Piano per l’edilizia penitenziaria: 250 milioni contro sovraffollamento, suicidi e violenze di Gianluca Cicinelli Quotidiano del Sud, 24 settembre 2024 Preoccupano i numeri dei suicidi e delle violenze nelle carceri, principale causa il sovraffollamento; predisposti i fondi per l’edilizia ma accesso negato alle misure alternative. I numeri hanno bisogno di pochi commenti: oltre 70 suicidi in cella dei detenuti e 6 suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria nel 2024. Tra coloro che si sono tolti la vita, 35 lo hanno fatto nei primi sei mesi di detenzione e 24 erano in attesa di primo giudizio. Principale, ma non unico, accusato è il sistema edilizio carcerario, con un sovraffollamento del 131,77%. La prigione è segnata da condizioni disumane e il sovraffollamento non è un dato statistico, ma una realtà che compromette la dignità dei detenuti e la sicurezza di chi lavora nelle carceri. Al 30 giugno 2024, secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, risultavano 10 mila detenuti oltre la capacità massima consentita. Tutte le regioni italiane sono colpite dal sovraffollamento, tranne la val d’Aosta. Tra le regioni con almeno sette istituti penitenziari, gli standard di capienza sono rispettati in Toscana, Marche, Calabria e Sardegna. La Lombardia guida invece la classifica delle regioni con le maggiori criticità, con 2715 detenuti in eccesso, seguita dal Lazio con 1200. Veneto, Emilia-Romagna, Campania, Puglia, Lazio e Lombardia hanno un sovraffollamento delle carceri che supera i 700 detenuti. I dieci penitenziari più sovraffollati arrivano a ospitare quasi il doppio dei detenuti rispetto alla capienza prevista, come nel carcere di Brescia. Celle sovraffollate, mancanza di igiene, attività educative minime e pasti con cibo insufficiente e pessimo. Per quanto riguarda gli agenti vanno aggiunti i turni massacranti e la costante esposizione alla violenza. Come linea di tendenza al Nord troviamo sovraffollamento, con meno detenuti stranieri rispetto al Sud, ma il tasso di recidiva e la gestione dei tossicodipendenti rimangono problemi seri. Al Centro il sovraffollamento è meno grave ma aumentano le carenze strutturali. Al Sud la gestione carceraria è più problematica per la presenza della criminalità organizzata, che rende difficile mantenere l’ordine all’interno delle carceri. Le Rems - A questi dati, relativi alle strutture ordinarie, dobbiamo aggiungere quelli delle Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), che sono state istituite nel 2015 per sostituire gli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari), che ospitano detenuti affetti da gravi patologie psichiatriche che non possono essere trattenuti in carcere. Anche in questo caso troviamo una carenza di posti strutturale. In Italia ci sono solo 30 Rems, che nel 2023, con 632 posti occupati, avevano una lista di attesa di 675 detenuti. Nel 2022 la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per la scarsa disponibilità di posti nelle Rems. Due anni dopo nulla è cambiato. Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, il 9,2% dei 65 mila detenuti in Italia soffre di disturbi psichici molto gravi e, tra loro, il 12,4% delle donne che vivono dietro le sbarre. L’edilizia carceraria, i fondi - Il governo Meloni ha stanziato 166 milioni di euro per la ristrutturazione delle carceri, con l’obiettivo di migliorare le condizioni delle strutture esistenti e adeguarle alle normative internazionali. Altri 250 milioni di euro sono invece destinati a un piano di edilizia carceraria più ampio, che include sia nuove costruzioni sia la creazione di nuovi posti per ridurre il sovraffollamento. Con questi fondi si punta a creare 7.000 nuovi posti detentivi. 36 milioni di euro sono stati invece stanziati per interventi nell’edilizia penitenziaria, tra cui la ristrutturazione di caserme per gli agenti, e l’efficientamento energetico delle strutture, oltre alla costruzione di due nuove scuole di formazione per la Polizia Penitenziaria. Entro il 2025, sono previste nuove strutture a Viterbo, Civitavecchia e Nola. A San Vito del Tagliamento, in provincia di Pordenone, è prevista la costruzione di un nuovo carcere con un investimento di 19 milioni di euro. Questo istituto contribuirà ad alleviare la pressione carceraria nella zona nord-est del Paese, fornendo circa 300 nuovi posti. A Forlì è stato approvato il progetto per un nuovo carcere da 255 posti, con un investimento di 28 milioni di euro. Nel Lazio, nelle strutture già esistenti di Civitavecchia e Viterbo, verranno costruiti due nuovi padiglioni, ognuno con una capacità di 80 posti, per un totale di 160 nuovi posti. Il costo complessivo dell’operazione è di 5 milioni di euro. A Tolmezzo, provincia di Udine, saranno recuperati 30 posti detentivi attualmente inagibili, grazie a un finanziamento di 1,3 milioni di euro. Un nuovo carcere è previsto a Nola, nel napoletano, anche se il progetto e i fondi, 75 milioni di euro, per l’istituto di Boscofangone sono del 2017. Si tratterebbe, il condizionale è d’obbligo, visti i ritardi accumulati, del primo istituto penitenziario italiano basato sul modello scandinavo, privo di sbarre e mura perimetrali, con celle singole e strutture dedicate alla riabilitazione. La capienza prevista è di 1.200 detenuti, con la possibilità di espandersi fino a 2.400. Sovraffollamento carceri: gli istituti penali per minorenni - Questione ancora più delicata è quella degli Istituti Penali per Minorenni. A partire dal decreto Caivano, settembre 2023, che ha esteso la custodia cautelare per reati minori, ci sono stati 1.143 ingressi, il numero più alto degli ultimi quindici anni. All’inizio del 2024, secondo i dati di Antigone, erano presenti circa 500 detenuti nei 17 istituti minorili, il numero più alto registrato negli ultimi dieci anni. A balzare alle cronache per le violenze subite e compiute dai detenuti è spesso il Beccaria di Milano con 69 ragazzi, attualmente il minorile con il maggior numero di detenuti. Misure alternative, accesso insufficiente - I più critici tuttavia sostengono che costruire più carceri non risolverà il problema alla radice. Alla base dei suicidi e della violenza in carcere, oltre al sovraffollamento, ci sono le condizioni di detenzione. Il sovraffollamento è infatti il risultato di un sistema penale che non investe abbastanza nelle misure alternative alla detenzione. Nel 2023, solo il 5% dei detenuti ha avuto accesso a misure come la detenzione domiciliare o il lavoro esterno, una percentuale nettamente inferiore alla media europea. Aumentare il ricorso a queste misure può alleggerire la pressione sulle carceri e favorire un reale percorso di rieducazione. Secondo uno studio del Cnel, l’adozione di misure alternative ha dimostrato di essere particolarmente utile. Il tasso di recidiva per chi accede a misure alternative, come la detenzione domiciliare o il lavoro esterno, è molto più basso rispetto a chi sconta l’intera pena in carcere. Il tasso di recidiva generale si attesta attorno al 70%, mentre scende al 2% tra i detenuti che riescono a ottenere un lavoro dopo il rilascio. Arriva Doglio, punta a 7mila nuovi posti nelle carceri di Lorenzo Attianese ansa.it, 24 settembre 2024 Nominato Commissario per l’edilizia penitenziaria, gestirà 250 milioni. Nordio lo aveva definito un “programma imponente”, che sarà “realizzato speditamente” per far fronte all’emergenza del sovraffollamento delle carceri, popolate da oltre 61mila detenuti e con numeri in netto aumento anche per il preoccupante fenomeno dei suicidi. È un obiettivo complesso e ambizioso quello affidato al super manager romano Marco Doglio, nominato dal governo commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria. Nel piano nazionale a medio e lungo termine - poco più di un anno - che il nuovo incaricato dovrà portare avanti, Doglio avrà a disposizione i 250 milioni di investimenti già stanziati dall’Esecutivo per la creazione di settemila nuovi posti detentivi sui diecimila totali che servirebbero a pareggiare i numeri attuali. Del resto è quanto prevede il decreto ‘Carcere sicuro’, approvato lo scorso luglio, a cui in fase di conversione è stata aggiunta l’introduzione di un commissario, che “dovrà provvedere alla realizzazione delle opere necessarie per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari”, restando in carica fino al 31 dicembre 2025 e avvalendosi di uno staff di cinque esperti. Secondo il report che Doglio avrà di fronte, l’urgenza è alleggerire i penitenziari con nuove strutture, soprattutto per far fronte agli indici di sovraffollamento - la media è passata da 115 a 131 in due anni - con il massimo toccato nei grandi istituti di San Vittore a Milano (qui quasi un migliaio di detenuti su 448 posti disponibili), Taranto e Regina Coeli a Roma. Nel cronoprogramma del “Piano nazionale di interventi per l’aumento di posti detentivi e per la realizzazione di nuovi alloggi destinati al personale della polizia penitenziaria”, ci sono già alcuni interventi indicati (ad esempio quelli per la casa circondariale di Brescia Canton Mombello) che il commissario recupererà agevolandone la velocità di esecuzione, come la realizzazione di nuovi edifici in caserme dismesse sulla scia di quanto sta già sta avvenendo a Grosseto. Doglio, 65 anni, ne ha maturati più di venticinque di esperienza nel ruolo di direttore finanziario nel settore infrastrutture e reti e negli ultimi quindici anni come amministratore delegato del settore immobiliare. È stato fino al 2022 responsabile della direzione immobiliare di Cassa depositi e prestiti. Tra gli incarichi precedenti, anche quello di Head of real estate italy di Ubs, di amministratore delegato e direttore generale di Fabrica Sgr, direttore finanziario in Rete ferroviaria italiana e in Beni stabili, direttore finanziario di Acea e di Aeroporti di Roma, oltre ad essere manager del dipartimento di finanza di Autostrade. La nomina di Doglio “è la dimostrazione che non serviva uno ‘svuotacarceri’, ma un piano di edilizia penitenziaria che solo in seguito possa consentire di assumere provvedimenti clemenziali per scelte e non per necessità come avvenuto fino ad oggi”, commenta il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. E il suo collega, Andrea Ostellari, aggiunge soddisfatto: “Il governo migliorerà le condizioni dei nostri istituti di pena, con spazi adeguati per la detenzione, la formazione e il lavoro dei detenuti, e di garantire agli agenti e al personale tutto più sicurezza”. “Edilizia penitenziaria, non servono più celle ma interventi di sistema” di Franco Insardà Il Dubbio, 24 settembre 2024 “Il lavoro che attende Marco Doglio, il neo Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, è un lavoro da far tremare i polsi. Ma si tratta di un professionista molto preparato, con una solida esperienza universitaria in pianificazione territoriale e trasportistica, e una esperienza manageriale nel settore immobiliare di tutto rispetto anche per quanto riguarda gli aspetti contrattuali”. L’architetto Domenico Alessandro de Rossi, architetto e presidente del Cesp (Centro Europeo Studi Penitenziari), ne parla con cognizione di causa interessandosi di carceri e di edilizia penitenziaria da sempre. La prossima settimana uscirà il suo ultimo libro “Quando la pietra scolpisce la mente. Neuroscienze e Semiotica dell’architettura delle comunità confinate”, scritto insieme allo psicoterapeuta Alfredo De Risio. Architetto de Rossi, c’era bisogno di un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria? Direi proprio di sì. Serve nella misura in cui riuscirà a fare un’operazione sistemica di grande sintesi dei tanti problemi dell’universo penitenziario, che ha competenze differenziate. Parliamo di edilizia, di infrastrutture, di territorio, di giurisdizione, di amministrazione, di polizia penitenziaria. Si tratta di un lavoro che, non essendo stato affrontato in maniera sistemica, negli ultimi 20- 25 anni ora presenta tutte le sue criticità. Non si può dire che solo oggi esiste il problema dei suicidi, succedeva anche negli anni scorsi, seppur con numeri diversi. Oggi purtroppo la situazione si è cronicizzata. Perché non si è intervenuto prima? L’ex ministro della Giustizia Orlando organizzò gli Stati generali della giustizia penale, con 18 tavoli tematici… Purtroppo tutto quel lavoro non ebbe una realizzazione concreta, senza contare che si parlava spesso dei massimi sistemi quando, invece, i problemi erano molto più concreti: polizia penitenziaria, burocrazia, sostegno ai detenuti. Il Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria ha avuto un incarico fino al 31 dicembre 2025 e dovrà provvedere alla realizzazione delle opere necessarie per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari. E poi? Le somme e i cinque tecnici messi a disposizione non penso che siano sufficienti per affrontare in maniera sistemica il suo compito. Sicuramente potrà dare una organizzazione agli indirizzi per pianificare il lavoro futuro. La competenza e l’esperienza sono dalla sua parte. L’obiettivo sarà quello di costruire nuovi padiglioni e di ristrutturare le strutture esistenti. O si penserà di costruire nuove carceri? Mi sentirei di escludere che si vogliano costruire nuove carceri per risolvere le criticità immediate. Per realizzare un istituto penitenziario occorrono circa 20 anni. Ma se potessi consigliare una soluzione punterei su altro. Ce lo può spiegare? Punterei sullo svuotamento delle carceri di circa il 30%, perché ci sono persone che possono e devono essere messe in strutture diverse. Mi riferisco ai detenuti tossicodipendenti che potrebbero essere accolte da strutture esterne, in grado di curarle. Una operazione del genere farebbe scendere il numero dei detenuti al di sotto dei posti disponibili, con un costo minore per la collettività e con una attenzione al diritto alla salute previsto dalla nostra Costituzione. Senza considerare la diminuzione evidente della recidiva. Spesso le proteste che scoppiano in carcere non sono fatte per evadere, ma per provare a essere ricoverati in infermeria e avere il metadone. Come potrà intervenire il Commissario Doglio per ridurre anche le proteste? Va fatto un lavoro sull’impiantistica antincendio. Attualmente le carceri italiane sono sprovviste di apparecchiature. Eppure basterebbero gli impianti sprinkler, i sistemi di allarme antincendio, gli estintori e l’utilizzo di materassi e altri arredi ignifughi. Ci sono una serie di accorgimenti tecnologici molto semplici ed economici che eviterebbero una parte degli incidenti che avvengono nelle celle. Se si riesce a ridurre anche la popolazione carceraria si saranno fatti già dei passi in avanti. Insomma farei degli interventi pratici e molto semplici. Lungi da me l’idea, nonostante la mia professione, di parlare di architettura penitenziaria. Perché ha questa posizione così radicale? Non è il momento. Parlerei, invece, di strutture esterne dove poter ospitare una parte di quel 30% di detenuti tossicodipendenti, che con i dati attuali significano circa 18mila persone. Io collaboro a Roma con “Villa Maraini” Croce Rossa Italiana, con il Cesp abbiamo un protocollo di collaborazione che va proprio in questa direzione. Che caratteristiche dovrebbero avere queste strutture di accoglienza? Dovrebbero essere diverse dal carcere, con una assistenza psicoterapeutica e delle forme di convivenza. Non dovrebbero esistere le cancellate, altrimenti queste persone da curare non avvertirebbero la differenza con il carcere. In questo modo l’investimento comincia a diventare più semplice in termini di realizzazione, perché nel giro di due anni si riuscirebbero a costruire. Qualche anno fa si era parlato anche del recupero delle ex caserme da riconvertire in carceri. Un’idea accantonata? Non tutte le caserme sono adatte alla trasformazione in istituti per la detenzione: parliamo di dormitori