In cella la vera pena è vivere di Delia Cascino e Titti Vicenti L’Espresso, 20 settembre 2024 Le famiglie di chi si è ucciso chiedono giustizia e accusano lo Stato di aver abbandonato i loro cari. L’Italia è già nel mirino dell’Europa per la mancata tutela di benessere e salute dei reclusi. Una nuvola scura sovrastava solo il muro di cinta e il cortile di Regina Coeli. Era quasi estate”. Cristian ha gli occhi lucidi quando parla di Giulio, suo compagno di cella, che si tolse la vita il 19 giugno 2020. Anni dopo non si dà pace e quel giorno fa fatica a dimenticarlo: ricorda lo sguardo dell’amico alla finestra, mentre si riavvia i capelli, come sua consuetudine prima della videochiamata alla mamma. Cristian lo esorta ad allenarsi per passare il tempo. Giulio rifiuta e quel giorno, a 24 anni, si impicca nel bagno. “Abbiamo cercato immediatamente di sollevarlo. Un assistente in lacrime ne teneva in braccio il corpo, come un padre con il figlio. Giulio un papà non ce l’aveva più: si era ucciso in carcere tempo prima. La mamma stava in Albania”, racconta Cristian. Regina Coeli è uno degli istituti penitenziari con il maggiore tasso di suicidi e sovraffollamento in Italia: ha spazi inadeguati, poco personale, molte emergenze sanitarie. Lo denunciano a più voci l’Uspp (Unione Sindacati Polizia Penitenziaria) e Valentina Calderone con Stefano Anastasìa, Garanti di Roma e del Lazio per le persone private della libertà personale. Il sistema carcere è al collasso ovunque in Italia. Da gennaio i casi di suicidio arrivano quasi a 70. Oltre i numeri ci sono le storie dei familiari. “Matteo, Matteo! In questo breve percorso di vita, si è fatto solo del male. Soffriva di fragilità emotive. L’avevo segnalato al Tribunale per i minorenni pur di salvarlo”. Roberta ripete il nome del figlio, che il 5 gennaio scorso moriva in una cella a Montacuto, casa circondariale vicino ad Ancona. Gli mancavano pochi mesi alla libertà. Il suo è il primo suicidio in carcere del 2024. Roberta si ricompone, asciugando le lacrime, ma avverte un senso di colpa. “Se mi portano di nuovo in isolamento, mi ammazzo”, diceva Matteo, chiedendole aiuto. A nulla sono valsi i soccorsi. Il giorno della morte, la mamma ha cercato di contattare il direttore del carcere. A Montacuto, però, nessuno le ha risposto. “La punizione fu inflitta dopo le proteste per l’acqua inquinata e il sopravvitto. Lui e i suoi compagni erano abbandonati a sé stessi. Era un lager”, afferma Roberta: “Me l’hanno ucciso”. Matteo Concetti avrebbe compiuto 24 anni a luglio. Bassem Degachi invece era prossimo alla quarantina. La moglie Silvia lo vedeva ogni lunedì al colloquio nel carcere di Venezia e alle volte il pomeriggio, quando Bassem, che era in semilibertà, andava a lavorare in remiera per poi fare ritorno la sera in cella. Nella città lagunare si erano conosciuti e avevano messo su famiglia. “Mio marito voleva uccidersi. Iniziò a dirlo dopo avere ricevuto un’ordinanza di custodia cautelare per un vecchio reato. Ho avvisato invano la portineria del carcere”, spiega Silvia. Le dinamiche sono simili: Bassem e Matteo chiedono aiuto poco prima della morte, manifestando gli intenti suicidari. I familiari provano a contattare le rispettive case circondariali, ma nessuno risponde né al centralino né alle email. Silvia condanna il sistema: “Il carcere dovrebbe dare la possibilità di redimersi. A mio marito hanno dato e tolto la speranza. Gli mancava poco al fine pena”. L’inchiesta sul suicidio di Bassem è archiviata. La famiglia si oppone: “Non conosciamo neppure l’ora della morte”. Adesso Silvia lavora in remiera come il marito e, mentre torna a casa in gondola, parla di lui con nostalgia: “Era allegro e pieno di vita”. Le cause dei suicidi molte volte sono ignote. Gli esperti illustrano tesi divergenti. “L’elemento cruciale è lo stigma dell’essere approdati in carcere”. Lo rivela uno studio a cura di Mauro Palma, ex garante nazionale delle persone detenute. “Le ragioni sono personali. Mai generalizzare “, spiega invece Massimo Clerici, professore di Psichiatria all’Università Bicocca di Milano. Il sistema penitenziario esaspera le fragilità, “a causa di stress