Il carcere italiano è fondato sul razzismo di Luigi Mastrodonato Il Domani, 21 settembre 2024 Il trattamento cambia in base alla nazionalità: agli stranieri arresti domiciliari negati e più custodia cautelare in carcere, anche se la maggior parte è in cella per piccoli reati. Per loro non esistono misure alternative. Il 32 per cento è in custodia cautelare in attesa del processo, un dato più alto rispetto ai detenuti italiani. Il caso delle strutture minorili. Qualche giorno fa l’eurodeputata Ilaria Salis, durante un incontro a Milano col fumettista Zerocalcare, ha detto che il carcere in Italia è razzista. Come esempio, ha riportato la situazione nell’istituto penitenziario milanese di San Vittore, dove la maggioranza dei detenuti è di origine straniera. L’estratto dell’intervento di Salis è diventato virale tra i profili della destra, che hanno letto il dato nella chiave che più gli faceva comodo: non è il carcere razzista, sono gli stranieri che delinquono più degli italiani. Una strumentalizzazione della realtà che non tiene conto di una cosa, la più importante. Una persona straniera finisce in carcere molto più velocemente di una persona italiana, così come ci resta molto più facilmente. Dietro c’è un discorso di marginalità e di mancate opportunità offerte dallo stato italiano, ma anche di discriminazione quando si tratta di custodia cautelare e pene alternative. Un tema su cui di recente è intervenuta anche l’Onu. Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, al 31 marzo 2024 i detenuti stranieri nelle carceri italiane erano 19.108, pari al 31,3 per cento del totale della popolazione detenuta. Questo significa che quasi un detenuto su tre, in Italia, è straniero. Il fatto che la popolazione straniera in Italia raggiunga quasi il 9 per cento e che la popolazione straniera nelle carceri sia superiore al 31 per cento dimostrerebbe, a una lettura superficiale, che gli stranieri delinquono più degli italiani. Ma le cose sono più complesse di così. Intanto va detto che la presenza di stranieri in carcere è in costante diminuzione: se oggi supera di poco il 31 per cento, fino a una quindicina di anni fa raggiungeva il 37 per cento. La popolazione straniera nel frattempo è quasi raddoppiata, e basterebbe questo per confutare l’equazione per cui all’aumento degli stranieri aumenta la delinquenza. Ma, al di là di questo, è proprio la parola “straniero” a essere problematica. Non c’è uno straniero, ci sono tante comunità diverse. Negli ultimi 15 anni il tasso di detenzione dei romeni nelle carceri italiane è diminuito di un terzo, e altre comunità come quella cinese o filippina, la cui presenza in Italia è stabilizzata da decenni, hanno tassi di detenzione non differenti da quelli degli italiani. In pratica, i dati dicono che le comunità straniere maggiormente rappresentate in carcere sono quelle arrivate per ultime, come quella magrebina. Razzismo sistemico - Per andare più a fondo della questione occorre analizzare perché le persone straniere si trovano recluse. Il rapporto 2024 di Antigone sottolinea che gli stranieri rappresentano il 2,73 per cento delle persone detenute per associazione a delinquere di stampo mafioso, il 18,87 per cento di quelle detenute per delitti contro l’ordine pubblico, il 28,23 per cento dei detenuti per delitti contro il patrimonio e il 29,11 per cento dei detenuti per violazione della normativa sulle droghe. Gli stranieri sono insomma in carcere perlopiù per piccoli reati, incastrati in un sistema che spesso li conduce nell’illegalità per sopravvivere. E, una volta che finiscono in carcere, non riescono più a uscirne. Agli stranieri viene applicata con maggiore rigore la custodia cautelare in carcere: il 32 per cento degli stranieri detenuti adulti è in attesa del primo grado di giudizio, un numero ben più alto rispetto ai detenuti italiani. Nelle carceri minorili gli stranieri in custodia cautelare sono addirittura il 75 per cento, gli italiani il 57 per cento. Il 44 per cento dei detenuti stranieri ha condanne inferiori a un anno, e, se per un italiano, nella medesima situazione, si aprono nella maggior parte dei casi le porte della misura alternativa alla pena, per gli stranieri non è così. Un problema riguarda la comunicazione: nelle carceri italiane mancano traduttori e interpreti, e questo rende di fatto impossibile anche solo impostare percorsi alternativi al carcere. Poi c’è il tema delle garanzie: provenendo spesso da contesti di marginalità, spesso di irregolarità, per i detenuti stranieri mancano elementi come un domicilio stabile, reti familiari e risorse economiche e sociali. La risposta dello stato non è trovare soluzioni come comunità e altre strutture, ma tenere queste persone in carcere, spesso spostandole come pacchi. Come sottolinea lo stesso ministero della Giustizia, il sovraffollamento porta a continui trasferimenti dei detenuti, e questi riguardano soprattutto gli stranieri, perché privi di legami con il territorio, costretti dunque a ricominciare ogni volta il loro delicato percorso di ambientamento in carcere. Il diverso trattamento tra italiani e stranieri lo si vede infine nel caso delle detenute-madri: quelle straniere rappresentano oltre il 50 per cento del totale. Non solo non si trova il modo di tirarle fuori, ma diventano persino oggetto di leggi ad hoc, come l’ultimo ddl Sicurezza nella parte sulle donne incinte. Nei mesi scorsi una delegazione di tre esperti dell’Onu ha visitato le carceri italiane. Nel report finale sono state espresse preoccupazioni per l’incarcerazione sproporzionata di africani e di persone di discendenza africana. Nella relazione si parla esplicitamente di razzismo sistemico per quanto riguarda l’esecuzione penale in Italia. Uno Stato di diritto non può mettere in cella una neo-madre col suo bimbo o una donna incinta di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 21 settembre 2024 Sono oltre 100 gli esponenti e le organizzazioni della società civile che hanno lanciato il giorno prima che se ne discutesse in Parlamento un appello contro la norma prevista dal disegno di legge e sicurezza che si traduce nella impossibilità per le donne incinte di veder nascere i propri bambini in libertà fuori dal carcere. L’appello, dichiara Grazia Zuffa, presidente della Società della Ragione, rilancia i contenuti della campagna “Madri fuori dallo stigma e dal carcere insieme ai loro bambini”, che due anni fa ha organizzato una mobilitazione in tutta Italia a difesa dei diritti delle donne e dei figli. Negli anni passati si era cercato di avallare questo principio attraverso una normativa e vi furono proposte di legge, come quella presentata dall’onorevole Siani e poi ripresentata dall’onorevole Serracchiani. Entrambe queste proposte di legge furono poi ritirate per gli emendamenti presentati dalla maggioranza che andavano in tutt’altra direzione fino al punto di togliere la potestà genitoriale alle donne condannate in via definitiva e considerate “madri indegne” per il fatto di aver compiuto un reato. A seguito di ciò vi fu una coalizione di forze democratiche portate a dar vita a quella che già abbiamo menzionato come campagna “Madri fuori dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini”. Si pensava che si potesse, anche tramite questo problema concernente i nati, arrivare a una seria riforma delle strutture carcerarie. Tutto ciò non è avvenuto e tutto ciò è servito a poco, considerato che il ddl recante Disposizione in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario, è stato in questi giorni posto in discussione, unitamente anche a diversi emendamenti, e in questa occasione è stato approvato l’articolo 15 che rende meramente facoltativo - e non più obbligatorio - il rinvio della pena per le neo-madri detenute. L’eventuale differimento della carcerazione - quando il ddl sarà approvato definitivamente anche al Senato - sarà esaminato caso per caso dai giudici. Il rinvio diventerebbe facoltativo e non avverrebbe ove sussista il rischio di commissione di ulteriori reati: in tal caso, la detenuta madre rimarrebbe in prigione, in un istituto a Custodia Attenuata (Icam). Sulle neo-madri detenute la maggioranza ha bocciato con voto segreto gli emendamenti delle opposizioni, approvando quello di Forza Italia che prevede una relazione annuale del governo sull’attuazione delle misure cautelari sulle detenute incinte e con figli di età inferiore a tre anni. Al termine delle votazioni le opposizioni hanno alzato cartelli con su scritto: “Fuori i bambini dalle sbarre”. Ettore Rosato (Azione) ha dichiarato che “la norma è una pesantissima regressione culturale sulla giustizia”. Per Matteo Richetti (Azione) “la norma sulle detenute madri cambia radicalmente un principio che due anni fa in quest’aula ha visto solo 7 voti contrari, la legge Siani, che diceva mai più un bambino in carcere, e cosa è cambiato? È cambiata la convinzione che non sia sbagliato mandare in carcere una donna incinta con figli minori piccoli?”. Michela Di Biase (Pd) osserva che “votando contro l’emendamento che prevedeva di mantenere la sospensione della pena per le donne incinte e le detenute madri Forza Italia ha barattato l’interesse superiore dei minori previsto dal diritto internazionale con la tenuta del governo”. Anche il presidente dell’Unione Camere penali italiane, Francesco Petrelli, nella sua audizione aveva demolito il ddl sostenendo che questo conteneva pene altissime, nuovi reati, criminalizzazione del dissenso e del disagio sociale, fattispecie evanescenti e dubbi di incostituzionalità. Con chiarezza aveva detto: “Su tutto c’è qualcosa che i penalisti non possono accettare: la possibilità di mandare in carcere le donne incinte. Un passo indietro persino rispetto al vituperato codice Rocco che dovrebbe essere il parametro di un codice autoritario”. Ma ora si fa peggio, dice Petrelli a La Stampa, se si considera che gli istituti a custodia attenuata per detenute madri sono appena 5 in tutta Italia e finirà che le donne in attesa di partorire andranno in carceri normali. È inaccettabile che una donna con un neonato o una puerpera possa stare in una cella dove le condizioni igieniche fanno pena, senza assistenza psicologica, in realtà sovraffollate. Non è da “Stato di diritto”. Zuffa a sua volta evidenzia che “la norma che prevede che il rinvio della pena per le donne incinte non sia più obbligatorio viola la Costituzione e le convenzioni internazionali”. Certamente disposizioni in merito alle madri appaiono in netto contrasto anche con quanto previsto dalle regole penitenziarie europee secondo cui le detenute devono essere autorizzate a partorire fuori dal carcere a difesa dei bambini. L’Oms ribadisce il principio secondo cui un neonato sano deve rimanere con la propria madre. Invece il governo italiano vuole privare il bambino del diritto di venire alla luce fuori dalla galera, declassificandolo a concessione discrezionale. Inoltre, questa disputa legislativa ed etica sembra non dover tener conto della realtà del carcere: le prigioni non sono luoghi dove il diritto del minore possa essere realmente tutelato e basterebbe in tal senso pensare al diritto alla salute che non è pienamente esigibile, anche per la carenza del personale sanitario ed educativo. Possiamo concludere questo breve resoconto, citando le parole di Denise Amerini (Cgil nazionale, responsabile carcere e dipendenze): “Alle donne deve essere garantita la possibilità di essere madri nel modo migliore possibile, creando tutte le condizioni per una genitorialità serena. Ai bambini deve essere garantito il diritto ad un’infanzia dignitosa, libera... Le carceri non sono luoghi per bambini, costretti comunque a vedere il cielo attraverso le sbarre”. Il senso del tempo in carcere di Massimo Zanchin* L’Unità, 21 settembre 2024 Per un recluso cosa è il tempo? Qual è il suo senso? Come tutti noi sappiamo, esiste un tempo naturale e un tempo meccanico. Per un recluso il tempo naturale non esiste. Certo, attraverso le sbarre, può vedere quando fa buio o fa giorno, ma per il recluso i giorni rimangono tutti uguali. L’unica percezione che ha del tempo trascorso e che trascorre è solo guardandosi in un piccolo specchio, scorgendo i capelli che si perdono o ingrigiscono e i segni dell’età sul volto. Per un recluso non esiste nemmeno il tempo meccanico, la misura del tempo inventata dagli esseri umani per organizzarsi nel lavoro e nei commerci, perché nei pochi metri quadri di una cella è isolato dalla realtà, dalla società e da tutto. Quindi, non necessita neanche dell’orologio non avendo e non potendo prendere appuntamento con il nulla. Al recluso forse può rimanere il tempo sensibile, ma occorrono degli strumenti per avere la percezione del suo trascorrere. Il tempo acquista realtà attraverso la progettualità che crea l’attesa delle cose future, facendo tesoro del passato, avendone memoria utile al proprio agire nel presente. Insomma, avere la percezione del tempo significa vivere. Perché il tempo è la vita dell’anima. Il tempo passato e che passa non è solo un ricordo, può essere anche ammonimento per un futuro riscatto. Ma se al recluso, alla sua anima si toglie il tempo, quindi, la vita negandogli occasioni lavorative o attività socialmente utili e, invece, ricevendo da parte dell’istituzioni la sola costrizione afflittiva, allora, che senso ha il tempo della pena? Come si fa a determinare il giusto tempo di pena come prezzo da pagare? Se al recluso hai tolto la percezione di questo tempo, con ciò mortificando la sua anima, allora, che senso ha determinare la pena e quantificarla con la misura del tempo? È come punire una persona con una multa in denaro dopo aver tolto a questa persona la percezione del senso e del valore del denaro. I reclusi sono persone e hanno un’anima, non devono essere puniti togliendo loro il tempo, quel possibile tempo buono che è ossigeno per dare nuova vita a quell’anima, che ancora può essere espressione di un vero bene, un bene tangibile, meritevole della fiducia necessaria per un percorso verso un autentico, profondo cambiamento. Il senso di giustizia, che le istituzioni vogliono spacciare alla comunità come moneta risarcitoria per il torto subito, è soltanto l’afflizione del reo. Con ciò, si vuol far passare il messaggio che chi ha commesso un crimine è il male. Punito lui, tutto è bilanciato e sistemato. Perché lo Stato è giustizia. A questo punto la domanda che si pone è: si può amare l’amore? si può voler bene al bene? si può essere giusti con la giustizia? L’amore non si può amare, perché l’amore non è sostanza, non è materia, non è un individuo, l’amore è un sentimento che si prova e si trasmette per il tramite delle nostre azioni o per quelle che riceviamo. Più esse sono frequenti e più alimentiamo l’amore che può essere verso il prossimo o qualsiasi essere vivente. Solo un’entità sovraumana, solo l’onnipotente può essere amore, bene, giustizia... Ma noi siamo solo dei poveri esseri umani, vestiti delle proprie ragioni o convinzioni e di piaceri terreni, noi possiamo in questa vita fare solo del bene o del male o entrambe le cose. Non siamo l’amore, possiamo solo amare. Non siamo il bene, possiamo solo fare del bene. Non siamo nemmeno giustizia, potendo solo cercare di fare le cose giuste. Allora, come non può esistere la luce senza le tenebre, come non può esistere il giorno senza la notte, se noi non possiamo essere amore a meno che non vogliamo paragonarci a Dio, se non possiamo essere giustizia e non possiamo essere il bene, ecco che tutti noi non siamo il male. Perché la forma e la sostanza del bene e del male sono le nostre azioni compiute e non le persone. Affliggere il reo con la pena, non significa punire il male. È molto più utile mettere a disposizione del reo un tempo buono che gli consenta di ammonire e disprezzare le sue azioni inique, che sono la causa del male verso la comunità e verso sé stesso e i suoi cari. I reclusi non sono il male, sono persone e la loro mera l’afflizione non può risarcire chi ha subito un torto o ancor più grave una perdita. Invece di condannare i rei al solo tempo punitivo, togliendo loro anche la percezione di questo tempo, rendendo la punizione stessa inefficace, le istituzioni dovrebbero concedere ai reclusi un tempo utile a mantenere in vita le loro anime, anime che ancora possono fare del bene, e il bene che possono fare è il vero risarcimento di cui la comunità ha bisogno. Se si darà importanza al tempo dei detenuti, si darà importanza anche al tempo di chi soffre per ciò che ha subito, perché anche per loro per quella sofferenza il tempo si è fermato. *Ergastolano detenuto a Opera La libertà dopo il carcere: il fine pena è il sapore della fettina di Andrea Strafile Il Domani, 21 settembre 2024 Riassaggiare il cibo da liberi ha decisamente un altro sapore. Perché da quel momento in poi lo puoi rifare, lo decidi veramente tu cosa metti in bocca. C’è una strana atmosfera con gli amici e le amiche, riuniti in una festa dove, forse, non c’è niente da festeggiare. È il giorno prima della sentenza, giuridica, che può cambiare una vita e l’amico Mattia ride e scherza, anche se ha il cuore appesantito, ci sono birre e qualcuno ordina delle pizze. Esistono momenti in cui il cibo è uno spartiacque, assume significati profondissimi: la prima pastasciutta, le polpette della nonna da piccoli, gli ultimi pasti prima della morte. E ci sono, qualche volta, casi speciali, dove si vive e poi si muore per un po’ per, infine, rinascere. Andare in carcere è uno di questi. Che sapore ha l’ultima pizza da persona libera? Quale il primo pasto da condannato? E cosa significa tornare a casa, dopo anni, e ritrovare il cibo di mamma? “Io la mia ultima pizza con gli amici non la ricordo per davvero” racconta Mattia Gigli, che in realtà ha un altro nome, davanti a una birra. “Pensavo a voi, alla convivialità, non a cosa stavo mangiando. E poi il mio ultimo pasto vero è stato un lungo aperitivo con quattro birre di fronte al carcere aspettando la sentenza. Sono entrato dentro la sera tardi, consegnandomi, piuttosto