanza adiacente senza intimità. Le finestre sono più piccole che altre sezioni e dotate di celosie, il che non consente all’aria di circolare e riduce l’ingresso della luce naturale. Solo le celle del terzo piano sono dotate di doccia. In questi spazi così ristretti, le persone trascorrono 23 ore al giorno. A causa del sovraffollamento nel secondo e nel terzo piano della sezione le aule ricreative sono state trasformate in celle. Le condizioni igienico sanitarie della sezione sono pessime”. Le rivolte nelle carceri italiane sono però il segno di un profondo disagio e della terribile inumanità in cui sono costretti a vivere i detenuti. I casi di suicidio sono a oggi 72 e niente lascia presagire che possano fermarsi. Le fiamme del carcere di Regina Coeli hanno illuminato la notte. Tutto è avvenuto tra le 21 e la mezzanotte del 25 settembre. Secondo le prime ricostruzioni, alcuni detenuti dell’ottava sezione della casa circondariale di Roma si sarebbero opposti all’ordine di rientrare nelle loro celle e avrebbero incendiato dei materassi, fatto esplodere delle bombolette dei fornelli da campeggio e danneggiato alcune celle. La protesta è stata sedata dagli agenti dopo circa tre ore. “Al momento non si segnalano feriti”, dice il Segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria Gennarino De Fazio che premette che non ci sono stati neanche scontri fisici. Solo un agente “sarebbe stato colpito da un leggero malore, probabilmente per l’inalazione di fumi sprigionati dagli incendi appiccati dai detenuti, mentre non ci sarebbero feriti o contusi”. Ci sono stati invece ingenti danni all’ottava sezione che conta all’incirca un centinaio di detenuti. Per mettere fine alla protesta sono arrivati agenti anche da altre carceri, ma c’è una persona che non è potuta entrare a Regina Coeli: la garante dei detenuti di Roma Valentina Calderone. Su Instagram si sfoga in questo modo: “Non mi hanno fatto entrare, nonostante la mia insistenza sono dovuta rimanere fuori dalla prima rotonda. Mi è stato chiesto di andarmene, più di una volta. Quindi mi sono seduta su un gradino a scrivere queste righe, mentre medici e infermieri sono andati a fare il giro in cella nell’ottava sezione, che mi dicono essere devastata”. Gli agenti le hanno spiegato che non poteva entrare per motivi di sicurezza, ma lei scrive: “La sicurezza di chi? Che domanda stupida. E quindi sono stata su quello scalino, al margine di qualcosa che non ho potuto vedere, solo in minima parte percepire. E non mi è piaciuto guardare sfilare agenti in antisommossa che uscivano, infermieri in camice verde che entravano, e rimanere solo a immaginare gli uomini rinchiusi lì dentro”. Meno di dieci giorni fa, si era suicidata la terza persona detenuta da inizio anno nel carcere romano. Anche lui, come le due precedenti, si trovava nella settima sezione. La settima sezione è allo stesso tempo una sezione di ingresso, di transito, disciplinare, di isolamento sanitario. Le persone qui recluse restano in cella per 23 ore al giorno in una condizione che di dignitoso non ha nulla. Questa la situazione descritta dall’osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione, così come emersa durante una visita avvenuta a febbraio scorso: “Le celle sono piccolissime e ospitano due o tre persone su un unico letto a castello. Il wc e il lavandino si trovano in una piccola stanza adiacente senza intimità. Le finestre sono più piccole che altre sezioni e dotate di celosie, il che non consente all’aria di circolare e riduce l’ingresso della luce naturale. Solo le celle del terzo piano sono dotate di doccia. In questi spazi così ristretti, le persone trascorrono 23 ore al giorno. A causa del sovraffollamento nel secondo e nel terzo piano della sezione le aule ricreative sono state trasformate in celle. Le condizioni igienico sanitarie della sezione sono pessime”. Anche la garante Calderone pone l’attenzione sull’affollamento della struttura. “628 posti disponibili, 1170 persone che si contendono un po’ di spazio”, scrive sui social. Anche De Fazio della Uilpa sostiene che “non si può continuare così” e chiede al governo di intervenire, non solo “per deflazionare la densità detentiva”, ma anche per “potenziare la Polizia penitenziaria, garantire l’assistenza sanitaria e psichiatrica, nonché per reingegnerizzare il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e riorganizzare il corpo di Polizia penitenziaria”. I detenuti sono troppi e il personale è troppo poco. Il carcere di Trastevere ha un sovraffollamento del 184 per cento, ma allo stesso tempo conta un numero di addetti di polizia insufficiente: gli agenti sono 350, “mentre ne servirebbero 709” dice De Fazio, che sottolinea come “di sera quelli impiegati sono normalmente meno di 20 in totale”. Il problema della mancanza di personale riguarda tutta Italia: servirebbero 18.000 agenti in più. Ma il problema è proprio l’intera gestione del sistema carcerario italiano: “Strutture fatiscenti, dotazioni inadeguate, carenze nell’assistenza sanitaria e psichiatrica e approssimazione organizzativa e il quadro che ne emerge è autodescrittivamente desolante. Gli operatori sono esposti ad aggressioni continue (oltre 2.700 nell’anno) e sottoposti a turnazioni massacranti con la compressione dei più elementari diritti anche di rango costituzionale. Non potrà andare sempre così”. L’aumento delle proteste e la mancanza di personale preoccupa anche il sindacato Sappe che, per bocca del segretario generale per il Lazio Maurizio Somma, protesta “con veemenza per una situazione esplosiva che era nota ai vertici dell’Amministrazione penitenziaria nazionale e regionale ma rispetto alla quale nessun provvedimento era stato assunto. Chiediamo un sopralluogo tecnico da parte del Prap e una visita ispettiva da parte dell’Asl per valutarne l’idoneità sotto il profilo dell’igiene e della sicurezza dei luoghi di lavoro”. A inizio settembre, il presidente della regione Lazio Francesco Rocca, espressione del centrodestra, aveva visitato la struttura e riconosciuto che ci sono molti problemi, dal sovraffollamento alla carenza di personale. Le condizioni pessime avevano fatto dire al governatore che “Regina Coeli dovrebbe essere chiusa ma, vista la carenza di posti e in questa fase di riorganizzazione generale delle strutture penitenziarie, una strada percorribile potrebbe essere quella di trasformarla in casa di reclusione, utilizzando invece Rebibbia come carcere giudiziario”. L’istituto di Trastevere, dall’inizio degli anni Settanta e l’apertura del femminile, del penale e Nuovo Complesso di Rebibbia, è la casa circondariale di Roma, cioè il carcere in cui sono detenuti principalmente gli imputati o gli indagati in attesa di giudizio ma che ospita, nelle sezioni penali, anche alcuni condannati a pene non superiori ai cinque anni. Anche il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, a margine della sua visita a Ferragosto, aveva fatto appello al governo “Affronti questa emergenza. Non è possibile che nella Capitale d’Italia ci sia un istituto con quasi il doppio di detenuti rispetto alla capienza e con un terzo in meno di polizia penitenziaria. Servono misure per le pene alternative che evitino l’abuso della detenzione, situazioni dignitose, e percorsi di reinserimento nella società. Noi come Comune abbiamo lanciato un progetto con Ama a Rebibbia per formare operatori dell’economia circolare”. Le rivolte nelle carceri italiane sono però il segno di un profondo disagio e della terribile inumanità in cui sono costretti a vivere i detenuti. I casi di suicidio sono a oggi 72 e niente lascia presagire che possano fermarsi. Ieri sera hanno protestato i prigionieri dell’ottava sezione dell’istituto di via della Lungara, ma nella settima, solo nell’ultimo anno, si sono tolti la vita tre uomini. “Una sezione di ingresso, di transito, disciplinare, di isolamento sanitario e chi più ne ha più ne metta. Per una ragione o per l’altra, quasi tutti i detenuti sono incompatibili con quasi tutti gli altri, e quindi sono costretti in cella tutto il giorno, salvo quell’oretta che riescono ad andare a turno in un cubicolo scoperto che chiamano aria, manco fossero al 41bis”, ecco come la descrive il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. Che oggi, sui suoi canali social, aggiunge: “Regina Coeli in fiamme è metafora di un sistema penitenziario allo sbando. Non si può continuare così, né pensare che tutto si risolva con ordine e disciplina”. Roma. A Regina Coeli ci sono 532 detenuti oltre la capienza. Il Comune: “Chiudete il carcere” di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 27 settembre 2024 Gravi danni, un’intera sezione che potrebbe essere dichiarata inagibile, l’ipotesi del trasferimento in altre strutture carcerarie degli organizzatori dell’ultima protesta di mercoledì sera, con incendi ripetuti nell’VIII sezione, e di una