Giustizia di comunità di Cecco Bellosi* Ristretti Orizzonti, 26 settembre 2024 Il carcere è sorto per sorvegliare e punire, non per redimere. La parte rieducativa è cresciuta e si è estesa non solo per rispondere al dettato costituzionale contenuto nell’articolo 27 della Carta, ma anche per far fronte ai risultati irrimediabilmente negativi della giustizia retributiva. In questo contesto però, la giustizia trattamentale è solo, quando va bene, una riduzione del danno carcerario; quando va male, un’estensione dal carcere all’esterno. Le pene al di fuori delle mura hanno ormai poco di alternativo. Semplicemente, la strategia del controllo si è ampliata dall’interno all’esterno, andando a costituire una continuità di fatto tra sistema penitenziario e sistema assistenziale, tra carceri e centri di accoglienza. “Giustizia di comunità” è un nome suggestivo. Richiama le comunità di vita condivisa che gestivano la giustizia senza istituzioni totali. Ve ne sono ancora alcune, sparse per il mondo: non sono soltanto residui di passato, ma anche anticipazioni di futuro. Come le esperienze del confederalismo democratico nella polveriera del Medio Oriente. Fiori nel deserto. Ma in Occidente, travolto dall’individualismo e dalle solitudini, ormai è difficile trovare tracce di comunità. Del resto, parlano i numeri a dimostrare la torsione dallo Stato sociale allo Stato penale. Nel 1990, dopo l’ultimo provvedimento di amnistia-indulto approvato dal parlamento in occasione dell’entrata in vigore del nuovo Codice di Procedura Penale, abitavano le prigioni trentamila detenuti/e, cinquemila si trovavano in misura alternativa. Al 31 luglio 2024, a fronte di oltre sessantamila persone imprigionate, altre 45.000 si trovavano in misura alternativa al carcere, cinquemila in libertà vigilata, undicimila in regime di sanzioni di comunità come i lavori di pubblica utilità e ventottomila in messa alla prova. Complessivamente, un circuito esterno di novantaduemila persone che, con i detenuti/e arriva a centocinquantamila persone sottoposte all’ambito penale. Del resto, in questi oltre trent’anni il tasso di inflazione più alto è stata quello determinato dall’accumulo di leggi criminogene. Molte, troppe persone entrano in galera grazie a leggi carcerogene. In particolare, la Bossi-Fini che imprigiona gli immigrati che non ubbidiscono al decreto di espulsione; la Fini-Giovanardi, che pone chi si trova in tasca qualche grammo di sostanza nelle condizioni di dover dimostrare l’uso personale, facendo inoltre di ogni erba un fascio; la ex Cirielli, una legge così sconcia che il suo estensore aveva ritirato firma e nome. Negando le attenuanti generiche ai recidivi per reati di piccolo conto, contribuisce in maniera drammatica a riempire le prigioni senza dare alcuna possibilità di inserimento a chi ne ha più bisogno. Per non parlare dei decreti legge dell’attuale governo, che criminalizzano qualsiasi forma di lotta per i diritti sociali. All’esterno del carcere, ma anche dentro. Allo stesso tempo, vengono riempiti di attenuanti i colletti bianchi, che rimangono rigorosamente fuori. Occorre sempre distinguere tra legalità e giustizia. La legalità, in una società eticamente sana, non può essere un programma politico. Da anni l’Italia è una società malata, alla deriva in quasi tutti i suoi aspetti vitali e quindi anche sul piano etico: da qui l’idea, sbagliata, che il cambiamento debba arrivare dall’imposizione della legalità e non dalla ricostruzione del senso di giustizia. Letteralmente il concetto di legalità sta a significare rispetto della legge, ma le leggi spesso sono ingiuste, proprio come quelle sull’immigrazione o sulle droghe. Se non si cambiano queste norme, le carceri continueranno a gonfiarsi di poveri disgraziati, ammassati e sovraffollati in celle senza niente, se non la disperazione. La povertà estrema genera illegalità forzata. Con il carcere che chiama carcere. Nel 1986 a San Vittore stavano stipate millecinquecento persone. A quel tempo si sosteneva che la nuova casa di reclusione di Opera avrebbe risolto il problema del sovraffollamento. Di lì a poco, invece, ci sarebbero stati duemilacinquecento detenuti: mille a Opera e ancora millecinquecento a San Vittore. Poi hanno pensato a Bollate, il carcere costituzionalmente corretto. Perché anche la Costituzione ha i suoi difetti. Intanto, il numero di detenuti è salito ancora: ben oltre mille a Opera e a Bollate, ma anche a San Vittore, nonostante la chiusura per ristrutturazione di alcuni bracci. Anche le misure alternative però chiamano carcere, quando lo stato penale riempie i vuoti dello stato sociale. Le misure al di fuori delle mura sono diventate poco sostitutive e molto complementari: non a caso, nelle statistiche del ministero della Giustizia portano il nome di “Area penale esterna”. L’affidamento in prova è la misura alternativa più diffusa. Va bene, anche se porta con sé due difetti: è premiale ed è classista. La premialità viene da molti attribuita alla “Legge Gozzini”, in realtà è insita nell’articolo 27 della Costituzione. La “Legge Gozzini”, all’inizio, valeva teoricamente per tutti/e. Poi, dopo il 1992, è stata stravolta diventando molto selettiva, al punto che il suo primo firmatario, il senatore Mario Gozzini, aveva detto: “Non è più la mia legge”, intendendo che tendeva a chiudere più che ad aprire il carcere per diverse categorie di detenuti/e. L’affidamento in prova è classista perché per uscire devi avere un luogo dove andare e un reddito. Ma molti detenuti/e, in un carcere diventato sempre più una discarica sociale, non hanno né l’una né l’altro. Tra le sanzioni di comunità rientrano i lavori di pubblica utilità. Centinaia, qualche volta migliaia di ore da dedicare a diverse forme di impegno sociale. Fuori, in alternativa al carcere da subito. Senza vederlo. Lavoro che sconta la pena e prova a risarcire i danni. Sempre meglio della prigione. Il limite sta nel numero di reati previsti per questa misura e, ancora una volta, la sua caratterizzazione di classe. Se non hai casa, se non hai reddito, come fai ad accedervi? Non tutti sono Toti. Ma diciamo che va bene anche per lui. La messa alla prova è quella che si avvicina di più alla giustizia riparativa. La sfiora, ma non ne è parte integrante. Rimane all’interno del sistema penale trattamentale. Inoltre, per essere erogata non richiede neanche di essere colpevoli. Evita il processo e può essere conveniente accedervi, anche se non si è commesso quel reato. Come Associazione, abbiamo a che fare ogni giorno con tutte queste misure. Dal 1990 a oggi le persone sotto sorveglianza penale diretta sono quadruplicate. Immigrati e tossicodipendenti sono i due terzi della popolazione detenuta. Allo stesso tempo, stanno aumentando in maniera esponenziale le persone con problemi di sofferenza mentale. I paria delle galere. Stanno in un angolo buio. Invisibili. Se non quando vanno fuori di testa, dentro. E fuori non sanno dove andare. Per questo nel nostro piccolo proviamo invece ad accoglierli. Nel 2023 il Gabbiano ha ospitato centotrentanove detenuti/e nelle comunità, prevalentemente in affidamento terapeutico, o in arresti/detenzione domiciliare o, ancora, in libertà vigliata, una misura punitiva che si trascina dai tempi dell’Ordinamento Penitenziario fascista. Quindi, oggi, più che mai attuale. Inoltre, ha accolto dieci detenute, una persona transgender e quattro detenuti negli appartamenti di housing sociale, all’interno del progetto ormai consolidato “Donne oltre le mura” e di un progetto finanziato da Cassa Ammende per dare ospitalità a persone che, non avendo un luogo dove andare, non potrebbero uscire dal carcere pur avendone i requisiti in termini di pena residua. Sono state seguite poi al Centro Diurno di Cascina Cuccagna a Milano trenta donne in misura penale esterna, di cui quindici in articolo 21 e altre 15 in affidamento territoriale o in detenzione domiciliare. Una di loro è rientrata in carcere per “motivi di sicurezza”, avendo denunciato il compagno per minacce. Come se il carcere fosse l’unico posto in cui tutelarla. Infine, sono state accompagnate ventinove persone in percorsi di lavori di pubblica utilità o di messa alla prova. Nel 2024, solo presso lo Spazio sociale di Ascolto e Orientamento dedicato a don Andrea Gallo nel quartiere Ponte Lambro di Milano, sono state accolte nove persone, una per svolgere lavori di pubblica utilità e otto in messa alla prova. Tra loro, due sono state condannate per partecipazione a manifestazioni politiche. Non sono state poche, negli ultimi anni, soprattutto in relazione al movimento No Tav in Val di Susa, oggetto di particolare attenzione da parte di una Procura a imprinting caselliano. Le nove persone sono impegnate, a dire dell’attenzione alle tracce di comunità, nella “carovana salva cibo”, erede delle Brigate Volontarie per la distribuzione di generi alimentari alle famiglie bisognose durante la pandemia; nell’ambulatorio popolare di via dei Transiti e all’interno delle attività dello Spazio Sociale, tra cui la Biblioteca dei Bambini e delle Bambine, luogo di aggregazione sociale e di doposcuola per i bambini e le bambine del quartiere. Non sempre però le sanzioni e le misure di comunità si svolgono in questa logica. L’anno scorso, dopo averlo ospitato in comunità per alcuni mesi, abbiamo accolto uno dei giovani rapper più seguiti dai giovani in messa alla prova. Gli abbiamo proposto di confrontarsi, oltre che con persone della sua età, soprattutto con gli adulti, intesi in questo caso come educatori/trici e insegnanti, così in difficoltà nel decrittare i nuovi linguaggi. Ne è uscito un arricchimento culturale collettivo. Quest’anno abbiamo proposto un progetto analogo per un altro rapper, ma gli è stato imposto di impegnare quelle ore, alcune centinaia, in una Residenza Sanitaria per Anziani. In un mondo a lui completamente estraneo. Così come lui a quel mondo. Bisognerebbe capire se in queste misure debba essere prevalente l’aspetto sanzionatorio o la valorizzazione delle competenze delle persone: tutti/tutte ne hanno, nella comunità. I talenti, a volte, hanno bisogno anche di tempo per svelarsi. Da anni abbiamo in comunità una donna originaria dell’Est europeo uscita dal bosco di Rogoredo, dopo essere stata vittima di maltrattamenti e di sfruttamento. Chiusa in se stessa, a volte esplodeva in reazioni di rabbia. Poi, l’anno scorso le è stato proposto di partecipare a degli incontri di lettura. Ne ha tratto un nutrimento tale da proporsi nel gruppo di rappresentanti degli/delle ospiti all’interno della comunità. Un gruppo che al Gabbiano si chiama Spartaco. Dove gli ospiti sono persone, con tutte le loro contraddizioni, e non utenti. O pazienti. Tornando alle misure alternative al carcere, se si vuole dare un respiro strategico, e non solo di necessità, al concetto di carcere come extrema ratio, occorre cambiare paradigma, passando dal concetto di giustizia retributiva e dal connubio tra giustizia retributiva e giustizia trattamentale o rieducativa a quello di giustizia riparativa, o meglio, restorativa, mirando concretamente a costituire delle comunità restorative. Il fuori carcere deve essere un impegno di società e territorio, non può essere lasciato solo a soluzioni tecniche. Il rischio di misure interessanti come la messa alla prova è che, senza cambio di paradigma, rientrino semplicemente nell’alveo della riduzione del danno carcerario e non nel corso di un nuovo fiume. Più pulito. *Comunità terapeutica “Il Gabbiano” Dietro le sbarre dell’inutilità: il 67% dei detenuti non lavora di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 settembre 2024 “Il carcere è un ozio senza riposo, ove il facile è reso difficile dall’inutile”. Questa frase, incisa sui muri del carcere di Massa Carrara, rappresenta una testimonianza cruda e diretta dell’esperienza carceraria. Con poche parole, cattura l’essenza di un sistema che spesso fallisce nel suo intento riabilitativo, trasformando il tempo di detenzione in un periodo di stasi forzata e frustrazione. Questo paradosso, dove l’inattività diventa una forma di punizione aggiuntiva, è stato al centro dell’attenzione dell’Osservatorio sulle partnership pubblico- private di The European House - Ambrosetti (Teha). L’organizzazione si è posta l’ambizioso obiettivo di ribaltare questa realtà, proponendo un modello carcerario innovativo che pone il lavoro al centro del processo di riabilitazione e reinserimento sociale dei detenuti. In occasione del Forum di Cernobbio l’Osservatorio ha presentato uno studio dal titolo eloquente: “Recidiva Zero. Istruzione, Formazione e Lavoro in Carcere: dalle esperienze progettuali alle azioni di sistema”. Questa ricerca, commissionata dal Cnel, getta luce su una realtà allarmante del sistema carcerario italiano. I dati emersi sono sconcertanti: solo il 33% dei detenuti è coinvolto in attività lavorative. Questo dato, già di per sé preoccupante, nasconde un’ulteriore criticità: l’ 85% dei lavori sono alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Ciò significa che la stragrande maggioranza delle opportunità lavorative offerte si limita a ruoli interni al carcere, spesso caratterizzati da un basso valore aggiunto sia in termini di competenze acquisite che di prospettive. I numeri del fallimento - Nonostante la normativa vigente preveda diverse forme di impiego per i carcerati, la realtà sul campo rivela criticità e disparità che ne limitano il potenziale trasformativo. Attualmente, come emerge dallo studio di Teha, i detenuti possono lavorare sia alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria che per datori di lavoro esterni. Nel primo caso, che può svolgersi all’interno o all’esterno del carcere, la remunerazione è fissata a due terzi di quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali. Il lavoro per datori esterni, invece, può essere intra- murario o extra- murario, con un importante impulso dato dal Regolamento di Esecuzione dell’Ordinamento penitenziario del 2000. Questo ha aperto la strada a collaborazioni significative tra il sistema carcerario e i privati, permettendo alle imprese di assumere detenuti direttamente all’interno degli istituti, utilizzando gratuitamente spazi e attrezzature esistenti. I numeri del 2023 dipingono un quadro complesso: il 33% dei detenuti, pari a 19.153 persone, è coinvolto in attività lavorative. Tuttavia, la distribuzione di questi impieghi rivela squilibri significativi. L’ 85% lavora per l’Amministrazione penitenziaria, mentre solo l’ 1% è impiegato presso imprese private e il 4% presso cooperative sociali. Il restante 10% si divide tra lavoro all’esterno e regime di semi- libertà. Dietro queste cifre si celano ulteriori problematiche. Molti detenuti che lavorano per l’Amministrazione Penitenziaria lo fanno per poche ore al giorno o al mese, o per periodi brevi. Le direzioni degli istituti, per mantenere livelli di occupazione sufficienti, spesso riducono gli orari di lavoro o implementano sistemi di turnazione. Il lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione ha ulteriori criticità, con l’ 82,5% dei detenuti che svolge servizi d’istituto, con una qualificazione professionale limitata. La scarsità di strumentazioni adeguate, gli orari ridotti e le limitate opportunità di sviluppare relazioni interpersonali ostacolano l’acquisizione di competenze realmente spendibili all’esterno. Esistono, poi, marcate disparità geografiche: un divario di 15,1 punti tra la Lombardia e la Valle d’Aosta, con la percentuale più bassa. Criticità per carcere e imprese - Sempre secondo lo studio di Teha, il sistema carcerario si trova ad affrontare una serie di sfide strutturali che ostacolano l’efficace implementazione di programmi lavorativi e formativi. Molte strutture mancano di spazi adeguati, mezzi e tecnologie necessarie per lo svolgimento di corsi di formazione professionale e attività lavorative. Il sovraffollamento cronico aggrava ulteriormente la situazione, portando a un aumento degli eventi critici e complicando la gestione delle attività lavorative e formative. Inoltre, si registra una carenza di personale dotato di competenze tecniche e manageriali, figure essenziali per agire da interlocutori e promotori nella creazione di Partnership Pubblico- Private. Un altro ostacolo significativo è la mancanza di una governance integrata che coinvolga Amministrazioni centrali, autonomie locali, terzo settore e forze produttive. Per le imprese esistono vincoli derivanti dai regolamenti aziendali, come i limiti di privacy nella gestione dei dati, e la lentezza burocratica nel processo di assunzione dei detenuti costituiscono