brillo”. L’ultimo pasto forse non è quello più memorabile: c’è, esiste, ma il cuore e la testa sono troppo appesantiti. Il primo pasto dentro, però, non si scorda mai. “Il primo pasto in carcere me lo ricordo eccome, invece” racconta Gigli. “Sono entrato la sera, perciò il primo vero pasto era quello del giorno dopo. Ero in isolamento per una settimana (per via del Covid, ndr), la settimana più lunga della mia vita, e passa il cuoco con il carrello. Guardo quella roba, pasta, un secondo e un contorno dall’aspetto terrificante e mi rifiuto. In quel momento ho imparato quanto importante è il cibo in carcere: il cuoco mi disse “Guarda che qui stai in carcere, devi mangiare”. E mangiai. E mi sentii meglio perché, per quanto il tuo stomaco in un momento drammatico possa essere chiuso, per quanto tu possa essere depresso, mangiare ti fa sempre sentire meglio”. Il significato del cibo - Il cibo in carcere è fondamentale, importantissimo. È attraverso il cibo che ti interfacci davvero con gli altri detenuti: i pranzi e le cene sono i veri momenti di convivialità, quelli in cui ci si siede e si è tutti alla stessa tavola, allo stesso livello, ci si confronta a nudo e, talvolta, con qualche codice di condotta da seguire. Ed è essenziale anche per la salute psico-fisica di chi sta dentro. L’atto del nutrirsi è atto umano, dona forza e rilassa lo spirito, anche nel caso del carcere, dove la qualità non è, come si può intuire, una prerogativa. “Il cibo che viene servito, tre volte al giorno - colazione con della frutta e pranzo e cena con primo, secondo e contorno - sembra essere fatto, spesso, con il peggio di un supermercato di bassa qualità” racconta Gigli. Come ha scritto Nello Trocchia su Domani nell’aprile 2022, la situazione degli appalti per l’approvvigionamento è affatto trasparente: tra monopoli e gare al ribasso fino a 3,19 euro per detenuto per tre pasti al giorno, decisamente insufficiente a garantire una seppur minima qualità. “Certe volte è roba non propriamente commestibile, generalmente carne rossa, frutta e verdure crude. E la pasta, dato che viene cucinata per moltissime persone, è il più delle volte scotta. Però ci sono delle volte in cui i cuochi, che sono sempre detenuti e quindi cambiano spesso, ti potenziano un po’ la pasta, si sbizzarriscono, usando per lo più spezie perché gli ingredienti sono contati, o tirando via la pasta molto prima del dovuto per non farla scuocere”. In Italia non esistono le mense come siamo abituati a vedere nei film americani. In Italia passa, per ogni sezione, il cosiddetto carrello, da cui viene servito nella gavetta in dotazione nel vitto, da mangiare. Si mangia in cella ed è per questo che il pasto è un momento così importante, lega le persone come una piccola famiglia. “Un detenuto, quando passa il carrello, può anche decidere di non prendere il cibo, perché magari si cucina da solo in cella” racconta Gigli. “Io, per esempio, con il mio primo compagno di cella, fissato con il corpo e la palestra, mangiavo per lo più cose come uova (a volte quattro uova al giorno) o pollo, comprati attraverso la lista che viene fornita”. Un detenuto ha il diritto al vitto, con una spesa di circa 100 euro mensili che comprende anche coperte, luce, acqua e nel caso di allergie o intolleranze si può richiedere un vitto speciale che, in genere, costa un po’ meno. Ma ha anche il diritto di comprare la sua spesa: in questo caso si compila una lista prestampata nella quale figurano beni di prima necessità come il caffè, ma anche verdure, carne e pesce che vengono pagati separatamente attraverso un conto che ognuno ha in carcere. “Anche in questo caso la roba che arriva è di cattiva qualità” racconta Gigli. “E costa molto più di quanto costerebbe in un supermercato. I gamberoni argentini surgelati, per esempio, costavano 10 euro al pacco. E per qualche ragione è tradizione, almeno dove stavo io, nel nord Italia, mangiare questi gamberoni a Ferragosto. C’è chiaramente una puzza infernale”. C’è anche una terza via, però. “Il cibo può anche essere spedito da casa, con delle regole naturalmente: non puoi ricevere cibi cotti, e praticamente tutto deve essere sottovuoto. Il guanciale entra, per esempio. Eccome se entra. E quando entrava cucinavo carbonara per tutti, sul fornelletto da campeggio in cella”. Uscire per rivivere ricordi - Una parte di vita scandita da farfalle al sugo, spezzatini tremendi e ancora pasta panna e piselli, scandita per non perdere la testa e per restare umani. Che, nella maggior parte dei casi, poi finisce. “Non un momento di buio, però. In carcere ho imparato cos’è il tempo, cos’è l’umanità nel suo intimo, nella sua purezza. Quando sono uscito, un giorno di luglio di quest’anno, ho preso le mie cose e sono andato a prendere il treno per Roma, per casa, stravolto, come se un peso enorme mi sia fluito fuori tutto insieme”. Riassaggiare il cibo da liberi ha decisamente un altro sapore. Perché da quel momento in poi lo puoi rifare, lo decidi veramente tu cosa metti in bocca. La pelle del latte, quando bolle troppo, la puoi buttare. “La prima cosa che ho mangiato tornato a casa è stata una mozzarella di bufala, che era la fine del mondo, mi era mancata da morire. Mio cugino è anche andato da un pizzicarolo a prendere prosciutto, pizza bianca e porchetta. Porta queste cose a un romano e lo fai la persona più felice del mondo. E poi, certo, quando sono tornato a casa mamma mi ha cucinato le fettine panate, le mie preferite. Tornare a casa la sera con il profumo è bellissimo. Non è come tornare bambini però, non torni davvero indietro, è un passaggio strano, forse indefinibile”. Ecco che la vita è a volte una serie di passaggi di morsi, di piaceri palatali, che sono quelli che, certo, ci rendono umani. I dubbi della società civile sulla stretta “liberticida” del Ddl sicurezza di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 21 settembre 2024 Dopo il sì della Camera il “pacchetto” va in Senato. Ma sindacati, giuristi e associazioni sono preoccupati per una restrizione del “diritto al dissenso” e per altre norme. E annunciano mobilitazioni.. Dopo il primo sì della Camera dei deputati, sta per essere incardinato al Senato il disegno di legge d’iniziativa governativa in materia di sicurezza. Un testo - classificato come “ddl 1660”, intitolato “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario” e proposto dai ministri di Interno, Giustizia e Difesa, Matteo Piantedosi, Carlo Nordio e Guido Crosetto - fortemente voluto dall’esecutivo e dalla maggioranza. Ma che invece le opposizioni, sia durante il passaggio in commissione che nel voto in Aula a Montecitorio, hanno duramente criticato, definendolo un condensato di “propaganda” e di “repressione”, una “follia giustizialista che introduce oltre 20 nuovi reati o aggravanti” e contiene norme di dubbia costituzionalità, annunciando un’intensa attività parlamentare di sbarramento quando l’iter partirà a Palazzo Madama. Nel frattempo, fuori dal Parlamento, crescono perplessità e timori nella società civile, rispetto ai contenuti del testo nella sua versione attuale. Dubbi che accomunano sigle sindacali, giuristi di vaglia, magistrati, associazioni di volontariato ed enti umanitari, come ha potuto verificare Avvenire, sollecitando valutazioni e pareri. La prima a mobilitarsi, lunedì prossimo alle ore 18, sarà la Cgil, che ha convocato un presidio davanti alla prefettura di Genova per denunciare un testo che - dichiarano le segretarie confederali Daniela Barbaresi e Lara Ghiglione, è “un condensato di propaganda e populismo istituzionale, declinato solo come azione repressiva dei conflitti sociali e come politica punitiva, di giustizia e carcere”. La Cgil pronta a fare presidi davanti alle prefetture - Secondo i sindacalisti della Confederazione generale del lavoro, la parte più inquietante del disegno di legge è quella che contiene le sanzioni sulla cosiddetta “resistenza passiva”: “Una vergogna che introduce norme pensate e volute per colpire in maniera indiscriminata chi esprime il proprio dissenso verso le scelte compiute dal Governo o che manifesta per difendere il posto di lavoro e contro le crisi occupazionali, pacificamente ma in modo determinato - si legge in una nota, che annuncia la protesta di lunedì -, prevedendo fino a due anni di carcere per chi effettua queste proteste nelle strade o in altri luoghi pubblici”. Per le due dirigenti confederali “il principio che anima questo provvedimento è lo stesso del decreto Caivano, del decreto rave, della legge 50 impropriamente chiamata decreto Cutro”, ossia con proposte che “vanno verso un inasprimento delle pene e la codificazione di nuovi reati che peraltro riducono gli spazi di dissenso e protesta, come i reati contro le manifestazioni o le occupazioni di immobili, arrivando a peggiorare il codice Rocco, con la non obbligatorietà del differimento della pena per le donne incinte e le madri di bambini fino a un anno di età. Norme con cui si danno risposte penali a problemi che sono soprattutto sociali e che non aumentano la sicurezza dei cittadini”. Le forti perplessità di giuristi e magistrati - Anche da una parte degli operatori del diritto, diversi profili penali disegnati dall’insieme di norme vengono osservati con perplessità. Secondo le toghe progressiste di Magistratura democratica, “colpisce la tendenza a introdurre nuove incriminazioni e a introdurre inasprimenti sanzionatori. E preoccupa, in secondo luogo, la costruzione di nuove fattispecie penali (o l’introduzione di aggravanti) che perseguono l’obiettivo di sanzionare in modo deteriore gli autori di reato che hanno commesso fatti nel corso di manifestazioni pubbliche o di iniziative di protesta”. In generale, argomentano i magistrati di Md, nel testo è contenuta “una “visione” dei rapporti tra autorità e consociati fortemente orientata al versante dell’autorità, che coltiva l’ambizione di risolvere - con l’inasprimento di pene, l’introduzione di nuovi reati, l’ampliamento dei poteri degli apparati di pubblica sicurezza - problemi sociali che probabilmente potrebbero trovare più efficaci risposte senza usare per forza la leva penale”. Scettico sulle prospettive ipotizzate dal pacchetto è pure Antonello Ciervo, docente di diritto pubblico presso Unitelma Sapienza di Roma, che appunta le proprie critiche su diverse misure, che definisce da “Stato di polizia”. Ad esempio, spiega, quella che “prevede l’arresto in differita anche per le manifestazioni pubbliche”. In pratica, osserva, ti vengono a prendere a casa dopo aver visto il video della manifestazione; se alla polizia è sfuggito qualcosa, ex post ti arrestano per comportamenti che a questo punto anche discrezionalmente valuteranno come reato”. Oppure, annota il professor Ciervo, rispetto all’aggravio di pena previsto “se la violenza o la minaccia è commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica, il fatto che io commetta violenza o minacci un pubblico ufficiale in una manifestazione il cui obiettivo è la protesta contro un’opera pubblica è illogico”. A suo parere, “non c’è nessun nesso di conseguenzialità tra l’aggravamento di pena e il fatto che io protesti in un corteo per la liberazione della Palestina o perché sono contrario al Ponte sullo Stretto di Messina. Perché dovrebbe aumentarsi la pena in questo secondo caso? Cosa faccio di più grave rispetto a una “normale” manifestazione?”. Secondo il docente universitario, “è chiaro l’intento di criminalizzare le proteste ambientaliste”. Una lettura che danno anche alcune associazioni di difesa dell’ambiente che nei giorni scorsi hanno diramato note e comunicati, denunciando il potenziale innesco di un futuro clima repressivo. La Caritas: il divieto di Sim ai migranti irregolari è discriminatorio - Un’altra previsione che fa discutere è quella che vieta ai gestori telefonici di vendere una scheda Sim con numero di cellulare a stranieri non provenienti da Paesi europei che siano sprovvisti di permesso di soggiorno valido. “Non crediamo che la misura possa avere un reale effetto di deterrenza - ragiona Oliviero Forti, responsabile Immigrazione della Caritas italiana. Rischia invece di essere una norma discriminatoria che va ad ostacolare il diritto di comunicare con i propri familiari nei paesi di origine e al contempo potrebbe alimentare il mercato nero delle Sim, con inevitabili conseguenze in termini di sicurezza”. Secondo Forti, potrebbero essere “migliaia le persone interessate dal provvedimento, anche coloro che sono in attesa di ricevere un permesso di soggiorno, nonostante abbiano tutti i requisiti e abbiano concluso le relative procedure”. Di tenore analogo le riflessioni di Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione dell’Arci, convinto che le misure individuate nel provvedimento possano avere l’effetto di “disumanizzare e poi criminalizzare alcune categorie di persone, come i migranti, gli occupanti di case o chi manifesta a vario titolo, con un intento fortemente repressivo. Ma sono misure propagandistiche, che non garantiranno ai cittadini un incremento della sicurezza”. I nodi delle norme sulle carceri - ?Altri dubbi si appuntano sulle disposizioni relative al mondo carcerario, come la stretta sulle proteste dei detenuti o l’aver reso facoltativo (e non più obbligatorio) il rinvio della detenzione in carcere per le condannate in stato di gravidanza o con figli sotto i tre anni d’età. Secondo la presidente del Tribunale di sorveglianza di Cagliari, Maria Cristina Ornano, si rischia “di alimentare la tensione già oggi molto forte nella popolazione detenuta”, per via di nuovi reati come quello di “Rivolta all’interno degli istituti penitenziari”, che punisce chi promuove, organizza e dirige una rivolta all’interno del carcere, ma comprende “nella condotta di reato non solo il partecipare alla rivolta col ricorso alla violenza, ma anche con la resistenza, precisando ulteriormente che quest’ultima è integrata anche dalla mera resistenza passiva; previsione, quest’ultima, che appare di dubbia legittimità costituzionale”. Altro nodo è quello riguardante la norma “anti-borseggiatrici Rom”, come alcuni media l’hanno definita. Secondo la giudice Ornano, “si ritiene di far prevalere una presunta esigenza di sicurezza sulla salute e il benessere di individui innocenti, come i nascituri e i figli in tenerissima età di madri detenute, le quali (e con loro i bambini), con le nuove norme potrebbero venire incarcerate anche prescindere dalla reale pericolosità”. Considerazioni che arrivano anche da associazioni da anni impegnate sul fronte delle carceri e dell’assistenza ai migranti, come Antigone e l’Asgi, sconcertate dai contenuti del provvedimento. In generale, osserva Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, “il ddl sicurezza contiene un attacco al diritto di protesta come mai accaduto nella storia repubblicana, portando all’introduzione di una serie di nuovi reati con pene draconiane, anche laddove le proteste siano pacifiche”. Secondo Gonnella, “così si colpiranno persone detenute che in carcere protestano contro il sovraffollamento delle proprie celle, gli attivisti che protestano per sensibilizzare sul cambiamento climatico, gli studenti che chiederanno condizioni più dignitose per i propri istituti scolastici, lavoratori che protestano contro il proprio licenziamento”. Inoltre, lamenta il presidente di Antigone, “se consideriamo anche il carcere per le donne incinte e le madri con figli neonati o per chi occupa un’abitazione, si vede come il governo abbia deciso di voler gestire numerose questioni sociali nella maniera più illiberale possibile, cioè reprimendole con l’utilizzo del sistema penale, anziché aprirsi al dialogo e all’ascolto”. Perciò, è il suo appello, “chiediamo alle forze politiche di opposizione e anche a quelle moderate della maggioranza di non assecondare questi propositi e di fermare il disegno di legge nella discussione al Senato”. Il ddl Sicurezza viola il diritto penale liberale: cozza con democrazia e Costituzione di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2024 Il disegno di legge governativo n. 1660 sulla sicurezza, appena approvato dalla Camera dei Deputati, è in evidente contrasto con i caratteri fondativi del nostro sistema democratico e viola in modo sguaiato i principi dell’ordinamento costituzionale. È fatta carta straccia del diritto penale liberale. Si minaccia di sanzione carceraria chiunque protesti, in qualunque modo: per strada, pacificamente, in carcere. Lo scorso maggio, agli inizi della discussione parlamentare, con un documento congiunto scritto da Antigone e Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), avevamo lanciato l’allarme su come lo Stato di diritto fosse pericolosamente sotto attacco. Ma, soprattutto, lo aveva lanciato l’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), che aveva usato parole nettissime al proposito. Non un’associazione, non una Ong, ma addirittura un’organizzazione intergovernativa. Il testo di legge strumentalizza la paura delle persone criminalizzando le lotte sociali e le forme di protesta, liberalizzando l’uso delle armi fuori servizio per chi ha compiti di polizia, introducendo una sequenza di nuovi reati. Si prevedono abnormi aumenti di pena, ad esempio per i reati di occupazione o resistenza, che potrebbero, tra le altre drammatiche conseguenze, determinare un aumento ulteriore del già ingestibile affollamento del sistema penitenziario. Si introducono norme che mascherano intenti discriminatori, come quella che prevede il carcere per le donne in stato di gravidanza o con bambini molto piccoli. Una norma dall’evidente contenuto simbolico, finalizzata a reprimere un particolare gruppo sociale, connotato sul piano culturale ed etnico, ossia le donne rom. Come scritto nel documento Antigone-Asgi, la norma “rischia di assecondare le pulsioni razziste già presenti nella società. Parliamo di una decina di persone in tutta Italia. Non è questa sicurezza ma disumanità”. Si prevede poi il nuovo reato di rivolta penitenziaria, che neanche il legislatore fascista del 1930 aveva pensato di inserire nel codice penale. Tale delitto punisce con pene altissime anche chi mette in atto esclusivamente una resistenza passiva. Si punisce chi protesta in forma pacifica, chi chiede ascolto attraverso i pochi strumenti che in carcere si hanno a disposizione, magari chi fa lo sciopero della fame. E in ogni carcere succede una decina di volte al giorno. E poi, ancora, chi protesta fuori dal carcere, ugualmente senza violenza e con l’uso del proprio corpo, rischia il processo e la galera. Si alzano le pene per la violenza o la minaccia a un pubblico ufficiale nel solo caso che si tratti di un poliziotto, come se le altre figure professionali pubbliche valessero di meno. Si allarga la definizione di terrorismo sino a ricomprendere fatti non rilevanti dal punto di vista criminale, si aumenta la possibilità di revoca della cittadinanza, si allarga l’uso del daspo urbano, si punisce il vagabondaggio. Sembra un ritorno al periodo premoderno, al classismo, al diritto penale dei potenti e dei ricchi. Infine, la norma della pura cattiveria. Non ci sono altre espressioni per riferirsi al divieto per chi ancora non ha un permesso di soggiorno di acquistare una scheda sim. Minori non accompagnati che arrivano in Italia dopo viaggi drammatici e non potranno avvisare i parenti del loro arrivo, donne e uomini che scappano da guerre e persecuzioni e non potranno avere contatti con i loro affetti, persone che passano dall’Italia con l’intenzione di ricongiungersi a parenti nel nord Europa e non potranno usare Google Maps. Basterebbe un minimo di empatia per capire che in cielo o in terra qualcuno risponderà di questa immane cattiveria. Chiunque abbia a cuore la democrazia costituzionale deve esprimere la propria indignazione profonda: i giuristi, che mai devono assecondare le pulsioni dei politici alla ricerca di consenso, e i politici progressisti, che devono ricostruire un legame con le proprie radici costituzionali. Nell’Italia di oggi Gandhi, Danilo Dolci, Martin Luther King sarebbero considerati nemici da imprigionare. Nel frattempo in galera si contano i morti suicidi, nell’indifferenza generale di chi è al governo. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Ddl sicurezza, un esempio di legislazione prêt-à-porter di Andrea Granata* Il Dubbio, 21 settembre 2024 Ammetto che appena avuto notizia del “pacchetto sicurezza” ho avuto un moto di egoismo e ho pensato di tutelare il mio benessere non approfondendo, soprattutto perché alcune anticipazioni su questo o quel nuovo reato raccontate dai social, in prima battuta mi avevano fatto pensare, più che a qualcosa di reale, a dei siti trappola, quelli che poi fanno sì che ci si ritrovi la casella della posta intasata di messaggi pubblicitari. Dopo poco però, la natura ha fatto il suo corso ed è sopraggiunto lo sconforto e per non farci mancare niente anche l’indignazione, una cosa forte tanto di essermi spinto oltre, tanto da arrivare a preconizzare la nascita di un partito liberale (in Italia!!!) che si ponesse come obiettivo quello di rimuovere queste maree sotto forma di pacchetti di varia guisa e natura, bonificando e rimediando ai relativi guasti prodotti da decenni di queste intemerate legislative. Alla fine ho bruscamente posto fine alle mie fantasie, il timore di essere preso sul serio, di essere additato come qualcuno che propone di fondare un partito liberale in Italia è stato più forte di tutto e mi sono rassegnato. Mi sono rassegnato a essere e restare testimone di un qualcosa che nella mia mente prende il nome di via italiana al common law, forse la più grande quanto inconsapevole riforma realizzata dalla politica italiana dal dopo guerra ad oggi. Si tratta, non poteva essere diversamente, di una specificità tutta italiana del common law, perché diversamente da quanto accade nei paesi anglosassoni ove gli artefici sono i giudici che attraverso le loro decisioni danno attuazione a principi fondanti sanciti da costituzioni scritte dopo rivoluzioni, da noi i deus ex machina della situazione sono i politici che legiferano traducendo chiacchiere da bar, titoli dei tg, sondaggi, percezioni. Da anni la politica per quanto denigrata, vituperata continua a elargirci, come se non ci fosse un domani, questo nientepopodimeno di legislazione, se vogliamo, prêt- à-porter, alla carta, al bisogno, o semplicemente alla moda. Poi, se per un attimo volessimo riflettere su quanto la situazione sia disperata ma non seria dovremmo convenire che sarebbe un grave errore limitare il problema alla miopia o peggio, dell’attuale maggioranza, perché se a vincere le elezioni fossero state le forze che oggi gridano all’ennesimo allarme democratico con ogni probabilità oggi dovremmo confrontarci con reati come il negazionismo climatico o qualche declinazione politically correct della “colpa d’autore” in nome della lotta alla corruzione, la mafia, la mafia dei colletti bianchi con immancabili strepiti ed indignazioni a parti invertite, magari a volume abbassato. Però alla fine consoliamoci perché niente di nuovo sotto il sole, Renato Carosone sulla figura dell’italiano che scimmiotta l’americano c’ha scritto un capolavoro evergreen, facendoci conoscere un tipo tutto sommato simpatico con vizi e virtù resi possibili dalla “borsetta di mammà”. *Avvocato “Carriere separate prima di Natale”, lo sprint sulla giustizia col sigillo di Meloni di Errico Novi Il Dubbio, 21 settembre 2024 A maggio, al primo annuncio di Carlo Nordio sull’arrivo di una “versione governativa” della separazione delle carriere, l’ala garantista dell’opposizione, a cominciare da Enrico Costa, reagì con disappunto. “Abbiamo già svolto esaustive audizioni sulle proposte di legge costituzionali presentate da me e da altri deputati, peraltro di maggioranza: far precipitare, sull’iter delle carriere, un testo dell’Esecutivo serve solo a congelare la riforma”, disse l’allora responsabile Giustizia di Azione, appena tornato in Forza Italia. Ma adesso lo scenario è un altro. Sì, è vero: al lavoro che la Prima commissione di Montecitorio aveva già compiuto sulle proposte di matrice parlamentare bastava far seguire solo una rapida fase di esame degli emendamenti. Se la Camera, la scorsa primavera, non lo avesse messo in stand- by, a quest’ora il “divorzio” giudici-pm sarebbe già al vaglio del Senato. Ma a fare la differenza sono due aspetti. Innanzitutto la tempistica, garantita ieri da Francesco Paolo Sisto con un’intervista alla Stampa: sulla separazione delle carriere, ha detto il viceministro della Giustizia, “il nostro obiettivo è di concludere il primo passaggio parlamentare entro Natale”. Sarebbe un gran risultato, anche a fronte dello scetticismo che accompagna i progetti di riforma durante la sessione di bilancio. Ma se il numero due di via Arenula - e principale esponente, sulla giustizia, di FI, il partito che più di tutti sponsorizza la riforma della magistratura - si è sbilanciato fino a quel punto, è perché anche Fratelli d’Italia ha ribadito la volontà già espressa, a ridosso di ferragosto, dal capogruppo meloninano a Montecitorio Tommaso Foti. “Andrà ai voti prima la separazione delle carriere, poi il premierato”, aveva preannunciato il presidente dei deputati di FdI. Dichiarazione che era risultata spiazzante, visto l’investimento compiuto da Giorgia Meloni sulla riforma che rafforza il Capo del governo. In realtà quel cambio di programma è del tutto coerente con la prudenza che la presidente del Consiglio ha deciso di adottare in vista del referendum, nel quale il vero quesito rischia di essere: “Vorreste ancora Meloni come premier, con poteri anche maggiori?”. È chiaro il discorso: il premierato può attendere. Ad agosto Foti provò a offrire una dipolomatica interpretazione dello “switch”: il punto, disse, è che la separazione delle carriere è solo alla prima lettura, mente il premierato ha già ottenuto un sì a Palazzo Madama. Ma al di là del tatticismo, della relativa frenata sul premierato, è evidente come la giustizia in sé, e in particolare la ridefinizione del rapporto fra politica e magistratura, sia avanzata nella gerarchia degli obiettivi, per il centrodestra. Anche la Lega tiene a non essere considerata come una “pattuglia di complemento”, rispetto alla separazione delle carriere. E per esempio il sottosegretario alla Giustizia che a via Arenula rappresenta il Carroccio, Andrea Ostellari, ha ricordato più di una volta come, sulle carriere di giudici e pm, il partito di Salvini rivendichi persino una primogenitura, rispetto agli alleati, visto che nel 2022 aveva sponsorizzato, col Partito radicale, il referendum per separare in modo assoluto almeno le funzioni, e che il relativo comitato promotore era presieduto da Nordio. Ma non è finita qui. C’è un secondo elemento che rende ormai anacronistiche le recriminazioni di Costa della primavera scorsa: il ddl costituzionale proposto dal guardasigilli e consegnato poi dal Consiglio dei ministri alla Prima commissione di Montecitorio va oltre la separazione delle carriere: prevede una svolta ancora più ampia, per l’ordine giudiziario, a cominciare dal sorteggio, nei due futuri Csm, sia dei laici sia, soprattutto, dei togati. Un sorteggio - almeno per come il governo ha disegnato la riforma - integrale. Vuol dire sottrarre alle correnti qualsiasi effettiva capacità d’influenza rispetto alle scelte dell’autogoverno, in particolare in materia di nomine. È un tassello importante della “rivoluzione”, al pari dell’istituzione di un’Alta Corte disciplinare, a cui potrebbero aggiungersi, nel corso dell’esame parlamentare, il riconoscimento costituzionale dell’avvocato e la separazione degli stessi concorsi, sollecitata dal presidente del Cnf Francesco Greco nell’audizione dello scorso 12 settembre. Possibile che una rivoluzione così profonda, nell’assetto della magistratura, possa procedere spedita, in tempi di snervanti trattative sulla Manovra, e tagliare il traguardo entro fine 2024? Possibile se l’alleanza di governo decide che la ridefinizione del potere giudiziario è un’emergenza. E lo sarà, lo diventerà chiaramente a breve, non appena entrerà nel vivo la campagna elettorale in Liguria. Quelle elezioni anticipate scaturiscono dall’interpretazione che le toghe genovesi hanno dato del finanziamento alla politica. Vi hanno intravisto la scorciatoia entro cui insinuare una sofisticata forma di corruzione, tanto da costringere l’ex governatore Giovanni Toti a patteggiare. È una lettura che incide profondamente sul rapporto fra magistratura e politica, perché mette in discussione la libertà della seconda nel procurarsi sostegni economici regolarmente dichiarati. È un approccio che aggrava la sudditanza dei partiti rispetto alle Procure. Con la separazione delle carriere, il centrodestra punta, ora, a modificare anche questa schema. E, nell’immediato, a reagire alla possibile sconfitta in Liguria con una risposta “definitiva”. Che poi da qui possa derivare un inasprirsi dei rapporti fra la maggioranza e l’Anm pare inevitabile. Ma è chiaro che, diversamente da quanto potesse sembrare solo fino a pochi mesi fa, di una simile eventualità Giorgia Meloni non ha affatto paura. Pure le prefiche dell’abuso d’ufficio devono ammettere che quel reato era insostenibile di Oliviero Mazza* Il Dubbio, 21 settembre 2024 Anche le prefiche del defunto abuso d’ufficio devono ammettere che l’esistenza del caro estinto non è stata proprio specchiatissima. Nonostante l’accanimento terapeutico di almeno quattro riforme in circa trent’anni di tormentata vigenza, non si è mai raggiunto l’obiettivo, condiviso nel tempo da tutti gli schieramenti parlamentari, di perimetrare l’area degli illeciti amministrativi meritevoli di assumere rilevanza anche penale. A monte vi è, infatti, il concetto di abuso, di per sé quasi inafferrabile e comunque difficilmente tipizzabile, come richiesto dal principio costituzionale di stretta legalità penale. La patologia congenita di questa sfortunata figura di reato non risiede tanto e solo nell’insuperabile tasso di indeterminatezza della condotta, quanto piuttosto nella inevitabile intromissione del giudice in settori riservati istituzionalmente alla discrezionalità della pubblica amministrazione. In altri termini, l’abuso d’ufficio ha rappresentato il terreno d’elezione dello scontro fra politica e magistratura, fra potere esecutivo e potere giudiziario. Bisogna essere franchi nell’ammettere che, soprattutto i pubblici ministeri, hanno spesso utilizzato l’iscrizione di questo reato per aprire indagini su ipotesi di corruzione sprovviste della necessaria concretezza di una notitia criminis. L’abuso d’ufficio si è così prestato a fungere da pretesto, da anticamera della corruzione, da fumosa ipotesi di reato di natura congetturale utile per attivare quel pervasivo controllo investigativo sull’attività amministrativa che solo una indagine penale può consentire. Da qui l’inevitabile tensione fra magistratura inquirente e mondo della politica, soggiogato dal timore di essere coinvolto in una vicenda giudiziaria che, per quanto evanescente, avrebbe comunque determinato danni reputazionali irreparabili, amplificati ad arte dal sapiente utilizzo del circuito mediatico. Il “timore della firma”, infatti, non era tanto legato all’eventualità assai remota di una condanna, ma alla conseguenza più immediata e concreta della perdita di credibilità politica al cospetto di un’opinione pubblica maleducata al rispetto della presunzione d’innocenza. L’abuso d’ufficio è così servito a una parte della magistratura quale strumento di azione e di lotta politica nel senso stretto del termine, per incidere su scelte amministrative sgradite o per condizionare la formazione del consenso elettorale. Anche volendo prescindere dalle più evidenti strumentalizzazioni, questo micidiale ordigno ha permesso alla magistratura di controllare ogni settore della vita pubblica, dall’università alla sanità, dalle infrastrutture ai concorsi, dal governo locale a quello nazionale, stabilendo autonomamente e arbitrariamente quale dovesse essere il “normale” funzionamento della pubblica amministrazione. Una fattispecie di reato che sposta i confini della separazione fra i poteri, che attribuisce al magistrato penale il compito di sindacare la legittimità dell’atto amministrativo al di là delle sue conoscenze, magari arrogandosi competenze specialistiche che sono fisiologicamente in capo al controllato piuttosto che al controllore. Si pensi ai concorsi universitari che per anni hanno visto i pubblici ministeri impegnati a contestare i giudizi di merito scientifico espressi da luminari della materia oppure agli appalti pubblici in settori iperspecialistici ritenuti sospetti solo perché non comprensibili. L’abuso d’ufficio ha fatto scontrare mondi fra loro incomunicabili, nel corso di quei processi più volte ci si è resi conto che il problema risiedeva addirittura nei diversi codici linguistici che l’accusatore non riusciva a decifrare. Il risultato è stato quello di un generalizzato fallimento delle accuse già nella fase delle indagini, con spaventose percentuali di archiviazioni. nell’ 85% dei procedimenti. Pochissime e rare condanne impietosamente fotografate dalle statistiche ministeriali che oggi gli inconsolabili orfani dell’abuso d’ufficio sembrano aver già dimenticato. Per non dire del drastico calo dei procedimenti, circa il 40%, dopo che nel 2020 si è tolto di mezzo il presupposto di una generica violazione del principio di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione. La legge n. 114 del 2024 ha somministrato l’eutanasia a un reato già da anni moribondo. Il vero motivo per cui non dobbiamo rimpiangere l’abuso d’ufficio non è costituito, tuttavia, dalla sua cagionevole salute giudiziaria, ma risiede nel senso più genuino della democrazia, che si fonda sulla separazione fra i poteri e che confina l’intervento giudiziario penale sono in casi estremi, ben delimitati da quello che dovrebbe essere il diritto penale minimo. Certamente gli epigoni del panpenalismo non potranno mai rassegnarsi alla perdita del miglior strumento messo a disposizione della repubblica giudiziaria. *Ordinario di Diritto processuale penale alla Università Bicocca di Milano Solo 72 ore per esaminare 58mila pagine, i legali: “Sentenza impossibile” di Simona Musco Il Dubbio, 21 settembre 2024 I difensori impugnano una sentenza di condanna pronunciata in tempi “record” dai giudici: “Sentenza abnorme, va annullata”. Il fascicolo conta oltre 58mila pagine, ma la sentenza è stata pronunciata circa 72 ore dopo che lo stesso era stato consegnato ai giudici. A denunciarlo sono gli avvocati Nicola Quatrano e Raffaele Bizzarro, che hanno impugnato la sentenza pronunciata lo scorso 10 giugno dalla Corte d’Appello di Napoli, contestando la violazione delle regole fondamentali “della grammatica giudiziaria che disegnano la morfologia dell’esercizio della giurisdizione, producendo un atto abnorme in ragione della concreta atipicità di esercizio del potere che lo pone al di fuori della struttura legale tipica stabilita dall’ordinamento”. Il compendio probatorio, come evidenziato nel ricorso, conta 58.343 pagine, una mole immensa di documenti, come verificato direttamente dagli avvocati Quatrano e Bizzarro con richiesta di copia di tutti gli atti del procedimento. Un processo celebrato con il rito abbreviato, pertanto “non v’è un distinto fascicolo del dibattimento”. Nel fascicolo - che riguarda i reati di associazione mafiosa, ricettazione e possesso di armi - sono contenute ampie parti del processo principale, compresa l’ordinanza di custodia cautelare, lunga 1632 pagine e le motivazioni delle sentenze di primo grado e appello. “Anche a voler calcolare la cifra (pressocché impossibile) di 200 pagine al giorno, il relatore avrebbe avuto necessità di circa 293 giorni per leggere gli atti. Solo per leggere! Non parliamo di studiare”, scrivono, increduli, i difensori nel ricorso. Che mettono in ordine le tempistiche di questo processo, per chiarire come i numeri non lascino