per i quali sarebbe complicato garantire sia la sicurezza sia per poter scontare pene lunghe. I nuovi padiglioni nelle carceri, già appaltati, è una soluzione? In realtà tutti gli istituti hanno bisogno, non di nuove celle, ma di altro genere di assistenza per mettere in condizione i detenuti, una volta fuori, di non commettere altri reati. La recidiva, cioè, si combatte con aule, laboratori e spazi di socializzazione. Ieri si è anche insediato al Cnel il Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale, presieduto da Emilio Minunzio, che va in questa direzione… È un passo importante per realizzare un collegamento tra il sistema penitenziario e il sistema produttivo esterno, creando un sistema strutturato. La sentenza della Corte costituzionale sul diritto all’affettività in carcere apre un altro capitolo su come ripensare le carceri… Senza dubbio. Rientra nel discorso degli spazi da realizzare al di fuori delle celle. Il sovraffollamento che affligge quasi tutte le nostre carceri ha dei picchi preoccupanti: San Vittore, ma anche Regina Coeli e Poggioreale… Parliamo di strutture con un centinaio di anni e in alcuni casi di più. Il Commissario potrebbe pensare anche alla realizzazione di strutture più piccole e con tempi di realizzazione più veloci. Nel mio ultimo libro analizzo il rapporto tra ambiente e comportamento umano e per le carceri la detenzione va modulata rispetto alla condotta. Questo potrebbe significare che se si facessero degli istituti, più gestibili e integrati con famiglia e territorio, si potrebbero realizzare in tempi più brevi. Vedremo. Ricordo di Maurizio D’Ettore, Garante dei detenuti: l’impegno contro la recidiva di Rosaria Migliore Il Riformista, 24 settembre 2024 Il 21 settembre ad Arezzo la commemorazione dell’accademico e politico, un innovatore che ha riconosciuto da subito nella reiterazione dei reati il problema principale del sistema carcerario italiano. Ora bisogna raccogliere la sua eredità. Era gremita la Sala dei Grandi del palazzo della Provincia di Arezzo, lo scorso 21 settembre. Familiari, amici, amministratori locali, ma soprattutto politici di ogni estrazione si sono stretti nel ricordo di Felice Maurizio D’Ettore, Garante nazionale dei detenuti mancato improvvisamente il 22 agosto di quest’anno. Del resto, si dev’essere stati davvero dei “grandi” in vita se in un paese così diviso il ricordo positivo è praticamente unanime, con caratteristiche comuni indipendentemente dall’appartenenza partitica. Nella sala che celebra i personaggi più importanti della storia di Arezzo, dipinti dal simbolista Adolfo De Carolis quasi cento anni fa, si sono ricordate le infinite discussioni concluse spesso in una risata, le ore passate a studiare provvedimenti legislativi, battaglie politiche. Un modo per fissare la memoria di un accademico, amministratore, politico, calabrese di origine ma trapiantato da anni in Toscana, nella provincia di Arezzo dove ha iniziato il suo cursus honorum prima come consigliere comunale di Bucine (AR), poi come coordinatore provinciale di Forza Italia. Professore ordinario di diritto privato all’Università di Firenze, conosce in quelle aule Giuseppe Conte che ritrova come presidente del Consiglio quando siede fra le fila della Camera dei Deputati durante la XVIII Legislatura (20182022), eletto fra le file di Forza Italia ed indicato in Commissioni di peso (Bilancio, Affari Costituzionali, Semplificazione). Chiude la sua esperienza parlamentare in Fratelli d’Italia, e a gennaio del 2024 viene indicato come Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Gnpl). Quello del Garante è un ruolo estremamente delicato, previsto anche da alcune convenzioni Onu sottoscritte dal nostro paese. Di questa figura si inizia a parlare nel 1997, ma è solo nel 2016 che finalmente l’iter di istituzione si conclude. Questo perché non è facile affrontare la situazione delle carceri italiane bilanciando la certezza della pena con la funzione di reinserimento sociale dei detenuti, nonché le necessità di dare più forza e autorevolezza al personale della polizia penitenziaria ed investire in strutture più moderne a fronte di un bilancio dello Stato sempre più stringente. Servono dunque personaggi di grande equilibrio, capaci di guardare oltre le quotidiane difficoltà del sistema carcerario. Una cosa ben chiara a D’Ettore, che mette subito a fuoco come il problema cruciale sia non far tornare in carcere chi sconta la propria pena. Può sembrare un concetto banale, ma in realtà quasi il 69% dei detenuti torna a delinquere. Uno dei suoi primi impegni è quindi il progetto “Recidiva zero”, portato avanti assieme al Cnel guidato dall’ex collega di partito Renato Brunetta che non a caso ne ha ricordato la scomparsa con parole toccanti. Così come sentito è stato il pensiero di tutti coloro presenti alla Commemorazione: Giovanni Donzelli, responsabile nazionale dell’organizzazione di Fratelli d’Italia, ne ha ricordato il carattere moderato ma determinato al tempo stesso, da “serissimo guascone” legato fortemente al territorio - tratto indicato anche da Alessandro Polcri, presidente della Provincia di Arezzo; Andrea Del Mastro, sottosegretario al ministero della Giustizia, ha evidenziato l’equilibrio quasi pasoliniano di saper bilanciare le necessità sia dei detenuti che della polizia penitenziaria; infine, Giuseppe Conte in un sentito discorso ha messo in luce l’ironia di D’Ettore, che era un’espressione di serietà coniugata ad una viva intelligenza. Equilibrio, moderazione, passione per la vita e rispetto per la propria storia politica ed umana: questo era Maurizio D’Ettore, servitore dello Stato. Il suo testimone è ora raccolto da Irma Conti, già nel collegio del Gnpl, che lo ha ricordato come un meticoloso innovatore in un ruolo che ricopriva con orgoglio, pazienza e determinazione. In un paese dove spesso il garantismo è in pericolo, e dove serve un costante bilanciamento fra le tante componenti sociali che ruotano attorno al sistema carcerario, D’Ettore ha iniziato col tracciare una strada. A chi ne raccoglierà il testimone umano e politico il compito di seguirla. L’Avvocatura chiede di agire per risolvere la grave crisi delle carceri di Elisabetta Brusa* Avvenire, 24 settembre 2024 Tra questioni più urgenti da affrontare ci sono il sovraffollamento e le madri detenute con i figli. L’Organismo Congressuale Forense: “Servono azioni concrete”. Il sistema carcerario italiano versa in uno stato di profonda crisi, una situazione che l’Organismo Congressuale Forense (Ocf) ha ripetutamente denunciato con forza, sottolineando come non sia più possibile rimandare interventi strutturali. Le criticità sono molteplici e richiedono un approccio urgente per garantire il rispetto dei diritti fondamentali e della dignità umana all’interno delle strutture detentive, così come previsto dalla nostra Costituzione. La questione più critica e urgente da affrontare è il sovraffollamento. Al 30 giugno 2024, i penitenziari italiani ospitavano circa diecimila reclusi in più rispetto alla loro capienza massima; l’indice di sovraffollamento è del 120%. Ciò significa che i detenuti vivono in condizioni di grave disagio, che violano non solo la dignità umana, ma anche le normative europee e i principi costituzionali. All’aumento del sovraffollamento si accompagna un incremento degli eventi critici, in particolare quelli che riflettono maggiormente il disagio detentivo: aggressioni, autolesionismo, suicidi e tentativi di suicidio, oltre alle aggressioni fisiche al personale penitenziario e amministrativo. Nonostante le difficoltà, esistono progetti di recupero che dimostrano come sia possibile coniugare la pena con la riabilitazione. Un esempio positivo è rappresentato dal carcere di Bollate, dove alcuni detenuti hanno potuto lavorare e reintegrarsi nel mondo del lavoro, grazie anche alla Legge Smuraglia che prevede agevolazioni fiscali per chi assume detenuti. Questo meccanismo offre una reale opportunità lavorativa anche fuori dalle mura del carcere, contribuendo a ridurre il tasso di recidiva, che attualmente si attesta al 75%. Tuttavia, progetti come quello di Bollate rappresentano ancora l’eccezione piuttosto che la regola. L’Ocf ritiene fondamentale estendere e potenziare queste iniziative, per costruire un sistema carcerario che punti concretamente al reinserimento sociale. Un altro tema particolarmente delicato riguarda la gestione delle madri detenute e dei loro figli. Attualmente, 23 detenute madri vivono in carcere con 26 bambini. Questi numeri includono sia donne che scontano una condanna definitiva, sia coloro che sono in custodia cautelare. Le leggi attuali prevedono il rinvio obbligatorio della pena per le donne incinte e per quelle con figli fino a un anno di età. Tuttavia, con il recente “decreto sicurezza” approvato dalla Camera, questo rinvio è diventato facoltativo, una decisione che solleva forti preoccupazioni. L’Ocf sottolinea l’urgenza di implementare soluzioni alternative, come gli istituti a custodia attenuata per madri (ICAM) e le case-famiglia protette, per garantire ai bambini un ambiente adeguato senza compromettere la sicurezza pubblica. Di fronte a queste sfide, l’Ocf propone una serie di azioni concrete, tra cui una revisione del sistema penale per ridurre il ricorso alla detenzione per reati minori, privilegiando misure alternative come i lavori socialmente utili o la detenzione domiciliare; introducendo procedure per la concessione e l’ottenimento del beneficio della liberazione anticipata; prevedendo un aumento delle risorse destinate alla formazione del personale penitenziario, con particolare attenzione alle competenze psicopedagogiche e di mediazione culturale; la creazione di un “ponte” tra carcere e società, attraverso programmi di accompagnamento al lavoro e all’inserimento abitativo per gli ex detenuti; un potenziamento dei servizi di supporto psicologico e psichiatrico, dato l’alto tasso di problemi di salute mentale tra la popolazione carceraria. La sfida è complessa, ma non può più essere ignorata. In gioco ci sono la dignità dei detenuti, la sicurezza della società e la credibilità del nostro sistema giudiziario. L’Avvocatura italiana è pronta a fare la sua parte, collaborando con le istituzioni e la società civile per costruire un sistema carcerario più umano, efficace e in linea con i principi costituzionali. È tempo di agire con determinazione, perché ogni giorno di ritardo si traduce in diritti negati e in opportunità di riscatto irrimediabilmente perse. *Componente del Dipartimento Pari Opportunità e Uguaglianza dell’Organismo Congressuale Forense Assistenza nelle carceri, infermieri e Oss non ce la fanno più nurse24.it, 24 settembre 2024 L’assistenza sanitaria dietro le sbarre è in difficoltà. La popolazione carceraria è in continua crescita, i penitenziari sono sovraffollati e le risorse sono limitate per fronteggiare i bisogni di salute dei detenuti e garantire loro cure adeguate. Medici, infermieri ed operatori sociosanitari che lavorano in un ambiente già carico di tensioni si trovano a lavorare affrontando quotidianamente sfide non solo professionali ed emotive, ma anche logistiche. Nelle duecento carceri italiane, come negli ospedali su tutto il territorio nazionale, il personale sanitario risulta carente nell’organico. Secondo i dati della Fimmg, la Federazione italiana dei medici di Famiglia, sono complessivamente mille i medici di base e di guardia, soltanto uno in ogni istituto di pena per 315 detenuti, spesso ancora in corso di specializzazione. Sono troppo pochi, anche secondo l’articolo 11 della legge n. 354 sull’Ordinamento penitenziario del 1975 che stabilisce che “ogni istituto sia dotato di servizio medico e farmaceutico rispondenti ad esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati e che disponga di almeno uno specialista in psichiatria”. La drammatica situazione è denunciata dalla Fials, la Federazione italiana autonomie locali e sanità, che segnala altresì il numero oltremodo sottodimensionato degli infermieri, di fatto impossibilitati a garantire un’assistenza sanitaria nell’arco delle 24 ore. Il sovraffollamento, strutturale e di lunga data, peggiora le condizioni di vita dei detenuti ed impatta gravemente sulla capacità del sistema sanitario di fornire un’assistenza efficace alle oltre 60mila persone che abitano le carceri, a fronte di una capienza regolamentare massima di circa 50mila posti come sottolineato anche dal rapporto del garante nazionale dei diritti delle persone detenute. Tale esubero ostacola anche il lavoro di infermieri ed Oss assegnati alle Case Circondariali. Non solo sono in numero insufficiente rispetto alle reali esigenze, ma devono altresì fare i conti ogni giorno con risorse scarse, carenze strutturali, mancanza di materiali, strumentazioni mediche non adeguate, infrastrutture sanitarie vetuste e tempi di attesa lunghissimi. Secondo la Fials nelle carceri è in corso un’altra emergenza seppur silenziosa, quella della salute mentale dei detenuti. Sono infatti sempre più numerosi coloro che soffrono di disturbi psichici, anche gravi, o legati alla tossicodipendenza ma che non hanno un’adeguata assistenza psichiatrica. Dalle segnalazioni raccolte tra il personale, emerge che, non essendoci abbastanza psichiatri e psicologi, il carico di questi pazienti pesa sugli infermieri e sugli operatori sociosanitari che si ritrovano così a gestire situazioni delicate, spesso di crisi, senza gli strumenti necessari. Il sindacato sottolinea inoltre il problema della sicurezza del personale in un ambiente di lavoro, quello carcerario, che può diventare complicato in un contesto normalmente caratterizzato da tensioni, conflitti ed episodi di violenza. Il rischio risulta aumentato dall’assenza di un’adeguata formazione sulla loro gestione rivolta agli operatori sanitari che lavorano in prima linea, a diretto contatto con i detenuti, sempre vigili ed attenti non soltanto ai problemi sanitari ma anche a quelli relativi alla propria incolumità fisica. Il personale lamenta che purtroppo non ci sono sempre le condizioni sicure per lavorare serenamente, che mancano protocolli chiari per fronteggiare situazioni di emergenza e che hanno bisogno di un maggiore supporto sia psicologico che organizzativo in termini di risorse umane aggiuntive. In un contesto caratterizzato da isolamento e privazione, gli infermieri e gli operatori sociosanitari restano comunque, nonostante le numerose criticità, un punto di riferimento umano per i detenuti in quanto riescono a bilanciare il rigore professionale con una dimensione empatica. La loro presenza non solo garantisce la cura, ma impatta significativamente anche sulla loro qualità di vita. “Tutti noi siamo consapevoli che il nostro ruolo va oltre la semplice assistenza sanitaria. Siamo spesso l’unico contatto che i detenuti hanno con il mondo esterno e la nostra presenza può fare la differenza tra una condizione di totale abbandono e la possibilità di essere trattati come esseri umani”, ha dichiarato un’infermiera intervistata da un quotidiano locale che ha raccontato la battaglia impari per gli operatori sanitari di un carcere siciliano. Giusto processo: che cosa c’è dietro la pausa di riflessione di Mario Chiavario Avvenire, 24 settembre 2024 “La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”. È opportuno inserire una frase del genere nel testo della Costituzione e precisamente in quell’articolo 111 che dà ampio spazio alle garanzie del “giusto processo”? Sembrava che al riguardo vi fossero le premesse per una risposta positiva largamente condivisa. A dimostrazione, la concordata unificazione in tali termini di quattro distinte proposte di legge costituzionale presentate un anno fa al Senato in sintonia “trasversale” stanti le rispettive appartenenze partitiche e a riflesso di una sensibilità diffusa nell’opinione pubblica, con molteplici