e isolamento”. A dirlo è l’Oms (Organizzazione mondiale della Sanità) in un report sulla salute dei detenuti. Andrei fuggiva dall’Ucraina ben prima che scoppiasse la guerra. Aveva scelto Napoli per rifarsi una vita. E morto però a Poggioreale, in carcere, da solo. Olga, la zia, ha visto la salma in foto e aspetta da marzo l’esito dell’autopsia. “Non ho capito se sia stato un incidente o un suicidio “, confida. Lei se ne capacita a stento. Quattro anni fa Ana, la mamma di Andrei, vide il figlio l’ultima volta. Adesso spera di poter piangere “sulla sua tomba nel cimitero di Poggioreale, ma il viaggio in Italia costa tanto”, dice al telefono. Il consolato ucraino annunciò la morte di Andrei ai familiari. Nessuno però conosce la verità. “Quando si verificano tragedie simili, è difficile avere informazioni sulle persone detenute o appurare la natura del decesso. A tale fine occorre un procedimento penale o una consulenza tecnica”, spiega Luna Casarotti dell’associazione Yarahia. Elisabetta Corradino non si rassegna. La tesi che, con veemenza, porta avanti da anni è che suo figlio Giuseppe sia stato ucciso nel carcere di Ravenna. Adesso il tribunale farà luce sul caso. “Nessuno aiutò Giuseppe. Lui soffriva di ansia e diceva di voler morire. Lo psichiatra dell’istituto penitenziario sottostimò il rischio suicidario. L’eventuale assassino, però, non sarebbe solo uno”. Elisabetta ne parla con tono pacato, lento, senza celare disappunto: “Il carcere non è il luogo adatto a ragazzi fragili”. Giuseppe confidava disagi e tormenti alla mamma. Il suo rifugio era la musica. “La vita è dura come queste mura, nella mia anima i segni dell’usura. Non vedo una prospettiva futura”, scriveva in cella, cercando nelle rime una via di fuga al dolore. “Chi fa degli sbagli ha diritto alla vita - afferma Elisabetta - lo Stato, invece, abbandonò mio figlio”. Anche il Consiglio d’Europa giudica “allarmante “ la situazione delle carceri in Italia per il tasso di suicidi e le condizioni dei pazienti psichiatrici. Lo sottolineava in una nota dello scorso giugno, esortando il go verno Meloni a predisporre “ulteriori misure correttive e finanziarie”. Oggi l’Europa osserva “una tendenza negativa”. Anni fa, condannava l’Italia per “trattamenti inumani e degradanti” negli istituti di pena. Da allora quasi nulla è cambiato. Secondo Strasburgo, “la salute e il benessere delle persone detenute vanno assicurati adeguatamente”, ma succede di rado. Alessandro Stomeo di Antigone coglie un nesso tra casi di suicidio, sovraffollamento e mancanza di prospettive, suggerendo un nuovo approccio: “La detenzione va considerata un’extrema ratio. La nostra cultura non contempla il fine rieducativo della pena”. Su 189 istituti, a livello nazionale, i posti ammontano a quota 51mila, di cui molti inagibili. I dati sono della Cgil. L’obiettivo è ridurre il sovraffollamento. A proposito, l’onorevole Roberto Giachetti, assieme a “Nessuno tocchi Caino”, propone una modifica alla legge sulla liberazione anticipata: “Vorremmo un passaggio da 45 a 60 giorni di premialità a semestre per chi si comporta bene in carcere”. Il lavoro e i legami affettivi sono diritti fondamentali anche in cella. “Un elemento importante sarebbero i laboratori, dove apprendere un mestiere - dice Giachetti - dobbiamo favorire l’inserimento in società delle persone detenute”. Il sovraffollamento rende alienante la vita in carcere. Le difficoltà di interazione con il mondo esterno amplificano la solitudine. Le parole così diventano la cura. “Bisogna far mantenere i contatti con familiari e amici. Una telefonata aiuta nei momenti bui - spiega l’ex garante nazionale Palma - dovrebbero esserci più figure di mediazione, come educatori e psicologi”. Giulio, Matteo, Bassem, Andrei, Giuseppe non sono matricole: hanno un nome, dei ricordi e una famiglia. Cristian accende una sigaretta, poi la spegne, mentre incede a passi stanchi e lenti in un parco di Roma. Si siede, guarda il laghetto e ricorda il suo compagno di cella: “Non dimentico la morte di Giulio. Se succede una cosa del genere è perché il sistema ha fallito”. Ministro Nordio, quanti altri morti dovremo contare? di Daniela Barbaresi* collettiva.it, 20 settembre 2024 Nelle carceri, luoghi di marginalità e disagio, 72 detenuti si sono suicidati da inizio anno. Ma il Governo Meloni aumenta i reati e inasprisce le pene. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. È quanto sancisce il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione. Ma qual è la condizione di vita in carcere? Quali reali possibilità di rieducazione e di recupero sociale ci sono? Il sistema è alle prese con criticità croniche quali sovraffollamento insostenibile, degrado strutturale, precarie condizioni igienico-sanitarie, mancanza di attività trattamentali, assenza di opportunità di lavoro e formazione, carenza di risorse e personale, spazi invivibili, condizioni spesso disumane e abbandono. Ma di questo il ministro Nordio sembra non volersene occupare. Dai dati resi noti dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale, a metà settembre nelle carceri italiane ci sono 62 mila detenuti, 15 mila in più rispetto ai posti disponibili, con un sovraffollamento medio del 132 per cento che arriva al 227 per cento nel carcere di S. Vittore di Milano, al 206 per cento nell’istituto penitenziario di Canton Mombello di Brescia, al 199 per cento in quello di Busto Arsizio (Milano), al 195 a Foggia, 190 a Taranto. Drammatico sovraffollamento anche nel carcere di Bologna (169 per cento), Lecce (160 per cento), Rebibbia (150 per cento), Santa Maria Capua Vetere (141 per cento), Secondigliano (127 per cento) e tanti altri. Condizioni ai livelli record di 15 anni fa, che portarono la Corte europea dei diritti dell’uomo alla condanna dell’Italia per violazione dei diritti umani. Carceri con molti reparti detentivi che applicano il regime delle “celle chiuse”, ovvero detenuti chiusi nelle proprie camere di pernottamento anche durante il giorno, con spazi individuali inferiori a 3-4 metri quadrati, dove spesso i bagni sono a vista. Sin dal suo insediamento, il Governo Meloni ha intrapreso la strada dell’aumento delle fattispecie di reato e dell’inasprimento delle pene, pur in presenza della riduzione del numero dei reati commessi. Una politica securitaria espressione di un populismo penale, crudele e antistorico, destinata solo ad aggravare i nodi irrisolti del sistema penitenziario e ad accrescere tensioni e problemi. Dal decreto rave al decreto Caivano, dal decreto Nordio all’ultimo, il disegno di legge Sicurezza appena approvato alla Camera, l’esecutivo Meloni ha battuto ogni record per nuovi reati introdotti e per l’inasprimento di pene per reati già previsti dal codice penale, come di recente quelli contro le manifestazioni o le occupazioni di immobili, arrivando a peggiorare il codice Rocco, con la non obbligatorietà del differimento della pena per le donne incinte e madri di bambini fino a un anno di età: disposizioni fortemente identitarie, alla ricerca di un facile consenso attraverso la gestione delle paure. Norme con cui si danno risposte penali a problemi che sono spesso e soprattutto sociali, e che non aumentano la sicurezza dei cittadini. Populismo utile per i titoli dei giornali, dimenticando che il vero obiettivo non è prevedere un maggior ricorso al carcere, ma prevenirlo, renderlo un luogo adeguato alla funzione di rieducazione e recupero che gli è attribuita dalla Costituzione, mai di afflizione. Le carceri sono piene di poveri, immigrati, tossicodipendenti, persone con sofferenza mentale. Luoghi di marginalità e disagio, vere e proprie discariche sociali, le cui condizioni sono davvero al limite, come conferma l’impressionante numero dei suicidi: dall’inizio dell’anno a oggi, 72 detenuti si sono tolti la vita in carcere. Numeri drammatici, il più alto degli ultimi 30 anni, 20 volte superiore a quello della popolazione in generale. Ministro Nordio: quanti altri morti ancora si dovranno contare perché il governo cambi rotta? Quando verranno archiviati populismo penale e politica securitaria e promosse politiche e azioni di contrasto a marginalità, degrado, condizioni di disagio e povertà? Quando si investirà davvero sul personale e su tutte le professionalità necessarie per garantire le attività trattamentali