parte di reclusi in sovraffollamento che a Regina Coeli sono 532 (presenti 1.160 per 628 posti disponibili). Il giorno dopo la rivolta nel carcere si contano i danni. I sindacati della polizia penitenziaria chiedono provvedimenti immediati. E anche un aumento degli agenti: mancano 149 operatori rispetto ai 480 previsti. La proposta del Comune con l’assessore all’Urbanistica Maurizio Veloccia: “L’unica soluzione possibile è chiudere il carcere, riconvertire la sua struttura e individuare soluzioni alternative, con strutture più piccole. Noi ci siamo”. Il garante: “Qualsiasi occasioni porta subito alla protesta” - “Quanto sta accadendo a Regina Coeli preoccupa e ovviamente crea anche molta impressione perché, questo non lo dobbiamo dimenticare, succede nel centro di Roma. Ho ricevuto segnalazioni, telefonate, video, fotografie da persone che abitano lì vicino o che vi si trovavano a passare. Cose di questo genere stanno accadendo con una frequenza di una, due volte alla settimana in molti istituti della regione ma per lo più all’oscuro di tutti, trovandosi gli istituti fuori città. Ieri, al contrario, nel cuore della Capitale, se ne sono accorti tutti”. Così Stefano Anastasìa, garante dei detenuti del Lazio. “Il problema è di carattere generale - spiega - di un sistema che ha perso la bussola, in cui i detenuti evidentemente non hanno più fiducia rispetto ai loro percorsi detentivi, al fatto che, partecipando all’offerta rieducativa, possano avere una prospettiva di reinserimento. Qualsiasi occasione anche futile porta subito quindi alla protesta, ai danneggiamenti, agli incendi, ai materassi bruciati. Che poi finisce per essere l’unico modo con cui fuori dal carcere ci si accorge che ci sono anche quelli in carcere”. Il cappellano: “I reclusi hanno conti in sospeso fra di loro” - Per padre Vittorio Trani, cappellano del carcere di Trastevere, “quanto sta accadendo è il frutto di diversi fattori, dalla struttura penitenziaria in sé, al tipo di soggetto che sta riempiendo le carceri: spesso si tratta di giovani che hanno problemi sulla strada, regolamenti di conti in sospeso tra loro. Ragazzi, uomini con la stessa vitalità che hanno nelle nostre strade, ai quali manca il senso della responsabilità, la consapevolezza del momento. E poi c’è la necessità di avere più agenti della polizia penitenziaria, per garantire maggiore ordine all’interno delle sezioni”. “È necessario rivedere la `situazione carcere´ in quanto tale - sottolinea il religioso - lavorare sulla cultura, disciplinare un po’ il discorso degli arrivi in Italia, che portano una marea di persone che poi si ammazzano nelle periferie. È un discorso molto, molto serio, che poi si riflette sul piano pratico e sulla realtà delle carceri”. Il Sappe: “L’amministrazione non ha preso provvedimenti” - “Ancora una volta, follia e violenza nel carcere di Regina Coeli per la protesta di un gruppo di detenuti e il personale della polizia penitenziaria che aderisce al Sappe, torna a protestare con veemenza per una situazione esplosiva che era nota ai vertici dell’Amministrazione penitenziaria nazionale e regionale ma rispetto alla quale nessun provvedimento era stato assunto”. A denunciarlo è Maurizio Somma, segretario per il Lazio del Sindacato autonomo polizia penitenziaria, per il quale “i colleghi, in servizio da ieri sera hanno smontato dal servizio solamente in mattinata. Per fortuna, non ci sono agenti feriti ma i detenuti hanno devastato l’intera Sezione VIII. Si tratta di eventi conseguenti a una situazione di tensione carceraria già ampiamente evidenziata dal Sappe, per altro aggravata dalla mancanza di personale: chiediamo un sopralluogo tecnico da parte del Prap e una visita ispettiva da parte dell’Asl per valutarne l’idoneità sotto il profilo dell’igiene e della sicurezza dei luoghi di lavoro”, prosegue il sindacalista. Fns Cisl: “Danni ingenti, locali inagibili” - “La Fns Cisl Lazio ha chiesto l’autorizzazione alla visita sui luoghi di lavoro degli agenti della polizia penitenziaria nel carcere di Regina Coeli per lunedì 30 settembre. La visita sarà incentrata sulle condizioni in cui si trovano alcuni posti di servizio del Reparto 8 e ai piani dove ieri i detenuti hanno effettuato la rivolta. Da quando apprendiamo i danni sono ingenti - non dimenticando che tali ambienti sono luoghi di lavoro e certo il personale non può lavorare in luoghi non idonei”, sottolineano dalla Fns Cisl, con il segretario generale Massimo Costantino. “C’è la necessità di chiudere l’intero reparto in considerazione di ambienti di lavoro non conformi alle norme sulla sicurezza. Attualmente non vi sono più spazi, infatti, i detenuti presenti risultano 1160, rispetto ai previsti 628. Il personale della Penitenziaria risulta essere n.331, rispetto ai previsti 480, mancano 149 unità rispetto al dato del ministero della Giustizia ma i numeri son ben più alti”. Rovigo. Carcere minorile, si apre entro la fine dell’anno di Francesco Campi La Voce di Rovigo, 27 settembre 2024 “Entro la fine dell’anno il carcere minorile in via Verdi aprirà i battenti, ma non si sa ancora quale sarà l’organizzazione, perché si tratta di un’apertura anticipata e parziale per alleviare le difficoltà degli altri istituti per minori”. A dirlo, Gianpietro Pegoraro, coordinatore regionale della Fp-Cgil penitenziari. Tuttavia, aggiunge Pegoraro, tante sono al momento le incognite: “Come Cgil abbiamo chiesto confronto a livello centrale al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, perché ancora adesso non sappiamo chi andrà dentro, quale sarà il numero di operatori e di detenuti. Perché se vanno tutti quelli dell’istituto di Treviso, si dovrebbe essere già con un organico strutturato, invece manca tutto, soprattutto non sono state nemmeno individuate la figura del medico e quelle degli educatori”. Il sindacalista, che esprime la propria preoccupazione anche per quanto avvenuto nel carcere “dei grandi”, dove lunedì un ispettore della polizia penitenziaria è stato aggredito da un detenuto, che gli ha provocato lesioni che sono state refertate con una prognosi di 14 giorni. Un detenuto che già nel recente passato si era reso protagonista di un altro episodio di danneggiamenti e minacce. “Il punto è che non è stata ancora trovata una soluzione per i detenuti con problemi psichiatrici, dopo la riforma avviata nel 2008 che ha portato alla chiusura degli Ospedali psichiatrico giudiziari ed alla ‘sanitarizzazione’ con le Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza ma che accolgono solo pochi detenuti e con reati gravi. Per gli altri si pone un vero problema, anche perché poi non è ben chiaro se davvero si rendano conto del perché della pena. All’ispettore va tutta la solidarietà, nella speranza che si riesca a porre un freno a questo tipo di episodi”. Episodi che, però, si stanno verificando anche nelle carceri minorili. Il 31 agosto al Beccaria di Milano, i 58 detenuti presenti hanno appiccato incendi in alcune celle per scatenare il caos ed approfittarne per fuggire. Ne sono nati dei disordini, con otto feriti, e ben quattro detenuti sono riusciti a scavalcare il muro di cinta, ma dopo ore di ricerche sono stati rintracciati. Già a giugno, sempre dal minorile di Milano erano evasi due minorenni. E, tra luglio ed agosto ci sono stati altri incendi ed aggressioni. Non va meglio a Roma, dove due settimane fa il carcere minorile di Casal del Marmo è stato teatro di una rivolta di una ventina di detenuti che hanno incendiato un materasso e si sono barricati in sala mensa, con l’intervento della polizia in assetto antisommossa. Tensioni che erano iniziate già dalla notte precedente, coda dell’episodio della settimana precedente, quando ancora un incendio, aveva innescato un tafferuglio, con una agente della penitenziaria che rimasta intossicata fu costretta alle cure dell’ospedale, poi un detenuto medicato in infermeria dopo aver ingerito del vetro. Per non parlare di Treviso, proprio l’istituto che dovrebbe essere di fatto “trasferito a Rovigo, dove due anni fa una rivolta ha visto distrutti gli impianti e le suppellettili e l’incendio dei materassi, con il fuoco che ha aggredito parte della struttura mentre un denso e acre fumo nero l’ha invasa, levandosi poi in cielo, in una sommossa è durata per quasi un giorno, tenendo impegnati vigili del fuoco, Suem 118, polizia e carabinieri, con tiratori scelti saliti sui tetti. Un vero e proprio inferno. Secondo Pegoraro “tutta questa fretta di aprire Rovigo è dovuta proprio alla situazione del sistema carcerario minorile”. Del quale, a breve, farà parte anche Rovigo. Nel giro di tre mesi, infatti, nel cuore della città potrebbero arrivare i primi ragazzi. Per questo, come spiega Pegoraro, “il minorile di Rovigo aprirà prima ancora di essere pienamente completato e prima ancora che siano definiti gli organici dei medici e degli educatori. Così come