significative barriere all’ingresso. Una volta superate queste barriere iniziali, le imprese si trovano a fronteggiare altre difficoltà. La mancanza di una cultura pro- business all’interno delle carceri, l’assenza di interlocutori operativi specializzati e l’inadeguatezza degli spazi interni utilizzabili riducono la competitività del lavoro in carcere. L’alto turnover e la mancanza di garanzie e flessibilità lavorativa, dovuta alla detenzione, rendono ancora più complessa l’assunzione di detenuti. Non va sottovalutato, infine, l’impatto della stigmatizzazione sociale. Nel frattempo si è insediato al Cnel il “Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale”, presieduto dal consigliere Emilio Minunzio, per promuovere la cooperazione interistituzionale e concorrere, attraverso il coinvolgimento sistematico delle parti sociali, delle forze economiche e del terzo settore, alla realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi per il reinserimento socio- lavorativo e l’inclusione dei detenuti. Verso nuovi modelli - Per superare queste criticità e incrementare il lavoro in carcere, secondo quanto emerge dallo studio, è necessario guardare a modelli sistemici che possano garantire ai detenuti percorsi formativi e lavorativi adeguati, in linea con le loro esigenze e le richieste del mercato esterno. In Europa, il Regno Unito offre esempi interessanti di Partnership Pubblico- Private nel settore dell’istruzione e formazione dei detenuti. Un caso emblematico è quello di Prisoners Education Trust, un’Ongche sostiene i detenuti nell’acquisizione di competenze attraverso lo studio a distanza. I risultati sono incoraggianti: il 40% dei partecipanti ha continuato gli studi, il 24 % ha fatto domanda di lavoro (con un aumento del 20% della probabilità di trovarlo), e il 36% ha intrapreso percorsi di volontariato, con una riduzione media della recidività del 20%. Un altro modello di riferimento è il sistema scandinavo, fondato sulla riabilitazione e sul mantenimento dell’umanità dei detenuti. Questo approccio si traduce in un minor numero di persone in carcere, una bassa recidività e migliori prospettive di impiego. Non a caso, Islanda, Finlandia e Norvegia sono i tre paesi con la popolazione carceraria minore in Europa, con una media di soli 46,3 detenuti ogni 100.000 abitanti. Questi esempi dimostrano che è possibile creare un sistema carcerario più efficace e umano, che prepari veramente i detenuti al reinserimento nella società. Un tema urgente per il Parlamento: chiudiamo le carceri minorili Il Manifesto, 26 settembre 2024 L’appello. Le celle dovrebbero essere sempre una misura residuale, a maggior ragione prima della maggiore età. Invece le persone recluse sono in rapido aumento. Le celle vanno sostituite con percorsi alternativi incentrati sui ragazzi e le ragazze e non sulla cancellazione del loro presente e di ogni possibilità di futuro. Nelle carceri italiane l’attitudine vendicativa sta cancellando la funzione rieducativa richiamata in Costituzione. Le condizioni di vita sono insostenibili: il tasso di sovraffollamento è ormai del 130% con 61.800 persone attualmente detenute, numero che continua a crescere insieme a quello degli atti di autolesionismo e dei suicidi. Dall’inizio dell’anno 72 persone detenute e 7 agenti si sono tolte la vita, ma di fronte a questa drammatica situazione, la risposta istituzionale continua ad essere il maggiore ricorso alla carcerazione preventiva, l’introduzione di nuovi reati e l’inasprimento delle pene. Si riduce il ricorso alle pene alternative e si cancella ogni progettualità mirata al reinserimento sociale e lavorativo. E quanto ciò abbia gravi conseguenze ce lo dicono due numeri: a fronte di un tasso di recidiva generale del 70% torna a delinquere solo il 2% di chi è in possesso di un contratto di lavoro. La situazione è ancora più odiosa negli istituti minorili. Le celle dovrebbero essere sempre una misura residuale, a maggior ragione per persone minorenni. Invece sono attualmente 570 le persone recluse nelle strutture detentive rispetto ai 496 di dicembre 2023 e ai 381 di dicembre 2022. L’ordinamento prevede altre possibilità che vanno intese come prioritarie, a cominciare dalla messa alla prova, volutamente ignorate. Il governo Meloni ha incentivato il ricorso alla carcerazione dei minorenni, in particolare in forma di misure cautelari e di esclusione dalla messa alla prova per diverse tipologie di reato, attraverso il decreto “Caivano” del settembre 2023, mentre nessun reale investimento è stato fatto sulla prevenzione e sul rafforzamento dei percorsi alternativi alla detenzione. Il disegno di legge sulla “sicurezza” approvato alla Camera e ora al Senato va nella medesima direzione securitaria e radicalizza ancora la situazione, prevedendo lunghe pene per chi occupa immobili o effettua un blocco stradale, come per chi protesta in carcere o nei Cpr anche in maniera non violenta e per le donne incinte e le madri con figli di meno di un anno. Insomma, si va in direzione esattamente opposta a quella che richiederebbe il buonsenso e la più elementare civiltà: un’amnistia per i reati sotto i tre anni e l’abolizione delle norme crea-detenuti come la legge Bossi-Fini in tema di immigrazione e la legge Fini-Giovanardi in materia di sostanze stupefacenti sono provvedimenti da attuare immediatamente per contrastare il sovraffollamento. La centralità dell’approccio educativo ha reso per molto tempo il sistema della giustizia penale minorile italiano uno dei più avanzati in Europa e l’involuzione alla quale stiamo assistendo non è accettabile. Le problematiche complesse e multifattoriali che i ragazzi e le ragazze vivono vengono patologizzate e catalogate come devianza mentre la risposta, prevalentemente punitiva, continua a essere inadeguata. Il risultato è quello di accrescere il senso di frustrazione e di rabbia, che spesso sfociano in atti di violenza, rendendo invivibile il contesto carcerario sia per le persone detenute che per il personale. Casal del Marmo a Roma è la dimostrazione emblematica di tutto ciò. Le proteste che in questi mesi hanno interessato il carcere minorile della Capitale, come di altre città italiane, sono la conseguenza di scelte politiche che hanno aumentato il senso di esclusione, solitudine, e disperazione di chi si trova ad avere nella detenzione l’unica risposta da parte della società. Chiediamo di mettere all’ordine del giorno nelle aule parlamentari il tema urgente della chiusura delle carceri minorili, da sostituire con percorsi alternativi incentrati sui ragazzi e le ragazze e non sulla cancellazione del loro presente e di ogni possibilità di futuro. Facciamo appello a politici, intellettuali, organizzazioni sociali e di movimento, a giuristi e accademici, a tutte le persone e le realtà organizzate che hanno a cuore la democrazia di questo Paese affinché si levi forte la voce di chi la reclusione e il carcere li vuole ridurre fino all’estinzione e non moltiplicarli, a cominciare da quelli per i minorenni. I primi firmatari di questo appello (al quale si può aderire attraverso la mail stopcarceriminorili@gmail.com) sono: Luigi Manconi, scrittore già senatore - Ilaria Salis , europarlamentare - Francesca Ghirra, deputata - Ilaria Cucchi, deputata - Arturo Salerni, Progetto Diritti - Alessandro Luparelli, consigliere Roma Capitale - Caterina Pozzi, Presidente Cnca (Coordinamento nazionale comunità accoglienti) - Claudio Marotta - consigliere regionale - Simona Maggiorelli - direttrice Left - Andrea Catarci, Assessore Roma Capitale - Chiara Cacciotti, ricercatrice e attivista Spin Time Labs - Massimiliano Smeriglio, scrittore, già parlamentare europeo - Giovanna Cavallo - Legal aid, diritti in movimento - Mario Pontillo, Associazione Il Viandante - Rita Vitale, Associazione A Buon Diritto - Cristian Raimo, scrittore - Roberto Eufemia, consigliere Citta metropolitana Roma Capitale - Carla Baiocchi, Casa dei Diritti Sociali. Hanno inoltre aderito le associazioni: Cnca (Coordinamento nazionale comunità accoglienti) A Buon Diritto - Arpjtetto ets - Spin Time Labs - Il Cammino - Folias - Parsec consortium - Acquario 85 - Il Trattore - il Pungiglione - Magliana 80 - Programma Integra - Casa dei Diritti Sociali - Kairos soc.coop.soc arl Onlus. Lucia Castellano: “Il carcere si può cambiare: riconosciamo i diritti dei detenuti” di Francesco Petronzio ilnuovogiornale.it, 26 settembre 2024 “Cominciamo a pensare ai detenuti come soggetti portatori di diritti”. È un cambio di mentalità quello auspicato da Lucia Castellano, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria in Campania con un’esperienza trentennale. “Il carcere somiglia alla nostra società - dice - è ingiusto come ingiusto è il mondo in cui viviamo. Ma un’alternativa è possibile, a partire dalle piccole cose: ad esempio, si può iniziare a cambiare il concetto di diritto. Oggi il carcere è ancora il luogo del potere assoluto, tutto è una concessione sovrana”. Al Festival del Pensare Contemporaneo, domenica 22 settembre, Lucia Castellano è stata intervistata da Marcella Maresca insieme alla giornalista Daria Bignardi a Palazzo Gotico. Il paradosso: meno reati, ma più detenuti - Daria Bignardi ha recentemente raccolto una serie di testimonianze ed esperienze di detenzione nel libro “Ogni prigione è un’isola”, titolo da cui prende nome l’incontro del Festival. Un mondo, quello del carcere, che è profondamente mutato negli ultimi trent’anni: i reati calano, crescono le esecuzioni penali esterne ma, paradossalmente, aumenta la popolazione detenuta. “Nel 1990 nelle carceri italiane c’erano 30mila detenuti, nel 2019 erano 60mila. È un’assurdità”, dice Bignardi. Le fa eco la provveditrice Castellano. “Per le pene inferiori ai quattro anni - spiega - il legislatore immagina possibili misure alternative al carcere, come i lavori di pubblica utilità. Il numero di persone che scontano la pena all’esterno sta crescendo, e questo è un bene. Ma, allo stesso tempo, dovrebbe diminuire la popolazione detenuta, che invece è in crescita. C’è qualcosa che non va”. Bignardi ha visitato i penitenziari di San Vittore (Milano) e Pozzuoli. “In questi anni - racconta - ho capito quanto è complesso quel mondo e come è ingiusto che venga amministrato in modo così arcaico, medievale. Soprattutto negli ultimi dieci anni il carcere è un luogo che accoglie un’umanità dolente, disgraziata”. Anche la popolazione dietro le sbarre è diversa. “Il carcere è molto cambiato rispetto a ciò che vedevo nel 1998 - rileva Bignardi - quando c’erano detenuti politici e grandi rapinatori; oggi ci sono soprattutto piccoli delinquenti, malati psichiatrici, tossicodipendenti e immigrati. E gli strumenti sono pochi per stare dietro a questo mondo. Il carcere somiglia alla nostra società, è ingiusto come la nostra società. Molti finiscono in carcere da innocenti o per reati commessi involontariamente, è un mondo che riguarda tutti noi come cittadini”. Cambiare a partire dalle piccole cose - Dalle perquisizioni agli ambienti, dalla tecnologia alla fiducia: in galera ogni diritto diventa concessione, tutto dipende da decisioni prese dall’alto. “Cominciamo a pensare ai detenuti come soggetti portatori di diritti - è l’auspicio di Castellano - potrebbe essere una piccola grande novità”. Secondo la procuratrice, nel mondo del carcere si potrebbero attuare diverse innovazioni. Per la comunicazione, Castellano dice che “si potrebbe permettere ai detenuti di usare le e-mail, tra l’altro sarebbero più tracciabili rispetto ai pizzini“. “La pandemia - racconta - ha portato in carcere le videochiamate, che si aggiungono ai colloqui in presenza: il detenuto può così entrare in casa propria, vedere le stanze dei propri figli”. Ma è sempre il direttore a stabilire se e quando concedere questa libertà. “I diritti sono tali perché non si meritano - dice Castellano - andrebbe cambiato il concetto”. “Il carcere dev’essere un “affare” della città” - E poi le perquisizioni. “Chi entra in carcere viene perquisito in modo disumano. Perché non pensiamo a un tipo di controllo simile a quello degli aeroporti? Sarebbe ugualmente efficace ma non lesivo della dignità”, propone Castellano, che però amaramente constata: “Se avessimo relazioni significative che rispettino la dignità avremmo un carcere migliore, io non ci sono riuscita, passo il testimone a chi è più giovane di me, nella speranza che si possa migliorare”. Una relazione “vera”, fondata sulla fiducia. “Il carcere non può essere un servizio pubblico come gli altri - afferma la procuratrice - soltanto nel momento in cui la relazione col detenuto è vera, quando il detenuto percepisce di avere intorno un mondo che si occupa di lui e il mondo penitenziario ruota intorno all’utenza (i detenuti), solo così potremmo davvero pensare di cambiare il carcere”. C’è una condizione. “Si può fare se il carcere smette di essere solo un “affare” delle amministrazioni penitenziarie e diventa un affare della città. La città deve entrare dentro il carcere: la contaminazione è imprescindibile affinché il carcere acquisti il senso che la legge gli dà. La regola senza la relazione non ha significato, così come non ce l’ha la relazione senza la regola”. Politica e carcere - “Parlare di trasparenza e di modernizzazione delle carceri non porta voti. La gente si chiede: perché stanziare risorse per chi ha commesso crimini?”, dice Daria Bignardi, constatando che “la politica è molto bloccata sulla questione carceraria”. Lucia Castellano dice che “il carcere è l’ultimo anello di una catena, spesso ci si finisce per deprivazione sociale o per impossibilità di avere una misura alternativa, spesso perché non si ha una casa. Questo succede soprattutto al nord, dove c’è un’utenza straniera da inserire, rispetto alla quale noi siamo inermi, mentre al sud la situazione è diversa. Siamo il punto finale di un sistema che porta in galera sempre la stessa gente: a parte il periodo di Mani Pulite, ho sempre visto “facce da galera”. Al sud invece in carcere ci sono anche persone affiliate o vicine alla criminalità organizzata. Il nostro è un compito difficilissimo, ma allo stesso tempo affascinante”. Le esperienze di redenzione esistono. “Può capitare che in carcere un detenuto conosca una persona, uno psicologo, un educatore, che gli dà fiducia. Per cui, quando esce, ha voglia di fare del bene. La fiducia è in grado di cambiare qualunque relazione. A volte è più facile stare nel proprio angolo e non amare, ma quando ci si sforza di farlo i risultati ci sono”. Morire in carcere: Modena, marzo 2020 - Uno dei racconti contenuti nel libro di Daria Bignardi ha come protagonista Ahmed, il fratello di una delle vittime della rivolta dell’8 marzo 2020 nel carcere di Modena. “Quando Conte (il presidente del Consiglio a quell’epoca, ndr) annunciò l’inizio del lockdown, nelle carceri iniziarono le rivolte. Se il virus fosse entrato, molto probabilmente tutti si sarebbero contagiati. Furono sospesi i colloqui, i trattamenti, e i detenuti erano consapevoli del rischio di morire come topi. Nel carcere di Modena quel giorno morirono nove persone, ufficialmente a causa dell’eccesso di psicofarmaci e metadone prelevati dalla farmacia. Ahmed - racconta Bignardi - mi disse che pochi giorni prima suo fratello gli aveva confidato che stava molto male e si sentiva di morire. Aveva una pena breve, sarebbe uscito dopo un mese. Ahmed mi disse: ti sembra possibile che una persona che esce fra un mese si uccide col metadone? Come tanti altri, prima di immigrare Ahmed considerava l’Italia il luogo della legalità. Sono queste le storie che mi fanno vergognare”. Il carcere non può essere luogo di redenzione se è disumano di Francesco Provinciali* lavocedelpopolo.it, 26 settembre 2024 Quando si fa ingresso in un carcere per interrogare o meglio - ascoltare - una persona che vi si trova rinchiusa, si è come sopraffatti da mille emozioni, che vanno oltre il ruolo, il procedimento, l’assolvimento di un incarico di giustizia, gli interrogativi che precedono il colloquio e che dovranno essere verbalizzati nel modo più testuale e terzo possibile. “È armato, dottore?” è la prima domanda che viene posta nell’astanteria dopo il riconoscimento di rito. Per uno che si spaventava da bambino ad usare le pistole ad acqua la domanda è persino imbarazzante, anche pur comprendendone le ragioni. Se ti chiudono in una cella dove riceverai un detenuto è fondamentale entrare privi di armi, la vigilanza è strettissima ma tutto potrebbe accadere: da questo contesto di interlocuzione si cominciano a comprendere le ragioni della disperazione umana. La prima volta colpisce la suggestione ambientale, il