Sì, ha ragione Salis. Il carcere è razzista e classista: lo dicono cronaca e storia di Marco Gervasoni huffingtonpost.it, 22 settembre 2024 La rivolta alle parole dell’europarlamentare dimostrano l’imbarbarimento del dibattito. Il carcere moderno (con le migliori intenzioni) nasce con illuminismo e liberalismo, e diventa discarica che produce illegalità. Brevi appunti per la destra (e pure la sinistra). Povera Ilaria Salis. Ogni qual volta interviene su un tema, deve sopportare, oltre al profluvio di insulti da destra, dove la odiano perché ha osato sfidare il loro campione Viktor Orbán, anche le reprimende di meno numerosi, ma altrettanto fastidiosi, self proclaimed liberali e riformisti. Eppure l’europarlamentare di estrema sinistra tocca spesso temi rilevanti, peraltro con un lessico più sofisticato dei suoi colleghi, sia pure connotato da un eccesso di sinistrese. Sul caso del processo a Matteo Salvini, per esempio, ha avanzato argomentazioni tra le più sensate che abbia ascoltato: mentre tutti a sinistra auspicano la galera per Salvini (la stessa che peraltro egli invoca contro i tre quarti dell’umanità), per Salis la questione dirimente non è quella, al leghista potranno infliggere pure l’ergastolo, ma non cambierà nulla, se poi i disperati continueranno a morire in mare per mano di ministri che, invece, la legalità la rispettano. Proprio sulla questione delle carceri, Salis è tornata nel mirino per una sua affermazione, accolta come una bestemmia, cioè che il carcere, come istituzione, sarebbe razzista e classista. E che bisognerebbe sperimentare le alternative alle prigioni. Che queste affermazioni siano state accolte con la bava alla bocca è il segno dell’imbarbarimento del dibattito pubblico italiano. Salis infatti ha espresso giudizi che, fino a qualche anno fa, erano scontati. Che il carcere sia una istituzione razzista e classista, cioè che in essa ci finiscano soprattutto poveri, underclass, sottoproletariato, classi popolari e ovviamente immigrati, è una affermazione talmente ovvia, per chi abbia anche solo una sommaria conoscenza della storia contemporanea, che non metterebbe neppure conto argomentarla. Eppure si deve. Il carcere moderno come istituzione è figlio dell’illuminismo e del liberalismo, della Rivoluzione americana e di quella francese. Prima di allora esistevano le prigioni, ma erano destinate soprattutto ai membri delle élite ostili al potere politico o ecclesiastico. Le classi popolari non vi finivano dentro se non per periodi molto brevi, dopo di che erano vieppiù soppresse con la pena capitale, deportate nelle colonie, arruolate a forza nell’esercito, spedite nelle galere, navi apposite da cui poi il nome, o anche semplicemente lasciate fuggire, visto che lo Stato di ancien régime non era così chirurgico e pervasivo come lo Stato contemporaneo. Con l’illuminismo, il liberalismo e la società borghese, l’intento è progressista e umanitario. Il carcere deve diventare educativo e formare il cittadino modello, per questo deve essere fondato sull’isolamento e sul controllo. Il filosofo radicale, un liberale di sinistra, l’inglese Jeremy Bentham, elabora il “Panopticon”, un modello di prigione che consenta in ogni momento ai carcerieri-educatori di vedere e controllare i rei, ma i primi penitenziari nascono negli Stati Uniti a cavallo tra XVIII e XIX secolo, e sono caratterizzati da tre elementi: isolamento del prigioniero, lavori forzati e rieducazione. Non a caso le prigioni moderne prendono appunto il nome di “penitenziari”, cioè luoghi di pena. ? la pena che deve redimere: una secolarizzazione del principio teologico cristiano. L’obiettivo primario del carcere è in realtà quello di “sorvegliare e punire”, per citare il titolo di un classico libro - uno dei classici della filosofia politica del XX secolo - di Michel Foucault. Ed educare il corpo e la mente alla rispettabilità borghese, non a caso l’istituzione carcere nasce e si evolve in parallelo con quella dell’ospedale psichiatrico. Dalla nobiltà di intenti dell’illuminismo e del liberalismo borghese, la discesa nella prassi fu più cruda: nei penitenziari finirono soprattutto le classi popolari che, con la rivoluzione industriale, erano diventate “classi pericolose”. E, nei paesi con già una forte presenza di immigrazione, Stati Uniti, Canada, Sud America e Francia, gli immigrati, tra cui numerosi italiani, più ovviamente gli afro-americani in Usa. Quanto all’obiettivo rieducativo, gli studi sulle carceri, già a metà Ottocento, si resero conto che, anziché rieducare e creare il cittadino (borghese) modello, i penitenziari producevano illegalità: e uno usciva assai più “criminale” di quanto non fosse entrato, così come gli ospedali psichiatrici producevano un incremento della “alienazione” mentale, cioè della follia, come era chiamata allora. E tuttavia, controllo sociale oblige, la necessità di edificare sempre più carceri, sempre più enormi e sempre più isolati. L’Italia non sfuggì a questo destino: nonostante, con il Codice penale Zanardelli, il Regno d’Italia fosse sulla carta uno dei più civili (e il primo tra i grandi paesi europei ad abolire la pena di morte) il carcere vi divenne il principale strumento di controllo sociale. Tanto che gli antifascisti finiti nella galera fascista, che ereditò il modello del precedente regime liberale, da Antonio Gramsci in giù, confessarono di avere conosciuto il vero popolo solo nelle celle: e non è che prima, da socialisti e comunisti, frequentassero contesse, anche perché altrimenti non sarebbero finiti in galera. Si dirà che oggi le classi popolari non sono più classi pericolose. Eppure, dati alla mano, negli Stati Uniti la popolazione carceraria è in costante aumento rispetto ai decenni precedenti, come spiegava già nel 2006 Lucia Re in Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa (Laterza) e a finire in galera sono sempre i soliti: underclass, immigrati, poveri, afroamericani. Il classico volume di Jeffrey Reiman e Paul Leighton, The Rich Get Richer and the Poor Get Prison: Thinking Critically About Class and Criminal Justice, uscito la prima volta nel 1974, è giunto oggi alle tredicesima edizione, sempre rinnovata con nuovi dati. Che il carcere fosse una istituzione classista, lo sapevano però pure i costituenti, che si posero il problema, tra questi Piero Calamandrei, che vi dedicò molti interventi, gli avvocati socialisti, guidati da Giuliano Vassalli, che negli anni Cinquanta e Sessanta difendevano gratuitamente operai e contadini sbattuti in galera per un niente, i giovani magistrati (per lo più vicini al Psi) che, sempre negli anni Sessanta, fondarono Magistratura democratica, i segretari socialisti come Giacomo Mancini e Bettino Craxi e tanti giuristi, tra cui ricordiamo anche il nonno materno di Elly Schein, Agostino Viviani, parlamentare del Psi tra il 1972 e il 1979; e infine, sia pure con ritardo, gli esponenti del Pci. Li abbiamo lasciati per ultimi, i radicali di Marco Pannella ma, nella classe politica dell’Italia repubblicana, sono stati quelli che, sul carcere, si sono più impegnati con l’anima e ancor più con il corpo, e Pannella fino a pochi giorni prima di morire. E che ottennero, pur dall’opposizione e con la loro estremamente esigua forza parlamentare, aiutati dai socialisti di Craxi, i più rilevanti miglioramenti nella legislazione carceriera. Che però, in Italia, resta un obbrobrio, certificato dai dati, e dai fatti di cronaca. Con in più, a peggiorare la situazione, un governo e una maggioranza che, ogni giorno, aggiungono un reato nuovo, da punire con “pena esemplare” con il carcere, vedi il delirante nuovo disegno di legge “sicurezza”. Quanto ai carcerati, per lo più immigrati e poveri, come dice giustamente Salis, che si impiccano, vengono ammazzati o addirittura muoiono bruciati vivi, l’unica proposta concreta proveniente dal governo è: costruire più penitenziari. Ma mancano i soldi pubblici, e non vorremo che a qualcuno venissero in mente le prigioni gestite da privati, come negli Usa, in cui le condizioni di detenzione sono ancora più da incubo. A sinistra, il tema non pare interessare. Ogni tanto si alza qualche timido esponente a proporre un indulto, necessario ma dagli effetti transeunti. C’è il timore di spaventare l’elettorato, anche quello di sinistra, una parte del quale vorrebbe sempre più manette e ceppi, ma c’è anche una radice culturale, visibile ancora oggi quando si invoca la galera per l’avversario politico - che beninteso, il più delle volte, codice penale alla mano, se la merita. In un libro di un paio di anni fa, edito da ChiareLettere, Luigi Manconi, assieme ad altri autori, lanciò la proposta: e se provassimo ad abolire il carcere? Il volume non mi pare abbia avuto però troppa fortuna, visto che nel campo stesso di Manconi, la sinistra appunto, il carcere dopotutto non dispiace, purché ci finiscano anche i colletti bianchi e Salvini. Ma se, proprio abolire i penitenziari non pare realistico, pensiamo a forme detentive alternative e ispiriamoci a modelli più civili, come quelli scandinavi. E ricordiamoci di un fortunato slogan del Labour di Tony Blair “colpire il crimine, ma colpire soprattutto le cause del crimine”. Ilaria Salis: “Sono abolizionista, il carcere così come è oggi non serve a nulla” Il Fatto Quotidiano, 22 settembre 2024 “Il carcere non risolve i rapporti di ingiustizia nella società moderna, anzi li rende più profondi e insanabili”, ha dichiarato Ilaria Salis, affiancata dal fumettista Zerocalcare in un incontro a Parco Shuster a Roma. Secondo l’eurodeputata, le attuali politiche penali si limitano a incrementare la recidiva e perpetuare l’inefficacia del sistema. “Se una persona entra per un piccolo furto e non viene inserita in un percorso di reinserimento sociale, uscirà senza prospettive, costretta a tornare a delinquere. Questo è evidente dai dati sulla recidiva”, ha aggiunto. Salis ha inoltre sottolineato come la maggior parte dei detenuti non siano pericolosi criminali, ma persone che scontano pene per reati minori contro il patrimonio. L’eurodeputata ha quindi proposto un approccio abolizionista a lungo termine, basato su un modello di società che superi l’istituzione carceraria, con misure immediate che includano la limitazione della custodia cautelare e la promozione delle pene alternative. La sicurezza da destra punisce il dissenso e limita la libertà di manifestare di Federica Olivo huffingtonpost.it, 22 settembre 2024 “Norma liberticida”, “scelte repressive”, “dissenso soffocato”: sono solo alcuni dei commenti con i quali il ddl sicurezza, appena approvato alla Camera e in attesa di passare al Senato, è stato accolto. Il pacchetto, 38 articoli, era stato presentato a novembre scorso e pochi giorni fa ha ottenuto il primo sì in Parlamento. A leggerlo bene, ci sono 24 novità con le quali si introducono nuovi reati, circostanze aggravanti e inasprimenti di pene per reati già esistenti. Proprio per questa cifra punitiva, che riguarda vari ambiti - dalle proteste in strada a quelle in carcere, dalle madri detenute alle occupazioni abusive - può essere definito il provvedimento più criticabile (e più criticato) di questo governo. Quello che, soprattutto, esprime di più la visione che l’esecutivo ha della sicurezza pubblica. Una visione figlia del populismo penale, che punta alla repressione non solo dei comportamenti illegali, ma anche del dissenso. In compenso, si danno vari aiuti alle forze dell’ordine: dalla bodycam, che può evidenziare la violenza dei manifestanti nei loro confronti ma non il contrario, al raddoppio al raddoppio dell’aiuto economico nel caso in cui siano imputati per un abuso di potere. Vediamo le novità che sono state principalmente contestate. Le manifestazioni - Si potrà ancora manifestare? Sì, ma con qualche rischio in più nel caso in cui sorgano discussioni - di qualsiasi tipo, anche senza l’uso della forza fisica da parte dei manifestanti - con la Polizia. La norma - si tratta dell’articolo 19 - è stata definita “no Gandhi” o anche “contro i no ponte”. Perché? Perché prevede due cose. La prima parte riguarda tutte le manifestazioni, indipendentemente dal luogo dove si facciano. Prevede che in caso di minaccia, ma anche di resistenza, a pubblico ufficiale, le circostanze attenuanti non potranno prevalere sulle aggravanti. Tradotto: la pena potrà sempre salire e mai scendere. E ciò potrà accadere nel caso in cui un manifestante dà uno spintone a un poliziotto, ma anche in caso di semplice resistenza passiva. Saranno, insomma, puniti più pesantemente anche i manifestanti pacifici che si sdraiano davanti ai binari, o davanti ai cancelli di una fabbrica, o che bloccano un’autostrada con il solo loro corpo. Senza violenza. Seguendo questo principio, un’interpretazione diffusa della norma porta a ritenere che anche un picchetto davanti a una scuola potrebbe essere sanzionato pesantemente. C’è, però, anche una seconda parte della norma, che è dedicata nello specifico alle infrastrutture che sono considerate particolarmente importanti. Quali? Sicuramente la Tav e il ponte sullo Stretto di Messina, ma anche qualsiasi opera in costruzione che possa essere considerata fondamentale per il Paese. Si prevedono, insomma, pene ancora più pesanti quando “il fatto (la manifestazione, ndr) è commesso al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica”. Per fare un esempio pratico: i no Ponte, anche se non sfiorano neanche un capello a un poliziotto, ma