è organizzata la reclusione dei minori è quanto di più lontano dal dettato costituzionale del fine rieducativo della pena. Poi, va detto che Il vero problema è rappresentato dai cosiddetti ‘giovani adulti’, quei soggetti detenuti per reati commessi quando erano minori anche se ormai hanno superato i 18 anni. Uomini di 23, 24 anni, che non è il caso tenere assieme a ragazzini di 15, 16 anni. Come quello che è accaduto a Treviso insegna. Per me il minorile non ha proprio senso di esistere, i ragazzini devono avere percorsi diversi”. Un anno fa per il “carcere minorile del Triveneto erano stati messi a disposizione 3,5 milioni di euro per coprire i costi necessari al completamento della nuova struttura per la quale erano stati inizialmente stanziati 5 milioni. L’appalto per la costruzione del carcere per minori è stato affidato il 29 dicembre 2020 per un importo di 8.935.985 euro. I lavori sono stati consegnati il 15 ottobre 2020 con una durata prevista dei lavori di 645 giorni. Quattro anni dopo il carcere sembra vicino ad aprire i battenti. Come si legge nell’ultimo rapporto di Antigone, “alla fine del febbraio 2024 erano 532 i giovani reclusi nei 17 istituti penali per minorenni d’Italia. Una cifra che sta rapidamente crescendo. Solo due mesi prima, alla fine del 2023, si attestava sulle 496 unità. Alla fine del 2022 le carceri minorili italiane ospitavano 381 ragazzi. L’aumento, in un anno, è stato superiore al 30%. Se alla fine del 2022 i minori e giovani adulti in carcere rappresentavano il 2,8% del totale dei ragazzi in carico ai servizi della giustizia minorile, oggi tale percentuale è pari al 3,8%. Dopo il calo delle presenze dovuto alla pandemia da Covid-19, i numeri stanno rapidamente risalendo”. Si tratta anche degli effetti delle norme contenute nel cosiddetto “Decreto Caivano”, con il quale, fra le altre cose, è stato è stato disposto un abbassamento generale delle soglie di pena utili all’applicazione delle misure cautelari, abbassata da 9 a 6 anni la pena nel massimo richiesta ai fini dell’applicazione della custodia cautelare in carcere al soggetto minore. “Il dato relativo al tipo di delitti che portano i giovani in carcere - spiega Antigone - mostra un problema del sistema: nel corso del 2023, solo il 22,7% dei reati che hanno comportato la reclusione in carcere riguardava reati contro la persona, tendenzialmente la categoria più grave, ben il 55,2% riguardava invece reati contro il patrimonio, categoria che comprende fattispecie meno gravi. Se tuttavia la detenzione deve realmente costituire una misura estrema, dovrebbe venire usata solamente per i reati più seri”. Pordenone. Dopo 15 anni di lavori pronto il progetto per il nuovo carcere di San Vito di Martina Milia Messaggero Veneto, 27 settembre 2024 Sbloccati i lavori per il via ai nuovi cantieri. Il trasloco a San Vito è previsto tra tre anni. Il ministro Ciriani: “Orgoglioso del risultato”. Esulta anche il Pd. A fine giugno era stata promessa la consegna dei lavori entro l’estate. Promessa rispettata: venerdì 27 settembre, in Prefettura, la firma del contratto che sblocca formalmente i lavori del nuovo carcere della provincia di Pordenone, a San Vito al Tagliamento. All’inizio dell’estate il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, con il sottosegretario Delmastro delle Vedove e il parlamentare Emanuele Loperfido, avevano annunciato, sempre in una conferenza con il prefetto e i Comuni di Pordenone e San Vito, che erano stati individuati i 10 milioni di euro necessari a chiudere il nuovo quadro economico (fondi della Giustizia, che si sono sommati ai 41 già previsti dalle Infrastrutture). Adesso le ruspe della Pizzarotti potranno entrare in azione. Il commento del ministro Ciriani - “Mi rende particolarmente orgoglioso che sia stato fatto un ulteriore passo in avanti verso la realizzazione del carcere di San Vito, opera fondamentale per il nostro territorio. La firma del contratto tra appaltatore e appaltante, che avrà luogo in Prefettura a Pordenone, è il frutto di un lavoro silenzioso ma costante che abbiamo portato avanti negli ultimi due anni con il ministro Nordio, il sottosegretario Delmastro, il Prefetto Manno, l’onorevole Loperfido e i parlamentari friulani - ha dichiarato Ciriani -. Finalmente siamo sulla buona strada per portare a conclusione un progetto che va avanti da oltre 15 anni e che ha avuto una gestazione particolarmente complicata”. La soddisfazione del Pd - All’agenzia del ministro ieri ha risposto con una nota il segretario provinciale del Pd, Fausto Tomasello, ricordando il lavoro delle amministrazioni di San Vito che si sono susseguite, e in particolare quella di Antonio Di Bisceglie, e ha aggiunto: “È una grande soddisfazione poter vedere compiuto un fondamentale atto formale cui auspico seguano al più presto i lavori. Il nuovo carcere, una volta completato, contribuirà a migliorare la sicurezza e l’efficienza del sistema giudiziario locale, offrendo una struttura moderna e adeguata alle esigenze della popolazione carceraria”. La nuova struttura si prepara a ospitare 400 detenuti per cui sarà bacino di riferimento per un’area ben più ampia del Pordenonese. Le prospettive sul castello - Nel momento in cui si sbloccano i lavori di San Vito, si apre anche la partita del futuro del castello di Pordenone, che si affaccia su piazza della Motta e che rappresenta il cuore della città antica. Il trasloco a San Vito è previsto nel 2027. Se l’iter procedurale per il passaggio del castello dal Ministero al Comune è tutt’altro che semplice - come avevano già anticipato a giugno il sottosegretario Delmastro delle Vedove e l’ex sindaco Alessandro Ciriani -, la volontà politica di arrivarci c’è e il tema sarà al centro della prossima campagna elettorale per il Comune. Non fosse altro perché le amministrazioni Ciriani e Parigi hanno investito molte risorse - tra bando delle periferie e fondi Pnrr - per ridisegnare piazza della Motta e i contenitori che si affacciano e chiunque amministrerà nei prossimi anni non può permettersi di avere una struttura come il castello disabitata. Senza contare che l’ex maniero, così come la piazza e l’ex convento, dialogano con l’area in cui si trovano i resti delle mura della città e con il futuro parco delle mura nell’area Tomadini, per la quale Pordenone ha intercettato un nuovo finanziamento europeo (che rientra nel bando Cati). Una sfida che avrà bisogno di idee ed energie. Roma. Antigone presenta il report sulla giustizia minorile “A un anno dal decreto Caivano” di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 27 settembre 2024 Il prossimo 2 ottobre, a partire dalle ore 10.00, presso la sede dell’Associazione Stampa Romana, in Piazza della Torretta 36, Antigone presenta il dossier “A un anno dal decreto Caivano”. Con l’introduzione delle nuove normative il sistema della giustizia minorile, così come denunciato dalla stessa Antigone e da altri osservatori, ha subito un contraccolpo pesante, interrompendo quel percorso incentrato sul recupero del minore autore di reato che da trent’anni si era imposto in Italia. Oggi il numero di minori in carcere è in rapido aumento, con il sovraffollamento che per la prima volta interessa anche gli Istituti Penali per Minorenni. Le prospettive per questi ragazzi sono minori e gli atti di protesta a cui abbiamo assistito ne sono una conseguenza. Nel proprio report Antigone illustra con dati, numeri, racconti, quello che è accaduto nell’ultimo anno nel sistema della giustizia minorile. Per accedere non è necessario accreditarsi, ma per ragioni organizzative è gradita la conferma della presenza entro il 1° ottobre. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Torino. Volontariato in carcere, garanzia di dignità di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 27 settembre 2024 “E se sparissero i volontari”? È il titolo di un paragrafo della lettera pastorale sulla carità e sulla fede dell’Arcivescovo Roberto Repole “Voi stessi date loro da mangiare” diffusa in questi giorni alle diocesi di Susa che riflette su come, in una società dove impera l’individualismo, “l’azione caritativa delle nostre Chiese ha bisogno di essere costantemente nutrita dalla carità di Cristo”. E il carcere - “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi” è uno dei luoghi dove più il volontariato di parrocchie, associazioni e Caritas è banco di prova di come la vicinanza della comunità cristiana alle persone detenute sia fondamentale per il reinserimento nella società, per voltare pagina. E accade anche che alcuni reclusi a fine pena, per restituire quanto hanno ricevuto dai volontari, diventino loro stessi volontari alla Caritas o nelle parrocchie. Di “Volontariato in carcere” si è parlato venerdì 20 settembre a Palazzo Barolo a Torino nel quarto incontro del ciclo di conferenze promosso dall’Opera Barolo in collaborazione con il nostro settimanale, nell’ambito delle iniziative per il 160° anniversario della morte della venerabile marchesa Giulia Falletti di Barolo. Fu proprio la marchesa - come ha ricordato introducendo i lavori Sonia Schellino, del Consiglio d’amministrazione dell’Opera Barolo - che, visitando le carceri femminili fatiscenti del suo tempo e chiedendosi perché quelle donne e non lei versassero nel degrado assoluto, nel 1821 presentò al Governo di allora una dettagliata relazione sulla disumana situazione delle galere cittadine, non molto distante dalla drammatica condizione delle patrie galere di oggi. La denuncia di Giulia di Barolo contribuì con proposte concrete alla realizzazione della prima vera riforma carceraria. Inoltre nel 1823 fondò una “casa di accoglienza” per ospitare le donne che, una volta scontata la pena, lasciavano il carcere per tornare libere in una società che ha molte similitudini con la nostra, dove i pregiudizi nei confronti di chi, come i carcerati, sono considerati “scarti”, sono ancora molto vivi. All’incontro, moderato dal giornalista Mauro Gentile a cui sono convenuti molti volontari e operatori carcerari, sono intervenute le realtà di volontariato carcerario che operano nei due Istituti penitenziati torinesi, la Casa circondariale per adulti “Lorusso e Cutugno” e l’Istituto penale minorile “Ferrante Aporti” e i rappresentanti delle Istituzioni Monica Cristina Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino e Luca Pidello, presidente della Commissione consiliare della Città di Torino “Legalità e diritti delle persone private della libertà personale”. Entrambi, ringraziando il volontariato, hanno messo in luce le piaghe che affliggono il sistema carcerario italiano: sovraffollamento (150% in più della capienza), suicidi (70 detenuti e 8 agenti penitenziari ad oggi), burocrazia che rallenta l’adempimento al dettato costituzionale che dispone all’articolo 27 che “le pene …devono tendere alla rieducazione del condannato” e la rete di relazioni con la società civile. Ha portato anche un saluto l’assessore regionale alle Politiche sociali Maurizio Marrone che, ringraziando la passione e la dedizione con cui i volontari si dedicano ai reclusi, ha evidenziato come il contributo del volontariato sia fondamentale per l’attuazione delle pene alternative e il reinserimento nella legalità. L’incontro è stato l’occasione per approfondire l’opera di alcune tra le realtà più significative del mondo del volontariato torinese “dentro e fuori” le mura carcerarie tra cui il Centro di Ascolto della Caritas diocesana “Le Due Tuniche” coordinato da Wally Falchi che ha letto una lettera di un detenuto, Francesco. Ha scritto della vita buia” della detenzione, del terrore di ricominciare una volta scontata la pena e di come - grazie all’incontro con i volontari del Centro Caritas - sia riuscito, una volta fuori, a trovare un lavoro, un alloggio e la forza di ricominciare. “Solo grazie all’intervento di questi angeli ora posso dire di essere sereno e non ho paura di affrontare il futuro. Mi sto impegnando a ricostruire tutto, inizio a sorridere e sto riprogettando il mio futuro, un futuro sereno, un futuro sano, una cosa è certa: non sbaglierò mai più. E ancora grazie a tutti i volontari senza di loro, senza crederci oggi non sarei qui a scrivere questa lettera”. Adriano Moraglio, presidente dell’associazione “La goccia di Lube” che lavora a stretto contatto con l’Uepe (L’ufficio per l’esecuzione penale esterna di Torino che segue i detenuti che chiedono le pene alternative e la messa alla prova), ha spiegato come con il progetto “Impresa accogliente” i volontari dell’associazione bussino alle porte delle imprese e facciano da garanti per i ristretti in prova: 50 finora le persone prese in carico e 8 gli ex detenuti che a fine pena grazie alla “Goccia di Lube hanno trovato un lavoro”. Altro problema drammatico del sistema carcerario è la carenza di assistenza medica, come ha spiegato Pier Giuseppe Rossi, direttore degli Asili Notturni Umberto I di Alessandria. “Grazie a una convenzione con l’amministrazione penitenziaria e alla collaborazione dell’associazione Betel, realtà che da oltre tre decenni offre assistenza ai detenuti, i nostri medici volontari assicurano gratuitamente alle persone recluse servizi ambulatoriali in campo odontoiatrico, con visite, interventi, costruzione e installazione di protesi dentarie mobili, nonché di manutenzione su protesi esistenti, e di tipo oculistico con visite e fornitura di lenti”. Silvia Orsi, presidente della Fondazione Tancredi di Barolo onlus, ha spiegato come sulle orme della marchesa Giulia i volontari accompagnino i ristretti nell’incontro personale cercando di alleviare sofferenze e solitudine e donando un po’ di quotidianità perduta dietro le sbarre: “un rapporto che mira a diventare una compagnia e un sostegno al futuro cercando di rispondere con l’aiuto di istituzioni pubbliche e private alle esigenze del dopo pena come la casa, il lavoro”. Negli ultimi 15 anni l’associazione ha seguito un centinaio di volontari: la maggior parte di loro, una volta usciti dal carcere, non hanno reiterato la pena”. Infine Michele Burzio, diacono al carcere “Lorusso e Cutugno” e presidente dell’associazione “Volontari di San Martino” ha riferito come in collaborazione con i cappellani, come in una parrocchia, in carcere si seguono i detenuti che lo richiedono nel loro percorso di fede personale, nella preparazione ai sacramenti. “Ogni settimana al Lorusso e Cutugno” ha aggiunto il diacono si celebrano fino a 7 Messe seguite dai ristretti, occasione di incontro e di dialogo personale”. E accanto al cammino spirituale c’è la carità in collaborazione con le parrocchie e l’associazione San Martino che dona ai detenuti - (soprattutto stranieri) senza famigliari che possano provvedere alle necessità primarie - vestiario, biancheria intima, asciugamani, prodotti per l’igiene e molto altro. “Solo nel 2023 abbiamo consegnato 1.874 borse di vestiario di cui 758 ai nuovi giunti”. “Essere privato della dignità non è la stessa cosa che essere privato della libertà. La dignità non si tocca” ha detto Papa Francesco. Ecco il ruolo del nostro volontariato dietro le sbarre. Napoli. Al carcere di Secondigliano la campagna di RaiRadio1 contro la violenza sulle donne Il Mattino, 27 settembre 2024 L’appuntamento è fissato per il 27 settembre. “Come un’onda contro la violenza sulle donne”. Questo il titolo della campagna Nazionale di Rai Radio1 e del Giornale Radio Rai. La campagna durerà un anno, andremo in tutto il Paese, nelle università, nelle piazze, nelle associazioni, nelle scuole, nelle aule dei tribunali, nelle carceri, nei festival, per dare voce a tutta la galassia che gira intorno al tema della violenza. Fondamentali in questo viaggio, i centri antiviolenza attivi sul territorio da decenni a supporto delle donne. Gli studenti parteciperanno al dibattito nei diversi luoghi: università/ festival/ teatri, sia in presenza che da remoto. In ogni tappa della Campagna verranno approfonditi in particolare un tema con degli esperti: avvocati, forze dell’ordine, magistrati, centri antiviolenza, associazioni, sociologi … apriremo finestre su mondo con dei collegamenti con diversi Paesi dove la condizione delle donne è particolarmente precaria. Scelto come luogo principe le università, così come i festival e i teatri per raggiungere il maggior numero di ragazzi e con loro le famiglie, per mandare messaggi per comprendere, dare gli strumenti per riconoscere e prevenire la violenza sulle donne. A maggio, all’università di Napoli Federico II con una grande giornata con oltre 500 ragazzi, trenta relatori e collegamenti con diverse parti del mondo, poi al festival Vicino/Lontano Premio Terzani di Udine. Poi “Onda …” è arrivata a Venezia, nel carcere femminile della Giudecca, dove si è approfondito la condizione delle donne in carcere e la violenza che spesso si trova dietro i reati commessi da donne. Altra tappa a Trieste all’Area Science Park dove per la prima volta in Italia un ente di ricerca Nazionale ha aperto uno sportello di ascolto, a fine giugno saremo nel carcere di Catania dove la vicinanza al tema violenza sulle donne è particolarmente sentito. Luglio e agosto la nostra Campagna si è fermata. Prossimo appuntamento il 27 settembre nel carcere di Secondigliano, per aprire ancora una volta una finestra sulla condizione delle donne in carcere e parlare anche delle difficoltà nel sistema carcerario italiano. Il 24 ottobre si passa di nuovo per la Capitale con una grande giornata all’università Roma Tre, previsti anche collegamenti in diverse zone del mondo per parlare della condizione femminile. Macerata. Detenuti nei panni degli attori, spettacolo al Lauro Rossi Il Resto del Carlino, 27 settembre 2024 Ultimo appuntamento oggi del progetto “Secondo festival regionale di teatro in carcere nelle