Cnel, insediato il Segretariato per l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti redattoresociale.it, 23 settembre 2024 Il nuovo organismo ha il fine di promuovere la cooperazione interistituzionale e concorrere alla realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi. Brunetta: “Una tappa importante del percorso volto ad abbattere la recidiva e costruire un ponte tra carcere e società”. Si è insediato oggi al Cnel il ‘“Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale”. Presieduto dal consigliere Emilio Minunzio, il nuovo organismo ha il fine di promuovere la cooperazione interistituzionale e concorrere, attraverso il coinvolgimento sistematico delle parti sociali, delle forze economiche e delle organizzazioni del terzo settore, alla realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi per il reinserimento socio-lavorativo e l’inclusione delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria limitativi o privativi della libertà personale. “Si compie così un rilevante passo in avanti nel percorso intrapreso dal Cnel, insieme al Ministero della Giustizia, volto a favorire studio, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere, nel cui ambito si è svolta lo scorso 16 aprile la giornata di lavoro Recidiva zero”, spiega una nota del Cnel. Nella stessa ottica il Cnel ha anche predisposto nei mesi scorsi e trasmesso in Parlamento uno specifico Disegno di legge.”Il Segretariato permanente per l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti - ha dichiarato il presidente del Cnel Renato Brunetta - è il frutto di una collaborazione molto solida e proficua con il Ministero della Giustizia, che parte dall’accordo interistituzionale che abbiamo sottoscritto nel giugno 2023. L’obiettivo è abbattere la recidiva e costruire un ponte tra carcere e società, attraverso la leva dello studio, della formazione e del lavoro. È un progetto a cui crediamo molto, un progetto win-win-win, dove vincono tutti. E non è un caso che il primo Disegno di legge d’iniziativa Cnel di questa Consiliatura, elaborato sulla scorta delle prerogative fissate dall’articolo 99 della Costituzione e inviato alle Camere, sia dedicato proprio a questo ambito”. “Con l’insediamento del Segretariato permanente - ha sottolineato il consigliere Emilio Minunzio - si posa un’ulteriore importante pietra all’interno del progetto ‘Recidiva Zero’. Sottolineo ‘ulteriorè perché mi preme evidenziare l’impatto positivo che ha avuto un’altra nevralgica iniziativa prevista dall’accordo interistituzionale tra Cnel e Ministero della Giustizia: la giornata di lavoro dello scorso 16 aprile, che ha rappresentato una sorta di ‘stati generali’ sul sistema carcerario italiano, determinando grandi aspettative proprio rispetto al ruolo del Segretariato. Voglio, infine, sottolineare l’autorevolezza del gruppo di esperti che comporranno questo organismo, tutte figure di altissimo profilo che sapranno garantire competenza ed efficacia”. Marco Doglio è il nuovo Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria Il Foglio, 23 settembre 2024 La nomina, voluta dal ministro Nordio, è arrivata in mattinata. In poco più di un anno il commissario dovrà guidare le nuove opere necessarie a mitigare il sovraffollamento nelle carceri italiane- Marco Doglio è il nuovo commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria. Il decreto d’incarico è stato firmato questa mattina dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, su proposta del Ministro della giustizia Carlo Nordio, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini. L’incarico, previsto dal decreto sulle carceri approvato lo scorso agosto, scadrà ufficialmente il 31 dicembre 2025. Termine entro cui, si legge nella nota, “dovrà provvedere alla realizzazione delle opere necessarie per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari”, con la facoltà di avvalersi di una struttura di supporto di massimo cinque esperti. Doglio, 62 anni, vanta un passato di oltre 30 anni nel settore delle infrastrutture, avendo ricoperto diversi ruoli in materia di trasporto ferroviario, stradale, autostradale, aeroportuale e delle telecomunicazioni. Da dicembre 2019 è chief Real Estate di Cassa Depositi e Prestiti, oltre ad occupare il ruolo di Amministratore Delegato CDP Investimenti SGR, Vice Presidente di CDP Immobiliare Srl e Consigliere di Amministrazione Redo SGR. Cuffaro: “Troppi suicidi in cella, inquieta come la maggior parte riguardi giovani” siciliaunonews.com, 23 settembre 2024 “Ho ascoltato il messaggio del Papa all’Angelus sul rispetto per i detenuti e mi sono soffermato a leggere il report del garante nazionale dei detenuti circa la condizione carceraria in Italia. Sono sconvolto dai dati emersi che non sono solo numeri ma anime: 72 suicidi dall’inizio dell’anno ad oggi”. Lo dichiara Totò Cuffaro, segretario nazionale della DC. “L’articolo riporta che, tra questi 72, solo 29 erano stati giudicati e condannati in via definitiva, gli altri erano in attesa di giudizio ricorrenti, appellanti e uno addirittura internato provvisoriamente. Ma quello che più di tutto mi inquieta è la fascia di età di chi sceglie di togliersi la vita. Scelta che per la maggior parte viene compiuta dai giovani tra i 26 e i 39 anni, i nostri ragazzi, persi nell’oblio della pena, giovani senza speranza”, prosegue Cuffaro. “Credo che il tempo del cordoglio debba obbligatoriamente tracciare un solco nella politica che - prosegue - deve con urgenza adoperarsi e intervenire concretamente per ridurre drasticamente la densità detentiva, potenziare il corpo di polizia penitenziaria e dare ristoro anche agli agenti sottoposti a turni massacranti nell’espletamento delle loro funzioni, i nostri servitori dello stato, stremati spettatori che spesso si sono arresi al teatro degli orrori e che hanno anche loro scelto di togliersi la vita”. “In ultimo, in linea con i nostri principi costituzionali che ci impongono un trattamento mai contrario al senso di umanità anche nell’espiazione della pena, serve assicurare l’assistenza sanitaria, psicologica e psichiatrica ai detenuti. Forse la politica si è convinta che prendendo posizioni e scegliendo di avviare riforme complessive urgenti potrebbe perdere consensi, ma dovrebbe riflettere che non prendendole si perde la cosa più preziosa che abbiamo, il senso di umanità e noi stessi. C’è una catastrofe in atto, uno sterminio di esseri umani e oggi è già tardi”, conclude Cuffaro. I laboratori Spes contra Spem e l’Associazione Nessuno Tocchi Caino di Antonio Aparo* L’Unità, 23 settembre 2024 Ci sono storie che testimoniano che il cambiamento è possibile anche tra i condannati al “fine pena” mai, gli immutabili del sistema carcerario. I laboratori Spes contra Spem di Nessuno tocchi Caino sono una miniera di valori preziosi. In otto anni di “lavoro” collettivo e cooperativo tra detenuti e detenenti, tra liberi e semiliberi, tra persone al di qua e al di là delle sbarre, il “fatturato” in termini di umanità nuova, cambiamento interiore ed elevazione della coscienza, è inestimabile, e incomparabile rispetto a ogni altra impresa umana. Soprattutto il Laboratorio di Opera, il primo a essere istituito, ogni mese regala storie come quelle di Antonio e Gioacchino che qui proponiamo. Storie che testimoniano che il cambiamento è possibile anche tra i condannati che per la legge del “fine pena mai” sono gli immutabili dell’universo carcerario, gli irredimibili per sempre. Caro Sergio, non è facile raccontarmi al di fuori dei nostri laboratori. Quel prendere la parola ogni volta, la paura di non riuscire a parlare, troppi anni nei quali non ho avuto la possibilità di parlare, racchiuso nel mio mutismo di persona ristretta al 41 bis. La condanna è una pena, ma se questa lunga pena non ti porta - a te che la sconti - a poter riflettere se avrai o meno un futuro, allora, ecco che la maturazione non avviene ma si manifesta nella sua terribile regressione. Io conosco poche parole, la mia cultura è disorganizzata, ma grazie ai laboratori e soprattutto a Nessuno tocchi Caino, sto ampliando il mio vocabolario. Dopo aver frequentato per cinque anni un corso di agraria senza poter conseguire il diploma, sono dovuto arrivare a Opera. Dopo 29 anni di carcere espiato, mi sono iscritto al V. Benini e, in quattro anni, ho conseguito l’agognato diploma di ragioneria con 81 centesimi. Oggi sono una matricola universitaria alla Statale di Milano. Dopo aver riflettuto a lungo con il mio tutor, ho scelto il corso di Storia. Lo scorso 20 giugno ho sostenuto il primo esame universitario: età moderna, 1454, pace di Lodi; Napoleone e il blocco continentale, 1805-1810, patto rotto dalla Russia. Mi sono preparato a lungo per questo esame. Era il primo e ci tenevo tantissimo a fare una bella figura. Non sentivo salire l’arrivo, e non capivo se fosse normale. A un certo punto ho detto a me stesso: “Antò, vai avanti, perché non stai facendo nulla di male”. Confesso che ho scelto l’aula nella quale esibire la mia straordinaria oratoria. D’altra parte giocavo in casa, perché era l’aula dove ho trascorso gli ultimi quattro anni, più di 800 giorni, a studiare, 3.200 ore. Da circa un mese, nell’area pedagogica, hanno realizzato un pollaio nel quale sono internati due galli che cantano giorno e notte. Il rituale della presentazione inizia con la discussione a bassa voce. Ad alzare il volume ci pensano i galli che si trovano all’esterno dell’aula. Una situazione surreale nella quale spesso perdevo la concentrazione; eppure sono stato un pastore, ho sempre avuto a che fare con gli animali, ma mai avevo sentito cantare dei galli ininterrottamente. Dopo alcune esitazioni si rompe il ghiaccio. La prima domanda: “7 ottobre 1571”. Risposta: “Battaglia di Lepanto. Comandante Don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V, fratellastro di Filippo II di Spagna, a sua volta fratello di Margherita d’Austria, anch’essa figlia naturale di Carlo V”. È stato un susseguirsi di date e risposte, lunghe, troppo lunghe, tanto che, alla fine, per il mio solito divagare, ho perso la lode. Le mie risposte sono state un po’ prolisse, ma ricche di particolari. Parliamo dell’infanta Caterina Micaela d’Asburgo, figlia di Filippo II, moglie di Carlo Emanuele I di Savoia. La domanda: “Chi è la Cantona?” La risposta è molto semplice, per me che sono un ricamatore. “La Cantona è una ricamatrice di Milano, VI secolo, che esegue i suoi lavori con il ‘punto raso’ di cui l’infanta aveva regalato alcune stole fatte con le sue mani alla chiesa di Mondovì. Tecnicamente il punto raso viene eseguito con una fila di punti lanciati lunghi e corti alternati, per poi eseguire la fila successiva al contrario”. Dopo quasi 100 minuti, 6mila secondi, terminate tutte le domande, alle 16, la professoressa si è alzata dicendo: “Va bene 30? Non le do la lode perché lei ha divagato”. Naturalmente ho accettato il voto promettendo a me stesso di imparare dagli errori. D’altronde ho deciso di studiare per imparare. Non ho altri obiettivi, amico mio, che la conoscenza fine a sé stessa. *Ergastolano detenuto a Opera Da Franzoni a Benno, fino ad Alessia Pifferi. Così la giustizia ha “rifiutato” il disagio psichiatrico di Valentina Stella Il Dubbio, 23 settembre 2024 Secondo alcuni studiosi è possibile identificare elementi nel cervello e nel profilo genetico che possono dar vita a un comportamento criminale. La responsabilità penale andrebbe comunque ripensata, così come la pena da infliggere. Ma la discussione sull’incapacità di intendere e di volere è troppo spesso banalizzata. La cronaca nera in questo ultimo periodo ci tiene occupati con molti fatti delittuosi e processi giudiziari: da Chiara Petrolini arrestata venerdì per l’omicidio dei due neonati all’imminente inizio del processo a carico di Filippo Turetta accusato dell’omicidio di Giulia Cecchettin, passando per la morte di Giulia Tramontano per mano di Alessandro Impagnatiello. Dai salotti televisivi, dalle pagine Facebook, dalle colonne di giornali e dai tavoli dei bar si emettono sentenze - prima dei tribunali - interrogandosi su moventi e dinamiche dei gesti criminali. Tra le questioni discusse c’è spesso quella sulla capacità di intendere e volere: la giornalista Federica Sciarelli nella puntata una volta disse: “Sono tutti pazzi quando devono andare in carcere ma tutti lucidi quando devono uccidere”. In realtà la questione