Dal telefono alle mail. Diritti negati e disparità territoriali per i detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 settembre 2024 Mentre il mondo è sempre più connesso, le carceri italiane restano isolate. In un’epoca in cui la comunicazione digitale e il mantenimento dell’affettività nella maggior parte dei Paesi del mondo è diventata la norma, il sistema carcerario nostrano sembra essere rimasto indietro di decenni. Questa è la conclusione che emerge dall’analisi della recente risposta del Ministro della Giustizia Carlo Nordio all’interrogazione parlamentare presentata ad aprile dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti sulle telefonate e l’uso delle email nelle carceri italiane. La risposta, arrivata il 20 settembre, a più di cinque mesi di distanza dalla presentazione dell’interrogazione, offre uno spaccato preoccupante sulla situazione delle comunicazioni tra i detenuti e i loro familiari. Nonostante le modifiche apportate dal decreto “carcere sicuro” dello scorso agosto, la situazione rimane largamente insoddisfacente. Analizzando nel dettaglio la risposta ministeriale, emergono diversi punti critici. Innanzitutto, il Ministro Nordio conferma l’incremento delle telefonate da quattro a sei al mese per i detenuti in media sicurezza, ciascuna della durata di dieci minuti. Questa modifica, introdotta con la legge 8 agosto 2024, n. 112, di conversione del decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92, equipara la disciplina delle telefonate a quella dei colloqui visivi. Sebbene sia prevista la possibilità per i direttori degli istituti di concedere chiamate aggiuntive in casi particolari, come la presenza di figli minori o familiari gravemente malati, questa rimane una facoltà discrezionale e non un diritto acquisito. Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, mette in luce il netto divario tra l’Italia e il resto d’Europa: “In Romania, un detenuto ha a disposizione un’ora e mezza di telefonate al giorno. Noi ci consoliamo con l’articolo 28 dell’Ordinamento penitenziario che parla di ‘ particolare cura’ nel mantenere le relazioni familiari, ma la realtà è ben diversa”. Per quanto riguarda le email, il ministro Nordio ammette che il servizio di posta elettronica è stato avviato in via sperimentale in alcuni istituti, principalmente a seguito dell’emergenza COVID- 19. Tuttavia, emerge chiaramente una mancanza di uniformità nell’implementazione di questo servizio. Il Ministro riconosce che, al momento, l’uso delle email è limitato ai detenuti in media sicurezza e AS3, non sottoposti a visto di controllo sulla corrispondenza. Inoltre, il servizio è fornito “dietro corrispettivo” da cooperative ed enti di patronato, il che solleva questioni sull’accessibilità economica per i detenuti. Particolarmente preoccupante è l’ammissione che, dopo decenni dall’introduzione delle email nella società, l’amministrazione penitenziaria non ha ancora definito linee guida generali per regolamentare questo servizio. Questa mancanza di iniziativa crea una disparità di trattamento tra i detenuti, con quelli del Sud Italia particolarmente svantaggiati. Il Ministro parla di “criteri organizzativi” comunicati ai Provveditorati e alle Direzioni interessate, ma - fa notare sempre Bernardini - senza fornire dettagli su questi criteri o su come si intenda garantire un’implementazione uniforme in tutti gli istituti. La presidente di Nessuno Tocchi Caino solleva domande pertinenti: “Possibile che dopo 35 anni l’Amministrazione non abbia ancora individuato le Linee di indirizzo generali? Possibile che anche laddove è consentito inviare e ricevere email costi al detenuto un occhio della testa mentre noi fuori le usiamo praticamente gratis?”. Queste discrepanze non solo violano il principio di uguaglianza, ma minano anche gli sforzi di riabilitazione e reinserimento sociale dei detenuti. Il mantenimento dei legami familiari è cruciale per il benessere psicologico dei carcerati e per il loro futuro reinserimento nella società. La risposta del Ministro Nordio, pur riconoscendo l’importanza delle comunicazioni per il benessere psicologico dei detenuti e il mantenimento dei legami familiari, non offre soluzioni concrete per colmare il divario tecnologico e comunicativo tra il sistema carcerario e la società esterna. Certamente, un problema che non ha l’esclusiva responsabilità del governo attuale, ma che viene da lontano. Il Commissario Doglio e il futuro delle carceri di Massimo Lensi Il Domani, 25 settembre 2024 La nomina del Commissario per l’edilizia carceraria è arrivata. In poco più di un anno, dovrà guidare le nuove opere necessarie a mitigare il sovraffollamento nelle carceri italiane. Il decreto d’incarico è stato firmato ma non c’è traccia dell’altro decreto, quello ministeriale che affida al nuovo Commissario poteri e risorse. Marco Doglio è il nuovo Commissario, un professionista serio e competente. Vanta un passato di oltre trent’anni nel settore delle infrastrutture. Un profilo professionale molto particolare. Cos’è che non va allora in questa storia? Semplice, oltre ai fondi una visione del futuro. Costruire nuove carceri è un progetto irrealizzabile, oltre che in contraddizione con il buon senso e le indicazioni di organi internazionali in materia di politiche penitenziarie. Eppure ci troviamo nel periodo più intenso del fenomeno di carcerazione di massa. I detenuti aumentano di giorno in giorno, e lo spazio detentivo è lo stesso di vent’anni fa, anzi meno a causa della non agibilità di numerose "celle", pardon, camere di pernottamento. La mancanza di manutenzione ordinaria si fa infatti sentire. E allora? Cosa potranno fare Doglio e i cinque tecnici di sostegno in un anno? Qualche convegno, una lunga serie di osservazioni, un altrettanto lungo giro negli istituti e la consegna di un Piano carceri da utilizzare alla bisogna. Già, un Piano carceri. A meno di un miracolo, sembra impossibile invertire la tendenza punitiva e pensare a forme innovative di "decarcerizzazione" con soluzioni diversificate secondo il reato commesso. Come è impensabile intravedere, con i fondi a disposizione, opere di ristrutturazione dei vecchi edifici penitenziari ormai fatiscenti. Per fare un esempio, stentano a partire i lavori perfino per gli otto nuovi padiglioni previsti dal Pnrr di due anni fa. E già appaltati. Certo, anche questa storia si potrebbe concludere in un nulla, nel vuoto permanente che contraddistingue la politica carceraria in Italia. Parole, tante parole e un nulla di fatto. Oppure nell’avvio del processo di privatizzazione del sistema carcerario. E il nuovo Commissario potrebbe diventare il traghettatore ideale di questo processo, per trasferire parzialmente un sistema ordinamentale dal pubblico al privato. Forse “aprire” non porta voti, ma è la vera via per la sicurezza di Paolo Foschini Corriere della Sera, 25 settembre 2024 La direttrice di Secondigliano, Giulia Russo, dice sul carcere una cosa fondamentale: è un posto complesso ma semplice. Nel senso che in quella complessità non c’è niente di imprevedibile. Mettete 60mila detenuti dove ce ne starebbero 50mila, lasciateli senza far niente, senza operatori, con le celle chiuse, e il risultato sarà una pentola a pressione con agenti chiamati a dover gestire l’insofferenza peggiore, cioè quella di chi non ha niente da perdere. A maggior ragione a fronte di una popolazione carceraria fatta in misura ogni anno crescente di giovanissimi, stranieri che non parlano italiano, senza reti familiari, con percentuali di problemi psichici impressionanti, magari con alle spalle una esperienza di carcere libico. Dopodiché di quel che accade ogni giorno dentro le prigioni si viene a sapere da sempre solo una minima parte, perlopiù quando accade un fatto eclatante come la morte del diciottenne Youssef tra le fiamme del suo materasso. La risposta della politica? Un decreto come quello appena trasformato in legge dalla Camera, per cui anche una protesta fatta sbattendo un tegame sulle sbarre sarà un reato penale: altre condanne, altri detenuti. Eppure, come dice la direttrice di Secondigliano e come molti direttori sanno bene, una cosa si potrebbe fare: meno sbarre, più lavoro. Pagato. Sapendo che fuori c’è chi dirà “potevano darlo a noi il lavoro”: e son voti, si sa. Ma un detenuto-lavoratore in più è un rapinatore in meno, anche questo si sa. Basterebbe volerlo. Punire la resistenza passiva di detenuti e migranti è un’assurdità di Guido Camera huffingtonpost.it, 25 settembre 2024 Così come è stato licenziato dalla Camera, questo ddl sicurezza non è compatibile con lo Stato di Diritto. Spero che in Senato vengano fatte le opportune modifiche. Se il DDL Sicurezza verrà approvato dal Senato così come è stato licenziato dalla Camera, la “resistenza passiva” da parte di detenuti e migranti durante le rivolte nelle carceri e nei centri di trattenimento e accoglienza sarà un reato punito fino a cinque anni di carcere. Ma una previsione del genere è compatibile con lo Stato di diritto? Sono convinto di no. Come prima cosa lo trovo un reato ingiusto: se si ama la verità e si vogliono guardare i problemi con obiettività, non si può negare che la “resistenza passiva”, soprattutto in una situazione di totale privazione della libertà, può talvolta essere l’unica forma di rivendicazione di diritti minimi e dignità. E come tale va considerata e gestita da parte di chi rappresenta lo Stato in quei frangenti, non dimenticando mai che ha di fronte persone in carne e ossa esposte alla massima sofferenza. Punire è la scelta più comoda e facile; il difficile è garantire il rispetto dei diritti, soprattutto degli ultimi. Peraltro, già oggi l’Ordinamento penitenziario contiene strumenti eccezionali per contrastare le rivolte, tra i quali l’uso della forza anche contro la resistenza passiva. Ma non è tutto. Davvero si può pensare di aumentare l’autorevolezza dello Stato criminalizzando la disobbedienza non violenta degli emarginati? A me sembra che così facendo si metta solo a nudo l’incapacità di gestire in modo sistematico, e coerente con i principi costituzionali, il grave problema dell’emergenza carceraria e della gestione dell’immigrazione. Le carceri scoppiano, aumentano i suicidi e garantire la salute dei reclusi è sempre più difficile. Non credo che i nuovi reati miglioreranno la situazione: anzi, mi sembra decisamente il contrario. Dal punto di vista delle garanzie costituzionali, va poi osservato che le condotte che si vorrebbero sanzionare penalmente hanno confini così poco determinati che rischiano di esporre le libertà individuali - personale, ma anche di autodeterminazione - a interventi arbitrari. Per rendersene conto bisogna leggere testualmente la norma: “costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. Cosa significa? Che ogni qual volta non si collabora con il personale di custodia si commette un reato? E quali sono i criteri per comprendere il “contesto” in cui scatta questo dovere di obbedienza rafforzato? Mi sembra difficile negare che non sia adeguatamente rispettato il principio di tassatività della norma penale, garantito dall’articolo 25 della Costituzione. La “resistenza passiva” penalmente rilevante, in molti aspetti, presenta analogie con il delitto di plagio, che fu dichiarato incostituzionale dalla Consulta diversi decenni fa, per la palese imprecisione e indeterminatezza della norma che sanzionava la condotta vietata. Anche la “resistenza passiva”, per le ragioni che ho sopra spiegato, non rende possibile attribuire alla condotta vietata “un contenuto oggettivo, coerente e razionale” e pertanto espone la sua concreta applicazione ad “assoluta arbitrarietà”. In quella famosa sentenza (n. 96/1981), la Corte definì il plagio “mina vagante nell’ordinamento, potendo essere applicata a qualsiasi fatto (…) e mancando qualsiasi sicuro parametro per accertarne l’intensità”. Non valgono gli stessi concetti per la “resistenza passiva”? Non è evidente che qualunque forma di non collaborazione - anche se non violenta e motivata - può diventare reato e legittimare l’intervento penale contro un detenuto o un migrante nel centro di trattenimento e accoglienza oltre che l’uso della forza oggi già consentito dall’Ordinamento penitenziario? Bisogna poi rilevare che, per giurisprudenza costante della Cassazione, la “resistenza passiva” esclude la rilevanza penale del delitto di resistenza a pubblico ufficiale: non è irragionevole e discriminatorio prevedere che invece la stessa condotta sia severamente punita se commessa da un carcerato o un migrante recluso in un centro di trattenimento e accoglienza? Ma non è che così si finisce a sanzionare la condizione soggettiva, piuttosto che il comportamento oggettivo, secondo un criterio ben poco liberale di “colpa d’autore”? Se vogliamo giustamente difendere i valori delle democrazie occidentali di fronte agli assalti dei fans dell’autoritarismo, dobbiamo essere intransigenti sul rispetto dei principi liberali. Spero perciò che in Senato vengano fatte le opportune modifiche; altrimenti, mi sembra inevitabile che la Corte costituzionale sarà chiamata a intervenire in modo demolitorio. E sarebbe un’occasione persa per dare dimostrazione di maturi Comunità Educanti con i Carcerati, le “case aperte” che cambiano la vita di Giorgio Paolucci ilsussidiario.net, 25 settembre 2024 Le carceri scoppiano, la recidiva è altissima. Servono subito esperienze alternative alla detenzione. Lo chiamano “pianeta carcere” perché appare come un mondo a sé, dove accadono cose che sembrano non riguardare noi del “pianeta liberi”. Eppure ci riguardano da vicino per tanti motivi: perché sono in gioco vite umane, perché su quel pianeta si consumano violazioni di diritti elementari, perché sono troppi coloro che dopo avere scontato la pena tornano a delinquere, mettendo a rischio la sicurezza sociale. I numeri fotografano una situazione drammatica: secondo l’ultimo report del Garante nazionale delle persone private della libertà, alla data del 6 settembre i detenuti presenti nei 192 istituti di pena italiani erano 61.840, con un indice di sovraffollamento del 132% (+12% rispetto a giugno 2023), 67 quelli che dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita (a cui vanno aggiunti 7 agenti di custodia), 9.430 gli atti di autolesionismo. La recidiva supera