fanno semplicemente atti di resistenza passiva, rischiano fino a sette anni di carcere. Se si considera, però, che nel caso in cui la protesta viene attuata in gruppo le pene arrivano fino a 15 anni, e che altre aggravanti possono essere imputate ai manifestanti, si può arrivare all’esorbitante pena di 27 anni. Difficile pensare che una pena del genere sarà mai applicata, ma già solo il fatto che questa possibilità sia data rende l’idea della direzione che il governo ha voluto prendere. La rivolta carceraria - Sempre nell’ottica di reprimere il dissenso, ecco che il governo se la prende anche con i detenuti che protestano. Viene introdotto un nuovo reato, quello di rivolta carceraria. Cosa prevede? Che chiunque promuove, organizza o dirige una rivolta venga punito con una pena da due a otto anni di carcere. Punito anche chi partecipa, in questo caso, però, con una pena (leggermente) inferiore. Da notare, però, i comportamenti che sono considerati reato: viene considerato rivoltoso non solo il detenuto che aggredisce l’agente o che lo travolge cercando di evadere. Saranno puniti anche i detenuti che compiono atti di resistenza passiva. Nello specifico, se un agente chiede ai detenuti di uscire dalle celle, durante una rivolta e questi si rifiutano di farlo, saranno processabili per il reato in questione. Le occupazioni - Uno dei reati introdotti dal ddl riguarda le case occupate. O meglio, le persone che occupano abusivamente case di altri. C’erano già dei reati che potevano essere contestati in questi casi, ma prevedevano solo pene in denaro. Il carcere era previsto solo nel caso in cui a occupare fossero più di cinque persone o da una persona armata. O, ancora, se l’occupazione avviene per organizzare un raduno tipo rave party. Con questo nuovo articolo - il 634 bis del codice penale - il carcere per gli occupanti sarà praticamente garantito. E le pene potranno arrivare fino a sette anni. La norma è stata molto dibattuta perché, proprio mentre si discuteva il ddl, è emerso che Ilaria Salis - oggi europarlamentare, prima antifascita imprigionata in Ungheria - aveva vissuto in una casa occupata. Detenute madri - Contestatissimo è stato l’intervento che manda in carcere le donne che hanno commesso un reato e che hanno figli molto piccoli, di meno di un anno. Fino a oggi c’era una legge - introdotta, come tutto il codice penale, in epoca fascista - che prevedeva il differimento della pena per le mamme con bimbi molto piccoli. Se condannate avrebbero scontato la pena a partire dai 12 mesi del bambino. Questa regola non ci sarà più: sarà il giudice a decidere se la pena può essere differita o se, invece, la donna deve essere reclusa. Forza Italia ha provato fino all’ultimo a cambiare questo provvedimento, ma alla fine ha ceduto. L’unico contentino ottenuto è stata la garanzia di una relazione annuale sulle madri detenute e di un monitoraggio. Che, però, basta guardare il sito del ministero della Giustizia, già viene fatto. Cannabis light - Un altro tema che è stato molto dibattuto riguarda le infiorescenze di canapa. Nel linguaggio comune si chiama cannabis light ed è una sostanza a bassissimo contenuto di thc che da qualche anno era legalmente coltivata in Italia. Serviva a scopo ricreativo - senza effetti sballanti - ma soprattutto era usata per creare prodotti cosmetici e tessili. Quando il ddl sicurezza sarà definitivamente approvato nulla di tutto questo sarà più possibile. Con un effetto paradossale: potremo continuare ad acquistare i prodotti alla canapa nei nostri supermercati. A patto che siano prodotti all’estero. Risultato? In nome di una norma fortemente ideologica almeno 10mila persone saranno senza lavoro. E rischieranno anche di essere trattate alla stregua di spacciatori, se resteranno con le scorte del loro prodotto. Il Pd in piazza con la Cgil contro il ddl sicurezza di Riccardo Chiari Il Manifesto, 22 settembre 2024 Dopo l’ok della Camera, in settimana la palla passa al Senato. La manifestazione mercoledì a Roma. Più sanzioni, più galera, più repressione. Il ddl sicurezza passato alla Camera (e in arrivo questa settimana al Senato) è l’ennesima occasione che le opposizioni trovano sulla loro strada per compattarsi. Così il Pd ha già dato la sua adesione alla piazza convocata per mecoledì pomeriggio a Roma da Cgil e Uil. Sarà presente la segretaria Elly Schlein per protestare anche fuori dal palazzo contro un disegno di legge che “azzera il diritto a manifestare il dissenso”. Una posizione in tutto e per tutto sovrapponibile a quella espressa nei giorni scorsi da varie organizzazioni, da Libera a Magistratura democratica, passando per l’Unione Inquilini. Per il consigliere regionale dem lombardo Pierfancesco Majorino il miglior nome da dare alla serie di provvedimenti sarebbe “ddl repressione” se non addirittura “ddl Orbàn”, perché “Rischiano di finire in carcere, ad esempio, lavoratrici e lavoratori a cui magari comunicano il licenziamento - come tante volte accade - e che per questo, manifestando la propria rabbia, organizzano anche solo un piccolo presidio che blocca per qualche ora un po’ di traffico”. La convinzione di Majorino è che le proteste saranno parecchie e diffuse. “Le destre - si legge in una nota firmata da Cgil di Roma, Anpi e Rete degli studenti medi- continuano a guardare alla sicurezza solo in termini repressivi e punitivi delle lotte sociali, inasprendo le pene, introducendo nuovi reati per colpire le forme più pacifiche di protesta e comprimere gli spazi di democrazia del nostro paese. Il carcere continua a essere visto come strumento meramente punitivo, perseguendo, con l’introduzione del reato di rivolta in carcere, non tanto gli episodi di violenza gia’ puniti dalla legge, persino la resistenza passiva impedendo nei fatti ogni forma di protesta contro le condizioni disumane in cui sono gli istituti penitenziari. In tutto questo si normalizza anche l’idea che una donna incinta o un neonato possa finire in carcere. Nei centri di trattenimento e accoglienza per i migranti si nega l’utilizzo del cellulare, vincolando il possesso della sim alla presenza di permesso di soggiorno. Sono tutte norme che non rendono piu’ sicuro il nostro paese, nè migliorano la vita delle persone, anzi, ne minacciano i diritti costituzionali. Contro questa idea liberticida di Sicurezza dobbiamo mobilitarci con forza affinché la maggioranza di Governo faccia un passo indietro, rispetti i diritti delle persone e i valori della carta costituzionale”. Si attendono invece reazioni dal Movimento Cinque Stelle, che alla Camera ha visto respingersi tutti i suoi emendamenti, con la deputata Stefania Ascari che poi ha commentato in maniera piuttosto dura quanto partorito dalla maggioranza: “La foga ideologica e repressiva di questo centrodestra arriva al punto da proporre in questo Ddl che vengano puniti i detenuti che osino protestare contro le condizioni disumane degli istituti italiani. Addirittura arrivano a proporre di sanzionare la resistenza pacifica e passiva, quella di chi ad esempio rifiuta di mangiare il cibo scaduto, di entrare in una cella dove il caldo è insopportabile o dove imperversano gli scarafaggi. Anziché scrivere queste norme disumane dovrebbero andare a vedere le carceri da dentro, parlare con chi ci vive e ci lavora. Le carceri non hanno bisogno di altra repressione ma di investimenti, di assunzioni di agenti della polizia penitenziaria, di personale sanitario, di psicologi, di funzionari giuridico-pedagogici, di mediatori culturali”. L’abbandono urbano dietro l’enfasi repressiva di Gianfranco Bettin Il Manifesto, 22 settembre 2024 Serve una sicurezza garantita dalla giustizia sociale, dalla dignità riservata a tutti, che esclude la discriminazione e contrasta l’odio. A un certo punto, ieri pomeriggio, al presidio per ricordare Giacomo Gobbato, accoltellato a morte l’altra sera a Mestre, a 26 anni, mentre cercava di difendere una donna aggredita per rapina, Sebastiano Bergamaschi, suo coetaneo, ferito pure lui in quel tentativo coraggioso e generoso, ha gridato che dal dolore non deve scaturire altro odio, altrimenti tutto peggiorerà ancora. Lo hanno scritto anche i loro compagni e le loro compagne del “Rivolta”, uno dei centri sociali autogestiti storici, fra i maggiori d’Italia, luogo di attività culturali, artistiche, musicali, sportive, ricreative, luogo d’accoglienza - vi trovano ospitalità decine di immigrati - e di impegno, di cui Giacomo - “Jack” - musicista e artista tatuatore era un attivista poliedrico, allegro, vitale, come Sebastiano. Sebastiano che è uno dei più giovani leader del Rivolta e anche del Laboratorio climatico Pandora, una realtà soprattutto giovanile e studentesca, attivissima soprattutto sulle questioni climatiche e ambientale e contro la violenza di genere. Per questo il loro invito a evitare derive razziste e xenofobe, ricordando che la responsabilità è di un singolo, è coerente con un lavoro di base che entrambi, con molte altre persone, sviluppano da anni. Anche sul terreno specifico della sicurezza, cosa forse inusuale per realtà di questo tipo. Il Rivolta partecipa infatti da tempo al coordinamento “Riprendiamoci la città”, che unisce associazioni, comitati, gruppi, strutture, reti civiche e che propone soluzioni specifiche a una situazione che in intere zone sembra da molto fuori controllo. MESTRE si è infatti guadagnata in questi anni la triste fama di “capitale italiana dei morti per eroina”, esito di una politica cittadina, voluta dal sindaco Brugnaro, che ha ridotto al minimo quello che è stato per decenni uno dei servizi di strada a bassa soglia più efficienti d’Italia e conseguenza di una politica regionale che, nel momento di massima diffusione sul territorio delle dipendenze patologiche, ha ridotto al minimo storico i servizi dedicati (il Serd, che dipende dall’Ulss, cioè dalla Regione). Al tempo stesso, l’enfasi securitaria ha portato e porta a concentrarsi su operazioni che si riducono a meri elenchi di fermi o arresti, a strascico, che non riescono a disarticolare e minimizzare narcotraffico o spaccio e criminalità di vario grado e natura che, anzi, nel disordine demagogico, sfuggono facilmente, continuano ad agire senza troppi disturbi. “Riprendiamoci la città” propone invece una via alternativa, che integra lo specifico della sicurezza con la qualità sociale e urbana, la ricostruzione aggiornata dei servizi di fatto smantellati e il potenziamento di quelli ridotti al minimo con una impostazione radicalmente diversa delle stesse politiche di controllo del territorio, oggi centralizzate e dominate dall’ossessione securitaria, tanto iniqua (colpendo i soggetti marginali più esposti e risparmiando spesso narcotrafficanti e criminali) quanto fallimentare. La scorsa settimana, nella classifica delle città più insicure redatta dal Sole 24 Ore annualmente, Venezia è entrata per la prima volta nella “top ten”, al nono posto. Ma sono soprattutto le proteste continue, il disagio conclamato, i drammi, che echeggiano ormai quotidianamente dalle più diverse parti sia della città di terraferma che dalla città d’acqua a mettere sotto accusa questa gestione insipiente e vacuamente demagogica. Lo scorso anno “Riprendiamoci la città” ha, tra l’altro, portato in piazza oltre cinquemila persone su questi problemi, con un approccio opposto rispetto a quello di Comune e Regione (per non dire di una maggioranza parlamentare che ha appena approvato alla Camera il pacchetto securitario più fascistoide della storia della Repubblica). Si è trattato di una delle più grandi manifestazioni cittadine da molti anni e il Rivolta, ma anche gli altri centri autogestiti cittadini, come il Morion e il Sale Docks di Venezia, ne sono stati fra i principali promotori. Questo rende ancora più significativo il gesto costato la vita a Giacomo e gravi ferite a Sebastiano, perché connette la sua concretezza nella specifica occasione alla complessità e continuità di impegno attorno a un’idea di città e di società che vive proprio in questa sintesi di piena e personale disponibilità ad agire, anche con il proprio corpo direttamente, e di visione politica articolata e agita collettivamente. Un’idea che si confronta, peraltro, con molte realtà che hanno una formazione e una costituzione differente ma che, ragionando da tempo insieme, nel confronto e nell’analisi dei fallimenti e delle tragedie provocate dalla destra al governo locale e nazionale, convengono sulla necessità urgente di un’altra politica. Forse è da questo tipo di azione condivisa, fra diversi ma solidali nella volontà di agire per il bene comune, reputando tale anche una sicurezza garantita principalmente dalla giustizia sociale, dalla dignità riservata a tutti, che esclude la discriminazione e la stigmatizzazione dei più deboli e contrasta l’odio, forse è da un approccio come questo, realizzato nel vivo di un territorio complicato, che, anche nel dolore profondo di queste ore, anche dalla rabbia naturale e giusta, può emergere altro, altra forza ed energia e chiarezza per andare avanti sulla strada che è stata e sarà sempre anche di Giacomo. No al guanto di velluto per i delinquenti di Roberto Arditti Il Tempo, 22 settembre 2024 No, non è una buona notizia. Il fatto che il moldavo quarantenne che ha assassinato Giacomo Gobbato a Mestre l’altra sera fosse incensurato e senza provvedimenti di espulsione pendenti dimostra, purtroppo, che l’Italia ha un problema enorme che spesso finge