è molto più complessa. Immaginando questi individui come una arma è corretto ipotizzare che la genetica carica il fucile, la psicologia mira e l’ambiente tira il grilletto? Secondo alcuni studiosi è possibile identificare elementi nel cervello e nel profilo genetico di un individuo che possano dar vita ad un comportamento criminale. La responsabilità penale va dunque ripensata così come di conseguenza la pena da infliggere. Ripercorriamo alcuni dei casi più famosi da passato e recente. Stefania Albertani fu dichiarata colpevole, nel maggio 2011 con rito abbreviato, per omicidio e occultamento di cadavere della sorella, e per il doppio tentativo di uccisione di entrambi i genitori. Il Gip di Como, Luisa Lo Gatto, condannò la Albertani a venti anni di reclusione invece che all’ergastolo, riconoscendole un vizio parziale di mente per la presenza di “alterazioni “ in “un’area del cervello che ha la funzione” di regolare “le azioni aggressive” e, dal punto di vista genetico, di fattori “significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento”. La decisione fu supportata oltre che da accertamenti psichiatrici tradizionali, anche da analisi neuroscientifiche, che indagarono la morfologia del cervello e il patrimonio genetico dell’imputata. Si trattò del primo riconoscimento in Italia, e fra i primi al mondo, della validità delle neuroscienze per l’accertamento dell’imputabilità. Il caso fu trattato anche sulla prestigiosa rivista scientifica Nature. Luigi Chiatti, conosciuto come il mostro di Foligno, tra il 1992 e il 1993 uccidi due bambini, Simone Alegretti e Lorenzo Paolucci. Il 1º dicembre 1994 cominciò il processo a suo carico. Il 28 dicembre dello stesso anno, Luigi Chiatti venne condannato a due ergastoli. L’11 aprile 1996 la corte d’Assise d’Appello di Perugia riformò la sentenza di primo grado, dichiarando Luigi Chiatti semi-infermo di mente e condannandolo a 30 anni di reclusione; sentenza confermata dalla Cassazione. Finita di scontare la pena è stato internato e dalle ultime notizie risalenti a febbraio sono in corso perizie psichiatriche per valutarne la pericolosità. Come non ricordare il caso di Annamaria Franzoni, condannata per l’omicidio di suo figlio Samuele, avvenuto il 30 gennaio 2002. Franzoni fu periziata diverse volte. Nella sentenza d’appello l’imputata venne di fatto ritenuta pienamente sana di mente al momento del delitto. Nelle motivazioni della sentenza, rese note il 19 ottobre 2007, si legge infatti: ‘La Corte non può non tenere conto del fatto che Annamaria Franzoni ha sofferto di un reale disturbo, che rientra nel novero delle patologie clinicamente riconosciute (degne anche di trattamento terapeutico), ma che nel sistema giuridico-penale vigente non costituisce di per se stesso infermità che causa vizio di mentè. A giugno di quest’anno la prima Corte d’Assise di Milano ha dato incarico a due periti che dovranno chiarire se l’ex barman Alessandro Impagnatiello, reo confesso dell’omicidio di Giulia Tramontano, era “pienamente consapevole durante il fatto “, “affetto da un vizio parziale di mente”, la “pericolosità sociale “ e se ci siano disturbi della personalità e in quale misura possano eventualmente avere influito sul delitto. Mentre il professor Giovanni Caruso, legale di Filippo Turetta, a luglio aveva annunciato: “non è intenzione della difesa, né di Filippo Turetta, contrariamente a quanto preannunciato senza titolo e a sproposito dalla grancassa mediatico-giudiziaria chiedere che l’imputato venga sottoposto a perizia psichiatrica”. Scatenò polemiche nel 2022 la decisione del gip di Milano di rifiutare l’accesso al carcere a due consulenti psichiatrici per un accertamento neuro-psichiatrico di Alessia Pifferi, imputata per aver lasciato morire di stenti sua figlia Diana. Successivamente una perizia psichiatrica d’ufficio stabilì che era capace di intendere e volere, condannandola così all’ergastolo in primo grado. Si è invece conclusa qualche settimana in Cassazione la vicenda di Benno Neumair, il 33enne bolzanino anch’egli condannato all’ergastolo per il duplice omicidio e l’occultamento dei cadaveri dei genitori Laura Perselli e Peter Neumair. Le sentenze di merito avevano escluso il riconoscimento della seminfermità. Eppure era stato riconosciuto un “mosaico di disturbi della personalità” da ben undici periti, del tribunale, dell’accusa, della difesa e delle parti civili. “Infermità mentale, il carcere non può essere la risposta. Neanche per i crimini più efferati” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 settembre 2024 Neuroscienze e diritto: come cambia il concetto di imputabilità e di conseguenza come dovrebbe essere diversamente espiata una pena. “La psichiatria forense non può abdicare a quello che è il suo scopo, semplicemente per motivi di ordine pubblico. Così come la magistratura non dovrebbe mai dimenticare cosa prevede l’articolo 27 della Costituzione”, sottolinea Pietro Pietrini, psichiatra e Ordinario della Scuola IMT Alti Studi di Lucca. Professore, quali sono gli ambiti di intervento delle neuroscienze nelle aule di tribunale? Il ruolo delle neuroscienze è cercare di dare il più possibile una base oggettiva, un correlato misurabile alle conclusioni che si raggiungono in termini di imputabilità. In sintesi: ridurre il margine di soggettività. Questo perché in psichiatria forense manca ancora, rispetto alle altre branche della medicina, la possibilità di avere un riscontro oggettivo. Oggi, ad esempio, grazie alle moderne tecniche neuroradiologiche, abbiamo la possibilità di misurare la densità neuronale in aree del cervello che sono cruciali per il controllo degli impulsi. Quanto nel nostro Paese i giudici sono pronti ad accogliere le tesi difensive che tendono, attraverso le nuove scoperte, ad evidenziare la minorata capacità di intendere e volere? Non saprei darle delle statistiche, perché non ho l’esperienza su tutti i giudici. Diciamo che dipende da caso a caso. Noi abbiamo incontrato giudici molto aperti, pensi alla sentenza di Como: Stefania Albertani fu dichiarata colpevole con rito abbreviato, per omicidio e occultamento di cadavere della sorella, e per il doppio tentativo di uccisione di entrambi i genitori. Il Gip di Como, Luisa Lo Gatto, le riconobbe un vizio parziale di mente, anche per la presenza, dal punto di vista genetico, di fattori “significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento”. Secondo lei i giudici si lasciano influenzare anche dal “tribunale del popolo” che non è pronto ad accettare una detenzione in una Rems invece che in carcere, che per molti erroneamente è un hotel a 5 stelle? Facciamo una premessa: una perizia serve a stabilire se il soggetto è bad or mad, cattivo per scelta o perché malato, incapace di fare altrimenti. Detto ciò, dinanzi ai crimini anche più efferati, ai crimini più odiosi, noi dobbiamo porci comunque sempre nel rispetto della Costituzione e del codice penale. Quindi se la persona che ha commesso anche il crimine più orrendo l’ha fatto in presenza di una incapacità di intendere o di volere non è imputabile e non può andare in carcere. Tuttavia succede che l’efferatezza del delitto commesso, la brutalità del delitto o la stessa attenzione per la vittima, ad esempio una neonata o una giovane donna, possano indubbiamente condizionare il comune sentire e il sentire di tutti, anche dei giurati e degli stessi giudici togati. Il problema è che c’è una percezione nella società ma anche tra gli addetti ai lavori - periti, consulenti e gli stessi magistrati - per i quali esistono individui che sono così pericolosi che vanno per forza rinchiusi in carcere e condannati all’ergastolo. Ma così il nostro sistema giuridico, costituzionale fallisce. Ci spieghi meglio... Se mentre prima, quando esistevano gli ospedali psichiatrico-giudiziari, la pena veniva percepita da tutti - gente comune e addetti ai lavori - addirittura un quid pluris, un aggravamento, rispetto a una comune detenzione in carcere, adesso essere rinchiusi in una Rems significa non essere puniti abbastanza. Per molti la Rems viene considerata quasi alla stregua di un centro benessere, senza che riesca a tutelare, sotto il profilo custodiale, la società da una persona pericolosa. In effetti la Rems non ha addetti alla sicurezza, non vi sono agenti di Polizia Penitenziaria. Vi è solo la vigilanza all’ingresso, che controlla i documenti di chi entra ed esce, ma che non potrebbe neppure intervenire in caso di bisogno. In altre parole, se qualcuno ad esempio cerca di evadere, la vigilanza si limita a chiamare le forze dell’ordine. Ma c’è di più. Se una persona in Rems si rifiuta di assumere le terapie, il personale non può far altro che ricorrere al TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) che deve essere eseguito in ambiente ospedaliero esterno. Infatti, nonostante una sentenza della Corte Costituzionale (n. 22 del 2022) abbia riconosciuto alla Rems la facoltà di somministrare terapie anche contro la volontà dell’individuo, di fatto mancano le norme per poterlo fare. Ci sono pazienti in Rems ai quali tutti i mesi viene fatto un TSO per poterli così portare in SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) dove viene loro somministrato il neurolettico depot. Con queste limitazioni - anche tralasciando il ben noto problema delle liste di attesa, che vede attualmente un numero di domande doppio rispetto ai posti disponibili - si comprende come di fronte ad autori di reato malati di mente e con conseguente elevata pericolosità sociale, il carcere possa apparire come la soluzione di miglior garanzia e tutela della comunità. Tuttavia, il carcere non è veramente in grado di gestire e di guarire un malato di mente. C’è una proposta intermedia che è quella che dice di predisporre dei centri psichiatrici in alcuni carceri, dove tenere gli individui che sono autori di reati gravi e che sono malati di mente. Questo secondo me è un ritorno all’ospedale psichiatrico giudiziario, far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta. Ma è addirittura peggiorativo, perché di fatto non può garantire le necessità terapeutiche e riabilitative di queste persone. La psichiatria forense non può abdicare a quello che è il suo scopo, semplicemente per motivi - diciamo - di ordine pubblico. Così come la magistratura non dovrebbe mai dimenticare cosa prevede l’articolo 27 della Costituzione. Non si può periziare e giudicare di pancia? L’applicazione del codice deve andare oltre l’emotività, altrimenti non siamo in uno Stato di diritto. Quando io sento dire che viene invocata una pena esemplare, mi chiedo che cosa voglia dire. La pena esemplare contrasta con la definizione di Stato di diritto. Pensi ai casi Pifferi, Turetta, Neumair: cosa dobbiamo fare con queste persone? Impiccarle sulla pubblica piazza? Per quanto esecrandi possano essere i reati commessi, tutti hanno diritto al giusto processo e alla pena prevista dal Codice. Un terzo degli italiani vorrebbe vedere ripristinata la pena di morte... Senza neppure entrare in considerazioni morali ed etiche, le statistiche, ad esempio quelle che vengono dagli Usa, ci dicono che la pena capitale non rappresenta una deterrenza. Così come non è un deterrente l’incremento delle pene. Io ho periziato diversi indagati e imputati in oltre 20 anni di carriera: non ho mai trovato una persona che mi abbia detto “se avessi saputo che sarei stato condannato a 30 anni non avrei ucciso mia moglie”. La perdita del controllo e la perdita della capacità di autodeterminarsi non sono comunque condizioni in cui le conseguenze possono fare da deterrente. Fratelli d’Italia ha presentato una proposta di legge per esonerare dall’imputabilità solo i casi di psicosi... È un ritorno indietro. Prima del 2005, della famosa sentenza Raso, era così. La non imputabilità veniva riconosciuta solo nel caso delle psicosi maggiori - psicosi schizofrenica, psicosi depressiva - cioè laddove lo stato di mente alterato dell’individuo era tale da non fargli percepire i dati di realtà, propriamente interpretarli e di conseguenza agire. Quindi lo psicotico che pensa che stiano venendo gli extraterrestri a prenderlo e deve sacrificare la propria figlia per salvare il mondo dagli extraterrestri. È una tendenza che c’è nella psichiatria; molti colleghi la pensano così e dinanzi a disturbi di personalità, pur riconoscendone la presenza, ne danno una