il 70%, le attività di formazione professionale e le occasioni di lavoro sono scarse, insufficiente il numero degli educatori, del personale di sorveglianza e di quello sanitario. Oltre che mettere in campo provvedimenti tesi a ridurre il sovraffollamento - indulto, amnistia, depenalizzazione di certi reati - è urgente incrementare esperienze alternative alla detenzione e che si muovono nella logica di una giustizia rieducativa e non vendicativa. Nella convinzione che l’uomo non è definito dal suo errore e che - con buona pace di coloro che si lamentano per l’aumento della criminalità - la sicurezza della società è direttamente proporzionale alla possibilità di recupero di coloro che hanno sbagliato. In questi giorni, ospitata nella sede dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, è tornata sotto i riflettori una mostra presentata nel 2016 al Meeting di Rimini, “Dall’amore nessuno fugge”, con l’indicazione di due significative esperienze di rieducazione: le APAC, carceri senza sbarre e senza agenti di custodia nate sessant’anni fa in Brasile e riconosciute dall’ONU come eccellenza nel panorama mondiale, e le CEC (Comunità educante con i carcerati), “case aperte” - presenti in Emilia-Romagna, Toscana, Abruzzo e Piemonte - dove i detenuti affrontano un percorso educativo a cui accedono d’intesa con la direzione carceraria e il magistrato preposto. Accompagnati da operatori e volontari, prendono coscienza del male compiuto, si misurano con una proposta di fede offerta alla loro libertà, lavorano, vengono inseriti in una rete di rapporti con il territorio e le imprese locali. Solo il 15% di chi è stato ospite delle CEC torna a delinquere dopo avere scontato la pena, a fronte di una recidiva del 70% nella popolazione carceraria. È dunque un’esperienza “conveniente” per i detenuti, per lo Stato, per la società. Giulia Segatta, magistrato di sorveglianza a Trento, intervenendo al convegno svolto a conclusione della mostra a Bologna, ha evidenziato che visitando le CEC ha incontrato “un pezzo di realtà dove i principi costituzionali prendono vita, dove i principi di gradualità del trattamento, di reinserimento sociale, di avvicinamento tra detenuto e società sono realtà concrete”. Giorgio Pieri, responsabile delle CEC, ha ricordato che tra i provvedimenti previsti per fronteggiare la piaga del sovraffollamento (mancano ancora i decreti attuativi) c’è l’istituzione di un “albo di comunità”, strumento per consentire di uscire ai tanti detenuti che rientrano nei termini di legge ma non possono perché privi di riferimenti abitativi e relazionali (si calcola siano 7mila sotto i 2 anni di pena da scontare). “Il mondo delle comunità chiede che i decreti attuativi ci mettano nelle condizioni di lavorare - commenta Pieri -. L’albo deve partire con chi è già sul campo e ha dato prova di affidabilità. Chi vuole entrare nell’albo deve essere attrezzato in maniera adeguata ed è auspicabile che le comunità collaborino fra loro con una regia statale, analogamente a quanto avviene con il sistema penale dei minori. È necessaria una retta adeguata che permetta l’assunzione di personale preparato. L’obiettivo è che nel tempo si arrivi a considerare le comunità come luoghi paritari al carcere in cui l’esecuzione della pena si concentra maggiormente sugli aspetti educativi e che siano in osmosi con la società: il reinserimento rimane una parola astratta se l’educazione è ristretta fra quattro mura, anche di una comunità. Per questo, una condizione imprescindibile è la presenza di volontari esterni appositamente formati. Gli stessi detenuti devono essere responsabilizzati nella conduzione delle comunità, rendendoli protagonisti dell’altrui e proprio cambiamento. Lo svolgimento di pene che abbiano una finalità educativa dentro un percorso comunitario protetto offre sicurezza ai cittadini, rispetto alle vittime e possibilità di riscatto del reo. Le esperienze delle Comunità educanti con i carcerati che da vent’anni operano in Italia lo testimoniano”. Arresti, intercettazioni, prescrizione: l’autunno caldo della giustizia di Errico Novi Il Dubbio, 25 settembre 2024 Gasparri e Sisto sbloccano la legge Zanettin, che fissa a 45 giorni il limite ordinario per gli “ascolti”: sarà in aula al Senato il 9 ottobre. Ma non è che l’inizio, verrebbe da dire. Maurizio Gasparri, capogruppo di Forza Italia al Senato, aveva promesso battaglia sulle intercettazioni e ha vinto il primo round: poco fa ha ottenuto il via libera degli alleati, nella Conferenza dei capigruppo, sull’approdo in Aula della legge Zanettin. Si tratta della proposta che fissa in 45 giorni il limite ordinario massimo per le captazioni giudiziarie. Il dossier era fermo. Gasparri aveva prima lanciato un avviso ai partner sull’urgenza della materia, poi ieri mattina ha riunito, in videoconferenza, lo stato maggiore azzurro sulla giustizia, ha concordato la strategia con Francesco Paolo Sisto, che è viceministro ma anche responsabile di dipartimento nel partito. Fino allo sblocco della questione e alla calendarizzazione della proposta di legge. Ma appunto, ce n’est qu’un debut, un inizio dell’autunno che, sulla giustizia, si preannuncia ancora una volta caldo. Se ne parlerà, nell’emiciclo di Palazzo Madama, mercoledì 9 ottobre. Sembrano superate dunque le perplessità espresse, in particolare, da Fratelli d’Italia, che a metà luglio, per voce del sottosegretario Andrea Delmastro, aveva definito “draconiana” la soglia prevista da Pierantonio Zanettin, che dei senatori azzurri è il capogruppo Giustizia. Sì, trascorsi i 45 giorni le Procure potranno ottenere, per le intercettazioni, ulteriori proroghe solo se avranno nel frattempo individuato elementi “specifici e concreti”. Un altro colpo dunque al metodo dello strascico. Ma a parte l’eccezione prevista per i reati più gravi, mafia e terrorismo, non ne potrà conseguire che una maggiore efficienza nell’uso di uno strumento costoso e invasivo. A dare notizia della calendarizzazione è stata, oggi pomeriggio, la vicepresidente del Senato Anna Rossomando. Si tratta di un primo successo che sembra anticipare nuovi impegnativi step della maggioranza in materia penale. Nonostante gli alleati di governo diano l’impressione di essere entrati in una fase politicamente complicata. Passati i bollori estivi, e le impennate azzurre su carcere e Ius scholae, anche il sempre effervescente ambito giudiziario versava in un certo languore. Poi è arrivata una scossa, con l’avviso recapitato nei giorni scorsi a FdI da Gasparri sull’urgenza di calendarizzare la legge Zanettin. Ne è seguito il summit virtuale delle prime linee berlusconiane che si occupano di giustizia. E si è deciso di sollecitare i partner a una più celere definizione di alcuni dossier. Alla riunione in videoconferenza, con Sisto e Gasparri (assente per un impedimento dell’ultimo minuto l’altro capogruppo, il presidente dei deputati di FI Paolo Barelli), hanno preso parte appunto i parlamentari azzurri competenti per materia. Inclusa la new entry, o meglio il ritrovato Enrico Costa, da poco tornato in Forza Italia dopo l’addio ad Azione. E proprio da un’intervista di Costa apparsa oggi sul Corriere della Sera si ha conferma degli altri temi affrontati nel vertice interno. Oltre alle due proposte di Zanettin sulle intercettazioni (la seconda riguarda il sequestro degli smartphone, ed è alla Camera), anche i limiti all’uso dei trojan, la riforma della custodia cautelare e il ritorno alla prescrizione sostanziale. Dall’agenda dei dossier in stallo è esclusa solo la separazione delle carriere, che è ben avviata in Prima commissione a Montecitorio, anche in virtù del forte investimento compiuto, sul ddl costituzionale di Nordio, da Giorgia Meloni. Il resto sembrava, almeno fino a oggi, un po’ in stand-by, Al Corriere, Costa ha parlato delle proprie proposte sui virus-spia e sulla custodia cautelare. Progetti simili sono stati già predisposti anche dal resto della delegazione azzurra nelle due commissioni Giustizia. E poi c’è la prescrizione, che fa un po’ storia a sé: Costa, in un post pubblicato stamattina sui social, ha ricordato, con lo stesso piglio esibito nei due anni trascorsi all’opposizione, che le nuove norme sull’estinzione dei reati sono inspiegabilmente ferme dall’epoca del sì alla Camera, cioè da 8 mesi. È la spia non certo di un’anacronistica belligeranza di Costa, ma di una certa insofferenza avvertita in generale dentro FI sui capitoli “secondari” della giustizia (secondari rispetto alle carriere separate). Ed è anche il preavviso di quello che finirà per essere un altro autunno caldo, in materia di giustizia, un autunno destinato a prolungarsi anche nei mesi successivi. Marco Sorbara e i 909 giorni in cella da innocente: “Una ferita che non guarirà mai” di Enrico Martinet La Stampa, 25 settembre 2024 “Dallo Stato non ho avuto niente”. L’ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale, assolto in via definitiva dall’accusa di associazione mafiosa, aspetta ancora l’indennizzo per l’ingiusta detenzione. “Se chiedo di affittare un alloggio mi dicono no e i datori di lavoro si tirano indietro, ora giro l’Italia a parlare con i ragazzi”. Novecento nove giorni di detenzione. Arrestato il 23 gennaio 2019, assolto in Cassazione, dopo già esserlo stato in Appello, il 24 gennaio 2023. Vicenda chiusa, dal punto di vista giudiziario, da quello personale ci sono ancora lavori in corso. Marco Sorbara dice: “Esperienza… ferita che non mi toglierò mai, gli odori del carcere, svegliarsi di soprassalto di notte. L’altra settimana stavo seguendo lezioni in un’aula piuttosto piccola, eravamo in sei. All’improvviso mi sono sentito soffocare, son scappato fuori. Difficile rimarginare queste ferite e lo dico ai giovani che incontro, così come spiego loro come sono riuscito a superare quei momenti e a uscirne. Capiscono. Giro in tutta Italia a parlare, chiamato da associazioni, scuole, partiti, carceri. Voglio dare ai ragazzi gli strumenti per poter inseguire e realizzare i propri sogni sapendo che devono fare sacrifici ed essere corretti”. Offre il suo racconto intitolato “4 per 2. La gabbia”, cioè i metri della sua cella. Una condanna in primo grado a 10 anni per associazione mafiosa, poi due assoluzioni con formula piena. Innocenza ignorata quando si tratta di casa o lavoro. Dice: “Se chiedo di affittare un alloggio mi dicono di no perché il mio reddito si era interrotto, così come, nonostante un curriculum professionale ritenuto importante, quando i possibili datori di lavoro rileggono la mia storia si sfilano. “Ci spiace”, dicono”. Sorbara ora lavora con un contratto part-time (due giorni a settimana) nell’ufficio regionale di Roma. Dice: “Prestiti, mutui neanche a parlarne. Dallo Stato non ho ancora ricevuto nulla, ho presentato istanza di indennizzo per ingiusta detenzione. E un’altra richiesta, di rimborso spese legali per 200 mila euro che ho pagato e rendicontato, l’ho inviata al Comune di Aosta che nel processo a mio carico si era costituito parte civile. Aspetto. Sono perfino stato sospeso dall’ordine dei commercialisti per crediti formativi non fatti. Già, ero in carcere”. Il suo numero è il 23, data del giorno d’arresto e anno della definitiva assoluzione. “È anche - dice - uno dei due numeri che mi sono portato sulla schiena da giocatore di hockey sul ghiaccio, l’altro è il 3. Anche le aziende mi chiamano, vogliono sapere come ho potuto superare le difficoltà. Così i giovani e allora sto seguendo a Roma un corso sull’età evolutiva proprio per avere la giusta preparazione, per non sbagliare nel proporre temi così delicati a ragazzi che hanno subito violenze, atti di bullismo”. E ad adulti e adolescenti Sorbara dice: “Come ho fatto? Non ho mai mollato. Carattere che viene dal mio percorso. Le regole sono la soluzione. Le ho avute da genitori meravigliosi, dallo sport e dalla fede. Pregavo e mi dicevo “a tutto c’è un perché”. Volevo giocare in serie A e ce l’ho fatta, ho vinto una Coppa Italia e per due volte la mia squadra, il CourmAosta, è stata terza in campionato. Sono stato un anno intero in panchina. Ho aspettato. Miei compagni molto più forti non hanno saputo aspettare”. La regola che salva la vita - La “regola” in cella era ripetere ogni giorno agli stessi orari le stesse cose: “Sveglia alle 5, preghiera e ginnastica, 50 flessioni sulle braccia, 100 addominali. Poi sbucciare un mandarino o un’arancia, contare gli spicchi, i semi, prima di mangiarlo. Quindi la lettura di un certo numero di pagine. Come un rito, è fondamentale. Ho visto un compagno di cella disperato che poi si è ucciso, altri che oggi sono in comunità perché drogati o alcolizzati. Mi ha sorretto anche la speranza, sapendo di non aver nulla da rimproverarmi. I sacrifici che ho fatto per studiare a Torino, lavorare ad Aosta e giocare a hockey mi sono stati indispensabili. Mai scorciatoie. È questo che dico, così come aggiungo di esserne uscito grazie alla giustizia, ai tre gradi di giudizio. Ho sempre creduto nella giustizia, gli errori sono dei singoli. Ci vuole etica, preparazione e consapevolezza di quanto si fa”. Overdose di coincidenze a cura di Valentino Maimone La Ragione, 25 settembre 2024 Il protagonista di questa vicenda ha 30 anni. Ha trascorso 150 giorni in carcere da innocente. Ha chiesto 500mila euro di indennizzo per ingiusta detenzione, ne ha ottenuti 35.250. C’è un proverbio da voi che mi si addice: “La fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo”. La prima volta che l’ho sentito dire è stato a San Vittore, dove ero detenuto con l’accusa di aver ceduto a un tossicodipendente una dose letale di eroina che provocò la sua morte. Era stato il commento di un giovane che era in cella con me, dopo aver sentito il racconto della mia storia. Aveva proprio ragione: quella frase mi calzava a pennello. Sono finito in carcere perché nell’ottobre del 2009 in provincia di Lodi un uomo era morto per un’overdose. Che cosa c’entravo con quella storia? Nulla, ma proprio nulla. Eppure, per colpa di alcune banali coincidenze, ci sono finito dentro con tutti e due i piedi. Due in particolare. La prima: a un amico della vittima mostrarono un centinaio di foto segnaletiche. Tra queste c’era anche la mia, archiviata nella caserma che stava indagando su quella morte. Tempo prima ero stato denunciato per un incidente stradale