trovarsi in un contesto dal quale si sa che si uscirà più tardi mentre tutto, intorno, ti parla di clausura, controllo, isolamento, privazione, tempo precluso ad ogni alito di speranza. Non si contano le porte che vengono aperte con mazzi di chiavi inusitate, ma si è colpiti - inevitabilmente - dal loro rumore quando ti si chiudono alle spalle: un rumore metallico inconfondibile, che fuori di lì non ritrovi in altri contesti, le porte o i cancelli sono massicci e inespugnabili. Allora ti vengono in mente Kafka e il suo processo, la morte come un cane di Joseph K., la fortezza d’If, Alcatraz e tutte le coreografie che la letteratura e il cinema ci hanno tramandato sugli aspetti più terrificanti dell’essere rinchiusi e perseguitati senza remissione. Poi ti si para dinnanzi una cella, chiusa con sbarre di ferro di cui viene aperta la porta di ingresso per ricevere il detenuto che giunge inesorabilmente ammanettato e accompagnato da almeno due guardie carcerarie. Poi si è dentro in due, chiusi a doppia mandata. Sono molteplici le ragioni di un interrogatorio: per quanto mi riguarda esse si riferivano a questioni di genitorialità riguardanti i figli dei detenuti. Questa fattispecie del tutto particolare mi ha sempre indotto ad assumere un atteggiamento interlocutorio: oltre il reato commesso, oltre la pena inflitta si trattava sempre di padri con cui dovevi confrontarti sulla vita dei figli rimasti a casa, le situazioni affrontate sono state molteplici tuttavia ho sempre percepito una certa commozione nei carcerati mentre parlavano, chiedevano, ponevano domande sulla vita dei minori privati della figura paterna. Credo che immaginare la vita dentro un carcere, l’isolamento dal resto del mondo, la consapevolezza della durata della pena, le restrizioni a cui i detenuti sono inevitabilmente sottoposti necessiti dell’esperienza della visita e dell’interrogatorio: capire è una componente fondamentale del giudizio, diventa un dovere per chi ascolta. Viviamo in un’epoca in cui tutto di è incancrenito, in cui la molteplicità dei reati è esponenziale, la commissione di delitti gravissimi come il togliere la vita ad un’altra persona suscitano nell’immaginario collettivo la prevalenza dell’auspicio di una condanna esemplare. Non potrebbe essere diversamente. Personalmente sono sempre più colpito dalla diversità delle sentenze nel duplice rapporto con fatti analoghi accaduti in altri contesti e con l’entità della pena inflitta. Ci sono situazioni imbarazzanti dove le lungaggini processuali portano a sentenze tardive, alla prescrizione di reati gravissimi, altre in cui la carcerazione preventiva risulta necessaria per imbastire un processo data la gravità del reato, altre ancora in cui da un lato si indulge nell’allentamento di provvedimenti restrittivi con grande scandalo presso la pubblica opinione, specie se di fronte a certe evidenze mentre dall’altro, l’ammissione di colpa, il patteggiamento, spalancano le porte del carcere per anni e anni o per la vita intera. Da una parte i fautori del “nessuno tocchi Caino”, dall’altra gli accaniti giustizialisti del “caccialo dentro e butta via la chiave”. Visitando alcuni ambienti carcerari si percepisce quanta parte di vita il detenuto debba lasciare fuori di lì e dimenticare. La fatiscenza di certe situazioni di sovraffollamento non può esimerci dal considerare che se il carcere è il luogo di espiazione della pena che la società ha creato per far scontare delitti anche orribili, tuttavia la nostra civiltà giuridica ci ricorda che la finalità della detenzione è di tipo “redentivo” e che alla privazione della libertà personale per una parte breve o lunga della vita non può, non deve essere associato un contesto disumano che porta all’impazzimento o al suicidio (quando scrivo se ne contano 72 da inizio 2024) , una sorta di caienna infame dove si impara solo ad essere peggiori. Ci sono contesti detentivi di cui viene segnalata l’inadeguatezza, per questo mentre la Giustizia deve fare il suo corso e il reo espiare la pena inflittagli dal Tribunale, occorre pensare a questo tema come ad una priorità del Paese, acuita - inutile negarlo da una immigrazione clandestina fuori controllo. Il problema non si può risolvere con il buonismo del perdono o degli sconti di pena: in una società multietnica e ad alto tasso di criminalità e di reiterazione dei reati serve, urge, costruire istituti carcerari dove la dignità dell’essere umano venga rispettata, con condizioni di vita tollerabili che non indulgano o spingano verso scelte disperate ed estreme. Al 18 agosto la media del sovraffollamento carcerario nazionale è del 131,06 %, con San Vittore a Milano che - a causa di strutture e celle inagibili - raggiunge la cifra record del 220,98 % (dati Il sole24 ore). Il Garante dei detenuti riferisce che “i detenuti in Italia sono ad oggi 61.465, i posti disponibili ammontano a 46.898, rispetto ad una capienza regolamentare di 51.282”. Il 78 % degli istituti di pena ha presenze di detenuti superiori al consentito, mentre in 50 istituti è ‘over’ del 150 %. Di fronte a certi eventi delittuosi e premeditati, allo sterminio di una famiglia, alla vita strappata ad adolescenti e alle violenze sulle donne, all’uccisione di madri, padri, figli, fratelli, sorelle…. riesce difficile, impossibile pensare ad un perdono, ad una remissione. Eppure la cronaca ci ha fatto conoscere misfatti crudeli e spietati di fronte a cui i familiari delle vittime non hanno invocato vendetta ma solo giustizia. Ricordiamo quanto scriveva Cesare Beccaria: “perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi”. (Cesare Beccaria - “Dei delitti e delle pene” 1764). Conviviamo con il dolore, la sofferenza, la solitudine, la disperazione: ricordando i fatti di cronaca di questi ultimi anni dobbiamo fare uno sforzo di immedesimazione per capire fino a che punto l’uomo sa essere crudele. Forse il senso di impunità, la certezza di farla franca non fermano le mani assassine. Di fronte all’homo homini lupus è già difficile, forse impossibile capire, l’irrazionale prevale sul razionale. Ma il vero valore aggiunto resta il perdono. *Pedagogista, giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano Esecuzione penale: in arrivo bando del Ministero per l’inclusione socio lavorativa di Sara Occhipinti altalex.com, 26 settembre 2024 Sarà finalizzato alla realizzazione di progetti di formazione e apprendimento dei detenuti e di costituzione di un sistema integrato tra UEPE e servizi di comunità territoriale. Il Ministero della Giustizia ha pubblicato sul proprio portale il preavviso di selezione dei progetti di inclusione lavorativa dei soggetti in esecuzione penale. Il bando in arrivo a metà settembre sarà rivolto a Regioni e province autonome e finalizzato alla realizzazione di progetti di formazione e apprendimento dei detenuti e di costituzione di un sistema integrato tra UEPE e servizi di comunità territoriale. Prevista per la seconda metà di settembre l’apertura del bando per la selezione dei progetti di inclusione socio lavorativa dei soggetti in esecuzione penale. Lo annuncia il Ministero della Giustizia sul proprio portale, pubblicando il preavviso di selezione destinato alle Regioni e alle province autonome interessate. Il preavviso è stato approvato in attuazione della Convenzione del 31 maggio 2024 tra il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e il Ministero della Giustizia, nell’ambito del Programma nazionale di inclusione e lotta alla povertà per il periodo 2021-2017. Le proposte progettuali dovranno vertere su due azioni, la prima rivolta ai detenuti (e denominata AMA DE) sarà finalizzata ad offrire maggiori possibilità di recupero ed inclusione in fase di esecuzione penale attraverso iniziative formative e di apprendimento per l’acquisizione di competenze lavorative. La seconda, denominata AMA ES, sarà rivolta invece agli adulti in uscita dai luoghi di detenzione, in esecuzione penale esterna, o sottoposti a sanzioni di comunità in carico agli UEPE, e finalizzata alla costituzione di un sistema integrato di interventi, alla creazione di nuove sinergie e collaborazioni sui territori, anche mediante rapporti tra esecuzione penale e servizi di comunità territoriali, anche con accompagnamento di tutor dedicati. L’importo del sostegno alle due azioni, a carico dei Fondi FSE per l’inclusione sociale e la lotta alla povertà e FESR per gli interventi infrastrutturali per l’inclusione economica è di 150 milioni di euro per i progetti di inclusione attiva dei detenuti (AMA DE) e di 75 milioni di euro per l’inclusione dei soggetti in esecuzione penale esterna (AMA ES). Contro il presidente dell’ordine dei giornalisti di Claudio Cerasa Il Foglio, 26 settembre 2024 La presunzione di innocenza ostacola la libertà d’espressione? Complimenti!. Intervenendo all’assemblea della stampa toscana, il presidente nazionale dell’ordine dei giornalisti Carlo Bartoli, ha attaccato frontalmente il procuratore di Parma Alfonso D’Avino, che ha aperto un fascicolo per divulgazione di atti d’ufficio in relazione alla tragedia di Traversetolo, in provincia di Parma. Secondo Bartoli, “il circolo mediatico di cui questo magistrato parla è stato provocato dal silenzio”. In sostanza i magistrati inquirenti che hanno lodevolmente scelto la via della massima riservatezza in un caso straziante hanno la colpa di non aver invece costruito una sceneggiata mediatico-giudiziaria che avrebbe dato soddisfazione alla stampa, anche se si sarebbe colpita gravemente la sensibilità umana di tante persone. Secondo lui “la legge Cartabia sulla presunzione di innocenza è completamente sbagliata”. In sostanza è lo stesso principio costituzionale della presunzione di innocenza che va abolito perché ostacola l’informazione, che non deve avere limiti, anche se lede diritti altrui. Bartoli se la prende anche con la proposta di legge sulla diffamazione a mezzo stampa, che “darà l’ultimo colpo agli equilibri economici della gran parte, se non di tutte, le imprese editoriali”. Perché? Perché prevede sanzioni per chi diffama a mezzo stampa. Insomma i giornali vivono solo se divulgano atti d’ufficio riservati e diffamano impunemente chi gli pare. L’idea che ha Bartoli dei giornalisti italiani è deprimente per la categoria che dovrebbe rappresentare, presentata come un’orda di divulgatori e di diffamatori che sarebbe ridotta alla fame se non esercitasse queste “nobili” arti. Dice che queste tesi bislacche non sono “soltanto” a difesa dei giornalisti, ma sostenute “per l’interesse dei cittadini a che le notizie si sappiano”. La divulgazione e la diffamazione, quindi, sarebbero notizie indispensabili al funzionamento della democrazia e all’esercizio della libertà di pensiero. Che poi siano vere, legittime e verificate è secondario, un requisito che contrasterebbe con la sua idea di libertà di espressione. Complimenti! I giudici smontano la riforma Nordio, paura al ministero della Giustizia di Enrica Riera Il Domani, 26 settembre 2024 Secondo i giudici è una riforma che interviene “in modo pesante sui reati contro la Pa”. Biondi: “Se la Corte costituzionale accoglierà il ricorso, l’abuso d’ufficio verrà reintrodotto”. Una riforma dall’effetto “dirompente”, frutto di scelte “arbitrarie” e “non riconducibile a un legittimo esercizio della discrezionalità”. Una riforma che interviene “in modo pesante sul sistema dei reati contro la pubblica amministrazione” ed elimina “importanti presidi penali a tutela del buon andamento e dell’imparzialità”. Sono le parole dei giudici del tribunale di Firenze che, accogliendo l’istanza del penalista Manlio Morcella sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio, come anticipato da Domani, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta. Sarà dunque la Corte a doversi pronunciare: l’abolizione del reato dei cosiddetti colletti bianchi, così come voluto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, è conforme alla Costituzione? La decisione è prevista non prima della primavera del 2025. E avrà al centro uno dei punti più cari al governo. Nell’ordinanza con cui ritengono l’istanza sulla questione in esame “rilevante” e “non manifestamente infondata”, i giudici non solo mettono in evidenza eventuali profili di irragionevolezza della riforma ma evidenziano le “responsabilità politiche” di chi l’ha voluta. “La norma (sul reato di abuso di ufficio, ndc) evitava il dilagare di condotte dolosamente arbitrarie”, si legge nell’ordinanza del tribunale, “e lasciava ai cittadini uno strumento attraverso cui ricorrere alla magistratura”. Con la riforma Nordio, invece, pare che un vero e proprio regalo sia stato fatto a chi vede attribuirsi dalla legge “poteri rilevantissimi in grado di incidere pesantemente sui diritti inviolabili, costituzionalmente garantiti, in primis la libertà personale e il patrimonio”. Se la decisione della Corte costituzionale accoglierà la questione si sancirà un ritorno al passato e “verrebbe reintrodotta”, spiega l’ordinaria di Diritto costituzionale all’università degli studi di Milano, Francesca Biondi, “una fattispecie incriminatrice abrogata”. Un reato senza il quale oggi potrebbero essere autorizzati eccessi di potere. Ma anche, secondo le parole di Marco Ruotolo, costituzionalista nell’ateneo di Roma Tre, “prevaricazioni, favoritismi e sfruttamento privato dell’ufficio”. “L’accoglimento della questione di costituzionalità”, prosegue Biondi, “produrrebbe effetti sfavorevoli”. Nei confronti di chi attualmente, a seguito dell’abolizione dell’abuso di ufficio, può chiedere la cancellazione della propria condanna definitiva. Occorrerà anche valutare, in caso di accoglimento da parte della Consulta, cosa potrebbe “rischiare” a livello politico il ministro Nordio. “Tante volte scelte politiche rilevanti sono state messe nel nulla dalla Corte Costituzionale senza che questo abbia prodotto conseguenze politiche sulla compagine governativa”, dice Biondi. Concorda l’ordinario di Roma Tre Ruotolo: “Nessuna responsabilità personale”. Ma il professore aggiunge: “Una eventuale dichiarazione di incostituzionalità significherebbe tuttavia la smentita di un’azione di governo che sarebbe riconosciuta lesiva di precisi obblighi internazionali. La Convenzione di Merida chiede il rafforzamento delle norme anti corruzione e non ammette retrocessioni rispetto alla lotta a questo gravissimo fenomeno. Nessuna responsabilità personale del ministro sì, ma non credo mancherebbe una critica a livello politico”. Del resto con la cancellazione dell’abuso di ufficio il governo ha più volte ribadito di essere riuscito a riformare la giustizia in Italia. Ma se adesso quella riforma scricchiola, sarà anche doveroso valutare quanta dose di propaganda ha accompagnato le affermazioni di Nordio e della destra meloniana. Che dell’abolizione del reato dei pubblici ufficiali (e non solo) ha fatto il suo vessillo. “Atti dei Gip spacciati per condanne, giusto oscurarli”, la lezione di Oliviero Mazza di Valentina Stella Il Dubbio, 26 settembre 2024 Proseguono in commissione Giustizia al Senato le audizioni sullo schema di decreto legislativo riguardante la presunzione d’innocenza e il diritto di presenziare al processo nei giudizi penali. Si tratta, per intenderci, del provvedimento in cui è inserita la norma che vieta la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare, approvata in Consiglio dei ministri e ora al vaglio di Palazzo Madama e Montecitorio per i necessari, seppur non vincolanti, pareri. Ieri i senatori hanno ascoltato il professore, e avvocato, Oliviero Mazza, ordinario di Diritto processuale penale presso l’Università Bicocca di Milano, che ha sottolineato tra l’altro come “il sistema si regga su una grossolana ipocrisia: gli atti d’indagine coperti dal segreto non sono di per sé pubblicabili, ma quando vengono riportati nell’ordinanza cautelare, ossia in quella che viene intesa come una cripto-condanna retta da una cripto-imputazione, si trasformano in notizie degne della pubblicazione integrale. Il giudice alchimista tramuta così l’indagine poliziesca in prova di colpevolezza ostensibile all’opinione pubblica, il tutto senza che la voce della difesa possa trovare il benché minimo spazio”. Per Mazza “non stupisce, quindi, l’accanimento nel rivendicare la pubblicabilità di quella che è considerata la vera condanna, la tempestiva ed esemplare reazione al crimine adottata al di fuori di ogni regola basilare del giusto processo. Così come non stupisce l’invettiva contro la cosiddetta legge- bavaglio che vorrebbe semplicemente ricalibrare i rapporti fra presunzione d’innocenza e libertà di stampa”. E ancora: “La pubblicazione