lettura tale da escludere il vizio di mente. “La risposta dello Stato è debole per chi vive sul crinale dei comportamenti psichiatrici e delinquenziali” di Franco Insardà Il Dubbio, 23 settembre 2024 Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta, fondatore e presidente del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale, una delle più importanti scuole di psicoterapia in Italia, ha una grandissima esperienza e un osservatorio privilegiato sull’evoluzione della malattia mentale in Italia. “Bisognerebbe offrire assistenza psicoterapeutica alle famiglie in difficoltà, fin dal primo manifestarsi dei problemi dei ragazzi. Questa sarebbe la prevenzione per gli adolescenti la risposta farmacologica con antidepressivi non serve a nulla. Spesso i giovani lanciano dei segnali di aiuto evidenti sui quali bisogna intervenire”. “Negli ultimi tempi è in atto un forte cambiamento, legato all’aumento di piattaforme online, attraverso le quali si possono raggiungere tantissimi psicoterapeuti nelle situazioni più varie. Oggi esiste un consistente numero di persone, soprattutto al di sotto dei 50 anni, che chiede aiuto agli psicoterapeuti online, invece di andare dal medico a chiedere dei farmaci”. Professor Cancrini, Franco Basaglia diceva: “La società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia”. “Oggi la malattia mentale è accettata dalla società? In qualche modo sempre di più. Dal secondo dopoguerra, iniziò a manifestarsi anche in Italia un sentimento di inadeguatezza della struttura psichiatrica custodialistica. Negli anni 60 Basaglia cominciò a fare le sue esperienze e, anche grazie alle campagne dell’Espresso e ai servizi di Sergio Zavoli e altri, nell’opinione pubblica crebbe l’idea che le persone con un disturbo psichiatrico potessero essere curate. Un passaggio decisivo fu appunto la legge del 1978, perché l’assistenza psichiatrica rientrò a pieno titolo all’interno della sanità, mentre prima era affidata alle Province ed era vista come un’attività caritatevole, al pari degli orfanotrofi. Da allora c’è stata una moltiplicazione di servizi sanitari nel territorio. Le faccio solo un esempio: a Roma, prima della riforma sanitaria, esisteva un unico Centro di Salute Mentale, che serviva sia la città che la provincia. Con la riforma se ne aprirono 54, un numero senz’altro insufficiente, ma si cominciò a prendere coscienza del fatto che il diritto alle cure e alla salute riguardasse anche i pazienti psichiatrici. Una sorta di rivoluzione che ha avuto altri effetti? Dopo l’introduzione della legge Basaglia, grazie soprattutto all’impegno di Adriano Ossicini, sono stati istituiti dei corsi di laurea in psicologia e successivamente, intorno agli anni 90, le scuole di psicoterapia: oggi sono circa 500 in Italia e le facoltà in cui si insegna psicologia sono moltissime. Pensi, solo a Roma ci sono 6 di corsi di laurea. Segno che ha preso piede l’idea di dover curare chi sta male. Nel 2017 la psicoterapia è entrata nei Lea (Livelli essenziali di assistenza) e negli ultimi anni è arrivato il bonus psicologo. Cosa c’è che non va? Parliamo di un sistema incompleto sul fronte della prevenzione, assolutamente deficitario per la giustizia penale. Le carceri non hanno una reale assistenza psicologica e psichiatrica, perché quella esistente è di fatto inconsistente, come dimostrano i tanti suicidi e il malessere di tutta la popolazione penitenziaria. Stessa situazione negli Istituti penali per minorenni. Parliamo di condizioni nelle quali la devianza tocca la soglia del reato, la capacità di accettarla è molto minore e siamo terribilmente indietro per quanto riguarda il diritto di essere curati. La gran parte dei comportamenti violenti sono legati a problemi di psicopatologia e siamo molto indietro. Questo sì. Oltre al pregiudizio e allo stigma nei confronti dei malati, c’è un rifiuto anche ad accettare la malattia? Oggi questo dipende molto dalla gravità del disturbo. Nel caso di pazienti con un disturbo psicotico, permane una difficoltà a essere accolti da tutti. Quelli che hanno situazioni meno drammatiche e mantengono un contatto con la realtà, sono oggetto di cura e, quindi, esiste un’attenzione nei loro confronti. Invece, nei confronti delle persone affette da tossicodipendenza e da ludopatia, il pregiudizio morale è tendenzialmente più forte rispetto alla capacità di comprendere le difficoltà che ci sono dietro. Io divido la psicopatologia in tre grandi aree. Quali? L’area psicotica, difficile da accettare da tutti senza pregiudizio. L’area borderline, con tutti i disturbi e le dipendenze, dalla droga al gioco d’azzardo, ai disturbi alimentari e altro, che è più facilmente accettabile, anche se permane un certo grado di pregiudizio. Infine l’area nevrotica, ampiamente riconosciuta come qualche cosa che deve essere curata. In quest’ultimo caso c’è ancora la tendenza del paziente a ritenere di potercela fare da solo, senza l’aiuto dello psicoterapeuta? C’è un cambiamento dovuto all’utilizzo di portali online di psicoterapia. Le posso citare una piattaforma che conosco, si chiama “Uno bravo”, che ha 5.000 terapeuti. Se consideriamo che ognuno può seguire in media dalle 10 alle 15 persone siamo di fronte a un numero molto grande di pazienti volontari, che si rivolgono sia online sia allo studio dello specialista. I portali sono tanti e la loro crescita forte è documentata sul piano economico. “Uno bravo” è nata a Napoli con l’idea di offrire un aiuto agli italiani all’estero, era una start-up che poi è stata acquistata da capitale americano. Che tipo di aiuto si chiede maggiormente? Soprattutto di tipo psicologico. Il fatto che ci si rivolga allo psicoterapeuta, piuttosto che allo psichiatra, è un fatto positivo. Lo psichiatra, infatti, viene percepito come uno che giudica il comportamento, mentre lo psicoterapeuta come uno che lo comprende. In questo il Covid ha inciso? Moltissimo, perché ha enormemente aumentato le attività che si svolgono online, che sono importanti in psicoterapia. Potersi mettere in contatto tramite un computer, invece di cercare lo specialista, prendere appuntamento, spostarsi rende tutto più semplice. Anche per chi vive in luoghi in cui la risposta psicoterapeutica è meno presente. Alcuni allievi della nostra Scuola hanno pazienti in Costa Rica altri in paesini sperduti. La tecnologia sta svolgendo una funzione sociale notevole. Insomma sta cambiando l’approccio rispetto a qualche anno fa, quando ci si rivolgeva al medico per qualsiasi patologia entro pochi giorni, mentre per un malessere psichico la richiesta di un sostegno specialistico avveniva anche dopo anni? Secondo me sì. Naturalmente dipende dalle fasce di età e anche dalla condizione culturale di base. Però per fortuna, dal momento che la preparazione culturale aumenta, ci si rivolge più tranquillamente alla psicoterapia. La chiusura dei manicomi prima e degli Opg poi, è stata un passo importante, ma non crede che oggi ci sia una involuzione con le residenze assistenziali e con i tanti detenuti in carcere invece che nelle Rems? Sono due aspetti sicuramente importanti. Il primo è che al posto degli ospedali psichiatrici ci sono tante comunità psichiatriche, tutte private, che ospitano i pazienti anche per tempi molto lunghi. I numeri non sono quelli degli ospedali psichiatrici, ma la differenza fondamentale è che si tratta di luoghi dove sono curati, i familiari possono andare a trovarli, e, se stanno meglio, possono uscire. Non vengono, quindi, rinchiusi e basta. E le Rems? La risposta è molto debole per le persone che vivono sul quel crinale tra comportamenti psichiatrici e delinquenziali. All’amico Ignazio Marino, all’epoca della sua giusta battaglia per la chiusura degli Opg, dissi che bisognava avere delle valide alternative. Le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sono una alternativa importante, ma debole e insufficiente rispetto al numero delle persone. C’è un altro aspetto da segnalare. C’è una contraddizione abbastanza drammatica tra i discorsi che si fanno oggi, anche a livello governativo, sulla necessità di favorire l’invio in comunità terapeutiche dei detenuti tossicodipendenti e la mancanza di fondi delle Asl da destinare a queste strutture. Sto seguendo un uomo che è stato in carcere per quasi un anno in attesa di poter andare in comunità, finalmente ci siamo riusciti. Il problema è che doveva andare a curarsi un anno fa. La cosa assurda è che il carcere non costa meno della comunità, anzi di più. Ero direttore scientifico della comunità terapeutica Saman. Nei primi anni 2000, da una nostra ricerca sui detenuti che avevano scontato la pena in comunità, emerse che a distanza di cinque anni le ricadute in termini di tossicodipendenza o di reati erano molto bassa. Cioè uscire dalla comunità o dal carcere significa avere avanti a sé un destino diverso. E i dati sulla recidiva sono chiari: 20% contro l’80%. Esiste, quindi, una responsabilità politica? Le politiche degli ultimi 20 anni sono state disastrose. Gli ultimi grandi sforzi per far crescere questo tipo di risposta risalgono ai governi Prodi, D’Alema e Amato, con Livia Turco alle Politiche sociali, Giorgio Napolitano agli Interni e Rosy Bindi alla Sanità. Dopo c’è stato il disastro con i governi successivi e ora è tutto fermo. Per i giovani la situazione è davvero difficile: servirebbe la prevenzione psicologica? Bisognerebbe offrire assistenza psicoterapeutica alle famiglie in difficoltà, fin dal primo manifestarsi dei problemi dei ragazzi. Ed è importante che sia una risposta nei confronti di tutta la famiglia. I ragazzi che si tagliano, ad esempio, esprimono un disagio e lanciano dei segnali di aiuto evidenti sui quali bisogna intervenire entrando nello specifico di quella situazione familiare, per aiutarli a risolvere il disagio. La risposta farmacologica con antidepressivi non serve a nulla. La prevenzione è fatta di un intervento corretto rispetto alla prepotenza della psicofarmacologia. La psicoterapia dovrebbe aiutare i nuclei familiari ad affrontare la malattia. Questa è la vera prevenzione per gli adolescenti in difficoltà. Così si potrebbero evitare episodi molto tragici come quello di Paderno Dugnano? Sicuramente sì. Quel ragazzo ha avuto un esordio psicotico, era circospetto, un po’ chiuso e i segnali del suo disagio erano più difficili da cogliere. Viva la procura di Venezia, che sul processo Turetta dice “no alla spettacolarizzazione” di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 settembre 2024 Le parole coraggiose del capo della procura veneziana, Bruno Cherchi: “Questo non è il processo contro i femminicidi, ma un processo contro il singolo che si chiama Turetta. No alla pressione mediatica”. Il precedente del procuratore di Parma. “Questo non è il processo contro i femminicidi, ma un processo contro il singolo che si chiama Turetta e che risponderà dei reati che gli sono stati contestati. Se si sposta questo quadro a obiettivi più ampi si snatura totalmente il processo. Il processo non è uno studio sociologico, che si fa in altre sedi, il processo è l’accertamento di responsabilità dei singoli”. A dirlo è stato Bruno Cherchi, procuratore capo di Venezia, a margine dell’udienza di apertura del processo nei confronti di Filippo Turetta, reo confesso per l’omicidio di Giulia Cecchettin. “Questa è la posizione della procura, e lo è fin dall’inizio, quando abbiamo detto che il processo deve svolgersi in aule giudiziarie con i diritti che anche l’imputato ha, secondo la Costituzione e il codice di procedura penale”, ha aggiunto Cherchi, respingendo “la spettacolarizzazione” del processo stesso: “Sarebbe grave se Filippo Turetta non partecipasse a un processo pubblico, a cui ha il diritto di partecipare e difendersi, per questa pressione mediatica che c’è stata fin dal primo momento”. Alla prima udienza, in effetti, Turetta non si è presentato. Venerdì, a poche ore dall’inizio del processo, il programma “Quarto grado” ha trasmesso alcuni spezzoni del video dell’interrogatorio reso da Turetta dopo l’arresto. In precedenza, erano persino state mandate in onda le intercettazioni dei colloqui avuti da Turetta con i suoi genitori, dal contenuto penalmente irrilevante (attività censurata dal Garante per la privacy). “Il clamore mediatico in questa prima udienza gli ha suggerito di non essere presente”, ha dichiarato il suo legale, l’avvocato Giovanni