segni d’insofferenza per quelle che vengono sovente percepite come insufficienze della tutela attuale. È però notizia di questi giorni che l’iter del provvedimento, non ancora giunto al primo voto dell’aula di Palazzo Madama, subirà un’ulteriore pausa di riflessione, giustificata dallo scopo di dar modo alla competente Commissione senatoriale, tuttora investita dell’esame preliminare del testo, di procedere ad un ciclo di audizioni di esperti. Diciamo subito che quel testo, nella sua laconicità, non lascia intravvedere uno spirito analogo a quello che traspare dal “pacchetto sicurezza” approvato recentemente dalla Camera dei deputati e a sua volta presentato assai spesso come provvedimento a sostegno delle vittime: là, un tono e una sostanza pesantemente e pressoché esclusivamente “muscolari; spinti, in certi punti, a eccessi di compressione di diritti individuali e di libertà collettive, tali da porne in forte dubbio la compatibilità con i principi dello Stato di diritto e talora persino con postulati minimali di umanità; qui, l’indicazione, formulata in termini del tutto generali e senza menzione di compressione di diritti altrui, di un’esigenza che si direbbe addirittura ovvia. Del resto, non è un caso che delle proposte poi fuse, come si è detto, in quell’unica frase tre fossero state presentate da esponenti di gruppi poi schieratisi risolutamente contro quel “pacchetto” (Partito democratico, Cinque stelle e Alleanza Verdi e Sinistra, mentre la quarta promanava da Fratelli d’Italia). Alla base della scelta di rimeditare l’opportunità dell’integrazione, nel senso indicato, all’art. 1 1 1 appaiono piuttosto le perplessità manifestatesi, in particolare nel gruppo di Forza Italia, per il timore che ne possa venire alterato proprio l’equilibrio facente perno sulle garanzie del “giusto processo”. La preoccupazione non può definirsi peregrina e tuttavia a me non sembra che il pericolo evocato si corra davvero. Anche con l’aggiunta di quella frase rimarrebbe infatti senza modifiche tutto quanto, nell’articolo 111, si trova oggi enunciato. In particolare circa il ruolo essenziale e centrale del principio del contraddittorio: a garanzia, non c’è dubbio, anzitutto di chi deve difendersi da accuse a proprio carico; e senza che ne debba venir meno il monito lanciato dalla Corte costituzionale quando ha escluso che possano porsi sullo stesso piano il contraddittorio “principalè: che è quello tra pubblica accusa e difesa dell’accusato, e la pur legittima partecipazione al dibattito processuale ad opera della difesa della vittima, specialmente in quanto si costituisca parte civile. Se, poi, si ritenesse invece fondato quel timore si potrebbe munire il testo di un’apposita “clausola di salvaguardia” (tipo “fermo restando ...)” per salvaguardare appunto, e senza dar luogo ad equivoci, i diritti di chi vittima non è. Potrebbe semmai osservarsi all’opposto che a causa della sua genericità quel testo rischia di restare una vaga enunciazione teorica - normasimbolo o norma-manifesto, insomma - senza assurgere al rango di un principio avente tangibili conseguenze patiche. Pure sotto questo profilo direi però che il rischio non è inevitabile, sempreché, da parte di chi sia chiamato a redigere o a votare leggi ordinarie oppure a metter mano all’organizzazione giudiziaria e amministrativa in attuazione di ciò che esse dispongono, non ci si riduca a trattare la nuova norma alla stregua di un condensato di belle parole con l’autorizzazione a un’inerzia soddisfatta anche del nulla. Nelle norme, specialmente se di carattere costituzionale, si può invero leggere spesso anche una funzione propulsiva, a stimolo delle istituzioni affinché si adoperino, ad esempio qui per rendere sempre più effettivi diritti delle vittime altrimenti destinati a rimanere solo sulla carta. Viene da pensare a una serie di diritti delle vittime di reati, i quali già trovano riconoscimento e dettagliata formulazione particolarmente in specifici precetti “direttivi” dell’Unione europea, ma per cui mancano spesso i supporti materiali e personali per metterli pienamente in pratica: tali, per non menzionarne che alcuni, il “diritto di ottenere informazioni fin dal primo contatto con un’autorità competente” o il “diritto all’interpretazione e alla traduzione” di atti rilevanti del procedimento penale per gli stranieri che non padroneggino l’italiano. Il trovare in Costituzione un riferimento a quella “tutela” incentiverebbe forse gli sforzi per dar loro un’effettività sempre più adeguata. Intercettazioni, Forza Italia vuole la riforma sul limite dei 45 giorni di Errico Novi Il Dubbio, 24 settembre 2024 Briefing promosso dal capogruppo al Senato Gasparri con Sisto e i parlamentari azzurri: obiettivo, portare presto in Aula la legge Zanettin. C’è un tema che incrocia in modo trasversale casi di cronaca nera, giustizia spettacolo e politica giudiziaria: le intercettazioni. L’uso che ne fanno le Procure e il corrispondente riverbero mediatico. Ultimo esempio (solo in ordine di tempo): il processo per l’assassinio di Giulia Cecchettin, con il video dell’interrogatorio messo in onda dalla trasmissione di Rete4 “Quarto grado”: un documento non più sottoposto a segreto (siamo orma al dibattimento) ma che, dato in “prime time” contribuisce a rendere quella vicenda giudiziaria un evento virale. In realtà sul limite alla pubblicazione del materiale intercettato, che si tratti di brani audio o appunto di filmati, la riforma penale di Nordio da poco entrata in vigore ha già realizzato passi avanti, con la norma che impone di tutelare i terzi estranei al procedimento. Sul piano più strettamente politico, il percorso di riforma degli “ascolti”, già piuttosto avanzato (sebbene affidato a vettori legislativi diversi), dovrebbe essere completato su tre versanti: i limiti all’uso dei trojan per i reati che non siano gravissimi, e dunque anche per i casi di corruzione (e sul punto il guardasigilli ha spiegato ai parlamentari di maggioranza che assumerà personalmente l’iniziativa), la disciplina sul sequestro e il prelievo di dati dagli smartphone, proposta, come diverse altre, dal senatore azzurro Pierantonio Zanettin a Palazzo Madama, dov’è già stata approvata, e ora all’esame della Camera, e - tasto che pare più delicato - la proposta di legge, firmata sempre da Zanettin e da mesi in attesa della calendarizzazione in aula al Senato, che limita a 45 giorni la durata ordinaria massima delle intercettazioni. È qui che qualche frizione rischia di innalzare il clima nel centrodestra. Il limite del mese e mezzo è definito in modo che la Procura possa ottenere ulteriori proroghe solo se “l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. Su quest’ultima proposta di legge firmata Zanettin è emersa una certa ingessatura, nel centrodestra, appena nascosta dalla compattezza trovata in maggioranza sulla separazione delle carriere, riforma cardine ma che sta, evidentemente, su un piano diverso. Le intercettazioni fanno puntualmente affiorare divergenze con il resto dell’alleanza ci sono. Se n’è avuta prova dalle dichiarazioni rilasciate due giorni fa all’Ansa dal capogruppo di FI al Senato Maurizio Gasparri, che ribadisce al Dubbio: “Ci sono le grandi riforme, ma vanno portati al traguardo anche altri provvedimenti come la legge Zanettin, che chiederemo alla capigruppo di portare al più presto in Aula, considerato che la commissione Giustizia ha dato via libera da quasi 6 mesi. Ieri mattina il presidente dei senatori forzisti ha tenuto una riunione in videoconferenza con il responsabile Giustizia del partito, che è il viceministro Francesco Paolo Sisto, i parlamentari azzurri impegnati nelle relative commissioni il capogruppo alla Camera Paolo Borelli. Si è fatto il bilancio positivo delle proposte già entrate in vigore o comunque a buon punto in materia di intercettazioni, Ed è stata ribadita, appunto, l’urgenza di accelerare sul limite dei 45 giorni. Una soluzione che, spiega l’autore Zanettin, “evita un uso distorto dello strumento investigativo che, con l’applicazione temporalmente illimitata a cui, per esempio, si è assistito nell’indagine su Tori, diventa un mezzo improprio per cercare una prova che non si ha”. A Sisto è stato dunque chiesto di verificare la disponibilità a concludere, sulla proposta, l’esame in prima lettura, con la capigruppo del Senato che dovrà poi formalizzare l’intesa. Ma qui si dovrà fare i conti innanzitutto con le perplessità di Fratelli d’Italia, che a metà luglio il sottosegretario Andrea Delmastro aveva sintetizzato come segue: “La proposta Zanettin ha un suo fondamento e solleva un problema vero, ma la questione non può essere risolta con una misura così draconiana come quella dei 45 giorni”. Uno scetticismo non scalfito dall’eccezione che il testo in attesa di approdare in Aula prevede per i reati di mafia e terrorismo. Le divergenze sulle intercettazioni sono per certi aspetti ontologiche, fra FI e FdI in particolare - la posizione della Lega è più articolata, non a caso la relatrice della proposta sui 45 giorni è la senatrice del Carroccio Erika Stefani - ma a complicarle contribuiscono ora le tensioni generatesi su tutt’altri dossier, dallo Ius scholae al “rischio” che Canale 5 trasmettesse un’intervista a Maria Rosaria Boccia. Se non si rimuovono certe incrostazioni, anche iniziative non certo “devastanti” come il limite temporale agli “ascolti” rischiano di mandare il centrodestra in cortocircuito. L’abuso d’ufficio rischia di finire alla Consulta: “Violata la Costituzione” di Enrica Riera Il Domani, 24 settembre 2024 Dopo i pm di Reggio Emilia altri magistrati chiedono un pronunciamento sull’abrogazione del reato. Il 24 settembre i giudici decideranno se accogliere la richiesta di parte civile. Sull’abolizione dell’abuso d’ufficio la partita non è finita. La battaglia prosegue nelle aule di tribunale. E così dopo la Procura di Reggio Emilia, che nel processo Bibbiano, ha chiesto di sollevare un’apposita questione di legittimità costituzionale, oggi, 24 settembre, anche il Tribunale di Firenze, si pronuncerà sul punto. La decisione sull’ammissibilità, se avrà esito positivo, farà sì che l’ultima parola passi ai giudici costituzionali. Passaggio che il ministro della Giustizia Carlo Nordio vorrebbe evitare. A sollevare la questione a Firenze è stato l’avvocato del foro di Terni Manlio Morcella. Il penalista l’ha fatto nel corso del giudizio che riguarda la faida famigliare dei Colaiacovo, la “dinastia” a guida della Colacem spa, una delle più importanti aziende italiane produttrici di cemento. Nel processo è imputata tra gli altri l’ex procuratrice aggiunta di Perugia ora in pensione e per anni numero uno dell’Antimafia, Antonella Duchini. Un processo in cui sono ipotizzati, per l’appunto, reati di abuso d’ufficio, peculato e rivelazione di segreto. A fine requisitoria i pm hanno chiesto dodici anni e mezzo per Duchini, tredici per un suo collaboratore, ex carabiniere dei Ros. Tuttavia con la cancellazione dell’abuso d’ufficio voluta dal guardasigilli Nordio se ci sarà condanna, le pene saranno drasticamente ridotte. Un caso, quest’ultimo, che a prescindere dal merito, risulta emblematico sugli effetti prodotti dalla riforma Nordio. L’abolizione dell’abuso d’ufficio potrebbe sanare infatti diffuse illegalità e soprattutto autorizzare eccessi di potere. Saranno cancellate, più in particolare, oltre tremila condanne definitive. Ma torniamo alla questione di legittimità costituzionale sollevata con apposita istanza dinanzi al tribunale di Firenze. Quindici anni sono trascorsi da quando l’Italia ha adottato la Convenzione di Merida del 2003. Una carta - quella delle Nazioni Unite - che tuttora rappresenta uno strumento di anticorruzione universale legalmente vincolante. Parte da qui Morcella quando chiede di sollevare la questione di legittimità costituzionale in punto di abrogazione del reato di abuso di ufficio. Abuso di ufficio che, al tempo dell’articolo 323 del codice penale, puniva il pubblico ufficiale che violando consapevolmente leggi, regolamenti o l’obbligo di astensione, cagionava un danno ad altri o procurava un vantaggio patrimoniale. “Come è possibile che uno Stato aderente alla Convenzione contro la Corruzione di Merida, obbligato a considerare l’inserimento del reato di abuso in atti d’ufficio nel proprio ordinamento, possa risolversi per la sua abolizione?”, è scritto nell’istanza che il penalista ha presentato dinnanzi ai giudici fiorentini. Ma per Nordio, che nel frattempo ha reintrodotto una parziale copertura penale per gli abusi patrimoniali dei pubblici ufficiali con il decreto carceri, la risposta è semplice. “Il ministro - prosegue il penalista, operativo a Roma - continua a sostenere che dalla Convenzione discenda una mera raccomandazione e non l’obbligo di prevedere nei nostri ordinamenti e nei nostri codici il reato di abuso d’ufficio. Questo - chiosa Morcella - non è corretto”. Questione di lessico - Uno “sbaglio”, dunque, nell’interpretazione della Convenzione. Secondo questa tesi il ministro della Giustizia non terrebbe conto del lessico utilizzato dall’atto anticorruzione delle Nazioni Unite. “Viene utilizzato il verbo “shall”, che significa dovere - fa notare lo studio Morcella -. Quando invece la Convenzione ha inteso introdurre una mera raccomandazione, ha utilizzato il verbo may, “potere”. Ma anche se le parole sono importanti, la partita sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio non si gioca solo dal punto di vista lessicale. “Secondo i più basici principi della logica, la disposizione convenzionale, per lo Stato contraente che, al momento della ratifica del Trattato, non annoverava un simile modello penale nel proprio ordinamento nazionale, importa l’obbligo di considerare la sua introduzione, mentre per lo Stato aderente che, alla medesima data, già lo contemplava, si atteggia alla stregua di un obbligo internazionale di stand stile”. Obbligo internazionale a restare fermi, “in forza del quale il quadro normativo interno deve rimanere invariato, non dovendo il legislatore nazionale riconsiderare l’esistenza di tale fattispecie criminosa nel proprio sistema penale”, si legge ancora nell’istanza. In altre parole, se uno Stato, nel momento in cui aderisce alla Convenzione di Merida, prevede già nel proprio ordinamento il reato di abuso d’ufficio, dovrebbe limitarsi a “mantenere” quel reato. Non a eliminarlo. È proprio il caso dell’Italia: nel 2009 il reato di abuso di ufficio esisteva, era regolamentato all’interno del codice penale. Poi cos’è successo? “Ora, abrogandolo - conclude Morcella -, è come se il nostro Paese abbia tradito la Convenzione di Merida e sì, la Costituzione. Del resto un trattato va sempre interpretato in buona fede”. Separazione carriere, Di Marco (Anf): “Nordio sbaglia, riforme ispirate dal clamore mediatico” di Giulia Merlo Il Domani, 24 settembre 2024 Il segretario dell’Anf Giampaolo di Marco sulla separazione delle carriere: “Non si riforma la Carta per un caffè tra pm e giudici”. Sull’avvocatura: “Categoria dimenticata”. “Nel sistema giustizia, il principio dell’efficienza di cui oggi si parla molto rischia di cancellare quello della necessità: ma la vita di un cittadino e le esigenze per cui entra in un tribunale non si esprimono con un bilancio in cui il segno più è sinonimo di successo”, è la sintesi di Giampaolo di Marco, segretario generale dell’Associazione nazionale forense che è appena uscita dal congresso di Parma, con al centro i temi della sostenibilità della professione e della giustizia nel tempo dell’intelligenza artificiale. Eppure, siamo in una fase di riforme in materia di giustizia, inaugurate con il governo Draghi e che ora il governo Meloni sta mettendo a terra... L’interrogativo, però, è in quale direzione stanno portando la giustizia. Sul lato civile, queste riforme hanno quasi definitivamente allontanato i cittadini