Marche”, realizzato dall’Ufficio del Garante regionale dei diritti della persona delle Marche, in collaborazione con il Comune. La giornata si dividerà in due momenti distinti, il primo, a partire dalle 15 nell’auditorium della biblioteca Mozzi Borgetti, con una tavola rotonda dal titolo “Teatro e diritti” con i protagonisti delle esperienze attive nei sei Istituti penitenziari marchigiani e la proiezione di un video sugli spettacoli teatrali realizzati in quattro di essi dal 21 al 25 maggio, alla presenza anche di studenti di istituti scolastici delle Marche. In serata, dalle 21 al teatro Lauro Rossi, lo spettacolo “La Commedia dell’arte negli scenari di Casamarciano” messa in scena dalla Compagnia Controvento della Casa circondariale di Pesaro e Teatro Universitario Aenigma di Urbino, ispirata a due canovacci originali del Seicento. La tavola rotonda del pomeriggio, moderata da Vito Minoia, docente dell’Università di Urbino Carlo Bo e Presidente del Coordinamento nazionale Teatro in Carcere, vedrà tra i protagonisti Giancarlo Giulianelli, Garante regionale dei diritti della persona delle Marche. “Il progetto - sottolinea Giulianelli - contribuisce a perseguire l’obiettivo che mi sono dato: impegnarmi per abbattere il muro di separazione tra comunità civile e comunità carcerarie. In questo caso ciò avviene attraverso la condivisione di un’esperienza teatrale che ha il potere di mettere in contatto il dentro e il fuori delle “mura” (detenuti con studenti, associazioni, volontari, cittadini tutti) e di diffondere una cultura del rispetto e del contrasto di ogni tipo di discriminazione”. “Macerata ha l’obiettivo di essere sempre più una città inclusiva per tutte quelle che sono le fragilità sociali e quindi anche il reinserimento di chi ha avuto percorsi di vita complicati e difficili - sottolinea l’assessore Francesca D’Alessandro -. L’obiettivo del progetto è puntare a una riabilitazione anche attraverso l’ausilio dell’arte che rappresenta un importante contributo nella costruzione di una comunità più solida e solidale”. Milano. La Scala dentro al carcere Beccaria, spettacolo finanziato dalla Regione milanotoday.it, 27 settembre 2024 Il Teatro alla Scala entra dentro il carcere Beccaria. L’orchestra del prestigioso palco meneghino si è esibita all’interno dell’istituto minorile con il ‘Nureyev alla sbarra’, offrendo ai detenuti minori un’esperienza di alto livello. L’iniziativa è stata promossa e finanziata da Regione Lombardia. Lo spettacolo è stato caratterizzato anche da momenti recitati con Mario Acampa ed Elisa Lombardi. L’orchestra, composta 19 musicisti tra ottoni e percussioni, ha eseguito la Suite da Romeo e Giulietta di Sergej Prokof’ev e la Suite da Lo schiaccianoci di Pëtr Il’i? ?ajkovskij, arricchito dalle illustrazioni di Gabriele Pino. Allo spettacolo ha assistito anche l’assessora regionale alla Cultura, Francesca Caruso, che ha commentato: “Sono davvero orgogliosa di questo progetto e ritengo che, mai come in questo momento storico, sia importante portare cultura all’interno del Beccaria, anche alla luce delle recenti vicende di cronaca che hanno coinvolto la struttura. Lo spettacolo, infatti, rappresenta per i giovani detenuti un’opportunità preziosa non solo per avvicinarsi alla musica, ma anche per riflettere su temi come la libertà e il riscatto. Sono convinta che l’educazione culturale sia un potente strumento di crescita personale e di recupero sociale”, ha detto. Caruso ha spiegato la potenza della musica, arte che permette di trovare la propria autenticità. “Non cancella gli errori del passato, ma aiuta a comprenderli. Perciò questo progetto si inserisce perfettamente in un percorso più ampio promosso fin dall’inizio del mio mandato: portare la cultura fuori dai suoi contesti tradizionali. Ringrazio, quindi, il Teatro alla Scala per aver organizzato questo evento e per aver portato un’opera di così alto valore culturale all’interno di queste mura. Una cultura accessibile a tutti: è questa la sfida che ci poniamo”, conclude l’assessora. “L’emergenza carceri” ci riguarda. La libertà genera vertigine di Rosella Postorino Sette - Corriere della Sera, 27 settembre 2024 Un’intuizione forse scandalosa collega lo stato di costrizione con la maternità. La letteratura mette in scena il lato misterioso. Mentre “l’emergenza carceri” riempie ciclicamente i giornali, per il sovraffollamento, la carenza di personale, l’aumento dei suicidi, la reclusione dei figli delle detenute (minori con meno di 6 anni) assieme alle madri, mentre si continua a parlare di carcere come di un’emergenza contingente, appunto, anziché di un problema strutturale che nessun governo sembra voler risolvere, ho letto due libri che con il carcere hanno a che fare. Ogni prigione è un’isola di Daria Bignardi è diario, confessione, reportage, cronaca, riflessione su un luogo che l’autrice frequenta da 30 anni: da volontaria, ma in un caso anche da parente di un “ristretto”, quando andava a trovare, con íl marito e i figli piccoli, il suocero Adriano Sofri. Bignardi si chiede se quest’attrazione per la prigione, questa sua claustrofilia, non sia legata al rapporto con la madre, che fin da Non vi lascerò orfani, passando per Storia della mia ansia e Libri che mi hanno rovinato la vita, abbiamo conosciuto come ansiosa e controllante. Forse, dice, la sua claustrofilia non è che il desiderio di rientrare nel ventre materno. In Cuore nero, l’ultimo romanzo di Silvia Avallone, la protagonista - finita in un carcere minorile - ha sofferto molto per l’assenza della madre, morta troppo presto, e questo buco è probabilmente legato al crimine che ha commesso. Dico “probabilmente” perché, come accade in ogni buon romanzo, Avallone evita il determinismo, mette in scena i personaggi nella loro incontrovertibile umanità, con tutto ciò che di osceno e di stupefacente significa. In un mio romanzo di n anni fa, Il corpo docile, a 3 anni la protagonista usciva dalla galera in cui era nata e cresciuta, ma questa “liberazione” era per lei un doloroso strappo, perché la separava dalla madre. La bambina voleva tornare in galera, nel suo nido, per stare con lei. La libertà era un trauma irreversibile. Al di là della testimonianza sulla condizione carceraria che rappresentano questi libri - i quali trattano il carcere come uno spazio che appartiene alla società, che dalla società dipende, non come uno spazio avulso, scollegato - il miracolo della letteratura è che tra le pagine succede anche qualcos’altro, qualcosa di misterioso. La contraddizione della maternità, e quindi della vita stessa, emerge al di là delle intenzioni nella sua dimensione fantasmatica di luogo costrittivo e agognato al contempo; da un lato c’è il desiderio di libertà, dall’altro la vertigine che la libertà provoca in ogni essere umano. È un’intuizione forse scandalosa, che mi piacerebbe passare a uno psicanalista. Intanto la dico a voi, che di sicuro mi prenderete per pazza, ma questo ordito sottile, enigmatico, inintelligibile persino a chi lo tesse, è il motivo per cui io leggo, per cui ancora della letteratura mi fido. Fine vita, le Camere inerti di Marco Grieco L’Espresso, 27 settembre 2024 La Corte Costituzionale, con due sentenze, ha invocato una legge sul suicidio assistito ma l’appello è rimasto lettera morta. Tremila chiamate al Numero Bianco dell’associazione Coscioni. Esiste il diritto di morire o il dovere di vivere? A questa domanda, che propone due opposti scenari, non c’è una risposta univoca. Eppure, due parole all’apparenza antitetiche come suicidio assistito o fine vita possono essere tenute insieme in nome della Costituzione. È ciò che, a più riprese, ha fatto la Corte Costituzionale, chiedendo una legge sul fine vita a partire da due sentenze. Con l’ultima, la 135 del 2024, ha ribadito la validità dei requisiti per richiedere il suicidio assistito, legittimati pochi anni prima dalla sentenza 242 del 2012: l’irreversibilità della patologia, la presenza di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili dal paziente, la dipendenza dello stesso da trattamenti di sostegno vitali e la sua capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. Si tratta di condizioni che vanno verificate dal sistema sanitario nazionale e approvate dal comitato etico territoriale, ma che definiscono la complessa situazione in cui versano molti malati gravi per i quali resta solo una speranza: morire dignitosamente. Talvolta la dignità viene impugnata nei tribunali, dove i pazienti ricordano che anche la vita, come i trattamenti medici, può essere sproporzionata se a scandirla è una sofferenza senza fine, come spiega Matteo Mainardi dell’Associazione Luca Coscioni: “A chi si rivolge a noi, spieghiamo che nell’anno 2023 ci sono procedure in Italia che rendono dell’associazione Coscioni possibile l’accesso al suicidio medicalmente assistito, ma non tutte le persone