Caruso, auspicando che il processo non si trasformi nel “vessillo di una battaglia culturale contro la violenza di genere”. A colpire sono soprattutto le parole contro il circo mediatico pronunciate in maniera coraggiosa dal procuratore Cherchi, cioè dal rappresentante dell’accusa, che troppo spesso punta proprio alla spettacolarizzazione delle indagini e del processo per favorire il clima di colpevolizzazione degli imputati. La posizione di Cherchi contro il circo mediatico sembra rievocare quella espressa sabato scorso sul Foglio dal procuratore di Parma, Alfonso D’Avino, che si occupa del delicato caso dei neonati uccisi a Traversetolo da una ragazza 22enne (“Indagare una persona non significa che questa debba essere messa alla berlina”). Come sempre, ciò che dovrebbe essere ordinario appare straordinario. Ma intanto vien da dire: dopo Parma, viva la procura di Venezia. Vicenda Open Arms, lo sbilanciamento dei poteri di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 23 settembre 2024 Il processo al ministro Salvini, cominciato nell’aula bunker del carcere Pagliarelli, dovrebbe essere un processo come gli altri, dal cui esito finale scaturiranno assoluzioni, condanne, avanzamenti o interruzioni di carriera. Passa tutto in fretta, come se mai niente fosse. Anche la frase con cui Matteo Salvini ha accolto la richiesta del Tribunale di Palermo di una condanna a 6 anni per sequestro di persone, in relazione alla vicenda Open Arms, è già scivolata via tra le onde artificiali sollevate dalla politica. Il principale capo d’accusa è noto: impedire per molti giorni l’accesso al porto di Lampedusa a una nave di soccorso con naufraghi a bordo, mettendo così a rischio le vite di migranti appena salvate. Tra le molte cose che il nostro vicepresidente del Consiglio, nonché ministro dei Trasporti, ha detto a commento di un passaggio processuale comprensibilmente sgradito, ce n’è una che meriterebbe un più di attenzione: “Anche se mi condannano, non mi dimetto”. E sul tema ha già ricevuto rassicurazioni formali, oltre che solidarietà politica, dalla premier Giorgia Meloni e dai colleghi di governo di maggior peso. Tanto, il problema si porrà chissà quando. “Non patteggio, avanti fino in Cassazione”, ha rassicurato il leader leghista. Quindi, anche se si arriverà a sentenza di primo grado entro fine anno, l’ultimo capitolo giudiziario ha una data non prevedibile. Il punto non è dunque il futuro prossimo del vertice a tre punte dell’esecutivo (Meloni, Tajani e appunto Salvini), quanto la sfida lanciata da una di quelle punte ai magistrati che gli hanno caricato sulle spalle “non una bella cosa”, e di conseguenza alla Magistratura di cui la procura di Palermo è parte. La martellante campagna a favore dell’imputato, e contro chi si è permesso di metterlo in quella condizione, sta portando valanghe di insulti e minacce a Marzia Sabella, Geri Ferrara e Giorgia Righi, i tre pm che hanno avanzato la richiesta di condanna. E la delegittimazione del loro operato parte dall’alto, con il senatore Gasparri, uno tra cento, che ammonisce: “Basta con questo atteggiamento eversivo di alcuni settori della magistratura, che si vorrebbe sostituire ai poteri legislativo e esecutivo”. E in fondo il nodo è proprio questo. Tornando alla frase “anche se mi condannano, non mi dimetto”, entriamo di diritto nel campo dello sbilanciamento dei poteri: seguendo la risoluta promessa di Salvini, un capo politico può dunque serenamente continuare a rappresentare il proprio Paese, addirittura da vicepremier, anche se giudicato colpevole da un tribunale e per un reato alquanto odioso. Non per l’imputato, ovviamente: “L’articolo 52 della Costituzione recita che la difesa della patria è un sacro dovere del cittadino. Mi dichiaro colpevole di aver difeso l’Italia e gli italiani”. Da chi? Dalla minaccia fantasma rappresentata da 147 migranti, di cui 32 minorenni, raccolti in mare dalla Open Arms e tenuti per 19 giorni senza il permesso di attraccare, in perfetta osservanza del Decreto sicurezza bis ma in spregio del diritto internazionale che prevede in casi simili la prevalenza dell’umanità. Siamo nell’agosto 2019, periodo dal 2 al 20, il picco più eclatante dell’ascesa dell’allora ministro dell’Interno, uomo fortissimo del governo Conte 1. Il vocabolario di Matteo Salvini, a parte l’archiviata parentesi di gattini e rosari, è abbastanza perentorio e assertivo. Ne riassume l’energica baldanza un’altra intemerata relativa al processo di Palermo: “Conto su assoluzione, ma comunque io non mollo di un millimetro”. Fa tutto parte del “fattore Salvini”, una variabile inedita della nostra scena politica. Diventa segretario del partito che fu di Bossi ad appena 40 anni, nel 2013, con la Lega boccheggiante sotto il 4%. Dalla sede desertificata di via Bellerio a Milano, comincia a ridare un’identità alle fila padane in rotta, spingendo sui tasti di ordine, sicurezza, identità nazionale, contrasto deciso a ogni forma di inclusione. Ha grande successo la sua missione a bordo di una ruspa, nel tentativo di andare a “bonificare” un campo rom. Il solco è tracciato, il disegno chiarissimo: sfruttare tutto, anche i social, per intercettare paure e insofferenze da tempo soffocate, liberarle dai vecchi pudori e farne invece bandiera e orgoglio identitario. La conseguenza è una resurrezione elettorale che porta la nuova Lega al 17,35 % (Politiche 2018) e addirittura al 34,26 % alle Europee del 2019. L’arco di trionfo è l’ingresso dei bagni Papeete di Milano Marittima, con Salvini a petto nudo alla consolle e ragazze in bikini che ballano in spiaggia l’inno di Mameli. La prova di prepotenza su Open Arms nasce in questo clima da film di Sorrentino. Ma la troppa euforia è cattiva consigliera. Invece di incassare il dividendo politico di essere a quel punto il leader del primo partito, Salvini esonda, chiede pieni poteri alla folla balneare che l’acclama, sfiducia il premier Conte, il governo cade, e da lì comincia l’altro versante della sua parabola, che vede la Lega perdere quota fino a scivolare all’8,79 (Politiche 2022). Le spirali al ribasso non si arrestano mai da sole. Forse sarebbe utile un ripensamento di strategia, la scelta di un profilo più in linea con le difficoltà estreme del mondo, Italia compresa, e quindi la necessità di leader che cerchino di comporre le divisioni invece di alimentarle. Al momento però non sembra questa la via scelta da Salvini, fiero di aver incassato, sul caso Open Arms, il caldo plauso di Viktor Orbàn (“è il patriota più coraggioso e ricercato d’Europa”) e la vicinanza di Elon Musk, non esattamente un pompiere: “Bravo!”, gli ha scritto in risposta al salviniano “Sei anni di carcere per aver bloccato gli sbarchi e difeso l’Italia e gli italiani? Follia. Difendere l’Italia non è un reato”. E lo stesso Musk, attesa star del prossimo raduno di Pontida del 6 ottobre, ha provveduto a infuocare la polemica già in atto con la Magistratura: “Dovrebbe essere quel folle pubblico ministero di Palermo ad andare in carcere per sei anni”. Ecco, “quel folle pubblico ministero”, cioè il procuratore aggiunto Marzia Sabella, rappresenta un principio che è impresso in ogni aula di tribunale e nel cuore della nostra Costituzione: la legge è uguale per tutti. E il processo al ministro Salvini, cominciato nell’aula bunker del carcere Pagliarelli, dovrebbe essere un processo come gli altri, dal cui esito finale scaturiranno assoluzioni, condanne, avanzamenti o interruzioni di carriera. Nel caso di accertata colpevolezza, il buon senso, neanche quello istituzionale ma il comune buon senso civile, prevederebbe di trarne le conseguenze, specialmente se si occupano posizioni di alto governo del Paese. Dire, con larghissimo anticipo, “tanto io non mi dimetto”, fa pensare a quella scritta nella fattoria immaginata da George Orwell: tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Salvini e l’uso mediatico della giustizia di Serena Sileoni La Stampa, 23 settembre 2024 Cosa vuol dire che Open Arms è un processo politico? Ci sono due livelli di risposta, uno tecnico e uno concettuale. Tecnicamente, il ministro Matteo Salvini, all’epoca dei fatti ministro dell’Interno, è stato accusato dei delitti di sequestro di persona aggravato e di rifiuto di atti d’ufficio per non aver dato seguito, dal 14 al 20 agosto 2019, alle richieste di sbarco in porto sicuro provenienti da una nave ONG che aveva soccorso 147 migranti in mare. L’accusa è per reati commessi in forza e in occasione del suo ruolo politico, tanto che la magistratura, per poter procedere, ha dovuto attendere l’autorizzazione del Senato, concessa nonostante il parere contrario della giunta per le autorizzazione a procedere della medesima camera e in maniera diversa da quanto deciso mesi prima, in un clima più conciliante di governo, nell’analogo caso della nave Diciotti, che coinvolgeva lo stesso ministro. Per forza di cose, quindi, è un processo politico: politico ne è l’imputato, ai tempi dei fatti e ancora oggi; politica la fattispecie. Ma politico lo è anche concettualmente. Diceva Salvatore Satta, uno dei più grandi processual-civilisti italiani, che i processi politici sono quelli in cui “sembra che due giusti si contrappongano, che distinguere il giusto dall’ingiusto non si possa talora se non sulla linea della forza, in cui non si sappia chi sia l’accusato e l’accusatore”. Open Arms non è semplicemente un confronto giudiziario tra un giudice che deve esaminare le prove e decidere e un imputato che deve difendersi e provare a convincerlo della sua innocenza. È una ricostruzione della verità processuale molto più intensa, dove le ragioni addotte dall’uno sul dovere di difendere la patria dibattono con pretesa di pari merito con le ragioni addotte dall’altro sul dovere di soccorrere vite in pericolo. L’imputato non si difende, ma accusa. Accusava, da ministro dell’Interno prima e da leader della Lega oggi, gli altri Stati di fare i loro interessi e chiudere i porti più cinicamente di quanto faccia l’Italia, l’Europa di lasciare il nostro paese solo a fronteggiare l’immigrazione, le ONG di facilitare il traffico illecito di migranti, la magistratura di averlo reso vittima di una giustizia ingiusta perché indifferente alle ragioni di sicurezza interna. L’appoggio ottenuto in primo luogo dalla Presidente Meloni corrobora la prosecuzione di questa accusa e rende politico in senso concettuale il processo. Dal punto di vista del rapporto tra circuito politico e circuito giudiziario, questo sembra un punto originale. La mediatizzazione delle decisioni di quei giorni, di cui il ministro dava ampio resoconto sui social, è divenuta mediatizzazione del processo, come dimostrano il video registrato da Salvini (e mandato persino sulla Rai) e il post pubblicato dalla Presidente Meloni poco dopo le conclusioni rassegnate dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Palermo. Nessuno, si vuole sperare nemmeno Salvini, nega che il soccorso in mare sia tra gli obblighi consuetudinari più antichi. Ma la condotta di diniego del ministro era strumentale a portare a compimento la politica dei porti chiusi. In quel compimento, era probabilmente calcolata fin dall’inizio l’eventualità di un processo, che avrebbe anzi portato ancor più forza alle ragioni dell’imputato, rendendolo la vittima sacrificale della giusta lotta alle ONG, ritenute responsabili di favoreggiare il traffico di esseri umani. La condotta sempre più isolata che ebbero il ministro Salvini e l’allora suo capo di gabinetto Matteo Piantedosi era, paradossalmente, utile alla causa: “siamo soli contro tutti - twittava il ministro - Contro Ong, tribunali, Europa e ministri impauriti”. Si usa dire, perché corrisponde a vero, di un risalente conflitto tra politica e magistratura nel nostro Paese. Da ultimo, lo documentano le quasi 1000 pagine degli storici Marcello Flores e Mimmo Franzinelli su magistratura, politica e processi, pubblicate per il Saggiatore. Si usa anche dire, sempre perché corrisponde a vero, che i processi - ahinoi - si svolgono ormai nelle piazze mediatiche. Ma il caso Open Arms è diverso perché inverte le cose rispetto a quanto siamo abituati a vedere. In questo caso, infatti, il circo mediatico-giudiziario è stato attivato e viene sollecitato da chi, normalmente, è vittima di questo circuito. È l’imputato a volere la mediatizzazione e la immediatizzazione dei messaggi, poiché