dell’ordinanza custodiale è la più radicale negazione della presunzione d’innocenza”, ha sostenuto lapidario. Pertanto “la proposta legislativa di non pubblicare testualmente quell’atto è un preciso segnale in controtendenza rispetto alla vergognosa gogna mediatica alla quale sono esposti i detenuti in attesa di giudizio. Il nuovo bilanciamento di interessi privilegia il rispetto della presunzione d’innocenza quale condizione essenziale per il corretto esercizio della libertà di stampa. La modifica dell’articolo 114 del codice di procedura penale merita, quindi, piena approvazione”. Tuttavia Mazza ha sollevato due criticità: la limitata portata applicativa, che andrebbe estesa a tutte le misure cautelari, e la mancanza di sanzioni per l’inosservanza del nuovo divieto. Sul primo punto il professore ha proposto l’estensione del divieto a ogni provvedimento cautelare. Sul secondo punto “una soluzione efficace, in grado di rendere effettiva la tutela del segreto investigativo e della presunzione d’innocenza, senza punire i giornalisti con pene detentive, sarebbe quella di estendere la disciplina della responsabilità amministrativa degli enti ai reati commessi nell’interesse o a vantaggio degli editori e contestualmente di inasprire la risibile ammenda oggi prevista dall’articolo 684 del codice penale”. Si tratta della norma che individua il reato di “Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”, ad oggi cancellabile con un’oblazione della bellezza di 258 euro (al massimo) e, anche per questo, quasi mai contestato. Ma in proposito ha spiegato ancora il professor Mazza: “La pubblicazione arbitraria dell’atto processuale fa guadagnare gli editori, e la sanzione deve proprio incidere su questo profilo, secondo l’ormai consolidato principio per cui il crimine non paga. Bisogna togliere l’interesse economico alle pubblicazioni scandalistiche che ledono la presunzione d’innocenza”. Come? “All’articolo 684 del codice penale è apportata la seguente modificazione: le parole “da € 51 a € 258” sono sostituite con quelle “da € 1.000 a € 10.000”. In audizione sono intervenuti anche Vittorio di Trapani e Alessandra Costante, rispettivamente presidente e segretaria della Federazione nazionale della Stampa. Costante ha dichiarato: “La Fnsi è assolutamente contraria perché la norma va a ledere il diritto dei cittadini di conoscere qualsiasi notizia. Non esiste alcun nesso tra la tutela della presunzione di innocenza e gli organi di informazione, anche alla luce del fatto che la direttiva europea recepita con decreto 188/ 2021 impone agli Stati che fino a quando non si accerta la colpevolezza di un indagato le dichiarazioni rilasciate dalle autorità pubbliche e politiche, ma non dai giornalisti, non devono presentare l’indagato come colpevole. Invece con il decreto legislativo in esame facciamo un ulteriore passo nella limitazione di quei bilanciamenti imprescindibili che caratterizzano uno Stato di diritto”. Due giorni fa era intervenuta anche l’Ucpi. Nella nota consegnata alla commissione dall’associazione dei penalisti si legge tra l’altro: “Il divieto di pubblicazione, com’è noto, tutela anche il processo accusatorio e la funzione del giudice. Sul punto la Corte costituzionale ha affermato che “il protrarre il divieto di pubblicazione del fascicolo del pm anche oltre il termine delle indagini, durante il dibattimento è funzionale a evitare una distorsione delle regole dibattimentali” che sole possono portare a una decisione effettivamente “terza” del giudicante (Corte Cost. sent. 59 del 1995). Deve, dunque, essere colta con assoluto favore la norma che vieta la pubblicazione dell’ordinanza cautelare quale affermazione del principio che il giudizio di colpevolezza non può precedere il processo ed essere affidato al “circo mediatico”. Parla Alfonso Sabella: “Contro l’anti Gandhi ricorso alla Consulta” di Angela Stella L’Unità, 26 settembre 2024 “Non è pensabile una pena da 2 a 7 anni per chi occupa un immobile, mentre chi spara con una 44 magnum in un luogo pubblico è punito con 103 euro di ammenda. Si vogliono colpire i più deboli”. Il ddl sicurezza dopo l’approvazione alla Camera il 18 settembre è stato immediatamente trasmesso al Senato. Ne parliamo con il magistrato Alfonso Sabella, attualmente giudice al Tribunale di Roma che ci elenca molte criticità del provvedimento definito “forse reazionario” e nato “per colpire i più deboli”, “senza assicurare né maggiore sicurezza né deterrenza”. Cosa ne pensa del Ddl sicurezza da poco approvato alla Camera? Non si può andare avanti così, con modifiche a macchia di leopardo sulla giustizia. Quest’ultima avrebbe invece bisogno di una riforma organica, sistematica. Tra un po’ noi magistrati dovremmo ricorrere agli psicofarmaci per riuscire a orientarci in tutte queste riforme. Ormai, soprattutto, non c’è più equilibrio nella stessa richiesta punitiva. Ci spieghi meglio... Come non è pensabile nella legge contro i rave party una pena da 3 a 6 anni per chi vi partecipa, altrettanto non è pensabile una pena da 2 a 7 anni per chi occupa abusivamente un immobile così come previsto nel recente ddl, mentre chi spara con una 44 magnum in un luogo pubblico è punito con 103 euro di ammenda. Comunque in questo ddl ciò che mi fa veramente sorridere è la norma Cicalone (introduce l’aggravante comune di commettere qualunque reato “all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e della metro o all’interno dei convogli adibiti al trasporto passeggeri” ndr). Se avrò modo, solleverò il dubbio di legittimità costituzionale. Qual è il problema? Se il politico prende una mazzetta vicino a una stazione della metropolitana, c’è l’aggravante. Se io mando a quel paese il mio vicino di casa e lo faccio alla stazione della metro Furio Camillo, anziché farlo nel condominio riunito, commetto un reato ancora più grave. Che senso ha? E poi non dobbiamo dimenticare che l’aumento delle pene non rappresenta affatto un elemento di deterrenza. Purtroppo queste leggi sono spesso approvate “di pancia”, senza valutarne il reale effetto sul sistema. Rileva altre criticità? Una previsione davvero stigmatizzabile è che, con tutto il rispetto per le forze di polizia con cui ho lavorato per anni, adesso ci tolgono la discrezionalità sulle aggravanti che hanno inserito per resistenza a pubblico ufficiale ma, strumentalmente, ce la ridanno sulla questione delle detenuti madri, perché dovremmo essere noi, adesso, a decidere se quelle con figli da 0 a 12 mesi dovranno essere rinchiuse. Molto probabile che non andranno lo stesso in carcere, ma la responsabilità dinanzi agli occhi dei cittadini sarà ora dei magistrati e non del legislatore. Un altro articolo a parer mio devastante è quello che autorizza gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza, e quindi senza obbligo di denuncia, armi da fuoco quando non sono in servizio. In teoria noi immettiamo nel Paese circa un milione di armi senza alcun controllo. Dietro questa norma c’è chiara ideologia. Come la giudica? Che è quella di colpire i più deboli - gli immigrati, i carcerati, i dissidenti, i diversi - e favorire la sindrome del Marchese del Grillo. È una scelta politica, forse reazionaria, protettiva, nazionalista ma, attenzione, legittimamente adottata da chi ha avuto, e forse anche per questo, il voto dei cittadini. Io ho idee differenti, ma da magistrato applicherò tutte le leggi dello Stato anche se non le condivido; sempre che non siano in netto contrasto con la Costituzione, ovviamente. Alla luce di questo sarebbe favorevole ad una depenalizzazione? È chiaro che la depenalizzazione, auspicata da noi magistrati da tanto tempo, potrebbe essere uno dei modi per cominciare a risolvere i problemi della giustizia, ma evidentemente si va nella direzione opposta. Nordio prima di diventare Ministro era a favore... E ora ha cambiato idea e ha abolito solo l’abuso di ufficio. Hanno dato vita a nuovi reati e innalzato pene, a costo zero, pensando di aumentare la sicurezza. Ma non è mandando le donne incinte in carcere che si ottiene questo risultato. Perché invece non si è pensato di investire negli Icam: potrebbero costituire un aiuto alla genitorialità e far vivere in un ambiente più protetto anche i bimbi rom. Invece gli unici soldi di quel DDL son quelli destinati a pagare le spese legali degli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza. Tra le norme approvate recentemente anche un decreto sulle carceri. Che ne pensa? Io mi sono occupato in passato in prima persona di questa materia quando ero direttore generale delle risorse al Dap. Ho impiegato piccole somme per ristrutturazioni mirate, allargando spazi, creando i cosiddetti mini alloggi, evitando che i detenuti defecassero e mangiassero nello stesso posto, come avviene ancora oggi. Ora è stato nominato un nuovo commissario per l’edilizia: non vorrei si ripetano gli errori del passato. Non bisogna costruire nuove carceri -tranne a Napoli e Bari - ma ripensare ad un modello nuovo di carcere, migliorare le condizioni di vivibilità degli istituti di pena. Continuiamo a voler costruire carceri in posti assurdi, allontanando di migliaia di chilometri i detenuti dai loro cari. Come cavolo pensi di risocializzare una persona se gli impedisci di fare persino i colloqui con i suoi familiari? Però che male c’era ad appoggiare la pdl Giachetti sulla liberazione anticipata? Il discorso ricade sempre sulla discrezionalità dei giudici. Dai la possibilità al magistrato di liberare un detenuto, di dargli un permesso. Ma metti caso che uno su mille tra quelli scarcerati commette un reato, quel magistrato di sorveglianza verrà crocifisso pubblicamente e inizieranno le ispezioni ministeriali. Io capisco i colleghi magistrati di sorveglianza che mostrano qualche perplessità prima di prendere delle decisioni un po’ difficili, impopolari. Ma poi chiediamoci, sempre in tema carcere: ma quanti ceramisti e quanti attori ci devono essere tra questi detenuti? Perché non portiamo il lavoro vero in carcere e insegniamo ai detenuti a fare i muratori, i carpentieri, gli elettricisti, gli idraulici? Lei ha avuto una lunga esperienza di lotta alla criminalità organizzata: secondo lei alcuni mafiosi sono recuperabili oppure no? Guardi, purtroppo mi dispiace essere duro e crudo: ci ho sperato per anni che fossero recuperabili ma purtroppo non è così. Gli unici che forse possono cambiare sono quelli entrati casualmente in Cosa Nostra ma non coloro che provengono da famiglie storicamente mafiose; a meno che non decidano di collaborare con la giustizia. Roma. Rivolta e incendio a Regina Coeli, fiamme nelle celle visibili dalla strada di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 26 settembre 2024 Ancora tensione nel carcere romano di Regina Coeli, dove c’è un sovraffollamento di oltre 600 detenuti e una carenza di organico di agenti della polizia penitenziaria che sfiora i 150. Nella serata di mercoledì una rivolta, l’ennesima nelle ultime settimane nelle carceri di Roma e del Lazio, è scoppiata nell’VIII sezione. Alcuni detenuti hanno fatto esplodere le bombolette di gas da campeggio che usano per cucinare e appiccato così le fiamme ad alcune celle. Il rogo è visibile dalla strada. Preoccupati i residenti a Trastevere attorno al complesso carcerario. Sul posto le forze dell’ordine e i vigili del fuoco. “Attualmente non vi sono più spazi, infatti, i detenuti presenti risultano 1160, rispetto ai previsti 628. Il personale di polizia penitenziaria risulta essere in numero di 331, rispetto ai previsti 480, mancano 149 unità di polizia rispetto al dato del ministero della Giustizia ma i numeri son ben più alti”. Così la Fns Cisl Lazio, con il segretario generale Massimo Costantino, secondo cui “la situazione è sempre più preoccupante e la gestione risulta essere sempre più precaria a causa del contingente di forza lavoro ridotto al minimo, alle continue assenze legate alla gestione di eventi critici che comportano infortuni sul lavoro”. Per Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, “con 1.170 detenuti a fronte di 626 posti disponibili e il 184% di surplus di detenuti, Regina Coeli è uno dei penitenziari più sovraffollati del Paese a cui fa da contraltare una voragine negli organici del Corpo di polizia penitenziaria con 350 agenti in servizio quando ne servirebbero 709. Basti pensare che di sera gli agenti impiegati sono normalmente meno di 20 in totale. D’altronde, a livello nazionale sono 15mila i reclusi oltre i posti disponibili e 18mila le unità mancanti alla Penitenziaria. A questo si aggiungano strutture fatiscenti, dotazioni inadeguate, carenze nell’assistenza sanitaria e psichiatrica e approssimazione organizzativa e il quadro che ne emerge è desolante. A pagarne le spese ristretti e operatori con questi ultimi esposti ad aggressioni continue (oltre 2.700 nell’anno) e sottoposti a turnazioni massacranti con la compressione dei più elementari diritti anche di rango costituzionale”. A partecipare ai disordini sarebbero circa 100 detenuti in un settore fino ad ora risparmiato dai tafferugli, che invece di recente hanno interessato la VII sezione dove nei giorni scorsi si è tolto la vita un recluso, il terzo suicidio a Regina Coeli nel 2024 dei 76 in Italia. “Appare evidente che, con le tensioni continue e le ripetute intemperanze che si registrano dal nord al sud del Paese, non potrà andare sempre così e che in ogni caso tutto ciò non è accettabile per un paese che voglia dirsi civile - aggiunge De Fazio -. Servono urgentissime misure in grado di stabilire condizioni minime di vivibilità, operatività e sicurezza nelle prigioni e che, palesemente, non possono passare solo per l’improbabile repressione, ma che devono puntare soprattutto sulla prevenzione”. Verona. In carcere il Polo “Universitario Penitenziario” di Angiola Petronio Corriere di Verona, 26 settembre 2024 Firmata la convenzione. I detenuti avranno tutor e percorsi formativi online. Un accordo-quadro è stato siglato dall’ateneo di Verona per creare nella casa circondariale di Montorio un “polo universitario penitenziario” che permetterà ai detenuti di frequentare i corsi di laurea. La cometa sulla cui scia è nato è quell’università è di tutti che è uno dei mantra del rettorato di Pier Francesco Nocini. E quell’”umanizzazione dell’ateneo che è sì ricerca e scienza, ma anche luogo di inclusione” adesso ha una nuova declinazione nell’accordo quadro “per le pari opportunità di studio e formazione alle persone detenute” nella casa circondariale di Montorio, o per quelle che siano in regime di limitazione della libertà individuale nella provincia di Verona. Accordo-quadro che farà del carcere di Montorio un “polo universitario penitenziario”. Potranno frequentare qualsivoglia dei corsi dell’università di Verona, detenute e detenuti, ma anche chi la pena la sconta agli arresti domiciliari. Possibilità già garantita dalla Costituzione con il diritto allo studio per tutti e in essere anche per i detenuti di Montorio, ma che con l’accordo-quadro presentato ieri godrà di una serie di facilitazioni e di novità che permetteranno alla struttura universitaria di entrare e permeare quella carceraria. Sono una trentina i reclusi nella casa circondariale di Verona che, nei 18 anni in cui esiste il progetto “scuola superiore-università” di cui è responsabile il professor Mario Merlin, si sono laureati. Quattro quelli che, attualmente, stanno seguendo un corso di laurea: uno in Storia, uno in Scienze dei Servizi Giuridici, uno in Informatica e uno in Lingue Straniere. Natale sarà il periodo in cui l’accordo diventerà operativo, con percorsi formativi online attraverso piattaforme dedicate e il supporto di tutor - sia studenti che professori - affiancati anche da personale amministrativo che seguirà la parte burocratica dalle iscrizioni agli esami. Con le persone detenute che potranno accedere al patrimonio, anche librario, dell’ateneo. La retta sarà al carico del detenuto, calcolata in base all’Isee. Ha, dallo scorso anno, una “no tax area” alzata a 27mila euro di Isee, l’università di Verona. E questo garantirà a molti l’accesso gratuito ai corsi. “Massima attenzione - ha spiegato il magnifico rettore Nocini - sarà rivolta ai contenuti con la proposta, tra gli altri, di percorsi di formazione professionale. Proporremo, quindi, a queste studentesse e studenti percorsi di studio che partano dai loro bisogni per costruire insieme un’offerta formativa modulare, flessibile e un’esperienza di studio volta a promuovere il loro benessere e recupero sociale”. Un accordo-quadro che il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto, il centro per la giustizia