hanno l’energia per fare ricorso né, in alternativa, possono permettersi un viaggio in Svizzera. Solo nell’ultimo anno, al nostro Numero Bianco circa 3.000 persone hanno chiesto informazioni sulle procedure che si possono attuare in Italia”. Eppure le sentenze della Corte Costituzionale non fanno una legge, e nel vuoto del nostro ordinamento, l’iter nelle Asl non sempre è lineare, puntualizza Mainardi: “La difficoltà per le Asl è che non esiste un protocollo interno che dica alla persona come procedere e molte si trovano impreparate. Pertanto, piuttosto che prendere l’iniziativa, aspettano la sentenza di un tribunale”. Pochi mesi fa, la Corte Costituzionale ha ribadito la necessità di una legge rivolgendosi al Parlamento, dove l’urgenza che un malato terminale sente su di sé si scontra con la lentezza dell’iter di discussione della proposta del Pd: “In due anni, il Parlamento ha fatto davvero poco. Nel primo anno ha ignorato quello che chiedeva la Corte. Nel secondo, invece, le due commissioni deputate, Sanità e Giustizia, si sono riunite cinque volte facendo solo tre sedute di audizione. Cinque audizioni da aprile a maggio significa che, in tutto quest’anno, i commissari ne hanno discusso per cinque ore”. Malgrado lo spiraglio aperto dalla Pontificia accademia per la Vita con un vademecum che ribadisce “mediazioni sul piano legislativo”, a diluire i tempi una valanga di audizioni richieste con associazioni conservatrici e di area cattolica. Così i Palazzi di fatto arginano una richiesta che viene dai cittadini, come quando nel 2022 la Consulta bloccò un milione e 200mila firme che chiedevano un referendum sull’eutanasia legale. A farlo, in quel caso, erano stati migliaia di giovani. Decreto sicurezza, criminalizzare proteste pacifiche non serve a niente di Loredana Lipperini L’Espresso, 27 settembre 2024 Ma Barker, interpretata da una magnifica Shelley Winters, e? a capo di una banda sanguinaria composta dai quattro figli e specializzata nel rapinare le banche durante la crisi degli anni Trenta: ne racconto? la storia Roger Corman in “Il clan dei Barker” e ogni tanto dovremmo rivedere il film per ricordarci che ci sono madri e madri, e dunque non sempre e? opportuno raccontarsi come madre della nazione, specie quando si e? a capo di un governo che vara un pacchetto sicurezza come quello di Matteo Piantedosi. Ma Barker non sarebbe particolarmente toccata dalla norma anti-Gandhi contenuta nel ddl, perché? avrebbe continuato a imbracciare il mitra senza farsi problemi. A tutti gli altri (o quasi) fa impressione non solo l’idea che ci siano diversi anni di carcere ad attendere chi protesta in modo non violento ma che nel provvedimento si usi la parola “corpo”: si va in galera se si “impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata ostruendo la stessa con il proprio corpo”. Ora, probabilmente lo spettro di Michel Foucault stara? bisbigliando a ogni orecchio disponibile “l’avevo detto, io”. E con ragione. Perché? se questa norma fosse stata in vigore nei tempi passati, non sarebbe comunque stata un deterrente per le grandi ribellioni pacifiche della storia. Lo stesso Gandhi non avrebbe rinunciato alla marcia del sale del 1930, trecento chilometri a piedi per protestare contro la tassa dell’Impero britannico. Occupazione di suolo pubblico, avrebbe detto Piantedosi. Prima di lui, nel 1908, Emmeline Pankhurst, la fondatrice della Women’s Social and Political Union, venne condannata a sei settimane di carcere per aver fatto irruzione in Parlamento (all’epoca gli occhiali con telecamera di Maria Rosaria Boccia non erano stati inventati: e probabilmente Piantedosi avrebbe giudicato la pena troppo leggera). Non avrebbe impedito neanche la marcia di Birmingham del 1963, quando, su ispirazione di Martin Luther King, si moltiplicarono i sit-in dei neri nelle biblioteche, nei ristoranti e nelle chiese riservate ai bianchi. Il 2 maggio 1963 furono gli studenti a marciare, inclusi centinaia di bambini che uscirono dalla scuola per incontrare il sindaco. Marciarono tenendosi in contatto con i walkie- talkie, cantando “We Shall Overcome”, entrando nelle chiese e nei centri commerciali. Vennero arrestati in seicento: ridevano. A Piantedosi non sarebbe piaciuto (il fatto che ridessero, non l’arresto). Ne? avrebbe apprezzato la protesta contro la poll tax di Margaret Thatcher, quando, il 31 marzo 1990, 50 mila persone invasero il centro di Glasgow e bloccarono case e interi quartieri per impedire agli esattori di accedere alle abitazioni. “There are alternatives”, ci sono sempre alternative, disse rispondendo a Thatcher il grande fondatore dei peace studies, il norvegese Johan Galtung: e sono nonviolente. Quelle violente sono raccontate nella cosa preziosa di oggi, che e? “Cinquecento anni di rabbia” di Francesco Filippi, che per Bollati Boringhieri analizza il rapporto fra rabbia sociale e mezzi di comunicazione: dalla guerra contadina nel Sacro Romano Impero a Capitol Hill, c’e? stato sempre un momento in cui i detentori del discorso pubblico sono stati travolti dalla rabbia. Criminalizzare le proteste pacifiche e? il modo piu? insensato per provare a spegnerle: perché i pacifisti mettono in campo il proprio corpo, non quello degli altri (e, si?, Foucault, lo avevi detto, ma non ti ascoltano, come vedi). Così l’Italia si trasforma in una caserma di Stefano Bettera* I Riformista, 27 settembre 2024 C’è la convinzione che la logica di “legge e ordine” possa garantire il funzionamento della società È un autoritarismo da operetta, da Stato controllore. Serve una politica concreta contro questa deriva. A volte ritornano. Ecco alcuni segnali: il voto in condotta riappare nelle scuole per legge. Bocciato chi sgarra, rimandato chi non si adegua alla disciplina. In Parlamento si ricomincia a parlare di reintegro della leva obbligatoria e di carcere per chi manifesta dissenso. Come se le prigioni non soffrissero già di un endemico sovraffollamento e di condizioni di detenzione disumane. È l’idea del paese caserma, dove basta un appello muscolare a legge e ordine per garantire il funzionamento della società. Un oscurantismo di ritorno che esprime un’idea di società piccola, chiusa, soffocante. L’idea di un’Italia dei particolarismi identitari e della nostalgia autarchica che confonde cittadinanza con autoritarismo. L’idea di un paese ripiegato su sé stesso, che non ha risposte per la complessità della modernità ma fa da controcanto con un ringhio all’altro normativismo identitario e altrettanto oscurantista e intollerante della “cultura” woke. Una polarizzazione sorda che impedisce ogni analisi che vada oltre lo sgangherato e improbabile allarme per una recrudescenza fascista o lo spensierato e danzante multiculturalismo retorico e arcobaleno. La faccenda in realtà è seria e coinvolge l’idea di società che vogliamo e la possibilità di pensare a una politica che non sia malata sempre e solo di infantilismo propagandistico. Una politica capace di entrare nel merito e non abbandonata ai guizzi di un leaderismo che predica nel deserto. Ha detto bene il direttore Velardi: il discorso americano di Giorgia Meloni è stato un discorso non banale che ha delineato in modo diretto ed efficace la sua idea di mondo e il ruolo che l’Italia dovrebbe giocare. Patriottismo, occidentalismo, democrazia e laicità: questi i suoi valori, espressi con chiarezza. Non la preferiamo ma è meglio del niente, di quel niente desertico che lascia però emergere gli istinti repressivi e manettari che abbiamo visto tornare nel dibattito politico recente. allora, delle due l’una: o si crede a ciò che si dice e vince la democrazia e la laicità, con la conseguente idea di società aperta e giusta che implicano, o rimane l’autoritarismo da operetta che immagina la società come un bel giardinetto di una villa di Lugano. Su questo servirebbe quantomeno chiarezza. Perché, se il disegno è quello di dar vita a un conservatorismo moderno e maturo, peraltro anche auspicabile in una sana dialettica di principi e visioni, le premesse - al di là delle boutade da kermesse internazionali - non lasciano spazio a grande ottimismo. Sul tavolo rimane più che altro un retrogusto da Stato controllore e una prospettiva di ingegneria sociale per cui la formazione del cittadino passa attraverso la “scuola di vita” legata alla divisa, alle punizioni, alla narrazione di pochi spiriti arditi che difendono i sacri confini della patria. A questa idea di Italia, che non vogliamo, non basta rispondere con indignazione o patenti di post-fascismo fuori tempo massimo. Serve concretezza, serve più politica, quella vera. *Presidente dell’Unione Buddhista Europea Ius scholae, Forza Italia dice sì. Gelo della Lega: “Non passerà mai” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 27 settembre 2024 La proposta azzurra introduce la cittadinanza dopo la scuola dell’obbligo, Salvini e Crippa