spazio a dubbi: il procedimento, precedentemente assegnato ad un altro collegio, a seguito della dichiarazione di astensione del presidente è stato assegnato, il 4 giugno, ad un nuovo collegio, con udienza fissata il 6 giugno. comprese le ore normalmente dedicate al sonno. Solo la richiesta di replica del procuratore generale ha fatto slittare la decisione al 10 giugno, altra giornata ricca di udienze. Insomma, in più o meno tre giorni, sabato e domenica compresi, il giudice avrebbe dovuto leggere quasi 60mila pagine per poter avere un’idea chiara del processo. Cioè circa 2.438 pagine all’ora, una circostanza chiaramente impossibile. Per tale motivo, secondo i legali, il collegio avrebbe pronunciato la decisione “senza conoscere gli atti processuali, che pure in sentenza ha citato e asseritamente valutato”. Certo, non esiste nel codice di rito una norma che renda nulla la sentenza per tale motivo. Né, probabilmente, il legislatore ha mai lontanamente immaginato che ciò potesse avvenire. “Tuttavia, la sentenza impugnata - che si presenta come una consapevole valutazione di prove ed argomenti - non è che l’atto conclusivo di un segmento procedimentale connotato da anomalie di tale importanza da escludere che si sia in presenza di un atto soltanto formalmente non corretto, bensì di un provvedimento abnorme”, si legge nell’atto di impugnazione. I legali citano l’articolo 124 cpp, che stabilisce l’osservanza delle norme processuali da parte dei magistrati e gli altri soggetti in essa indicati: “La violazione delle regole fondamentali della grammatica giudiziaria che disegnano la morfologia dell’esercizio della giurisdizione, anche là dove non riconducibili nell’alveo delle nullità di ordine generale o di nullità speciali, possano produrre un atto che, sebbene in astratto sia tipica espressione di esercizio della giurisdizione, si caratterizzi come “abnorme” in ragione della concreta atipicità di esercizio del potere che lo pone al di fuori della struttura legale tipica stabilita dall’ordinamento (...) Abnorme è l’atto che, anche là dove dotato di un tipico contenuto giudiziario, per vizi genetici, strutturali e funzionali si collochi non solo al di fuori delle singole norme ma anche dell’intero sistema organico della legge processuale”. I giudici, sottolineano i legali, decidono sulla base degli atti processuali “e non sulla base di pregiudizi o altro. Non avrebbero altrimenti senso le disposizioni dell’articolo 525, comma 1, cpp che definiscono i contenuti di una deliberazione da adottare in Camera di consiglio, subito dopo la chiusura del dibattimento, dallo stesso giudice che ha partecipato alla raccolta delle prove, o quelle disposte dall’articolo 527 cpp per le deliberazioni collegiali (...) La sentenza è, dunque, il prodotto di una deliberazione da adottare nelle forme e con le modalità descritte dalla legge processuale”. Insomma: pur essendo la sentenza “in astratto manifestazione di legittimo potere”, la pronuncia sarebbe stata “esplicata al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite”, dal momento che non è preceduta dallo “studio degli atti processuali”. E ciò “dà origine ad un vizio che determina l’abnormità della sentenza”. Naspi ai detenuti, Cgil e Inca vincono ancora. Adesso l’Inps ripristini il diritto cgil.milano.it, 21 settembre 2024 Ennesima causa vinta da Cgil e Inca contro una prassi discriminatoria di Inps che nega il diritto alla Naspi ai detenuti. Un nuovo, l’ennesimo, pronunciamento del Tribunale di Milano del 19 settembre riconosce il diritto alla Naspi (indennità di disoccupazione) a un lavoratore detenuto, seguito dalla Cgil Milano, che ha prestato attività lavorativa per l’Amministrazione Penitenziaria. Una nuova, l’ennesima, vittoria della Cgil e dell’Inca Milano, che oramai da anni promuovono vertenze per ripristinare un diritto che Inps non riconosce, generando una feroce discriminazione verso persone che già versano in una condizione di fragilità. “Va osservato che la peculiarità del lavoro penitenziario non può consentire l’introduzione di un trattamento differenziato tra i detenuti e gli altri cittadini in materia di assicurazione contro la disoccupazione” ci ricorda la sentenza. E ancora “Il lavoro penitenziario alle dipendenze del Ministero della Giustizia e quello libero subordinato sono assimilabili: pertanto non possono sussistere ragioni per escludere il diritto alla naspi qualora ricorrono tutti i presupposti previsti dalla normativa specifica”. Lo abbiamo già chiesto più volte. Ora basta. Inps la smetta di perseguire politiche miopi e discriminatorie, continuando a soccombere nelle cause che la Cgil promuove, e riconosca da subito la naspi a tutti i lavoratori detenuti che ne hanno i requisiti. Noi non ci fermeremo e continueremo la nostra battaglia in tutte le sedi, a partire dalla costante promozione di vertenze e cause a tutela dei lavoratori detenuti. Friuli Venezia Giulia. Il Consiglio regionale elegge Enrico Sbriglia nuovo Garante diritti persona consiglio.regione.fvg.it, 21 settembre 2024 Il Consiglio regionale ha eletto alla quarta tornata, con 28 espressioni a favore, Enrico Sbriglia come nuovo Garante regionale per i diritti della persona, figura istituita nel 2014 con la legge numero 9 che ne definisce competenze e funzioni. Si occupa di casi di presunta violazione dei diritti dei bambini o adolescenti, delle persone private della libertà personale, o di discriminazione sulle origini nazionali ed etniche, sulle convinzioni personali e religiose, sulla disabilità, l’età, l’orientamento sessuale e l’identità di genere perpetrati da soggetti pubblici e privati. Sbriglia è già stato presidente dell’Osservatorio regionale Antimafia del Friuli Venezia Giulia. I consiglieri delle Opposizioni non hanno ritirato le schede per la prima tornata di votazione, in segno di astensione per il mancato coinvolgimento in sede di individuazione della figura del Garante, così come ha sottolineato in nome delle varie forze Diego Moretti (Pd). Essendo necessario il sostegno da parte dei due terzi dell’Aula, nemmeno alla seconda e alla terza votazione è stato raggiunto il quorum. All’ultima votazione, la quarta, ci sono state 16 schede bianche, 2 nulle e 28 a favore. In precedenza, era stata la Giunta per le nomine presieduta da Mauro Bordin ad esprimere un parere favorevole sulla candidatura di Sbriglia, presentata in tale sede da Claudio Giacomelli (FdI). Voto positivo dei consiglieri di Centrodestra, mentre da parte dei Gruppi delle Opposizioni è arrivata “un’astensione - hanno spiegato - dettata non dal merito della persona, ma dal metodo con cui è arrivata sul tavolo la nomina, ovvero senza un confronto preliminare tra le diverse forze politiche presenti in Consiglio”. Palermo. Il blitz di Ilaria Cucchi al carcere dell’Ucciardone “Detenuti trattati come bestie” di Alessia Candito La Repubblica, 21 settembre 2024 La senatrice di Avs visita a sorpresa la sezione Nove, da mesi al centro delle polemiche. “Ho visto tanti penitenziari, questa è la realtà che mi ha sconvolta di più”. Puzza di bruciato, di umanità compressa, che urla, protesta, chiede: “Perché ci trattano così? Non siamo animali”. Pareti scrostate, celle luride, fra pozze di urina, calcinacci, arredi logori. “Ho visitato tante carceri, questa è la realtà che mi ha sconvolta di più”, soffia la senatrice di Sinistra Italiana, Ilaria Cucchi. Appena uscita dall’Ucciardone di Palermo inghiotte aria, sembra quasi volerla masticare per lasciarsi indietro il “tanfo di disperazione” respirato fino a poco prima. Dei penitenziari visitati, “forse è il peggiore, sia per come è strutturato, sia per il tasso di incuria, abbandono e sofferenza”. Dentro ci sono dodici detenuti in sciopero della fame. Ma è dato che le riportano solo a fine visita, “come se fosse fisiologico, normale”. All’Ucciardone Cucchi si è presentata a sorpresa, insieme al Garante cittadino per le persone private della libertà personale Pino Apprendi, e ha preteso di vedere tutto. Inclusa la Nove. È la sezione dei “puniti”, degli indisciplinati, dei sottoposti a sorveglianza speciale o isolamento, di chi protesta o si fa del male. Una delle più vecchie, mai sottoposta a manutenzione né ordinaria, né straordinaria, a dispetto di un progetto esecutivo già approvato. Un pozzo da cui uscire è difficile. “Vado da sola”, ha detto a chi ha provato a dissuaderla dal visitare quella sezione. Il motivo lo ha scoperto subito: poco prima un detenuto aveva dato fuoco a un materasso per protesta. Inutilmente da tempo chiede di presentare un’istanza di trasferimento ad altra sezione, vicino al fratello. “Basterebbe un po’ di ascolto, di buon senso”, dice la senatrice, che con quel ragazzo ci ha parlato a lungo. “A volte ti senti impotente”, mormora. La battaglia perché l’omicidio del fratello Stefano fosse riconosciuto e come tale punito ha fatto fare tanti passi avanti, “poi entri in un istituto come questo e capisci quanto ci sia da fare”. Il governo, che di carceri in teoria si è di recente occupato, orbita a distanza siderale. “Quello che avrebbe dovuto essere uno “svuotacarceri” - spiega - è diventato un decreto sicurezza che trasforma in un reato, la rivolta carceraria, persino la resistenza passiva dei detenuti”. O costringe dietro le sbarre donne incinte o madri con neonati al seguito. “A meno che non si pensi di risolvere il problema del sovraffollamento con i suicidi, già a livelli record, non è una soluzione”. Gli istituti di pena scoppiano e dentro - afferma - c’è un sacco di gente che non ci dovrebbe: persone con disagi, patologie psichiche o problemi da dipendenze, chi avrebbe diritto a misure alternative. “Il carcere è sempre stata una discarica sociale, lo specchio del fallimento della nostra società. Adesso, ancora di più”. La funzione rieducativa della pena è rimasta solo nelle intenzioni del legislatore, “oggi è punitiva e basta”, Per questo, osserva, “non è per nulla casuale che molti suicidi avvengano quasi alla vigila del fine pena”. Nei progetti della maggioranza di governo però non c’è nulla per cambiare le cose. “Prima di discutere di carcere, i miei colleghi, il ministro Nordio dovrebbero venirci. Li accompagno io”. Palermo. Pino Apprendi denuncia: “Autolesionismo e malati gravi, carcere disumano” lasiciliaweb.it, 21 settembre 2024 Il Garante dopo la visita all’Ucciardone di Palermo. “Questa nona sezione di Palermo va chiusa. Le condizioni sono inumare. È un reparto dove vi sono malati con gravissimi problemi psichiatrici. Ci sono persone che hanno creato anche gravi momenti di crisi, all’interno del carcere. Questa sezione non ha mai avuto manutenzione, né ordinaria, né straordinaria. Chiediamo al ministro competente di intervenire seriamente perché c’è un progetto che, dal 2021, dovrebbe essere finanziato, per la ristrutturazione di questo luogo”. È indignato Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo che oggi ha visitato assieme alla senatrice di Alleanza Verdi-Sinistra Ilaria Cucchi il carcere Ucciardone di Palermo “ci sono - prosegue - 1.330 casi di autolesionismo che, da gennaio a oggi, non vengono nemmeno citati. Ho saputo che qui ci sono, in atto, dodici casi di sciopero della fame e di questo, è giusto precisare, si muore”. Anche Cucchi attacca: “Appena entrata all’Ucciardone per il giro ho appreso di un detenuto che pochi minuti prima aveva dato fuoco a un materasso perché le sue richieste non sono state ascoltate. È stato sbattuto in una cella, in un piano dove non c’è la telecamera, lasciato in condizioni inimmaginabili. I detenuti che spesso vengono lasciati, per ore e ore, in mezzo a escrementi loro o di altri. Uno dei principali deficit è in primo luogo la mancanza di ascolto. La Costituzione parla di funzione rieducativa della pena? Possiamo fare mille esempi che ci fanno capire che ormai, il carcere assume quasi esclusivamente, la funzione punitiva, ormai la rieducazione non esiste più”. Milano. L’ultimo saluto a Youssef, il diciottenne morto nel rogo della sua cella a San Vittore di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 21 settembre 2024 “Scusa se non siamo stati capaci di tutelarti”. Oltre duecento persone alla cerimonia laica organizzata dall’avvocato Paolo Oddi. La voce di Lella Costa per le parole di Fabrizio De Andrè, il messaggio di Daria Bignardi, l’intervento di Fabio Fazio e le riflessioni dell’arcivescovo Mario Delpini. Una commemorazione laica, “non solo come modo per salutare Youssef” Mokhtar Loka Barsom, il 18enne egiziano carbonizzato nel rogo della propria cella a San Vittore tra il 5 e 6 settembre, “ma anche - esordisce tra gli organizzatori Paolo Oddi, avvocato nel settore dell’immigrazione - per chiedergli scusa come comunità per non averlo saputo tutelare nella cura dei suoi disturbi di personalità”, per lanciare “un grido d’allarme sulle condizioni dei detenuti nelle carceri in questo momento”, e per fare attenzione al fatto “tra i detenuti i migranti reclusi sono persone a cui per giunta viene negata persino l’identità, numeri che passano nel tempo”. Sono più di duecento le persone accalcatesi dalle 18.30 alle 20 di venerdì nel Cam di corso Garibaldi 27. Uno schermo proietta i selfie che il ragazzo amava farsi, a cominciare da quello - oggi impressionante - di lui sorridente in piazza Duomo; l’arpa di Roberta Pestalozza suona Bach, l’attrice Lella Costa legge “Preghiera di gennaio” di Fabrizio De Andrè, l’avvocata Antonella Calcaterra porta un messaggio di Daria Bignardi, Fabio Fazio interviene con un audio. “Però per me commemorare Youssef significa fare un’operazione-verità su quello che c’è stato prima della sua morte - interviene don Roberto Mozzi, fino ad agosto cappellano a San Vittore -. È già da quattro mesi che a San Vittore le celle bruciano, e dentro ci sono persone che non sempre escono incolumi salvati dagli agenti. San Vittore continua a bruciare, c’è un rogo a settimana, ora c’è Amin a Niguarda”, rivela il sacerdote riferendosi a un detenuto straniero che, tre giorni dopo la morte di Youssef, una volta usciti i compagni di cella ha appiccato il fuoco e ci si è buttato dentro come protesta per talune richieste a suo avviso negategli, ed ora è ricoverato in ospedale con ustioni sul 18% del corpo. Don Mozzi elenca la casistica quotidiana di “bisogni inascoltati” che concorrono poi all’insondabile terreno si cui maturano di colpo i gesti estremi: “Il fuoco è pericoloso, come viene spiegato ai detenuti quasi che non lo sapessero già, ma in questo momento il carcere di San Vittore lo è di più”. Chi aveva visitato l’istituto pochi giorni prima, come l’europarlamentare Ilaria Salis, dice di “essersi sentita gelare il sangue alla notizia della morte di Youssef, al pensiero che magari era tra coloro che avevo visto e con cui avevo parlato quel giorno”; mentre chi visita San Vittore con assiduità, come la presidente Valentina Alberta della Camera Penale, addita la necessità di “non assuefarsi alla situazione, all’idea del meno peggio” in una struttura da 450 posti che detiene 1100 reclusi, e nel rogo di Youssef scorge “un punto di non ritorno: basta, le carceri vanno svuotate”. E Ruggero Giuliani, coordinatore della sanità penitenziaria, riflette sul fatto che “anche io e i miei colleghi dobbiamo forse fare autocritica, nel senso che dobbiamo forse occuparci di più non solo della salute dei detenuti ma anche delle condizioni di vita che in carcere determinano la loro salute”. Ma come sempre accade quando si ascolta e ci si ascolta per davvero, l’ascolto proprio delle (poche) persone che conoscevano Youssef apre anche a un altro angolo di visuale: “Molti di noi hanno alacremente lavorato per lui - racconta il suo avvocato Monica Bonessa, riferendosi a legali, educatori, tutori, medici e magistrati che a vario titolo e in vari momenti avevano incrociato la parabola del giovane - eppure il sistema ha fallito, non siamo stati sostenuti dall’inadeguatezza delle disponibilità nelle comunità terapeutiche, hanno la metà dei posti per cui c’è una lista d’attesa, e intanto questi sono ragazzi che non è vero che rubino solo la collanina, a causa dei loro vissuti hanno anche impulsi aggressivi che devono ricevere assistenza: se il sistema avesse funzionato, Youssef non sarebbe finito a San Vittore, e anzi ancor prima non sarebbe finito in strada a fare quello che poi l’ha portato a San Vittore”. E a spiazzare ancor di più la platea arriva colei che era la volontaria tutrice legale del giovane, Chiara Poletti: “Il problema di Youssef non era San Vittore, il suo problema è stato prima: è il tema dei disturbi mentali di questi giovani di cui non ci si occupa. Ecco - alza l’asticella a un’altezza che nell’intimo mette in discussione ciascuno di quelli venuti a partecipare alla commemorazione -, dal 2017 esiste la legge Zampa, quella che permette ai cittadini di fare i tutori legali volontari: quando vedrete uno di questi giovani magari fuori dalla Stazione Centrale, magari non voltatevi e non andate via. Magari fateci un pensierino”. Ed è in questo solco che l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, coglie nella storia di Youssef “uno strazio che porta alla ribalta della cronaca una vicenda segnata da troppo dolore, troppa fragilità, troppa complessità”, in una sequela di “si dovrebbe” snocciolati dal prelato: “Si dovrebbe evitare di rimuovere frettolosamente dalla attenzione dell’opinione pubblica come notizia che viene subito cancellata perché racconta una storia inquietante. Si dovrebbe evitare di attribuire sbrigativamente colpe e inadempienze sulle persone che dirigono e lavorano in carcere, in un sistema che è unanimemente riconosciuto insostenibile. Si dovrebbe evitare che una vita umana valga così poco”. Più un aspetto squisitamente religioso perché “Youssef è anzitutto una storia, e anche una fede: viveva con orgoglio il suo essere cristiano, appartenente alla Chiesa copta ortodossa. Chiedo a ognuno, a qualsiasi religione appartenga, di elevare una preghiera; rivolgo ad ogni donna e uomo di buona volontà un appello perché si rifletta, si