e per questo ero rimasto schedato. Così quell’uomo aveva puntato il dito sulla mia immagine: “È lui lo spacciatore egiziano”. Sì, perché - tra le altre cose - sono originario della regione del Cairo. L’altra pazzesca coincidenza è stata che il mio cellulare si era agganciato alla cella telefonica corrispondente alla zona dov’era morto il tossicodipendente. Ma non sempre uno più uno fa due: durante l’interrogatorio di garanzia ho provato a spiegare al giudice che ero estraneo a quei fatti e che passavo da quelle parti per andare al lavoro. Nessuno mi ha creduto. Soltanto al processo sono emerse tutte le fragilità dell’accusa. Il testimone si è rimangiato le sue parole e ha negato di riconoscermi come presunto spacciatore. Il mio avvocato ha dimostrato che la presenza del mio cellulare nel luogo dello spaccio appariva del tutto compatibile con il tragitto casa-lavoro che facevo ogni giorno. Quei Br ultraottantenni sotto processo per un fatto avvenuto nel lontano 1975 di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 25 settembre 2024 Tra atti giudiziari distrutti e testimoni scomparsi, domani il gip di Torino deciderà se mandare alla sbarra Lauro Azzolini, l’ex brigatista accusato di aver ucciso un carabiniere. Sarà un gruppetto di ottantenni quello che comparirà il 26 settembre davanti a un giudice di Torino per rispondere di fatti di 50 anni fa in un’inchiesta di terrorismo paradossale per tempi e procedure adottate. Occorre riportare la memoria ai tempi delle Brigate Rosse e del loro primo sequestro di persona a scopo finanziamento, il rapimento del re dello spumante Vittorio Vallarino Gancia (morto novantenne due anni fa), il 4 giugno del 1975 e la conclusione tragica dopo un solo giorno, con due morti sul terreno dopo uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine. L’inchiesta è stata riaperta dalla procura di Torino in seguito a un esposto del 2021 di Bruno D’Alfonso, che era un bambino di dieci anni all’epoca in cui, davanti alla cascina Spiotta dell’alessandrino in cui Vallarini Gancia era tenuto sotto sequestro, il padre Giovanni, appuntato dei carabinieri, era morto insieme a Margherita Cagol, nome di battaglia Mara, capo della colonna piemontese delle Br, che aveva organizzato il sequestro. Un altro brigatista era presente al momento del conflitto a fuoco, ed era riuscito a scappare. Non sarà mai identificato, nonostante le indagini avessero tentato di portare alla sbarra Lauro Azzolini, che però fu assolto da un giudice istruttore, con il vecchio rito, su richiesta del pm, per non aver commesso il fatto, il 3 novembre 1987. Sono atti giudiziari che non esistono più, perché andarono distrutti nel corso di un allagamento che colpì il tribunale di Alessandria nel 1994 dopo l’esondazione del fiume Tanaro. Il che non ha impedito che quella sentenza sia stata annullata, da magistrati- storiografi che non avevano neppure potuto vederla, in seguito all’esposto di Bruno D’Alfonso. Con procedure “strane”, ricostruite minuziosamente nella memoria dell’avvocato Davide Steccanella, difensore di Azzolini, che si ritrova nuovamente davanti a un giudice, nonostante il principio del “ne bis in idem”, che vieta di essere imputati per un fatto da cui si è già stati assolti. Anche la competenza territoriale ricorda tanto l’elasticità illegittima dei metodi di “Mani Pulite”: perché indaga Torino se i fatti sono accaduti nella provincia di Alessandria? Per non parlare dell’uso del famoso fascicolo fantasma, quello formalmente contro ignoti, ma che consente di prendere di mira qualcuno senza nominarlo, potendo così dilatare all’infinito i tempi di indagine senza osservarne le regole imposte dal codice di procedura penale. Per non parlare delle intercettazioni e dell’uso del trojan, applicato a Lauro Azzolini e inizialmente a tutti i brigatisti ancora superstiti e considerato dai carabinieri dei Ros “l’unico strumento attraverso il quale è possibile acquisire elementi di prova”. Il tutto mentre l’esponente delle Br è un cittadino già assolto e prima che un giudice abbia disposto la cancellazione di quella sentenza che stabiliva come lui non avesse commesso il fatto. Ma le indagini hanno anche allungato il tiro. Così, mezzo secolo dopo, si ritroveranno domani davanti a un gip torinese che dovrà decidere sulle richieste di rinvio a giudizio avanzate dalla procura, Lauro Azzolini, 81 anni, accusato di omicidio, insieme a tre coimputati per concorso morale nell’uccisione del brigadiere Giovanni D’Alfonso. Si tratta di Renato Curcio, 82 anni, e dei settantottenni Pierluigi Zuffada e Mario Moretti. Nessuno di loro era presente in quella cascina in quel giorno di mezzo secolo fa. Ma quando le inchieste giudiziarie hanno la pretesa di riscrivere la storia, tutto può succedere. Gli indizi che la procura ha portato sul tavolo del gip sono molto labili, come è naturale viste le forzature, e più di tipo logico che materiale. C’è in particolare un documento, che era stato scritto ai tempi del fatto da un ignoto militante delle Br, che ricostruisce la dinamica dello scontro a fuoco alla cascina Spiotta. Questo foglio era passato di mano in mano nel corso del tempo, poi era stato ritrovato a Milano in via Maderno, in una base logistica delle Br il 18 gennaio 1976. Sono passati sette mesi dai fatti, e il documento aveva evidentemente fatto molti giri, tanto che tra le diverse tracce ve ne erano anche alcune non utilizzabili. Ci sono 28 diverse impronte digitali e di queste 11 sono attribuite a Azzolini. Non certo una prova granitica, ma i pm torinesi hanno accolto una suggestione di tipo logico dei periti del Ris, i quali hanno sottolineato come quelle impronte sembrassero intrise di sudore, sintomo di uno stato emotivo. Come se chi aveva tenuto in mano quei fogli dovesse essere colui che li aveva scritti. E di conseguenza colui che quel giorno era presente in quella cascina. E aveva quindi anche sparato e ucciso? Ancora più surreale il preteso coinvolgimento come mandanti morali dei dirigenti delle Br come Curcio e Moretti, sulla base di un altro documento, una sorta di direttiva interna al gruppo terroristico sul comportamento da tenere in caso di accerchiamento da parte delle forze dell’ordine. “Forzatelo”, era la parola d’ordine di quel documento, che era stato pubblicato da un foglio clandestino di propaganda, “Lotta armata per il comunismo”. Il “concorso morale” avrebbe dovuto inseguire, secondo la logica dei pm torinesi, Curcio e Moretti, in quanto capi autori di direttive ai militanti, in ogni processo nei confronti di ogni singolo brigatista e per ogni singolo fatto. Poi le immancabili intercettazioni, che hanno coinvolto in modo scandaloso e fuori dalle regole anche l’avvocato Davide Steccanella, il difensore di Azzolini. Il brigatista è stato controllato per centinaia di volte tramite il trojan, ancora prima che il gip avesse autorizzato la riapertura delle indagini. E nessuno ha mai smentito le testimonianze delle persone che quel giorno tragico erano presenti alla cascina Spiotta, cioè i tre carabinieri sopravvissuti, il maresciallo Cattafi, l’appuntato Barberis e il tenente Rocca, oltre al sequestrato Vallarino Gancia. Tutti descrivono il brigatista fuggitivo come un uomo di statura sul metro e settanta. Se avessero visto uno come Azzolini, un omone di oltre un metro e novanta, non l’avrebbero dimenticato, visto che a quei tempi la sua era una statura veramente inusuale. Contraddizioni palesi, che l’avvocato Steccanella ha già avuto modo di sottolineare. Mentre intanto, e anche questo è un po’ scandaloso, a nessuno sembra importare di verificare se sia vero, come ha scritto in una memoria Renato Curcio, che era anche suo marito, che Mara Cagol sia stata finita da un colpo di grazia, mentre si era arresa e stava con le braccia alzate. “Oggi con l’autopsia in mano - si legge nel documento possiamo avere la certezza che il colpo mortale fu un classico ‘sotto-ascellare’, da sinistra a destra, che le ha perforato orizzontalmente i due polmoni: colpo mortale e inferto con competenza professionale. Su di ciò non possono esserci più dubbi, come sul fatto che Margherita in quel momento fosse disarmata e le sue mani fossero alzate. Restano allora senza risposta due domande: chi realmente ha premuto il grilletto? Era necessario?”. Se si deve riscrivere la storia, andrebbero chiariti anche questi particolari, che non sono proprio piccola cosa. Piemonte. Il Garante dei detenuti: “Sovraffollamento, suicidi e aumento di minori in carcere” cr.piemonte.it, 25 settembre 2024 “Riavviare e valorizzare la Cabina di regia tra istituzioni e potenziare le risposte sulla Sanità penitenziaria” sono due delle richieste formulate dal Garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano nel corso dell’illustrazione della relazione annuale del proprio Ufficio. Prendendo le mosse dalle conclusioni del convegno Carcere: il ruolo delle Regioni, svoltosi nell’ottobre scorso a Torino, Mellano ha aggiunto, tra le richieste, la necessità “di fare sistema con le politiche attive del lavoro, la formazione professionale, la scuola e i progetti avviati con il privato sociale e il territorio”. “Occorre inoltre affrontare - ha proseguito - le questioni relative ai servizi dedicati al disagio mentale: le Articolazioni per la tutela della salute mentale (Atsm), le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) e i servizi dedicati sul territorio” e ha richiamato l’attenzione sulla prossima riapertura del Centro per il rimpatrio (Cpr) di corso Brunelleschi, a Torino. Mellano, il cui mandato scadrà nel febbraio 2025, ha sottolineato che “le funzioni del Garante non sono limitate entro il perimetro del carcere ma si estendono all’esecuzione penale esterna, in continua espansione, se si considera che, a livello nazionale, al 31 dicembre 2023 erano 60.166 i detenuti in carcere e 130.406 persone erano seguite dagli Uffici per l’esecuzione penale esterna (Uepe)”. Per quanto riguarda la giustizia minorile Mellano si è, inoltre, soffermato “sul fortissimo incremento, negli ultimi tre anni, dei detenuti nel sistema penale minorile: 318 al dicembre 2021; 400 al dicembre 2022; 495 al dicembre 2023 e 580 all’agosto 2024. Una situazione che, a causa di crescenti disagi, proprio all’inizio di agosto ha provocato una rivolta all’Istituto minorile Ferrante Aporti di Torino dove, su una capienza massima di 46 posti, i detenuti erano 60 e da settimane una dozzina dormivano su brandine da spiaggia aggiunte nelle stanze”. Mellano ha anche puntato l’attenzione sull’alto numero di suicidi, “che dall’inizio dell’anno sono 73 in Italia, di cui 6 in Piemonte, mentre in tutto il 2023 sono stati 69, di cui 5 nella nostra regione” e sui procedimenti penali per tortura e violenza in corso a Biella, Cuneo, Ivrea e Torino. “Il Garante - ha sottolineato - si è costituito parte civile a Torino e a Ivrea e intende farlo anche a Biella e a Cuneo grazie al patrocinio ‘pro bono’ del presidente della Camera penale del Piemonte occidentale e della Valle d’Aosta”. Il dibattito è stato aperto da Domenico Rossi - intervenuto per il Pd con Nadia Conticelli ed Emanuela Verzella - che ha sottolineato come, di anno in anno, le criticità denunciate rimangano più o meno le medesime, suggerendo di “provare a elencare i problemi in modo puntuale e tentare di risolverli dandoci delle scadenze. Occorre, inoltre, puntare su lavoro e formazione perché è chiaro che più le persone hanno titoli di studio elevati meno hanno possibilità di andare in carcere”. Roberto Ravello (Fdi) ha rivendicato “che il Piemonte, con la rete dei Garanti comunali, è tra le Regioni più avanzate d’Italia” e dichiarato la contrarietà “a indulti, amnistie e abolizione delle carceri minorili”, illustrando “quanto fatto dal Governo negli ultimi venti mesi per la sicurezza all’interno del carcere, per il sovraffollamento, per la rieducazione e il reinserimento dei detenuti”. Ha invece espresso riserve sulla decisione del Garante di costituirsi “parte civile nei processi contro la polizia penitenziaria senza averlo mai fatto in nessun procedimento nei confronti della popolazione carceraria quando si è resa responsabile di disordini e distruzioni”. Giulia Marro - intervenuta per Avs con Alice Ravinale - ha evidenziato come “il ruolo del Garante sia fondamentale, essendo l’unica voce che porta dal carcere le istanze di chi è dentro, diversamente da chi ci lavora che può rivolgersi ai propri sindacati di riferimento”, ha espresso preoccupazione “per il nuovo Ddl sicurezza proposto dal Governo, che rischia di inasprire l’emergenza carceraria il cui effetto sono sovraffollamento, suicidi e scioperi della fame e per l’aumento delle persone tossicodipendenti in carcere perché manca il personale medico e gli educatori per seguirli”. Gianna Gancia (Lega) ha affermato di “avere a cuore i seri problemi delle persone con disagio mentale e psichiatrico: dobbiamo fare in modo che chi ne soffre venga curato, ma non nel sistema carcerario, soprattutto per chi ha commesso reati minori”. Anche lei ha espresso qualche perplessità “sulla costituzione di parte civile, perché credo che le guardie carcerarie lavorino in un clima di forti difficoltà”. Alberto Unia (M5s) ha ribadito la necessità di aprire una discussione “per cercare di trovare soluzioni affinché la detenzione rappresenti sempre più un’occasione per i detenuti per crescere e per imparare in maniera continuativa”, facendo riferimento “a un’epoca in cui si parlava di progetti di lavori socialmente utili sia all’esterno sia all’interno del carcere”. Silvio Magliano (Lista Cirio) ha sottolineato “la necessità di impegnarsi sui temi della Sanità penitenziaria e sulla formazione e l’inserimento nel mondo del lavoro, strumenti insostituibili per aiutare i detenuti a riscattarsi e a diminuire i rischi di recidiva grazie anche al contributo del Terzo settore e delle associazioni no profit”. Paolo Ruzzola (Fi), osservando che “il numero dei detenuti e il conseguente sovraffollamento, fonte di esasperazione e di proteste, sia in ulteriore aumento” ha ricordato “l’importanza di accrescere il numero del personale e aiutare i detenuti a riscattarsi per evitare il rischio di recidiva. Alla certezza della pena dobbiamo affiancare politiche educative e di reintegrazione nel tessuto sociale”. Napoli. “La riabilitazione