l’attività oggetto di giudizio è vissuta dallo stesso come questione che tocca la sua stessa sopravvivenza politica. Dalla vicenda Open Arms si sono avvicendati tre governi. L’attuale, di cui Salvini è vice presidente del Consiglio, ha smesso di ripetere l’espressione “porti chiusi” ma è pur sempre emanazione delle forze politiche che hanno giurato guerra alle ONG e al favoreggiamento dell’ingresso clandestino di immigrati. Sono loro ad aver bisogno di tenere accesa l’attenzione, di usare i media per serrare i ranghi dell’elettorato intorno a quello che è rimasto l’ultimo e più essenziale punto di distinzione politica, la questione migratoria. Il rispetto delle vite umane, il dovere di salvare chi è in pericolo, l’obbligo di difesa della Patria, la tutela della sicurezza nazionale sono però questioni irriducibili alla politica dei social. Se politica deve essere, merita che sia fatta attraverso idee e programmi, non video e post. Con questi, si anima il conflitto, ma non si risolvono i nodi né della difesa della patria né del rispetto delle vite umane. Meloni di governo ha mostrato di esserne consapevole, molto più del suo profilo su X e del suo alleato. Quella di Salvini è una difesa che va oltre i confini dei fatti e della legge di Luca Gambardella Il Foglio, 23 settembre 2024 L’accusa ha chieso sei anni di carcere per il vicepremier, lui si difende con due nuovi capitoli del suo libro “Controvento” che sembra sempre più “sottosopra” il modo nel quale interpreta il quadro dei fatti contestati. Dopo il cinema, la letteratura. Il vicepremier Matteo Salvini sveste gli abiti dell’imputato su sfondo nero e occhi sgranati rivolti a filo macchina per mettere mano alla tastiera e compilare per iscritto il suo memoriale sul caso Open Arms. Il vicepremier vuole svelare la sua verità, a pochi giorni dalla requisitoria della pubblica accusa, che ha chiesto per lui sei anni di carcere - oltre un milione di euro è invece la richiesta di risarcimento avanzata dalle parti civili. Freschi di stampa, ecco allora due nuovi capitoli che vanno ad arricchire la biografia politica di Salvini. E a leggere d’un fiato il suo diario, più che “Controvento”, è “Sottosopra” il modo in cui Salvini interpreta il quadro dei fatti contestati. Il primo capovolgimento riguarda il cuore pulsante della sua linea difensiva, ovvero che la difesa dei confini prevale su tutto, diritti umani compresi. Cita l’articolo 52 della Costituzione - “La difesa della patria è sacro dovere del cittadino” - ma omette un’altra disposizione della Carta, l’articolo 10, che dice questo: “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Norme che Salvini dimentica in ognuno dei suoi passaggi, ma che per i pm di Palermo sono alla base dei reati contestati - sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio. Ma nel mondo sovranista del leader della Lega, a essere chiusi non sono solamente i porti, ma anche l’ordinamento giuridico italiano. Per lui, è come se il diritto internazionale non esistesse. Nonostante la dovizia di dettagli su tesi complottiste varie e assortite - immancabili Palamara e la giudice Apostolico - Salvini manca di spiegare per quale motivo il suo caso dovrebbe essere immune all’applicazione della Convenzione Solas del ‘74 o di quella Sar del ‘79 oppure della Unclos dell’82. Sono solamente alcune delle convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia e che, secondo i pm, Salvini avrebbe violato nel rifiutarsi di assegnare un porto sicuro alle 147 persone salvate da Open Arms nell’arco di 20 giorni. Leggi essenziali che chiariscono come la difesa dei diritti fondamentali - la vita è una di questi - prevalga su quella dei confini. Puntualizzano come persino in presenza di comprovati sospetti sulla presenza di terroristi fra i naufraghi - e il dibattimento ha dimostrato come simili sospetti non siano mai emersi all’epoca dei fatti - prima si salvano le persone e poi, sulla terraferma, si processano. Specificano che un pos (place of safety) non può mai essere considerato un’imbarcazione perché un barchino stracolmo di migranti è considerato in sé e per sé in pericolo, a prescindere dalla sussistenza di un rischio immediato. Per lui, per Salvini, esistono invece “la sinistra e i pm di Palermo che vogliono Matteo Salvini in galera”, esiste la volontà di processare una politica - quando il Parlamento ha deciso che, più modestamente, si debba procedere a processare la gestione di un evento di salvataggio in mare e una serie di atti amministrativi. Esiste poi, e questo è il filone semi-comico nella ricostruzione di Salvini, il famigerato “sommergibile Venuti”, il coniglio dal cilindro che da un anno il ministro agita come la prova provata del complotto ai suoi danni. Le rivelazioni emerse dal pattugliamento del sottomarino della Marina militare il primo agosto del 2019 erano talmente scioccanti che all’epoca il Viminale, informato dei dispacci del comandante Stefano Oliva, li relegò nel faldone delle cose poco urgenti, perché dentro non trovò nulla di utile a scagionare l’allora ministro dell’Interno. Ma a distanza di quattro anni riecco Venuti e riecco il complotto, perché la difesa di Salvini asserisce di non essere mai stata informata dell’esistenza di un sottomarino. Falso, replica la procura, perché il ministero dell’Interno ne era stato messo a conoscenza fin da subito. “Un episodio gravissimo che in un paese normale provocherebbe ondate di indignazione e inchieste giornalistiche sui meccanismi della giustizia e della politica”, scrive Salvini. Il sommergibile, che casualmente si trova in quel tratto di mare, intercetta alcuni dialoghi a bordo di Open Arms e scatta delle foto. “Rivelazioni fondamentali”, per il ministro, che dimostrerebbero come “in quell’agosto 2019 c’erano dei sospetti sull’attività della Ong”. Rivelazioni fondamentali tipo questa: “Emerge che due persone, di cui una ‘probabilmente a bordo’ della Open Arms, parlavano in spagnolo e che verosimilmente si trovavano a poca distanza l’una dall’altra”. Due persone che parlano in spagnolo su una nave spagnola. Incredibile, ma non è finita qui, perché “dopo questo dialogo la Open Arms aveva cambiato rotta senza motivo apparente: guarda caso, si era avvicinata al punto esatto dove era presente un barchino con dei migranti”. Coincidenze? “È lecito pensare che il materiale potrebbe provare la presenza di scafisti e di comunicazioni rilevanti con la Ong”, conclude Salvini. Su quali basi sia “lecito pensarlo”, non è dato sapere ma quel che invece si sa per certo è che fino a oggi ogni indagine e ogni procedimento su questo tema sono stati sempre archiviati per mancanza di prove. Poi c’è la ricostruzione delle offerte di porti di sbarco che, secondo Salvini, Open Arms avrebbe rifiutato ostinandosi a volere attraccare solamente in Italia. “No, no, no”, ripete stizzito l’imputato nel suo libro riferendosi ai tre dinieghi che la nave ong avrebbe dato rispettivamente a Malta, Spagna e Tunisia. Peccato che la prima avesse offerto un porto - peraltro vicino a Gibilterra, per poi “avvicinarlo” alle Baleari - il 18 agosto, cioè 18 giorni dopo l’inizio della crisi e appena due prima che si concludesse. Peccato che Malta avesse offerto di accogliere solamente 39 migranti, quelli recuperati nel secondo salvataggio avvenuto nella sua zona Sar e che il comandante della Open Arms avesse rifiutato perché temeva disordini tra i naufraghi a bordo. Peccato, infine, che non solo non è vero che la Tunisia abbia mai offerto di fare sbarcare i migranti ma che, se anche lo avesse fatto, Tunisi non è un porto sicuro per via delle sue violazioni dei diritti umani. Ma insomma, tutto vale. “L’ho fatto, lo rifarei”, conclude l’imputato. Se ne riparlerà il 18 ottobre, quando per la requisitoria della difesa Salvini potrà contare su un nutrito drappello di sostenitori pronti a fare il tifo per lui fuori dall’aula bunker dell’Ucciardone. È prevista anche la partecipazione di una delegazione inviata da Viktor Orbán. “È il nostro eroe”, ha detto di Salvini. Punto. Fine del primo capitolo. Parma. Si rafforza il Polo Universitario Penitenziario unipr.it, 23 settembre 2024 Nuova intesa fra Ateneo e Istituti Penitenziari di Parma: didattica ma non solo, in un orizzonte ampio. Nell’accordo entrano anche ER.GO e Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune. Si rafforza il Polo Universitario Penitenziario (PUP) di Parma, frutto dell’intensa collaborazione tra Università e Istituti Penitenziari di Parma. Un polo naturalmente incentrato sulla didattica ma non solo, in un orizzonte più ampio: basti pensare ai laboratori di sociologia culturale, ai seminari di approfondimento in carcere, alla rivista “Cerchioscritti”, realizzata da studenti detenuti e non detenuti, alla stessa nascita di una sede esterna del PUP, luogo culturale e di co-produzione di nuovi saperi nato dall’esigenza di portare all’esterno del carcere l’esperienza del Polo e quindi la conoscenza che la condizione detentiva può sviluppare attraverso stimoli, suggestioni, responsabilità e condivisione. Oggi nella sede degli Istituti Penitenziari la presentazione del nuovo accordo, significativamente allargato anche ad ER.GO, l’Azienda regionale per il diritto agli studi superiori, e all’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Parma, in un’ottica anche in questo caso allargata e territoriale. L’idea di fondo scaturita dall’incontro di oggi è proprio questa: quella di un ponte fra carcere e territorio, considerando gli Istituti penitenziari non come una realtà a sé, avulsa da ciò che la circonda, ma come una presenza viva e attiva nel contesto in cui è inserita: con il quale, anzi, possa e debba intrecciare scambi continui e fecondi. Nell’incontro di oggi, condotto dalla Responsabile dell’Area educativa degli Istituti penitenziari Maria Clotilde Faro, sono intervenuti il Direttore del carcere Valerio Pappalardo, il Rettore dell’Università Paolo Martelli, il Sindaco Michele Guerra, la Delegata del Rettore al Polo Universitario Penitenziario Vincenza Pellegrino, la Direttrice di ER.GO Patrizia Mondin, la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Parma Veronica Valenti, il nuovo Comandante della Polizia penitenziaria Mauro Pellegrino. Di fronte a loro molti degli studenti detenuti del PUP di Parma, alcuni dei quali hanno anche portato intense testimonianze personali su cosa significhi studiare in carcere e sul valore dello studio e della cultura come strumento di formazione, di riflessione sul sé, di definizione, o ridefinizione, di una propria identità, anche nell’ottica del reinserimento sociale per chi terminerà il periodo detentivo. “La cultura è opportunità di riscatto e di scommessa su di sé”, ha detto in apertura il Direttore Valerio Pappalardo, che ha aggiunto: “Le difficoltà per questo percorso ci sono state e ci sono, ma sono contento dei risultati che abbiamo conseguito in questi anni, che ne testimoniano la bontà”. “Si tratta di un progetto che ha un obiettivo molto forte: creare opportunità di crescita personale per chi in questo momento si trova privato della libertà, ma non è privato della dignità e della possibilità di riscatto”, ha osservato il Rettore Paolo Martelli, augurando poi agli studenti detenuti “che quello che avete fatto all’interno di questo progetto vi sia davvero utile per la vita”. Partito ufficialmente nel 2018, il PUP di Parma è passato dagli iniziali 5 studenti agli oltre 40 di oggi. “Abbiamo iniziato con la convinzione che il diritto allo studio sia legato al diritto alla classe, all’incontro. Questa è la sfida del ponte fra Università e carcere. È un’impresa che va avanti, e per me è una grande scuola”, ha commentato Vincenza Pellegrino. “Ho sempre creduto che esista una reciprocità fa questo luogo e la città. Una reciprocità che va valorizzata e che porta valore da una parte e dall’altra”, ha spiegato il Sindaco Michele Guerra, sottolineando che “questo carcere per Parma è un’opportunità”. Il nuovo accordo per il PUP coinvolge anche ER.GO: l’azienda metterà a disposizione degli studenti detenuti contributi per il diritto allo studio, legati all’impegno, alla carriera e al merito: “Vogliamo che nessuno studente universitario che entra in questo circuito si senta solo. E mi fa piacere sottolineare - ha rimarcato la Direttrice di ER.GO Patrizia Mondin - che l’Emilia-Romagna è l’unica Regione che prevede questo tipo di