minorile del Triveneto, il Centro provinciale per l’istruzione degli adulti, il Comune di Verona e il garante dei diritti delle persone private della libertà personale, il tribunale di sorveglianza di Venezia, l’ufficio di sorveglianza di Verona e l’ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna di Verona. A seguire l’accordo sarà il professor Ivan Salvadori, docente di diritto penale, nominato referente ai rapporti con la conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari. “Per le persone detenute quello della formazione culturale è un cardine fondamentale del percorso riabilitativo e questo accordo dimostra come quello che si può fare fuori dal carcere lo si può fare anche dentro”, le parole del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto Rosella Santoro. Con la direttrice di Montorio Francesca Gioieni che ha spiegato come il progetto possa essere un cardine per la “costruzione identitaria delle persone detenute per le quali la formazione può fare tantissimo”. In un progetto in cui il Comune di Verona - già attivo con i tavoli tecnici per la casa circondariale di Montorio con il garante dei detenuti don Carlo Vinco ha fatto da trade d’union tra i vari attori. “Lavorare per la riabilitazione di queste persone - ha concluso l’assessora alla Sicurezza Stefania Zivelonghi - è un dovere di quanti hanno, per ruolo e sensibilità, la possibilità di farlo”. Quello che è successo con l’accordo-quadro. Venezia. Ecco la Camera avvocati per i diritti umani e degli stranieri di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 26 settembre 2024 Per il presidente D’Avino “questa figura di professionista, in passato, è stata oggetto di discredito da chi riteneva inutile e perfino controproducente la tutela dei più deboli”. I diritti umani e il diritto dell’immigrazione, della cittadinanza e della protezione internazionale sono gli ambiti che caratterizzano la Camera avvocati per i diritti umani e degli stranieri (Cadus). L’associazione forense, costituita di recente a Venezia, si muove nel solco dell’esperienza maturata dalla Camera degli immigrazionisti del Triveneto (CaiT). Gli iscritti alla Cadus sono avvocati appartenenti a tutti i Fori italiani. Al momento se ne contano un centinaio, ma il numero è destinato ad aumentare. Con le avvocate e gli avvocati dei vari Ordini è stata condivisa la necessità di rappresentare in forma associativa una specifica branca della professione forense, che con il passare degli anni ha coinvolto sempre di più anche le aule di giustizia. Uno degli obiettivi principali della Camera avvocati per i diritti umani e degli stranieri è quello di contribuire ad accrescere la consapevolezza, la professionalità e la partecipazione del mondo forense alle questioni relative ai diritti umani e ai diritti degli stranieri. Il presidente della Cadus, Fabrizio Ippolito D’Avino (Foro di Venezia), si sofferma sulla centralità del ruolo dell’avvocato esperto in diritti umani. “Troppo spesso - dice -, in passato, questa figura di professionista è stata oggetto di discredito da parte di chi riteneva inutile e perfino controproducente la salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone più vulnerabili e dei più deboli, non ritenendoli meritevoli di adeguata tutela. L’esperienza maturata dalla CaiT nei suoi primi sei anni di vita ha evidenziato la concreta necessità di una rappresentanza forense in tutta Italia, tanto da convincere il suo direttivo prima e quindi i suoi soci a modificare il proprio statuto e il proprio nome, trasformandosi da Camera territoriale a Camera nazionale”. La neonata associazione, come evidenzia D’Avino, intende promuovere i vincoli di solidarietà e tutelare il prestigio degli avvocati di tutta Italia che si occupano di diritti umani e del diritto degli stranieri; si prefigge di favorire il puntuale assolvimento delle autonome funzioni dell’autorità giudiziaria e dell’avvocatura. Inoltre, promuove lo studio, l’accrescimento professionale e l’approfondimento delle questioni giuridiche connesse ai diritti umani e degli stranieri, della protezione internazionale e dei diritti fondamentali della persona, oltre che favorire la migliore organizzazione del lavoro professionale e una fattiva collaborazione tra gli associati. Altro aspetto su cui punta la Cadus è la promozione degli interessi e delle istanze degli avvocati immigrazionisti davanti alle autorità istituzionali. L’avvocata Monica Bassan del direttivo della Cadus si sofferma sull’importanza della specializzazione e sulla mission dell’associazione. “La complessità della materia - commenta - ci ha obbligato a specializzarci, nei diversi settori del diritto per la tutela dei diritti dei migranti e a qualificarci distintamente rispetto alla generalità degli avvocati. Siamo una categoria di professionisti che ha a che fare con clienti spesso invisibili o in difficoltà economica e per questo siamo identificati come avvocati “di buon cuore” che svolgono attività di volontariato. In realtà siamo professionisti con un alto grado di competenza in diritto internazionale, in diritto europeo e siamo tenuti ad una formazione costante anche perché, come ben noto, il diritto migratorio è ad alto tasso di politicità per cui spesso il diritto è in balia degli umori della maggioranza parlamentare e varia con una frequenza inusuale ad altri settori del diritto”. Sono tanti gli ambiti in cui sono impegnati gli avvocati della Cadus. “Il diritto alla protezione internazionale - spiega Bassan - le problematiche connesse alla cittadinanza, le interferenze dei diversi diritti statuali nelle relazioni familiari delle nuove famiglie internazionali, i diritti dei minori non accompagnati, il tema del diritto all’assistenza sanitaria o alla partecipazione alla vita sociale italiana, il diritto penale “speciale” che si vuole introdurre per gli stranieri, comportano una qualificazione professionale altissima. La Camera nazionale, con lo spirito dell’associazione forense, si propone di garantire un costante perfezionamento culturale degli avvocati immigrazionisti e, nel contempo, si propone di assicurare, tra tutti gli avvocati interessati alla materia, il rispetto delle regole deontologiche nei confronti dei soggetti più vulnerabili con i quali interagisce. Vogliamo essere e diventare interlocutori credibili nei confronti della magistratura e dei colleghi che hanno competenze professionali più riconoscibili, note, economicamente più vantaggiose e in genere più blasonate”. Oltre a Fabrizio Ippolito D’Avino (presidente) e Monica Bassan, compongono il direttivo Beatrice Rigotti (vicepresidente), Dora Zappi (segretario), Giovanni Barbariol (tesoriere), Martino Benzoni, Marzia Como, Marco Paggi, Martina Pinciroli, Francesco Tartini ed Enrico Varali. Milano. Coa e Camera Penale: “Siamo al fianco del Beccaria” Il Dubbio, 26 settembre 2024 Una delegazione dell’Ordine di Milano - con il suo Presidente, Antonino La Lumia, i consiglieri Beatrice Saldarini e Massimo Audisio e il direttore, Carmelo Ferraro - e una delegazione della Camera Penale di Milano - con la sua presidente Valentina Alberta e la consigliera Eliana Zecca, hanno incontrato il nuovo direttore dell’istituto Beccaria, Claudio Ferrari. In una nota congiunta del Coa e della Camera Penale di Milano si evidenziano le criticità strutturali e di organico, il sovraffollamento e la necessità di risposte adeguate. Attualmente sono detenuti 55 minori: il 95% stranieri, nella maggioranza non accompagnati, con politraumi, problemi psichiatrici e di dipendenza. Culture differenti, barriere linguistiche, storie di abusi e di abbandono rendono il lavoro dei mediatori culturali e degli specialisti l’asse portante degli interventi all’interno del carcere. Attualmente lavorano a tempo pieno solo 3 mediatori culturali, che diventano 8 con il supporto di una cooperativa che si occupa di traduzioni, a fronte di un’esigenza stimata di 23 professionisti. Nonostante la carenza di organico e le situazioni di criticità, si registra un forte impegno nell’implementazione di percorsi di inserimento: sono presenti attività teatrali, campus sportivi, un laboratorio di meccanica, di cucina e di panificazione. Le esigenze sono complesse e necessitano dell’approccio sinergico di più professionalità: mediatori culturali, psicologi, psichiatri, medici. È in corso l’attivazione di una procedura per l’ottenimento dei documenti d’identità anche in previsione di un possibile inserimento lavorativo. Sono in corso lavori di ristrutturazione per consentire l’adeguato contenimento fisico dei detenuti. Con riferimento alle forze di polizia penitenziaria, sono appena entrati in servizio numerosi nuovi agenti. “Per affrontare i temi complessi del mondo carcere occorre una reale sinergia delle istituzioni - dichiara il Presidente dell’Ordine degli Avvocati Antonino La Lumia - Nel caso degli istituti di pena minorili questo è ancora più vero e cruciale. Desideriamo lavorare al fianco dell’istituto Beccaria. Pensiamo che la figura dell’avvocato abbia un enorme rilevanza per contribuire all’obiettivo di restituire ai ragazzi il desiderio di immaginare e costruire una vita diversa, fuori dalle mura di un carcere. Spesso è l’unico punto di riferimento”. “Abbiamo visto quanto lavoro si stia mettendo in atto per rispondere ad una situazione estremamente complessa - ha commentato la Presidente della Camera Penale di Milano, Valentina Alberta - faremo come sempre la nostra parte dando il massimo supporto. Il punto fondamentale è non dimenticare che il trattamento del minore autore di reato deve essere improntato ad ascolto e presa in carico prima di tutto. Mi pare che le figure attualmente presenti possano recuperare il rapporto con i ragazzi detenuti e costruire un progetto stabile”. Vercelli. “Nella vita non ci si salva mai da soli”, i 50 anni di volontariato in carcere di Pretti di Francesca Rivano La Stampa, 26 settembre 2024 Oggi pomeriggio verrà premiato in Consiglio comunale a Vercelli per la sua opera. La prima volta in cui ha messo piede in carcere i detenuti stavano nelle vecchie e malconce celle del “Beato Amedeo”, nel castello dove ha sede il Tribunale. Era il 1974: l’Italia viveva gli anni di piombo e le bande della vecchia mala gestivano traffici illeciti e criminalità. A 50 anni di distanza, Giulio Pretti resta uno dei volontari più tenacemente legati al servizio con i detenuti, sospeso solo durante la pandemia: oggi (giovedì 26 settembre) , alle 14, 45, in apertura di Consiglio comunale, saranno le autorità cittadine a ringraziarlo per l’impegno dedicato a un volontariato poco comprensibile per la maggior parte delle persone. Perché, visto da fuori, il carcere è il luogo dove finisce chi ha commesso reati talvolta orrendi; visto da dentro, invece, è un microcosmo fatto di mille sfumature, in cui si intrecciano storie, errori ma anche speranze. “Trovarsi privati della libertà è la cosa peggiore che possa capitare - dice Pretti -: disorienta le persone, talvolta le incattivisce. In 50 anni ho visto tanti reclusi schiacciati dalla prospettiva di restare in un ambiente che non riuscivano ad affrontare e, personalmente, non ho mai voluto sapere che reati avessero commesso, perché il mio compito di volontario non è giudicare, ma sostenere i detenuti dal punto di vista pratico e morale”. L’incontro con il mondo dietro le sbarre, per Pretti, era avvenuto quasi per caso: volontario della San Vincenzo, aveva raccolto la richiesta di un colloquio da parte di un giovane che doveva scontare alcuni mesi dopo aver sottovalutato le conseguenze di una denuncia. “In quegli anni esisteva un Patronato di aiuto al carcere e l’arcivescovo Albino Mensa mi propose di farne parte - ricorda -. Nel 1975, dopo l’emanazione dei regolamenti attuativi della riforma carceraria, venne istituita la figura dell’assistente volontario. Così feci un corso del Ministero e ottenni un patentino che mi permetteva di accedere a tutti i penitenziari”. Vercelli, Casale, Alessandria, “Le Nuove” di Torino, le case mandamentali di Trino e Varallo, dove erano detenute le persone che avevano commesso reati lievi: “La mia idea era portare lo spirito vincenziano in quei luoghi difficili - spiega -. Poi mi sono trovato a declinare i principi spirituali in un servizio molto pratico. Portare un pacchetto di sigarette o la biancheria a chi non aveva nessuno; acquistare un francobollo per chi voleva scrivere alla famiglia; ascoltare sfoghi e problemi; dare un aiuto a quanti, a fine pena, non avevano un posto dove andare”. Il tutto in un contesto strutturale che presentava grandi criticità: “Quando iniziai - racconta - oltre a me entravano nel vecchio carcere solo monsignor Pietro Varese, che collaborava con il cappellano, e il maestro Giorgio Aceto, che teneva le lezioni per chi voleva ottenere la licenza elementare”. Oggi la rete di persone che ruota attorno ai detenuti è molto più ampia: “Devo ringraziare i direttori, gli agenti, gli operatori dell’area educativa, i volontari per l’impegno che mettono nel loro lavoro - aggiunge -. Operano in situazioni difficili, devono stemperare tante tensioni. E, in questo senso, anche il mio aiuto è utile: a volte persino rinnovare un documento scaduto aiuta il detenuto a essere più sereno”. Negli anni, Pretti si è anche occupato dei documenti per la celebrazione di matrimoni: due solo nell’ultimo mese. Con molte persone conosciute in carcere Pretti ha mantenuto un rapporto anche a distanza di anni: “Qualcuno mi ha chiesto di fargli da testimone di nozze o da padrino dei figli - dice, sorridendo -. Nel 2020, quando ho contratto il Covid, ho ricevuto decine di messaggi commoventi da detenuti, ex detenuti e loro parenti. Preghiere e solidarietà che mi hanno aiutato a superare la malattia e tre mesi di ospedale. Ho ricevuto tanto da persone che hanno problemi enormi ed è per questo che, nonostante le difficoltà, voglio portare avanti il mio servizio: nella vita non ci si salva da soli e anche il carcere serve solamente se fuori c’è una famiglia o qualcuno che ti dà un motivo per raddrizzare la tua vita”. “Tutto chiede salvezza”, viaggio nel disagio mentale di Stefano Crippa Il Manifesto, 26 settembre 2024 Dal 26 settembre su Netflix la seconda stagione della serie ambientata in una clinica psichiatrica, dal romanzo di Daniele Mencarelli. La storia è vera o quanto meno si ispira alla realtà. Quella che Daniele Mencarelli ha raccontato nel suo romanzo “Tutto chiede salvezza” - premio Strega giovani 2020, ovvero il suo ricovero per una settimana a seguito di un Tso. Da quel libro lo stesso autore ha tratto - lavorando di concerto con il regista Francesco Bruni - a una serie di sette episodi andati in onda due anni fa su Netflix. Ma a quelle vicende, a quei drammi (alternati nella fiction a momenti di leggerezza) dettati dal disagio mentale, Bruni e Mencarelli hanno voluto dare un seguito. Cinque puntate dal 26 settembre ancora su Netflix, dove il protagonista torna in struttura ma questa volta come operatore sanitario. Il senso della frase che dà il titolo al romanzo e alla serie si chiarisce nell’ultimo episodio della prima stagione, nella poesia che Daniele, il protagonista, legge durante i funerali di Mario, uno dei ricoverati con cui ha condiviso l’esperienza nel Tso: “Dall’alto, dalla punta estrema dell’universo, passando per il cranio e giù, fino ai talloni, alla velocità della luce e oltre attraverso ogni atomo di materia, tutto mi chiede salvezza. Ecco la parola che cercavo, salvezza. Per i vivi e per i morti. Salvezza. Salvezza per Mario, Gianluca, Giorgio, Alessandro e Madonnina. Per i pazzi di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia. Salvezza”. LA SECONDA stagione si muove ancora su quelle atmosfere, ma sviluppa le storie e i suoi personaggi. Daniele - interpretato da Federico Cesari - è diventato padre ma si è già separato da Nina (Fotini Peluso) che aveva incontrato in reparto. Una separazione dolorosa finita nelle aule del tribunale dove si contendono l’affidamento della piccola Anna. Nel frattempo Daniele ha studiato per diventare infermiere e, grazie all’intervento della dottoressa Cimaroli (Raffaella Lebboroni), entra come tirocinante nella clinica dove era stato ricoverato. Le cinque puntate raccontano questo percorso, riprendono protagonisti dalla prima serie, e ne aggiungono altri come Valentina Romani e soprattutto Drusilla Foer che caratterizza il suo personaggio di attrice “donna in un corpo di uomo”, conferendogli molte sfumature. Nelle sue storie di sofferenza, Tutto chiede salvezza getta uno sguardo sui mondi giovanili - e sui loro disagi - universi esplorati da numerose fiction