richiede fiducia, questo è l’inizio” di Walter Medolla Corriere della Sera, 25 settembre 2024 Gestisce con fermezza il Centro Penitenziario “Pasquale Mandato” di Secondigliano a Napoli. Giulia Russo è una di quelle direttrici che ci mette la faccia e lavora spalla a spalla con i suoi uomini per portare avanti nel migliore dei modi il carcere di Secondigliano; una piccola cittadella di circa 40 ettari che ospita quasi 1.500 detenuti per lo più classificati Alta Sicurezza. Si sente parlare spesso di riabilitazione dei detenuti, ma quanto è reale? “Va abbandonata l’idea che la rieducazione finisca all’interno dell’istituto. Io porto avanti la teoria delle 3 R, cioè dobbiamo passare dalla rieducazione per la risocializzazione, ma per arrivare all’obiettivo finale della riabilitazione. Le cose funzioneranno quando tutto diventerà automatico, cioè quando il detenuto che ha superato le 3 R riuscirà a trovare un suo posto in società con un concetto nuovo di rivisitazione del sé, revisione del proprio passato, voglia e forza di diventare altro. Quando i nostri amici torneranno sul territorio, saranno cittadini ed è fondamentale creare un ponte concreto di opportunità e questo progetto vuole mettere le gambe a questa idea”. Quanti di loro restano lontani dal carcere? “Non le posso dare dati su recidiva o rientro in carcere dei detenuti, le posso dire che nei 7 anni della mia direzione di Secondigliano i casi sono davvero pochissimi. E sono assenti episodi di insofferenza da parte dei detenuti con scioperi o iniziative di protesta. Il discorso è semplice nella sua complessità, bisogna essere credibili per attivare il processo di riabilitazione”. Cioè? “C’è bisogno di fidarsi reciprocamente. Se io non riesco ad assicurare al detenuto l’acqua calda in cella, come posso proporgli un percorso di riabilitazione, che credibilità avrei? Bisogna lavorare insieme per raggiungere l’obiettivo della reale riabilitazione, avendo una credibilità nella gestione e nei fatti”. Questo progetto è credibile? “Sì, perché diamo soluzioni concrete. Questo progetto si anima su tre direttrici: formazione professionale, realizzazione di un laboratorio specifico e lavorazione del terreno per creare un chicco di caffè tutto nostro. Questa collaborazione con un’azienda leader del settore, tra l’altro radicatissima sul territorio, ci fa ben sperare anche per l’inserimento lavorativo futuro dei detenuti che ora sono coinvolti in questa formazione. Piantiamo questo seme di speranza augurandoci che metta radici forti”. Incuriosisce questa idea della piantagione di caffè all’interno del carcere... “Con l’aiuto dell’università Federico II di Napoli lavoriamo alla fattibilità di coltivare qui da noi, sulla nostra terra che questa volta non è terra dei fuochi ma del fuoco vivo, piante di caffè, per produrre un caffè napoletano doc. L’idea dell’amministrazione penitenziaria è quella di rendere concreta la rieducazione del condannato attraverso progettualità come questa”. Napoli. Il caffè di Secondigliano, per dieci detenuti un “Chicco di speranza” di Walter Medolla Corriere della Sera, 25 settembre 2024 Recupero, formazione, avviamento al lavoro, reinserimento e, dunque, dignità di vita. Tutto in una pianta di caffè. Anzi: dalla pianta alla tazzina, in un processo virtuoso che crea legami e opportunità. Si chiama “Un chicco di speranza” ed è il progetto di reinserimento per persone detenute nato dalla collaborazione tra Kimbo, colosso italiano della produzione di caffè, la Curia di Napoli, i vertici del carcere napoletano di Secondigliano e il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Formare, proprio nella città della “tazzulella”, nuovo personale proponendo loro un percorso che vuole consentire la rieducazione come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. La sfida riguarda dieci detenuti dell’istituto penale partenopeo. Davide, Pasquale, Ciro e gli altri “ospiti” di Secondigliano inizieranno sin da subito a uscire dalle proprie celle per imparare tutto su quel chicco che offre loro una grande possibilità. Lo faranno nel Kimbo Training Center, un vero e proprio laboratorio di studio e ricerca che sorge all’interno dello stabilimento di produzione del caffè, stabilimento che dista poche centinaia di metri dal carcere napoletano. Vicini di casa, insomma, che si sono incontrati e hanno deciso di fare rete e mettere in pratica quelle intenzioni che troppo spesso restano solo buoni propositi. “Un chicco di speranza” si sviluppa su più fronti e intende organizzare per i detenuti individuati, un’attività di training funzionale alla formazione di figure come il barista e il manutentore tecnico, profili che creano opportunità di lavoro per un futuro reinserimento sociale. Macina, pressa, temperatura esterna e pressione delle macchine; i detenuti scelti per diventare “professionisti del caffè”, impareranno i segreti per fare una tazzina a regola d’arte. “Abbiamo ricevuto tanto spiega Mario Rubino, presidente Kimbo - dalla città di Napoli in 60 anni e più di attività e significativamente siamo e restiamo in questa area della città per manifestare la nostra gratitudine. Se oggi Kimbo è il caffè di Napoli, distribuito in 100 Paesi del mondo, lo dobbiamo anche alle nostre radici. Oggi sentiamo il dovere di restituire a chi ci ha dato tanto e spero di non essere l’unico, proverò a coinvolgere altri imprenditori nella mia visione di benessere e di sostenibilità sociale”. Un progetto ampio che prevede l’impiego, di una parte dei detenuti individuati, nella manutenzione delle macchine da caffè; d’intesa con i referenti dell’istituto penitenziario, sarà allestito all’interno del carcere un magazzino ricambi per le macchine bar di proprietà di Kimbo da riparare o rigenerare, da utilizzare poi nel settore Horeca. “Dietro alla filosofia di questo progetto - commenta l’arcivescovo di Napoli, monsignor Domenico Battaglia - ci sono nomi e volti e con la nascita di questo progetto diamo inizio alla concretezza di una speranza vera e autentica. La speranza è fatta di cose che attendono che qualcuno le faccia accadere. Non è facendo terra bruciata attorno a chi ha sbagliato - prosegue Battaglia - che si protegge la società, ma lo si fa costruendo un terreno ospitale, facendo rete tutti insieme”. Un invito a tessere legami, come accaduto in questo caso in cui pubblico, privato, Chiesa e società civile hanno fatto blocco unico per favorire il recupero e il ritorno di chi ha voglia di ricominciare. Il progetto presentato prevede anche la nascita di una piantagione di caffè sfruttando un terreno di 10mila mq situato all’interno del carcere di Secondigliano. Uno step che vede anche il coinvolgimento del Dipartimento di Agraria dell’università Federico II di Napoli per capire quale sia il tipo di pianta di caffè più adatta alle potenzialità organolettiche del terreno. “Questo è un lavoro che richiederà più tempo - sottolinea Rubino - anche solo per i tempi di crescita della pianta, ma siamo fiduciosi di poter avviare una piccola coltivazione all’interno del carcere così da poter dare vita a un nuovo brand che chiameremo caffè Secondigliano”. Parte attiva del progetto anche la Magistratura di sorveglianza che vigilerà e supporterà le attività e gli spostamenti dei detenuti, anche con l’emissione di provvedimenti eventuali che, nei termini di legge, dovessero rendersi necessari. Il progetto è partito dall’ufficio del lavoro dell’arcidiocesi che si è adoperato a sensibilizzare la Kimbo affinché proponesse a favore dei detenuti dell’istituto penitenziario di Secondigliano un progetto di formazione e di avviamento al lavoro reale e costruttivo per creare i presupposti di una cittadinanza attiva, e garantire la possibilità, come dimostrano studi e ricerche, di abbattere la recidiva. Bolzano. Cpr, venti associazioni dicono no: “Lager in cui regnano gli abusi” Corriere dell’Alto Adige, 25 settembre 2024 A ottobre l’assemblea pubblica: “Il progetto sottrae soldi ai percorsi di inclusione”. “No ai cpr: né a Trento, né a Bolzano, né altrove”. È netta la presa di posizione di venti associazioni (tra cui Bozen, Alleanza Verdi Sinistra del Trentino, Sinistra e Anpi) contro l’annunciata apertura di un centro di permanenza per il rimpatrio (cpr) nel capoluogo trentino, arrivata nei giorni scorsi per voce del governatore Maurizio Fugatti. Per ribadirlo, gli attivisti annunciano un’assemblea pubblica per martedì 15 ottobre al centro sociale Bruno. “Esattamente un anno fa - scrivono in una nota - abbiamo iniziato a mobilitarci a livello regionale contro la proposta avanzata dal presidente della Provincia di Bolzano, Arno Kompatscher, che in campagna elettorale annunciava la realizzazione di un cpr”. L’ipotesi era quella di una struttura in città, nella zona dell’aereoporto. All’epoca, “1.500 persone erano scese in strada per dire no”, e adesso “questa scellerata ipotesi sta avanzando anche a Trento per volere di Fugatti: i centri in previsione sarebbero dunque diventati due. Quello di Trento, in accordo con il ministero dell’Interno, da costruire vicino la Questura”. Impossibile qualsiasi “lettura positiva” del cpr, “anche se Fugatti li definisce “piccoli” e gestiti a livello locale”. Si tratta di “lager” di cui inchieste giornalistiche e della magistratura hanno dimostrato le “condizioni igienico-sanitarie ampiamente sotto la soglia della dignità, la somministrazione arbitraria ed eccessiva di antiepilettici, antipsicotici e antidepressivi, la corruzione degli enti gestori, gli abusi e le violenze delle forze dell’ordine”. Solo negli ultimi mesi, a Ponte Galeria (Roma) e Palazzo San Gervasio (Potenza) “sono morti due ragazzi”. L’unica colpa di chi vi è detenuto, per periodi che possono arrivare a 18 mesi, è quella “di non essere in regola con il titolo di soggiorno. Ma sono le stesse logiche emergenziali delle politiche europee e nazionali che producono l’irregolarità”. E una parte di responsabilità, per le associazioni, è dello stesso Fugatti, “che ha smantellato il sistema di accoglienza, tagliato assistenza psicologica e legale, opportunità formative e lasciato in strada centinaia di richiedenti asilo, negando loro i più elementari diritti fondamentali. Presenta il cpr come una risposta alla “mancanza di sicurezza”, agli episodi di microcriminalità degli ultimi mesi, ma che sono frutto delle politiche di abbandono della giunta. I soldi che si spenderanno il cpr saranno sottratti da welfare e percorsi di inclusione sociale”. Siracusa. Tele di Aracne, ex detenuti diventano sarti per dare nuova vita a capi dismessi di Luca Signorelli Corriere della Sera, 25 settembre 2024 Il progetto presentato all’Expo Divinazione di Siracusa alla presenza del ministro degli Interni Matteo Piantedosi: “Iniziativa di alto valore simbolico”. “Il progetto Tele di Aracne coniuga la destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata con iniziative rivolte ai giovani che provengono da esperienze personali difficili, per offrire loro prospettive di formazione e di inserimento al lavoro. Proprio per le sue finalità, questa iniziativa assume un alto valore simbolico perché ha trasformato un luogo prima in mano al malaffare in un’accademia sartoriale attrezzata per persone ad alto rischio di marginalizzazione e di devianza”. Sono le parole del ministro degli Interni Matteo Piantedosi, presente alla sfilata di moda organizzata da Tele di Aracne e protagonista della serata dell’Expo Divinazione 2024 che si è tenuta a Siracusa lunedì sera. Stilisti, sarti, artigiani, amanti del cucito insegneranno ai giovani svantaggiati come dar nuova vita a capi di abbigliamento ormai dismessi che, tuttavia, conservano, per la qualità dei tessuti o dei materiali, un fascino indiscusso. Quale miglior occasione, se non l’Expo Divinazione - esposizione che si tiene dal 21 al 29 nel centro storico di Siracusa e che precede il G7 Agricoltura e Pesca - per dimostrare che si può essere reinseriti nella società e avere ancora una seconda possibilità per ricominciare a vivere. “Ricucire una vita, costruire il futuro” è infatti il titolo della sfilata e dal ministro sono stati forti i plausi alle opere creative realizzati dal progetto Rete di Aracne, il laboratorio sartoriale artigianale rivolto a giovani in uscita dai circuiti penali e a rischio marginalità. Il progetto promosso dal Comune di Siracusa finanziato dal Ministero dell’Interno, situato in un immobile confiscato alla mafia, è oggi un importante esempio di rigenerazione urbana e rinascita sociale. La sfilata è stata un’occasione importante per presentare pezzi unici di sartoria che sfileranno alla presenza del pubblico presente all’Expo Divinazione 2024, organizzato dal Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste. L’Accademia Sartoriale, gestita da una rete costituita da Passwork, CNA, Ermes Comunicazione e Fondazione Val di Noto, si presenta come un luogo creativo aperto a tutti. La direzione stilistica del progetto è affidata a Giorgia Salvo, stilista di CNA Federmoda Siracusa, e si punta a realizzare una linea di design che rappresenti un ponte tra tradizione sartoriale e innovazione creativa, coinvolgendo direttamente i beneficiari in formazione. Durante l’evento sono state presentate le idee sartoriali che verranno realizzate dai partecipanti attualmente coinvolti nel progetto formativo. L’obiettivo a lungo termine del progetto è quello di sviluppare l’Atelier di Sartoria in una realtà produttiva capace di valorizzare le tradizioni locali e dialogare con il mondo della moda, generando valore per le fasce deboli della società ed evidenziando il ruolo cruciale del settore sartoriale e della moda per l’economia del territorio provinciale. Milano. Una mostra nei sotterranei del carcere di San Vittore: “L’arte è un ponte con la città” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 25 settembre 2024 È stato inaugurato ieri a San Vittore ReverseLab: uno spazio per l’arte contemporanea aperto alla città. La mostra sarà aperta dal 28 settembre per un mese, ogni sabato e lunedì. “Una sentenza recente ha dato ragione ad un detenuto che denunciava il fatto di non potere vedere il sole e la luna fuori dalla finestra. Ecco, lo potremmo chiamare Diritto al cielo ed è importante. Poter puntare alto lo sguardo e sognare vuole dire coltivare frammenti di speranza e raccogliere la