di non vedere: nelle nostre strade girano un sacco di balordi malintenzionati, molti dei quali ancora da individuare. Facciamo adesso la radiografia di quello che è accaduto. Giacomo ed un amico vedono il tentativo di rapina di questo moldavo ai danni di una donna. Intervengono, ma il criminale estrae il coltello e colpisce Giacomo a morte, ferendo anche l’amico. A quel punto l’assassino fugge e poco dopo cerca di rapinare un’altra persona, fino a quando viene fermato dalle forze dell’ordine. Morale della favola: se vedi un malintenzionato aggressivo e pericoloso ti conviene girarti dall’altra parte e andare via, perché se cerchi di aiutare la vittima rischi la vita. Già, il pericolo che corriamo è proprio questo. Cioè che tutti, anche i più desiderosi di aiutare il prossimo, mettano da parte ogni volontà di soccorso per far prevalere un comprensibile sentimento di tutela della propria persona. Allora qui bisogna parlare il linguaggio della verità e bisogna dire che in giro per le nostre città, per le nostre piazze, per le nostre stazioni ferroviarie c’è un sacco di gente con cattive intenzioni, che vive di espedienti, furti, rapine, violenze, spaccio di droga. Lo sappiamo tutti quanti, perché li vediamo ogni giorno. Così come sappiamo che nella stragrande maggioranza dei casi sono stranieri, quasi sempre non europei. E allora bisogna dire che la misura è colma, perché nel frattempo non solo abbiamo perso la vita del povero Giacomo, ma anche perché centinaia, anzi migliaia, di episodi senza il morto si verificano quotidianamente. Questa situazione va accettata così com’è, rassegnandoci di fronte al fatto che, pur nel lodevole sforzo delle forze dell’ordine, troppe sono le persone da tenere d’occhio, troppo fragili gli strumenti giuridici per affrontarli, troppo lenti i tempi della giustizia per emettere sacrosante sentenze di condanna? No, 1.000 volte no. Non è vero che dobbiamo rassegnarci. Anzi è vero che si può intervenire partendo da un principio elementare: di fronte a problemi eccezionali si risponde con misure speciali. Il che non vuol dire negare i principi di convivenza libera e democratica, che non vanno mai messi in discussione. Ma vuol dire comprendere l’inadeguatezza dell’apparato con cui affrontiamo questa emergenza. Sappiamo quanto i temi della sicurezza facciano parte della piattaforma politica che ha portato Giorgia Meloni e la sua coalizione a stravincere nel 2022. E sappiamo quanto impegno vi sia da parte del ministro Piantadosi e di tutti i soggetti istituzionali impegnati nell’ordine pubblico. Ma sappiamo anche che è arrivato il tempo di fare qualcosa di diverso. Ecco allora un paio di proposte: semplici e probabilmente anche ragionevoli. La prima: hai una condanna per furto in metropolitana o nella zona della stazione? Ti prendi un divieto per cinque 10 anni a stare in quei luoghi. E se ti becco finisci in galera per il solo fatto di stare lì. La seconda: hai una condanna per un fatto violento in un comune d’Italia? Per cinque o 10 anni ti vieto l’avvicinamento a quel comune ed alle zone limitrofe. In sostanza te ne devi andare. E se ti becco finisci in galera. Attualmente abbiamo il “daspo urbano” che risponde allo stesso principio, ma che però finisce solo in un provvedimento amministrativo (cioè una multa, e vorrei vedere quante ne sono state pagate). Invece è proprio questa la logica da cui dobbiamo uscire: non possiamo usare i guanti di velluto con una banda di delinquenti. Prima ce ne rendiamo conto, meglio è. Se non lo fa la destra al governo chi lo fa? La proposta del M5S: “Contro le mafie estendere il 41 bis a livello europeo” di Natale Labia L’Edicola del Sud, 22 settembre 2024 Tra i temi che gli europarlamentari del Movimento 5Stelle stanno elaborando per poi portarli all’attenzione della governance dell’Unione europea ci sono alcune norme per aumentare i livelli di sicurezza e soprattutto “la collaborazione tra le polizie dei 27 Stati che compongono l’Unione”. Secondo l’eurodeputato pugliese, Mario Furore, che ha partecipato nei giorni scorsi al Topical debate proprio sui temi della criminalità e di contrasto alle mafie nel corso della seduta plenaria all’Eurocamera di Strasburgo, “è tempo di estendere il regime carcerario del 41 bis a livello europeo”, ovvero quelle particolari norme che fin dal 1986, con la cosiddetta Legge Gozzini, hanno imposto delle condizioni dure e restrittive verso i responsabili di alcuni tipi di reato, in particolare quelli legati al fenomeno della mafia e della criminalità organizzata, e che ha suscitato sempre un aspro dibattito in Italia con alcuni esponenti politici che negli anni hanno provato a riformare la legge introducendo delle limitazioni. Tuttavia, proprio l’efferatezza di molte bande criminali ha fatto sì che il regime del 41 bis rimanesse invariato. Le novità - Non è, però, l’unica novità su cui stiamo lavorando, aggiunge l’esponente pentastellato, “c’è bisogno di un maggiore raccordo anche a livello di indagini perché quando le attività degli investigatori travalicano i confini nazionali incontrano delle difficoltà”. Ecco perché serve “la collaborazione sia tra le forze di polizia degli Stati membri, ma anche tra le Procure”. Mentre non sembra voler decollare, almeno in questa fase del dibattito, la costituzione di una forza di Polizia europea che possa operare senza nessun tipo di restrizione in tutte le Nazioni che compongono l’Unione. Il dibattito all’Eurocamera ha visto anche aperta la discussione su “l’istituzione di una speciale commissione, denominata Crim, che possa studiare i fenomeni criminali a livello europeo e contrastare le attività criminali con misure efficaci”. Il caporalato - Inoltre, nell’elaborazione politica sui temi della sicurezza è stato toccato quello relativo al caporalato, in particolare in agricoltura, un tema che riguarda da vicino la Puglia, visto che non sono rari i casi di sfruttamento della manodopera, soprattutto nei confronti di quelle persone che giungono in estate per i raccolti stagionali e che spesso si trovano a vivere in condizioni disumane, oltre a dover far di conto con la clandestinità. “Abbiamo incontrato a Strasburgo i dirigenti nazionali della Cgil - spiega Furore - con i quali abbiamo discusso su quali possano essere le misure più efficaci per combattere, partendo dal contrasto alla tratta degli essere umani, questa piaga che investe anche le nostre realtà del Mezzogiorno d’Italia e contro cui dobbiamo anche utilizzare al meglio i fondi europei che diventano uno strumento importantissimo di contrasto alla criminalità e a quei fenomeni di illegalità presenti all’interno dei confini dell’Unione europea”. Ordinanze cautelari, “raccontarle senza citare” di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 22 settembre 2024 Il problema risolto a metà tra diritto di cronaca e linciaggio. La riforma che, in buona sostanza, vieta la pubblicazione di stralci delle ordinanze cautelari, ma non di raccontarne il contenuto, appartiene a quella categoria di provvedimenti legislativi che colgono la evidenza di un problema, ma lo risolvono a metà. Un po’ e un po’. Un passo avanti ed uno di lato. E quando fai questi balletti, poi rischi addirittura di inciampare. Il problema - Conosciamo tutti il problema: quando si ordina la cattura di una persona, perché accusato di un grave reato, occorre che il provvedimento spieghi dettagliatamente perché ciò stia avvenendo. Senonché quello della ordinanza cautelare è un racconto inevitabilmente unilaterale, sebbene vagliato da un giudice terzo (diciamo meglio: teoricamente terzo). Lo è perché l’indagine è una solitaria costruzione del PM e della polizia giudiziaria; il materiale investigativo utilizzato per motivare la richiesta della misura è frutto di una selezione ovviamente tutta in chiave accusatoria (si pensi alla cernita del materiale intercettativo); il Giudice che accoglie la richiesta redige l’ordinanza senza avere mai potuto ascoltare il punto di vista difensivo. Un racconto unilaterale simile ad una sentenza di condanna - Ma questo racconto unilaterale, che nella quotidiana esperienza giudiziaria sarà molto spesso smontato e riscritto dalla successiva opera difensiva, ha inesorabilmente la micidiale forza comunicativa di una sentenza di condanna. Tu leggi la ordinanza cautelare contro Enzo Tortora, ed hai la descrizione di un farabutto che, dietro una maschera perbenista, trafficava cocaina a chili in combutta con i peggiori camorristi del Paese; poi ne riparliamo anni dopo, e con tante scuse. Tra diritto di cronaca e linciaggio - Dunque, alle solite prèfiche che frignano di bavagli alla stampa (che noia, Dio santo, con questa storia ridicola), facciamo notare che questo diritto di cronaca che esse invocano senza limiti, pretende di essere esercitato lanciando come sassi contro un cittadino in ceppi un dettagliato campionario di accuse all’apparenza insuperabili, senza che il povero cristo abbia potuto dire - come diceva mio nonno - né ahi né bhai. E si vorrebbe risolvere l’evidenza di questo linciaggio con qualche marginale parolina di circostanza (“presunto innocente, naturalmente”, o roba simile). D’altro canto, in nessun altro Paese civile accade che atti di una simile incontrovertibile unilateralità accusatoria possano essere dati in pasto alla pubblica opinione in nome della libertà di manifestazione del pensiero. Giusto in un Paese di analfabeti funzionali del diritto e della Costituzione quale il nostro, un simile obbrobrio diventa simbolo e vessillo di libertà. Il problema della riforma - Ma la soluzione adottata da questa riforma ha davvero senso? Questo è il punto. Non puoi pubblicare dettagli testuali della ordinanza, e va bene, ma puoi farne il riassunto, la cui fedeltà è peraltro rimessa al buon cuore del cronista. Ora, ve li immaginate i “riassunti” che leggeremo su certi giornali, sui social, nei podcast messi in rete il giorno dopo l’esecuzione della misura? Occorreva più coraggio, cioè occorreva - per esempio - stabilire che, fermo il diritto-dovere di dare notizia dell’arresto, del contenuto della ordinanza potrai parlare solo dopo che la difesa abbia avuto almeno l’occasione processuale per confutarlo (ad esempio, dopo l’udienza del riesame). Prima di questo (almeno di questo), si tratta di materiale investigativo coperto da segreto, e non si pubblica, né per stralci, né per riassunto. Fare la voce grossa per risolvere giustamente un problema, e poi rimanere a metà strada, non è mai la scelta migliore, ed anzi rischi, alla lunga, di fare anche danni maggiori. Tema non facile, per carità, nessuno ha la soluzione in tasca. Il bavaglio giustizialista sulla presunzione di innocenza e la grossolana ipocrisia nelle ordinanze di custodia cautelare di Oliviero Mazza Il Riformista, 22 settembre 2024 La pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare è da sempre il grimaldello utilizzato per scardinare il tenue segreto che dovrebbe coprire gli atti di indagine. La riforma Orlando del 2017 ha solo avallato una prassi consolidata e sostenuta da interpretazioni dell’art. 114 c.p.p. nettamente sbilanciate sul versante della presunta libertà di stampa. Il sistema, va detto, si regge su una grossolana ipocrisia: gli atti di indagine coperti dal segreto non sono di per sé pubblicabili, ma quando vengono riportati nell’ordinanza cautelare, ossia in quella che viene intesa come una cripto-condanna retta da una cripto-imputazione, magicamente si trasformano in notizie degne della pubblicazione integrale. Il giudice alchimista tramuta così l’indagine poliziesca in prova di colpevolezza ostensibile all’opinione pubblica. Condanna anticipata - Il tutto senza che la voce della difesa possa trovare il benché minimo spazio. La pubblicabilità dell’ordinanza cautelare non è solo il comodo escamotage finora impiegato per abbattere ogni forma di segretezza investigativa, ma rappresenta, soprattutto, il portato naturale di una distorta concezione del processo che vuole definita l’intera questione penale già nella fase delle indagini: le prove sono solo quelle raccolte unilateralmente dagli inquirenti, la condanna si risolve nell’applicazione del carcere preventivo senza possibilità di difesa. Nella retorica del populismo giustizialista il processo finisce proprio con la decisione cautelare ed è fisiologico che a questo esito debba darsi la massima pubblicità. Rivendicare la pubblicabilità - Non stupisce, quindi, l’accanimento di una ben precisa parte politica nel rivendicare la pubblicabilità di quella che è considerata la vera condanna, la tempestiva ed esemplare reazione al crimine adottata al di fuori di ogni regola basilare del giusto processo. Così come non stupisce l’invettiva contro la legge-bavaglio che vorrebbe semplicemente ricalibrare i rapporti fra presunzione d’innocenza e libertà di stampa. La proposta governativa di non pubblicare testualmente quell’atto che rappresenta il compendio ragionato di tutte le più rilevanti attività investigative, per di più avallate dal positivo apprezzamento del giudice della cautela, è solo un timido segnale in controtendenza rispetto alla vergognosa gogna mediatica alla quale sono esposti i detenuti in attesa di giudizio. Il nuovo bilanciamento di interessi privilegia il rispetto della presunzione d’innocenza quale condizione essenziale per il corretto esercizio della libertà di stampa. Cambia la prospettiva, l’informazione deve tener conto della natura provvisoria