intervento”. Altro nuovo ingresso nell’accordo PUP è quello dell’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune: “Ci sarà naturalmente collaborazione nelle attività seminariali - ha affermato Veronica Valenti - ma con il nostro ingresso nell’intesa si rafforza anche il rapporto tra il Garante e tutti i soggetti coinvolti, dagli studenti detenuti all’Ateneo e al carcere”. Sull’idea del ponte fra carcere e città si è soffermato anche il nuovo Comandante della Polizia penitenziaria Mauro Pellegrino: “Per questo ponte - ha affermato - mi auguro di essere un interlocutore ritenuto valido, e non di ostacolo”. Il PUP di Parma fa parte della rete dei Poli esistenti in alcuni Atenei italiani, i quali, seguendo l’esempio dell’Università di Torino, negli anni hanno avviato progetti analoghi per garantire il diritto allo studio universitario a studenti detenuti e oggi sono riuniti in una Conferenza nazionale (la Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari - CNUPP). Oltre agli esami, alle sedute di laurea e agli incontri con le docenti e i docenti, all’interno dell’Istituto Penitenziario si tengono incontri di orientamento e brevi cicli di lezioni in presenza di studenti detenuti e non, sempre nel pieno rispetto delle condizioni che permettano la sorveglianza. Per accompagnare gli studenti detenuti nel percorso di studio e assisterli nell’espletamento di tutte le attività connesse alla carriera universitaria, è prevista la presenza di tutor, studenti iscritti all’Università alle lauree magistrali o a Corsi di Dottorato. Milano. “Liberi sospesi”: un tema da studiare e un problema da risolvere. Workshop alla Statale sistemapenale.it, 23 settembre 2024 La condizione di “libero sospeso” è propria di chi, essendo stato condannato con sentenza definitiva a una pena detentiva non superiore a quattro anni, dopo la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena (art. 656, co. 5 c.p.p.) attende per molto tempo (spesso per anni) la decisione del tribunale di sorveglianza sulla richiesta di una misura alternativa alla detenzione. Come risulta da una recente risposta scritta del Ministro della giustizia a una interrogazione parlamentare, i “liberi sospesi” sono oltre 90.000: un numero ben maggiore di quello dei detenuti e quasi pari a quello di quanti oggi si trovano a vario titolo in esecuzione penale esterna. Un numero che certifica una grave e intollerabile patologia del sistema dell’esecuzione penale, inconciliabile con i principi costituzionali e già portata all’attenzione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Nell’ambito delle proprie attività di ricerca, il Dipartimento di Scienze giuridiche Beccaria dell’Università degli Studi di Milano ha organizzato per martedì 24 settembre (14.30-17.30) un workshop con l’intento di mettere a confronto le esperienze, le testimonianze e le riflessioni di esperti e studiosi. Le dimensioni del problema sono tali da rendere opportuna e non differibile una seria riflessione che metta a fuoco i problemi connessi alla realtà dei “liberi sospesi” e contribuisca a valutare e suggerire possibili soluzioni. L’incontro, introdotto e moderato dal prof. Gian Luigi Gatta (Ordinario di Diritto penale e Direttore di Sistema penale) e dalla dott.ssa Giulia Mentasti (Assegnista di ricerca in Diritto penale e Coordinatrice della redazione di Sistema penale), si svolgerà in forma seminariale e (anche per il numero ridotto di posti disponibili) è aperto a quanti intendano partecipare al dibattito (per iscrizioni: giulia.mentasti@unimi.it). Per contribuire all’attività di studio del problema oggetto dell’incontro, che impegnerà nei prossimi mesi il Dipartimento Beccaria e rispetto al quale la nostra Rivista intende accendere un faro, tutti quanti (avvocati e magistrati in primis) possano dare un contributo in termini di informazioni, testimonianze e materiali sono invitati a scrivere a giulia.mentasti@unimi.it. Hanno confermato la loro presenza: Valentina Alberta - Avvocato, Milano; Monica Amirante - Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Salerno; Marcello Bortolato - Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze; Antonella Calcaterra - Avvocato, Milano; Gaia Caneschi - Ricercatrice, Università degli Studi di Milano; Lucia Castellano -Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per la Campania; Roberto Cornelli - Ordinario di Criminologia, Università degli Studi di Milano; Angela Della Bella - Ordinario di Diritto penale, Università degli Studi di Milano; Giovanna Di Rosa - Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano; Emilio Dolcini - Emerito di Diritto penale, Università degli Studi di Milano; Fabio Fiorentin - Magistrato di Sorveglianza, Venezia; Fabio Gianfilippi - Magistrato di Sorveglianza, Spoleto; Simone Luerti - Magistrato di Sorveglianza, Milano; Francesco Maisto - Garante dei detenuti del Comune di Milano; Michele Passione - Avvocato, Firenze; Giovanni Pavarin - già Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Trieste; Francesco Petrelli - Avvocato, Presidente Unione Camere Penali Italiane; Paola Rubini - Avvocato, Padova Piacenza. “Il carcere è ingiusto come la società, per i detenuti i diritti diventano concessioni” di Francesco Petronzio piacenzasera.it, 23 settembre 2024 “È un momento terrificante per il nostro mondo, ma il carcere si può trasformare”. Dalle perquisizioni agli ambienti, dalla tecnologia alla fiducia: in galera ogni diritto diventa concessione, tutto dipende da decisioni prese dall’alto. “Il carcere somiglia alla nostra società, è ingiusto come è ingiusto il mondo in cui viviamo. Ma un’alternativa è possibile, a partire dalle piccole cose: ad esempio, si può iniziare a cambiare il concetto di diritto. Oggi il carcere è ancora il luogo del potere assoluto, tutto è una concessione sovrana”. Dal 1991 Lucia Castellano lavora nell’amministrazione penitenziaria, oggi è provveditrice regionale dell’amministrazione penitenziaria in Campania. Trentatré anni di impegno per migliorare, anche di poco, la vita nelle carceri italiane. C’è ancora tanto da fare, come ha spiegato al Festival del Pensare Contemporaneo di Piacenza nel pomeriggio di domenica 22 settembre davanti a un salone di Palazzo Gotico gremito. Insieme a lei, la giornalista Daria Bignardi, che quest’anno ha raccolto una serie di esperienze di detenzione nel libro “Ogni prigione è un’isola”. A moderare l’incontro, la giornalista Marcella Maresca. “Cominciamo a pensare ai detenuti come soggetti portatori di diritti - ha detto Castellano - potrebbe essere una piccola grande novità”. Tante le innovazioni che, secondo la procuratrice, si potrebbero attuare nel mondo del carcere. Per la comunicazione, Castellano dice che “si potrebbe permettere ai detenuti di usare le e-mail, tra l’altro sarebbero più tracciabili rispetto ai pizzini”. “La pandemia - racconta - ha portato in carcere le videochiamate, che si aggiungono ai colloqui in presenza: il detenuto può così entrare in casa propria, vedere le stanze dei propri figli”. Ma è sempre il direttore a stabilire se e quando concedere questa libertà. “I diritti sono tali perché non si meritano - dice Castellano - andrebbe cambiato il concetto”. Da anni Daria Bignardi frequenta i penitenziari italiani. “San Vittore (a Milano, ndr) è la realtà che conosco meglio - rivela - anche perché non è lontano da dove vivo, ma ho visitato anche il carcere femminile di Pozzuoli e quello di Tirana, in Albania. In questi anni ho capito quanto è complesso quel mondo e come è ingiusto che venga amministrato in modo così arcaico, medievale. Soprattutto negli ultimi dieci anni il carcere è un luogo che accoglie un’umanità dolente, disgraziata. È molto cambiato rispetto a ciò che vedevo nel 1998, quando c’erano detenuti politici e grandi rapinatori; oggi ci sono soprattutto piccoli delinquenti, malati psichiatrici, tossicodipendenti e immigrati. E gli strumenti sono pochi per stare dietro a questo mondo. Il carcere somiglia alla nostra società, è ingiusto come la nostra società. Molti finiscono in carcere da innocenti o per reati commessi involontariamente, è un mondo che riguarda tutti noi come cittadini”. E poi sottolinea come negli ultimi trent’anni siano diminuiti i reati ma aumentata la popolazione in carcere. “Nel 1990 c’erano 30mila detenuti, nel 2019 sono diventati 60mila. È un’assurdità”. Oltre a chi sta in carcere, c’è anche - per fortuna - chi può scontare la pena in modo diverso. “Per le pene inferiori ai quattro anni - spiega Lucia Castellano - il legislatore immagina possibili misure alternative al carcere, come i lavori di pubblica utilità. Il numero di persone che scontano la pena all’esterno sta crescendo, e questo è un bene. Ma, allo stesso tempo, dovrebbe diminuire la popolazione detenuta, che invece è in crescita. C’è qualcosa che non va”. “Chi entra in carcere viene perquisito in modo disumano. Perché non pensiamo a un tipo di controllo simile a quello degli aeroporti? Sarebbe ugualmente efficace ma non lesivo della dignità”, propone Castellano, che però amaramente constata: “Se avessimo relazioni significative che rispettino la dignità avremmo un carcere migliore, io non ci sono riuscita, passo il testimone a chi è più giovane di me, nella speranza che si possa migliorare”. Come dovrebbe cambiare la relazione con i detenuti? “Il carcere non può essere un servizio pubblico come gli altri - afferma la procuratrice - soltanto nel momento in cui la relazione col detenuto è vera, quando il detenuto percepisce di avere intorno un mondo che si occupa di lui e il mondo penitenziario ruota intorno all’utenza (i detenuti), solo così potremmo davvero pensare di cambiare il carcere”. È un cambio di paradigma nella mentalità, nel modo di pensare ai detenuti quello che Lucia Castellano auspica. “Si può fare se il carcere smette di essere solo un affare delle amministrazioni penitenziarie e diventa un affare della città. La città deve entrare dentro il carcere: la contaminazione è imprescindibile affinché il carcere acquisti il senso che la legge gli dà. La regola senza la relazione non ha significato, così come non ce l’ha la relazione senza la regola”. Come si rapporta la politica al carcere? “La politica è molto bloccata sulla questione carceraria - afferma Bignardi - perché parlare di trasparenza, di modernizzazione delle carceri non porta voti. La gente pensa: perché stanziare risorse per chi ha commesso crimini?”. “Il carcere è l’ultimo anello di una catena - spiega Castellano - spesso ci si finisce per deprivazione sociale o per impossibilità di avere una misura alternativa, spesso perché non si ha una casa. Questo succede soprattutto al nord, dove c’è un’utenza straniera da inserire, rispetto alla quale noi siamo inermi, mentre al sud la situazione è diversa. Siamo il punto finale di un sistema che porta in galera sempre la stessa gente: a parte il periodo di Mani Pulite, ho sempre visto ‘facce da galera’. Al sud invece in carcere ci sono anche persone affiliate o vicine alla criminalità organizzata. Il nostro è un compito difficilissimo, ma allo stesso tempo affascinante”. Quello del carcere è un mondo difficile sotto svariati punti di vista, ma le esperienze di redenzione esistono. “Può capitare che in carcere un detenuto conosca una persona, uno psicologo, un educatore, che gli dà fiducia. Per cui, quando esce, ha voglia di fare del bene. La fiducia è in grado di cambiare qualunque relazione. A volte è più facile stare nel proprio angolo e non amare, ma quando ci si sforza di farlo i risultati ci sono”. Uno dei racconti contenuti nel libro di Daria Bignardi ha come protagonista Ahmed, il fratello di una delle vittime della rivolta dell’8 marzo 2020 nel carcere di Modena. “Quando Conte annunciò l’inizio del lockdown, nelle carceri iniziarono le rivolte. Se il virus fosse entrato, molto probabilmente tutti si sarebbero contagiati. Furono sospesi i colloqui, i trattamenti, e i detenuti erano consapevoli del rischio di morire come topi. Nel carcere di Modena quel giorno morirono nove persone, ufficialmente a causa dell’eccesso di psicofarmaci e metadone prelevati dalla farmacia. Ahmed - racconta Bignardi - mi disse che pochi giorni prima suo fratello gli aveva confidato che stava molto male e si sentiva di morire. Aveva una pena breve, sarebbe uscito dopo un mese. Ahmed mi disse: ti sembra possibile che una persona che esce fra un