forza di lottare per quello cui si tiene, in questo caso auspicabilmente la vita”. Sono parole forti quelle pronunciate ieri da Mauro Palma, matematico, giurista, fondatore dell’associazione Antigone e fino a poco tempo fa Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. L’occasione era preziosa: nei sotterranei di San Vittore, là dove c’erano una volta le celle per i detenuti in regime di massima sicurezza, è stato inaugurato uno spazio per l’arte contemporanea aperto alla città. E quella frase è stata richiamata dal primo allestimento, curato dall’artista Maurice Pefura e formato da migliaia di piccole finestre disegnate ad acquarello. Tra una finestra e l’altra, centinaia di post it scritti dalle persone che vivono dietro le sbarre e hanno partecipato insieme agli agenti di Polizia penitenziaria: “Dormire, o forse morire un po’”, “Voglio capire”, “Trovare un punto per essere sereno”. E tanti alti. Pensieri che restano lì, appesi, per chi li vuole leggere. La mostra aprirà ogni sabato e lunedì per un mese, dal 28 settembre, “ed è frutto di un lavoro di rete che ha messo insieme istituzioni, associazioni e atenei”, come spiega Francesca Cognetti, delegata della Rettrice del Politecnico al programma Off Campus, nato per creare piccole “basi” dell’università in luoghi di Milano che sono marginali e fragili e hanno bisogno di visibilità. Il laboratorio permanente inaugurato, ReverseLab, sarà gestito dall’Off Campus del Politecnico ma partecipano tra gli altri anche Bocconi, Bicocca, Fondazione di Comunità Milano, Pac Padiglione d’Arte contemporanea. “Ci sentiamo scorati quando vediamo le celle stipate di gente o persone che provano a togliersi la vita in cella - ha fatto notare Maria Milano Franco d’Aragona, provveditrice regionale dell’Amministratore penitenziaria -. Progetti come questo, che fanno entrare energie là dove ci sarebbe il buio, smuovono altri piccoli passi”. Lo spiegava Nietzsche, “Non esistono fatti isolati e ogni fatto è una catena”. E allora, ha preso spunto il direttore della Casa circondariale Giacinto Siciliano, “il coraggio che ci è servito per fare entrare un progetto del genere con il flusso di visitatori che potrebbe portare genererà altra osmosi tra fuori e dentro. Gli istituti di pena ne hanno bisogno”. Daria Bignardi, volontaria a San Vittore, ha chiamato il suo ultimo libro “Ogni prigione è un’isola”, e il titolo è emblematico. Se è vero che gli istituti di pena - per forza - restano chiusi, “questo laboratorio realizzerà ed esporrà arte nel tentativo ostinato e contrario di fare in modo che quell’isola si colleghi alla città”. Siracusa. I detenuti interpretano l’Icaro di Pirandello: un evento unico al G7 Agricoltura di Adriano Dossi Il Riformista, 25 settembre 2024 Una fusione di arte, cultura e riabilitazione si è svolta a Siracusa nell’ambito dell’Expo Divinazione G7 Agricoltura e Pesca, dove ha avuto luogo, ieri sera, al Teatro comunale di Siracusa, una rappresentazione dell’opera “Icaro”, scritta da Stefano Pirandello. Questa opera, diretta dall’illustre Mario Incudine, ha portato sul palcoscenico la “Libera Compagnia del Teatro per Sognare”, un gruppo eccezionale formatosi da detenuti-attori che ha condiviso il palco con professionisti del panorama teatrale. Datata alle origini della creatività teatrale, “Icaro” rappresenta una narrazione carica di significato e di emozione, a cui i detenuti hanno portato la loro personale esperienza e interpretazione. Sul palco, questi attori, in una rappresentazione inedita, si sono esibiti insieme a nomi di spicco del settore, come Eugenio Mastrandrea e Paride Benassai, creando un ponte tra l’arte e la realtà sociale. Inoltre, il cast include anche studentesse dell’Università degli Studi di Messina e residenti dei comuni di Siracusa, Messina e Patti, sottolineando l’importanza della comunità in questo progetto. Questa interpretazione di “Icaro” ha un significato particolare: non si tratta solo di uno spettacolo, ma di un’esperienza che esplora le complessità e i contrasti della Sicilia, traducendo tali elementi in un linguaggio universale attraverso i temi pirandelliani. La rappresentazione ha avuto luogo al Teatro Comunale di Siracusa, rendendo omaggio a una tradizione teatrale ricca e variegata in una cornice affascinante. Originariamente rappresentato solo in Spagna, il testo di Pirandello è stato recuperato da una raccolta pubblicata da Bompiani nel 2004 e adattato in un atto unico. Questa versione è stata arricchita da elementi tipicamente siciliani, come i “cunti”, insieme a Paride Benassai. Ciò che rende l’opera ancora più affascinante è l’uso di una lingua che fonde l’italiano con la siciliana, creando un teatro musicale che richiama le voci dei grandi classici greci ma si radica profondamente nell’essenza umana contemporanea. La drammaturgia è al contempo arricchita e sorretta da musiche popolari, che si intrecciano con la narrazione, trasformando l’opera in un’esperienza multisensoriale. La musica diventa così una parte fondamentale della trama, contribuendo a creare un legame emozionale tra il pubblico e i protagonisti. Questo progetto è stato reso possibile grazie all’ impegno di Daniela Ursino, la mente creativa e il direttore artistico che ha orchestrato questo evento, riuscendo a unire istituzioni, associazioni e comunità locali in un grande sforzo collettivo per realizzare un evento di tale portata. Oltre ai detenuti, in scena si potranno ammirare il collaboratore del regista Giuseppe Spicuglia, insieme a professionisti come Lorenza Denaro e la “Compagnia Il Cuore di Argante” di Noto. Ma non finisce qui: i musicisti Antonio Vasta, Manfredi Tumminello e Pino Ricosta aggiungeranno le loro sonorità, mentre il Balletto di Mariangela Bonanno e Alice Rella contribuirà con eleganti coreografie. Inoltre, saranno coinvolti anche gli allievi della Sezione Fernando Balestra della Scuola INDA, rendendo l’evento un esempio di collaborazione e integrazione. In conclusione, la rappresentazione dell’Icaro di Pirandello da parte della “Libera Compagnia del Teatro per Sognare” non è solo un momento di intrattenimento, ma un simbolo potente di trasformazione e rinascita, un’occasione per riflettere sull’arte come strumento di cambiamento sociale e umano. Como. Al Bassone un parco giochi per i bimbi dei detenuti di Paola Pioppi Il Giorno, 25 settembre 2024 Attrezzata l’area esterna dei colloqui grazie alla Camera penale. Il penitenziario lariano ospita 420 detenuti, fra cui 40 donne. “La genitorialità in carcere è un aspetto su cui non si ragiona abbastanza”, sottolinea il direttore Fabrizio Rinaldi. Lo spazio all’aperto dell’area riservata ai colloqui tra i detenuti della Casa circondariale Bassone e i loro familiari si è arricchito di un parco giochi dedicato ai bimbi più piccoli: scivoli, altalene, seggioline, un bruco e altri divertimenti, donati grazie all’iniziativa della Camera penale di Como e Lecco e una campagna di raccolta fondi, che ha consentito di ottenere la cifra utile ad acquistare i giochi. “Siamo contenti di aver arricchito questo piccolo spazio giochi - commenta Edoardo Pacia, presidente della Camera penale - che si lega alla tutela dell’affettività in carcere: non solo tra le coppie, ma all’interno dell’intero nucleo familiare”. Attualmente sono 420 i detenuti del Bassone, tra cui 40 donne: circa il doppio della capienza prevista, di 226 reclusi, che mette la struttura detentiva tra le prime cinque in Italia quanto a sovraffollamento, con una percentuale di circa il 190 per cento. Metà di loro hanno figli e gli incontri normalmente si svolgono in spazi al chiuso dedicati ai colloqui. Per l’estate si è aggiunto lo spazio esterno con prato, arbusti in vaso, ombrelloni, panche e giochi per i bimbi. “La genitorialità in carcere è un aspetto su cui non si ragiona a sufficienza, ma che merita grande attenzione - aggiunge Fabrizio Rinaldi, direttore del Bassone -. La detenzione comporta separazione e sofferenza, non solo per i genitori, ma anche per i figli. Questo spazio riesce a dare un aspetto un po’ più giocoso a un momento sempre difficile”. Roma. A Rebibbia la terza edizione di “Scendiamo in campo per la pace” di Daniela Di Domenico agensir.it, 25 settembre 2024 Si è svolto la mattina del 23 settembre, in un campo da calcio “speciale” - quello del carcere femminile di Rebibbia (Rm) -, il 3° torneo di calcetto intitolato: “A Rebibbia, Scendiamo in campo per la pace”. Promotrice dell’iniziativa è l’associazione Prison Fellowship Italia onlus (dal 2009 impegnata attivamente all’interno del mondo carcerario), in collaborazione con numerose associazioni che, in diverse forme, hanno contribuito alla realizzazione dell’evento. Tra queste: Sport&Smile, Manalive, SS Lazio, la Nazionale italiana sacerdoti, AS tifosi Roma. A scendere in campo, con la maglia di un unico colore, quello della solidarietà, la squadra delle detenute di Atletico Diritti, i ragazzi della nazionale di calcio italiana sacerdoti di Moreno Buccianti, e la squadra degli educatori dell’istituto penitenziario. Con loro, in campo, anche Vincent Candela, ex calciatore della Roma e ambasciatore della neo nata associazione AS Tifosi della Roma; Fabio Petruzzi, ex difensore della Roma e della Nazionale italiana, e Gioia Masia, che in campo ha indossato per anni la maglietta giallo rossa e quella azzurra della nostra Nazionale. Anche quest’anno dunque, per il 3° anno consecutivo, artisti del mondo dello spettacolo, sportivi e rappresentanti di varie associazioni no profit si sono dati appuntamento sul campo da calcio di Rebibbia, perché lo sport parla una sola lingua, non fa differenze di colori, razza o religione. Ospite attesissimo, Giuseppe Fiorello, uno degli attori più amati e apprezzati nel nostro Paese. “Mi è capitato altre volte - ha detto l’attore e regista - di girare un film o ricevere l’invito a visitare istituti di detenzione ed ogni volta mi scatta dentro un sentimento di timore, sento come una lieve paura di disturbare ed invadere le vite fragili delle persone che sono costrette ad abitare quel posto ma, prevale in me sempre il senso della partecipazione che mi incoraggia e mi sostiene ed oggi, a Rebibbia, sono stato accolto con grande affetto e una straordinaria umanità, mi avete fatto sentire totalmente a mio agio e come in famiglia”. Quel febbraio di fuoco del 1974 quando alle Murate esplose la rivolta dei detenuti di Lavinia Elizabeth Landi La Repubblica, 25 settembre 2024 Il 26 settembre all’ex carcere il racconto di Claudio Ascoli e di alcuni testimoni partendo dagli scritti di Guido Calogero. Era il 1976 quando fu pubblicato in Italia il saggio Sorvegliare e punire di Michel Foucault, uscito in Francia un anno prima, in cui il filosofo ripercorreva la storia del sistema della disciplina. Negli anni ‘70, l’idea di punizione determinava lo svolgimento della vita all’interno delle prigioni, e in particolare nei penitenziari italiani si seguiva ancora il regolamento carcerario fascista del 1931, con privazioni e sofferenze fisiche come forma di “rieducazione”. Il 24 febbraio del 1974, anno di rivolte in diversi luoghi di reclusione del paese, anche alle carceri delle Murate di Firenze esplose la protesta: alcuni detenuti salirono sul tetto, in otto vennero feriti dai proiettili sparati a raffica da un agente e uno di loro, il ventenne Giancarlo Del Padrone, rimase ucciso. Nei giorni successivi, il quartiere di Santa Croce si ribellò alla violenza del sistema, e il collettivo Victor Jara di cui facevano parte i fratelli David e Chiara Riondino, fece della manifestazione un brano rivoluzionario dal titolo "Le Murate": “E non si respira più / E non ci si vede più / Ma nella fuga, compagno / Nella paura, compagno / Come nella lotta, compagno / Resterò sempre a fianco a te”. Con queste parole, Claudio Ascoli dei Chille de la Balanza si addentra nel tema intricato della vita in carcere, nella performance che si svolgerà dopodomani. 26 settembre alle 20.30 negli spazi delle Murate, ideata per il progetto della Fondazione Scabia “Sentiero del Teatro. Accanto alla follia” che ripercorre il rapporto tra Giuliano Scabia e Franco Basaglia: “Una storia che non viene raccontata, e la cui memoria non è vissuta appieno dai fiorentini”, spiega Ascoli, per raccontare poi la filosofia “del dialogo” di Guido Calogero, attraverso le sue lettere dal carcere delle Murate in cui venne rinchiuso nel 1942, “perché la pensava diversamente”. La pensava invece in modo simile a Basaglia, che vedeva nella “reciprocità” l’unica via per la convivenza collettiva. “Prima ancora che nella bocca, la democrazia sta nelle orecchie. La vera democrazia non è il paese degli oratori, è il paese degli ascoltatori”, scriveva Calogero nel suo L’Abc della democrazia, ripreso da Ascoli nel suo percorso a ritroso, dagli anni ‘40 con l’arresto del filosofo fino al 1925 con la prima uscita del periodico universitario antifascista “Non mollare”. Per poi arrivare, passando per il ricordo della rivolta del 24 febbraio 1974, fino ai giorni presenti con una domanda aperta: “Come comportarsi oggi con il numero crescente di suicidi nelle carceri?”