gelidi: “Niente regali agli immigrati”. Dopo un’estate di tira e molla con la Lega, Forza Italia ha messo nero su bianco la sua proposta per modificare l’attuale legge della cittadinanza, introducendo lo Ius scholae. Gli azzurri si dicono convinto del diritto ad acquisire la cittadinanza dopo aver concluso con profitto la scuola dell’obbligo, anche per i non nati in Italia, quindi dopo dieci anni di percorso scolastico. La proposta è arrivata dopo una riunione piuttosto discussa tra i parlamentari forzisti, alla quale non ha però preso parte il segretario, Antonio Tajani, partito per Bonn con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il testo, che sarà messo a punto e sottoposto agli alleati, prevede anche una restrizione a due generazioni, quindi al massimo ai nonni, per la possibilità di acquisire la cittadinanza per Ius Sanguinis, i cosiddetti oriundi. Il terzo punto qualificante della proposta è la volontà di accorciare da tre a massimo un anno i tempi per le verifiche per chi chiede la cittadinanza dopo dieci anni di residenza. Ma il problema principale sarà proprio far digerire il disegno a Lega e FdI, visto che il Carroccio, a riunione ancora in corso si affrettava a ribadire la propria contrarietà a qualsiasi tipo di cambiamento dell’attuale legge in vigore. “Una riflessione che abbiamo fatto all’interno della maggioranza è che la normativa sulla concessione della cittadinanza va bene così com’è - ha detto il leader della Lega Matteo Salvini - Non si sente nessuna necessità né numerica, né sociologica, né pragmatica di cambiare la norma che concede le cittadinanze: siamo i primi in Ue con la normativa vigente, non si capisce perché si dovrebbero ridurre i tempi o cambiare le modalità per la concessione della cittadinanza”. Per il vice di Meloni qualsiasi modifica alla cittadinanza “rischia di essere un altro fattore di attrazione per l’immigrazione irregolare”. Ancor più duro il suo vice, Andrea Crippa, per il quale “finché la Lega sarà al governo non passeranno né Ius scholae né Ius soli” perché “non c’è bisogno di regalare la cittadinanza agli stranieri”. E se FdI cerca di rimanere ai margini, con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni che ha fatto sapere che la legge “va bene così com’è” ma senza attaccare direttamente Forza Italia, quella tra leghisti e azzurri rischia di diventare una battaglia piuttosto delicata da gestire per l’inquilina di palazzo Chigi. Fi sembra infatti intenzionata ad andare fino in fondo, visto anche il dibattito attorno al quesito sulla cittadinanza che punta a dimezzare i tempi per ottenerla e sul quale sono state appena raggiunte le 500mila firme necessarie per l’avvio dell’iter referendario. Fi è contraria a quel referendum, ma con la proposta sullo Ius scholae ha piantato la sua bandierina sul tema. “Siamo contrari a quel referendum ma sulla nostra proposta andiamo avanti - hanno detto i capigruppo di Forza Italia di Camera e Senato, Paolo Barelli e Maurizio Gasparri - Siamo per la lotta alla immigrazione illegale e contro i mercanti di uomini, ma occorre renderci conto di una situazione che vogliamo affrontare”. Per Gasparri “la cittadinanza regalata dopo 5 anni è una follia” ma la Lega è “meno aperta sul tema”, mentre sulle divergenze con gli alleati, Barelli ha spiegato che “Tajani ha detto che se c’è un testo si ragiona con la premier, e nella scorsa legislatura FdI era d’accordo su una modifica di questo tipo”. Per Barelli “l’attuale legge prevede la cittadinanza automatica a 18 anni per chi è nato qui, e dieci anni di attesa per chi non è nato qui, si deve consentire anche a chi non è nato qui di ottenerla con un ciclo scolastico di dieci anni, perché non ci siano differenze ad esempio tra un bambino arrivato in Italia a due anni e il fratellino nato qui”. Ma nella polemica tra i due alleati di governo si inserisce anche l’opposizione, che sente, come si dice in gergo, “l’odore del sangue”. “Crediamo che il referendum sulla cittadinanza sia un’ottima iniziativa, ma in questo momento abbiamo la maggioranza sullo Ius scholae, quindi direi di non perdere questa occasione - ha detto il capogruppo del Movimento cinque stelle alla Camera, Francesco Silvestri, parlando coi cronisti vicino Montecitorio - Per una volta che a livello parlamentare una forza di maggioranza e tutta l’opposizione sono compatte su una soluzione per la cittadinanza, o almeno così sembra a parole, rimaniamo compatti sul grande risultato che possiamo ottenere”. Le parole di Silvestri arrivano dopo la “non firma” di Giuseppe Conte al quesito proposto da Più Europa, gesto che ha fatto alzare più di un sopracciglio agli altri partiti di centrosinistra, a cominciare dal Pd di Schlein che, a sua volta, rilancia con lo Ius soli. Migranti. La stretta del Governo: più controlli sulle imprese contro truffe e prestanome di Eleonora Camilli La Stampa, 27 settembre 2024 Più controlli sulle imprese contro truffe e prestanome, e quote stabilite per settori. Oggi il decreto del governo. Telefonata Meloni-Scholz: “Rafforzare i partenariati”. Più controlli sui datori di lavoro per stanare prestanome, truffe organizzate e veri e propri furbetti. E poi, quote per settori di attività decise in base al fabbisogno di manodopera, stabilito attraverso domande compilate prima del click day. Che non sarà più soltanto annuale, ma avrà più scadenze con criteri ristretti. Arrivano oggi in Consiglio dei ministri le nuove norme per aggiustare il decreto flussi, che regola l’ingresso in Italia dei lavoratori stranieri. Un insieme di correttivi per contrastare le troppe irregolarità, rilevate anche dalla stessa presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che nel giugno scorso con un esposto all’antimafia aveva denunciato le procedure sospette e le interferenze della criminalità organizzata, specialmente in Campania. Nelle intenzioni del governo verranno effettuati controlli sulle aziende, per stanare le richieste palesemente infondate. Inoltre saranno segnalati i datori di lavoro che non provvederanno a formalizzare il contratto dopo l’ingresso dello straniero in Italia. Tra le altre novità anche un riequilibrio tra regioni, per evitare che le domande siano appannaggio solo di alcune zone. Tra le questioni discusse in Cdm anche la tutela e l’assistenza alle vittime di caporalato, nonché la gestione dei flussi migratori e la protezione internazionale. E proprio in queste ore sono ripresi gli sbarchi sulle coste italiane, con un’impennata nell’ultima settimana. Oltre 2.200 persone sbarcate a Lampedusa dal fine settimana a oggi. Arrivano principalmente dalla Libia, ma sono riprese le partenze anche dalla Tunisia dove il prossimo 6 ottobre si andrà alle urne. “Qui sul molo Favaloro negli ultimi giorni abbiamo visto arrivare tante donne e bambini, anche piccolissimi - spiega Francesca Saccomandi, operatrice di Mediterranean Hope, il programma per i migranti delle Chiese evangeliche -. Un ragazzo, originario del Corno d’Africa ci ha raccontato di esser partito dopo quattro mesi in Tunisia dove ha subito di tutto, attacchi continui di razzismo”. E dalle coste di Sfax era salpato il barchino in vetroresina, naufragato, due giorni fa, a largo di Lampedusa. Ma mentre in mare si continua a morire, fa discutere il fermo a Genova della nave da soccorso di Medici senza frontiere, Geo Barents. Juan Matias Jil, capo missione dell’ong, parla di un “attacco mirato” e di una vera e propria “guerra alle ong, occhi scomodi nel Mediterraneo”. “Abbiamo ricevuto due decreti di fermo, uno dopo un’ispezione lunga e assurda, mai avuta prima. L’altro per non aver risposto alle indicazioni della Guardia costiera libica, che ci ha letteralmente minacciati, rischiando di mettere in pericolo le persone che stavamo salvando”. In un video diffuso ieri da Msf si vede infatti il gommone della Geo Barents impegnato in un soccorso mentre via radio una motovedetta libica intima agli operatori di allontanarsi. “Questa è l’ultima chiamata, fermatevi o spariamo” le parole registrate. “Diamo fastidio - aggiunge Jil -. L’Italia ha chiesto alla Libia di fare cioè il lavoro sporco e noi siamo d’intralcio. Ci fermano per una vendetta. O forse sono nervosi perché i tribunali stanno bloccando le procedure di fermo dei migranti provenienti da paesi terzi sicuri. Un problema per il progetto in Albania”. Il riferimento è ai due centri di Shengjin e Gjader, la cui apertura non è ancora definita: avrebbero dovuto iniziare a ospitare persone già nel maggio scorso. Poi la data è stata spostata ad agosto e a settembre. Ora si parla genericamente di un avvio entro l’anno. Ma se il progetto albanese sembra ancora incerto, Meloni continua a cercare sponde in Europa per contrastare i flussi. In particolare con la Germania, dopo che il cancelliere tedesco Scholz ha deciso di ripristinare i controlli alle frontiere. In una conversazione