e gli avvocati dai tribunali giustificandolo con la digitalizzazione, con un progressivo allentamento del processo come sistema dentro il quale creare spazi di conciliazione e di giustizia concreta. Su quello penale, mi limito a dire che anche la magistratura sta lanciando un grido d’aiuto: la digitalizzazione del processo penale è disastrosamente inefficiente. La verità è che, negli ultimi quindici anni, la giustizia è stata solo un volantino elettorale da spendere al bisogno. Sul fronte penale, l’ultima riforma Nordio ha abolito l’abuso d’ufficio. Era davvero un reato inutile? La scelta è stata giustificata con il basso numero di condanne e con la cosiddetta paura della firma. A me hanno però insegnato che non è il numero di condanne o assoluzioni a giustificare l’esistenza di un reato, ma l’esigenza sociale di punire una condotta che viene considerata antisociale. Negli ultimi anni, mi sembra che le modifiche del codice penale siano avvenute a causa di allarmi mediatici - e la paura della firma rientra tra questi - più che da considerazioni giuridiche. Nordio si è presentato come giurista garantista e dunque vicino alle istanze dell’avvocatura. A due anni di legislatura, è stato così? Mi sembra che la sensibilità che ci si aspettava da un uomo di diritto sia stata spenta dalla politicità della funzione. Probabilmente, quando si arriva in determinati posti, si fatica a conservare la purezza del metodo e i buoni propositi. Molti temi sono svaniti nel nulla, dalla geografia giudiziaria alle questioni legate all’ordinamento, mentre c’è stata una rincorsa mediatica su altri temi, soprattutto in materia penale. La separazione delle carriere è da sempre battaglia dei penalisti e ora è oggetto di riforma costituzionale. Anche questa è una mossa mediatica? La sintetizzo così: non si cambia la Costituzione per un caffe. Ho sentito ripetere che la separazione delle carriere è un problema di relazioni ma, se la ragione scatenante è che non si vuole che il giudice prenda il caffè con il pm, mi sembra una riforma insensata. Se invece si vuole ripensare la funzione del pm, allora una riforma è necessaria ma si deve fare in modo diverso rispetto a quella oggi in discussione. L’interrogativo è: cosa vogliamo fare? Ad oggi non ho trovato una risposta nel merito. Di avvocatura e diritti, in ogni caso, si parla poco. Perché? Nordio ripete spesso che l’avvocatura è una gamba della giurisdizione, ma la verità è che l’avvocatura è dimenticata. Il sistema oggi è traballante anche per questo: la magistratura è considerata la gamba forte e temuta, l’avvocatura invece è molto debole. Ma ascoltare di più l’avvocatura vuol dire ascoltare di più i cittadini, perché i loro drammi arrivano nei nostri studi e siamo la cartina al tornasole di molti fenomeni sociali che poi diventano emergenze. Eppure nelle commissioni ministeriali la magistratura è ben rappresentata, l’avvocatura nemmeno si siede. La sua è una professione in crisi? É una professione in evoluzione e che deve reinventarsi, perché la società sta cambiando. Le faccio un esempio: la transizione ecologica è una prateria che gli avvocati hanno davanti, ma per essere percorsa serve una alta professionalità e anche l’intelligenza digitale è uno strumento inarrestabile, ma che va regolamentato. Smettiamo di dire che gli avvocati sono solo soggetti della giurisdizione, noi dobbiamo essere professionisti della tutela dei diritti ovunque: certo nell’aula di tribunale, ma esiste anche un mondo di diritti al di fuori e noi dobbiamo accompagnare il cittadino verso la soluzione del suo problema, anche senza passare necessariamente da una sentenza. Anche da questo passerà, in futuro, l’efficienza del sistema giustizia. Quell’offesa alla funzione difensiva è un oltraggio alla giurisdizione e crea diffidenza di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 24 settembre 2024 Il caso di Firenze e non solo. La sezione disciplinare del Csm si accinge a valutare l’addebito mosso nei confronti dei magistrati fiorentini che avevano predisposto un dispositivo di condanna a cinque anni e mezzo di reclusione, pur senza sottoscriverlo, ancor prima che la difesa provvedesse alla discussione finale del processo. L’atto trovato dal difensore all’interno del fascicolo del dibattimento destò un notevole clamore risultando piuttosto grave l’offesa arrecata alla funzione difensiva. Ora il procedimento disciplinare giunge davanti al suo giudice naturale con una richiesta di archiviazione stante la natura sostanzialmente innocua della condotta e la “occasionalità” del caso. Se si vuole tuttavia conoscere quanto simili “occasionalità” siano frequenti nell’intero sistema giudiziario del Paese occorre ricordare qualche altro fatto emerso alla cronaca di questi ultimi anni. A Milano nel 2010 venne rinvenuta la bozza di sentenza redatta prima della celebrazione del processo. A Brescia tre anni dopo il dispositivo di una sentenza di appello venne per errore consegnata al difensore insieme alla copia della relazione. Nel 2015, proprio a Firenze, venne denunciato il caso di una sentenza contestuale, scritta prima dell’udienza. Ed ancora, a Bologna, un anno dopo, vi fu addirittura il caso di una ordinanza notificata dal tribunale del riesame al difensore, ancor prima della celebrazione dell’udienza. Noto il caso del tribunale di Asti, dove nel 2019 il dispositivo di condanna per un grave fatto di violenza sessuale venne letto in aula davanti al difensore sgomento che doveva ancora discutere il processo in difesa dell’imputato. A Venezia nel 2020 furono rinvenute sentenze complete di motivazione all’interno dei relativi fascicoli dibattimentali. Nel 2021 a Napoli il dispositivo di sentenza venne rinvenuto prima della discussione. Ancora a Caltanissetta venne denunciato il caso di una lettura del dispositivo prima della discussione. Di due anni dopo è il caso fiorentino del quale il Csm si sta ora occupando all’esito, dunque, di una lunga serie di “incidenti” che si teme possano essere solo la punta di un iceberg sommerso fatto di decisioni preconfezionate indifferenti al contributo delle difese. L’episodio, secondo la prima Commissione che ha proposto l’archiviazione del caso, “pur coinvolgendo la condotta dei magistrati, è infine risultato privo di ricadute sull’esercizio indipendente e imparziale della funzione”. Ma viene da chiedersi come può esistere un “esercizio imparziale della funzione” laddove il giudice si dimentichi delle parti e del contributo dialettico fondamentale che in un processo accusatorio dovrebbe essere quello apprestato dal difensore dell’imputato? E se anche in quel singolo caso il pericolo sia stato sventato, in quel caso sì per mera occasionalità, davvero l’immagine di indipendenza e di imparzialità della magistratura ne esce integra? Non si tiene conto di come simili ripetuti “incidenti” finiscano con l’erodere gravemente l’immagine della intera magistratura e contribuiscano a creare un diffuso clima di diffidenza nei confronti della giurisdizione. È gravissima l’offesa che i tribunali arrecano alla funzione difensiva, alla sua dignità e alla sua inviolabilità, nel momento stesso in cui le si fa l’oltraggio della indifferenza e della dimenticanza, come si trattasse di un inutile ammennicolo, di una formalità trascurabile di fonte alla sostanza del giudizio che appartiene in fondo solo al giudicante. Se questa è la natura delle cose, se questa è la cultura che il Csm intenderà avallare, l’orizzonte della giustizia si fa davvero cupo. Sappiamo come si sia finora risolto nei suoi diversi gradi di giudizio il caso dei giudici astigiani dei quali, da un lato, ne è stata esclusa la responsabilità e dall’altro la si è giustificata con l’incidenza dello stress cui si era sottoposti, e ne prendiamo atto. Ma lo facciamo assieme a una moltitudine di magistrati che sebbene oppressi da analoghi carichi di lavoro non dimenticano di ascoltare le discussioni e di apprezzare il contributo critico dei difensori, ritenendole garanzia ultima del loro lavoro. Lo facciamo, credo vivamente, assieme a quei molti magistrati che auspicano una giustizia disciplinare diversa amministrata in maniera coerente da un organo davvero terzo: una Alta Corte magari, più attenta ai valori deontologici di chi interpreta correttamente i valori del giusto processo credendo davvero in un processo di parti, consapevole che l’offesa alla funzione difensiva è anche un oltraggio alla stessa giurisdizione. *Presidente Ucpi Turetta e il tribunale del popolo di Francesco Petrelli* L’Unità, 24 settembre 2024 Stupisce che la diffusione di un atto così delicato del processo, come il video di Turetta, possa essere inteso come contributo al diritto di cronaca. C’è un frainteso impulso alla manomissione di ogni frontiera. “In esclusiva il video dell’interrogatorio di Filippo Turetta: il documento mostra, per la prima volta, le dichiarazioni rese dall’imputato il primo dicembre 2023 nel carcere di Verona”. Dopo l’ostensione pubblica dei colloqui in carcere con i propri genitori, con la normalità che oramai caratterizza simili pubblicazioni, la notizia viene diffusa con un malcelato orgoglio. Stupisce che il fatto di diffondere la registrazione dell’interrogatorio di un giovane indagato in vincoli con l’accusa di essersi reso responsabile di un grave fatto di sangue possa sembrare a qualcuno un gesto di civiltà. O che il dare pubblicità a un atto così delicato del processo possa essere inteso come un sano contributo al diritto di cronaca. Così, crudamente, senza porsi il problema di un qualche bilanciamento e - al di là di ciò che la legge penale dice in proposito - senza porsi alcuna domanda sui limiti stessi del diritto all’informazione. Ci governa, invece, in proposito un frainteso impulso alla manomissione di ogni frontiera, una equivocata idea di trasparenza democratica che vorrebbe il popolo immediato (non mediato) fruitore del senso di giustizia e della sua amministrazione. Ne discende sul piano della comunicazione una inevitabile ed indebita esposizione mediatica della vita, dell’anima, del volto dell’accusato. Ciò che nasce come un atto processuale coperto da cautele e da particolari garanzie e ritualità, viene sostanzialmente profanato e brutalmente denudato perché il pubblico televisivo ne faccia quel che vuole. C’è da riflettere su quello che simili eventi significano nella rappresentazione sociale della giustizia e nella conseguente brutale involuzione del sistema. Le più volte evocate “tricoteuses” della rivoluzione, erano almeno spettatrici delle sanguinose esecuzioni giunte all’esito di una condanna, mentre alle moderne “tricoteuses” viene data in pasto l’umiliazione dell’accusato nella fase sorgiva dell’inquisizione. Facendo dell’accusa una condanna. Questo nuovo moderno paradigma sottrae sostanzialmente il processo al suo detentore statuale e lo consegna alle aspettative del popolo, senza mediatori, senza limiti e senza il contributo, ritenuto deformante, di quella casta di avvocati, magistrati e giudici che non hanno alcun diritto di amministrare la giustizia nel nome del popolo. Lo stesso limite posto alla pubblicazione delle ordinanze cautelari è per questo motivo un “bavaglio” all’informazione e un impedimento indebito alla conoscenza di quello stesso pubblico che ha diritto a guardare negli occhi l’indagato in vincoli, di ascoltare le intercettazioni che lo hanno “incastrato” e soprattutto quelle che, pur non essendo prova, ne hanno evidenziato le debolezze caratteriali, gli scadimenti morali, magari le compagnie indebite e i gusti eticamente discutibili. Si tratta, a ben vedere, di una trasparenza indebita e violenta perché unidirezionale in quanto espone alla pubblica gogna chi è ad un tempo privato della libertà e della dignità. Questo genere di pubblicità somiglia molto di più ad una condanna anticipata degli indagati che al soddisfacimento di un diritto della collettività. I limiti alla pubblicabilità degli atti rispondono a diverse esigenze del processo e dell’ordinamento: la tutela delle indagini, la protezione della verginità cognitiva del giudice, la difesa della presunzione di innocenza. Ma si dovrebbe trattare di un limite ben più ampio di quello previsto dalla riforma, che in fondo non fa altro che ripristinare una norma già presente nel nostro codice. Un limite assistito da ben diverse sanzioni da quelle attualmente previste. Non certo detentive, ma tuttavia serie, di natura pecuniaria, reputazionale, disciplinare, amministrativa. Ma quel limite dovrebbe anche rispondere ad un limite culturale più ampio e più profondo. Un limite che dovremmo interiorizzare noi tutti e che dovrebbero far proprio soprattutto coloro che sono detentori dell’informazione, facendone un baluardo di civiltà ed un valore indeclinabile della loro stessa professione. Non vi è infatti alcun diritto che non debba essere bilanciato con altri diritti e con altri principi, e non vi è diritto che non debba retrocedere davanti al diritto al rispetto della dignità della persona, di ogni persona, anche di coloro che si fossero macchiati dei più orrendi delitti. *Presidente Ucpi Processo a Filippo Turetta, escluse dal giudizio le associazioni anti-violenza di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 24 settembre 2024 “Qui non si processano tutti i femminicidi”. La coda all’ingresso per entrare, la folla di microfoni e telecamere messi sotto la bocca di chiunque, la lista di nomi delle persone ammissibili (un solo giornalista per testata) e le proteste di chi è rimasto fuori e invocava il diritto di cronaca. Tutto questo “all’esterno” del processo che si è aperto ieri in Corte d’assise. “Dentro”, cinque associazioni a tutela delle donne che hanno cercato di costituirsi parte civile, ma sono state bocciate così come i due Comuni teatro del massacro di Giulia Cecchettin: Vigonovo, dove la giovane vittima abitava, e Fossò. Che il processo a Filippo Turetta non sia uguale agli altri, anche a tanti femminicidi, è chiaro ed evidente. È il processo di una vicenda simbolo, nonostante i tentativi del presidente della Corte Stefano Manduzio - affiancato a latere dalla collega Francesca Zancan e da otto giudici popolari (5 uomini e 3 donne), di cui due supplenti - di cercare di frenare la pressione mediatica: questo anche evitando la soluzione più semplice, ovvero tenere l’udienza in aula bunker a Mestre, che però rischiava di diventare una sorta di set. Ecco dunque la decisione: in aula solo le telecamere della Rai, quelle di “Un giorno in pretura”, preannunciando dunque che il processo sarà visibile integralmente in tv in futuro. Una decisione sposata sia dall’accusa che, ovviamente, dalla difesa, ma pure dalle vittime. “Un conto è giudicare un reato - dice Gino Cecchettin - un altro prodigarsi perché questo non succeda in un altro modo e questo lo farò con l’associazione”. “Il processo serve ad accertare le responsabilità personali e non a fare i processi ai dati sociali - è invece il parere del procuratore capo di Venezia Bruno Cherchi - questo non è il processo contro il femminicidio, ma nei confronti di Filippo Turetta per i reati che gli sono stati contestati. Il processo non è uno studio sociologico, quello si fa in altre sedi”. Quanto all’assenza dell’imputato, il capo dei pm lagunari fa una riflessione amara: “La pressione mediatica può avergli fatto pensare di non essere presente - ha aggiunto - ma sarebbe grave se una persona che ha diritto a partecipare a un processo pubblico dove deve ascoltare e difendersi non lo facesse per questo”. L’avvocato difensore Giovanni Caruso, prendendosi la paternità della scelta, anche perché si trattava di un’udienza tecnica, è pienamente d’accordo: “Questo processo deve dire se Turetta merita una pena di giustizia e quale - sottolinea - non dev’essere una spettacolarizzazione per farne il vessillo di una battaglia culturale contro la violenza di genere” A questo