del provvedimento restrittivo e della parzialità delle conoscenze investigative che lo giustificano, limitandosi a dare notizia di quanto accaduto, ma senza l’enfasi della pubblicazione testuale di un atto che, per sua natura, non può e non deve rappresentare una condanna senza possibilità di smentita. La distruzione dell’indagato - Chi invoca l’abusato refrain della legge-bavaglio non ha evidentemente a cuore la tutela della libertà di stampa, che nella sua essenza non viene minimamente scalfita, ma il sadismo giudiziario del processo circense in cui l’imputato soccombe senza possibilità di difendersi. Per non parlare degli aspetti di puro voyeurismo connessi alla pubblicazione di intercettazioni irrilevanti, magari attinenti ad aspetti della vita privata estranei al reato, ma ciò nondimeno maliziosamente riportate nel testo sacro della carcerazione preventiva. La distruzione morale della persona indagata va di pari passo con quella sociale e questo rituale di degradazione non ha nulla a che vedere con il diritto a informare e ad essere informati. La modifica dell’art. 114 c.p.p. non porterà né al bavaglio illiberale per la stampa né al cambiamento valoriale della cronaca giudiziaria. Il percorso verso la civiltà del processo penale è ancora lungo, ma da qualche parte bisogna pur cominciare. Ordinanze cautelari, la riforma inutile di Alberto de Sanctis e Francesco Iacopino Il Riformista, 22 settembre 2024 Barbano: “Il riassunto non protegge l’indagato. I magistrati? Inseriscano solo prove pertinenti”. Abbiamo chiesto ad Alessandro Barbano, già direttore de Il Mattino, de Il Riformista, del Messaggero, autore di testi importanti sulle disfunzioni del sistema giudiziario (tra gli altri: L’inganno e La gogna) una sua opinione sull’introduzione del divieto di pubblicazione delle ordinanze applicative di misure cautelari. Allora, vi sentite imbavagliati? Il diritto di cronaca è compromesso? La libertà di stampa è in pericolo? Io penso che parlare di bavaglio è grottesco in un Paese dove la libertà di stampa è diventata la libertà di uccidere. Il danno da informazione, questo è il problema, si realizza ben prima e ben oltre la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare per riassunto o per estratto, perché qualunque influencer può distruggere la vita delle persone pubblicando notizie, atti istruttori, per così dire letali. Che dire dei giornalisti che negli ultimi tempi hanno preso a pubblicare gli atti istruttori delle indagini archiviate come prove di colpevolezza? È un malcostume senza precedenti. C’è un’indagine su un binario morto che sta per chiudersi con il proscioglimento dei convolti e io pubblico gli atti di accusa come verità mediatiche, finendo per ignorare il fatto che la Procura ha chiesto l’archiviazione. Allora se questa è la realtà, il tema della compressione della libertà meriterebbe ben altra assunzione di responsabilità da parte degli Ordini e della Federazione della Stampa. La Federazione Nazionale della Stampa ha parlato di “un piacere ai potenti che vogliono l’oscurità”. Non è forse eccessivo visto che si può pubblicare il contenuto dell’ordinanza per riassunto? Si può parafrasare l’ordinanza, senza pubblicarla anche solo per estratto. Non è un’ipocrisia? È vietato copiare dal Bignami (oggi dalle fonti aperte via web) ma se il contenuto lo riporti “con parole tue” (magari anche più “cattive”) allora va tutto bene... Credo che non sarà sufficiente e che non avrà nessun impatto sostanziale. Di riassunto si può morire non diversamente da come si muore di intercettazioni, non diversamente da come si muore di estratto o di pubblicazione integrale. Se un giornale scrive che il sottoscritto è stato arrestato con l’accusa di pedofilia per aver abusato di una bambina e lo racconta per sintesi anziché esibire le intercettazioni, non per questo la gogna è meno dura. La parafrasi maliziosa e suggestiva, scritta con l’intento di darne l’interpretazione autentica del sospetto del pubblico ministero, per me è una lama non meno affilata del testo integrale dell’ordinanza cautelare. Questo per dire che il rimedio di vietare la pubblicazione, come una conquista di civiltà, non protegge l’indagato che ne è destinatario. Secondo me, sia per la natura della custodia cautelare che per la centralità che ha assunto nella prassi, limitare la pubblicazione significa sottrarla al controllo dell’opinione pubblica. E siccome l’ordinanza cautelare è uno dei provvedimenti più gravi che un giudice può adottare, sottrarre le motivazioni di una simile scelta al controllo dell’opinione pubblica è molto grave. Quindi, sia per riassunto, sia per estratto, sia per intero si può fare esercizio di giustizialismo feroce, mentre limitare la libertà del giornalista, che nel 99% dei casi purtroppo viene esercitata in chiave colpevolista, non è la soluzione ma un pannicello caldo con degli effetti collaterali non indifferenti. Tante volte potrebbe avere interesse lo stesso indagato a richiamare un estratto dell’ordinanza per stigmatizzarne pubblicamente l’irragionevolezza oppure per mitigare le insinuazioni giornalistiche e per meglio precisare l’ipotesi d’accusa per la quale è sottoposto a misura cautelare. Il rischio non è forse un cortocircuito? Sono assolutamente d’accordo. Sottrarre le motivazioni di una simile scelta al controllo dell’opinione pubblica per tutto l’arco temporale delle indagini vuol dire sterilizzare l’azione penale dentro la sua procedura. Quante volte dietro la legalità formale di un provvedimento cautelare si cela un abuso autoritativo dello Stato. E poi il fatto che i giornalisti non siano abituati a smascherarlo ma anzi si servano di quelle motivazioni per amplificare la congettura accusatoria, non è un motivo per sovvertire i principi della pubblicità del processo. La soluzione è un’altra, è quella di vincolare i magistrati a inserire nella richiesta di misura cautelare solo gli elementi di prova pertinenti con l’imputazione. Ecco questo è il tema. Ormai da tempo la contestualizzazione del fatto è diventata un alibi per istruire un processo mediatico centrato sulle coordinate del moralismo in cui si affida l’esecuzione della pena ai giornalisti. Non a caso la gogna si realizza quasi sempre attraverso intercettazioni informatiche ed altri atti istruttori che sono scarti di materiale probatorio, privi di qualunque rilevanza ai fini della condanna. Brandelli di confidenze, emozioni, desideri di rivalsa, sono ricostruiti con un metodo congetturale che li pone a confronto non con le fattispecie penali ma con la loro contrarietà alla morale. Il problema, tuttavia, è come dire, guarire da questa giustizia “esplorativa”. Il decreto legislativo di adeguamento alla Direttiva europea sulla presunzione d’innocenza non si applica direttamente ai giornalisti. Non sarebbe il caso di pensare ad un’articolata disciplina che induca i giornalisti a ricostruire i fatti con equilibrio, senso critico, senza trascurare le possibili ipotesi alternative rispetto alla “verità” narrata dalle Procure? Sarebbe anche più interessante per il lettore... Esattamente, i giornalisti oggi sono anelli di silicio, conduttori elettronici di una propagazione mediatica della notizia. Il giornalista dovrebbe anche saper contraddire un’ipotesi acclarata e conformisticamente condivisa. Si può restituire al giornalismo quella funzione di “manutentore civile” che dovrebbe avere in una democrazia. Invece questo non accade, il giornalista si muove come un amplificatore del racconto giudiziario della pubblica accusa. Questo è un problema di grandissima patologia che però non risolvi amputando le mani del giornalista. Anche perché lo scandaglio interpretativo del giornalista è più ampio di quello della magistratura, perché il PM deve accertare l’illegalità di un comportamento umano mentre il giornalista rivendica anche il diritto di discutere la moralità. È evidente che se tu mi metti all’interno di un ordinanza di custodia cautelare non solo gli atti che provano la colpevolezza, la premeditazione, ma mi metti anche le dichiarazioni del papà di Turetta al figlio nel primo incontro che hai intercettato, che hai spiato, perché francamente hai ritenuto che fosse necessario intercettare il colloquio in carcere del figlio col padre, e poi hai ritenuto che quelle dichiarazioni fossero pertinenti al reato, perché il giornalista non dovrebbe commentarle? La conseguenza è l’ingiusta crocifissione di un padre senza capire che quelle parole sono le parole della disperazione, del conforto, della paura. Ci vuole una sensibilità a maneggiare quel tizzone incandescente che c’è in quelle parole. Il problema non è il giornalista ma la pertinenza probatoria degli atti istruttori. Allora se noi crediamo di risolvere lo sconfinamento morale del processo penale amputando la libertà del giornalista noi commettiamo un errore clamoroso perché legittimiamo che l’unico detentore del moralismo che si impone alla democrazia sia la pubblica accusa, e quindi riduciamo anche la possibilità che il giornalista possa svolgere il ruolo di contraddittore del senso comune. Sicilia. Ilaria Cucchi: “2.000 detenuti in più nelle carceri dell’isola” di Mario Barresi La Sicilia, 22 settembre 2024 Tour siciliano delle maggiori strutture carcerarie da parte della senatrice Ilaria Cucchi del gruppo parlamentare Alleanza Verdi-Sinistra (Avs), accompagnata dall’avvocato penalista Pierpaolo Montalto, segretario regionale di Sinistra Italiana (SI). Un tour de force per la senatrice, che giovedì è stata al carcere San Cristoforo a Catania e venerdì alla Casa Circondariale Malaspina di Caltanissetta prima e all’Ucciardone di Palermo di pomeriggio. Situazione carceraria siciliana ai limiti del collasso, ci sono 5.281 posti disponibili e i detenuti sono 6.855. A Catania Piazza Lanza 279 posti disponibili 404 detenuti presenti indice sovraffollamento 144,8%; Catania Bicocca 136 disponibili e 196 detenuti presenti indice del 144,12%; Piazza Armerina 48 disponibili 69 detenuti, Palermo carcere Pagliarelli 1.155 posti con 1.365 detenuti presenti con indice del 118,18%, Ucciardone 489 posti e 518 detenuti indice del 105,93%, Caltanissetta Malaspina 180 posti e 227 detenuti con indice del 126,11%, San Cataldo 134 posti e soltanto 89 detenuti, l’unico caso dove i detenuti sono meno. I suicidi tra gli ospiti nelle strutture carcerarie al 17 settembre sono 72, quelli degli agenti penitenziari fino a luglio 19. Un contesto drammatico, dove spesso vengono disattesi i principi fondamentali, dove non esiste la rieducazione della pena, con i provvedimenti che risultato inefficaci, come sottolineato da Sinistra Italiana, parlando di emergenza carcere vera e propria in Italia e in Sicilia ancor di più. “Vittima del sistema carcere - afferma la senatrice Cucchi - sono i detenuti da un lato, gli agenti penitenziari dall’altro. Gli agenti soffrono quasi come i detenuti, all’Ucciardone di Palermo non ho ricevuto le risposte che mi aspettavo. A Palermo ho trovato una delle realtà che mi ha più sconvolta, sia per come è strutturato questo penitenziario, ma anche quello che vi ho trovato dentro: incuria, abbandono, sofferenza. Le docce comuni ad esempio metà non funzionano e l’acqua calda c’è quando non ci sono guasti. Manca l’ascolto e basterebbe veramente poco per migliorare la situazione. Il carcere ha perso la funzione rieducativa e svolge soltanto quelle punitiva. A Caltanissetta ho trovato un’altra situazione, quella che abbiamo dappertutto, sovraffollamento dei detenuti e sottodimensionamento degli agenti, che ci chiedono aiuto. Si trovano a lavorare con detenuti malati psichici, tossicodipendenti e spesso mancano anche le competenze per trattarli. Lo psichiatra viene due volte al mese, capite che problemi ci sono. Abbiamo però pure delle belle storie, un detenuto che si è diplomato con il massimo dei voti e adesso sarà trasferito da Caltanissetta a Milano perché ammesso all’Università Bocconi. Una dimostrazione che se motivati i detenuti ottengono risultati, viene svolto il compito rieducativo e si limita la recidività. Le carceri italiane sono al collasso, le persone qui si ammalano. A nulla è servito lo svuota carcere, basta guardare i suicidi, quest’anno abbiamo numeri record. I diritti così vengono calpestati”.Lo stato delle carceri italiane è drammatico, la carenza di organico del personale, la pressoché totale assenza di servizi ed il sovraffollamento, stanno facendo diventare gli istituti penitenziari dei veri e proprie gironi dell’inferno. “Ai detenuti non possono essere esclusi i diritti fondamentali - afferma Pierpaolo Montalto, segretario regionale di Sinistra italiana - parliamo di quasi 2.000 detenuti in più in Sicilia, rispetto ai posti disponibili. Questa è una situazione inaccettabile. Tenendo ancora in carcere chi compie reato per la marijuana, quando anche la commissione sanitaria dell’Onu l’ha escluso dalle sostanze stupefacenti è assurdo, non posticipare l’obbligatorietà della pena per le donne incinte o con prole fino a un anno è crudele, è inaccettabile. Con il decreto sicurezza si introduce nel codice penale anche il reato di resistenza passiva in carcere, equiparando agli atti violenti anche le azioni di resistenza passiva, come digiuni, rifiuto di ora di aria ecc. Per svuotare le carceri servono provvedimenti coraggiosi, serve pure evitare la dispersione scolastica, garantire presidi di legalità, garantire il lavoro. Serve una società più giusta, più