mese si uccide col metadone? Come tanti altri, prima di immigrare Ahmed considerava l’Italia il luogo della legalità. Sono queste le storie che mi fanno vergognare”. Personale a zero e uno Stato distratto. “Fallire è doloroso” di Flavia Amabile La Stampa, 23 settembre 2024 “Ogni volta che leggo o sento le storie di ragazzi che non ce l’hanno fatta, che avrebbero potuto, con un poco di aiuto, rimettersi sulla strada della convivenza civile e uscire dalla microcriminalità o dal disagio sono travolta dall’amarezza, dalla rabbia dall’impotenza”. Barbara Rosina, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali, non nasconde la sua frustrazione di fronte alle tante storie in cui gli assistenti sociali non riescono a lavorare come dovrebbero: “E non succede raramente - aggiunge - che scopriamo di aver fallito, e che le organizzazioni in cui lavoriamo non sono in grado di proteggere le persone in difficoltà e dar loro le risorse per cambiare vite che sembrano già scritte”. Uno sfogo accorato, il suo: “Sì, è vero: sbagliano, sbagliamo in molti, ma paga soltanto chi è già vittima designata - continua Barbara Rosina - e però credo che se ognuno di noi, e parlo di un “Noi” grande che va dai servizi sociali alle forze dell’ordine, alla Giustizia, avesse sempre gli strumenti e la preparazione giusta per mettere in campo la migliore delle soluzioni possibili, le storie dei fallimenti potrebbero essere eccezioni”. Responsabilità . Non succede raramente che gli assistenti sociali scoprano di aver fallito, quindi. Né succede raramente che su di loro venga scaricata la responsabilità quando accade un omicidio, una violenza o un altro crimine. È accaduto con Moussa Sangare che ha ucciso Sarah Verzeni nella notte tra il 20 e il 30 luglio scorso. È accaduto a Caivano dove un anno fa furono stuprate due ragazzine di 10 e 12 anni appena. È accaduto e accadrà ancora e la domanda che molti si pongono in questi casi è: dov’erano i servizi sociali? Burocrazia - “Innanzitutto va detto che i servizi sociali non sono presenti capillarmente sul territorio come la scuola o i servizi sanitari”, risponde Elisabetta Cibinel, laureata in Politiche e servizi sociali all’università degli studi di Torino e ricercatrice presso il Laboratorio Percorsi di Secondo Welfare. “Va poi ricordato - aggiunge - che i servizi hanno un certo tipo di funzionamento e non è detto che siano direttamente coinvolti. Quando vengono raggiunti devono attivarsi, ma a volte manca l’anello della catena e la segnalazione a loro non arriva”. Insomma si è convinti di aver fatto una segnalazione ai servizi sociali in realtà o la segnalazione andava fatta ad altri oppure è stata inviata in modo errato, come spesso accade nella macchinosa burocrazia italiana. Poche forze - Ma questa è solo una parte della risposta. Quando ci si chiede dove siano i servizi sociali molto più spesso ci si ritrova di fronte a una disarmante realtà: gli operatori sono pochi, spesso non formati in modo adeguato e incapaci di rispondere alle richieste di una società che li investe di carichi di lavoro e responsabilità sempre più ampie. “La nostra ricognizione - spiega Barbara Rosina - ha fatto emergere come gli assistenti sociali nei consultori siano oggi 868, mentre dovrebbero essere almeno pari al numero dei consultori, vale a dire 2.943. Mancano quindi 2.075 professionisti, circa il 70 per cento di quelli che sarebbero necessari”. Il rapporto - Secondo una fonte al di sopra delle parti come l’Ufficio parlamentare di bilancio servirebbero almeno altri 3 mila assistenti sociali nei comuni con l’obiettivo di arrivare a un assistente ogni 5 mila persone come previsto dai Leps, cioè dai livelli essenziali delle prestazioni sociali, individuati dalla manovra 2021. La denuncia è contenuta in un rapporto pubblicato lo scorso 18 dicembre: per raggiungere la soglia minima di assistenza sarebbero necessari per l’esattezza altri 3216 assistenti sociali mentre il lavoro compiuto finora appare insufficiente. “A due anni dall’introduzione dei Lep - avverte l’Upb - sono 1. 688 i nuovi assistenti sociali registrati, con un incremento molto graduale rispetto alle risorse complessivamente disponibili e non sufficiente a correggere la sperequazione esistente fra territori rispetto al Lep”. Dove? Soprattutto nel Veneto e nelle Regioni del Centro e del Mezzogiorno dove in media un assistente sociale serve un bacino di più di 10.000 abitanti con l’unica eccezione della Sardegna. I motivi di questa geografia variegata sono numerosi ma a non funzionare è innanzitutto il meccanismo del finanziamento. È previsto un livello minimo di assistenti per accedere al contributo, che ha “indebolito la portata perequativa dell’intervento”, sostiene il rapporto dell’Upb. In altre parole: chi era indietro, resta ancora più indietro e chi è avanti va ancora più avanti. Un problema che non potrà che acuirsi con l’autonomia differenziata. Lo svuota carceri - Di fronte a questo quadro poco confortante le richieste che arrivano dagli assistenti sociali sono sul tavolo dei governi da tempo. Chiedono di rivedere la formazione. “I percorsi di laurea non sono adeguati alla complessità che stiamo affrontando”, spiega Barbara Rosina. Chiedono più personale. “Attendiamo 500 assunzioni al ministero della Giustizia - ricorda Rosina - perché con il decreto svuotacarceri sono aumentate le funzioni svolte dagli assistenti sociali”. Sottopagati - Ma chiedono soprattutto di vedere riconosciuto il loro ruolo. “In una società che invecchia - conclude la presidente del Cnoas - e che ha sempre più bisogno degli assistenti sociali le nuove generazioni stanno perdendo interesse per le professioni di cura perché sono sottopagate e sottovalutate. È necessario un investimento anche in informazione e comunicazione in cui il governo riconosca il valore della nostra attività”. Adolescenti e disagio mentale: quanto pesa il fattore scuola? di Ilaria Beretta Avvenire, 23 settembre 2024 Un nuovo studio italiano ha notato che tra il 2018 e il 2021 i tentati suicidi e i pensieri autolesionisti tra gli adolescenti non sono cresciuti durante il lockdown, ma con il rientro in classe. L’abbiamo letto tante volte, in questi anni: la pandemia e il lockdown - con l’isolamento sociale e la didattica a distanza - hanno influenzato negativamente la salute mentale dei ragazzi, con conseguenze che si registrano ancora oggi e che dell’evento pandemico sembrano l’onda più lunga. Ora invece una ricerca - pubblicata sul Journal of the American Medical Association e firmata da una trentina di medici e docenti in diverse università della Penisola - s’insinua come un tarlo nella narrazione a cui ci si era assuefatti, ne mina la solidità e costringe a rileggere quel periodo spazzando via quelle che adesso rischiano di apparire solo come semplificazioni mediatiche. In aumento le emergenze psichiatriche acute - Rivela infatti il campione studiato dai medici: tra gli under 18 i casi di suicidio tentato o ideato non sono aumentati nel contesto dell’isolamento del lockdown e della didattica a distanza, bensì con la riapertura delle scuole e il ritorno sui banchi. “In realtà la ricerca - spiegano Daniele Marcotulli e Chiara Davico, medici all’Ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino e primi autori dello studio - è iniziata ben prima del Covid quando la letteratura internazionale aveva già registrato un aumento del disagio psicologico tra i giovanissimi. Anche noi volevamo valutare l’impatto di alcuni fattori ambientali sulla salute mentale degli adolescenti e abbiamo cominciato concentrandoci sulla scuola, che in quella fascia d’età è uno degli ambienti più importanti. La pandemia e il lockdown hanno rappresentato per noi un esperimento naturale, visto che hanno causato l’interruzione della frequenza scolastica in un momento diverso dall’abituale”. Approfittando della situazione, i sanitari hanno analizzato i 13.014 accessi degli adolescenti ai pronto soccorso di 9 ospedali universitari italiani, dal Nord al Sud, nel periodo dal 2018 al 2021 e hanno notato che, quando i ragazzi frequentavano le lezioni in presenza, le richieste di intervento per emergenze psichiatriche acute e, in particolare per tentativi di suicidio e pensieri autolesionisti, aumentavano del 18% rispetto a quando gli insegnamenti erano sospesi o trasferiti online. In crescita durante il periodo scolastico anche le visite per disturbi alimentari che, però, non appaiono direttamente proporzionali alla presenza in classe ma più genericamente alla ripresa delle lezioni in ogni forma. Il fenomeno riguarda più le femmine dei maschi: un dato in linea con le ricerche internazionali. A livello italiano, però, questi sono i primi dati così ampi e robusti, anche se la ricerca è solo un punto di partenza e resta molto interrogativa. L’ansia da prestazione “attenuata” dalla Dad - “Come clinici, ma siamo nel campo delle ipotesi tutte da verificare - commentano Davico e Marcotulli - per ora ci siamo fatti l’idea che il problema possa essere la performance, da sostenere sia a livello didattico sia nel rientro del contesto tra pari”. In questo senso le lezioni a distanza - eliminando lo stress della presenza fisica e forse anche qualche difficoltà oggettiva delle verifiche - potrebbe avere tolto la fonte di stress. “Sì, all’inizio - conferma Alessandra Carenzio, professoressa associata di Didattica presso l’Università Cattolica di Milano - si subiva il digitale e gli studenti trovavano il modo per dribblare i controlli e non seguire le lezioni. Poi, nella maggior parte dei casi, le scuole si sono ingegnate e hanno usato gli strumenti digitali per insegnare in nuove modalità. Non necessariamente quella a distanza era una scuola più facile ma sicuramente c’erano meno pressioni, senza interrogazioni davanti ai compagni e con compiti più personalizzati. Oggi alcune scuole hanno fatto tesoro dell’esperienza e impiegano una didattica più partecipativa; altre sono tornate alla vecchia routine ripuntando tutto sulla performance. Secondo me è un errore: i ragazzi si bloccano per la paura di sbagliare, invece la didattica dovrebbe chiarire che l’errore è un momento di crescita”. “La scuola? Normale che sia un po’ stressante”? - Attenzione, però, a puntare il dito contro la scuola. Maura Foresti, psicologa, psicoterapeuta e membro della Società psicoanalitica italiana, da anni consulente in una scuola superiore, fa notare che per un ragazzo la scuola è per forza una fonte di stress. “Se non lo fosse, ovviamente in una misura ragionevole, - ragiona l’esperta - non svolgerebbe la sua funzione educativa. Per capire l’origine del disagio degli adolescenti io sposterei l’attenzione dalla scuola all’intera società. A noi stessi e ai ragazzi ripetiamo “se vuoi, puoi”, ponendo così l’accento sulla produttività e instillando un eccesso di positività che non contempla mai il limite, la frustrazione o la sofferenza. La vita, però, non è così: bisogna confrontarsi con delusioni e fragilità. È importante dire ai ragazzi che il dolore è parte dell’esistenza e insegnare, anche attraverso la didattica, a tollerare che crescere è fatica. Altrimenti si scolla il rapporto tra la percezione personale e la realtà e - come reazione - può scattare la violenza, verso se stessi o verso gli altri, che negli adolescenti si manifesta in modo più potente”. Questo modello di società è stato messo in crisi dalla pandemia perché, ad un tratto, era evidente a tutti che le cose non stavano andando bene; ma, secondo Foresti, il disagio è esploso al rientro perché “proprio come quando ci infortuniamo un arto, il dolore lo sentiamo non quando è immobilizzato ma quando riprendiamo a muoverlo”. Il ruolo dei compagni e dei genitori? - Nel ritrovato contesto scolastico, poi, i pensieri suicidi covati in solitudine potrebbero essere dilagati più facilmente. Infatti, come si influenzano nel modo di vestire e di parlare, gli adolescenti, stando insieme, possono contagiarsi anche in aspetti più patologici come l’adozione di comportamenti disfunzionali. Ma il confronto con gli altri può diventare problematico anche per un’altra ragione. “Oggi - rileva ancora Foresti - si tende a fare figli spesso unici a età sempre più avanzata. Questo fa sì che si investano i figli di molte aspettative e del compito di mostrare le abilità dei genitori attraverso la loro riuscita: tutti vorremmo un figlio geniale o campione. E