. Ascoli si muove libero nel racconto, in compagnia delle persone che hanno partecipato alla storia recente di Firenze e delle Murate: Valdo Spini della Fondazione circolo Rosselli, la cantautrice Chiara Riondino, Giuliana Occupati e Valentino Fraticelli del Cantiere della memoria, Corrado Marcetti, ex-direttore della Fondazione Michelucci, Cristina Farnetti che ha curato l’edizione del 1996 delle lettere di Calogero, e il fotografo Massimo Agus che riuscì a fermare in diversi scatti, gli avvenimenti del tempo. La performance, a ingresso libero con prenotazione consigliata telefonando al numero 055-2476873, racconta il pensiero del filosofo e professore che nel 1940 firmò il “Manifesto del liberalsocialismo”, e prima nel 1931 l’adesione al fascismo, soltanto per poter continuare a insegnare agli studenti universitari di Pisa, Firenze e Roma che lo seguivano con sentimento e dedizione, tra cui Norberto Bobbio, Carlo Azeglio Ciampi e Luciano Bianciardi, perché l’insegnamento era per lui e per altri intellettuali amici, come Piero Calamandrei, il loro “posto di combattimento”. Calogero non smise mai di insegnare l’importanza della libertà e la necessità della democrazia, “il sistema di contare le teste invece di romperle”, scriveva nell’incipit del suo Abc, così come Basaglia e Scabia credettero sempre nell’apertura dei manicomi alle città. E delle città nei confronti dei manicomi, nell’idea di reciprocità tra individui all’interno di una comunità. “Come stiamo facendo a San Salvi da quasi trent’anni, grazie allo stesso Giuliano Scabia, così vorremmo che la cultura venisse creata, e non distribuita, in tutta Firenze”, conclude Ascoli, incitando alla memoria di una Firenze antifascista. Il Governo è chiaro: lo Stato di diritto è solo un intralcio di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 25 settembre 2024 L’esame punto per punto del Disegno di legge Sicurezza restituisce una volontà chiara: allontanarsi da ogni idea di solidarietà, garantismo e rispetto dei vincoli. Il Disegno di legge “Sicurezza” è solo l’ultimo atto di un più ampio progetto che punta ad abbandonare i principi del nostro sistema costituzionale per abbracciarne altri che appartengono alla storia della destra attualmente al Governo. Detto in sintesi: allontanarsi da ogni idea di solidarietà, garantismo e tutela dei diritti, per favorire il primato dell’egoismo individuale, del populismo penale e dell’ordine pubblico ideale attorno a cui si struttura la mentalità autoritaria. Così, da un lato, abbiamo la Costituzione, che vieta la violenza, ma legittima il conflitto e la libertà del dissenso, dall’altro, un governo che reprime lo scontro sociale e individua nuove fattispecie di reato. Ciò che non viene più tollerato sono le manifestazioni di critica all’autorità. Passo dopo passo - dal decreto Cutro al ddl sicurezza - si vuole riaffermare il principio della superiorità dello Stato cui i cittadini devono limitarsi a credere e obbedire. È il potere che tutela il popolo. Ad esso spetta garantire i diritti, stabilire chi sono gli “amici”, quali i “nemici”. È il governo a farsi garante della “difesa dei confini” (come se si fosse in guerra), a lui appartiene il potere di escludere “gli altri”. In questo contesto lo stato di diritto e i vincoli internazionali rappresentano perlopiù un intralcio e, dunque, possono essere messi in discussione. Se poi qualche giudice pretende di farli valere si può sempre urlare al complotto. Il potere non può essere portato a processo, esso è legibus solutus. Il principio di autorità prevale su quello di legalità. Basta elencare alcune delle misure contenute nel ddl sicurezza per avere chiara la direzione di marcia. La legalità ordinaria è un ostacolo e il potere dei giudici un intralcio? Si facciano decidere alle autorità di pubblica sicurezza le misure preventive limitative della libertà individuale. Dopo il decreto Caivano, che estendeva ai minori l’applicazione del “Daspo urbano”, ora le misure di allontanamento deciso dai questori possono colpire chiunque sia stato anche solo denunciato per reati contro la persona o il patrimonio senza bisogno di una valutazione in concreto di “pericolosità sociale”. Come si possa conciliare questo con quanto stabilisce la Costituzione agli articoli 13 e 25 è un mistero. Le misure definite per contrastare il diritto di manifestare sono ancor più esemplari, giungendo a punire qualsiasi blocco stradale posto in essere “con il proprio corpo” e prevedendo una specifica aggravante qualora le azioni di protesta siano rivolte ad impedire la realizzazione di una grande opera pubblica (eco-attivisti e No Ponte sono avvisati). C’è da chiedersi cosa rimanga della libertà di riunione e di manifestazione del pensiero. Anche le misure previste in materia di terrorismo appaiono allontanarsi dai principi propri del diritto penale liberale. Non basta più, infatti, la norma che già punisce “comportamenti univocamente finalizzati alla commissione di condotte con finalità di terrorismo” (art. 270 quinquies codice penale), ora si punisce anche chi si procura o detiene materiale potenzialmente idoneo a compiere atti di terrorismo. Un diritto penale di prevenzione di assai dubbia efficacia, ma di sicuro impatto simbolico. Sulle occupazioni abusive si esprime il massimo della forzatura ideologica. Si prescinde infatti del tutto dal considerare le condizioni reali di disagio che possono portare a occupare immobili. Si riduce un dramma - quello della carenza abitativa e dell’ineffettività del diritto alla casa - a una nube di fumo che tutto equipara. Lo dimostra non solo l’assenza di misure di contrasto alla carenza abitativa, ma anche l’estensione delle pene previste (sino a sette anni!) a chiunque cooperi nell’occupazione. Introducendo così il “reato di solidarietà”. Nessuno potrà più sostenere chi è in situazione di disagio estremo: chi vive in alloggi occupati deve essere lasciato al suo destino e guai a chi si vuol far carico dei bisogni primari dei diseredati. Verrebbe da chiedersi se anche il Papa sarà incriminato, visto che ha espresso in più occasioni solidarietà e il suo elemosiniere si è spinto persino a riattaccare la corrente ad un palazzo occupato. La prigione è stata in passato considerata un’istituzione totale, disumana e finalizzata ad umiliare la dignità delle persone recluse. La nostra Costituzione dispone, invece, che chi deve scontare una pena sia trattato con senso di umanità e che il fine della reclusione sia quello della rieducazione del condannato. Le nuove misure introdotte dal ddl sicurezza ci fanno tornare al carcere come luogo di alienazione disumanizzante. Lo dimostrano due misure selvagge. La prima cancella il differimento obbligatorio del carcere per le donne incinte o le madri con figli sino ad un anno. Si esige che il carcere travolga tutto. “L’interesse superiore del minore” che è principio che informa la normativa di tutti i paesi che si ritengono civili cede il passo a una visione che non rispetta nessuno, neppure i diritti di chi non solo non ha colpe ma è pure in culla. Vittime innocenti, “danni collaterali” si dirà, utilizzando l’osceno linguaggio bellico. L’altra misura punisce chiunque all’interno delle strutture carcerarie si oppone a un ordine di un agente di polizia, opponendo una resistenza passiva. Anche in questo caso mettendo sullo stesso piano il comportamento di chi rifiuta di sottostare ad un comando - magari illegittimo - e chi partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia (ipotesi quest’ultime già sanzionate). È stata definita la norma “anti Gandhi”: in effetti oggi c’è da temere che Gandhi sarebbe in carcere a scontare la sua pena. Che poi analogo trattamento sia previsto nei confronti delle persone migranti trattenute nei Cpr o nei Cas non può certo stupire. La paura nei confronti dello straniero - “nemico” in via di principio - non prevede il rispetto dei diritti di persone che non hanno commesso reati, ma sono ugualmente costrette in centri assai spesso peggiori delle carceri. A dimostrazione della “minorità” dei migranti v’è pure l’ultima misura introdotta nel ddl che vieta di vendere le Sim a chi non possiede il permesso di soggiorno. Prima ancora che incostituzionale è una previsione surreale. Chi può pensare possa funzionare? Impedire di comunicare al tempo di internet è come voler tornare nella preistoria. In fondo, forse, è proprio questa la direzione di marcia. Basta legge e ordine, la sinistra lotti per la sicurezza sociale di Tamar Pitch Il Domani, 25 settembre 2024 La questione sicurezza fu introdotta proprio dalla sinistra, per coniugare la prevenzione sociale alla prevenzione dei reati. E impedire alle destre di impugnare l’arma della cosiddetta tolleranza zero. Sappiamo come è andata a finire. Ma la sicurezza “fisica” dipende dalla sicurezza sociale, non viceversa. Secondo Giuseppe Sarcina (Corriere della sera, 21 settembre), la sinistra italiana farebbe bene a imitare Kamala Harris munita di pistola e Keith Starmer, che usa la repressione più dura contro le rivolte: ossia occuparsi una buona volta, oltre che di lavoro, sanità, scuola (tutte buone cose, per carità), di sicurezza, visto il 3 per cento di denunce di reato in più quest’anno rispetto al 2023. Vorrà mica Schlein lasciare alla destra la legge e l’ordine? Ebbene, la questione sicurezza, così come la conosciamo oggi, è stata introdotta nel dibattito pubblico in Italia proprio dalla sinistra. Ahimè. Era l’inizio degli anni Novanta, quando un gruppo di sociologi del diritto, criminologi critici (tra cui la sottoscritta), assessori locali e regionali lancia il progetto “Città sicure”, sponsorizzato dalla regione Emilia-Romagna. Fino ad allora, in Italia, “sicurezza” aveva prevalentemente il significato di “sicurezza sociale” (messa al riparo dalle avversità della vita attraverso misure di welfare). Il progetto “Città sicure”, mutuato da esperienze britanniche anche queste promosse da criminologi e sociologi “di sinistra”, voleva coniugare prevenzione sociale e prevenzione dei reati e delle illegalità attraverso sinergie tra attori sociali e politici locali e le agenzie di sicurezza del territorio, precisamente per, si pensava, diminuire le criticità presenti soprattutto nelle zone cittadine più povere e degradate e impedire alle destre di impugnare l’arma della cosiddetta tolleranza zero, ossia mera repressione, law and order, ecc. Già allora avevo i miei dubbi, in particolare dopo ricerche sulla percezione di insicurezza da parte delle donne (più di metà della popolazione urbana), da cui risultava che quelle che si sentivano più sicure erano quelle che avevano buone risorse culturali, sociali ed economiche: ossia, era evidente che la sicurezza intesa come immunizzazione rispetto alla possibilità di rimanere vittime di criminalità di strada derivava dalla sicurezza sociale, non viceversa. Mi è capitato di dire più volte che siamo stati apprendisti stregoni: il mantra della sicurezza nel primo senso è stato accolto con entusiasmo da amministratori locali e politici nazionali di ogni colore, conducendo i primi a emanare un delirio di ordinanze che vietavano qualsiasi cosa e i secondi a varare “pacchetti sicurezza”, tra cui spicca luminoso (si fa per dire) quello a nome Minniti/Orlando. Certo, molto più facile cercare consensi a costo quasi zero alimentando paura e odio che promuovere assai più costose politiche sociali. Ma l’insicurezza diffusa odierna, dicono le ricerche, ha a che vedere con la precarietà lavorativa, i bassi salari, il venir meno delle protezioni sociali (la sanità e la scuola pubbliche definanziate e in crisi, e così via), ossia proprio con le questioni di cui, secondo Sarcina, la sinistra si occuperebbe trascurando la “sicurezza”, piuttosto che con l’aumento di reati e illegalità. Anche perché questo non succede: l’Italia è uno dei paesi più sicuri del mondo (non sarà un 3 per cento in più di denunce rispetto all’anno scorso - denunce di cosa, tra l’altro? - a smentire questo fatto) rispetto alla criminalità comune e perfino relativamente alla violenza interpersonale. Altro discorso va fatto per la criminalità organizzata, ma non è mai stata questa l’oggetto di campagne legge e ordine, né è questa a impensierire i e le brave cittadine. Kamala Harris va in giro con la pistola? Beh, gli Stati Uniti sono uno dei paesi più violenti del mondo cosiddetto occidentale anche per via della diffusione delle armi da fuoco, e direi che non è proprio un buon esempio. Oggi la destra al governo vara un ennesimo disegno di legge sulla sicurezza, introducendo ben venti nuovi reati, tra cui la resistenza passiva ecc. Si può almeno sperare che l’aumento degli arresti di bravi cittadini induca questi ultimi a rendersi conto che le nostre carceri, oggi come e più di sempre, sono piene di persone povere, emarginate, razzializzate, i cui reati, spesso, non dovrebbero essere tali, per esempio l’uso e l’abuso di sostanze che, semmai, danneggiano soltanto loro stessi, o, peggio, non essere in possesso di titoli validi per il soggiorno in Italia: ma che reato è? Dunque, mobilitiamoci tutti e tutte contro questo disegno di legge e supportiamo la sinistra non quando cerca di imitare la destra, ma quando si batte per politiche in grado di produrre maggiore sicurezza sociale. Ddl sicurezza, la piazza del no: “Difendiamo chi protesta” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 25 settembre 2024 Oggi la manifestazione a Roma. Eventi territoriali davanti alle prefetture in tutt’Italia. Aderiscono anche il Forum Disuguaglianze e diversità e Legambiente. Il Ddl 1660 sulla sicurezza approvato la scorsa settimana in prima lettura dall’aula della camera è stato assegnato ieri alle commissioni affari costituzionali e giustizia di Palazzo Madama. Da qui comincerà il suo iter. Chi si oppone al provvedimento oggi si ritrova in piazza a Roma, vicino al senato, e in diverse manifestazioni di fronte alle prefetture in diverse città d’Italia. L’ideologia proprietaria delle destre è espressa senza remore dalla parlamentare europea della Lega Susanna Ceccardi, secondo la quale il Ddl si erge, appunto, a difesa della tutela assoluta della proprietà privata. Dunque, recita il sillogismo di Ceccardi, chiunque vi si opponga lo fa in quanto “comunista”. Ma attorno alla mobilitazione va radunandosi un popolo plurale e variegato. La piazza romana di oggi è stata convocata da Cgil e Uil (la Cisl manifesterà per i fatti suoi, il prossimo 2 ottobre). Vi prenderanno parte anche i segretari generali Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri. “Riteniamo doveroso contrastare una norma che ha il chiaro intento di azzerare la libertà e il diritto delle persone a manifestare il proprio dissenso, che introduce nuovi reati penali, e quindi il carcere, nei confronti di chi occupa strade, spazi pubblici e privati - dicono dalle confederazioni - Il Ddl limita l’iniziativa e le mobilitazioni sindacali per difendere i posti di lavoro e contrastare le crisi aziendali e occupazionali. Chiude in carcere le donne in gravidanza o con figli entro un anno di età, introduce il reato della resistenza passiva rendendo impossibile ogni forma di dissenso pacifica, magari dovuta alle condizioni disumane di molte carceri. E introduce nuovamente interventi ad impronta securitaria e di criminalizzazione quando si parla di migranti. Tutto questo mentre il governo decide di abolire i crimini contro la pubblica amministrazione, spesso reati spia di infiltrazioni mafiose”. Dopo PD, M5S, AVS, Rifondazione, +Europa, e