internazionali e soprattutto dal mondo delle piattaforme digitali. Il caso Tortora visto da Marco Bellocchio, primo ciak a Roma di Francesca Spasiano Il Dubbio, 26 settembre 2024 “Non ne farò un santino”, racconta il regista dopo il via alle riprese di “Portobello”, serie tv in 6 puntate. Francesca Scopelliti: “Lui e nessun altro, poteva raccontare quel crimine giudiziario”. Che Marco Bellocchio torni sulla sedia da regista per confezionare una nuova serie tv è già una notizia da far drizzare le antenne a cinefili e critici. Ma se a questo si aggiunge che il prodotto in cantiere riguarda Enzo Tortora, allora la campana suona per tutti. Per chi sa ancora poco o niente del conduttore tv massacrato dalla giustizia, per chi chiude un occhio sul capitolo buio della nostra storia giudiziaria, e per chi semplicemente spera di riscoprirlo per come lo vede Bellocchio. Ebbene, la speranza non resterà vana: lunedì scorso a Roma sono cominciate le riprese della serie tv in sei puntate prodotta da Our Films insieme a Kavac Film, in coproduzione con Arte France e in collaborazione con The Apartment Pictures, società del gruppo Fremantle. Si chiama “Portobello”, dal nome del celebre programma tv in onda dal 1977 col quale Tortora è entrato nelle case di tutti gli italiani in qualità di conduttore, per ben sette edizioni. È scritta da Marco Bellocchio, Stefano Bises, Giordana Mari e Peppe Fiore. E come per “Esterno notte”, la prima serie tv firmata da Bellocchio che ripercorre gli ultimi giorni di Aldo Moro, anche questa uscirà prima al cinema e poi in televisione. Dopo i giorni della capitale, le riprese si sposteranno anche in Sardegna, Lombardia, e Campania. Dalle parti della procura di Napoli, immaginiamo, dove l’incubo giudiziario ha preso forma. “Tortora subì una grande ingiustizia: arrestato, processato e condannato, fu completamente assolto solo dopo una lunga odissea giudiziaria. Era un lottatore, ma la lotta lo fece ammalare e morire. Non ne farò un santino, scaverò dentro di lui in una serie perché un film non può contenerlo”, spiega Bellocchio. Che torna alla malagiustizia 52 anni dopo il suo “Sbatti il mostro in prima pagina”, il film del 1972 in cui le degenerazioni di un caso mediatico incontrano gli interessi politici sullo sfondo degli anni di piombo. Ricordate? C’è Gian Maria Volonté che interpreta un cinico direttore pronto ad impartire “grandi” lezioni di giornalismo (recuperate anche solo una clip, ne vale la pena). Qui a calarsi nei panni di Tortora è Fabrizio Gifuni, tra gli attori del cast composto da Lino Musella, Romana Maggiora Vergano, Barbara Bobulova, Alessandro Preziosi e Fausto Russo Alesi. Per il resto, la storia è nota. E racchiusa in due date. 17 giugno 1983, l’inizio: l’arresto studiato a favore di telecamere all’Hotel Plaza di Roma, la “passerella della vergogna” coi ceppi ai polsi. 18 maggio 1988, la fine: il tumore si porta via Enzo Tortora tra le braccia della sua compagna di vita e di lotta Francesca Scopelliti. Per lui i magistrati avevano formulato un’accusa infamante: traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Il nome lo avevano tirato fuori i pentiti, e per il resto era bastato un pizzico di immaginazione: troppo ghiotta l’occasione di mettere in “copertina” di inchiesta il volto noto del conduttore di Portobello. Da lì, il processo mediatico che anticipò quello vero. Con la condanna a 10 anni in primo grado nel 1985. Quindi il ribaltamento nel 1986, in Corte d’Appello a Napoli. Merito soprattutto del giudice Michele Morello, che spianò la strada per l’assoluzione. Resa definitiva dalla Cassazione un anno dopo, e uno prima della morte. Nel mezzo il tempo passato in cella da innocente, la battaglia per una giustizia giusta con Marco Pannella. E il celebre: “Dove eravamo rimasti?”, con cui Tortora si riprese il suo spazio in tv dopo aver attraverso l’inferno. Ora a riportarlo sullo schermo ci pena Bellocchio. Con un’idea che arriva da lontano, come racconta al Dubbio Francesca Scopelliti. “Quando ho pubblicato il libro “Lettera a Francesca” ho subito immaginato che potesse diventare un film basato su questa nostra corrispondenza dal carcere - racconta -. Ma quale regista avrebbe potuto raccontare quella vicenda giudiziaria, documentandosi, senza cercare il romanzo? Pensai subito a Marco Bellocchio, e gli inviai una lettera con una copia del libro”. Da allora, quando nel 2016 è uscito il volume edito da Pacini e curato insieme ai penalisti, sono passati 8 anni. Scopelliti ne ha attesi sei, prima che le squillasse il telefono. “Non ho cercato altri registi. Ho aspettato pazientemente”, dice. Nel 2022 Marco Bellocchio l’ha chiamata e da allora, negli ultimi due anni, è cominciata una lunga serie di incontri. “Ha voluto sapere tutto. Come quei vecchi cronisti che indagavano davvero prima di scrivere. Quando raccontavo alcuni episodi, i giorni degli arresti, mi guardava e mi sembrava che stesse già “girando” con gli occhi”. Complice anche un’analogia “narrativa”: dopo aver raccontato la storia di un uomo sequestrato dalle Br, ora bisogna raccontare quella di un uomo “sequestrato dai magistrati”. Rimettere occhi, mani e orecchie sul grande rimosso della nostra coscienza collettiva. La stessa che ha tentato di rimuovere ciò che ha accaduto a Tortora, invece di guardarci dentro e porvi rimedio, come non si stanca mai di suggerire Francesca Scopelliti. Che il racconto di quel “crimine giudiziario” l’ha dissepolto e portato in ogni luogo possibile, attraverso la Fondazione Tortora. “Mai avrei immaginato di rendere pubblico ciò che ritenevo fosse privato, come è successo con le Lettere. Ma sono tutte cose che rispondono a quella frase che Enzo mi disse prima di morire: “Adesso tocca a te”. Ecco, ora vale lo stesso per questa serie tv, che ho seguito fin dall’inizio. E sulla quale ho davvero tanta fiducia, per la stima che ripongo in Bellocchio”. Manette ai poveri e a chi protesta: l’Italia è a rischio democratura di Emiliano Fittipaldi Il Domani, 26 settembre 2024 Le democrature, neologismo ossimorico attribuito da molti allo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, hanno tutte una caratteristica tipica: sono regimi politici che sembrano funzionare con le regole formali delle democrazie, ma che i governanti deformano - con i comportamenti e con nuove leggi - fino a trasformarli in regimi autoritari de facto, come avviene in Turchia, in Russia o nell’Ungheria di Viktor Orbán. Questo giornale, insieme a pochi altri media, da quando la destra è entrata a Palazzo Chigi ha cercato di accendere un faro sulle svolte normative che rischiano di trasformare il nostro paese non in una improbabile dittatura di stampo novecentesco, ma in un ircocervo illiberale svuotato dei principi su cui si fonda la Costituzione. L’ex missina Giorgia Meloni, insieme a Matteo Salvini e agli estremisti che compongono gran parte della maggioranza, fin dall’inizio del mandato sta scientemente portando avanti un’operazione politica chiara. Che è quella di indebolire pezzo a pezzo i pilastri su cui si sostiene la nostra democrazia. Prima delegittimando i poteri teoricamente autonomi (in primis la magistratura, di cui si vuole la sottomissione all’esecutivo), poi attaccando la stampa critica, infine tentando di eliminare (vedi la riforma del premierato) quei contrappesi istituzionali necessari al check and balance, da Montesquieu in poi essenziale per arginare tendenze assolutistiche e proteggere la libertà dei cittadini. Il disegno di legge sulla Sicurezza è un tassello non banale della progressione reazionaria con cui l’esecutivo prova a cambiare il tessuto politico e sociale italiano, ed è una buona notizia che il Pd e parte delle opposizioni abbiano aderito compatte alla manifestazione di Cgil e Uil davanti al Senato, che presto potrebbe approvare in via definitiva uno dei provvedimenti più intolleranti presentati finora dal governo. Incentrato sul peggiore populismo penale, sulla criminalizzazione del dissenso e della contestazione politica, sulla delegittimazione degli ultimi e dei bisognosi, in primis poveri e migranti. Le nuove misure previste sono diverse, e colpiscono ad hoc non comportamenti gravi che mettono davvero in pericolo la sicurezza dei cittadini, ma singoli e soggetti collettivi che i postfascisti sembrano considerare dei veri e propri “nemici” della patria: si va dalle madri di etnia rom (da anni le villain dei talk-show spazzatura di Rete 4), che per il ddl potranno andare in carcere insieme ai figli anche se minori di tre anni, fino ai migranti che osano protestare dentro i centri di accoglienza: per loro fino a cinque anni di reclusione, anche in caso di semplice “resistenza passiva”. Per loro il governo ha introdotto un’altra norma marcatamente razzista, e foriera di altri disagi per i disperati: gli stranieri senza permesso di soggiorno subiranno restrizioni per l’acquisto di sim telefoniche, fondamentali per comunicare con i loro cari e i loro avvocati. Altri punti della norma servono poi a codificare nuovi reati, con l’obiettivo implicito di ridurre gli spazi di dissenso. E soprattutto veicolare nell’opinione pubblica l’idea che il solo fatto di protestare in piazza è atto deprecabile da stigmatizzare, anche se attuato in modo pacifico. La legge prevede infatti il carcere per chi contesta le opere pubbliche (come il Ponte di Messina e la Tav) o chi usa l’arma non violenta dei blocchi stradali, una pratica resa celebre dagli ambientalisti di Ultima generazione per sensibilizzare sulla catastrofe climatica in cui il pianeta si sta avvitando. In questa postura muscolare, che come il decreto Cutro e quello su Caivano serve ad accarezzare la pancia securitaria dell’elettorato e a distrarre dai fallimenti sulle materie sensibili, non poteva mancare l’attacco ai detenuti: invece di provare a migliorare le condizioni inumane in cui versano le carceri, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario meloniano Andrea Delmastro, già a processo per rivelazione di segreto e grande sponsor del pistolero Pozzolo, hanno spinto per l’introduzione del reato di “rivolta penitenziaria”. Fattispecie che incrimina anche coloro che fanno atti di resistenza passiva davanti agli “ordini” (almeno legittimi?) della polizia penitenziaria. Forte con i deboli, sodale con i forti: se da un lato si aboliscono i reati dei colletti bianchi, con il ddl si colpisce al cuore il dissenso democratico, o comportamenti che spesso nascono da fattori di disagio, degrado e marginalità. Che per essere affrontati e risolti avrebbero bisogno non di manette e punizioni, ma di veri investimenti nel sociale, sul lavoro, sulla lotta alle disuguaglianze. La strada scelta del governo è diversa, e rischia davvero - come evidenzia un rapporto commissionato dall’Ocse - di “minare i principi fondamentali della giustizia penale e dello stato di diritto”. La democrazia liberale in Italia è in crisi, e chi fa finta che non lo sia non solo è miope. Ma è complice. L’ultima occasione per protestare di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 26 settembre 2024 Il disegno di legge “sicurezza” approvato dalla Camera dei deputati è il più grande e pericoloso attacco alla libertà di protesta nella storia repubblicana. Spetta adesso al Senato decidere se c’è ancora spazio politico e sociale per le minoranze dissenzienti, per chi usa il proprio corpo per manifestare la propria opposizione al potere, per chi disobbedisce in forma nonviolenta. L’insieme delle norme volute dal governo è il manifesto di un diritto penale autoritario e illiberale che trasforma in criminali e nemici alcune precise figure sociali. Eccole: l’occupante di case, l’attivista ambientale, la giovane donna rom, il detenuto comune, l’immigrato che vive per strada, il mendicante. Nuovi reati, nuove pene, nuove proibizioni e nuove punizioni. Un insieme tragico di divieti e sanzioni che renderanno penalmente perseguibili tutti coloro che protestano in forma non convenzionale, ma senza far del male a nessun essere umano, e tutti coloro che vivono ai margini della società. Una società che ha progressivamente perso ogni carattere solidale, come dimostra l’uso abnorme delle polizie locali per smantellare gli accampamenti di chi vive per strada, come è accaduto a Roma nei giorni scorsi. Il disegno di legge sulla sicurezza è l’ultimo dei passi compiuti verso il definitivo smantellamento dello Stato sociale costituzionale di diritto ereditato dalla Resistenza. Punire i poveri o le minoranze dissenzienti non è solo espressione di una politica simbolica diretta a cumulare consenso in forma demagogica, ma è qualcosa di più. È la concretizzazione materiale di un modello di diritto penale di matrice autoritaria e non liberale. Si pensi alla norma che favorisce la proliferazione delle armi nelle strade e, più in generale, nei luoghi pubblici, consentendo a circa trecentomila persone appartenenti alle forze dell’ordine di usare anche un’altra arma, piccola e occultabile, diversa da quella di servizio, fuori dai turni di lavoro. È il primo passo di una deriva del modello di sicurezza italiano verso il far west statunitense. Più armi ci sono per le strade, più morti ammazzati ci saranno. L’Italia così non sarà più tra i paesi con il più basso tasso di omicidi a livello globale. Per ognuna delle norme volute dal governo saltano agli occhi profili di illegittimità costituzionale. Gli articoli 3, 13 e 27 della Carta del ‘48 sono vilipesi. Non si può, però, pensare di delegare sin d’ora ai giudici della Corte costituzionale il ruolo di oppositori politici. In prima battuta la battaglia contro il disegno di legge sicurezza si tiene oggi ed è culturale e politica. C’è bisogno di far sapere al mondo democratico europeo che le norme in via di approvazione costituiscono una forte compressione dello spazio civico a disposizione delle minoranze dissenzienti. Due grandi sindacati (Cgil e Uil), associazioni, movimenti, partiti dell’opposizione hanno compreso i rischi sottostanti le norme approvate alla Camera, alcune delle quali, come quella che vieta la vendita di carte Sim a immigrati irregolarmente presenti in Italia, sono soltanto una manifestazione di pura cattiveria. Nulla hanno a che fare con la sicurezza. Antigone e Asgi avevano, sin dalla scorsa primavera, presentato un lungo documento che evidenziava tutti gli sguaiati eccessi repressivi presenti nel testo. Tutti coloro che hanno a cuore la libertà, intesa nel senso più ampio e profondo, adulti o giovani, dovrebbero protestare pacificamente in strada con il proprio corpo contro queste norme. È l’ultima volta che possono farlo senza rischiare di finire in galera. Piantedosi contro gli scioperi, anche i picchetti diventano reato di Mario Di Vito Il Manifesto, 26 settembre 2024 Nella sua foga di sorvegliare e soprattutto punire chi manifesta, il Ddl 1660 contiene anche un attacco al diritto di sciopero. Lo dice, quasi come se niente fosse, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che ieri è intervenuto al question time della Camera. Rispondendo a un’interrogazione (prima firma: Maurizio Lupi) sui blocchi nei centri logistici della grande distribuzione, l’uomo del Viminale ha spiegato che verrà introdotto un nuovo reato sulla base del quale “colui che impedisca con il proprio corpo la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata commette un delitto, e non più un illecito amministrativo. Di più: se a farlo sono “più persone” è prevista la reclusione da sei mesi a due anni. Il tema giuridico, già spesso dibattuto in passato, riguarda il picchettaggio, pratica tendenzialmente legittima salvo nei casi in cui si verifichino violenze o minacce contro chi non vuole aderire allo sciopero. In queste circostanze, di solito, i reati che vengono contestati sono quelli di violenza privata e, talvolta, di resistenza a pubblico ufficiale. Il concetto di fondo è che non si può ledere il diritto all’autodeterminazione altrui. Fino a qui tutto bene: la giurisprudenza è chiara e di processi per risolvere i casi più controversi se ne fanno abbastanza. Il problema è che quanto annunciato da Piantedosi rende un reato quello che prima equivaleva a un illecito amministrativo, andando in sostanza a punire anche chi non compromette le volontà degli altri. Il ministro, rispondendo a Lupi, l’ha messa così: “È certamente mia intenzione richiamare l’attenzione delle autorità di pubblica sicurezza su tutte le attività di carattere preventivo, anche in termini di mediazione, per scongiurare gli episodi di compromissione dei diritti delle imprese e dei lavoratori”. Il dito è puntato contro gli scioperi nella logistica (“complessivamente 