egualitaria. Esiste una figura per il carcere che è quella del garante dei detenuti, figura non obbligatoria e quindi Palermo c’è l’ha con Pino Apprendi e quasi tutti gli altri istituti no”. Cagliari. La Garante regionale dei detenuti con Bartolazzi in visita al carcere di Uta di Sara Panarelli castedduonline.it, 22 settembre 2024 La visita è successivamente proseguita all’ospedale Santissima Trinità dove da anni esiste un reparto nato proprio per andare incontro alle esigenze di Uta, ma mai entrato in funzione. Una struttura dotata di tutte le misure di sicurezza detentiva che non si è resa mai operativa. Sopralluogo della garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Irene Testa, e dell’assessore regionale della Sanità Armando Bartolazzi nel carcere di Uta. “Ci siamo recati a Uta per visitare il centro clinico - afferma Testa - accompagnati dal direttore del carcere Marco Porcu e dal comandante. Credo sia un fatto straordinario che, forse per la prima volta, un assessore regionale della Sanità si sia recato a verificare di persona un presidio sanitario intramurario”. “La visita è successivamente proseguita all’ospedale Santissima Trinità dove da anni esiste un reparto nato proprio per andare incontro alle esigenze di Uta, ma mai entrato in funzione. Una struttura dotata di tutte le misure di sicurezza detentiva che non si è resa mai operativa. L’impegno preso dall’assessore è quello di adoperarsi affinché quel reparto, così come la legge prevede, possa essere messo a disposizione anche per i ricoveri delle persone private della libertà personale. Faccio fiducia all’assessore Bartolazzi sperando che i tempi possano essere rapidi - prosegue la garante - Uta ha registrato oggi la presenza di 715 detenuti, la maggior parte dei quali affette da patologie gravi. La salute è un diritto che va garantito a tutti”, conclude Irene Testa. Roma. Il reinserimento in due parole: lavoro e retribuzione di Lorena Crisafulli L’Osservatore Romano, 22 settembre 2024 Il protocollo d’intesa “Fratelli tutti” fra Roma Capitale, Ama e Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Favorire la formazione professionale all’interno degli istituti penitenziari di Roma e provincia e valorizzare le competenze delle persone private della libertà personale, agevolando il loro inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro. Sono gli obiettivi che si prefigge il Protocollo di intesa “Fratelli tutti”, firmato in Campidoglio da Città Metropolitana di Roma Capitale, Garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). Un importante progetto di formazione che mira a favorire il dialogo tra il mondo carcerario e quello professionale, grazie all’inserimento in uno specifico programma di persone private della libertà - ritenute idonee dal Dap - che verranno retribuite in forma equa per il lavoro svolto. “Il piano, che abbiamo presentato anche a Papa Francesco in occasione della sua visita in Campidoglio, rientra nel progetto “Fratelli Tutti” e prevede una formazione a pieno titolo, sia teorica che pratica, in un ambito lavorativo molto richiesto, con l’obiettivo di garantire uno sbocco professionale - ha dichiarato il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri -. Dare dignità e formazione alle persone private della libertà significa dar loro una speranza solida di reinserimento e farlo su un tema importante come l’economia circolare ne aumenta ancor di più il valore”. Nello specifico, “Fratelli tutti” è un percorso di formazione in apprendistato, attraverso il quale vengono individuati soggetti idonei alla gestione delle compostiere, le macchine di trasformazione dei rifiuti organici in compost. Realizzato in collaborazione con Ama, prevede corsi formativi “in aula” e pratici in “contesti lavorativi” per promuovere l’inserimento di queste persone nel settore dell’economia circolare. Al termine del progetto ai partecipanti verrà rilasciata la qualifica professionale di operatori meccatronici (indispensabile nei diversi impianti dell’Azienda Ama Roma). “Si tratta di ruoli altamente specializzati - ha sottolineato Gualtieri - di cui ha bisogno la città, ma anche la stessa casa circondariale di Rebibbia, che produce otto tonnellate di rifiuti al giorno e circa 3000 l’anno”. “Dopo un anno di teoria in aula, è prevista anche la possibilità di fare pratica nelle sedi di Ama, con un contratto di apprendistato retribuito. La Città Metropolitana di Roma sta acquisendo un know-how importante sulla formazione e con questo progetto ampliamo ancora di più il nostro raggio d’azione - ha aggiunto Daniele Parrucci, consigliere della Città Metropolitana di Roma Capitale, delegato ad Edilizia Scolastica, Impianti Sportivi e Politiche della Formazione -. Siamo felici di presentare questo protocollo d’intesa con il Dap e con la Garante delle persone private della libertà personale, convinti che una formazione professionale seria, portata all’interno degli istituti penitenziari, possa dare ai detenuti una speranza rinnovata, perché una nuova strada è possibile”. Il percorso - ha concluso Parrucci - parte con un primo anno di formazione mentre nel secondo anno si lavorerà con il meccanismo dell’alternanza carcere-lavoro”. Per il diploma ci vorranno 4 anni complessivi, dopo i quali i detenuti potranno essere assunti. “L’obiettivo è quello di trasmettere competenze professionali specifiche a queste persone, in particolare in ambito tecnico, meccanico e meccatronico, e consentire così l’inizio, una volta fuori dalle mura dell’istituto penitenziario, di un nuovo percorso di vita che restituisca dignità e fiducia anche attraverso il lavoro”, ha fatto sapere Bruno Manzi, presidente di Ama S.p.A. Siamo orgogliosi di dare il nostro contributo a questo importante progetto volto a dare una nuova opportunità e prospettive future a chi si sta impegnando in un percorso di recupero e reinserimento nella società”. La casa circondariale di Rebibbia non è nuova a progetti di inserimento lavorativo, basti pensare alla recente creazione di un laboratorio di cucina nel carcere femminile e all’accordo con i costruttori romani per avviare corsi professionali riservati alle detenute. Sono tutte iniziative lodevoli avviate quest’anno, in grado di aiutare le persone che vivono in una condizione di restrizione della libertà personale a trovare momenti di svago e con essi la possibilità di “andare oltre” il contesto restrittivo nel quale si ritrovano. “In un momento in cui sovraffollamento e suicidi sono un’emergenza nazionale, ideare un progetto con una visione così complessiva è ancora più importante - ha specificato Valentina Calderone, Garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale -. Anche il Santo Padre, nella “Bolla di indizione del Giubileo”, ha più volte citato la condizione delle persone detenute, chiedendo ai Governi di restituire loro la speranza, anche attraverso forme di amnistia o indulto, volte ad alleggerire l’attuale insostenibile condizione di vita cui sono sottoposte le persone nelle nostre carceri e aiutarle a recuperare fiducia in sé stesse e nella società. Noi consideriamo il carcere un pezzo di città di cui vogliamo farci carico: portare queste attività dentro le strutture, per contribuire a costruire percorsi utili al fine pena, rientra in questa idea”. Le carceri italiane sono in perenne stato d’emergenza a causa dell’elevato numero di suicidi e delle condizioni deprecabili in cui versano, compreso il sovraffollamento, per le quali tante volte il nostro Paese è stato richiamato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Anche dal xx rapporto sulle condizioni di detenzione, elaborato da “Antigone”, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, è emerso un quadro piuttosto preoccupante riguardo al numero di suicidi all’interno delle carceri di Roma e di tutto il territorio nazionale. Riuscire a risolvere una volta per tutte una situazione così drammatica e complessa ha il sapore dell’utopia, ma favorire progetti di reinserimento professionale all’interno di queste strutture e provare a restituire quel senso “del dopo”, che talvolta manca a chi sta scontando una pena, è un’opportunità da non lasciarsi sfuggire per cercare di ridare a queste persone la speranza di un futuro migliore a fine detenzione. Reggio Emilia. “Tutela della salute mentale in cella? Una follia” di Tommaso Vezzani Il Resto del Carlino, 22 settembre 2024 “Oggi le carceri producono malattia e morte”. Focus drammatico sulla situazione dei detenuti: “Basta guardare il dato di recidività, pari al 70 per cento”. Scarcella (Camera Penale): “Viene il mal di testa solo a sentire i rumori lì dentro, deve cambiare la cultura”. “Un cimitero per i vivi. Quello sono, le carceri”. È con l’agghiacciante definizione coniata nel 1904 da Filippo Turati che Sergio D’Elia, ex segretario di Nessuno Tocchi Caino, ha chiuso il suo intervento durante la conferenza “Servire l’uomo. Spes contra spem” in via Codro, al Centro di Solidarietà di Reggio Emilia. Vi ha collaborato anche la Camera Penale cittadina, nell’ambito di una giornata dedicata alla sensibilizzazione sulle difficili condizioni dei detenuti e sulle difficoltà nella tutela della loro salute mentale. In mattinata si è svolta una visita prima a quello specifico settore della Pulce e poi al Rems: “Si stima che - racconta Eliseo Bertani, per 40 anni educatore al Ceis - i tossicodipendenti nelle carceri italiane siano 14mila, una parte importante nel problema del sovraffollamento, e si parla di trasferirli in comunità terapeutiche: per farlo però serve molta formazione, 82 euro giornalieri di retta sono del tutto inadeguati”. A parlare poi è stato il consigliere regionale e presidente della Commissione parità e diritti Federico Amico: “Di fronte al 70% di recidività, i dati oggi ci dicono che le carceri producono criminalità anziché riabilitazione. A Reggio ci sono 280 posti e 290 detenuti ma due sezioni sono in fase di ristrutturazione, quindi ci sono quattro o cinque persone per cella, e nella sezione per la tutela della salute mentale le presenze sono quasi 50, il doppio del previsto”. La radicale Rita Bernardini è in primissima linea per i diritti dei carcerati: “Dell’assistenza ai malati spesso si fanno carico direttamente i detenuti, i cosiddetti ‘piantoni’, ma non hanno formazione né esperienza. Su questi temi sinistra, destra, centro non possono fare differenze ma chiunque abbia governato ha sempre trascurato le carceri. In più l’ultimo decreto sicurezza aumenta le pene e istituisce 24 nuove fattispecie di reato, da aggiungere alle 37mila già presenti, mentre in Francia sono 7mila”. D’Elia definisce “la malattia mentale un connotato del carcere, ormai. Tutto ciò che stava nei manicomi e negli Opg è finito lì e non può esistere terapia in un luogo che priva di libertà e di salute. Basti pensare ai 73 suicidi dall’inizio dell’anno tra i detenuti e i 7 tra gli agenti: le carceri così producono solo malattia e morte”. Dopo il drammatico resoconto dell’infermiera Linda Motti, che lavora in carcere e sulla sua esperienza ha scritto il libro ‘Ero carcerato e mi siete venuti a trovarè, ha preso la parola Luigi Scarcella, presidente della Camera Penale di Reggio Emilia: “Dopo la visita di oggi non vorrei parlare, lo faccio solo perché denunciare è un obbligo. Pensare la tutela della salute mentale all’interno del carcere è pura follia: già l’ordinamento non consente una personalizzazione della pena, figuriamoci della cura. Dopo anche solo aver sentito i rumori lì dentro viene il mal di testa, per non dire peggio. Più persone possibili devono sapere, perché se non cambia la cultura il problema non è risolvibile. Allo stato attuale il quadro è buio, non c’è luce, c’è il buio più profondo”. Avellino. Beppe Battaglia: “Situazione grave nelle carceri. La storia di Tufo è irripetibile” di Carmine Quaglia ottopagine.it, 22 settembre 2024 Il racconto del progetto di liberazione realizzato in Irpinia in regime di esecuzione penale esterna. Al complesso polifunzionale del Comune di Tufo è stato presentato il libro di Beppe Battaglia dal titolo “La libertà è un organismo vivente”. Nell’opera l’autore presenta in prima persona la storia di un gruppo di detenuti politici, provenienti dall’esperienza della lotta armata in Italia, a metà degli anni 80 del secolo scorso. Un progetto di liberazione, realizzato sull’agro di Tufo in regime di esecuzione penale esterna, “partito dal carcere di Bellizzi Irpino, mediante il lavoro autogestito collettivamente, col supporto di un gruppo di volontari e volontarie che insieme costituirono l’Associazione CSSD (Comunità di Servizio Sociale dei Detenuti), alla quale aderì anche il Comune di Tufo conferendo in comodato d’uso gratuito un terreno e un fabbricato rurale per realizzare una serie di attività lavorative che videro protagonisti il gruppo di persone detenute, numerose espressioni del mondo del volontariato e dell’associazionismo locale e nazionale, nonché la stessa popolazione irpina a partire dai cittadini tufesi e avellinesi”. All’evento, moderato dal direttore di OttoChannel, Pierluigi Melillo, hanno preso parte Beppe Battaglia in compagnia del vice sindaco di Tufo, Paola Luciano, dell’ex sindaco di Tufo, Francesco Nigro, e dell’avvocato Giovanna Perna, componente dell’Osservatorio Carceri Unione Camere Penali Italiane. “Oggi il carcere è un po’ il lazzaretto dei poveri” - “Quella storia, irripetibile, di liberazione è stata