quelle di Anpi, Arci ieri è arrivata anche l’adesione del Forum Disuguaglianze e diversità, che in tempi non sospetti aveva chiamato a raccolta le forze politiche d’opposizione e quelle sociali per lanciare l’allarme sul rischio di una svolta autoritaria nel paese. Il Ddl, sostengono dal Forum, ha “l’evidente esito di spaventare e scoraggiare ogni forma di dissenso e che si innesta a pieno in quell’intreccio pericoloso tra neoliberismo e deriva autoritaria che molti governi europei, e quello italiano in modo evidente, stanno percorrendo per governare gli esiti e le contraddizioni aperte da disuguaglianze sempre più insostenibili”. Ci sarà anche Legambiente. Il presidente Stefano Ciafani sottolinea come si voglia “criminalizzare e punire il diritto delle persone a manifestare il proprio dissenso, come per esempio chi scende in piazza contro la costruzione di opere considerate strategiche dal governo, anche se inutili e dannose, come il Ponte sullo Stretto o i nuovi gasdotti o rigassificatori che faranno diventare l’Italia l’hub europeo del gas fossile”. Genova ha dato il via alle manifestazioni delocalizzate davanti alle prefetture. A Firenze ci saranno anche numerose associazioni, im via Cavour dalle 17.30. A Napoli il presidio si terrà a partire dalle 17.30 in largo Berlinguer. Presidi davanti ai palazzi delle prefetture anche ad Avellino (alle 16.30), Benevento (17) Caserta e Salerno a partire dalle 17.30. A Bologna appuntamento alle 16.30 in piazza Roosevelt, accanto a questura e prefettura contro “il chiaro intento di azzerare il diritto delle persone a manifestare il proprio dissenso, in esplicito contrasto con le libertà sancite dalla carta costituzionale e un Ddl pericoloso per la democrazia”. Eventi analoghi si terranno a Reggio Emilia e a Modena. Striscioni e manifesti in tutt’Italia, spesso promossi dalla rete Liberi di lottare, protestano contro il Ddl 1660 e rilanciano la manifestazione nazionale contro la guerra in Palestina del 5 ottobre a Roma. Corteo che rischia di essere vietato dalle disposizioni del Viminale. Per molti, anche quella sarà occasione di rivendicare la libertà di dissenso. Divieto di manifestare? Presidio al Senato di Denise Amerini Il Manifesto, 25 settembre 2024 La Camera ha approvato il Disegno di legge 1660 sulla sicurezza. Senza nessuna modifica, nonostante molte voci di giuristi, esperti, garanti, associazioni ed organizzazioni della società civile, del mondo laico e cattolico, si siano espresse negativamente, motivando con serie ed approfondite argomentazioni la richiesta di ritiro di un testo impossibile da emendare, per i contenuti, e soprattutto per la idea di giustizia che lo informa. Provvedimenti che sfruttano le insicurezze delle persone, alimentandone le paure per ottenere consenso e legittimazione politica. Che limitano le libertà e le garanzie democratiche, con una evidente torsione autoritaria che ci riporta al “sorvegliare e punire”, alimentando al tempo stesso la convinzione che il carcere sia un deterrente, che pene severe prevengano la commissione di reati. Un chiaro esempio è che fra i reati venga inserita la resistenza passiva in carcere: le contestazioni dei detenuti potranno essere punite con pene fino ad 8 anni. Anche il banale rifiuto di rientrare in cella, la protesta pacifica e nonviolenta per le condizioni di vita disumane e degradanti prevede sanzioni detentive pesanti. Una rivendicazione di diritti si trasforma in reato. E questo trattamento riguarda anche le persone che si trovano nei centri di accoglienza per migranti e nei CPR, che non sono luoghi di detenzione penale, ma come tali vengono intesi dal Governo, giungendo al ridicolo con il divieto di possesso di una scheda telefonica. Nella stessa logica si inserisce l’articolo che prevede l’aggravamento delle pene per chi, in occasione di scioperi o manifestazioni, impedisce la circolazione ordinaria. Gravissima, poi, l’autorizzazione alla detenzione di una seconda arma senza licenza per gli operatori di polizia. Contemporaneamente si aboliscono alcuni reati contro la Pubblica Amministrazione. La Cgil, nell’audizione in Commissione affari costituzionali del 16 maggio, aveva già espresso netta contrarietà al provvedimento. Il disegno di legge si inserisce nel percorso di attacco alla Costituzione che il Governo Meloni sta portando avanti fin dal suo insediamento, con i progetti di autonomia differenziata e di premierato, e che persegue senza tener minimo conto di nessuna delle critiche e dei rilievi portati, fuori e dentro il Parlamento. Vista l’assoluta mancanza di risposte, è stata proclamata da Cgil e Uil una prima giornata di mobilitazione, per il 25 settembre, a Roma, davanti al Senato. Alla mobilitazione hanno già aderito molte organizzazioni si occupano dei temi della giustizia, del carcere, dei diritti civili, come Forum Droghe, Società della Ragione, Antigone e CNCA. Sarà presente uno striscione della campagna “Madri fuori dal carcere, con i loro bambini”, impegnata per i diritti delle madri in carcere e dei loro bambini. L’idea di mettere in carcere le donne incinte e con figli di età inferiore ad un anno, peggiorando il codice Rocco, è paradigmatica di come questo governo intende i diritti delle donne e la genitorialità, tanto sbandierata quando fa comodo per propagandare un’idea di famiglia fuori dal tempo. È la dimostrazione plastica di una idea di giustizia esclusivamente punitiva, classista, ed anche razzista, viste le dichiarazioni riguardo le borseggiatrici Rom di esponenti del governo. Garantire la sicurezza e la sua percezione da parte di cittadine e cittadini significa agire con politiche sociali, abitative, educative che guardino all’inclusione ed al superamento delle difficoltà, non solo economiche, che molte persone vivono. Significa pensare a città accoglienti, dove i bisogni di tutte e tutti, soprattutto delle persone più fragili, siano compresi ed accolti. Il 25 settembre sarà soltanto la prima delle manifestazioni che dovranno vederci tutte e tutti impegnate/i perché il disegno di legge non passi: non è con politiche giustizialiste, panpenaliste, securitarie, che si risponde ai bisogni di giustizia sociale delle persone. “Le norme sulla sicurezza figlie di uno Stato punitore, così il Governo alimenta l’odio sociale” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 25 settembre 2024 Parla Paolo Ciani, Segretario nazionale di Democrazia Solidale, Vicepresidente del gruppo Pd-Idp alla Camera dei deputati: “Le norme del ddl sicurezza, come altre precedenti, stravolgono ruolo e visione delle forze dell’ordine. Governo e maggioranza stanno mettendo in atto una pericolosa escalation”. La resistenza passiva non violenta in carcere è da oggi, con il Ddl Sicurezza, equiparata alle azioni violente. Che significa sia nel concreto che come messaggio generale? Aver voluto equiparare la resistenza passiva con le azioni violente è qualcosa di assurdo giuridicamente e umanamente. Innanzitutto crea nuova separazione e discriminazione tra le persone libere e quelle detenute: se tu sei libero puoi protestare pacificamente con resistenza passiva - almeno per ora - ma, se lo fai in carcere, sarai punito con altro carcere! La cosa è particolarmente grave peraltro in un momento come questo in cui le carceri vivono una fase particolarmente delicata. Punire la semplice disobbedienza ad ordini impartiti significa, tanto per fare un esempio, punire qualcuno che rifiuta il cibo facendo uno sciopero della fame, incriminare la protesta pacifica di detenuti che si rifiutano di pulire la cella, riordinare le camere, adempiere agli obblighi lavorativi o anche solo fare la doccia, per protestare magari contro il sovraffollamento. Oggi, queste sono tutte condotte che possono tutt’al più configurare un illecito disciplinare e che, con questa legge, costituirebbero, invece, un reato. Teniamo conto che talvolta i detenuti compiono atti di autolesionismo per attrarre l’attenzione. Se qualcuno sceglie una protesta pacifica, come equipararlo a chi compie atti violenti, picchia, brucia, distrugge? Quando c’è una condotta violenta, per un detenuto dissociarsi da questa, magari portata avanti da alcuni compagni di cella o da persone che conosce, è già una scelta importante. Chiunque abbia una minima conoscenza del carcere e della sua vita interna, o di un CPR, comprende bene che ciò significherebbe gettare benzina sul fuoco. E conosciamo la situazione oggi delle carceri: non c’è bisogno certo di gettare benzina sul fuoco. Con quali ricadute fattuali? Equiparare la scelta di dissociarsi da una condotta violenta, magari con una resistenza passiva non violenta è qualcosa di molto grave, è qualcosa che fa aumentare la violenza, e di certo, le nostre carceri non ne hanno bisogno. Nella criminalizzazione della disobbedienza pacifica a carico esclusivamente di una categoria di persone, i detenuti, che, proprio in quanto già privati della libertà personale, non hanno altro modo di protestare, c’è un quid di ostilità difensivo-repressiva, che fa davvero paura. Vede, quando ero giovane, quando ero ragazzo, c’era un film romano un po’ trash, in cui uno dei protagonisti diceva: “se parlo, mi meni; se sto zitto, mi meni; allora dimmi che mi vuoi menare!” Ecco, mi sembra che in questo provvedimento ci sia la stessa subcultura di questo film trash: concepire la prigione come vendetta e unica sanzione, avendo come orizzonte un’idea ossessiva, ossia più reati, pene più alte, circostanze aggravanti sempre più severe.. Peccato che questa non sia la nostra cultura giuridica, non quella prevista dalla nostra Costituzione, non quella che vorremmo per la nostra Repubblica democratica. Qual è oggi la situazione carceraria in Italia? La situazione purtroppo è drammatica e il numero di suicidi di detenuti e poliziotti penitenziari lo sta a dimostrare tragicamente. Ai numeri che già conosciamo vanno aggiunti quelli dei “decessi per cause da accertare”: almeno altre 15 persone morte dall’inizio dell’anno. C’è una realtà assurda di sovraffollamento, di gravi carenze strutturali, di forte carenza di personale. I dati presentati ad agosto dal Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, presentano una analisi comparativa relativa agli eventi critici di maggiore rilievo, in cui appare evidente che all’aumentare del sovraffollamento si possa associare un incremento degli stessi, in particolare di quegli eventi critici che, più di altri, sono espressione del disagio detentivo, quali atti di aggressione, autolesionismo, suicidi, tentativi di suicidio, omicidio, aggressioni fisiche al personale di Polizia Penitenziaria e al personale amministrativo. D’altro canto, appare evidente come la carenza di personale ricada in maniera fortemente negativa nella quotidianità: si esce meno dalle celle, si fanno meno attività, si incontrano meno persone “altre”. Cos’altro? C’è un problema di salute e di diritto alle cure, con un tema specifico importante che riguarda la salute mentale: continuano a nascere e diffondersi “repartini” speciali in cui sono rinchiuse persone con problemi e patologie differenti. Così come non si è ancora fatta una valutazione della realtà delle Rems - da tanti ancora considerate “quelle che hanno sostituito gli Opg” - del rapporto difficile che hanno con il territorio dove con grande difficoltà riescono a inserire le persone… È un problema politico o c’è anche altro? In questo c’è anche un gap culturale e anche “comunicativo” da scardinare: pensare che il carcere sia un mondo a sé, non tenere conto che il carcere è un microcosmo, abitato da cittadini che hanno compiuto dei reati o accusati di averlo fatto, ma che rimangono persone e cittadini. Con loro tutti gli altri, dalla polizia penitenziaria a chi lavora nell’amministrazione penitenziaria, ai servizi sociali, gli infermieri, i medici, i volontari. È sciocco pensare al carcere come a qualcosa di estraneo al resto della vita comune. Come è sciocco pensare che il malessere di uno non ricada sugli altri. Per questo quando sento i politici della destra farsi paladini della Polizia Penitenziaria e poi lasciare il carcere in queste condizioni, penso che sia una tragica presa in giro… Ho già ricordato in aula come tra gli agenti che operano in carcere ci sia un tasso di suicidi doppio rispetto a quello delle persone comuni: un evidente segnale di come il carcere sia un mondo veramente alla deriva, un pezzo di Stato alla deriva, in cui soffrono tutti. E dinanzi a tutto questo la destra al governo continua a creare nuovi reati, ad aumentare le pene, a mettere sempre più persone “dentro”… c’è poi un punto specifico che riguarda i CPR per i migranti. Vale a dire? Sembra che ogni provvedimento sia buono per mettere qualcosa di negativo sui CPR. Non è bastato allungare a 18 mesi la detenzione massima, non è bastato mandare i minori in luoghi per adulti, non è bastato inventarsi il CPR extraterritoriale in Albania. Oggi, si inserisce nei CPR anche quella norma obbrobriosa della resistenza passiva non violenta, equiparata alle azioni violente, e si introduce anche la semplificazione delle procedure per la loro realizzazione, localizzazione e ampliamento, in deroga ad ogni disposizione di legge, salvo quelle antimafia (e menomale, almeno quelle). Noi non capiamo perché ci sia questa ossessione su questi luoghi, che nascono come trattenimento amministrativo e non come centri di detenzione. E, invece, sono stati trasformati in luoghi disumani: tante ispezioni hanno dimostrato l’inadeguatezza e la mancanza di requisiti minimi e la violazione dei diritti umani che avviene in quei luoghi. Un esempio drammatico, su cui sarà necessario indagare è cosa sia accaduto nel CPR di Potenza, a Palazzo San Gervasio, dove il 4 agosto, un ragazzo di 22 anni, Oussama Darkaoui, è morto. Ancora non sappiamo per quale motivo e in quali circostanze. Ma troppe cose non tornano. Questi luoghi vanno chiusi, non vanno moltiplicati in deroga alle leggi. La sinistra è consapevole della gravità della situazione? Credo che questo governo e questa maggioranza stiano operando una pericolosa escalation su questi temi. Mi sembra che stia crescendo una maggiore consapevolezza della gravità della situazione che stiamo vivendo. La propaganda di destra prova a rispondere alle difficoltà quotidiane delle persone moltiplicando reati, carcere, e