240” dall’inizio dell’anno). “Anche nel recente passato sono state numerose le proteste organizzate a ridosso delle più importanti piattaforme distributive, in molti casi realizzate senza alcun preavviso - ha aggiunto Piantedosi - queste proteste sono state caratterizzate anche da momenti di tensione con le forze di polizia, blocchi agli accessi dei siti industriali e rallentamenti delle attività produttive”. Gli organizzatori sono sempre gli stessi: “le organizzazioni sindacali di base, in particolare Si Cobas”. Il punto qui è politico, perché il sindacato di base non partecipa alle trattative per il rinnovo del contratto di categoria e utilizza la formula dei picchettaggi per cercare di far pesare la propria posizione. Tra gli altri argomenti trattati da Piantedosi durante il question time, si segnala un lungo capitolo dedicato alla gestione delle manifestazioni di piazza. Il ddl 1660 prevede sì l’uso delle body cam da parte degli agenti, ma in ogni caso non saranno accompagnate dai numeri identificativi sulle divise. Sostiene il ministro che “non è da ritenersi sussistente” l’argomento della riconoscibilità degli agenti perché “nell’ordinanza di servizio emanata dal questore” già è indicato “il funzionario di pubblica sicurezza responsabile della direzione del servizio e anche gli addetti ai singoli settori di impiego”. E in ogni caso, dice ancora Piantedosi, “sono gli stessi operatori, quando occorre, a collaborare per la propria identificazione”. E così anche le body cam non sono da intendere come un mezzo per controllare gli eventuali episodi di violenza indiscriminata contro i manifestanti, ma come il risultato di una richiesta fatta dagli stessi agenti “a garanzia della trasparenza del proprio operato”. Perché, nonostante le cronache e le inchieste giudiziarie c’è alcun problema con le manganellate e l’obiettivo resta quello di “proteggere i cittadini e gli stessi operatori di polizia dalle azioni violente che spesso vengono poste in essere dalle frange estreme di manifestanti”. I sindacati di polizia, in tutto questo, non sembrano aver molto da dire sul ddl sicurezza, impegnati come sono nella riapertura del tavolo con il governo sulla previdenza dedicata. Una promessa antica fatta da Meloni agli uomini e alle donne in divisa. Ancora però sprovvista di leggi attuattive. Così il diritto di cittadinanza frantuma gli schieramenti di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 26 settembre 2024 Il referendum divide il campo largo. Autonomia, oggi le firme in Cassazione. Il diritto di cittadinanza, e non soltanto quello, taglia in due gli schieramenti. Il centrosinistra, o meglio il campo largo già messo a durissima prova dalla vicenda del nuovo cda Rai, ma anche il centrodestra: Forza Italia, in una riunione congiunta dei gruppi, oggi stringerà i bulloni della sua proposta di legge sullo ius scholae. E cioè, la cittadinanza per chi abbia studiato in Italia per almeno dieci anni. E pazienza se la Lega neppure ne voglia sentir parlare e la stessa premier, l’altra sera da New York, abbia detto di non vedere necessità di mettere mano alla legge attuale. Ma nella maggioranza i tamburi rullano anche sull’Autonomia delle Regioni: con Forza Italia che frena sul procedere con le materie non incluse nei Lep e i governatori che si preparano all’incontro con il ministro Calderoli per avviare il percorso sulle materie non Lep. In questo caso, oltre agli azzurri, anche FdI non vede ragioni di accelerazione. Mentre Elly Schlein annuncia per questa mattina la consegna in Cassazione di oltre un milione di firme raccolte a favore del referendum contro l’Autonomia. Per i promotori della raccolta di firme sul diritto di cittadinanza (il quesito chiede di dimezzare i 10 anni che occorrono per ottenerla) ieri è stato il giorno del successo. Per Riccardo Magi, il segretario di +Europa, “è una giornata di gioia”. E per il segretario del Psi Enzo Maraio: “Si tratta di una grande battaglia di civiltà che fino ad ora, in assenza di una legge, ha posto l’Italia come fanalino di coda nel confronto con l’Europa”. Ma è vero che nel campo largo la mancata firma di Giuseppe Conte per il referendum è una ferita. Da Italia viva, Francesco Bonifazi è incendiario: “Il M5S non firma il referendum sulla cittadinanza, tratta sottobanco con Meloni sulla Rai, balbetta sui decreti Salvini sull’immigrazione, sostiene Trump contro Harris. Però poi i grillini vogliono farci lezione su cosa sia il centrosinistra. Se non fosse una cosa seria, ci sarebbe da ridere”. Ma nel centrosinistra va maturando la speranza che la prossima primavera possa tenersi un election day referendario, in cui si voti per la cittadinanza, contro l’Autonomia e per i quesiti della Cgil tra cui quello contro il Jobs acts. La capogruppo Pd alla Camera Chiara Braga stuzzica Forza Italia: “Alla prova dei fatti, non ha avuto determinazione e coraggio per sostenere le ragioni di una legge per la cittadinanza”. Insomma, “quello di FI per i diritti è stato un amore estivo, una passione durata il tempo di un bagno al mare”. Maurizio Gasparri, il capo dei senatori azzurri, non fa una piega: “Noi facciamo quel che diciamo e diciamo quel che facciamo. E cioé, oggi mettiamo a punto la nostra proposta che prevede la cittadinanza legata allo studio in Italia, eventualmente con una prova finale”. Però, è vero che la strada pare in salita: “La Lega, si sa, è più chiusa. Ma la stessa Meloni nel luglio del 2022 ha fatto un intervento aperturista. E anche Ignazio La Russa, allora alla Camera, ha fatto alcuni emendamenti in quel senso”. Di ieri è anche la dichiarazione di monsignor Giuseppe Baturi, il segretario generale della Conferenza episcopale italiana: “Sul tema della cittadinanza la Cei ha sempre assunto un orientamento favorevole, in particolare al cosiddetto ius scholae”. Il dibattito sui diritti. Cittadinanza e fine vita. Maggioranza alla prova di Cosimo Rossi La Nazione, 26 settembre 2024 Lega: libertà di coscienza. FI insiste sullo ius scholae. I diritti civili incalzano la maggioranza di governo. Dalla cittadinanza per gli stranieri al fine vita, dalla maternità surrogata “reato universale” all’aborto, sul perimetro dei diritti non si misurano solo i rapporti tra maggioranza e opposizione, ma anche le differenze interne ai due schieramenti e rispetto alla base elettorale. L’exploit di firme sul referendum per dimezzare i tempi della cittadinanza dopo quelle per abrogare l’autonomia differenziata, ma anche la partecipazione inattesa al sit-in indetto ieri contro il decreto sicurezza, sono certo il segno di una ripresa di vitalità da parte del campo progressista, ma anche indizio di qualche scollamento tra il centrodestra di governo e l’opinione del suo stesso elettorato. Sulle tematiche dei diritti e le questioni di genere gli elettori del centrodestra sono assai più aperti dei dirigenti dei partiti. Marina Berlusconi lo ha fatto presente anche in estate. Finito il lavoro nelle commissioni, la maggioranza si presenterà compatta all’imminente voto del Senato che dovrebbe dare il via libera alla legge che introduce e punisce il reato universale di maternità surrogata, integrando la legge 40 sulla procreazione assistita. Da Forza Italia si rivendica l’obiezione di una parte delle femministe nei riguardi della gestazione per altri. Per non offrire il fianco alle opposizioni, gli azzurri si preparano nella riunione di oggi a varare la loro proposta sullo ius scholae. La premier Giorgia Meloni ha già sancito che la normativa vigente va bene com’è e i parlamentari di Fratelli d’Italia e Lega le si sono immediatamente accodati. Dal partito di Antonio Tajani fanno buon viso, rilevando che per lo ius scholae cambia solo la modalità di decorrenza dei 10 anni necessari per la cittadinanza. Se poi non incontreranno il consenso degli alleati, gli azzurri promettono di andare avanti ugualmente in Parlamento. L’attività delle commissioni, che si sono affrettate a licenziare la sanzione dell’utero in affitto, langue invece sul fine vita, ddl atteso alla traduzione in legge della sentenza della Consulta nel 2019 sul suicidio assistito. Il tema ha diviso la maggioranza in regioni come il Veneto, dove le aperture sul fine vita del governatore Zaia è sono state bocciate dal suo stesso partito. Forse anche a causa del vastissimo consenso popolare (l’84% degli italiani e il 77 dei leghisti), frattanto però Matteo Salvini ha adottato la linea della libertà di coscienza in occasione dell’ultimo consiglio federale. Entro qualche settimana il Consiglio regionale lombardo a trazione leghista dovrebbe esaminare un altro progetto di legge dell’associazione Luca Coscioni. Ma quella davvero attesa dagli italiani è una legge del Parlamento. No Ius Soli, ma cittadinanza più veloce: cosa cambierebbe col sì al referendum di Salvatore Cannavò Il Fatto Quotidiano, 26 settembre 2024 La proposta accorcia a 5 anni il tempo necessario per ottenere passaporto italiano. Cosa succederebbe se il referendum sulla “cittadinanza”, che ha superato le 500 mila firme online, fosse approvato? Più in generale, quali sono le differenze tra le varie proposte di riforma e come impattano sulla situazione attuale? Ius sanguinis. In Italia, spiega il ministero dell’Interno, la cittadinanza si acquista iure sanguinis, cioè se si nasce o si è adottati da cittadini italiani (tranne se si nasce da genitori apolidi o se i genitori sono ignoti). Si può diventare cittadini italiani anche per matrimonio. La cittadinanza straniera è regolata dalla legge 91/1992 e può essere richiesta “anche dagli stranieri che risiedono in Italia da almeno dieci anni e sono in possesso di determinati requisiti. In particolare il richiedente deve dimostrare di avere redditi sufficienti al sostentamento, di non avere precedenti penali, di non essere in possesso di motivi ostativi per la sicurezza della Repubblica”. La richiesta scatta alla maggiore età su domanda dell’interessato. Come recita l’articolo 9, 1 comma, lettera b) della legge 91, la cittadinanza è conferita anche “allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione”. Il referendum. Abbiamo indicato in corsivo le due frasi che il referendum si propone di abolire e in tal caso la cittadinanza sarebbe conferita “allo straniero maggiorenne che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni”. La riduzione sarebbe garantita dalla contestuale abolizione della lettera f) del medesimo articolo che stabilisce la cittadinanza allo straniero che “risiede legalmente da almeno dieci anni”. Bisognerà vedere se questo espediente non induca la Corte costituzionale a ritenere il quesito “manipolativo” e quindi a rigettarlo. In ogni caso, con questo provvedimento si accorcia solo la durata necessaria a richiedere la cittadinanza che resta subordinata, oltre alla residenza ininterrotta (5 anni e non più 10) a un reddito minimo sufficiente, la conoscenza della lingua italiana a livello B1, permesso di soggiorno in corso di validità, passaporto internazionale, non aver commesso reati in Italia o all’estero, non aver in corso procedimenti penali o condanne in attesa di convalida. Ius scholae. La conoscenza della lingua chiama in causa i progetti relativi allo ius scholae, la cittadinanza cioè subordinata al conseguimento di un corso di studi. In alcune occasioni ha preso anche il nome di ius culturae. Una riforma era stata approvata dalla Camera nel 2015, su iniziativa di Pd e Sinistra Italiana, e proponeva che i bambini stranieri arrivati in Italia prima dei 12 anni potessero ottenere la cittadinanza dopo cinque anni di scuola. Nel 2022 un altro progetto simile, sempre su iniziativa di Pd e Sinistra italiana, non ha avuto alcun esito. A inizio settembre 2024, la Camera ha respinto emendamenti di Azione e del Pd, che puntavano a modificare l’articolo 4 delle legge 91 prevedendo che un minore straniero, nato in Italia, possa ottenere la cittadinanza italiana se ha frequentato nel nostro Paese almeno cinque, otto o dieci anni di scuola, concludendo con successo le scuole elementari e assolvendo all’obbligo scolastico. Nonostante Forza Italia abbia fatto propaganda per lo ius scholae durante la scorsa estate, nessuno dai banchi di maggioranza ha sostenuto il provvedimento. Ius soli. Dal latino “diritto del suolo” prevede che la cittadinanza sia legata al luogo di nascita. Può essere “condizionato” o “temperato” se obbedisce ad alcune condizioni. Lo ius soli puro non esiste in Europa dove invece Belgio, Germania, Irlanda e Portogallo prevedono forme condizionate alla residenza per un certo periodo mentre in Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Spagna è prevista la cittadinanza alla nascita se almeno uno dei genitori è nato nel paese in questione. Negli Stati Uniti invece si può essere cittadini per il semplice fatto di essere nati su quel territorio, condizione necessaria, ad esempio, a candidarsi alla presidenza. Il referendum sulla cittadinanza: una sconfitta annunciata di Paolo Delgado Il Dubbio, 26 settembre 2024 L’ intero centrosinistra ha salutato con gran tripudio il raggiungimento delle 500mila firme necessarie per presentare il quesito referendario sul dimezzamento dei tempi per ottenere la cittadinanza, da 10 e 5 anni. La raccolta delle firme era partita segnando il passo: poi sono scesi in campo un po’ di divi dello spettacolo e dello sport. Ancor più dei testimonial magnetici, probabilmente, ha inciso la possibilità di firmare con massima comodità, con un click invece che prendendosi il disturbo di arrivare a un banchetto: modalità che desta parecchie preoccupazioni a palazzo Chigi ma qua e là anche nell’opposizione, dato il rischio concreto di un’alluvione di referendum. Restano da superare le forche caudine del verdetto sull’ammissibilità costituzionale del quesito e qui secondo gli esperti l’eventualità di una bocciatura è piuttosto alta ma si vedrà in gennaio. Dal punto di vista non dei princìpi ma della tattica e dell’opportunità politica, però, il gaudio del centrosinistra, è poco spiegabile. In tutto l’occidente il vento in poppa che spinge l’avanzata della destra, e spesso di quella più estrema, è l’immigrazione e le paure, per lo più irrazionali che suscita. Con il referendum sulla cittadinanza l’opposizione presta il fianco alla facile e comoda ma sempre efficace accusa di essere “quelli che vogliono spalancare le porte”. Sarebbe un rischio giusto e uno scotto che varrebbe comunque la pena di pagare se le probabilità di vittoria nelle urne fossero notevoli o comunque se la partita fosse molto aperta. Non è così. Portare alle urne oltre 23 milioni di elettori, quanti ne servono per superare il quorum del 51% degli aventi diritto, è un’impresa quasi impossibile. Le spiegazioni che offre il fronte referendario lasciano a dir poco perplessi. Riccardo Magi, il leader di + Europa, è comunque soddisfatto perché la raccolta di firme arrivata al traguardo rilancia lo strumento referendario. Se è per questo lo rilancia anche troppo. Sul tavolo della Corte ci saranno a gennaio tre referendum, oltre a questo quello contro il Jobs Act e quello contro l’Autonomia differenziata. Se la Corte li passerà tutti gli elettori si troveranno di fronte a un’ondata di quesiti e proprio l’esperienza del “padre storico” di Magi, Marco Pannella, dovrebbe aver dimostrato che l’inflazione di referendum va a tutto detrimento della partecipazione e dunque del superamento del quorum. I pochi quesiti che ce l’hanno fatta, come quelli sull’acqua e sul nucleare, avevano assunto le caratteristiche di una sfida secca ed è evidente che gli elettori sono molto più motivati quando in campo c’è una sfida unica o almeno largamente prevalente. Il contrario di quel che si verificherà se i referendum saranno tutti accolti dalla Corte. La segretaria del Pd si rallegra perché i giovani, quando trovano un modo per farsi sentire, evidentemente ci sono, ma nel Pd vanno forte altre due spiegazioni. La prima è che mettere sul tavolo il referendum servirà comunque a spingere le proposte di legge in Parlamento. La realtà però è ben diversa: l’ordalia referendaria, per definizione, spinge a schierarsi da una parte o dall’altra senza permettere alcun gioco politico diplomatico o d’astuzia. Infatti l’”anello debole” del centrodestra, la Fi impegnata in una campagna sui diritti civili e sullo Ius Scholae, si è immediatamente defilata e non poteva essere altrimenti. Il secondo ragionamento sostiene che sì, certo, l’opinione pubblica è in maggioranza ostile all’immigrazione, ma a quella clandestina non alla cittadinanza di quelli che sono già italiani a tutti gli effetti. A conti fatti, ci sono solo due motivi che consigliano di