puntavano invece le associazioni che avevano tentato di essere parti civili ne l processo: Penelope, di cui i legali dei Cecchettin, Stefano Tigani e Nicodemo Gentile, sono referenti e che hanno seguito il caso fin dall’inizio dopo la denuncia di scomparsa; ma anche Differenza Donna, Udi Aps, I care we care e Insieme a Marianna. La Corte però ha osservato che non c’erano i presupposti del legame con il territorio, oltre al fatto che per alcune mancava anche una delibera dell’organismo direttivo. Quando ai Comuni, per Fossò l’avvocato Stefano Marrone aveva sottolineato come per settimane il paese fosse stato conosciuto “per quella macchia di sangue nella zona industriale” e aveva chiesto per questo un danno di 125 mila euro; Vigonovo invece solo 15 mila, anche per il danno ai tanti eventi a tutela delle donne. Ma il collegio giudicante ha ritenuto che sia stata “accidentale” la commissione del delitto in quei luoghi. “Accettiamo la decisione e auspichiamo che l’esclusione di tutti gli enti sia quanto meno funzionale ad una rapida conclusione del processo”, afferma il sindaco di Vigonovo Luca Martello, presente in aula a fianco dell’avvocato Jeannette Baracco. A Mestre la veglia per ricordare Jack: “Non lo userete per campagne d’odio” di Riccardo Bottazzo Il Manifesto, 24 settembre 2024 Arrestato un senza fissa dimora, accusato dell’omicidio. “Con Brugnaro solo repressione e niente servizi sociali per cercare di prevenire”. Il marciapiede dove Jack ha versato il suo sangue ieri era coperto di fiori. Qualcuno ha appeso alla rete una sciarpa della palestra popolare del Rivolta. Dei bambini hanno lasciato dei disegni con grossi cuori rossi. Altri hanno scritto dei pensierini. Il parroco della chiesa vicina, nel pomeriggio, ha radunato i fedeli per una veglia di preghiera. Non è ancora stato stabilito il giorno del funerale perché il corpo del giovane rimane ancora a disposizione degli inquirenti. Identificato invece il presunto omicida fermato dopo il fatto: Serghiei Merjievschii, un 38enne moldavo senza fissa dimora e dipendente da sostanze. Sarebbe stato lui a uccidere Jack e a ferire Sebastiano, intervenuti per difendere una donna da una aggressione in pieno centro di Mestre. Sono proprio i residenti di Mestre a voler ricordare in queste ore il sacrificio del giovane attivista del centro sociale Rivolta. Persone che subiscono tutti i giorni, sulla loro pelle, il degrado in cui la città è stata fatta precipitare. Ho incrociato una anziana signora di Marghera che ha deposto un mazzo di girasoli: “Tutti scrivono male dei ragazzi dei centri sociali ma io che vivo vicino a piazzale Concordia so che sono gli unici, con i dottori dell’ambulatorio che Emergency ha aperto proprio vicino al Rivolta, che mi hanno aiutata quando ho avuto bisogno”. La generosità, Jack, l’aveva cucita addosso come i suoi tatuaggi. Un anno fa, durante l’alluvione in Romagna, era partito assieme a tante altre compagne e compagni dei centri sociali del nord est per dare soccorso a chi ne avesse bisogno. “Gli angeli del fango”, li avevano chiamati i giornali. Magari su quelle stesse pagine che li etichetta come “zecche rosse” o peggio, quando manifestano contro i cambiamenti climatici. Come se la generosità fosse una dote da elargire caritatevolmente solo in determinate occasioni, slegata da qualsiasi aspirazione di giustizia sociale. Una giustizia che, Jack lo sapeva bene, è per tutti o per nessuno, al di là del colore della pelle e della nazionalità. “Non userete Jack per promuovere campagne di odio” hanno scritto su uno striscione gli attivisti del Rivolta. Ma nei social la macchina del fango si è messa in moto. “Ucciso da uno di quei clandestini che generosamente aiutava” ironizzano tanti che, al contrario di Jack, si sarebbero probabilmente girati dall’altra parte sentendo le urla della donna. Ma a uccidere Jack non è stata la sua generosità ma una mano criminale. “Non dobbiamo permettere che questa tragedia sia usata in maniera strumentale da quanti seminano odio e sostengono che l’unica soluzione sia la violenza e la repressione. Lo dobbiamo a Jack. Perché lui lottava contro le ingiustizie, per un mondo più giusto e senza discriminazioni” afferma Vittoria Scarpa, una delle portavoce del Rivolta e una delle prime a essere accorse, nella notte di venerdì, nel luogo della tragedia per tentare di soccorre i due ragazzi ancor prima dell’ambulanza. “Il prefetto dice che si tratta solo di un caso isolato, che tutto è sotto controllo. Si vede che non abita su queste strade! Quello che è accaduto non è stato un caso ma ci sono precise responsabilità politiche. Sono nove anni, dall’arrivo del sindaco Luigi Brugnaro, che straparlano di sicurezza ed ecco a cosa hanno portato le politiche di repressione. Fatevi un giro per via Piave o per corso del Popolo che sono diventate le strade dello spaccio per tutta la Regione! Li vedi che si trascinano, senza un posto per dormire o per mangiare, che prendono calci in pancia da tutti. È stata creata una situazione esplosiva che trova negli episodi di violenza come quelli che hanno ucciso Jack uno sfogo persino ovvio. Una volta c’erano operatori di strada che conoscevano queste persone, cercavano di andare incontro ai loro bisogni elementari e a indirizzarli ai Sert o ai servizi. Erano loro i primi a individuare i criminali e a segnalarli. Ora sono tutti criminali e, in cambio dei servizi sociali tagliati, abbiamo il record dei morti per droga”. Quanto paventato da Vittoria Scarpa si sta già concretizzando. Il presidente della Regione Zaia ha invocato la presenza dell’esercito. Presenza che per altro c’è già. L’assessore di Venezia alla Coesione sociale, Simone Venturini, ha auspicato l’introduzione di leggi speciali repressive. Su richiesta delle opposizioni, il sindaco Brugnaro ha concesso il lutto cittadino per il funerale, riservandosi dopo il lutto di “esprimere le mie convinzioni”. Convinzioni che non saranno certo quelle di Jack. Un ragazzo che guardava in faccia la realtà, chiedeva giustizia e non odio e non girava la testa dall’altra parte. Assolto dopo dieci anni (e dieci mesi ai domiciliari) dai reati di stalking e maltrattamenti di Ermes Antonucci Il Foglio, 24 settembre 2024 Un uomo di 45 anni di un paese del Cosentino è stato assolto dopo dieci anni di calvario giudiziario. Un caso che ci ricorda che la malagiustizia può colpire chiunque, e non solo i cosiddetti “colletti bianchi” come qualcuno sostiene. Assolto dopo dieci anni dai reati di maltrattamenti in famiglia e stalking, accuse che gli sono costate dieci mesi di arresti domiciliari, oltre all’impossibilità di incontrare per anni il proprio figlio. È quanto accaduto a un 45enne del Cosentino, assolto giovedì scorso dal tribunale di Paola (Cosenza). L’ennesimo caso incredibile di malagiustizia italiana, reso ancor più grave dalla lentezza intollerabile del nostro sistema processuale, in grado di tenere alla sbarra persone innocenti per anni, con tutti gli stravolgimenti che questo comporta sulla loro vita personale, professionale e sociale. La vicenda in questione ha preso avvio nel 2014 con una denuncia di stalking nei confronti dell’uomo da parte della sua ex moglie. Il procedimento si è aggravato nel 2017 con l’accusa di maltrattamenti in famiglia e nel 2018 con un’altra denuncia per stalking. “L’artefice di queste accuse è stata la suocera, cioè la madre dell’ex moglie, che ha cercato di ostacolare in tutti i modi i rapporti fra padre e figlio”, spiega l’avvocato Anna Virga, che ha difeso l’imputato. Imputato che, nel frattempo, a causa delle accuse ha dovuto subire prima un divieto di avvicinamento all’ex moglie, poi addirittura la misura degli arresti domiciliari, durati dieci mesi. La vicenda giudiziaria è durata la bellezza di dieci anni e si è conclusa solo giovedì scorso, con l’assoluzione piena nei confronti dell’uomo, con la formula “perché il fatto non sussiste”. Non solo, il tribunale di Paola ha disposto anche la trasmissione degli atti in procura per due parti civili (l’ex moglie e la suocera) e per un testimone per valutare la sussistenza di illeciti penali da parte loro. “È stata una battaglia non semplice. Nel corso del processo, però, siamo riusciti a far emergere tutta l’inattendibilità della persona offesa e la mancanza di riscontri oggettivi e soggettivi alle accuse”, racconta l’avvocato Virga. “Ho sempre creduto in questa vicenda e sono rimasta ovviamente soddisfatta per l’esito. A giudicare è stata uno dei migliori magistrati del distretto, la dottoressa Roberta Carotenuto, giudice di grande esperienza che ha saputo cogliere l’innocenza di quest’uomo”. “Il mio assistito è stato vessato in tutto e per tutto. Potremmo dire che chi ha subito un’azione persecutoria sia stato l’imputato e non le persone offese”, prosegue l’avvocato Virga. L’uomo intanto ha dovuto subire, oltre alle misure cautelari, tutte le conseguenze legate a casi incentrati su reati accompagnati da particolare riprovazione sociale. “Il paese dove vive è piccolo, tutti sapevano della vicenda. È chiaro che questo determina un clima di diffidenza nei confronti di chi viene accusato”, racconta Virga. La vicenda, oltre a ricordarci che la malagiustizia può colpire chiunque, e non solo i cosiddetti “colletti bianchi” come qualcuno sostiene, dovrebbe anche indurre alcune riflessioni sull’uso degli strumenti cautelari (che il ministro Nordio ha detto di voler riformare) nei casi di presunto stalking o maltrattamenti. Il timore dei femminicidi spinge infatti ormai la magistratura ad adottare misure cautelari, come gli arresti domiciliari, in maniera assai frequente, nonostante i soggetti coinvolti siano del tutto estranei alle accuse. La cautela in questi casi è giusta, ma non può trasformarsi in una condanna preventiva. Foggia. Torture nel carcere, chiuse le indagini. A rischio processo 10 agenti, tre medici e una psicologa immediato.net, 24 settembre 2024 Notificato l’avviso a poliziotti penitenziari e camici bianchi. Tutto partì dalla lettera di un detenuto con il racconto delle violenze. Chiuse le indagini sul caso delle presunte torture nel carcere di Foggia. Il provvedimento, solitamente, anticipa la richiesta di rinvio a giudizio. Sotto indagine 10 agenti della polizia penitenziaria, tre medici, una psicologa. Il blitz di carabinieri e polizia penitenziaria risale al marzo scorso: gli agenti finirono ai domiciliari (poi sono tornati liberi), alcuni sospesi dal servizio. Le accuse vanno dalla tortura all’abuso di autorità fino a concussione, tentata concussione, falsità ideologiche, omissioni d’atto d’ufficio, soppressione atti, calunnia, favoreggiamento, danneggiamento e omissione di referto. Indagati medici e psicologa, ma per loro fu rigettata la richiesta di misura cautelare. I medici avrebbero attestato falsamente di aver visitato i ristretti picchiati mentre la psicologa, pur avendo appreso dal detenuto D.B. che le vittime erano state aggredite da alcuni poliziotti penitenziari, avrebbe omesso di attestare di aver ricevuto tali dichiarazioni e, pur avendo appreso nell’esercizio della sua professione sanitaria, dei delitti contestati agli agenti arresti, avrebbe omesso di riferirne alle autorità. La donna, interpellata dal dirigente della Penitenziaria sulle vicende di violenza, gli avrebbe inoltre riferito di non sapere nulla dell’accaduto. Tutto sarebbe partito il 17 agosto dello scorso anno quando al tribunale foggiano giunse la missiva del detenuto D.B., lo stesso che aveva parlato dei pestaggi alla psicologa, con un atto di querela nel quale si diceva pronto a testimoniare in merito al “massacro e al sanguinoso pestaggio che hanno cagionato gravissimi danni alla salute dei detenuti G.R. e F.M.”. Nonostante il mittente fosse D.B., la lettera conteneva un manoscritto di G.R. con scritto in oggetto: “Querela contro l’ispettore (nome Di Pasqua), il brigadiere del turno e altri agenti, tutti appartenenti al corpo della polizia penitenziaria di Foggia che il giorno 11 agosto 2023 mi hanno torturato violentemente con calci e pugni, con pestaggio sanguinoso”. Le violenze sarebbero durate dalle 8:30 alle 9:15: “Ci sono le telecamere - scrisse nella missiva -. La stessa cosa (lo stesso pestaggio sanguinoso) hanno fatto contemporaneamente con il mio compagno di stanza. L’ho visto sanguinare e massacrato”. Subito venne sentito dal pm al quale G.R. raccontò le violenze. “Di Pasqua mi colpì con uno schiaffo che mi fece volare gli occhiali sotto il tavolo. Poi mi buttarono sul letto e mi colpirono in testa e nel costato destro. Il brigadiere quello biondino con il suo ginocchio mi colpì forte due tre volte nel costato destro perché lui sta insieme all’ispettrice Santacroce dinanzi la quale io mi autolesionai il giorno prima. Questo fatto che quei due stanno insieme me lo disse l’appuntato, quello con gli occhi celesti basso che lavora all’ufficio di fronte al Sert. Quello mi disse che il brigadiere ce l’aveva con me perché io avevo offeso l’ispettrice Santacroce tagliandomi in sua presenza. Mi ricordo che mi fecero firmare delle dichiarazioni con le quali io assicuravo che non mi avevano fatto niente. Mi dissero ‘firma perché altrimenti te ne vai al carcere di Perugia’. Di Pasqua mi disse pure il comandante non c’è più, non verrà più e avrebbe comandato sempre lui. E io lì mi spaventai. lo mi spaventai sia del trasferimento a Perugia sia del fatto che non avrei potuto parlare più con il comandante, allora firmai”. E infine: “Di Pasqua mi disse che se lui avesse raccontato ai detenuti foggiani che mi ero tagliato davanti all’ispettrice Santacroce, mi avrebbe fatto picchiare dai detenuti foggiani. Mi disse pure che lui si fa volere bene dalla mafia di Foggia e non perché fa entrare i cellulari e il fumo ma perché si comporta da uomo e nessuno lo tocca”. Roma. A “Itaca 2024” tutti d’accordo: per le carceri si deve fare di più garantedetenutilazio.it, 24 settembre 2024 Incontro dibattito a Formello con il viceministro Sisto, il Garante Anastasìa, la deputata Matone, il presidente dell’associazione Iismas, Morrone. Tutti d’accordo su un punto: per le carceri si può fare di più, nel corso dell’incontro - dibattito sul tema delle carceri, al quale è intervenuto il Garante Anastasìa, che si è tenuto a Formello domenica 22 settembre 2024, nel corso di Itaca 2024, la manifestazione, promossa dal vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio Giuseppe Emanuele Cangemi. A evocare la nota canzone di Morandi, Tozzi, Ruggeri “Si può dare di più” è stato il viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, per sottolineare che “il tanto criticato decreto carceri non è un decreto conclusivo, bensì è un decreto che apre il problema”. Sul “come” si debba fare di più, naturalmente le posizioni sono differenti. Sisto si è detto contrario a qualsiasi misura automatica di liberazione anticipata senza una valutazione del magistrato, mentre il Garante Anastasìa ha ribadito anche in questa sede la necessità di un provvedimento di clemenza deflattivo, volto a ridurre significativamente il sovraffollamento nelle carceri, correlato a un numero di suicidi senza precedenti. “Qui e ora bisogna fare di più - ha detto Anastasìa - Credo che alla fine si debbano mettere in conto anche provvedimenti straordinari, come è avvenuto nella storia italiana degli ultimi vent’anni, perché per poter assicurare una pena dignitosa e per poter assicurare un percorso di reinserimento ai condannati per fatti più gravi che hanno una storia e una pena più lunga da scontare, il sistema non può reggere una popolazione detenuta che supera le 60 mila unità. Il tema dell’indulto finora è stato scansato ma prima o poi torna e bisogna saperlo gestire, come è avvenuto in tante occasioni. Io credo che tutti coloro che si occupano di queste cose e che hanno responsabilità istituzionali debbono avere il coraggio di di affrontarlo e che questo non possa essere un