avanzino proposte, si offrano risorse affinché tutto il tema carcere sia affrontato e saggiamente corretto”. Intanto nell’inchiesta del pm Carlo Scalas (che per motivi solo formali al momento procede per ipotesi di omicidio colposo a carico del compagno di cella) le prime indicazioni dell’autopsia svolta mercoledì sembrerebbero ricostruire che il giovane sia morto per le esalazioni del fumo del rogo, forse appiccato per una forma di protesta trascinando il letto nel bagno con l’aiuto del compagno, salvo poi non riuscire più a uscirne perché la pesante rete del letto avrebbe finito per bloccare la porta. Vigevano (Pv). I detenuti ora hanno un lavoro. “Così ricomincia una vita” di Fulvio Fulvi Avvenire, 21 settembre 2024 Viaggio a Vigevano, nella Casa di Reclusione dove chi è stato condannato può ripartire grazie a un impiego come operatore di call center. La direttrice dell’istituto: dobbiamo dare nuove opportunità. C’è Vito, 57 anni, che si commuove dal palco quando racconta la sua storia: “Mi sentivo inutile alla mia famiglia e a me stesso ma in carcere ho preso il diploma di terza media e adesso, dopo un corso di formazione, mi hanno dato un vero lavoro e posso mandare ogni mese qualche soldino a casa, sono fortunato se penso che alcuni di noi si sono persi per strada, a volte si arriva al peggio”. Lui, come tutte le altre 350 persone ospitate nella Casa di Reclusione di Vigevano, in provincia di Pavia, ha una pena pesante sulle spalle. Perché gli errori, pure gravi, si commettono e si possono ripetere, più volte ma uno spiraglio di luce che filtra tra certe sbarre non manca mai. E da quel barlume può nascere una speranza. Lo sa bene anche Mauro, che da cinque anni sconta la sua condanna nell’istituto lombardo dopo averne girati altri nove “senza aver combinato nulla”. “Stavo per ore sdraiato sulla brandina - dice con voce rotta - e durante la giornata svolgevo piccole mansioni di servizio come scopino e portavitto, adesso invece ho un contratto di lavoro con una ditta, comincio a credere in me stesso, mi sto guadagnando uno stipendio e una rispettabilità”. E con loro ci sono anche Alessandro, Omar, Giovanni e altri ragazzi che hanno imparato a sorridere e mostrano con orgoglio la loro postazione davanti a un computer, in una sala nuova di zecca dove c’è pure l’aria condizionata, dentro questo edificio che a vederlo da fuori sembra una fortezza, distante una manciata di metri dalla frazione di Piccolini, nelle campagne intorno al naviglio pavese. In diciotto, per il momento, sono stati assunti a tempo pieno (per tredici mesi con possibilità di conferma) a partire dal I° ottobre come operatori del cali center (nove di loro stanno già lavorando). Il progetto si chiama “In carcere non si finisce... si ricomincia” ed è stato realizzato grazie all’impegno della direttrice dell’istituto, Rosalia Marino, in collaborazione con le imprese sociali “bee.4 altre menti” e “Divieto di sosta”. Aziende partner sono la società di telecomunicazioni Eolo spa, l’azienda di produzione Dolomiti Energia, la Sielte e la TeamSystem che hanno messo a disposizione dei reclusi più meritevoli, dopo un’accurata selezione e formazione professionale, impieghi finalizzati all’erogazione dei servizi di assistenza ai loro clienti. Mansioni delicate, che devono essere svolte con la necessaria preparazione tecnica e comunicativa. “L’iniziativa è nata dopo una visita al carcere di Bollate - afferma la direttrice del penitenziario - e, vedendo i risultati, abbiamo “copiato” da loro, non volevamo arrenderci all’idea che Vigevano dovesse essere un carcere privo di opportunità e di speranze”. Un passo avanti è stato fatto. Ma c’è la consapevolezza che bisogna continuare su questa via. “Crediamo che all’interno dei luoghi di pena siano custoditi tanti talenti che chiedono di essere svelati - sottolinea Pino Cantatore, presidente della cooperativa “bee.4 altre menti” - nel corso degli undici anni di storia della nostra impresa sono state tante le persone che hanno avuto modo di scoprire inedite prospettive di futuro, ci sentiamo investiti di una missione: portare oltre le mura di Bollate quanto di buono abbiamo sperimentato sin qui, offrendo alle persone che vivono in carcere, anche in contesti difficili come quello di Vige vano, opportunità per ricominciare”. Il progetto sembra aver sconvolto la vita del carcere dove pure grazie all’impegno dei gruppi di volontariato (la Caritas è presente con uno sportello di ascolto e un laboratorio di sartoria) e del personale di polizia e amministrativo, le attività, nelle due sezioni, sono rifiorite: chi non è potuto entrare tra gli assunti si è dato da fare per produrre miele, realizzare oggetti in cuoio e in legno. La speranza è uscire da qui con una prospettiva concreta. Non a casa le magliette che i detenuti indossavano ieri orgogliosi, mostravano una scritta che è essa stessa un programma: “La via d’uscita è dentro”. Vasto (Ch). Progetto Demeter per l’nserimento sociale e lavorativo dei detenuti: firmato accordo di Lea Di Scipio vastoweb.com, 21 settembre 2024 È stato firmato ieri nella Casa lavoro con annessa Sezione Circondariale di Vasto l’accordo di collaborazione tra i partner coinvolti nel progetto Demeter - Detainee Empowerment through Meaningful Engagement, Therapy, and Rehabilitation. Si tratta di un percorso ambizioso concepito per affrontare le sfide specifiche dei detenuti e favorire il loro reinserimento sociale nonché il processo di riabilitazione. I partner che hanno unito le forze in questa importante iniziativa sono la Pmi Services, presieduta da Marta Elisio, che si occuperà della formazione e dell’orientamento professionale e dell’inserimento lavorativo, l’associazione Vita Felice, rappresentata da don Silvio Santovito, che offrirà servizi di assistenza per l’autonomia abitativa e trasporti, il Consorzio Gmc - Global Med Care, guidato da Sandro D’Ercole, che fornirà supporto morale e psicologico. Non è mancata la presenza della capo Area educativa Maria Giuseppina Rossi che sottolinea l’importanza dell’inziativa. Il Progetto, finanziato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Provveditorato regionale del Lazio, Abruzzo e Molise, è prevede l’implementazione di un approccio personalizzato, mirato a rispondere alle esigenze specifiche dei detenuti. Attraverso una serie di interventi, tra cui l’orientamento e la formazione professionale, il supporto per l’inserimento lavorativo, l’assistenza psicologica, il sostegno all’autonomia abitativa, i servizi di trasporto per facilitare la partecipazione alle attività lavorative. “Vogliamo garantire che ogni individuo abbia l’opportunità di reintegrarsi con successo nella società. Siamo convinti che, grazie alla collaborazione tra enti, associazioni e professionisti del settore, riusciremo a creare un percorso di crescita e recupero per i detenuti, favorendo un futuro migliore per tutti. Restate sintonizzati per ulteriori aggiornamenti su questa iniziativa e sul suo impatto positivo! Insieme, possiamo fare la differenza!”, scrivono i partner di progetto. Bari. Carcere e tossicodipendenze: iniziativa di sensibilizzazione rivolta ai giovani detenuti di Jessica Muller Castagliuolo La Repubblica, 21 settembre 2024 Al carcere minorile Fornelli il progetto Wefree Dentro di Intesa Sanpaolo e San Patrignano. La testimonianza di Federico Tossani: “La droga è molto ‘democratica’ e non esistono linee guida per non cascarci. Ma voglio portare ai ragazzi la mia storia, perché uscirne si può”. Ci sono più tossicodipendenti in carcere che in comunità. In Italia i detenuti tossicodipendenti sono più di 26mila. Tre detenuti su dieci che non hanno accesso a misure alternative, per curarsi. Sono infatti “solo” 3901 le persone prese in carico dall’Ufficio esecuzione penale esterna per percorsi altri rispetto alla detenzione. Mentre si inaspriscono le pene - tanto che nel 2023 l’Autorità giudiziaria per reati penali droga correlati ha contato un aumento del 10 per cento dei minorenni denunciati - l’uso di stupefacenti non accenna a diminuire. L’ultima relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia parla chiaro: quattro giovani su dieci, tra i 15 e i 19 anni hanno fatto uso di sostanze nel 2023, almeno una volta nella vita. 960mila giovani. “Ho intrapreso il mio percorso a San Patrignano ormai molti anni fa, con circa altre 1400 persone provenienti da tutto il mondo e da diversi contesti sociali. Ci si avvicina al mondo delle droghe principalmente per dei traumi o a causa dei contesti in cui si vive. La droga è molto ‘democratica’. Ma non esistono linee guida per non cascarci”. Federico Tossani arriva a San Patrignano nel 2012, quando aveva solo venti anni. Allora, il futuro era un lumicino. Il suo percorso di recupero è durato cinque anni. È entrato in comunità che aveva la terza media. Ne è uscito. Si è laureato in Lettere. Ora ha deciso di restare a lavorare lì, tra le persone che lo hanno aiutato a chiudere quel capitolo doloroso della vita. Il progetto - La sua testimonianza arriva dove c’è ne più bisogno. Grazie a un progetto di Intesa Sanpaolo e San Patrignano si è tenuto nell’Istituto penale per i minorenni di Bari una giornata di incontro tra gli educatori della comunità e i giovani detenuti. Un’iniziativa pilota di un progetto per la prevenzione delle dipendenze: Wefree Dentro. “Si inserisce nel filone dei progetti che realizziamo per il mondo del carcere e per la prevenzione dalle dipendenze insieme alle più importanti realtà italiane del Terzo Settore. Grazie alla collaborazione con la Fondazione San Patrignano l’iniziativa offre un momento diverso ai giovani detenuti portandoli a concentrarsi sulle proprie potenzialità e sull’importanza delle scelte di ogni giorno. Dall’incontro di oggi potranno trarre spunti utili a migliorare la propria situazione e ad avere maggiore fiducia nel ‘dopo’” spiega Paolo Bonassi, chief social impact officer di Intesa Sanpaolo. Snodi - Un dopo che può esserci, ma al quale bisogna avere la forza di credere: “Molto spesso chi ha problemi di tossicodipendenza pensa che della propria vita può fare ciò che gli pare. Ma se penso alla mia storia, a quello che è successo a me, mi rendo conto di aver fatto tante scelte che non sono ricadute solamente su me stesso, ma anche sui miei genitori e su tutte le persone che mi volevano bene”, continua Tossani. L’importanza di scegliere e di scegliersi. Avere il coraggio di chiedere aiuto. Non a caso il monologo con il quale la storia è stata raccontata ai ragazzi, scritto e interpretato insieme alla giornalista Angela Iantosca, si intitola “Snodi”. Due testimonianze che convergono. “Il monologo è stato veramente molto toccante anche per noi che l’abbiamo fatto. Per me sono state tante prime volte. Non avevo mai recitato, ma è stata anche la prima volta che ho portato il mio lavoro, la mia esperienza, la mia testimonianza in un carcere minorile, che è tra l’altro quello che mi sono scampato per un pelo”, conclude Tossani. Dipendenze - “Il progetto si rivolge a una fra le categorie più fragili del nostro Paese, per costruire percorsi di possibile uscita dall’emarginazione e dall’esclusione sociale. L’obiettivo è sperimentare un nuovo approccio a supporto dei minori per offrire loro strumenti utili a riscoprire le proprie potenzialità, a superare le fragilità e a uscire dalle dipendenze, che sempre più fra i giovani e a volte nell’ambito degli istituti carcerari si esprimono a volte in dipendenze da psicofarmaci”, spiega Antonio Boschini, responsabile terapeutico di San Patrignano. Ultimi numeri: l’Associazione Antigone segnalava nel suo ultimo rapporto come nelle carceri italiane il 17,7 per cento dei detenuti assuma regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Sedativi e ipnotici invece, sono somministrati a quattro detenuti su dieci. Napoli. Giustizia riparativa, focus a Castellammare: “Necessario rieducare i detenuti” di Filippo Notari ottopagine.it, 21 settembre 2024 Patriarca: “A Poggioreale situazione infernale”. Criminalità tra carcere violenza e giustizia riparativa. Questi i pilastri del convegno organizzato dallo studio legale Paolillo&Partner nella sala convegni dell’hotel Stabia a Castellammare. Un incontro ormativo per gli addetti ai lavori del diritto, che “si è reso necessario - ha spiegato l’avvocato Andrea Paollilo - per i crescenti episodi gravi di cronaca che si sono verificati nelle carceri”. Negli ultimi mesi infatti la politica e il dibattito pubblico si è concentrato sulla questione della qualità di vita all’interno delle case circondariali. “Poggioreale è un girone dell’inferno - ha commentato la deputata Annarita Patriarca, intervenuta al convegno -. Nei mesi scorsi abbiamo visitato gli istituti penitenziari nel sud Italia. A Poggioreale ci sono stanze con 12-13 detenuti, con letti a castello da tre. Una situazione da migliorare. Il problema numero uno è sicuramente il sovraffollamento. A Poggioreale ci sono attualmente 2.060 detenuti per un carcere che ne può contenere 1300 considerando la chiusura di un padiglione per lavori che si concluderanno tra tre anni”. Una situazione di emergenza che interroga sia la politica che tutta la macchina della giustizia, da sempre alla ricerca di un sistema per bilanciare la necessità di certezza della pena che di garantire il rispetto umano per i detenuti. Sul tema è intervenuta anche Irma Conti, garante nazionale delle persone private della libertà: “La situazione precaria delle carceri è cronica e non è una emergenza solo di questi ultimi anni - ha detto l’avvocato Conti -. Vanno implementate le assunzioni nella polizia penitenziaria, anche perché quelle fatte in questi anni servono solo a coprire i pensionamenti. Attualmente in Italia ci sono 61mila detenuti, un numero sproporzionato rispetto agli addetti alla sicurezza. Il carcere deve essere un luogo per il recupero, e questo non va mai dimenticato. Tempo fa ho incontrato un ergastolano ad Oristano che si era laureato. Mi disse che il carcere aveva fatto il suo dovere ed ora, grazie a questa possibilità, i suoi figli l’avrebbero ricordato non solo per quello che ha fatto ma soprattutto perché si era laureato. Oggi occorre puntare sull’implementazione della giustizia riparativa. Bisogna farlo per le carceri, per i detenuti e soprattutto per la società”. Presente anche Giulia Russo, direttrice del centro penitenziario “Pasquale Mandato” di Secondigliano “Nelle carceri noi dobbiamo rieducare e risocializzare e per essere credibili bisogna puntare da una cosa semplice: la quotidianità - ha detto Russo -. A Secondigliano abbiamo distribuito 300 frigoriferi, cambiato le televisioni e sostituito 680 materassi. Per il reinserimento abbiamo allestito delle sale di formazione lavorativa e nel 2018 abbiamo firmato un protocollo d’intesa con la Federico II. Oggi sono iscritti ai corsi 80 detenuti e 8 di questi sono laureati”. Qualcosa lentamente si sta muovendo su questo fronte, ma non si riesce ancora a far fronte al numero di reati commessi, che ha fatto registrare anche un aumento dovuto alle nuove tecnologie. Giacomo Di Gennaro, docente esperto in scienze criminologiche, investigative e cybercrime, e direttore del master in criminologia e diritto penale presso il dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli studi di Napoli Federico II, ha tenuto un approfondimento sulle statistiche riguardanti i numeri dei detenuti e la commissione di reati negli ultimi 50 anni: “Stiamo vivendo uno iato estremo della diseguaglianza sociale. I minori commettono sempre più reati perché, anche attratti dai clan, vogliono fare di tutto per uscire dalle situazioni di povertà. Oggi rischiamo, per colpa delle scelte della politica di ritornare indietro di cinquanta anni”. A rappresentare le forze dell’ordine il comandante Pierluigi Rizzo, comandante del Nucelo Investigativo della Polizia Penitenziaria della Campania, e Gesuela Pullara, comandante del reparto di Polizia Penitenziaria della casa circondariale “Pasquale Di Lorenzo” di Agrigento. Il primo è intervenuto sulle disposizioni di legge per i detenuti dell’ideologia anarchica, mentre Pullara ha illustrato le tecniche di recupero per i detenuti che hanno commesso reati di natura sessuale e di violenza sulle donne. Loredana D’Alessandro, funzionario della professionalità pedagogica del ministero della giustizia, e mediatore esperto e formazione ingiustizia riparativa, ha tenuto una lezione sui caratteri generali della giustizia riparativa. Regolata in Italia per la prima volta nel 2022 con la cosiddetta riforma Cartabia, la giustizia riparativa consiste nel tentativo di risanamento del legame tra vittime, colpevoli e comunità, dopo che quel legame è venuto a mancare con il compimento del reato. Riparazione del danno, riconciliazione tra le parti e rafforzamento del senso di sicurezza sono gli scopi della giustizia riparativa. A concludere Angelica Di Giovanni, già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli: “Nel 2010 scrivevo che la confusione totale che accompagna le istituzioni del diritto penale risolvendosi in un’incertezza del diritto della pena costituisce il nocciolo della crisi che il nostro sistema del diritto penale sta attraversando. Non è cambiato molto da allora. Resta immutata la domanda di base ancora oggi: stare dalla parte di Abele o recuperare Caino? In questo paese tutti hanno ragione e tutti hanno diritto a tutto. Per dirla alla giuridichese: nella corsa all’ultima garanzia, l’unico a non essere garantito è lo Stato”. Una realtà emersa nel corso di un convegno che ha dato la possibilità a tutti gli operatori della giustizia di approfondire tematiche attuali e di fondamentale importanza. Un impegno che lo studio Paolillo&Partner sta portando avanti già da anni, affrontando questioni come la violenza di genere o la giustizia riparativa che necessitano di studio e confronto con chi ogni giorno le affronta sul campo. Milano. Giustizia e carcere: quattro corsi di formazione per i giornalisti odg.mi.it, 21 settembre 2024 Si intitola “Indagini e processo”, una guida