possibile in quanto tutto il territorio e in particolare il Comune di Tufo garantiva spontaneità. - ha spiegato Battaglia a margine del convegno - C’era un contributo orizzontale senza un centro di potere, un moto del territorio verso la liberazione. Oggi è assolutamente improponibile, non è più possibile un’esperienza di quel tipo. La situazione si è aggravata non solo nell’ordinamento penitenziario, ma anche sui territori. La disgregrazione che si vede fuori è ancora più crudele dentro. Questi processi liberatori avevano il presupposto di essere progetti collettivi. Oggi il carcere è un po’ il lazzaretto dei poveri. Sul carcere c’è ancora molto da discutere e nel libro ci sono degli input. Non c’è nessuna indulgenza nostalgica, c’è un sentimento verso un territorio che ci ha accolti. Dentro questo racconto ci sono punti di cocente attualità che riguarda il carcere e i territori”. Perna: “È importante reinventarsi all’interno del carcere” - “È un’occasione per ribadire che la popolazione detenuta dovrebbe essere educata anche all’idea che bisogna conquistare la libertà lavorando. - ha aggiunto l’avvocato Perna - Si esce dal carcere con questa impostazione che è quella di trovare lavoro. Il lavoro non c’è, c’è in alcune strutture perché occorre non generalizzare, ma questo è il messaggio che voglio lanciare. È importante reinventarsi all’interno del carcere”. Gorizia. Il teatro e il pubblico entrano in carcere di Maurizio Mervar rainews.it, 22 settembre 2024 Il carcere di Gorizia ha aperto i suoi spazi al pubblico per il Festival “Se io fossi Caino”. Un gruppo di detenuti ha sviluppato un percorso di crescita personale attraverso il teatro. Foglie d’albero per ascoltare la voce della natura e ritrovare in essa l’energia che illumina l’animo umano, il proprio animo scosso dalle tempeste della vita. E così la casa circondariale Angiolo Bigazzi di Gorizia è diventata palcoscenico di speranza per coloro che dopo aver sbagliato vogliono guardare avanti con l’aiuto della compagnia teatrale Fierascena ed il sostegno della Caritas di Gorizia. Elisa Menon, Regista: “Lo spettacolo si intitola “Effetto bosco”, sono persone che attraversano un momento di difficoltà e si impegnano in un laboratorio teatrale che le mette alla prova, che chiede loro di affrontare una trasformazione e di aprirsi a se stessi e all’altro.” Caterina Leva, Direttrice Casa circondariale di Gorizia: “Si tratta dell’esito visibile di un percorso che in realtà dura da un anno. Dobbiamo moltissimo a professionisti come Elisa che con impegno, dedizione, empatia cercano di tirare fuori il meglio dai ristretti che non senza riserve, devo ammetterlo almeno all’inizio, si sono messi in gioco. Il teatro è sicuramente uno strumento attraverso il quale è possibile toccare con mano la concretizzazione del percorso di reinserimento e di socializzazione che i detenuti intraprendono volontariamente all’interno dell’Istituto Penitenziario” Seguono voci delle spettatrici e degli spettatori. Firenze. Giovedì 26 settembre, alle Murate, Claudio Ascoli racconta il carcere “ieri e oggi” Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2024 Si parte dalle lettere di Guido Calogero, rinchiuso dal fascismo. Nel progetto della Fondazione Scabia “Sentiero del Teatro. Accanto alla follia” - realizzato in collaborazione con il M.A.D. all’interno delle iniziative di Estate fiorentina 2024 - giovedì 26 settembre alle ore 20.30 Claudio Ascoli dei Chille de la balanza presenta Lettere del filosofo Guido Calogero dal carcere duro delle Murate (febbraio - giugno 1942). L’evento è al M.A.D. (Murate Art District Piazza delle Murate), con ingresso libero e prenotazione vivamente consigliata, telefonando allo 055/2476873. Ascoli parte da un momento privato di Calogero, figura di spicco dagli anni del fascismo fino alla sua scomparsa nel 1986. Allievo di Gentile da cui ben presto si allontana, Calogero firma nel 1931 la fedeltà al fascismo, come Einaudi, Calamandrei che considera l’insegnamento “il suo posto di combattimento”. Calogero ha l’obiettivo dichiarato di insegnare ai giovani l’importanza della libertà e la necessità della democrazia nel dialogo: suo è il Manifesto del liberalsocialismo (1940). Di lì a poco viene arrestato e portato alle Murate nel febbraio del 1942! È amatissimo dai suoi studenti universitari a Pisa, Firenze e Roma: sono suoi allievi prediletti, tra gli altri, Norberto Bobbio, Carlo Azeglio Ciampi e Luciano Bianciardi. Impossibile sintetizzare un’attività come quella di Calogero che attraversa molti decenni: basti qui ricordare che fu tra i fondatori del Partito d’Azione e molti decenni dopo del Partito radicale, e ancora direttore dell’Istituto italiano di Cultura a Londra, membro dell’Accademia dei Lincei, oltre che naturalmente docente universitario. Come sempre, Ascoli si muove in assoluta libertà, proponendo un percorso che dagli anni quaranta torna indietro fino alla nascita di NON MOLLARE per poi arrivare ai nostri giorni. Si interroga e interroga in primo luogo sul carcere, allora ed oggi, e sul “che fare”. Lo fa in compagnia di persone che hanno vissuto, partecipato alla storia recente di Firenze e delle Murate, con una speciale attenzione alla rivolta - prima carceraria e poi popolare - del 24 febbraio 1974, oggi quasi del tutto rimossa. Un particolare ringraziamento va quindi alla persone che accompagnano Ascoli in quest’avventura: da Valdo Spini (Fondazione Circolo Rosselli) a Chiara Riondino (allora nel Collettivo Victor Jara, che scrisse una canzone sulla rivolta del ‘74 e sull’uccisione del giovane carcerato Giancarlo Del Padrone); e ancora da Giuliana Occupati e Valentino Fraticelli (Cantiere della memoria) a Corrado Marcetti (Fondazione Michelucci), senza dimenticare Massimo Agus che fotografò alcuni degli eventi di quegli anni. L’attualità del pensiero di Calogero emerge nelle delicate lettere che invia alla moglie dal carcere fiorentino - oggi quasi introvabili e per le quali Ascoli è debitore verso la studiosa Cristina Farnetti che ne ha curato l’edizione nel 1996 ne “La Cultura” - e ancor più in quella sorta di pamphlet per le giovani generazioni che è “L’Abbiccì della democrazia” (scritto nel 1944 e pubblicato nel 1946), di cui riportiamo l’intrigante incipit Parlare e ascoltare: “È stato detto che la democrazia è il sistema di contare le teste invece di romperle. Vediamo che cosa implica questa definizione dall’aspetto bizzarro.” Ogni detenuto scrive un’Odissea di Gianluigi Colin Corriere della Sera - La Lettura, 22 settembre 2024 Tommaso Spazzini Villa, lauree in Economia e in Storia dell’arte, ha portato Omero nelle prigioni e chiesto ai carcerati di sottolineare le parole per comporre una propria, piccola autobiografia. Un risultato struggente che ora è anche un libro. Dal 2018 Tommaso Spazzini Villa ha dato vita a un progetto che ha coinvolto molti detenuti delle carceri italiane. A ognuno di loro ha lasciato una pagina dell’Odissea dell’edizione Einaudi (quella tradotta magnificamente da Rosa Calzecchi Onesti), chiedendo di sottolineare alcune parole all’interno del testo per creare brevi frasi di senso compiuto: parole che si manifestassero come uno specchio della loro esistenza o semplicemente evocassero un sentimento o, ancora, potessero scavare qualcosa nell’inconscio. Le scelte hanno messo in luce brevi, spesso dolorose frasi che hanno dato sostanza al vissuto dei protagonisti di questa geniale azione artistica. Sottolineando le parole con matite, biro, pennarelli colorati, ogni detenuto aveva la possibilità di creare una storia, una storia in cui mostrare la propria vita, un autoritratto, appunto. Ma poteva anche far parlare il proprio silenzio. Poteva tacere. In questo progetto di struggente e prodigiosa “anti-cancellatura”, Spazzini Villa sembra continuare in quel processo davvero epifanico di mettere in luce qualcosa che non è immediatamente visibile: al pari delle radici degli alberi “rivelati”, alle ombre delle foglie secche capaci di disegnare figure immaginarie, o ai panni bianchi, isolati dai dipinti sacri della storia dell’arte, l’artista anche qui attua una operazione di rivelazione. Ma, va detto, in Autoritratti è resa ancora più interessante grazie alla partecipazione attiva di speciali compagni di viaggio. Alcune scelte dei detenuti sono davvero emozionanti per la loro forza evocativa: nella pagina dedicata alla “strage dei pretendenti” un detenuto sottolinea queste parole: “Ho sbagliato / ma / intanto / vivo”. Oppure, un altro, che apre il volume nella pagina dedicata al “concilio degli dèi e l’esortazione di Atena a Telemaco”: “La sua vita/ si/ distrusse/ ma non/ se n’andò/ per esser presente/ alla fine disgraziata”. O ancora: “Sopra tutti i mortali/ mio è/ il pianto/ glorioso”. O quella che non può lasciare indifferenti e racconta un tormentato universo: “Che/ dio/ al più presto/ venga qui”. Certo, in questi mesi in cui la cronaca ci parla delle disperate condizioni di vita, del sovraffollamento e dei tanti suicidi nelle carceri italiane, queste parole si rivelano esemplari invocazioni d’aiuto: “Da questa esperienza mi restano due cose. Che la prigione è un posto che riguarda tutti noi, da cui nessuno può sentirsi in salvo: ho incontrato persone che scontano anni di carcere per aver commesso errori banali, per essersi trovate in situazioni complesse e aver fatto scelte sbagliate, per non aver saputo dire di no, per aver agito d’impulso. E poi che la pena non riabilitativa è una perversione disumana e insensata, come lo sono state la schiavitù e i manicomi”. C’è la tragedia e la coscienza di chi è consapevole delle proprie azioni. C’è chi vive la rabbia, chi la disperazione, chi il dolore che lo annienta, ma c’è anche speranza e poesia. Tanta poesia. Tommaso Spazzini Villa legge ad alta voce un incipit: “Caro/ autunno/ incredulo”... Non potrebbe essere un verso di Giuseppe Ungaretti? Poi prosegue: “Credo nell’Odissea come poema della conoscenza conseguita attraverso il superamento degli ostacoli. È una condizione che viene imposta a Odisseo, lui la soffre, deve costruire la sua pace, deve costruirsi la via del ritorno, impiega dieci anni per percorrere questa strada. È il libro del mare, l’archetipo di ogni futuro romanzo d’avventura. Ed è anche il poema degli umili: il leale porcaro Eumeo, la fedele nutrice Euriclea, il bovaro Filezio. Penso all’Odissea come a un testo collettivo in cui milioni di uomini, in migliaia di anni, hanno trovato e riconosciuto quel materiale altrimenti denso e informe che sono i moti del nostro animo, emozioni che con l’ascolto reiterato e ripetuto trova luogo e pace, sollievo e comprensione. Autoritratti è l’unità minima di questo movimento perché restringe a una sola pagina l’incontro con il testo. L’Odissea non è presa in considerazione per la sua struttura narrativa ma come insieme di immagini, segni, emozioni contenuti all’interno di una singola pagina. Non c’è nulla di automatico e inconscio - è un lavoro lontano dall’approccio al testo dadaista. Quello di sottolineare è un gesto lento in cui chi legge si rispecchia nelle parole, le cerchia, le sottolinea, le cancella, le ritrova andando lentamente a comporre un ritratto di sé, di ciò che quella pagina riflette e rispecchia di sé”. Il momento più doloroso di questa esperienza artistica e umana? “Uscire dalla porta principale, riprendere il telefonino e gli effetti personali dalla cassetta di sicurezza e tornare libero. Rendermi conto del valore della libertà, di cosa voglia dire essere privati di tutto, della violenza latente all’interno di quelle mura, della tensione costante che logora e annienta, e avere visto troppi occhi spenti. Ma soprattutto ho capito ancora di più la lezione di Fernando Pessoa: la letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta”. Non distrarsi, non arrendersi di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 22 settembre 2024 Passare tempo con i figli e i ragazzi in genere. Fare domande. Tutto questo aiuta, ma non garantisce nulla a nessuno. Resta, tuttavia, l’unica possibilità di cogliere i segnali di allarme. Una ragazza di ventidue anni uccide il figlio appena nato, poi parte in vacanza a New York. Un ragazzo di diciassettenne anni stermina la famiglia con sessantotto coltellate: mamma, papà, fratello. Non ci sono parole, e forse è meglio così. Di parole ne abbiamo ascoltate tante, in questi giorni, e non tutte utili. L’orrore di Paderno Dugnano e quello di Vignale di Traversetolo hanno una cosa in comune: ci sembrano incomprensibili. Quei due ragazzi erano amati e apprezzati da tutti, raccontano. Possibile che i famigliari, gli amici e gli insegnanti non avessero colto alcun segnale d’allarme? L’orrore e lo stupore, davanti a tutto questo, sono giustificati. Un po’ meno i giudizi frettolosi, le grandi teorie sull’educazione, le considerazioni apocalittiche sulla famiglia, la società e la scuola. Mercoledì, a Verona, sono intervenuto all’apertura del congresso della Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (Sinpia). Ho chiesto: perché siete intervenuti poco dopo fatti tanto gravi? La risposta: perché non conosciamo quei ragazzi, quelle famiglie, quelle situazioni. Perché non vogliamo dire cose a caso. Tacere perché non ne sappiamo abbastanza: è una lezione di serietà che dovremmo tenere a mente. Invece accade che tanti parlino in modo superficiale. Il termine psicoterapeuta - medico della mente - è diventato vago, ai tempi dei