argomento da escludere dal dibattito”. Oltre al Garante Anastasìa e il viceministro Sisto, sono intervenuti Simonetta Matone, deputato Lega e Aldo Morrone, presidente dell’Istituto internazionale scienze mediche antropologiche e sociali (Iismas). Ha moderato i lavori Federico Vespa, direttore della rivista realizzata dai detenuti di Rebibbia Nuovo complesso, “Dietro il Cancello”. Monza. C’è MonzaIn, come partecipare alla mostra mercato in carcere ilcittadinomb.it, 24 settembre 2024 La casa circondariale di Monza apre i cancelli (per la prima volta) ai cittadini con la mostra mercato MonzaIn, promossa dall’organizzazione sociale Catena in Movimento in collaborazione con la direzione della casa circondariale di via Sanquirico e con il patrocinio del ministero della Giustizia, la Provincia e il Comune di Monza. L’appuntamento è per sabato 28 settembre, a partire dalle 10. L’accesso è libero ma è a numero chiuso per motivi organizzativi e la registrazione è obbligatoria. Sono previsti tre ingressi: dalle 10 alle 12.30, dalle 13 alle 15.30 e dalle 16 alle 18.30. Per partecipare all’iniziativa occorre iscriversi entro mercoledì 25 settembre tramite il sito catenainmovimento.com. “L’evento ha l’obiettivo di promuovere l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti, avvicinando la cittadinanza alla realtà carceraria attraverso il lavoro artigianale”, spiegano i promotori di Catena in Movimento. All’evento hanno partecipato attivamente una settantina di detenuti del carcere di Monza, impegnati da mesi nella preparazione dei manufatti artigianali realizzati nei laboratori interni, sotto il coordinamento di Catena in Movimento. I visitatori troveranno prodotti di sartoria, falegnameria, accessori e bigiotteria ma anche borse zaini e portacarte in pelle. Un’occasione per conoscere non solo il lavoro all’interno della casa circondariale ma anche le storie di chi sta scontando la pena attraverso percorsi di rieducazione che passano anche (e soprattutto) attraverso il lavoro. “La mostra fungerà da ponte per promuovere il riscatto personale dei detenuti lavoratori, proprio grazie al percorso di trattamento avviato dal carcere di Monza”, continua Cristian Loor Loor, tra i fondatori della cooperativa sociale Catena in Movimento. Un ringraziamento nell’organizzazione di questo debutto monzese della mostra mercato promossa da Catena in Movimento va alla direttrice Cosima Buccoliero, “che ha svolto un lavoro cruciale nell’avvio dei laboratori e nella supervisione delle attività, coinvolgendo un gran numero di detenuti a partecipare ai progetti”. C’è MonzaIn, il ricavato dalla vendita e la Poetica Bag - Il ricavato della vendita dei manufatti esposti verrà destinato alla creazione di nuovi posti di lavoro per i detenuti e nell’acquisto di beni di uso comune all’interno del carcere. In occasione dell’evento di sabato 28 settembre sarà presentata anche Poetica bag, la borsa ideata da Antonetta Carrabs, realizzata nei laboratori di Catena in Movimento. Una capsule collection di soli venti pezzi (già sold out) nata dai versi di Carrabs, stampati all’interno della fodera della borsa, e dalla creatività artigianale di Catena in Movimento. Bari. Nel carcere di Borgo San Nicola, uno spettacolo teatrale voluto dalla Garante comune.lecce.it, 24 settembre 2024 Martedì 24 settembre, alle ore 15.00, nel Teatro della Casa Circondariale di Borgo San Nicola di Lecce, l’attrice brindisina Sara Bevilacqua, darà corpo, anima e voce alla protagonista del lavoro teatrale “Stoc ddò”, scritto da Osvaldo Capraro, che racconta la storia tragicamente vera della madre di Michele Fazio, vittima innocente di mafia. Sarà presente Giuseppe Fazio padre di Michele. La rappresentazione sarà seguita da un gruppo di detenuti e detenute per i quali è stata pensata, alla presenza di un ristretto pubblico esterno. Lo spettacolo, fortemente voluto dalla Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Lecce, Prof.ssa Maria Mancarella, si realizza grazie al generoso contributo dei Club Lions Copertino Salento, Lupiae Mediterraneum, Specialty Salento Zero barriere, Lecce Rudiae, Soroptmist International Club Lecce e alla collaborazione della Direttrice del carcere dott.ssa Maria Teresa Susca, della responsabile dell’area trattamentale, dott.ssa Cinzia Conte e alla disponibilità della Polizia penitenziaria. “Il carcere - sottolinea la Prof.ssa Maria Mancarella - non può rimanere un’entità chiusa, un mondo separato dal resto della società e tutti/e noi sappiamo quanto la cultura sia uno strumento potente di ri-generazione, capace di smontare pregiudizi, delegittimare tante paure diffuse e creare un dialogo tra dentro e fuori. Il teatro è un vero e proprio strumento di conoscenza del reale, Ciò che viene rappresentato è il reale umano, l’azione dell’essere umano, rappresentata da angolature diverse. Può e deve essere un’occasione per giungere a una maggiore consapevolezza della propria storia e prendere coscienza del suo significato. Far entrare la bellezza in carcere, attraverso il teatro, significa dare un importante contributo al cambiamento, aiutando le persone detenute a intraprendere un percorso di vita diverso rispetto a quello seguito in passato”. San Gimignano (Si). A Ranza rotola il pallone. La partita molto speciale dei calciatori-detenuti di Romano Francardelli La Nazione, 24 settembre 2024 Sotto il muro di cinta del penitenziario di San Gimignano si è disputato un quadrangolare con tanto di tifosi spettatori ai lati del campo e alle finestre. A Ranza rotola il pallone. La partita molto speciale dei calciatori-detenuti. Dal calcio al rugby sono le nuove realtà culturali-sportive della comunità del carcere di Ranza. Dopo l’annuncio ufficiale dalla sala consiliare del Comune della palla ovale con le maggiori autorità regionali e nazionali e istituzionali della nuova disciplina, in questi giorni sul rettangolo sotto il muro di cinta si sono confrontate quattro squadre nel torneo di calcio “partita applaudita speciale”. Sul campo “dell’ora d’aria” un quadrangolare derby di calciatori-detenuti con tanto di tifosi spettatori ai lati del campo o dalle finestre delle celle dei padiglioni e del personale della Casa di Reclusione. Una festa dello sport che da Ranza avanza con il piede giusto. E come si conviene in ogni torneo il fischietto ufficiale del torneo il direttore Signor Alberto Gennai della sezione Aia di Siena. Con una finale finita ai calci di rigore dopo il 2-2 fra gli undici 3a2b vs 2a1a. Dal dischetto sono stai più precisi i ragazzi della 3a2b. Ai ‘cugini’ il secondo posto. Un evento di “valenza sociale e di grande impatto emotivo”. La riflessione della ‘#lapartitaapplaudita’ proposta con un lavoro di alcuni mesi per impegno e volontà messo in (scena) campo dall’Associazione ‘Calcio Fair Play Toscana’ del calcio giovanile e non solo di un “contesto diverso dal solito che ha assunto e presentato uno straordinario significato di socialità”. E ancora “per una volta tanto, non sono stati genitori dei calciatori ma una tifoseria composta educata, attenta e mai sopra le righe fra tifosi detenuti e persone dell’istituto”. Da applausi. E ancora “lo scopo di questo tipo di gare è diffondere un messaggio lontano dalla violenza, dicono gli organizzatori, anche di tipo verbale per aver portato il format della partita applaudita dentro l’istituto di Ranza è una grandissima soddisfazione per l’associazione Calcio Fair Play Toscana, con la collaborazione dei responsabili del progetto della casa di reclusione dal ‘Cr sangimignanesè, la Lega Nazionale Dilettanti Toscana e la sezione AIA di Siena”. Grazie. Ancora applausi. Cresce l’onda No Ddl. “Stop alla repressione”. In piazza anche l’Anpi di Giuliano Santoro Il Manifesto, 24 settembre 2024 Il testo del provvedimento da oggi al Senato, dove mercoledì manifesteranno sindacati, associazioni e movimenti sociali. Diversi appuntamenti davanti alle prefetture: a Genova, in Puglia e a Milano. Il Ddl 1660 sulla sicurezza è arrivato al Senato, dove comincerà il suo cammino in commissione. Oggi gli uffici di presidenza stabiliranno il calendario, con la destra che continua a ribadire di voler approvare il provvedimento con la massima rapidità. A costo di fare la gimkana tra le date. Questa settimana, ad esempio, i parlamentari saranno sicuramente impegnati, tra le altre cose, nella seduta comune che serve a completare il plenum della corte costituzionale. Nel frattempo, le mobilitazioni si allargano e crescono di numero in tutto il paese. Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi Sinistra e +Europa hanno aderito alla manifestazione indetta nei giorni scorsi da Cgil e Uil per mercoledì alle 16.30 proprio davanti a Palazzo Madama (la Cisl ha lanciato un suo appuntamento, per il 2 ottobre a piazza Vidoni). Ieri è arrivata anche l’adesione dell’Anpi. “Il Ddl è una summa repressiva che criminalizza le lotte sociali, con particolare accanimento verso lavoratrici e lavoratori, ambientalisti, migranti, detenuti, madri detenute, chiunque protesti contro le scelte del governo - affermano dalla segreteria nazionale dell’associazione - Si vuole condizionare la libertà di espressione e impedire il pacifico conflitto sociale che è un cardine della democrazia costituzionale. La legge è un tassello evidente di un disegno più generale teso a stravolgere lo stato di diritto. Non deve passare al Senato. Per questo l’Anpi nazionale sarà in piazza”. E anche l’Arci ha ribadito il sostegno: “Ci opporremo culturalmente e politicamente con tutti i mezzi a disposizione in rete con i sindacati e le tante organizzazioni e movimenti che si stanno esprimendo in queste ore - dicono - Almeno fino a che ci permetteranno di farlo”. Ci saranno anche manifestazioni delocalizzate. Se la Cgil l’ha annunciata davanti alla prefettura di Genova (doveva essere ieri, ma per il maltempo tutto è spostato a quest’oggi alle 18), si scenderà in piazza anche in Puglia e a Milano. “Si approvano norme di impronta securitaria che per un sit-in di lavoratori davanti a una fabbrica o al ministero rischia di aprire loro le porte del carcere - spiegano la segretaria generale della Cgil Puglia, Gigia Bucci, e il segretario generale della Uil Puglia, Gianni Ricci - Si condannano pratiche non violente di dissenso, si introducono ulteriori misure che criminalizzano i migranti”. In ragione di tutto ciò, proseguono Bucci e Ricci, “abbiamo deciso di amplificare la protesta e manifestare il nostro fermo dissenso anche a livello territoriale. Terremo presidi davanti le prefetture in tutte le province riaffermando un principio, che di fronte a un crescente disagio sociale non sono quelle penali le risposte che aumentano la sicurezza dei cittadini, ma investimenti sul lavoro, le tutele, i salari. Ma da questo orecchio il governo delle destre non ci sente”. Scenderanno in piazza anche a Palermo, “per contrastare un Ddl pericoloso per la democrazia”, secondo le parole del segretario generale cittadino Cgil Mario Ridulfo. In nome del “No alla repressione” diversi partiti e associazioni si troveranno in presidio mercoledì dalle 18 davanti alla prefettura di Milano. “Serve oggi più che mai una grande mobilitazione democratica e antifascista, per la democrazia. Contro la vergogna del ddl sicurezza ‘repressionè - spiega il segretario metropolitano del Pd Alessandro Capelli. Il quale parla di un “governo vittimista” e di una destra “che ha nel suo Dna la compressione delle libertà e degli spazi di partecipazione e democrazia”. Da Avs anche Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli hanno espresso adesione alle proteste. “Mi sarei accontentato da questo governo e da questi ministri di dichiararsi antifascisti, mi sarebbe bastato - dice il segretario di Si - Ma non ci sono ancora riusciti perché non hanno rotto quei legami con il passato, e perché la loro cultura è così intrisa di autoritarismo che appena hanno la possibilità quell”autoritarismo te lo riversano addosso”. Intanto, la petizione online lanciata pochi giorni fa su Action Network per fermare il Ddl (definito “una legge ideologica, fortemente voluta dalla Lega e da Salvini, con l’obiettivo dichiarato di colpire le persone che protestano contro le opere e le misure attuate dal governo”) ha già superato le sessantamila adesioni. Crescono anche le adesioni per l’assemblea convocata per sabato 28 a Roma (a Casetta rossa, a Garbatella, dalle 15.30) da diversi esponenti e organizzazioni della società civile. Ddl Sicurezza, contro i migranti l’apartheid della comunicazione di Riccardo De Vito Il Manifesto, 24 settembre 2024 Nel Ddl in approvazione, l’art. 32 proibisce di stipulare contratti di telefonia mobile con cittadini di Paesi extra-Ue se non esibiscono il regolare soggiorno in Italia. Siamo alla costrizione alla solitudine e all’attacco diretto a un diritto intimo, profondo di ogni persona. Negarlo per legge ad alcune persone, vuol dire porle fuori dall’umanità. Ci sono oggetti - il termine va inteso nella ricchezza semantica che gli attribuiscono le scienze sociali e il sapere psicoanalitico - che si fa fatica a separare dalla pensabilità della donna e dell’uomo contemporaneo. Il telefono ne è il simbolo per eccellenza. Uno slogan pubblicitario della Sip, negli anni Settanta, recitava più o meno così: “Non sei mai solo quando sei vicino a un telefono”. Il senso di quella frase oggi vale ancora di più, perché gli smartphone non sono soltanto vicini a noi, ma fanno quasi parte di noi. L’accesso immediato ai social e l’affaccio sempre a portata di mano sulla rete definiscono e ri-definiscono in maniera incessante le relazioni con gli altri e il rapporto con il mondo. Se prima, senza il telefono, potevamo essere più soli, oggi, senza lo smartphone, possiamo addirittura sentirci abbandonati (con tutto quanto c’è di patologico in questa sorta di dipendenza). La decisiva importanza di questi dispositivi è stata colta dalla psicoanalisi, che ne ha messo in luce il valore di oggetto in grado di modellare l’esperienza psicosociale. Anche il pensiero giuridico è stato costretto a ripensare ai concetti di comunicazione, al fine di verificare l’estensione della libertà di corrispondenza, alle nostre latitudini presidiata dall’art. 15 della Costituzione. La Corte costituzionale, sulla scia dei suoi precedenti e delle pronunce delle Corti internazionali, ha di recente precisato che la garanzia della libertà della corrispondenza - con tutti i suoi corollari - si estende a sms, messaggistica WhatsApp e “ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e tecnologici, ignoti al momento del varo della Corte costituzionale” (170 del 2023). Si potrebbe dire, pur con il dispiacere di constatare il trionfo del monopolio consumistico sulle vite umane, che è difficile immaginare la vita senza lo smartphone. Non a caso, il digital divide, anche sotto questo profilo, è diventato un problema della democrazia. I ragionamenti appena svolti consentono di percepire con immediatezza il carattere odioso di una norma contenuta nel DDL Sicurezza (1660) in corso di approvazione in Parlamento. L’art. 32 stabilisce che non possono essere stipulati contratti per la telefonia mobile (pre-pagati o in abbonamento) con i cittadini di Paesi fuori dell’Unione europea senza esibizione del titolo di regolare soggiorno in Italia. Guai all’esercente che dovesse impietosirsi: rischia la chiusura del negozio da cinque a trenta giorni. Inutile dire che il divieto colpisce tutte quelle persone che siamo abituati a classificare sotto l’etichetta riduttiva di migranti. Sono loro a non poter esibire il permesso di soggiorno. I richiedenti asilo, ad esempio, sono costretti a un iter lunghissimo per ottenere il titolo, dal momento che le loro domande vengono registrate anche ad un anno di distanza da quando mettono piede nel nostro Paese. Nel frattempo, sono costretti a ciondolare in quei non-luoghi che sono