per capire il corso che si tiene a Milano l’11 ottobre: aggiornamenti sulle nuove norme e strumenti di formazione permanente sul tema. In novembre tre corsi su sessualità e maternità in carcere. In collaborazione con l’Università Statale di Milano e con la Camera Penale di Milano, l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia sta realizzando una biblioteca digitale in tema di processo penale, per chiarire attori e fasi del procedimento penale, dal momento delle indagini a quello dell’esecuzione della pena. L’idea è offrire uno strumento di aggiornamento permanente a disposizione dei giornalisti che vogliano avere chiarezza sulle norme che regolano la giustizia penale e le norme relative all’informazione, anche con articoli di approfondimento di giornalisti, avvocati, magistrati e professori universitari. Per presentare questo progetto è in programma un corso di formazione dal titolo Indagini e processo, una guida per capire che si tiene a Milano l’11 ottobre. Connessi a questo progetto sono poi tre corsi dedicati al mondo carcerario. Il primo, in programma il 21 ottobre, partirà da una breve analisi dell’ordinamento penitenziario e proseguirà offrendo i dati aggiornati relativi al carcere e allo status della popolazione carceraria. Si approfondiranno i temi relativi all’esecuzione penale (pene detentive, pene alternative, benefici di legge) e, quindi, si analizzeranno i modi in cui i media parlano del carcere e dei detenuti anche in riferimento alle linee previste dalla Carta di Milano. Il corso che si tiene il 28 ottobre ha invece per tema la sessualità in carcere. Partendo dalle recenti sentenze della Corte Costituzionale, il corso illustrerà lo stato di fatto nelle case di reclusione italiane, con particolare attenzione a quelle in cui è già stata predisposta una “zona” per l’affettività in carcere. Dopo questa breve introduzione, si tratterà delle “occasioni mancate” del giornalismo che, riguardo alla sessualità dei reclusi, commenta spesso in termini scandalistici gli eventi critici, ma raramente coglie queste occasioni per approfondire il tema della sessualità come diritto negato. Nel terzo corso, il 12 novembre, si parlerà di detenzione al femminile. Il carcere come istituzione totale è una struttura pensata per uomini in cui si riscontra, anche nei documenti ministeriali, un’incapacità di pensare il carcere al femminile. Si fa difficoltà a tener conto dei problemi che affrontano le donne in un regime di reclusione (privazione della genitorialità e dell’affettività, adattamento all’ambiente, rielaborazione critica del reato) e ad analizzare la tipologia e specificità della criminalità femminile. Anche in questo caso il corso si pone l’obiettivo di far luce su questi aspetti e di analizzare come vengono trattati nel linguaggio giornalistico. Firenze. Convegno all’Università sul tema “Il diritto all’affettività delle persone detenute” met.cittametropolitana.fi.it, 21 settembre 2024 Appuntamento lunedì 23 settembre nell’Aula magna dell’Università di Firenze. Durante l’incontro sarà ricordato il Garante nazionale dei detenuti Felice Maurizio D’Ettore. Il mantenimento delle relazioni con i propri cari nei soggetti privati della libertà personale è al centro di un incontro in programma lunedì 23 settembre dal titolo “Diritto all’affettività delle persone detenute: la possibilità di un percorso” organizzato dall’Università di Firenze in Aula magna (Piazza San Marco 4 - ore 14). L’iniziativa mette a confronto rappresentanti delle istituzioni, giuristi, dirigenti penitenziari ed esperti di differenti ordini professionali per sviluppare una riflessione su un diritto essenziale per la dignità umana e la riabilitazione del detenuto. Per l’occasione sarà ricordato anche l’impegno di Felice Maurizio D’Ettore, già Garante nazionale dei detenuti e docente di diritto privato dell’Ateneo fiorentino, recentemente scomparso. L’evento sarà aperto dalla rettrice Alessandra Petrucci; Serena Spinelli, assessora alle Politiche sociali, edilizia residenziale e cooperazione internazionale della Regione Toscana; Rosa Barone, presidente dell’Ordine degli Assistenti Sociali della Regione Toscana; Maria Antonietta Gulino, presidente Ordine degli psicologi della Toscana; Paola Pasquinuzzi, coordinatrice della Commissione consiliare Giustizia Penale dell’Ordine degli avvocati di Firenze. Il dibattito sarà coordinato da Maria Paola Monaco, delegata Unifi all’inclusione, diversità e processi comunicativi. Interverranno Andrea Pugiotto, docente di Diritto Costituzionale presso l’Università di Ferrara (“L’impostazione della Corte Costituzionale sul diritto all’affettività”); Roberto Cornelli, docente di Criminologia presso l’Università degli Studi di Milano (“Un’analisi della percezione della Polizia Penitenziaria”); Irma Conti, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (“L’attività del Garante Nazionale rispetto alla questione del “colloquio intimo”). A seguire, è prevista una tavola rotonda moderata da Carmelo Cantone, ex vicecapo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e già Provveditore regionale. Prenderanno la parola Donato Capece, segretario generale del SAPPE; Gennarino De Fazio, segretario generale UIL-FP Polizia Penitenziaria; Giulia Russo, direttrice Centro Penitenziario Napoli Secondigliano “Pasquale Mandato”; Raffaele Pellegrino, segretario generale del SINAPPE; Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia; Donato Nolè, coordinatore nazionale FP-CGIL Polizia Penitenziaria; Gloria Manzelli, provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per l’Emilia Romagna e la Toscana; Luca Maggiora, presidente della Camera Penale di Firenze. L’iniziativa si svolge con il patrocinio dell’Ordine degli Assistenti Sociali, del Consiglio Regionale, dell’Ordine degli Avvocati di Firenze e dell’Ordine degli Psicologi della Toscana. L’incontro potrà essere seguito in diretta streaming dal sito di Ateneo: http://www.unifi.it Viterbo. “Nessun uomo è un’isola”, tavola rotonda sui problemi nelle carceri tusciaup.com, 21 settembre 2024 Lunedì 23 settembre dalle ore 10.00 alle ore 12.00 presso l’OpenHub Lazio di Viterbo sito in via Luigi Rossi Danielli 11, si svolgerà la tavola rotonda dal titolo “Nessun uomo è un’isola. Istituti di Pena: una risorsa da scoprire; Le potenzialità dei detenuti per il tessuto economico e sociale del territorio”, evento co-progettato con G.A.V.A.C. ODV (Gruppo Assistenti Volontari Animatori Carcerari). Il G.A.V.A.C. è un’associazione viterbese che opera nel carcere da 50 anni, ne conosce bene le problematiche ed è consapevole che non siano di facile soluzione. Tra i temi più ricorrenti di questi giorni si discute nuovamente del sovraffollamento negli Istituti penitenziari e delle conseguenze che ne derivano. Durante questi anni abbiamo seguito e tutt’ora seguiamo molti detenuti tra i quali è stato possibile individuare e valorizzare diverse risorse positive per la comunità, contribuendo per quanto ci è possibile alla riduzione dell’alta percentuale di recidiva. Il carcere, quindi, può diventare un grande laboratorio dove le persone possono ricostruire i legami spezzati con la società impegnando il loro tempo al servizio della comunità e progettando un futuro di valori civili e famigliari ritrovati. Affinché tutto questo possa realizzarsi concretamente occorre generare una nuova cultura anche all’esterno degli istituti. È per questo motivo che, in occasione del 50° anniversario della sua costituzione, il Gavac, in collaborazione con Open Hub Lazio, ha organizzato un percorso di confronto con altri attori che a vario titolo possano contribuire al miglioramento delle condizioni carcerarie e a prospettive di vita dignitose nel dopo pena. Al primo dei quattro incontri, previsto per lunedì 23 settembre 2024 alle ore 10 presso la sede di Open Hub, sono invitati i sindaci, i rappresentanti del mondo dell’imprenditoria industriale, agricola, artigianale e della cooperazione sociale. I successivi incontri avranno come interlocutori altre istituzioni e associazioni a contatto con la realtà carceraria. Il titolo di questa iniziativa “Nessun uomo è un’isola”, vuole ricordare una nota poesia di Jhon Donne che già nel XVl secolo sosteneva che “se una zolla viene portata via dall’onda del mare la terra ne è diminuita”… ebbene, il carcere sta diventando un grande contenitore di zolle che si sono staccate dalla terra! Ma noi possiamo testimoniare che molto spesso quella zolla portata via dall’onda del mare può ancora contribuire a formare un terreno solido dove poter camminare, dove poggiare le fondamenta di una casa, dove poter seminare… e raccogliere di nuovo. Il luogo dell’evento, l’OpenHub Lazio di Viterbo, è uno spazio fisico dedicato all’incontro tra cittadinanza, amministrazioni pubbliche, terzo settore, università, scuole ed imprese. L’Hub è aperto al territorio e offre servizi pubblici gratuiti alla persona e alle imprese, nonché iniziative sociali e culturali. L’ingresso è libero e gratuito, ma si consiglia di prenotare il proprio posto attraverso il portale www.openhublazio.it ; è inoltre possibile inviare una mail all’indirizzo viterbo@openhublazio.it o chiamare il numero verde 800 985099. Torino. Volontariato e carcere. Incontro a Palazzo Barolo di Roberto Tartara comune.torino.it, 21 settembre 2024 Palazzo Barolo ha ospitato ieri pomeriggio il quarto appuntamento del ciclo di conferenze sul mondo carcerario nell’ambito delle iniziative per il 160esimo anniversario della morte della marchesa Giulia Falletti di Barolo. Organizzato da Opera Barolo in collaborazione con il settimanale diocesano La Voce e il Tempo l’incontro è stato introdotto da Sonia Schellino dell’Opera Barolo con una tavola rotonda composta da Wally Falchi della Caritas diocesana “Le Due Tuniche”; Adriano Moraglio dell’associazione “La goccia di Lube”; Pier Giuseppe Rossi, direttore degli Asili Notturni Umberto I” di Alessandria; Michele Burzio, diacono del carcere “Lorusso e Cutugno” e presidente dell’associazione Volontari di San Martino; Silvia Orsi dell’associazione “Carlo Tancredi e Giulia di Barolo”. In conclusione gli interventi istituzionali. Dopo l’assessore regionale Maurizio Marrone, la Garante comunale per i diritti dei detenuti Monica Cristina Gallo ha inquadrato il fenomeno ricordando il dimezzamento dei volontari nelle carceri italiane, scesi da oltre 19 mila a circa novemila in pochi anni prima a causa del covid e poi della burocratizzazione degli ingressi ausiliari negli istituti di pena. Per la Città di Torino Luca Pidello, consigliere comunale e presidente della Commissione speciale Legalità di Palazzo civico, ha ricordato l’operato dell’organismo da lui diretto sorto con l’idea di approfondire il tema interfacciandosi con l’esecutivo dell’amministrazione: “È un esperienza forte nata con il convincimento di considerare il detenuto reale, di incontrare i suoi bisogni, di comprendere come intervenire come oggi fanno le associazioni di volontariato negli istituti di pena. Dobbiamo passare a una concezione di carcere umano dove scontare una pena non è espiare un peccato come insegna ancora oggi Giulia di Barolo e servono strutture detentive più piccole in grado di accompagnare i carcerati verso il reintegro nella società”. San Gimignano (Si). Rugby in carcere: ieri mattina la presentazione del progetto di Romano Francardelli La Nazione, 21 settembre 2024 Porte aperte al carcere di Ranza per la disciplina dello sport: dalla palla tonda del calcio a quella ovale del Rugby, dai gol alle mete. Progetto di integrazione sociale per il recupero dei detenuti attraverso lo sport per andare in meta sia dal nuovo rugby di Ranza a quello sperimentato alle Sughere di Livorno. La presentazione ieri mattina in sala del consiglio del palazzo comunale dal padrone di casa il sindaco Andrea Marrucci con a fianco l’assessora regionale alle politiche sociali Serenella Spinelli, dal presidente comitato toscana Rugby Riccardo Bonaccorsi, con alcuni esponenti nazionali della Federazione Italiana della disciplina dello sport e salute e di esponenti di squadre Old toscane Rugby. Per la delegazione di Ranza la dirigente giuridica dell’area trattamentale Valeria Bertini con l’ispettore capo della Penitenziaria Antonio De Pietro. Insomma sul nuovo rugby di Ranza si è mosso il mondo nazionale e regionale della palla ovale. Nel nuovo cammino da Ranza e dalle celle delle Sughere livornese in questa nuova esperienza sportiva. “Crediamo fortemente in questo progetto che potrà far vivere ai detenuti momenti formativi all’insegna dello sport di squadra.” Il saluto del sindaco Andrea Marrucci. E ancora. “I veri valori del rugby saranno fondamentali per il percorso di recupero sociale dei detenuti. Per questo la nostra Amministrazione, sempre attenta a ciò che accade nella Casa di Reclusione di Ranza, sostiene e condivide le finalità di questo progetto”. “Per i detenuti far parte di una squadra di rugby, gli allenamenti, la condivisione delle regole e l’impegno in campo, è una opportunità preziosa di salute e di nuove motivazioni, favorendo quindi la prospettiva di reinserimento sociale e la finalità rieducativa della detenzione, che deve essere sempre il primo obiettivo”. La riflessione dell’assessora regionale Spinelli. Ha ricordato inoltre “iniziative come questa sono un esempio di come la comunità possa portare un po’ di luce tra i tanti problemi che affliggono il sistema penitenziario del nostro Paese. Voglio ringraziare per questo tutti i soggetti coinvolti nel progetto, il Comune, la direzione, il personale della casa di reclusione, il Comitato toscano amatori rugby, le squadre old e in particolare i volontari e le volontarie, i tutor e gli allenatori per farlo crescere e portare avanti anche nel carcere di San Gimignano”. Napoli. Andrea Sannino in concerto nel carcere di Poggioreale di Elena Scarici Corriere del Mezzogiorno, 21 settembre 2024 Concerto per i detenuti del cantautore napoletano e fuori programma romantico con la proposta di matrimonio di uno psicologo che lavora nel penitenziario come volontario. Dichiarazione d’amore in carcere. È successo stamattina, nel penitenziario di Poggioreale, nel corso del concerto del noto cantautore napoletano Andrea Sannino sulle note di una delle sue canzoni più famose “Abbracciame”. Al termine della manifestazione, in un’atmosfera di grande emozione e commozione, uno dei volontari che opera nella struttura detentiva, lo psicologo Marco, stretto collaboratore del Garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, che ha organizzato il concerto, si è inginocchiato e ha chiesto alla sua compagna Olimpia di sposarlo, tra l’incredulità della fidanzata e la gioia e le lacrime di lei, dei 150 detenuti presenti, degli altri volontari e di tutti i presenti. Un momento bellissimo che ha regalato ulteriore emozione ad una manifestazione già ricca di grande carica sentimentale. Il concerto di Sannino ha riscosso un grande successo confermando anche la grande sensibilità dell’artista napoletano, noto per il suo impegno nel sociale. Il cantante si è esibito per oltre 40 minuti regalando momenti di spensiertezza agli ospiti del penitenziario napoletano, con i suoi brani più famosi da “Pe sempe” a “Te voglio troppo bene”, “Vita mia”. Era presente anche l’attore della fiction “Un posto al sole”, il magistrato tanto amato dal pubblico, Paolo Romano alias Eugenio Nicotera. Prima del concerto, ha portato il suo saluto il direttore della Casa circondariale, Carlo Berdini. Così Samuele Ciambriello, che ha dichiarato: “Ringrazio Andrea Sannino per aver accettato di esibirsi presso la Casa Circondariale di Poggioreale. Non è la prima volta che questo talentuoso e famoso cantante accoglie le mie proposte, esibendosi anche in altri istituti come è successo a Benevento, Secondigliano, Nisida. La musica crea emozioni e socialità oltre ad avere una funzione terapeutica. La carica di energia di chi partecipa ad un concerto, così come ad una partita di calcio o altre attività, ha una funzione terapeutica perché dona momenti di leggerezza e spensieratezza creando un ponte con la realtà esterna”. La musica unisce, anche in carcere, regala emozioni ma crea anche occasioni per riflettere. Al Festival di “Open” proiettato il documentario “Giudizio sospeso” di Filippo di Chio open.online, 21 settembre 2024 La giudice Tomai: “Il carcere per i minorenni? L’extrema ratio”. Nel tardo pomeriggio della prima giornata del Festival di Open a Milano è stato presentato in anteprima il documentario “Giudizio sospeso”, che porta la firma dei giornalisti Alessandra Mancini e Felice Florio. Un viaggio nel mondo di quei giovani che si sono trovati a dover fare i conti con la giustizia prima dei diciotto anni. E che ora stanno compiendo un cammino di reintegro nella società. Perché “non esistono ragazzi cattivi”, come recita il motto della comunità per adolescenti Kayros, fondata alle porte di Milano da don Claudio Burgio. Il cappellano del carcere minorile Beccaria è stato protagonista insieme a Gabriella Tomai, presidente del Tribunale per i Minorenni di Bologna, di un confronto con i due autori del documentario. “La giustizia non può prescindere dalla persona”, ha aperto così il suo intervento Tomai. La persona al centro del processo - “Questi ragazzi sono i nostri ragazzi. Il reato, che per noi è un fatto negativo, può essere l’opportunità di ricominciare”. La presidente del tribunale minorile di Bologna si è poi soffermata sul sistema giuridico minorile, che a suo parere è già un buon esempio nel suo essere imputato-centrico. “Il minore è al centro del processo, con il suo diritto principale: avere una possibilità di felicità. Hanno bisogno che gli si restituisca la fiducia nella possibilità di essere felici. Noi siamo abituati a dire chi ha ragione e chi ha torto. Ma dobbiamo avere a cuore ill minore tanto quanto la vittima. Dobbiamo stare dalla parte di tutti, sospendere il giudizio”. Don Claudio Burgio porta invece la sua esperienza delle ultime settimane nel carcere Beccaria. Giorni in cui il