social. Improvvisatori in cerca di visibilità si mescolano a professionisti coscienziosi, e la cagnara che segue non aiuta. La televisione, quando si occupa di questi temi, allestisce il circo dell’orrore. Appassionarsi allo spettacolo è malsano. Le malattie mentali esistono. La prima edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-1), nel 1952, era lungo 130 pagine e identificava 106 disturbi; l’edizione più recente (Dsm-5, 2013, aggiornato nel 2022) ha 1.050 pagine e ne raccoglie 297. Il più comune è l’ansia, ma la complessità della materia è impressionante. Un motivo in più per essere cauti. Capire le cose da non fare, con l’aiuto degli specialisti, è un inizio. Non dobbiamo distrarci, per cominciare. Elisa Maria Fazzi, direttrice della Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza ASST Spedali Civili di Brescia, e presidente Sinpia, mi spiega che molti genitori non vedono la sofferenza dei figli perché non la reggono. Ci sono padri e madri troppo occupati a inseguire la propria gioventù, certo. Ma la maggioranza quel dolore lo intuisce, non lo sopporta e lo rimuove. Non dobbiamo arrenderci. Viviamo in una società approssimativa ossessionata dall’eccellenza. Pretendiamo la perfezione, la invochiamo, la falsifichiamo: sui social, con la retorica aziendale, con le diete maniacali e la chirurgia estetica. Noi adulti sappiamo - dovremmo sapere - che è una finzione, ma gli adolescenti? Lasciarli in balia di modelli irraggiungibili è irresponsabile. Parliamo con loro di queste cose? Protestiamo davanti a certi esempi vergognosi? Dobbiamo ascoltare, osservare, aspettare. Dobbiamo porre domande. Vere domande. “Com’è andata la scuola?” è una delle frasi più assurde che vengono pronunciate nella case italiane. La risposta è sempre: “Bene”. Ma con che tono e con faccia viene pronunciato quell’avverbio? L’impressione è che spesso i genitori - gli adulti in genere - si accontentino, cerchino solo un calmante per i propri timori. “Bene, tutto a posto”. E invece niente a posto. Dobbiamo perdere tempo coi nostri figli, i nostri nipoti, i ragazzi in genere. Dobbiamo stare a sentirli. Dobbiamo porre le domande giuste, o almeno evitare le domande inutili. Dobbiamo imparare a tacere, ogni tanto. Dare consigli agli adolescenti è, per molti adulti, una tentazione irresistibile. Fa sentire esperti, responsabili, attenti, utili. Per avere qualche speranza di successo, però, bisogna farsi accettare, e chiedere, e ascoltare le risposte. Altrimenti sono parole al vento. Dobbiamo esserci. Le scuole medie sono un caso di incoscienza collettiva, il buco nero dell’istruzione italiana, costringono gli studenti a un orario indecente, per dirla con la pedagogista Susanna Mantovani: dalle 8 alle 14 “come se fosse un turno di lavoro, sei ore di fila con due brevi intervalli nel mezzo e la prospettiva di dover tirare le 14.30 o le 15 per pranzare”. Gli altri Paesi europei, ricordano Gianna Fregonata e Orsola Riva, prevedono le stesse ore di lezione, ma le distribuiscono nel corso della giornata. Nel momento più delicato della vita - la prima adolescenza, che la tecnologia ha reso più vulnerabile - i ragazzi si trovano soli, se i genitori lavorano. Con quali conseguenze, negli anni a venire? Non lo sappiamo, ma lo vediamo. Non distrarsi, non arrendersi. Ascoltare, osservare, aspettare. Passare tempo con i figli e i ragazzi in genere. Fare domande. Tutto questo aiuta, ma non garantisce nulla a nessuno. Resta, tuttavia, l’unica possibilità di cogliere i segnali di allarme. A quel punto, occorre rivolgersi - senza indugi, senza imbarazzo, senza timore - ai professionisti. I neuropsichiatri dell’età evolutiva hanno studiato molti anni e curato molta gente: sono lì per aiutarci. Confinarli nei seminterrati degli ospedali, con poche risorse, non è giusto e non è lungimirante. E invece accade, accade continuamente. Migranti. Cpr a Trento, sale lo scontro politico. No di Pd e Avs, Lega al fianco di Fugatti di Marika Giovannini Corriere del Trentino, 22 settembre 2024 L’annuncio della prossima apertura a Trento di un Centro di permanenza per i rimpatri divide il mondo politico provinciale e cittadino. La Lega sostiene la linea del governatore Maurizio Fugatti, mentre nel centrosinistra Pd e Alleanza verdi e sinistra non ci stanno: “Si tratta di buchi neri, non rappresentano una soluzione”. Critici anche Cgil e Arci, che ricordano le parole del vescovo Lauro Tisi sull’accoglienza. E riserve sulla soluzione anche da Stefano Graiff del Centro Astalli. A ventiquattro ore dall’annuncio del presidente Maurizio Fugatti sulla localizzazione a Trento di un Centro di permanenza per i rimpatri da 20-25 posti (l’area al vaglio sembra essere quella della Destra Adige), lo scontro politico è già bollente. Animando il dibattito sia a livello comunale che provinciale. A dare supporto pieno al governatore è la Lega. Cittadina e provinciale. “Il Cpr sarà uno strumento fondamentale per facilitare l’espulsione di coloro che, non avendo diritto a rimanere nel nostro Paese, si rendono protagonisti di comportamenti illeciti” sottolinea sicuro il consigliere provinciale Mirko Bisesti. “Grazie al lavoro di Fugatti - prosegue - stiamo dando risposte concrete su un tema centrale come la sicurezza, che riguarda tutti i cittadini. Non si tratta di un problema di percezione, come spesso sostenuto dal centrosinistra cittadino, ma di una questione reale che deve essere affrontata con decisione “. La pensa allo stesso modo il segretario cittadino del Carroccio Devid Moranduzzo. Che si dice” contento che il centro non venga realizzato a Spini di Gardolo”: “Quella - sottolinea Moranduzzo - è una zona già provata per la presenza del carcere e di molte fabbriche”. La scelta di collocare il Cpr a Trento, però, per il segretario cittadino della Lega è corretta: “Stiamo parlando di una struttura che sarà fuori dal centro. E che sarà chiusa. Quindi sono convinto che non creerà tensioni: anzi, faciliterà l’espulsione di chi delinque sul nostro territorio”. E non è un caso, aggiunge Moranduzzo, che anche il sindaco Franco I a ne selli non abbia chiuso alla proposta, pur fissando paletti precisi: “Sono contento che il sindaco non si sia smarcato dalla scelta del governatore e del ministro”. Opposto il ragionamento del centrosinistra. “Farebbe sorridere, se non fosse tragica, l’idea di Fugatti che per risolvere i problemi di sicurezza a Trento basti aprire un Cpr” scrivono il segretario del Pd Alessandro Dal Ri e il consigliere provinciale Paolo Zanella. “Una semplificazione populista - la definiscono - che fa leva sulla paura e l’insicurezza, in primis sociale, che è reale, ma che la giunta di destra ha contribuito a determinare in questi anni di (s)governo. Si getta fumo negli occhi con una non risposta (meno della metà delle persone trattenute nei Cpr viene rimpatriata) invece di risolvere le questioni a monte”. Perché, aggiungono Zanella e Dal Ri, “non sono i Cpr la soluzione”: “Parliamo di luoghi di detenzione amministrativa dove viene violata la dignità delle persone, buchi neri del diritto dove spesso non è garantita la salute e la difesa dai soprusi”. Per affrontare l’insicurezza percepita dai cittadini di Trento, rilancia il Pd, servono “investimenti in politiche sociali e innanzitutto in quelle per i migranti”. Si deve, dunque, “investire in integrazione, tornando all’accoglienza diffusa”. Richiama il modello dell’accoglienza diffusa anche il coordinatore cittadino dem Alex Benetti. Che non nasconde le riserve sulla localizzazione del Cpr a Trento: “La città - osserva - fa sempre la sua parte. Ma bisogna capire come sarà gestito, se sarà un luogo dove le persone rimarranno poco tempo o se invece sarà una struttura dove ci sarà chi dovrà stare mesi senza avere alcuna risposta”. Benetti è duro: “Questo è il solito modo leghista di gestire l’immigrazione: invece di gestire la complessità, si limita a misure semplicistiche”. Si dice “indignato” il coordinamento provinciale di Alleanza verdi e sinistra. “I Cpr - è la posizione - sono buchi neri dei diritti, luoghi che privano le persone della propria libertà a prescindere e che mettono in discussione le più basilari garanzie costituzionali”. E in un territorio dove l’accoglienza e il volontariato sono un fio reall’ occhiello, aggiunge A vs, “questa proposta stona ancora di più: ci batteremo perché nessun Cpr venga costruito sul nostro territorio né in quelli vicini “. Perché, sottolineala consigliera provinciale di Avs Lucia Coppola, l’apertura di Cpr è “un atto di disumanità”: “Per quanto si potrà assicurare che quello che si aprirà in Trentino sarà un modello di accoglienza, resta il fatto che è un vero e proprio carcere”. E a non nascondere riserve è anche Stefano Graiff, presidente di Astalli. Che non si pronuncia tanto sull’apertura del Cpr, quanto sulla situazione complessiva provinciale. “Il vero problema del Trentino - osserva Graiff - è che non ci sono posti a sufficienza per i richiedenti asilo”. Dunque, “il Cpr non risponde all’emergenza che si registra in Trentino in questo momento”. I numeri definiscono i tratti del problema: “Oggi - spiega il presidente - per poter avviare un percorso di accoglienza una persona deve attendere sette mesi “. E rispetto alle circa 1.800 domande, i posti dedicati all’accoglienza in provincia sono fermi a 700. “Ci sono decine di persone per strada che cercano di avviare un percorso di inserimento” insiste Graiff. Che conclude: “Rispondere con unCpr vuol dire alimentare il pensiero secondo cui ilr ichiedente asilo è un delinquente che va espulso. Un gioco perverso e sbagliato”. Una riflessione richiamata anche da Cgil e Arci: “L’idea della destra è sempre e solo una: criminalizzare i richiedenti asilo e descrivere i fenomeni migratori come un problema da risolvere con metodi di polizia”. Ma i Cpr, ribadiscono Cgil e Arci, non sono la soluzione: “Confidiamo quindi che la città si opponga con forza alla nascita di questa struttura e reclami nuovi investimenti per una vera accoglienza dei profughi. Noi la pensiamo come il vescovo Lauro Tisi”. Cosa insegna la mossa dell’Olanda sull’immigrazione di Agostina Pirrello Il Manifesto, 22 settembre 2024 La ministra per la migrazione e l’Asilo, Marjolein Faber, in una lettera di dieci righe alla Commissione europea ha scritto che l’Olanda chiederà un opt-out sulle politiche migratorie “nel caso di modifica dei Trattati”. L’ossessione per l’immigrazione del nuovo governo olandese ha portato i ministri appena insediati a sorvolare sulle più elementari nozioni di diritto europeo. La ministra per la migrazione e l’Asilo, Marjolein Faber, in una lettera di dieci righe alla Commissione europea ha scritto che l’Olanda chiederà un opt-out sulle politiche migratorie “nel caso di modifica dei Trattati”. La lettera è stata motivo di esultanza per Geert Wilders, leader del Pvv, partito di estrema destra di cui fa parte anche Faber, per il quale il ministro “ha fatto la storia dicendo all’Ue che gli olandesi vogliono rinunciare all’immigrazione”. Che questa fosse la volontà del nuovo governo Schoff era già chiaro a tutti: il punto due del programma di governo è dedicato al controllo sull’asilo e sull’immigrazione, controllo che viene presentato come panacea di tutti i mali dell’Olanda. Per far fronte alla crisi abitativa e ai problemi dei sistemi sanitario ed educativo, il governo propone misure quali la sospensione del diritto all’accoglienza dei richiedenti asilo e l’intensificazione delle espulsioni “anche forzatamente”. Nel voler mostrare il proprio mirabile impegno per la causa anche di fronte all’Europa, Faber ha quindi brandito la nozione giuridica delle clausole opt out, con l’intento di potersi liberare anche dei pochi brandelli di garanzie che il Sistema europeo comune d’asilo prevede per i migranti. Le clausole opt-out consentono agli Stati membri di aderire o meno a una determinata decisione dell’Unione europea con riguardo ad alcuni ambiti prestabiliti delle politiche comunitarie. Dato che la ratio dell’intera costruzione europea è che quanto si decide valga per tutti gli Stati membri, le clausole opt-out si contano sulle dita di una mano. Attualmente sono in vigore solo due esenzioni per Danimarca e Irlanda e una per la Polonia, residuo di negoziazioni risalenti ai tempi dell’adesione. Quando ancora l’Unione non era un coacervo di sovranismi nazionali, la possibilità di concedere clausole di questo genere era stata prevista in extremis per evitare che il dissenso di singoli stati condannasse all’immobilismo le iniziative comuni. In ogni caso, le opt-out vengono concordate nel corso delle modifiche dei Trattati, ipotesi che una portavoce europea, in risposta alla ministra olandese, ha escluso come prospettiva imminente. Che l’Olanda ci sperasse appare quantomeno sospetto: modificare i Trattati prevede una procedura lunga e complessa, e non a caso l’ultima modifica risale al 2009. Il processo avrebbe inizio con una proposta di revisione, che può essere avanzata da uno Stato membro, dal parlamento europeo o dalla Commissione. Una volta presentata la proposta, il Consiglio europeo, composto dai capi di Stato e di governo, decide se procedere. Se è favorevole, viene convocata una Convenzione, formata da rappresentanti dei parlamenti nazionali, del Parlamento europeo, della Commissione e dei governi degli Stati membri. Successivamente, i rappresentanti degli Stati membri si riuniscono in una Conferenza intergovernativa