i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), prede di un’alienazione che è l’esatto contrario dell’accoglienza. Ora, con l’entrata in vigore di questa disposizione, quelle persone sono private anche del telefono, della possibilità di comunicare con un genitore, un fratello o una sorella, un figlio, un coniuge, un amore, un amico. Depauperati anche delle opportunità di entrare in relazione, attraverso la rete, con il mondo di provenienza e con quello di destinazione. Sottrarre alle straniere e agli stranieri senza titolo di soggiorno la facoltà di utilizzare un telefono mobile - anche dei più rudimentali -, visto anche il deserto dei servizi pubblici, significa impedire quasi del tutto la comunicazione con l’esterno. Per tornare agli anni Settanta, è come se, fuori dalle cabine telefoniche di quel tempo, si fosse appeso il disegno di uno straniero con accanto la scritta: “Io non posso entrare”. Inutile dire che, al cospetto della pressione del bisogno di comunicare, tantissime saranno le scorciatoie illegali a cui le persone straniere saranno costrette, dal mercato nero al furto. Solo con un certo senso di vergogna, tuttavia, si può parlare di questa eterogenesi dei fini, di questa conseguenza largamente prevedibile che, però, interessa più la sicurezza del nostro ordine pubblico che la loro sicurezza esistenziale. Il vero dramma, in modo quasi spietato, è costituito dalla costrizione alla solitudine e dall’attacco diretto a un diritto intimo, profondo, caratterizzante ogni persona e il suo progetto di esistenza. Abbiamo visto che la comunicazione, anche con i nuovi mezzi offerti dalla tecnologia, è necessaria e intrinseca all’essere umano. Negarla per legge ad alcune persone, significa porle fuori dal perimetro dell’umanità. Detto in maniere descrittiva, senza alcuna illazione sulle intenzioni del legislatore, la norma del DDL Sicurezza, questa volta, pare proprio il tassello di una nuova strategia di “persecuzione dei diritti” degli stranieri, con tutto il plumbeo carico di ricordi e dolore che questa espressione si porta dietro. La salvezza di miti e identità fittizie - la patria, in primo luogo -, in Italia come in Europa, sembra passare di nuovo attraverso la distruzione delle esistenze che non sono la nostra. Migranti. Il decreto flussi non piace a nessuno. Tutte le modifiche sul tavolo di Giansandro Merli Il Manifesto, 24 settembre 2024 Lavoratori stranieri: ieri incontro Mantovano-sindacati. Per il governo i problemi sono solo procedurali. La Cgil: “Occorre un cambio complessivo delle politiche migratorie”. Su una cosa sono tutti d’accordo: il decreto flussi non funziona. Lo dice il governo, lo dicono le parti datoriali e i sindacati. Altrettanto potrebbero testimoniare migliaia di lavoratori migranti. Ieri presso la presidenza del Consiglio dei ministri il sottosegretario Alfredo Mantovano ha incontrato le organizzazioni dei lavoratori per discutere delle possibili modifiche. Lo scorso anno, per la prima volta, lo strumento che disciplina l’ingresso regolare della forza lavoro straniera è stato programmato su base triennale, fino al 2025, con la cifra record di 450mila posti. Nei mesi seguenti sono state segnalate irregolarità nel meccanismo, che secondo esponenti governativi sarebbe utilizzato dalla criminalità organizzata in un sistema di compravendita degli accessi al territorio. A tale proposito a giugno la premier Giorgia Meloni ha depositato un esposto alla procura nazionale antimafia. È sul piano delle procedure che la maggioranza vuole intervenire. “In un prossimo Consiglio dei ministri intendiamo portare all’attenzione dell’intero governo, e quindi del Parlamento, dei correttivi rispetto alle anomalie riscontrate”, ha dichiarato Mantovano. Le misure al vaglio sono di natura tecnica: precompilazione delle domande prima del click day - la giornata in cui i datori di lavoro fanno richiesta, in una lotteria dove vince chi arriva prima, di nulla osta per un certo numero di lavoratori -, incrocio delle banche dati per rendere più efficienti i controlli, semplificazioni burocratiche. Proprio i click day sono finiti al centro di critiche incrociate e nel futuro potrebbero essere spalmati su più date o anche aboliti (ma secondo Il Sole 24 Ore non avverrà prima del 2026). Mantovano ritiene che le richieste di lavoratori stranieri siano “manifestamente eccedenti rispetto alla capacità di assorbimento del tessuto imprenditoriale dei territori stessi”. Un’idea in controtendenza rispetto alle posizioni di molte associazioni datoriali, che negli anni scorsi hanno chiesto ripetutamente di aumentare le quote disponibili, e alla scarsità di manodopera in diversi settori produttivi. La Coldiretti vuole una riforma del sistema che eviti gli abusi ma soprattutto garantisca la certezza dei tempi: “capita spesso, infatti, che il lavoratore arrivi quando l’attività di raccolta per le quali era stato chiamato sono già terminate”. La principale organizzazione di rappresentanza del comparto agricolo chiede il superamento delle quote per le conversioni da permesso stagionale a tempo determinato o indeterminato in modo da avere a disposizione una forza lavoro più stabile ed evitare di dover cercare nuovi stagionali ogni anno. Per la Cgil, invece, i problemi non si limitano agli aspetti procedurali ed è ormai necessaria una trasformazione più profonda della materia. “Le modifiche alla disciplina dell’ingresso per lavoro dei cittadini stranieri in Italia da sole non bastano, occorre un cambio complessivo delle politiche migratorie, a partire dall’abolizione della legge Bossi-Fini. Serve una riforma d’insieme, abbandonando un approccio tutto incentrato sull’ordine pubblico, la sicurezza e la repressione, come quella che il governo continua a praticare”, ha affermato ieri la segretaria confederale del sindacato Maria Grazia Gabrielli. La Cgil avanza proposte precise: sanzioni per le aziende che fanno richiesta di nulla osta ma poi non attivano il contratto di lavoro, un permesso di soggiorno per attesa occupazione e la reintroduzione della figura dello sponsor, ossia un soggetto individuale o collettivo che si fa garante della persona che entra per cercare un impiego. Soprattutto, afferma Gabrielli, serve una procedura di regolarizzazione delle persone che non hanno un titolo valido di soggiorno e una forma di protezione speciale dei lavoratori che denunciano situazioni di irregolarità e sfruttamento. Migranti. I piani albanesi di Meloni e la propaganda di Starmer di Lea Ypi* Il Manifesto, 24 settembre 2024 Quando l’argomento del “dobbiamo essere pragmatici” è il primo a essere messo sul tavolo, i principi - memoria, responsabilità - sono già stati sospesi. Una fredda sera d’inverno del 1999, aspettavo un treno alla stazione Termini di Roma quando notai un’anziana signora in affanno con le sue valigie e mi offrii di aiutarla. “Signorina - la sua voce tremava leggermente - Per fortuna ci sono ancora giovani come lei. Ero molto preoccupata. Questa stazione è piena di scippatori albanesi. È un’invasione”. All’epoca non ebbi il coraggio di dirle che ero albanese. Una di quelle fortunate, una studentessa con una borsa di studio, a differenza dei miei concittadini che lavoravano come addetti alle pulizie, muratori, badanti e lavoratrici del sesso. In quei giorni facevamo notizia in Italia. A volte come una nazione di contrabbandieri, sfruttatori e ladri; altre volte come individui falliti, socializzati sotto un sistema diverso, che faticavano a integrarsi; e altre volte ancora come persone corrotte e pigre, incapaci di applicare nel proprio paese la formula del successo che avevano visto trasmessa oltre l’Adriatico sui canali televisivi di Silvio Berlusconi. “Invasori” era solo una delle tante etichette. Anche se, presa letteralmente, l’unica invasione nella storia tra Italia e Albania, era avvenuta al contrario. Accadde il 7 aprile 1939, quando le truppe di Mussolini sbarcarono nella mia città natale, Durazzo, e annetterono il regno d’Albania al regno d’Italia, utilizzandolo come base militare per la successiva invasione della Grecia, sfruttandone il rame, il cromo e altre risorse naturali, e adornando la bandiera albanese con simboli fascisti. Dalla fine del regime comunista nei primi anni 90, nessun politico albanese ha mai osato sfidare un governo italiano sull’eredità coloniale che grava sul rapporto tra i due paesi. Al contrario si celebra spesso l’amicizia speciale tra i due stati, come è avvenuto con il recente accordo che permette al governo di Giorgia Meloni di processare i richiedenti asilo extra-territorialmente in Albania. Dopotutto, a differenza di quanto accaduto nell’invasione italiana dell’Etiopia, noi ci siamo risparmiati le armi chimiche. L’incidente del marzo 1997, in cui decine di donne e bambini annegarono dopo essere stati colpiti da una motovedetta italiana, è ora classificato come un mero accidente. Tuttavia, i governi non coincidono mai del tutto con i popoli. Molti albanesi ricordano infatti con gratitudine l’ospitalità ricevuta a partire dagli anni 90. Durante i miei anni di studio a Roma, incontrai decine di italiani che mi assicuravano che gli stranieri erano i benvenuti e si scusavano per gli insulti che spesso sentivo in pubblico. Spiegavano che anche gli italiani, una volta, erano stati migranti. Non erano tra coloro che credevano nel mito degli italiani brava gente, che serviva a normalizzare e giustificare l’eredità di Mussolini. Non pensavano che la nazione dovesse prevalere su tutto. Non votavano per partiti come quello di Meloni. I politici britannici, tra cui, a quanto pare, Keir Starmer, hanno dichiarato che il governo del Regno Unito è interessato a un patto migratorio simile a quello con l’Albania. Non sarà però di certo con l’Albania. Il governo albanese infatti aveva già in passato respinto le richieste della Gran Bretagna che andavano in queste direzione, dichiarando che il paese non sarebbe mai diventato una discarica per l’Europa. Tutto ciò di cui i britannici hanno bisogno per un accordo equivalente è una ex colonia con un governo la cui memoria sia abbastanza selettiva da ricordare le strade e gli edifici costruiti dal suo padrone nel secolo scorso, ma non gli esseri umani che ha sfruttato nelle ultime decadi. Un popolo sufficientemente traumatizzato dal suo passato recente da aver rimosso dalla memoria quello più lontano, e governato da un’élite politica sottomessa, conforme all’ordine liberale, che ripeterà il mantra che dobbiamo tutti condividere le conseguenze della migrazione senza mai però mettere in discussione le sue cause geopolitiche. Eppure sarebbe ingenuo criticare gli sforzi di Starmer per affrontare la migrazione facendone una questione morale, come molti a sinistra tendono a fare. Quando l’argomento del “dobbiamo essere pragmatici” è il primo a essere messo sul tavolo, i principi - memoria, responsabilità, cura per le persone vulnerabili, chiamateli come volete - sono già stati sospesi. Come opporsi, allora? Forse con la logica. Gli accordi migratori come quello che apparentemente sta valutando il Labour si basano su vari presupposti: che la migrazione stessa sia un problema, che la migrazione irregolare sia efficacemente combattuta con restrizioni draconiane alle frontiere, che la detenzione extraterritoriale possa fungere da deterrente. C’è ampia ricerca che dimostra quanto ognuno di questi presupposti sia dubbio. Ma anche supponendo che siano validi, ci sono tre ulteriori questioni che qualsiasi politico “pragmatico” dovrebbe affrontare. Politicamente, il modello albanese è presentato come una novità nella gestione dei flussi migratori perché coinvolge la cooperazione tra un candidato all’Ue e uno Stato membro. Ispirato dal desiderio di trovare una soluzione “strutturale” alla questione dell’immigrazione irregolare, in realtà fa esattamente il contrario: lascia alle negoziazioni bilaterali ciò che dovrebbe essere il risultato di un processo a livello europeo. Ancora più importante, e più rilevante per il Regno Unito che non ha piani per rientrare nell’Ue, crea un precedente pericoloso in cui i singoli paesi perseguono i propri accordi per affrontare il loro “problema” migratorio, allontanando l’ipotesi di un coordinamento tra i vari stati. In secondo luogo, il principio di non-refoulement, sancito dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1951 sullo status dei rifugiati, proibisce l’espulsione o il ritorno di persone verso paesi considerati non sicuri. Meloni insiste che l’Albania sia sicura, citando il suo status di candidato all’Ue. Ma se così fosse, perché donne incinte, bambini e altre categorie vulnerabili sono esentati dall’accordo? In terzo luogo, c’è la questione economica. Per rispettare il diritto internazionale, i migranti deportati devono rimanere sotto la responsabilità dell’Italia. Secondo l’accordo tra Italia e Albania, l’Italia è responsabile di tutti i costi di costruzione e gestione dei due centri, così come del personale di polizia, medici, infermieri e funzionari amministrativi, per una spesa totale che si stima possa raggiungere i 670 milioni di euro. Un migrante irregolare in Albania costa all’Italia tanto quanto, o più di quanto, costerebbe se venisse processato nel suo territorio. L’unico beneficio è che i migranti diventano invisibili - lontano dagli occhi, lontano dal cuore, come dice il proverbio italiano. Ci viene detto che il governo di Starmer è pragmatico e interessato a ciò che funziona. Ma come può una “soluzione” che non ha senso da un punto di vista politico, legale ed economico essere considerata ancora “pragmatica”? Forse c’è solo una risposta plausibile: la propaganda. Il Labour sa di avere una maggioranza precaria, minacciata da politici di estrema destra che gridano contro il pericolo dell’immigrazione. Il Labour evidentemente pensa di poter inviare un messaggio agli elettori più a destra della sua coalizione dimostrando di avere il pugno duro contro i migranti. Facendo ciò, dà per scontato il sostegno dei suoi elettori liberali e di sinistra. Ammesso che questi elettori possano sospendere i loro principi e perdonare gli eccessi di retorica, le contraddizioni politiche, legali ed economiche rimarranno. E se i piani andranno avanti, le persone cominceranno a domandarsi fino a che punto il pragmatismo che stanno appoggiando sia davvero tale. *Pubblicato su The Guardian, traduzione di Shendi Veli Migranti. Boldrini incontra in carcere Maysoon Majidi: “È deperita ma determinata” di eleonora camilli La Stampa, 24 settembre 2024 La deputata dem: “Nella sua storia giudiziaria ci sono troppi equivoci, a partire dalla traduzione delle testimonianze”. Provata, dimagrita, ma determinata. Con la voglia di combattere per i propri diritti, come ha fatto per tutta la vita. “Non sono venuta in Italia a cercare fortuna, ma per chiedere asilo, sono un’attivista per i diritti delle donne, per questo sono dovuta scappare dal mio paese. Rischiavo il carcere”. Lo dice tra le lacrime Maysoon Majidi, lei che in carcere ci è finita ma in Italia, con un’accusa infamante, quella di essere una “scafista”. La ragazza, curdo iraniana, è accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dopo lo sbarco, nel dicembre del 2023 di un’imbarcazione sulle coste calabresi. Da nove mesi è dietro le sbarre e continua a dirsi innocente, portando prove sulla sua estraneità ai fatti. Oggi a Reggio Calabria ha ricevuto la visita di alcuni parlamentari del Pd. Laura Boldrini, a capo del Comitato diritti umani nel mondo, racconta di esser rimasta impressionata dallo stato della ragazza, che pesa ormai meno di 40 chili. “L’avevo già incontrata a febbraio, poco dopo il suo arresto, ma ora è quasi irriconoscibile - dice -. A differenza dei mesi scorsi, però, ha preso coscienza di quanto le sta accadendo e vuole lottare. Ripete di non essere una migrante per motivi economici ma una rifugiata, scappata dal suo paese perché