cappellano ha spesso parlato con Riccardo, il 17enne di Paderno Dugnano che a fine agosto ha ucciso i genitori e il fratellino. “Avevo di fronte un ragazzo di buona famiglia, che non c’entra nulla con l’immaginario del carcere”, questa la descrizione del giovane. “Eppure ha commesso reato gravissimo. E non capisce nemmeno lui il perché di un’azione così tremenda, non si capacita. Ma è lucido e ne comprende le conseguenze. Ha chiesto aiuto, ha chiesto cura”. Ma guardare i giovani non deve significare “assolvere, giustificare o minimizzare la gravità”. Secondo Burgio, però, il problema è che “il carcere è violento per sua stessa natura. Il ragazzo dentro al carcere non capisce che quello è un luogo rieducativo”. E così viene meno lo scopo dell’istituto penitenziario. Problemi strutturali e identitari - Per i minori, però, ci sono vari dispositivi alternativi. La detenzione domiciliare così come il collocamento in comunità. “L’istituto penale per i minorenni deve essere l’extrema ratio”, sostiene la magistrata Gabriella Tomai. “Deve essere l’ultima misura da applicare, proprio quando non se ne può fare a meno. La detenzione carceraria non fa bene al minore, ed è molto più difficile così gestire percorsi di risocializzazione. Quando il minore ha finito di espiare a sua pena, deve essere un cittadino più consapevole di prima”. Ma ci sono numerose criticità a livello sistemico. Il sovraffollamento (secondo il Ministero della Giustizia sono 531 i detenuti minorenni a fronte di 496 posti disponibili), la penuria di risorse, la mancanza di personale. Ma nei ragazzi, spiega don Burgio, ciò che più spesso si riscontra è una vera e propria crisi identitaria. “I ragazzi son analfabeti dal punto di vista emotivo e sentimentale. Appaiono molto frammentati dentro, non sanno chi sono, non hanno idea del futuro. La parola “paura” li inquieta, è quasi impronunciabile. E quindi vivono nel presente, schiacciati da una vita che li costringe al consumo, pur di esistere. Il reato è la conseguenza estrema di una vita che non ha senso, è solo la punta dell’iceberg”. Se poi si sentono criminalizzati, “è ancora più difficile che escano da quello sguardo”. E qui si annida una seconda problematica. La crisi identitaria deriva dalla frattura tra mondo adulto e mondo giovanile. “Se io non mi sento guardato, se il mondo adulto da me vuole solo risultati… io “non ci sto dentro”, così dicono loro. E a un certo punto sconfino. Ma ha tutto radice nella questione identitaria: chi sono io?”, spiega il cappellano del carcere Beccaria. “Non siamo ancora entrati con loro nel mistero profondo della vita, che è domanda che esige risposta. Ci siamo limitati a dire loro che sarebbe andato tutto bene. Oggi l’adulto non è più contestato come una volta, ma è diventato irrilevante. Non mi dà il senso e il significato del vivere e del morire”. A queste parole fa eco la magistrata Tomai: “Per educare un bambino ci vuole un villaggio. Forse è arrivato il momento di farsi delle domande sul villaggio. I ragazzi respirano un’aria, la nostra, che è un’aria di scarsa relazione positiva”. Per un futuro migliore, per educare i nostri figli - chiosa Gabriella Tomai - “abbiamo bisogno di mani, abbiamo bisogno di cuori”. Il documentario “Giudizio sospeso” - Tre ragazzi. Nomi, origini, storie diverse. Tutti e tre incamminati sulla stessa strada: un lungo percorso rieducativo per comprendere a fondo gli errori commessi. Carcere o vita in comunità, Napoli o periferia di Milano. Giovani che percepiscono un vuoto dietro di loro, che si sentono abbandonati dagli adulti, non ascoltati, distanti. Lo sguardo è sempre rivolto in avanti, al futuro. Perché la loro vita è sempre e comunque alle sue battute iniziali. Ma quel futuro non sempre significa andare avanti. A volte, come racconta Endryw, significa “fare un passo indietro, tendere la mano e dire “mi dispiace”. Perché il reato è solo una parte del ragazzo, un fatto che c’è ma dentro il quale non si può limitare la persona. “Bisogna sempre guardare il ragazzo non solo per quello che è stato o è, ma anche per quello che può diventare”, è una frase che spesso - in varie forme - torna nelle parole di don Claudio Burgio. Forse cadranno ancora, neanche loro possono saperlo fino in fondo. Ma nei loro occhi rimangono la speranza, la paura, i sogni di tutti i giovani. Il desiderio di una libertà persa, e che solo ora capiscono che sapore ha. Ed è per questo che chiedono, a chi li guarda da fuori, di fare un semplice gesto. Epoché, sospendere il giudizio. E guardare. “Una maschera color del cielo”, il romanzo di un detenuto palestinese all’ergastolo di Elena Rosselli Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2024 Il testo di Bassem Khandaqji, tradotto da Barbara Teresi per E/O, ha vinto l’International Prize for Arabic Fiction, il più prestigioso riconoscimento per la letteratura di lingua araba. L’autore è in carcere dal 2004, ma ha già pubblicato poesie, romanzi e articoli. La letteratura palestinese contemporanea è viva e, in tempi non biblici, per una volta, arriva fino a noi, in italiano. Grazie alla casa editrice E/O e alla traduzione di Barbara Teresi, dal 25 settembre, sarà disponile in libreria, “Una maschera color del cielo”, il romanzo di Bassem Khandaqji, che ha vinto l’International Prize for Arabic Fiction, il più prestigioso riconoscimento per la letteratura di lingua araba, ottenendo anche un premio di 50mila dollari per agevolarne la traduzione in inglese. Il premio in denaro, oltre all’importanza della nomina prima e della vittoria poi, ha scatenato molte polemiche sulla stampa israeliana perché Bassem non è un autore qualsiasi, ma un prigioniero palestinese - nato nel 1983 a Nablus, nella Cisgiordania occupata - da 20 anni nelle carceri israeliane, condannato a tre ergastoli nel 2005 per l’attentato del 1° novembre 2004 al Carmel Market di Tel Aviv, in cui morirono 3 persone e 50 rimasero ferite a seguito di un attentato suicida compiuto da un 16enne. Il collegamento fra l’attentatore e Bassem? Secondo l’Idf, Bassem, che all’epoca era uno studente universitario, avrebbe agevolato l’ingresso dell’attentatore suicida a Tel Aviv, utilizzando il suo tesserino da giornalista rilasciato dall’Università A-Najah di Nablus. Secondo la stampa araba, ma soprattutto secondo il Human Rights Council dell’Onu (qui il documento integrale), Bassem è stato processato “in modo improprio” da un tribunale militare con una pesantissima accusa di terrorismo - ricevuta dopo il più classico degli iter: prima l’arresto senza mandato nel cuore della notte, poi la tortura, infine la confessione estorta in assenza di un avvocato e l’isolamento - a causa delle sue opinioni politiche. Nel 2004, infatti, siamo nel pieno della Seconda Intifada e per uno studente ventenne, che a 15 anni si era unito alle file dell’allora Partito comunista del Popolo palestinese, la lotta per la sopravvivenza del proprio popolo è pane quotidiano. Sono gli anni in cui Ariel Sharon, un militare, anzi un generale, è il premier israeliano, gli anni in cui lanciare una pietra contro un blindato è già diventato un reato punibile con la prigione. Del resto, se dopo 20 anni passati in varie carceri israeliane, Bassem trova ancora la forza e il coraggio di scrivere romanzi (questo tradotto in italiano non è il primo, ndr), poesie e articoli, in cui denuncia “il fascismo della sorveglianza del mio popolo nella Cisgiordania”, nonostante le punizioni che comporta la fuoriuscita di qualsiasi materiale, anche letterario, oltre le mura carcerarie, si può pensare che il suo spirito combattivo, allora come oggi, sia rimasto indomito. Questa forza d’animo prorompe da ogni pagina di “Una maschera color del cielo”: il protagonista, Nur, è un palestinese, nato in un campo profughi vicino a Ramallah in Cisgiordania. Ricercatore in storia e archeologia, è anche uno dei tanti lavoratori che ha bisogno di un permesso del governo israeliano per trovare un umile impiego “nel cuore dell’entità sionista”. In queste vesti dibatte con se stesso, in perenne conflitto sul suo ruolo in una società modellata dall’occupazione. Il suo migliore amico, Murad, in carcere con una condanna all’ergastolo, rappresenta non solo l’alter ego politico dell’autore, ma anche il grillo parlante che spinge Nur a chiedersi continuamente: “Che importanza può avere l’archeologia per chi vive in un campo profughi?!”. Basta però guardare l’homepage di un giornale progressista come Haaretz per rendersi conto dello spazio riservato a questa disciplina - subito sotto le ultime su guerra e politica - perché è tramite la sua deformazione, che le città hanno cambiato nome e così l’intero Paese: là dove un israeliano vede la traccia di ciò che c’è scritto nella Torah e con essa una legittimazione di se stesso in quel preciso luogo (nel libro è l’episodio della tomba di Sansone, nuovo nome per ciò che resta , in realtà, della cittadina palestinese di Saraa, distrutta per far posto al kibbutz Tzora, ndr), un palestinese ricorda ciò che c’era prima. Prima del 1948, prima della Nakba. Prima che la Palestina smettesse d’esistere nella sua interezza. Il punto di svolta arriva quando Nur scopre che può usare il suo bell’aspetto, gli occhi azzurri, la pelle chiara, i capelli biondo scuro per diventare “l’ashkenazita”. Ecco la prima ‘maschera’, i suoi stessi lineamenti. Ma è quando compra una giacca di pelle in un negozio dell’usato, che la maschera diventa una seconda pelle, non più distinguibile dalla prima. Dentro la tasca interna, infatti, Nur trova “una carta d’identità sio­nista di colore azzurro, in perfetto stato”, dimenticata dal proprietario: Ur Shapira, residente a Tel Aviv. Da quel momento in poi, il protagonista riuscirà a farsi assumere nella tana del lupo, in uno scavo nei pressi dell’insediamento a Mishmar HaEmek, frequenterà colleghi “bianco-blu”, entrando sempre più a fondo nella mentalità dell’occupante per “avere contezza dei tuoi diritti, quelli che ti sei inventato su questa terra. - dice Nur rivolto a Ur in un dialogo interiore - Il tuo diritto di esistere. Il diritto alla libertà. Al movimento. All’insediamento. All’occupazione. Alla detenzione. All’assassinio. Il tuo diritto di sfollarmi, confiscare i miei beni, scacciarmi, escludermi ed emarginarmi. Voglio imparare tutti i nomi sionisti per poterti fronteggiare”. “Bassem è stato messo in isolamento quando si è saputo che poteva vincere il Premio - mi spiega Barbara Teresi, arabista e traduttrice del libro - Lo hanno ritirato il fratello Youssef e l’editrice libanese che nel 2023 ha pubblicato il volume, Rana Idriss. A curare l’edizione per Dar Al-Adab - la stessa casa editrice che ha dato alle stampe anche un altro libro scritto da un detenuto palestinese, Il racconto di un muro di Nasser Abu Srour, tradotto per Feltrinelli da Elisabetta Bartuli) - sono stati proprio Youssef e la sorella Amneh, una giornalista televisiva che conduce su Al-Jazeera un programma satirico”. Khandaqji ha iniziato a comporre “Una maschera color del cielo” tra il maggio e il novembre del 2021, per poi essere pubblicato in Libano nel 2023. E come esce una lettera, un libro, un contenuto scritto da una prigione israeliana? Ce lo dice Bassem stesso, quando scrive di “parole nascoste tra le righe, scritte a matita con tratto molto leggero e una grafia minuscola”. In questi giorni in cui una guerra tra Israele e Libano sembra sempre più probabile, Gaza è distrutta e la sua terra gronda sangue, la Cisgiordania occupata è teatro quotidiano di violenza, espropri e umiliazioni, la voce di Bassem, insieme a quella degli altri 9900 prigionieri politici, che si trovano attualmente detenuti delle carceri israeliane, porta un messaggio oltre le sbarre e i confini: “L’archeologia è politica, gli israeliani hanno trasformato la Torah in una guida turistica archeologica, o no?”, ma la Palestina è lì, è la pelle dietro la maschera, è l’identità di una nazione e di un popolo che non ha nessuna intenzione di arrendersi. Boom di firme per il referendum sulla cittadinanza di Igor Traboni Avvenire, 21 settembre 2024 Tremila firme all’ora, tanto che il sito è andato in tilt nella notte tra giovedì 19 e venerdì 20 settembre, con il raggiungimento di 100mila sottoscrizioni: prosegue a gonfie vele la raccolta delle firme per il referendum sulla cittadinanza e “solo nelle ultime 24 ore - si legge in un post diffuso sui social da +Europa - sono arrivate oltre 35mila firme. È il segno che ce la possiamo fare a raccoglierne 500mila entro il 30 settembre. Dipende da ciascuna e ciascuno di noi: diciamolo a tutte e tutti, condividiamo, parliamone ovunque. Perché firma dopo firma dimostriamo che un’Italia più giusta esiste”. Nello specifico del boom tale da mandare in tilt la piattaforma pubblica del governo, entra invece Riccardo Magi, segretario di +Europa: “Con l’adesione di oltre 30 sindaci, di tante personalità del mondo della cultura, dello sport e dello spettacolo come il professor Alessandro Barbero, il ct della nazionale femminile di Pallavolo Julio Velasco, la cantante Levante, il regista Matteo Garrone, l’attore Andrea Pennacchi, nelle ultime ore c’è stata una impennata di firme al ritmo di 3mila firme all’ora. Nella tarda serata (di giovedì 19 settembre, ndr) e per tutta la notte successiva la piattaforma pubblica del governo è però rimasto oscurato, impedendo a migliaia e migliaia di persone di sottoscrivere il referendum. L’obiettivo è difficile ma è a portata di mano per una riforma della legge sulla cittadinanza che farebbe fare un passo avanti al nostro Paese. Serve uno sforzo ulteriore da parte di tutti per raggiungere questo risultato”. Martedì prossimo, intanto, ci sarà alla Camera il voto sulla mozione Pd sul tema della riforma della cittadinanza. Una mozione dei deputati Ouidad Bakkali, Mauro Berruto e altri presentata, come rimarca Bakkali, “ben prima che si aprisse il dibattito estivo sul tema della cittadinanza. È una mozione che rappresenta la nostra idea di riforma: ampia, avanzata, organica e che quindi non si ferma alla polarizzazione tra gli ius soli, ius scholae e naturalizzazione ma che tiene insieme tutti gli ius”. E proprio su questi ultimi aspetti interviene il governatore del Veneto, Luca Zaia: “Se gli oriundi italiani sono intenzionati solo a sfruttare lo ius sanguinis per portarsi a casa il nostro passaporto e la nostra cittadinanza, che non è una cittadinanza qualunque, non sono d’accordo nel concedergliela così tanto facilmente. E lo dice uno il cui nonno era nato in Brasile. Se invece uno sceglie di essere davvero un cittadino italiano - aggiunge Zaia - imparando la nostra lingua, conoscendo il nostro Paese e magari avendo anche intenzione di venire ad abitare qui, allora, in questo caso, e con questi requisiti minimi, non avrei nulla da obiettare”. Tornando al referendum, la firma è stata apposta anche da Laura Boldrini. deputata Pd e presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo, che così motiva la sua decisione: “Ho firmato perché le bambine e i bambini che nascono o crescono nel nostro Paese, frequentano le nostre scuole, vivono insieme a noi, sono italiani tanto quanto le nostre figlie e i nostri figli. Bisogna cambiare la legge del 1992, il mondo nel frattempo è cambiato e anche il nostro Paese. Ma in Parlamento la maggioranza si rifiuta di prendere atto della realtà e di assumersi le proprie responsabilità. Per questo c’è bisogno di una mobilitazione”. Così l’Italia trasferirà i migranti soccorsi nei centri in Albania di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 settembre 2024 Le procedure operative del protocollo Una “nave hub” in attesa a sud-ovest di Lampedusa con i mezzi militari a fare la spola. Tre round di selezioni, poi le sbarre. Ma il trattenimento sul mezzo navale privato potrebbe violare l’articolo 13 della Costituzione. Intanto nuova decisione del tribunale di Catania: il Bangladesh non è un paese sicuro. Una “nave hub” dalla quale i mezzi delle autorità italiane faranno la spola fino alla partenza verso il porto albanese di Shengjin. Lì lo sbarco dei migranti destinati alla detenzione nei centri in Albania, dopo tre round di selezioni. Per capire come dovrebbe funzionare concretamente la delocalizzazione dei richiedenti asilo mancavano due tasselli: quello iniziale, il trasferimento dalle acque internazionali, e quello finale, gli eventuali rimpatri. Oggi possiamo rivelare il primo. Qualche indiscrezione è venuta fuori in un recente articolo di Panorama ma il diavolo, come spesso accade in questi casi, è nei dettagli. Sono contenuti in due delle Standard operating procedures (Sop - Procedure operative standard) preparate dal governo per regolare gli spostamenti navali e i metodi di selezione dei migranti “eleggibili” per i centri. Andrà così: nel piccolo fazzoletto di mare fuori dalle acque territoriali ma dentro la zona di Ricerca e soccorso (Sar) italiana che si trova sotto Lampedusa stazionerà, generalmente a sud-ovest dell’isola, la “nave hub”. Un mezzo privato per cui a fine maggio sul sito della polizia di stato è apparsa una “consultazione preliminare di mercato” per il noleggio: il contratto sarebbe stato siglato, ma non si trova tra i documenti ufficiali pubblicati nella pagina. Dopo che guardia costiera o marina faranno i soccorsi, compresi quelli catalogati sotto l’ambigua definizione di “operazioni di polizia” in mare, personale addetto realizzerà sui loro mezzi una valutazione preliminare delle vulnerabilità evidenti: anziani, minori, donne o persone con gravi problemi di salute andranno a Lampedusa. Insieme a chi dovesse avere in tasca il passaporto, motivo di esclusione dal trattenimento durante l’iter accelerato per l’asilo. Non prima, però, che tutti gli altri siano imbarcati sulla “nave hub”. Sarà interessante verificare quali mezzi metterà in campo la guardia costiera: le motovedette, soprattutto nei grandi soccorsi, rischiano di essere poco adatte alle operazioni di screening. Ben più capienti sono invece i pattugliatori d’altura, come la Diciotti o la Gregoretti. Sulla nave privata