così, se la scuola non certifica ogni talento o il figlio non brilla come atteso, il mondo crolla”. Insomma, gli aspetti che concorrono a questo stress che sembra diventato viscerale per una generazione sono tutt’altro che facili da elencare o interpretare. Evidenziarne la complessità è dunque il più grande merito di questa ricerca, su cui gli autori raccomandano: “L’unica cosa certa rilevata è la correlazione tra scuola e le segnalazioni di emergenza psichiatrica: il resto sono ipotesi. Questo studio è un primo dato, un punto da cui partire per approfondire un fenomeno che ha varie sfaccettature e che proponiamo di indagare nella maniera più scientifica possibile”. Politica e società civile. Così il referendum sulla cittadinanza vola a 300mila firme di Nadia Ferrigo La Stampa, 23 settembre 2024 Manca ancora una settimana per arrivare al quorum per chiedere di ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza per ottenere la cittadinanza. Accorciamo, anzi dimezziamo gli anni necessari a un cittadino straniero per ottenere la cittadinanza italiana: da dieci a cinque. Erano cinque prima del 1992 e così è in diversi stati europei. Questa è la proposta del referendum sulla cittadinanza promossa dalle organizzazioni degli italiani senza cittadinanza insieme a una rete di circa 50 tra associazioni e partiti da Libera a Action Aid a Oxfam. L’obiettivo è arrivare a raccogliere 500mila firme entro il 30 settembre e a una settimana dalla scadenza le firme raccolte sono oltre 300mila. Il quesito chiede dunque di ridurre da 10 a 5 gli anni di legale residenza necessari a un cittadino straniero per richiedere la cittadinanza italiana, secondo i promotori “un tempo ragionevole per dimostrare di conoscere la lingua, di non avere carichi pendenti, di avere un lavoro e una casa”. L’ultimo arrivato è Ghali, che con un post su Instagram invita alla firma: “Abbiamo bisogno di tutti noi”. E nella sua biografia di Instagram mette il link che porta alla pagina dell’iniziativa, con le istruzioni per la firma digitale. E la pensano così Don Luigi Ciotti, Emma Bonino, Luigi Manconi, Mimmo Lucano, Roberto Saviano, Alessandro Barbero, la segretaria del Partito Democratico Elly Schein, Iacopo Melio, Ascanio Celestini, Amir Issa, Mauro Biani - con i sindaci di Roma, Bologna, Firenze, Torino, Perugia, Napoli e molte altre città. Anche Zerocalcare ha lanciato un vidoe-appello per “riportare un po’ di giustizia e consentire a chi sta in Italia, vive e ha relazioni qui, di avere gli stessi diritti degli altri”. “La raccolta firme per il referendum cittadinanza viaggia a una velocità impressionante grazie anche alla mobilitazione di tante personalità della cultura, dello sport, dello spettacolo, dell’accademia, del giornalismo - commenta il segretario di +Europa Riccardo Magi -. Questo dimostra due cose: primo, che c’è una volontà enorme di cambiare la legge sulla cittadinanza ingiusta, crudele e incivile; secondo, che gli italiani sono molto più avanti dei vari Meloni, Salvini, Vannacci e Tajani che invece vorrebbero leggi più dure per chi è nato, cresciuto, istruito e vive stabilmente in Italia”. Immigrazione, la sfida dei rimpatri e della gestione esterna di Francesca Basso Corriere della Sera, 23 settembre 2024 Il tema immigrazione irregolare resta alto nell’agenda europea. E a mantenerlo tale contribuiscono anche i risultati elettorali recenti, con l’avanzata dell’estrema destra che ha fatto della lotta all’immigrazione uno dei suoi cavalli di battaglia. Al Consiglio europeo di ottobre i leader Ue si aspettano quella che in gergo viene definita “una discussione approfondita”. Lo hanno chiesto l’Austria, il Belgio, Cipro, la Danimarca, la Francia, la Germania, l’Italia, la Grecia, la Lettonia, Malta, i Paesi Bassi, la Repubblica ceca. Le recenti mosse di Berlino, che da una settimana ha chiuso tutti i confini della Germania di fatto mettendo a dura prova la tenuta di Schengen, ha suscitato i malumori degli altri Paesi Ue per l’effetto a catena. Inoltre la scorsa settimana il governo olandese, che ha al suo interno il partito di estrema destra di Wilders, ha scritto alla Commissione europea per comunicare che il governo chiederà un’esenzione dalla politica comune d’asilo e migrazione in caso di modifica dei trattati, sul modello di quella di cui gode già la Danimarca. Strada che intende seguire anche l’Ungheria, ha fatto sapere Budapest. Per modificare i trattati serve però l’unanimità, dunque questa richiesta ha tutto il sapore di una mossa ad effetto, le cui conseguenze pratiche sono lontane dal concretizzarsi. Ma resta il segnale politico. È in questa atmosfera che si troveranno ad operare il nuovo commissario europeo agli Affari interni e alla Migrazione, il falco austriaco Magnus Brunner, e la nuova commissaria al Mediterraneo e ai rapporti con il vicinato, la croata Dubravka Suica. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha tenuto per il Ppe questo dossier politicamente delicato, ma ha anche avuto l’astuzia di affidare a un austriaco il completamento di Schengen: sarà costretto a mediare con Vienna, che si sta opponendo insieme a L’Aja all’ingresso di Romania e Bulgaria. Il nuovo patto per la migrazione, che riguarda i richiedenti asilo e non i migranti economici irregolari, entrerà in vigore tra due anni e Brunner dovrà occuparsi dell’applicazione delle nuove regole. Ma sul suo tavolo i dossier difficili sono altri due. Il primo è l’aggiornamento della direttiva sui rimpatri che dovrà stabilire norme e procedure comuni applicabili dai Paesi Ue per il rimpatrio degli immigrati irregolari, attraverso partnership a livello di Unione con i Paesi terzi. Una politica che avrà bisogno di ingenti risorse e che presenta criticità per il rispetto dei diritti umani. Finora gli accordi bilaterali non hanno praticamente funzionato. Il secondo è il tema spinoso della gestione esterna dell’immigrazione nel rispetto del diritto europeo (ma il modello Ruanda sembra incompatibile), che è uno dei punti principali del programma elettorale del Ppe. Il fiorentino condannato a Cuba: “Ignorate le prove in mia difesa” di Stefano Brogioni La Nazione, 23 settembre 2024 Già al processo, Simone Pini aveva fornito il biglietto del volo con cui tornò sull’isola dopo l’omicidio fa. Simone Pini, il fiorentino 56enne detenuto a la Condesa di Cuba da più di 14 anni con l’accusa di aver partecipato a un festino a base di sesso e droga in cui perse la vita una ragazzina di 12 anni, s’imbarcò alla volta dell’isola il 24 maggio del 2010. Ovvero undici giorni dopo la serata in cui, le autorità cubana, collocano il delitto di cui Pini è stato accusato assieme ad altri due italiani, Angelo Malavasi e Luigi Sartorio. Soltanto quest’ultimo, condannato a una pena inferiore rispetto ai 25 anni inflitti a Pini e Malavasi, è riuscito a far rientro in Italia, dopo che gli è stato diagnosticato un grave problema di salute. Oggi, dopo un periodo di semilibertà, ha ottenuto l’affidamento in prova ed è di fatto un uomo libero: di lavorare, di camminare, di rispondere al telefono. E di impegnarsi per l’amico Simone. “Ho portato a casa la vita e la testa”, dice Sartorio riferendosi alla difficile condizioni carcerarie di Cuba. Condizioni che Pini descrive nella lunga lettera, inviata proprio a Sartorio, indirizzata alla premier Giorgia Meloni, con cui chiede che l’Italia s’interessi al caso e riporti i detenuti a casa a scontare il resto della loro pena. Prospettiva contemplata anche dalla legge cubana “al compimento della metà della loro pena quando il reo ha i requisiti del buon comportamento - scrive Pini -. Detto beneficio ci è stato negato più volte senza un solo motivo plausibile”. Ma il fiorentino, rivolgendosi direttamente alla premier, elenca anche le violazioni dei diritti subìti; violazioni che sarebbero iniziate con l’estorsione di confessioni per i fatti oggetto del procedimento, fino al processo a suo carico celebratosi, denuncia Pini, senza alcuna difesa. E senza che egli potesse provare il punto centrale della sua tesi difensiva: l’assenza da Cuba. Il tribunale non avrebbe preso in considerazione alcune prove della permanenza di Pini a Firenze tra marzo e il 24 maggio del 2010. Tra questi, un intervento agli occhi presso l’ospedale di Careggi e una successiva convalescenza a casa del padre, Gino, morto negli scorsi anni senza aver più rivisto suo figlio. In quel periodo di permanenza in Italia, Pini avrebbe lasciato tracce di sé anche con una ricarica Postepay e compiendo alcune chiamate alla moglie a Cuba (da cui ha avuto un figlio che oggi ha più di vent’anni). Ma la prova “regina” è il biglietto aereo della compagnia Blue Panorama con cui, il 24 maggio 2010, s’imbarcò da Roma per Santiago de Cuba. Ma oggi c’è di più. Pini ha avuto accesso - grazie a una riforma introdotta a Cuba nel 2022 - anche al proprio fascicolo personale. Il detenuto è quindi entrato in possesso dei propri flussi migratori che certificano che, il giorno dell’omicidio, era in Italia. Una prova che invece, al processo, non è mai riuscito a produrre. “Adesso quelle prove le ho in mano anche io” e “attualmente quei dati così importanti sono pure in Italia”, dice alla Meloni. Copia di questa documentazione, riferisce ancora Pini nella sua lettera, è stata consegnata anche all’ambasciata italiana a Cuba. Basterà questa “svolta” a portarlo via da “una galera durissima, disumana, affamata, dove non mi danno neanche le medicine di cui ho bisogno né cure mediche specialistiche”? “Neanche attualmente mi sento materialmente e legalmente assistito - denuncia ancora il fiorentino -, non ho mai ricevuto un salario sociale minimo per il mio assurdo status di prigioniero politico visto che da innocente hanno usato pure il mio nome per la propaganda di questa dittatura”. In Arabia Saudita c’è il Forum sulla governance di Internet: ma lì chi usa i social va in carcere di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2024 Il Forum annuale sulla governance di Internet si svolgerà in Arabia Saudita dal 15 al 19 dicembre 2024. Giorni fa, 40 organizzazioni non governative e per i diritti umani hanno diffuso una dichiarazione congiunta nella quale hanno sollecitato le autorità saudite a scarcerare immediatamente tutte le persone condannate solo per aver espresso le loro opinioni online. Le 40 organizzazioni hanno fatto notare quanto sia ipocrita che l’Arabia Saudita ospiti l’evento mentre continua a minacciare, imprigionare e sottoporre a sparizione forzata chi, utilizzando la Rete, rende noto il proprio dissenso o promuove i diritti umani. Molte persone attiviste e che difendono i diritti umani, che solitamente prendono parte all’incontro annuale, hanno espresso forti preoccupazioni rispetto alla propria partecipazione, temendo di essere minacciate, poste sotto sorveglianza o arrestate. Amnesty International ha sollecitato il comitato organizzatore del Forum sulla governance di Internet a chiedere pubbliche assicurazioni, da parte saudita, che a nessuna persona sarà impedito l’ingresso nel paese per prendere parte alla conferenza e che nessuna delle persone partecipanti subirà ripercussioni o non potrà parlare liberamente. Da diversi anni le autorità saudite criminalizzano chiunque mostri il minimo segno di dissenso o esprima posizioni critiche sulle piattaforme social. Tra le persone in carcere c’è Salma al-Shehab. Arrestata nel gennaio 2021, esattamente due anni dopo è stata condannata, al termine di un processo gravemente iniquo, a 27 anni di carcere seguiti da altri 27 anni di divieto di viaggio per false accuse di terrorismo, solo per aver pubblicato dei tweet a sostegno dei diritti delle donne. Nel gennaio 2024 una corte antiterrorismo ha condannato un’altra donna, Manahel al-Otaibi, a 11 anni di carcere per aver pubblicato post in favore dei diritti delle donne e aver condiviso proprie foto scattate mentre si trovava in un centro commerciale senza indossare l’abaya, il vestito tradizionale saudita. Altri casi sono quelli di Abdulrahman al-Sadhan, un operatore della Mezzaluna rossa condannato nell’aprile 2020 a 20 anni di carcere seguiti da altri 20 anni di divieto di viaggio per aver pubblicato dei tweet satirici, e di Nasser al-Ghamdi, un insegnante in pensione condannato a morte nel luglio 2023 per aver criticato le autorità saudite su X e aver pubblicato video su YouTube. *Portavoce di Amnesty International Italia