per negoziare il testo delle modifiche proposte. Una volta raggiunto un accordo, le modifiche devono essere ratificate da tutti gli Stati membri, seguendo le rispettive procedure costituzionali, che possono includere voti parlamentari o, in alcuni Paesi, un referendum. Se anche una riforma dei Trattati si profilasse, ci si augura che tutta questa trafila venga fatta per attrezzare gli Stati membri a rispondere in maniera coesa alle sfide contemporanee, non per creare ulteriori differenziazioni in cui i nazionalismi possano fiorire e prosperare. I capricci del governo olandese capitano inoltre nel momento meno opportuno in cui lamentarsi dei vincoli imposti dall’Ue sul trattamento da riservare ai migranti: il nuovo Patto per la migrazione e l’asilo, entrato in vigore solo due mesi fa dopo quattro anni di estenuanti negoziazioni, ha prodotto dei regolamenti che tutto sono tranne che garantisti dei diritti fondamentali delle persone alle frontiere. Tra detenzioni di massa e garanzie procedurali ridotte all’osso, l’Europa non consentirà facilmente all’Olanda l’opt-out. Ma nel frattempo ha dato carta bianca a tutti per restringere i diritti dei richiedenti asilo ai minimi storici. In Consiglio d’Europa conferenza su trattamento detenuti affetti da uso di sostanze stupefacenti agensir.it, 22 settembre 2024 Si concentrerà sul tema della “droga in carcere” e in particolare sugli aiuti ai detenuti che fanno uso di sostanze, una conferenza organizzata a Strasburgo il 24 e 25 settembre dal Gruppo internazionale di cooperazione sulle droghe e le dipendenze (noto come gruppo Pompidou del Consiglio d’Europa), dalla piattaforma del Consiglio d’Europa sulla droga e dal Forum europeo dei meccanismi nazionali di prevenzione. Si comincerà con l’analisi del contesto carcerario in relazione al tema droga, si metteranno a fuoco le sfide, e poi si esporranno le “buone pratiche” per migliorare i percorsi di accompagnamento e di cura, percorsi che non sono prettamente sanitari ma hanno e devono avere una connotazione “socioterapeutica”. È necessario “garantire che i servizi di trattamento e assistenza legati alla droga siano disponibili e accessibili alle persone in carcere e a coloro che escono dal carcere” l’obiettivo di fondo. Secondo il World Drug Report 2024, spiega una nota del Consiglio, 6,9 milioni di persone sono entrate in contatto con il sistema giudiziario penale per reati legati alla droga nel 2022 e in Europa, il 55% dei casi di persone condannate per tali reati riguardava l’uso o il possesso di sostanze stupefacenti per uso personale. Ciò significa “che un numero significativo di donne e uomini incarcerati sono persone vulnerabili a causa del disturbo dall’uso di sostanze”. Un elemento chiave sono le autorità penitenziarie a fronte del sovraffollamento carcerario a livelli critici, dato che si registra in 121 Paesi. Tunisia. Ondata di arresti e repressione a ridosso delle elezioni del 6 ottobre La Repubblica, 22 settembre 2024 Un report di Amnesty International: a rischio la libertà di espressione e di associazione. L’ultima escalation di repressione messa in atto in Tunisia ha portato in carcere almeno 97 membri del gruppo di opposizione Ennahda tra il 12 e il 13 settembre. Ai detenuti, tutti accusati di cospirazione e di altri reati legati al terrorismo, è stato negato l’accesso agli avvocati per 48 ore. Le autorità continuano a detenere arbitrariamente esponenti politici dell’opposizione e difensori dei diritti umani; a mettere da parte i candidati alle elezioni presidenziali del 6 ottobre e a ignorare le decisioni dei tribunali amministrativi di reintegrarli. Il sistema di giustizia penale nel piccolo Paese nordafricano - scrive Amnesty International - è ormai un’arma per mettere a tacere il dissenso. Magistratura e stato di diritto. L’Alta Autorità Indipendente per le Elezioni (ISIE), l’istituzione incaricata di organizzare le elezioni dal 2011 ma i cui membri, dal 2022, vengono nominati direttamente dal Presidente Kais Saied, ha promosso solo tre candidati per le prossime elezioni presidenziali, tra cui lo stesso presidente in carica. Molti degli espulsi dalla competizione elettorale hanno contestato la decisione nei tribunali amministrativi, i quali hanno una giurisdizione esclusiva sulle controversie relative alle elezioni. Tre dei ricorrenti: Imed Daimi, Mondher Znaidi e Abdellatif Al Mekki hanno vinto il ricorso e avrebbero dovuto essere reintegrati, tuttavia il 1° settembre l’ISIE ha respinto la sentenza vincolante della corte e ha impedito ai tre di partecipare alla campagna elettorale, con una mossa che mina l’indipendenza della magistratura e lo stato di diritto. Gli oppositori politici. Il 1° settembre le autorità tunisine hanno arrestato Ayachi Zammel, uno dei candidati inizialmente approvati dall’ISIE, con l’accusa di “aver fatto donazioni per influenzare l’orientamento degli elettori”. In sostanza Zammel avrebbe pagato per sostenere la propria candidatura. Il 5 settembre il tribunale ha ordinato la sua liberazione, ma poi Zammel è stato nuovamente arrestato e portato a Jendouba, nel nord-ovest della Tunisia, con le stesse accuse. Il 5 agosto un tribunale di Tunisi, in primo grado, ha condannato cinque potenziali candidati alla presidenza a otto mesi di prigione e al divieto a vita di candidarsi per una carica istituzionale con la stessa accusa rivolta a Zammel: aver fatto donazioni per influenzare l’orientamento degli elettori. L’8 settembre la Corte d’Appello di Tunisi ha confermato la condanna per due di loro: Abdellatif El Mekki e Nizar Chaari. La libertà dei media. L’ISIE ha tentato di limitare la copertura mediatica indipendente delle elezioni. Secondo il sindacato dei giornalisti almeno quattro stazioni di radio private, da luglio a oggi, hanno ricevuto avvisi scritti in merito ai commenti trasmessi in relazione alla campagna elettorale. Radio Mosaïque FM, una delle più ascoltate nel Paese, ha ricevuto per esempio due segnalazioni nelle quali si sosteneva che i commenti fatti dai giornalisti Kaouther Zantour e Assya Atrous costituivano “un insulto e una presa in giro del lavoro dell’ISIE e del processo elettorale”. Il 20 agosto la giornalista indipendente Khaoula Boukrim, fondatrice del sito informativo Tumedia, ha mostrato un’e-mail in cui l’ISIE le revocava l’accredito per seguire la campagna elettorale per “aver violato il dovere di garantire una copertura mediatica obiettiva, equilibrata e neutrale”. Vietata la distribuzione del magazine Jeune Afrique. Questo episodio rappresenta un precedente nella storia dei diritti e delle libertà represse in Tunisia dal 2011 a oggi. “Non è compito dell’ISIE controllare il lavoro dei media. Gli accrediti concessi a giornalisti e osservatori hanno lo scopo di facilitare l’accesso durante le diverse fasi delle elezioni e non quello di esercitare un controllo sulla copertura delle stesse e limitare la libertà dei media”, commenta Agnès Callamard, Segretario Generale di Amnesty International. Al magazine Jeune Afrique è stata vietata la distribuzione del numero di settembre in Tunisia, presumibilmente a causa di un articolo critico nei confronti del presidente Kais Saied intitolato “The Hyper President”. Impedire il monitoraggio delle elezioni. L’ISIE ha respinto le richieste di accreditamento presentate dalle ONG IWatch e Mourakiboun, due organizzazioni tunisine che monitorano le elezioni dal 2014. Secondo l’ente le due ONG hanno ricevuto “finanziamenti esteri sospetti da Paesi con cui la Tunisia non ha relazioni diplomatiche” - documenta Amnesty. Secondo gli standard internazionali sui diritti umani, le associazioni devono avere la libertà di ricevere finanziamenti da varie fonti, sia nazionali che internazionali, senza indebite restrizioni. Settanta persone in detenzione arbitraria. Dal 2022 le autorità tunisine reprimono gli oppositori politici e i presunti critici del presidente Saied. Oltre 70 persone tra cui avvocati, giornalisti, difensori dei diritti umani e attivisti, sono stati sottoposti a detenzione arbitraria e a procedimenti giudiziari per avere semplicemente esercitato il diritto alla libertà di espressione, di riunione pacifica e di associazione. Kuwait. Che cos’è la sharia che può condurre al perdono o alla forca di Sergio D’Elia* L’Unità, 22 settembre 2024 Il 5 settembre scorso, la legge della sharia in Kuwait ha conosciuto sia la versione della forca sia quella del perdono. Sei uomini condannati per omicidio sono stati giustiziati dopo due anni di tregua della pena di morte. Lo stesso giorno, invece, una donna kuwaitiana è scampata per un pelo alla forca. Nell’emirato più ricco del Golfo Persico, tutto si lega: la storia antica e quella moderna, il patrimonio archeologico e l’architettura avveniristica, il Corano e il petrolio. Nella capitale, il disegno delle Torri del Kuwait, le tre cisterna d’acqua che svettano nel cuore della città, richiama le classiche volte piastrellate della Grande Moschea. Secondo la Costituzione il sovrano deve essere un discendente della dinastia che ha governato l’emirato a partire dal 1752. In arabo Kuwait significa “piccola fortezza”, s’intende, lungo la costa del Golfo. Una forza basata prima sul commercio di perle e spezie tra India ed Europa, poi sul petrolio estratto e distribuito nel resto del mondo fino alla più periferica stazione di servizio col simbolo della vela. La forza del Corano, invece, è rimasta immutata, ha segnato il passato e segna il presente dell’Emirato. Quando, nel dicembre scorso, è morto il suo capo, lo sceicco Nawaf al-Ahmad Al-Sabah, prima dell’annuncio, la televisione di stato ha interrotto le trasmissioni per mandare in onda versetti dal Corano. Nel mondo arabo, dove il Corano detta legge anche nel campo dei delitti e delle pene, il moderno non emerge, la giustizia resta ancorata all’antico. Nessuna pietà, chi ha ucciso dev’essere ucciso. Con la spada nella terra dei Saud, sulla forca nella terra degli Al Sabah. E la grazia, quando è concessa, non rientra nel ministero della giustizia. È nel potere assoluto dei parenti della vittima. E ha un costo: la diya, il prezzo del sangue. Il 5 settembre scorso, la legge della sharia in Kuwait ha conosciuto sia la versione della forca sia quella del perdono. Sei uomini condannati per omicidio sono stati giustiziati dopo due anni di tregua della pena di morte. Tra gli impiccati c’erano due kuwaitiani, tre iraniani e un pakistano. Due degli iraniani erano stati condannati per aver ucciso tre persone a Salwa per rapina, tra cui un membro della famiglia regnante. Alcuni di loro erano nel braccio della morte da ben cinque anni. Fino al 1985, le impiccagioni venivano eseguite in pubblico nella Piazza di Palazzo Naif. La forca era stata probabilmente costruita lì dagli inglesi e aveva una capienza di un solo prigioniero alla volta. Dal 2002, le esecuzioni sono sempre eseguite a Palazzo Naif, ma in forma semi-privata. Dopo l’impiccagione, al pubblico e alla stampa è permesso di vedere i corpi penzolanti nella speranza che si riveli un deterrente. Sono state costruite nuove forche in acciaio per esecuzioni multiple. Su questa piattaforma raggiungibile tramite una rampa di scale sono stati impiccati i condannati a morte del 5 settembre che non hanno avuto la fortuna di incontrare il perdono delle vittime. Vestiti con una maglietta bianca, una tunica e pantaloni marroni, la testa coperta da un cappuccio nero e le braccia e le gambe legate con cinghie di cuoio, hanno incontrato la morte che indossava una tuta nera e il passamontagna per nascondere la sua identità. Lo stesso giorno, invece, una donna kuwaitiana è scampata per un pelo alla forca. Pochi istanti prima dell’esecuzione, i parenti della vittima l’hanno graziata, accettando il “prezzo del sangue”. Il pubblico ministero ha quindi interrotto la procedura mortale. La donna era stata condannata per l’omicidio premeditato di una sua amica, accoltellata più volte dopo aver fatto insieme colazione a casa sua. Come sono andate le cose l’ha raccontato Bader Al-Mutairi, un difensore delle cause disperate. La donna doveva morire giovedì. Al suo arrivo all’aeroporto del Cairo, mercoledì sera, Al-Mutairi aveva ricevuto diverse chiamate da persone nella prigione femminile che lo informavano che la donna sarebbe stata giustiziata il giorno dopo. Mentre veniva tenuta in isolamento prima dell’esecuzione, a chiunque le capitava di vedere diceva: “Vi prego, dite a Bader Al-Mutairi di non abbandonarmi”. “Cosa posso fare?”, si è chiesto Bader. “Tutto il mio corpo tremava”. Allora, ha chiamato diversi numeri fino a raggiungere l’avvocato che rappresentava la famiglia della vittima, per chiedere un rinvio dell’esecuzione e per concedere più tempo per trattare sul “prezzo del sangue”. Durante le precedenti trattative, la famiglia della vittima aveva chiesto 7 milioni di dinari, ma era una somma che la famiglia della donna non poteva permettersi. Dopo diversi tentativi, è stato raggiunto un accordo per un risarcimento di 1 milione di dinari in cambio della rinuncia all’esecuzione della pena. La sera stessa, poche ore prima dell’esecuzione programmata, la madre della vittima si è recata alla prigione centrale e ha formalmente dichiarato il suo perdono. Il destino della donna è stato più felice di quello dei sei uomini impiccati il giorno stesso della sua liberazione. La sua fortuna è stata quella di aver incontrato e conservato il numero di telefono di Bader, il suo angelo custode.