le persone “eleggibili” per l’Albania riceveranno assistenza sanitaria e saranno sottoposte a una nuova selezione per identificare le nazionalità. Solo i richiedenti asilo dei “paesi sicuri”, ovvero i 22 Stati elencati nel decreto del ministero degli Esteri, possono entrare nelle procedure accelerate di frontiera previste oltre Adriatico. A bordo ci sarà quindi una pre-identificazione, guidata da un ufficiale di polizia, con la rilevazione dei dati anagrafici e biometrici. Chi non è originario di un paese sicuro sarà portato in Italia “senza ritardi”, per gli altri inizierà la navigazione verso Shengjin. Allo sbarco è previsto un nuovo round sanitario e informativo, con la formalizzazione della richiesta d’asilo attraverso il modulo C3 e l’inserimento nel database nazionale Vestanet. Emergessero nuove vulnerabilità, quelle persone sarebbero reimbarcate sulla nave hub che attenderà in rada fino a 12 ore. Chi resta a terra va a Gjader: nel centro di trattenimento se ha chiesto asilo, verosimilmente la maggioranza delle persone, o nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr), in caso contrario. Da capire in quale passaggio sarà accertato se qualcuno ha violato il divieto di reingresso sul territorio nazionale per un precedente decreto di espulsione, reato che prevede da uno a quattro anni. Dovesse avvenire al di là del mare potrebbero aprirsi le porte del piccolo penitenziario, terza struttura realizzata nell’ex base militare di Gjader. Sulla nave hub e nell’hotspot sarà sicuramente presente l’Unhcr, è probabile ci sia anche l’Oim. Il Viminale è in trattativa. Le tempistiche della permanenza a bordo del mezzo usato per il trasferimento non sono definite chiaramente e potrebbero essere oggetto di contenzioso. “Il trattenimento che verrà consumato nella nave hub probabilmente si protrarrà per più giorni, tra organizzazione logistica dei soccorsi e trasferimento in Albania - spiega l’avvocato Salvatore Fachile - In ogni caso andrà considerato a tutti gli effetti una privazione della libertà personale, secondo l’orientamento costante della Corte costituzionale, da ultimo ribadito con una sentenza del 2022”. Significa che entro 48 ore serve la convalida dell’autorità giudiziaria, come prevede la Costituzione, pena l’illegittimità. Un ulteriore ostacolo giuridico sulla strada dell’Albania, oltre alle decisioni dei tribunali di Palermo e Catania. Quest’ultimo ieri non ha convalidato il trattenimento di un cittadino del Bangladesh. Dopo le analoghe sentenze su Egitto e Tunisia, i giudici etnei hanno nuovamente disapplicato il “decreto paesi sicuri”: neanche il paese asiatico può essere considerato tale ai sensi della legge. Lo dimostrano le stesse informazioni fornite dal ministero degli Esteri italiano. Processo Open Arms, chiesto un risarcimento di oltre 1 milione di euro a Salvini di Eleonora Camilli La Stampa, 21 settembre 2024 Oltre ad alcuni dei migranti tenuti a bordo della nave per 19 giorni in quell’agosto del 2019, si sono costituite civilmente anche diverse organizzazioni della società civile. Oltre un milione di euro di risarcimento danni. È la richiesta avanzata oggi dagli avvocati dei soggetti che si sono costituiti parte civile nel processo che vede imputato il ministro Matteo Salvini per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio, nel caso della nave Open Arms. Oltre ad alcuni dei migranti tenuti a bordo della nave per 19 giorni in quell’agosto del 2019, si sono costituite civilmente anche diverse organizzazioni della società civile tra cui Arci, Mediterranean saving humans ed Emergency. “Tutti si sono riportati alle richieste che la Procura ha fatto in modo molto argomentato sia sulla ricostruzione dei fatti, sia sulle disposizioni giuridiche che sono state violate dell’imputato”, spiega l’avvocato di Open Arms, Arturo Salerni. “Noi confidiamo sulla pronuncia del Tribunale, riteniamo che ci siano tutte le condizioni per affermare la responsabilità penale dell’allora ministro dell’Interno”. In aula oggi a Palermo c’era anche Moussa. Non aveva neanche 16 anni quando fu salvato in mare dalla Open Arms e poi costretto a quello stallo forzato per decisione del leader della Lega nonostante fosse minorenne. Oggi ha 20 anni ed è uno dei pochissimi migranti ancora in Italia. “È rimasto traumatizzato per quello che ha vissuto, ricorda con dolore il periodo di restrizione sulla nave e la paura di essere riportato in Libia. Paese da cui era scappato dopo essere stato torturato in ogni modo. È tutto documentato”, spiega l’avvocata del ragazzo Silvia Romano. Originario del Gambia, Moussa ha perso lo zio con cui era partito durante il viaggio. Poco più che ragazzino ha dovuto affrontare da solo l’orrore dei centri di detenzione libici. E poi quei lunghi giorni sulla nave spagnola. “Abbiamo chiesto che l’imputato sia condannato e che sia risarcito il danno che ha provocato a Moussa, a cui ha aggravato le sofferenze”. Tra le parti civili ci sono anche altri dieci migranti che erano a bordo di Open Arms. Ma nessuno di loro è voluto tornare neanche per testimoniare. “In Italia non metterò mai più piede, ho ancora troppa paura”, ha ripetuto alla sua legale Silvia Calderoni, uno degli ex naufraghi che ora vive a Caen, in Normandia. Qui ha trovato lavoro in edilizia e ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato. Da poco è riuscito anche a far arrivare dalla Nigeria la moglie e le due figlie. Per questo non vuole sentir parlare più del nostro paese. Inutili i tentativi per convincerlo a presenziare al processo Salvini. “I miei assistiti sono ancora molto traumatizzati per quello che è successo, il fatto che nessuno di loro sia rimasto in Italia e non voglia più tornarci è indicativo. Il procedimento era un atto dovuto ma non potrà mai essere una riparazione - aggiunge la legale -. Non dimentichiamo che alcune norme che ostacolano il soccorso in mare sono ancora in vigore e che le persone continuano a morire nel Mediterraneo”. In tutto i naufraghi soccorsi dalla ong spagnola, a cui fu negato lo sbarco, furono 147, tra loro anche donne e bambini. E anche se il ministro continua a chiamarli “clandestini” a molti di loro è stata riconosciuta una protezione internazionale in altri paesi europei. La maggior parte vive in Francia e Germania. Droghe. La cannabis light può essere considerata uno stupefacente? di Emilio Minervini Il Dubbio, 21 settembre 2024 Il recente dibattito politico legato all’introduzione nel ddl sicurezza dell’emendamento che vieterebbe la produzione e commercializzazione della cannabis light ha riportato al centro della discussione una domanda: la cannabis light può essere considerata una sostanza stupefacente? Proposto e ispirato dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, l’emendamento 13.06 è stato inserito nel provvedimento, soggetto al voto delle aule in questi giorni. Al suo interno si rilevano forti restrizioni alla produzione e commercializzazione della Cannabis Light e i prodotti da essa derivati. Inoltre, con il decreto 27 giugno 2024 il Ministero della salute ha inserito il CBD tra le sostanze stupefacenti inserite nella Tabella dei medicinali, Sezione B, allegata al DPR 309/ 90, ponendo così i prodotti che lo contengono sotto regime di ricetta medica non ripetibile e limitandone fortemente la vendita nel mercato italiano e comunitario. Questo ha provocato la reazione dell’opposizione che promette battaglia in ogni sede per bloccare l’iniziativa legislativa. “L’opposizione faccia l’opposizione e si opponga pure, noi manterremo saldo il punto”, ha dichiarato il Senatore Maurizio Gasparri, “ritengo sia giusto continuare sul solco dell’iniziativa promossa da Mantovano anche perché sovente in questi luoghi (cannabis shop) circolano sostanze che superano di molto i limiti di legge”. A seguito delle critiche mosse all’emendamento dai partiti politici e dalle associazioni di settore, lo scorso 10 settembre è stata pubblicata una nota di chiarimento del Dipartimento per le politiche antidroga. L’inserimento nel ddl sicurezza sarebbe finalizzato a tutelare l’ordine pubblico da comportamenti che derivino dall’assunzione a scopo ricreativo di Cannabis light, senza ripercussioni, secondo quanto dichiarato nella nota, sulla filiera agroindustriale legata alla produzione di canapa. “Le imprese coinvolte nel settore della Cannabis Light sono tra le 1000 e le 1500 mentre i lavoratori che verrebbero colpiti dagli effetti dispiegati dall’emendamento sono circa 13000 di cui la maggior parte giovani. Il settore ha avuto uno sviluppo vertiginoso negli ultimi anni anche grazie ai finanziamenti derivati da fondi regionali, statali e comunitari”, afferma Riccardo Magi, segretario di + Europa e promotore nel 2021 del referendum sulla cannabis, “l’intenzione è porre al di fuori dei limiti della legge un settore che si è sviluppato facendo affidamento su di essa. La legge, per come è proposta, è assurda oltre che in contrasto con il diritto europeo. Andrà a schiantarsi nei tribunali e il governo perderà tutti i ricorsi. Nel frattempo però si perderanno l’indotto generato dal settore e migliaia di posti di lavoro. La nota del Dipartimento per le politiche antidroga esplicita la difficoltà in cui versa il governo. Il divieto di produzione e commercializzazione comprende intrinsecamente tutti quelli che la coltivano, non potendosi separare la pianta dalla sua infiorescenza. Delle due l’una: o il governo è in malafede o finge di non capire cosa dice la legge. Inoltre nonostante l’emendamento sia attinente al settore dell’agricoltura è stato inserito nel d. d. l. Sicurezza aggiungendo la parte di tutela dell’ordine pubblico rispetto ai comportamenti derivanti dall’assunzione di CBD”. I fatti, per il momento, sembrano dare ragione al segretario di + Europa. Il TAR del Lazio ha accolto, con sentenza del 11 settembre 2024, il ricorso dell’ICI (Imprenditori Canapa Italia) sospendendo così il decreto del Ministero della Salute del 27 giugno e fissando una nuova udienza per il 16 dicembre. Non è la prima volta che i giudici amministrativi si pronunciano in materia. Un primo ricorso, presentato anche in quell’occasione dall’ICI nei confronti di un decreto dalle caratteristiche molto simili a quello odierno, venne accolto a ottobre 2023. A meno di un decennio dalla sua legalizzazione, la cannabis light, nonostante le decisioni del tribunale amministrativo, rischia di essere nuovamente bandita. La legge 242/ 2016, in deroga al Testo Unico sulle Droghe, rese legale la coltivazione di Cannabis Light e permise la commercializzazione di prodotti contenenti CBD (Cannabidiolo) da essa derivati, sulla base di specifiche condizioni, quali l’iscrizione delle piante di canapa utilizzate in un apposito registro e la concentrazione di principio attivo THC (Tetraidrocannabidiolo) al di sotto della soglia dello 0,5%. Presupposto fondamentale è che la cannabis light rispetto a quella ‘normale’ ha concentrazioni di THC trascurabili”, spiega Francesco Busardò Professore di Medicina legale e tossicologia forense, “nella stessa sono presenti numerosi principi attivi come il Cannabidiolo privo di effetti psicoattivi o psicostimolanti e non sovrapponibile ad altre sostanze stupefacenti. Numerosi studi dimostrano gli effetti miorilassanti del CBD, ad esempio nel trattamento dei dolori cronici. In ambito ricreazionale vale la regola che la dose fa il veleno. Essendo un principio attivo dose- dipendente esso dispiega i suoi effetti distensivi e rilassanti in base alla quantità assunta, e può avere effetti collaterali quali vomito o ipotensione, con una certa variabilità interpersonale, ossia la differenza di effetti da persona a persona. Di certo il soggetto assuntore è capace di intendere e volere e l’assunzione di CBD non induce comportamenti bizzarri o violenti”. A seguito dell’intervento legislativo, il settore conobbe un rapido sviluppo sia in ambito farmaceutico che ricreativo. Dal 2016 infatti sugli scaffali delle farmacie si è vista una fioritura di prodotti quali oli essenze, gocce e tisane a base di CBD, allo stesso modo nelle vie della città sono germogliate migliaia di attività commerciali che vendono prodotti simili a scopo ricreativo. Produttori e commercianti restano ora con il fiato sospeso, chiedendosi cosa riserverà loro il futuro delineato dal disegno normativo odierno, e guardando ad un passato piuttosto recente su cui hanno fatto affidamento per investire importanti somme in un’attività che potrebbe a breve trovarsi al di fuori dell’alveo della legge. Le guerre finiscono, tutte. E chi dice “pace” la costruisce di Erri de Luca Avvenire, 21 settembre 2024 Il richiamo da Assisi. L’Europa è stato il continente più bellicoso della storia umana. Dalla metà del 1900 improvvisamente è stato il più pacifico. È passato dalla quasi completa distruzione dopo la Seconda guerra mondiale, alla prosperità grazie alla cessazione delle ostilità tra gli Stati membri dell’Unione. Diverse generazioni, a cominciare dalla mia, sono nate e cresciute in un’area al riparo dalle guerre. È stata la normalità che non ha avuto bisogno di chiamare con la parola pace. Questa parola, pace, è affiorata alle labbra, ai gridi, alla scrittura al momento del ritorno in Europa, ai confini dell’Unione Europea, della parola guerra. C’era già stato conflitto con lo smembramento armato della Federazione Jugoslava negli anni Novanta. Poi il Kosovo e i bombardamenti della Nato su Belgrado avevano sigillato il 1900, secolo di guerre mondiali. Erano però scontri regionali che non compromettevano la tranquillità del continente che continuava a prosperare illeso. L’invasione russa dell’Ucraina ha riportato l’Europa al suo passato, al 1900 delle battaglie dentro le città sventrate e svuotate, dei profughi a milioni. La parola guerra esige l’esclusiva. Quando è in azione, ogni altra si riduce a bisbiglio. Deve fare il suo corso fino a esaurimento delle possibilità, prima di finire. Perché le guerre finiscono, tutte. Mi sono infilato in queste macerie europee come autista di convogli umanitari, dalla Bosnia degli anni Novanta in poi. Questi soccorsi alle popolazioni, questi gesti di pace producevano il prodigio di sospendere la guerra per la breve durata dell’intervento. La sospensione smentiva la guerra, toglieva l’esclusiva alle armi. Quei gesti di pace introducevano l’intermittenza di un singhiozzo in mezzo alle rovine. Creavano un non dichiarato “cessate il fuoco” di una distribuzione di viveri in un campo profughi. Un solo ricordo: i ciliegi di maggio intorno a Mostar, carichi di frutti impossibili da cogliere a causa delle mine seminate nei campi. I bambini più agili e magri sfidavano con il loro peso minimo le spolette esplosive nascoste sotto i loro piedi scalzi. Poi vendevano quelle ciliegie. Quello era il loro gesto di pace. Incrociava il nostro di passaggio. Entrambi comportavano rischi. La pace è parola bisognosa di opere. Non sta nelle diplomazie, nei tavoli delle opposte ragioni. Sta nelle continue piccole interruzioni delle ostilità, nelle sette opere di misericordia della fraternità. Fanno da singhiozzo che interrompe il respiro della guerra, con la volontà opposta che sa di prevalere. Perché le guerre finiscono, tutte. Lontano dai campi di battaglia, in terra umbra, intorno alla francescana Assisi, persone di buona volontà battono con i passi di una marcia e con le labbra le due sillabe della parola pace. È la diretta discendente, la legittima erede della parola guerra. Il nome Salomone/ Shlomo è composto sulla parola pace dell’Ebraico. Shlomo è l’erede al trono, figlio di David, re di innumerevoli battaglie. Quando David decide di costruire in Gerusalemme il tempio per la divinità, non gli è permesso, perché è stato uomo di guerra. Lo potrà erigere suo figlio, Shlomo, pace. A lui spetta l’opera che edifica dopo le distruzioni. Chi in tempo di guerra ribatte a oltranza le due sillabe della parola pace, la costruirà, come un edificio. Taiwan mantiene la pena di morte, ma ne limita l’uso a casi “eccezionali” di Yan Zhao Internazionale, 21 settembre 2024 Il 20 settembre la corte costituzionale di Taiwan ha deciso di mantenere la pena capitale nel codice penale, ma ha stabilito che la sua applicazione deve essere “limitata a circostanze speciali ed eccezionali” e ai crimini più gravi e premeditati, che abbiano provocato la morte di qualcuno. A Taiwan sono state eseguite 35 condanne alla pena di morte, da quando è stata revocata la moratoria sulla pena capitale nel 2010. L’ultima esecuzione, avvenuta nell’aprile 2020, ha riguardato un uomo di 53 anni condannato per aver appiccato un incendio che ha ucciso la sua famiglia. Gli attivisti contro la pena di morte sostengono che questa pratica, eseguita sparando al cuore di un detenuto mentre giace a faccia in giù per terra, è un metodo disumano. Il ricorso è stato presentato dai 37 detenuti attualmente nel braccio della morte di Taiwan di fronte alla corte costituzionale, che ha deciso di mantenere la pena di morte nel codice penale. “Tuttavia, la pena di morte è una pena capitale dopo tutto, e il suo ambito di applicazione dovrebbe essere ancora limitato a circostanze speciali ed eccezionali”, ha detto il giudice capo Hsu Tzong-li durante la lunga lettura della sentenza della corte. In una dichiarazione, il tribunale ha poi affermato che, sebbene il diritto alla vita sia protetto dalla costituzione, “questa protezione non è assoluta”. “La corte costituzionale di Taiwan ha sottolineato che, poiché la pena di morte è la punizione più severa e di natura irreversibile, la sua applicazione e le garanzie procedurali (dalle indagini all’esecuzione) devono essere sottoposte a un esame rigoroso”, ha dichiarato riferendosi in particolare ai casi di omicidio. Tuttavia “la sentenza non ha affrontato la questione della costituzionalità della pena di morte in generale o per altri reati” che non siano gli omicidi, come il tradimento o i reati legati alla droga. La corte ha anche stabilito che la condanna a morte deve essere “proibita” per “imputati con disturbi psichiatrici”.