martellare con i referendum come sta facendo la sinistra. Il primo è l’impossibilità di fare opposizione in altro modo. Il Parlamento è stato spogliato per via bipartisan di ogni potere e di tutte le sue prerogative. Le campagne referendarie offrono una via d’uscita: danno almeno l’impressione di un’opposizione che fa qualcosa oltre che partecipare ai talk show e diffondere dichiarazioni a raffica sulle agenzie di stampa. Il secondo motivo è che la “ginnastica referendaria” servirà forse a poco, ma creerà un clima di mobilitazione i cui dividendi potrebbero essere incassati alle Politiche e ancor di più nel referendum confermativo del premierato. Lì il quorum non è necessario e il particolare non è secondario. È un calcolo dotato di una logica reale ma il rischio per i referendari resta molto alto. La funzione del pacifismo quando irrompe la guerra di Guido Rampoldi Il Domani, 26 settembre 2024 Se vuole essere credibile, non può procedere per slogan e per dogmi. Altrimenti rischia di imitare il vecchio pacifismo filo-sovietico. In replica a Notarianni: per scansare questo pericolo bisogna prendere atto che le guerre non sono tutte uguali. Alcune sono necessarie come quella di liberazione in Italia. Altre sono meno mortali e feroci delle “paci” che turbano. Qual è la funzione del pacifismo mentre la guerra irrompe nel nostro orizzonte? A questa domanda ha risposto indirettamente un pacifista - Tomaso Montanari, rettore dell’Università per stranieri di Siena. Motivando l’offerta di una scholarship ad una studentessa intrappolata a Gaza, Aya Ashour, Montanari ha scritto di una “atroce banalità”: noi e i gazawi “siamo vicinissimi. Geograficamente, ma ancor più esistenzialmente. Studi, lingua veicolare, social media, musica, immaginario sono gli stessi. Ma Aya rischia di essere uccisa, ogni giorno”. Potremmo dirci vicinissimi anche agli ostaggi di Hamas. E applicando la proprietà transitiva potremmo aggiungere che sono tra loro vicinissimi anche palestinesi e israeliani di buona volontà. Ma poiché in guerra l’umanità dell’Altro diventa invisibile, la quasi totalità dei giornali israeliani ignora le sofferenze inflitte ai palestinesi; e la totalità dei media arabi non spende una parola sull’agonia degli ostaggi. L’unica eccezione un quotidiano liberal, Haretz: ha raccontato con rispetto ed empatia le vite di 40 palestinesi innocenti, uccisi a Gaza dall’esercito israeliano. Per quanto Haretz non sia un giornale pacifista, nell’occasione ha svolto la funzione civile che attiene al pacifismo: innescare una percezione solidale delle popolazioni minacciate dalla guerra e sfidarci a reagire di conseguenza (ovviamente Haretz si batte per il cessate-il-fuoco). Ma se vuole essere credibile il pacifismo non può procedere per slogan e per dogmi. Altrimenti rischia di imitare il vecchio pacifismo filo-sovietico. Che aveva i suoi seguaci, ma al di fuori della setta non risultava convincente. Per scansare questo pericolo il pacifismo dovrebbe innanzitutto prendere atto che le guerre non sono tutte uguali. Alcune sono necessarie come lo fu in Italia la guerra di liberazione. Altre sono molto meno mortali e feroci delle “paci” che turbano, verità che risulta difficilmente accettabile quando le vittime di quelle “paci” ci appaiono diversi da noi. In quel caso spesso preferiamo considerare le violenze che patiscono come inevitabili, in quanto prodotte dalla “cultura” di quelle società. Così può accadere di leggere su un quotidiano che i Taliban hanno regalato all’Afghanistan sei anni di “pace e ordine” purtroppo interrotti dall’invasione americana, e di scoprire che nessuno eccepisce (neppure le colleghe di quel giornalista, tutte femministe e quasi tutte assai intelligenti). Beninteso qui non si vuole tacere l’ottusità e la violenza dell’occupazione occidentale: ma per milioni di ragazze afghane pure quel disastro fu preferibile alla “pace” e all’ordine che i Taliban adesso hanno ripristinato. Con una certa soddisfazione, si direbbe, del pacifismo ex filo-sovietico, sempre entusiasta quando gli occidentali le prendono. Come evitare che gli uni scambino le leggi dei Taliban come espressione della “cultura” afghana, da rispettare, e gli altri percepiscano tutti i palestinesi come “non occidentali”, estranei ai nostri valori, e tuttora rifiutino di vedere le brutalità di cui sono vittime?. L’antidoto a questi “culturalismi” è la giustizia internazionale, un’idea molto liberale che ha due grandi meriti: dimostra l’esistenza di valori riconosciuti come fondativi da tutte le società e le “culture”, sia pure con modalità diverse; e smaschera, attraverso i codici ricavati, crimini di stati e di governi che gli autori cercano di travestire con termini tali da renderli accettabili, perfino nobili. Da queste premesse è nato un “interventismo umanitario” a due facce; pretesto per lanciare una guerra neo-coloniale in Libia, ma anche tra i motivi per un intervento Nato in Bosnia che fermò il massacro dopo centomila morti. Anche quello un esempio di “imperialismo liberale”, oggi direbbero sia la nuova destra occidentale sia il pacifismo per il quale è sempre sbagliato ricorrere a strumenti militari. Questo convergere non giova all’antifascismo, ho sostenuto su questo giornale senza convincere il pacifista Maso Notarianni, che ha replicato. Gli consiglierei di domandarsi quali sarebbero state le conseguenze se nel 1995 gli americani avessero rinunciare ad intervenire, come suggerivano tanto i pacifisti quanto quei governi europei che attendevano serenamente il collasso della Bosnia. Come disse Mitterand a Clinton, consideravano “innaturale” la presenza di uno stato “diverso”, musulmano, in Europa. Svizzera. Se il papà o la mamma finiscono in prigione di Giuliano Gasperi Corriere del Ticino, 26 settembre 2024 Anche i figli delle persone messe sotto inchiesta o in carcere devono considerarsi vittime: chi le tutela? In passato questo tipo di vittime era lasciato in secondo piano, ma le cose stanno cambiando. Ne parliamo con Siva Steiner, capo dell’Ufficio cantonale dell’assistenza riabilitativa. “Chissà i figli…”. Non è raro sentir dire queste parole; di solito quando succede un incidente grave, oppure quando una coppia divorzia. Una situazione meno frequente, ma non meno impattante a livello emotivo, vede un papà o una mamma messi sotto inchiesta o addirittura in carcere. Può essere un fulmine a ciel sereno, perlomeno per i suoi piccoli familiari. E in un attimo cambia tutto; fra le mura di casa e nei rapporti con la comunità locale. In essa, accanto alle inevitabili reazioni negative sui presunti reati commessi, può emergere anche un sentimento di compassione verso i minori travolti, senza colpa alcuna, dai guai dei genitori. Ne abbiamo avuto conferma, senza entrare nei meandri di una storia privata e delicata, raccogliendo pareri su un recente caso di attualità giudiziaria. Conferma che lascia aperta una domanda: in generale, come sono tutelati bambini o ragazzi che subiscono queste situazioni e possono essere considerati anche loro delle vittime? Lo Stato o altri enti se ne occupano? Oggi la risposta è sì, ma non è sempre stato così, e a livello svizzero resta molto lavoro da fare. Strappi da ricucire - “In passato questo genere di vittime veniva lasciato in secondo piano, ma le cose stanno cambiando e se ne parla sempre di più” osserva Siva Steiner, a capo dell’Ufficio dell’assistenza riabilitativa, che si occupa del reinserimento sociale di chi ha avuto guai giudiziari. Un progetto gestito dallo stesso servizio cantonale insieme all’associazione L’OASI si chiama “Pollicino” e mira, tra le varie cose, a tutelare le relazioni fra i bambini e i loro genitori indagati o in prigione, ad aiutare i figli ad affrontare il momento e a sostenere gli adulti nei loro ruoli di papà e mamme. Il tutto, se i diretti interessati sono d’accordo, organizzando colloqui con specialisti e incontri tra familiari, dentro e fuori dalle mura del carcere. Quest’ultimo offre dei luoghi specifici per questi momenti, fra cui la casetta conosciuta come “La Silva” in cui le famiglie, se la direzione del carcere lo permette, possono pranzare o trascorrere un’intera giornata insieme. “Sempre all’interno del penitenziario cantonale - prosegue Steiner - per tre volte all’anno organizziamo delle piccole ‘festè in cui i detenuti e i loro familiari e conoscenti stanno tutti insieme: un tentativo di ricostruire una normalità sociale”. Un mosaico di aiuti - E nel mondo esterno? Là non c’è solo la compassione di cui parlavamo in precedenza. Ci sono anche rischi, per bambini e ragazzi coinvolti in queste situazioni, soprattutto se le vicende giudiziarie dei genitori hanno avuto una certa eco mediatica. E con “mondo esterno” intendiamo anche quello virtuale di Facebook, Instagram e altre piattaforme, dove ci sono ancora meno filtri e difese per chi è fragile. “Non sono comunque soli” rassicura il nostro interlocutore. “Sono diverse le istanze dello Stato attente e presenti per aiutarli: oltre al nostro ufficio ci sono i servizi psicosociali, medico-psicologici, quelli sociali comunali e cantonali, le Autorità regionali di protezione e le stesse strutture carcerarie, senza dimenticare professionisti privati come medici e psicologi in particolare”. Giocano un ruolo, seppur indirettamente, anche le autorità penali, “in particolare il Ministero pubblico, i tribunali e il Giudice dei provvedimenti coercitivi che, nelle loro decisioni, tengono sempre conto della situazione dei familiari delle persone detenute, favorendo per quanto possibile le relazioni familiari”. In Ticino quindi, a differenza che in altri cantoni, non c’è un servizio specifico che si occupa dei familiari di persone indagate o in cella, ma esiste un “mosaico” di enti, professionisti e singoli progetti che nel complesso, a mente di Steiner, garantisce un sostegno adeguato. A conferma di ciò, il progetto Pollicino è stato menzionato come esempio positivo in una ricerca sul tema condotta due anni fa, su mandato della Confederazione, dalla Scuola universitaria professionale zurighese per le scienze applicate (ZHAW). Le lacune - Lo stimolo per approfondire la questione era giunto nel 2015 dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, che aveva raccomandato alla Svizzera di colmare le sue lacune in questo ambito avviando, per cominciare, un’indagine specifica. Quella della ZHAW è stata seguita, nel 2023, da uno studio condotto dal Dipartimento federale di giustizia e polizia, che ha messo in evidenza la mancanza sia di statistiche sul numero di bambini con un genitore detenuto, sia di uno studio ad hoc sulle conseguenze psicologiche per loro, aggiungendo che i bambini non vengono considerati abbastanza nella pianificazione delle pene dei genitori e che le possibilità di contatto sono regolate in modo molto diverso a dipendenza delle strutture carcerarie. “La situazione dei bambini con la mamma o il papà in carcere è stata a lungo trascurata, soprattutto nella Svizzera tedesca” conclude il Dipartimento federale di giustizia e polizia. Comunque, “negli ultimi anni la consapevolezza sul tema è aumentata” e vari Cantoni hanno iniziato a muoversi per tutelare anche questo genere di vittime. Stati Uniti. Niente grazia: Marcellus Williams giustiziato dal boia senza prove di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 26 settembre 2024 Il 55enne afroamericano aveva passato gli ultimi 23 anni nel braccio della morte. Sull’arma del delitto non c’era il suo Dna e la stessa famiglia della vittima aveva dubbi. Aveva evitato l’iniezione letale nel 2015 e nel 2017, ma la sua condanna non era stata annullata nonostante la clamorosa mancanza di prove. Cosi intorno alle 23.00 di martedì scorso il detenuto Marcellus Williams è stato giustiziato nella prigione di Bonne Terre nel Missouri. L’uomo 55enne era in cella da 23 anni, dal momento in cui venne condannato per l’omicidio di Felicia Gayle, un’ex giornalista e assistente sociale, trovata pugnalata a morte nella sua casa nel 1998. Williams ha sempre sostenuto la sua innocenza e per una volta la stessa famiglia della vittima aveva paventato la possibilità che l’uomo non avesse commesso il brutale assassinio. La vicenda giudiziaria di Williams sembra in tal senso il classico caso di malagiustizia. Durante il processo, i pubblici ministeri avevano sostenuto che Williams avesse fatto irruzione in casa della donna assassinata che si trovava sotto la doccia. Una volta uscita era stata uccisa con un grosso coltello da macellaio. Sempre secondo l’accusa, Williams aveva rubato un computer che poi aveva rivenduto. I pubblici ministeri avevano anche presentato la testimonianza di Henry Cole, che ha condiviso la cella con Williams nel 1999 mentre era in carcere per una rapina a mano armata in un negozio di ciambelle. Cole testimonio che Williams aveva confessato l’omicidio fornendo dettagli specifici. Inoltre anche la sua ragazza dell’epoca sostenne che l’accusato portava una giacca per coprire le macchie di sangue nonostante il gran caldo di quei giorni. Ma gli avvocati hanno sostenuto che non c’erano prove forensi che collegassero Williams alla scena del crimine e che l’arma del delitto era stata maneggiata male, mettendo in dubbio la prova del DNA. I test infatti hanno dimostrato che il materiale genetico sul coltello apparteneva a membri dell’ufficio del procuratore che lo avevano toccato senza guanti dopo le prove di laboratorio originali del crimine. Secondo un rapporto dell’Associated Press, la difesa di Williams ha anche sostenuto che sia la ragazza che Henry Cole avevano condanne penali e stavano sperando in una ricompensa di 10 mila dollari. Hanno anche prodotto altre prove come un impronta di scarpe insanguinata e capelli trovati sulla scena del crimine che non corrispondevano a quelli di Williams. Sulla condanna a morte pesa anche il sospetto di razzismo, Williams infatti era nero e durante la reclusione si era convertito all Islam diventando un Imam. Dalla giuria sono stati esclusi alcuni giurati afroamericani con motivazioni abbastanza risibili come quella di una somiglianza troppo marcata con l’imputato tale da far sospettare una parentela stretta. Risulta così controverso l’iter processuale più recente in cui senza prove del DNA che indicassero sospetti alternativi, gli avvocati avevano raggiunto un compromesso con l’ufficio del procuratore. Williams avrebbe presentato una nuova dichiarazione di non contestazione per omicidio di primo grado in cambio di una condanna all’ergastolo senza condizionale. Il giudice Bruce Hilton aveva approvato l’accordo, così come la famiglia di Gayle. Tuttavia, il procuratore generale repubblicano Andrew Bailey ha presentato ricorso, portando la Corte Suprema dello Stato a bloccare l’accordo e ordinare a Hilton di condurre un’udienza probatoria. Il 12 settembre scorso Hilton ha così stabilito che la condanna per omicidio di primo grado e la condanna a morte sarebbero rimaste in vigore, affermando che le argomentazioni di Williams erano state tutte precedentemente respinte. La Corte Suprema dello Stato ha confermato questa decisione lunedì. Il governatore Michael Parson, repubblicano anch’esso, ha respinto la richiesta di clemenza di Williams. Giappone. Iwao Hakamada assolto dopo quasi 50 anni passati nel braccio della morte Il Dubbio, 26 settembre 2024 Nel 1968, una sentenza lo aveva condannato a morte per il brutale omicidio di un dirigente aziendale e della sua famiglia, avvenuto due anni prima. Iwao Hakamada, ex pugile giapponese, ha ottenuto la tanto attesa assoluzione dopo decenni di ingiusta detenzione. Nel 1968, una sentenza lo aveva condannato a morte per il brutale omicidio di un dirigente aziendale e della sua famiglia, avvenuto due anni prima. Dopo quasi 50 anni passati nel braccio della morte, la verità è finalmente emersa. Nel marzo 2023, il tribunale distrettuale di Shizuoka ha riaperto il caso, accogliendo nuove prove che dimostravano la fabbricazione di elementi a carico di Hakamada. “Si è trattato di una manipolazione delle prove”, ha dichiarato il giudice Koshi Kunii, sottolineando come Hakamada non fosse il colpevole del quadruplice omicidio. Hideko Hakamada, sorella dell’ex pugile e sua più fervida sostenitrice, ha giocato un ruolo cruciale nel riaprire il caso nel 2008. Iwao Hakamada venne arrestato nel 1966 e sottoposto a un processo che molti ritengono basato su confessioni estorte e prove compromesse. Rimase in prigione per ben 48 anni, diventando l’uomo con la più lunga permanenza nel braccio della morte al mondo. Nel 2014, venne rilasciato in attesa di un nuovo processo, ma solo ora è arrivata l’assoluzione completa.