provando così a dire “ci stiamo occupando di voi”. Ma in un tempo di guerra, terrorismo, violenza diffusa, si può fare un “decreto sicurezza” con questi contenuti? Penalizzare chi blocca una via per manifestare è chiaramente un atto contro studenti e lavoratori (e uno strumento per minacciarli e bloccarne la legittima protesta); mettere in carcere donne incinte e bambini, norma superata perfino dal codice Rocco del 1930, è una esplicita vendetta, teorizzando “che donne e bambini sfruttati, forse è meglio che stiano in carcere”; queste ed altre norme contenute in questa e precedenti leggi, aumentano una proposta di Stato punitore, stravolgendo ruolo e visione delle forze dell’ordine e aumentando odio sociale soprattutto nei confronti di chi pretenderebbe di esercitare la libertà di protestare e dissentire. È evidentemente qualcosa di molto grave e pericoloso per chi crede alla nostra civiltà giuridica e alla nostra libertà sancita dalla Costituzione. Al riguardo mi permetta una nota di preoccupazione: la tragica afonia (in alcuni casi la clamorosa assenza) di alcuni colleghi che in altri momenti si prodigano in lezioni di diritto e garantismo… inizio a temere che per loro sia un po’ a senso unico, cioè solo per i ricchi o i loro amici: della serie “la legge non è uguale per tutti”. In Parlamento abbiamo fatto una buona opposizione, spiegando bene l’obbrobrio giuridico contenuto in queste norme, ma la maggioranza non ha minimamente aperto a nessuna interlocuzione. Ora dobbiamo spiegarlo ai nostri concittadini, spiegando che alcune norme colpiranno anche loro o i loro figli e che comunque l’abbassamento dei diritti di alcuni non è qualcosa di cui gioire o disinteressarsi: oggi sono colpiti alcuni, domani potrebbe toccare a te. Mezzo milione di firme per la cittadinanza più facile agli stranieri di Giacomo Puletti Il Dubbio, 25 settembre 2024 Mezzo milione di firme. Sono quelle raccolte, almeno per ora, dal quesito referendario presentato da PiùEuropa che punta a dimezzare da 10 a 5 gli anni di permanenza nel nostro Paese per poter ottenere la cittadinanza italiana. L’obiettivo è stato raggiunto ieri a metà pomeriggio, dopo che in pochi giorni centinaia di migliaia di persone avevano preso d’assalto il sito preposto dal ministero della Giustizia, mandandolo in tilt un paio di volte. “Ce l’abbiamo fatta - ha commentato a caldo il segretario di PiùEuropa, Riccardo Magi - In pochissimi giorni 500.000 cittadine e cittadini hanno dimostrato che, quando il Parlamento non trova il coraggio di cambiare leggi ingiuste, possono mobilitarsi e farlo loro stessi, grazie alla Costituzione”. Parlando di “ritmo senza precedenti nella storia” Più Europa spiega che “chi sceglie l’Italia per vivere, studiare, amare e crescere, chi immagina il proprio futuro nel nostro Paese, è italiano” annunciando che questo “è solo il primo passo verso una legge più giusta che riconosca come italiani ogni sua figlia, ogni suo figlio”. L’invito è poi di continuare a firmare “su un tema”, ha aggiunto Magi, “che questo governo, e molti altri prima di questo, hanno utilizzato in maniera ideologica, avvelenando il dibattito pubblico”. L’auspicio di ulteriori firme è condiviso con la segretaria del Pd, Elly Schlein. “Ora non fermiamoci - ha scritto sui social la leader dem continuiamo a firmare per aumentare il sostegno al referendum e anche per la legge di iniziativa popolare per il salario minimo”. E se per il segretario di sinistra italiana Nicola Fratoianni “ancora una volta l’Italia dimostra di essere molto più avanti di chi la governa” e “adesso bisogna continuare a firmare, anche solo per vedere la destra sempre più in crisi di nervi”, a proposito di destra è il capogruppo di Forza Italia in Senato, Maurizio Gasparri, a calmare gli animi. “Con queste procedure online è facile, basta un clic - ha detto al termine della conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama a chi gli chiedeva un commento sul raggiungimento delle 500mila firme” ammettendo poi di non aver votato perché contrario alla cittadinanza dopo 5 anni. “Noi abbiamo fatto un’altra proposta - ha aggiunto - Faremo una riunione entro il mese tra di noi, i contenuti sono quelli di cui parliamo da tempo, li trasformeremo in una bozza di legge”. Sulle proposte che verranno analizzate nelle prossime settimane è intervenuto anche il capogruppo azzurro alla Camera, Paolo Barelli. “Questa settimana (domani, ndr) abbiamo un incontro con i parlamentari di Camera e Senato sulla bozza di testo redatta dai nostri uffici, poi ne parleremo con la maggioranza e la presenteremo- ha spiegato Barelli - Nel dibattito in commissione ci sarà la possibilità di approfondire ulteriori temi e recepire altri suggerimenti”. Il punto di caduta, secondo Forza Italia, dev’essere quello dello Ius scholae. “Riteniamo che sia un punto importante quello della cittadinanza ottenuta per meriti scolastici, ma anche l’ottenimento della cittadinanza in alcuni casi troppo facile - ha concluso - Il tema è più ampio e non si presta a strumentalità”. Secondo la Fondazione Moressa, che ha elaborato i dati dell’Istat e del ministero dell’Istruzione, l’eventuale Ius scholae, cioè la concessione della cittadinanza ai minorenni non italiani che completano la scuola dell’obbligo in Italia, riguarderebbe 135mila persone ad oggi più 7mila persone ogni anno, mentre lo Ius soli, cioè la cittadinanza a chiunque nasca in Italia da genitori non italiani ma residenti da più di 5 anni comprenderebbe una platea di 816mila persone ad oggi più 35mila ogni anno. La proposta di Più Europa per la quale sono state raccolte le 500mila firme riguarda invece 2 milioni e 240mila potenziali destinatari. I prossimi step riguardano la Corte di Cassazione, che entro dicembre deve dare un responso sulla validità delle firme, e la Corte costituzionale, che in caso di via libera dalla Cassazione deve giudicare l’ammissibilità o meno del referendum entro febbraio del prossimo anno. Infine, toccherà al presidente della Repubblica indire il referendum in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno prossimi. Il tutto a meno che nel frattempo il Parlamento non approvi una legge che ricalchi le richieste del referendum. Decreti flussi e appalti mascherati è il Veneto dei nuovi caporali di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 25 settembre 2024 I braccianti pagano 10-20mila euro per ricevere il nullaosta lavorativo. In Italia lavorano in condizioni disumane. Oltre 15 gli esposti della Flai-Cgil da luglio a oggi. Lavoratori ricattati e minacciati anche con l’utilizzo di armi. Il sindacato di strada per mappare e contrastare il fenomeno. Brama accosta il suo monopattino vicino al furgone. Allunga le mani per prendere un gilet catarifrangente di colore rosso con il logo della Cgil disegnato sul retro, un cappello, un brick d’acqua e un opuscolo in lingua inglese dove sono elencati i suoi diritti di lavoratore agricolo. Su queste pagine sono segnati i numeri di telefono e l’indirizzo della sede della Flai-Cgil di Verona. Numeri da contattare per trovare una via di uscita dalle tenaglie dello sfruttamento. Prima di andare via si intrattiene per pochi secondi: il suo turno nei campi sta per iniziare e non può ritardare. Racconta che ha vent’anni ed è originario del Gambia, da otto mesi si trova in Italia. “Dal Gambia al Senegal e poi a Milano”, dice in un inglese mimando il gesto di un aereo. Ha seguito la strada tracciata dal decreto flussi. Il sistema di nulla osta lavorativo con cui il governo Meloni ha previsto l’ingresso nel paese di centinaia di migliaia di lavoratori. Un sistema, però, finito sotto la lente delle procure antimafia per via delle infiltrazioni sulla criminalità organizzata tanto da far preoccupare anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi, Alfredo Mantovano. A Zevio, in provincia di Verona, Brama raccoglie lamponi e fragole. Oltre a Brama in pochi minuti passano davanti al furgoncino della Cgil una decina di ragazzi della stessa nazionalità, sono diretti verso lo stesso campo agricolo, a bordo di bici e monopattini. In pochi secondi spariscono tutti prima che qualcuno li veda parlare con i ragazzi e le ragazze della Brigata del lavoro del sindacato. La squadra anti caporali è soddisfatta: “È stata una mattinata proficua dopo giorni di pioggia”. In meno di mezz’ora hanno intercettato circa venti braccianti in un’area geografica, quella del veronese, che quest’estate è stata al centro di diverse inchieste contro il caporalato. Lo scorso 13 luglio sono stati arrestati due caporali indiani per aver ridotto in schiavitù 33 loro connazionali. Nel trevigiano, un’altra operazione ha identificato altri 13 braccianti nelle stesse condizioni. La situazione è drammatica. Da luglio la Flai Cgil ha presentato oltre 15 denunce, sintomo di un’area diventata epicentro di un sistema di lavoro basato sullo sfruttamento, sull’intermediazione illecita e sulla riduzione in schiavitù dei braccianti. Per questo motivo, le Brigate del lavoro della Flai-Cgil hanno lanciato una cinque giorni di sindacato di strada. È la prima volta che accade tra questi campi e la loro presenza non è passata inosservata ai produttori. Il mercato ortofrutticolo di Verona è tra i più importanti d’Italia, ma da tempo nel territorio è stata riscontrata la presenza di cosche di ‘ndrangheta legate alla piana di Gioia Turo e alla Locride, che gestiscono affari milionari soprattutto nel settore della logistica. Business assai remunerativo è anche quello dei caporali, sulla pelle dei braccianti. Secondo alcuni studi di categoria, in tutto il Veneto il valore assoluto del lavoro irregolare ammonta a 4.6 miliardi di euro. E l’epicentro di queste irregolarità è nel veronese, un territorio strategico. Da qui in poco tempo ci si sposta a sud verso gli allevamenti suini nel Modenese, a nord nei vigneti del Trentino, a ovest nel mantovano e a est si va verso i campi agricoli di Padova, Vicenza e Ferrara. Negli anni il caporalato è mutato, per sfuggire all’azione repressiva introdotta dalla legge 199 del 2016 che punisce anche l’imprenditore che si avvale della manodopera sfruttata. Per aggirare la norma è emerso un nuovo sistema caratterizzato da una sorta di “appalto mascherato”. “L’imprenditore affitta i suoi campi alla cooperativa e agli intermediari. Dopo la stagione, il raccolto viene venduto tramite un giro di fatture false e un prezzo concordato in precedenza allo stesso imprenditore che aveva messo i campi in affitto”, spiega Giosuè Mattei, segretario generale della Flai-Cgil Veneto. Così facendo, il titolare dei terreni è esonerato dai reati commessi da chi gestisce il campo. Un sistema che complica le indagini degli inquirenti. I braccianti arrivano in Italia attraverso canali irregolari e regolari e il sistema del decreto flussi è la trappola perfetta che arricchisce i caporali e intrappola i lavoratori. Con i nulla osta lavorativi nel 2023 sono entrate in Italia circa 136mila persone, 151mila in questo 2024. Ma il sistema si aggira con facilità. Dalle indagini emerge che il caporale chiede alle aziende di fare richiesta per ottenere i dipendenti, in cambio di 2-3mila euro a lavoratore. “In questo caso l’imprenditore agricolo si intasca i soldi e fa la richiesta di manodopera ma poi non se ne cura. Una volta in Italia, i migranti non trovano nessuno ad accoglierli e in otto giorni - tempo in cui va formalizzato il contratto di lavoro - diventano fantasmi”, spiega Mattei. Nel veronese le vittime di questo sistema sono soprattutto indiane. Il meccanismo funziona così: ci sono due intermediari, uno in India e uno in Italia che per fare richiesta di nulla osta chiedono in cambio migliaia di euro (dai 10 ai 20mila euro per persona). Una volta in Italia il contratto di lavoro non viene formalizzato nelle prefetture e i lavoratori vengono mandati in altri campi, entrando nel giro dello sfruttamento. Vista la loro irregolarità, i caporali chiedono 5mila euro a bracciante con la promessa di un permesso di soggiorno che non otterranno mai. “C’è chi si è affidato agli strozzini, chi ha chiesto un prestito alla banca in India per saldare il debito”, spiega Mattei. “I caporali proliferano grazie alla Bossi-Fini. Si fanno pagare dando ai lavoratori 5 euro l’ora o facendoli lavorare gratis”. Uscire dal giro è difficile. Chi denuncia subisce violenze e intimidazioni: alcuni di loro hanno raccontato di essere stati minacciati armi in pugno. “Su 100 braccianti indiani che abbiamo salvato, circa 80-90 provengono da Caserta e Napoli. Cosa succede in quelle prefetture? La stessa cosa è riscontrata dai colleghi che lavorano a Latina. Stiamo osservando una triangolazione tra Campania, Lazio e Veneto. I braccianti sono tutti passati dall’Agro pontino”, dice Mattei. È ancora buio quando le brigate della Cgil lasciano il parcheggio dell’hotel e si dirigono a gruppi verso i campi di lavoro, nella speranza di incontrare i braccianti all’inizio del turno. Per cinque giorni le brigate hanno attraversato i distretti di Bardolino, Lugana, Soave e Valpolicella. Un territorio dove cresce uva pregiata, che da vita al rinomato vino della Valpolicella, incluso l’Amarone. Qui raccolgono anche meloni, zucchine, radicchio e pomodori. Nelle brigate ci sono anche due sindacaliste che conoscono otto lingue, figure indispensabili visto che la maggior parte dei braccianti non parla l’italiano. Al termine di ogni uscita la brigata compila un diario di bordo, in cui registra il numero dei lavoratori incontrati, la loro nazionalità e le criticità rilevate. Una mappatura utile per analizzare il fenomeno. Un lavoro prezioso che ha portato a una serie di esposti dai quali sono partite indagini come quella avvenuta a luglio nel trevigiano. “In quel gruppo abbiamo trovato anche persone laureate in biologia e scienze politiche ridotte in schiavitù”, racconta Mattei. Vivevano in un casolare diventato una discarica di Monster, la bevanda energetica fornita dai caporali per mascherare le fatiche del lavoro dei braccianti. “C’è una malattia innestata all’interno del Dna del settore agricolo che lo ha modificato e ha normalizzato la condizione di schiavitù”, conclude il sindcalista. Un sistema che causa morte, come accaduto a Latina a Satnam Singh lasciato a dissanguarsi dopo che un macchinario gli ha tranciato un braccio.