telefonica, avvenuta nel pomeriggio di ieri, i due leader hanno concordato di “mantenere uno stretto raccordo sul tema anche in vista dei prossimi Consigli Europei” fa sapere palazzo Chigi. L’obiettivo è “consolidare il nesso tra dimensione interna ed esterna della politica migratoria Ue, rafforzando in particolare i partenariati con i Paesi di origine e transito dei migranti, i ritorni, la lotta ai trafficanti di esseri umani e la migrazione legale”. Migranti. Gli Stati rialzano le barriere. I respingimenti diventano normalità di Francesca Ghirardelli Avvenire, 27 settembre 2024 Otto Paesi, tra cui l’Italia, hanno ristabilito controlli, anche parziali, alle frontiere. Da Berlino a Vienna ora si rischia l’effetto domino, con i profughi rimandati indietro. In ordine sparso, ciascuno per sé, ma con lo stesso obiettivo finale, quello di rendere le proprie frontiere, esterne o interne che siano per l’Unione, ancora più invalicabili. Tra i Paesi dell’Ue c’è una rincorsa alla reintroduzione temporanea dei controlli ai confini, all’istituzione di stati d’emergenza che permettano di “adattare” le leggi nazionali e “normalizzare” i respingimenti alle frontiere. “Dobbiamo tornare a gestire la nostra politica di asilo!” ha scritto su X il 18 settembre la ministra olandese Marjolein Faber, mentre il suo governo inviava a Bruxelles una richiesta di esenzione dalla politica migratoria Ue. Nemmeno il tempo di vedere attuato il nuovo Patto su migrazione e asilo approvato ad aprile, che già c’è chi chiede di derogarvi. Nella stessa settimana, la Germania ha avviato i controlli lungo tutti i propri confini nazionali. Dei ventinove Paesi dello spazio Schengen, oggi sono in otto, Italia compresa, ad avere ristabilito parzialmente o del tutto i controlli (gli altri sono Austria, Slovenia, Norvegia, Danimarca, Svezia, Francia e, appunto, Germania). A pochi giorni dalle elezioni del 29 settembre in Austria, il cancelliere Karl Nehammer ha fatto sapere che se Berlino introduce misure per rimandare indietro più migranti dal confine condiviso, Vienna farà lo stesso, verso i Balcani. Intanto, a luglio, in Finlandia il Parlamento ha approvato una legge che, in determinate circostanze, consente alle guardie di frontiera di respingere le domande di asilo di chi cerca di entrare dal confine russo (afghani, somali, siriani, …). Accade lo stesso in Polonia sin dal 2021, da quando Varsavia ha approvato emendamenti legislativi in base ai quali una persona sorpresa a entrare irregolarmente può essere obbligata a lasciare il territorio polacco per decisione della Guardia di frontiera. Gli attivisti della coalizione Grupa Granica riferiscono di documenti in polacco, non tradotti, fatti firmare ai migranti che dichiarano, senza esserne consapevoli, di non volere chiedere asilo in Polonia. Contro i tentativi di rendere conforme alle leggi nazionali ciò che però viola la Convenzione sui rifugiati del 1951 e quella europea sui diritti dell’uomo (ad esempio i divieti di trattamenti inumani o degradanti e di espulsioni collettive) si era espressa già tre anni fa Dunja Mijatoviæ, Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa di Strasburgo. “Gli Stati membri devono (…) opporsi chiaramente ai tentativi di legalizzare questa pratica illegale”, concludendo “qualsiasi iniziativa legislativa o politica che si tradurrebbe nel tentativo di normalizzazione dei respingimenti”. Da allora, però, anche Lettonia e Lituania hanno introdotto misure di emergenza che di fatto “legalizzano” i pushback, i respingimenti. “Codificando ciò che è illegale (…), il governo (lituano) calpesta diritti e obblighi internazionali” ha denunciato Amnesty International. Risalgono addirittura al 2016 e al 2017 emendamenti alla legge ungherese per i quali, in uno stato di emergenza (esteso di continuo), chi si trovi irregolarmente in Ungheria può essere respinto in Serbia. Sia la Corte europea dei diritti dell’uomo che la Corte di giustizia Ue hanno stabilito che le pratiche di Budapest violano il divieto di espulsione collettiva. Nel frattempo, proseguono immutati i pushback su diversi confini dove questi abusi sono da anni abituali. A luglio, il Comitato anti-tortura del Consiglio d’Europa (Cpt) ha chiesto nuovamente alla Grecia di porvi fine, dopo nuove accuse “credibili di espulsioni forzate informali, spesso violente, attraverso il fiume Evros o verso la Turchia”. Un report diffuso il 13 settembre dal Border Violence Monitoring Network (Bvmn) riferisce intanto che “altri fondi di sovvenzioni legate alla prospettiva di adesione all’Ue o a Schengen saranno utilizzati per acquistare più droni, telecamere e sistemi di sorveglianza in Serbia e Bulgaria, nonostante le prove del ruolo di queste tecnologie nel perpetrare violenze”. Fra le ultime testimonianze pubblicate dal Bvmn, si ritrovano racconti simili a quelli già ascoltati centinaia di volte dal 2015 a oggi. “Hanno sguinzagliato il cane contro di noi e ci hanno colpito con i “bastoni elettrici” ha riferito un ventenne afghano, respinto a giugno dalla Bulgaria alla Turchia con altri connazionali, tra cui minori. È stata invece rimandata indietro dalla Croazia alla Bosnia, con i suoi bambini di 3 e 10 anni, una donna afghana fermata da una decina di poliziotti croati. Al Bvmn ha spiegato: “A mio figlio spaventato e che piangeva ho detto, per consolarlo, che quello era solo un gioco”. Droghe. E il Governo fa di tutta l’erba un fascio di Franco Corleone L’Espresso, 27 settembre 2024 Contro ogni evidenza, si accomuna la canapa light alla droga, minacciando un intero settore. La realtà supera la fantasia. Il 18 settembre la Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge 1660 dedicato alla sicurezza pubblica e all’Ordinamento penitenziario. Ora toccherà al Senato decidere se proseguire sulla strada del parossismo penale. La norma che raggiunge la vetta dell’assurdo è però quella che vieta l’utilizzo delle infiorescenze della canapa con un livello di Thc, il principio attivo psicotropo della sostanza, dello 0,2%, cioè senza capacità drogante, normate dalla legge 242 del 2016, approvata all’unanimità del Parlamento per incrementare la filiera nazionale della canapa; equiparandole alla canapa con un diverso livello di Thc, punita dal Dpr 309/90 per le condotte di produzione e vendita con una pena da due a sei anni di carcere. L’emendamento è stato presentato dal governo e sicuramente è stato concepito da Alfredo Mantovano, il potente sottosegretario alla Presidenza del governo Meloni. Le incombenze della gestione del potere non gli impediscono di coltivare l’ossessione della droga e di sostenere le tesi del proibizionismo ideologico più manipolatorie e infondate. Mantovano è persona intelligente e se decide di ribattezzare il classico canapone italiano, oggi chiamato canapa light, in canapa stupefacente contro l’evidenza scientifica ci deve essere un motivo assai forte per andare contro anche un’usanza di epoca fascista. Infatti, il 19 giugno del 1935 il ministro dell’Agricoltura Rossoni inaugurava la Mostra nazionale della Canapa a Roma e il servizio dell’Istituto Luce è addirittura seducente nella esaltazione di una fibra vegetale italica trasformata in tanti prodotti utili dal genio degli artigiani. La canapa tessile fa paura perché ha avuto successo; tremila aziende fondate da giovani imprenditori che occupano tredicimila lavoratrici e lavoratori e soprattutto la presenza nelle città di centinaia di negozi con l’immagine della foglia dell’erba diabolica sono la dimostrazione plastica che la crociata moralistica è stata sconfitta. Allora si fa di tutte le erbe un fascio, senza distinguere e senza rispettare le differenze. Si è addirittura fatto scendere in campo il ministro della Salute Schillaci contro un altro principio attivo della canapa non psicoattivo, il cannabidiolo (Cbd), con pareri davvero stupefacenti dell’Istituto superiore di Sanità e del Consiglio superiore di Sanità, che trascurano le indicazioni dell’Oms: battaglia di esito incerto per l’annullamento del decreto da parte del Tar del Lazio. Per sostenere l’emendamento, il governo ha richiamato una brutta sentenza delle sezioni unite della Cassazione (n. 30475 del 2019, Presidente Carcano, estensore Montagni), trascurando il fatto che per salvare la dignità giuridica la sentenza era costretta a dichiarare che il Dpr 309/90 non è applicabile se i derivati della coltivazione di canapa “siano, in concreto, privi di ogni drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”. “La droga è droga” è il tormentone di Mantovano. Era riuscito a imporlo con la Fini-Giovanardi, ma la Corte Costituzione eliminò quell’obbrobrio. Ora l’idea di punire cose diverse torna trasformando la carne in pesce. Non importa se falliranno aziende e tanti giovani perderanno il lavoro. La morale sarà salva. Peccato, magari le belle lenzuola di canapa potrebbero favorire la natalità.