perseguitata”. La deputata dem, insieme a Marco Grimaldi, nei mesi scorsi ha chiesto al ministro della Giustizia di riferire sul caso di Maysoon e di un’altra ragazza iraniana finita tra le sbarre per lo stesso motivo, Marjan Jamali. “Oggi ho voluto ribadire la mia vicinanza, Maysoon si è commossa quando mi ha vista arrivare insieme a Parisa Nazari del movimento Donna, vita e libertà - racconta Boldrini - Non vorrei mai che la sua vicenda risentisse della caccia allo scafista, purché sia. Nella sua storia giudiziaria ci sono troppi equivoci, a partire dalla traduzione delle testimonianze”. Nella mattinata altri politici hanno varcato le porte del penitenziario calabrese. Il presidente dei senatori del Pd Francesco Boccia insieme a Nicola Irto, segretario regionale del Pd calabrese, hanno incontrato l’attivista durante una visita per verificare lo stato delle carceri in Italia. E hanno consegnato alla ragazza un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia Nordio, sottoscritta da tutto il gruppo Pd al Senato, che chiede di sapere, a partire proprio dai casi di Maysoon Majidi e Marjan Jamali “quali iniziative necessarie e urgenti il Governo intenda intraprendere, a due anni dalla morte di Mahsa Amini, per tutelare l’incolumità di tutte le attiviste che giungono nel nostro Paese per sfuggire alla feroce repressione del regime iraniano, anche al fine di tutelare la credibilità del nostro Paese nelle sedi internazionali. Nell’interrogazione si ricostruisce la vicenda umana e politica di Majidi, sbarcata a Crotone a dicembre 2023 e da allora reclusa in Calabria, con l’accusa di essere una scafista e di Jamali, anche lei attivista del movimento in Iran e per questo fuggita, ora reclusa in Italia dall’ottobre 2023”. “In entrambi i casi larga parte dell’impianto accusatorio - spiegano i senatori dem nell’interrogazione - si basa su testimonianze rese senza traduttori adeguati. Maysoon Majidi, che è al suo secondo sciopero della fame, ha scritto recentemente al Presidente Mattarella per essere ascoltata: se ritenuta colpevole, rischia 16 anni di reclusione, una multa ingente e il rimpatrio in Iran con il rischio della vita”. Per questo l’interrogazione chiede anche al ministro di “modificare l’attuale quadro normativo sugli scafisti e di garantire la presenza in ogni fase processuale di traduttori e mediatori per consentire una corretta ricostruzione dei fatti e delle testimonianze”. Medio Oriente. Chi fa saltare l’ordine internazionale di Francesco Strazzari Il Manifesto, 24 settembre 2024 Davanti all’allargarsi della guerra d’Israele in Libano è necessario domandarsi quanto un mondo retto da un doppio standard possa essere diverso da un mondo senza regola. La guerra si allarga di fronte in fronte: decine di migliaia i palestinesi uccisi, decine i morti di Israele, e ora centinaia in Libano. Nessuno sa dove si fermerà: diversamente da Gaza, i confini libanesi sono aperti, e per Israele non c’è linea rossa. Un paese cronicamente e profondamente diviso come il Libano si è trovato unito nella stessa paura: il timore che esploda il telefono o il televisore, il ronzio onnipresente dei droni, i boati dei jet israeliani. Diventa destinatario della medesima retorica e dello stesso trattamento che Netanyahu ha riservato ai civili di Gaza in spregio al diritto umanitario bellico: evacuazione immediata verso condizioni di impossibilità, pena diventare bersagli. Alcuni analisti, quelli che sottolineano quanto siano mirati gli attacchi, hanno insistito su come finora Hezbollah fosse stato sì colpito nell’immagine, ma non accecato. Gli attacchi avrebbero azzoppato solo le forze speciali, lasciando impregiudicata la capacità di fuoco del Partito di Dio, che comunica via cavo. Ci sarebbero stati movimenti di truppe sotterranei, da cui la necessità di bombardamenti massicci preventivi. Il solito copione in cui Israele è condannato ad attaccare preventivamente. In realtà gli attacchi hanno rotto vincoli non scritti, e la massiccia campagna di bombardamenti che è seguita ha chiarito come l’obiettivo sia riscrivere radicalmente i rapporti di forza. Per quanto Tel Aviv parli di deterrenza, la posta va oltre, prefigurando non l’eccezione, ma l’imposizione di una norma. La prova sono i nervi tesi e le contestazioni che accompagnano la convocazione dell’Assemblea Generale Onu a New York: in gioco c’è la natura dell’ordine internazionale fondato 70 anni fa, incardinato sul principio di uguaglianza. Ne portano traccia l’opera continua di colonizzazione, espropriazione, ingegneria di territorio e risorse. E, oggi, la distruzione violenta, aiutata dalla potenza di calcolo dell’intelligenza artificiale, delle condizioni che rendono possibile la vita, così come gli innumerevoli episodi di disprezzo dei vivi e anche dei morti. Si sta affermando che ci sono ragioni, non ultime la forza, per le quali le vite di alcuni meritano, mentre altre, colpevoli o meno, sono una minaccia che va demograficamente contenuta. È il codice inscritto nelle umiliazioni ai checkpoint militari israeliani, che ha meno a che fare con la sicurezza della società che dichiara di proteggere, che non con un messaggio circa chi comanda, e circa il valore delle vite dei comandati. Arrivato alla fine del suo incarico, il capo della diplomazia dell’UE, Josep Borrell, ha constatato come ovunque vada si trovi a dover rispondere all’accusa di agire con due pesi e due misure. Emmanuel Macron si è dichiarato colpito da “quanto stiamo perdendo nel Sud Globale”. Il ministro degli esteri cinese Qin Gang ha redarguito la sua omologa tedesca, Annalena Baerbock, ricordandole come “la cosa di cui la Cina ha meno bisogno è una maestra occidentale”. I Paesi del Sud da sempre accusano l’Occidente di difendere l’ordine internazionale - che significativamente non chiamano più liberale, ma “fondato sulle regole” - solo quando risulta conveniente. Per dirla con il titolare degli Esteri indiano, gli europei credono che i problemi dell’Europa siano quelli del mondo, ma che i problemi del mondo non siano dell’Europa. Lo stesso Volodymir Zelensky, per sua parte, ha annunciato la preferenza per una conferenza di pace sull’Ucraina in una capitale del Sud del mondo. A cosa ha portato, dunque, l’ottimismo a lungo ostentato dalla Casa Bianca, circa un accordo negoziato sul cessate il fuoco a Gaza? Washington potrebbe dare segnali in diverse direzioni, iniziando dalle proprie forniture d’armi o dal proprio seggio all’Onu. Eppure, in affanno ormai su tutte le crisi regionali, finisce per mostrare una poco convinta comprensione davanti alla logica israeliana dell’”escalation che serve a de-escalare il conflitto”. La stessa logica che guida la propagazione della guerra in Libano, ma che non viene riconosciuta agli ucraini quando insistono sui missili contro le basi di lancio in Russia. Quanto può reggere ancora la legittimità di un’impalcatura giustificatoria incoerente? Il ministro della difesa dell’Indonesia (la quarta potenza mondiale nella proiezione al 2050) è esplicito: “Gli occidentali hanno uno standard per i palestinesi e uno diverso per gli ucraini”. In un affondo mirabile sul New York Times, Michel Walzer, il teorico delle origini paradigmatiche della democrazia nell’esodo del popolo di Israele, conclude che le campagne belliche di Israele non trovano giustificazione nella dottrina della guerra giusta. All’origine delle fratture all’Onu, del multipolarismo russo, della ‘diversità di civiltà’ cinese e dell’incrinarsi delle regole, prima ancora dell’invasione dell’Ucraina, c’è l’invasione americana dell’Iraq nel 2003 - alla quale noi italiani ci accodammo dichiarandoci ‘non belligeranti’; ci sono gli abusi perpetrati e condonati nel nome della ‘guerra al terrorè; gli accordi con le dittature per imprigionare migranti. E c’è il rifiuto a condannare a qualunque azione di Israele, anche quando, davanti al proprio fallimento, un Netanyahu nel mirino della giustizia penale internazionale trasforma la guerra in fine, trascinando l’Occidente e le democrazie verso l’illusione di dominare contraddizioni sempre meno sanabili. Donald Trump ed Elon Musk non sono che alfieri di questa illusione gerarchica. Mai come davanti all’allargarsi senza argine della disumanizzazione e della guerra è necessario domandarsi quanto un mondo retto da due standard possa essere diverso da un mondo senza regola. Medio Oriente. Perché la morte non cancellerà Sinwar di Domenico Quirico La Stampa, 24 settembre 2024 Non badate alle voci, non tenete conto neppure delle prove inconfutabili che prima o poi arriveranno. Sinwar, l’implacabile califfo di Hamas, non può esser morto, di più: Sinwar non può morire. Sinwar è tragicamente eterno, è purtroppo immortale. Perché in realtà non esiste, intendo fisicamente, non è carne e sangue che si può spegnere, come si dice oggi non si può “eliminare”. Esiste in quanto simbolo che ricapitola e rappresenta, vendicativo carnefice di uomini in nome di una fede totalitaria e senza misericordia, la possibilità demiurgica e indimenticabile della vendetta, dell’odio, del riscatto, del rovesciamento di una Storia vissuta come ingiusta e crudele. Ha scelto il Nulla e la sua dialettica non soffre timidezze, cammina su binari inflessibili la cui stazione finale è il santo delitto. Il martirio del jihadista è altra cosa, la morte lo sceglie perché lui l’ha scelta. Sinwar impone invece la non morte, impone il soggettivismo assoluto della memoria di sé, come penitente, guerriero, boia degli israeliani, vincitore e vittima. A Gaza e non solo per molti Sinwar è il presente e sarà il futuro. Non a caso, da un anno, dal 7 ottobre che è il suo sanguinario capolavoro, è sceso e si è annullato negli inferi, signore shakespiriano di un mondo sotterraneo di oscuri irriferibili orrori. Come la greca regina dell’Ade, Persefone, che a ogni equinozio spariva sotto terra per celebrare una temporanea e illusionistica fine. Che ingenuità quella di Israele di fare del suo cadavere esibito il completamento finale della rappresaglia, di concluderla, forse, con le prove della sua morte: il corpo, una immagine, perfino la certezza suprema del Dna... un nome cancellato con un colpo di spugna su una lavagna nera. Vittoria. Fine. E invece: uno così non lo si cancella mai, non ha una biografia con una violenta parola definitiva perché si trasfigura in simbolo, tragica macchina autarchica che si alimenta e vive del proprio esempio, del predicare in eterno il vangelo della guerra, il fascino del baratri neri. Il tempo è l’arma segreta dell’integralista, lo spazio è supporto ostile. Il tempo offre al recluso la sua chiave di fuga. Sinwar è la permanente memoria dell’odio palestinese per Israele. Pensate davvero che basti a cancellarlo qualcuno degli ingegnosi marchingegni spionistici del Mossad? Se qualcuno odia, sia pure nel modo storto e maniaco con cui il paziente ama il suo male, vive. Questo avviene in luoghi e tempi in cui gli uomini sono condannati a esistere costantemente a contatto con il caos, hanno passato la frontiera, da settantacinque anni!, tra ciò che è normale e ciò che vien detto patologico. La Palestina è uno di questi luoghi. La guerra succede a dio come rivelazione centrale. La vicenda di Sinwar di tutta questa tragedia è il libro aperto: figlio di un campo profughi di derelitti, dotto credente, miliziano del radicalismo palestinese e poi esecutore spietato dei traditori e precursore del jihad, ostaggio per ventidue anni del nemico sionista, l’abdicazione di sé e la delizia del darsi senza rimorsi alla favola nera della lotta. È il nome immateriale di una violenza che si impone come esperienza integrale per difetto, quando l’io, dio e il mondo son trascinati nella fornace. La disumanità è la cosa più condivisa e siamo eguali di fronte al crimine possibile. Odiare aiuta a vivere quando quello che ti sta intorno e il futuro che ti aspetta sono la negazione quotidiana della voglia di vivere. C’è sempre bisogno di qualcuno che riepiloghi con il proprio esempio quando la apocalisse diviene la rivoluzione stessa, quando l’attrazione diventa repulsione. Giappone. L’incredibile storia dell’eterno condannato a morte di Ugo Barbara agi.it, 24 settembre 2024 Hakamada è il detenuto più longevo nel braccio della morte, non solo in Giappone, ma in tutto il mondo e giovedì un tribunale deciderà se dovrà essere giustiziato o essere assolto. Oggi 88enne è finito sotto processo 58 anni fa. Da 46 anni un uomo attende di essere giustiziato. Da dieci aspetta di sapere se qualcuno gli crederà e commuterà la pena di morte in assoluzione. È l’incredibile storia di Iwao Hakamada, ex pugile oggi 88enne, finito sotto processo 58 anni fa per aver sterminato una famiglia, ma rimesso in libertà nel 2014 in attesa di un nuovo processo, dopo i dubbi sollevati da più parti sulla legittimità della sua condanna. Hakamada è il detenuto più longevo nel braccio della morte, non solo in Giappone, ma in tutto il mondo e giovedì un tribunale deciderà se dovrà essere giustiziato o essere assolto. È stato condannato per la prima volta nel 1968 per l’omicidio del suo capo, della moglie dell’uomo e dei loro due figli adolescenti. Ma nel corso degli anni sono emersi dubbi su prove fasulle e confessioni estorte che hanno messo sotto esame il sistema giudiziario giapponese accusato di tenere “in ostaggio” i sospettati. “Da così tanto tempo combattiamo una battaglia che sembra infinita”, ha detto ai giornalisti a luglio la sorella di Hakamada, Hideko, 91 anni, “Ma credo che questa volta sarà messa la parola fine”. Nel frattempo la Procura ha ribadito la convinzione che l’ex pugile sia colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio”. Il Giappone è l’unica grande democrazia industrializzata, oltre agli Stati Uniti, a mantenere la pena capitale, una politica che gode di un ampio sostegno pubblico. Hakamada è il quinto condannato a morte cui è stato concesso un nuovo processo nella storia del Giappone del dopoguerra. Tutti e quattro i casi precedenti si sono conclusi con l’assoluzione. Dopo decenni di detenzione, per lo più in isolamento, la salute di Hakamada è peggiorata e a volte sembra che “viva in un mondo di fantasia”, ha detto il suo avvocato, Hideyo Ogawa. Sebbene la Corte Suprema abbia confermato la condanna a morte di Hakamada nel 1980, i suoi sostenitori hanno lottato per decenni affinché il caso venisse riaperto. Una svolta è venuta nel 2014, quando fu concesso un nuovo processo sulla base del fatto che i procuratori avrebbero potuto falsificare le prove. Da allora Hakamada ha lasciato la prigione e attende la nuova sentenza. L’avvio del nuovo processo è stato rinviato per anni, fino al 2023, per cavilli legali. All’epoca del suo arresto, Hakamada negò di aver derubato e ucciso le vittime, ma confessò dopo quello che in seguito descrisse come un brutale interrogatorio della polizia. Tutta l’accusa si fonda su un mucchio di vestiti macchiati di sangue trovati in una vasca di miso (pasta di soia fermentata) un anno dopo gli omicidi del 1966. La difesa sostiene che gli investigatori hanno probabilmente piazzato i vestiti, poiché le macchie rosse su di essi erano troppo brillanti, ma i pubblici ministeri affermano che le prove scientifiche dimostrano che la vivacità del colore è credibile. Ma al di là del singolo caso, la vicenda Hakamada ha mostrato le imperfezioni di un sistema giudiziario che comunque prevede come massima pena la morte. In Giappone, condannati alla pena capitale vengono informati della loro impiccagione solo alcune ore prima dell’esecuzione. Quello di Hakamada è “solo uno degli innumerevoli esempi del cosiddetto sistema giapponese di ‘giustizia degli ostaggi’“, ha detto all’AFP Teppei Kasai, responsabile del programma Asia per Human Rights Watch. “I sospettati sono costretti a confessare attraverso lunghi e arbitrari periodi di detenzione” e spesso vengono “intimidito durante l’interrogatorio”.