fondamentali per la rieducazione e il reinserimento sociale e quelle per garantire il fondamentale diritto alla salute? Quando si ridurrà il numero dei detenuti ricorrendo a misure alternative, sanzioni sostitutive e misure di comunità, depenalizzazione dei reati minori e un minor ricorso alla carcerazione preventiva, indulto? Quanto si dovrà aspettare, ministro Nordio? E quanti altri morti ancora? *Segretaria confederale Cgil Carceri e morti: la lentezza della giustizia ci mette del suo di Riccardo Radi terzultimafermata.blog, 20 settembre 2024 Le morti in carcere hanno tanti padri e tra questi c’è sicuramente l’incapacità dei tribunali di sorveglianza di dare risposte in tempi ragionevoli alle istanze dei detenuti. Oggi scriviamo di una piccola storia che è l’emblema della situazione drammatica che si vive in carcere in attesa di decisioni che non arrivano. Una detenuta affetta da disturbi psichiatrici e di tossicodipendenza, già ospite negli anni passati di una Rems, presenta una istanza di affidamento ex art. 94 Dpr 309/1990 al tribunale di sorveglianza di Roma in data 3 aprile 2024. Lo stesso Tribunale di sorveglianza in suo provvedimento datato 28 settembre 2023 scriveva a proposito della detenuta: “L’unica soluzione extra muraria idonea è quella presso un’eventuale struttura di cura, di cui però difetta qualsiasi indicazione, nonostante le reiterate sollecitazioni in tal senso dal Magistrato di Sorveglianza all’amministrazione sanitaria e penitenziaria. Tali sollecitazioni vanno condivise e reiterate anche in questa sede, poiché la tutela della salute della condannata giustificherebbe anzi renderebbe necessaria una tale collocazione all’interno di un progetto terapeutico”. Il progetto terapeutico auspicato e più volte “sollecitato” è indicato nell’istanza che ha in allegato il programma della comunità residenziale “Don Guerrino Rota”, l’attestazione dell’idoneità e adeguatezza dell’Asl di Rebibbia. Il tempo trascorre e la tutela della salute della condannata attende non si comprende bene cosa: è difficile spiegarlo alla donna che alterna momenti di disperazione, sconforto a rabbia e gesti di autolesionismo. Il 27 giugno e i primi di settembre si sollecita la decisione, coinvolgendo anche la Presidenza del Tribunale di sorveglianza di Roma, ma ad oggi tutto tace. Sarà anche per questo che siamo arrivati a 72 suicidi? Senza risorse si lavora dentro e si lavora poco di Alice Dominese L’Espresso, 20 settembre 2024 Mentre si tagliano i fondi per le politiche di reinserimento, solo il 32 per cento dei detenuti ha un contratto regolare. E in rari casi con imprese esterne. Così costruirsi un futuro è difficile. All’interno di carceri già sovraffollate, la popolazione detenuta in Italia sta crescendo in modo costante, ma il budget dedicato è sempre più ridotto e l’accesso a opportunità di reinserimento sociale rischia di essere minore. Se la spesa media per mantenere chi vive in carcere passerà da 160,93 euro a 150,28 euro al giorno, i soldi stanziati dal ministero della Giustizia per dare lavoro ai detenuti diminuiscono progressivamente da alcuni anni. Per il prossimo biennio, i tagli riguardano anche le spese per le politiche di reinserimento (ridotte di circa 200 mila euro) e quelle previste per gli sgravi fiscali e le agevolazioni alle imprese che assumono detenuti (in diminuzione di 2 milioni esatti). Secondo le rilevazioni dell’associazione Antigone, che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, su circa 61 mila detenuti e detenute presenti in Italia, il 32 per cento ha un contratto regolare, di cui solo il 3,2 per cento per conto di datori di lavoro diversi dal carcere. Senza contare i semiliberi e coloro che lavorano all’esterno, lo scorso anno erano poco meno di 16mila i lavoratori alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Appena 845 quelli assunti da cooperative sociali e 286 quelli assunti da imprese. Questo significa che la maggior parte delle persone detenute che lavorano lo fa in carcere e per il carcere, dove le mansioni principali consistono nel preparare i pasti e distribuirli oppure in funzioni amministrative. “Se si parla di organizzare lavori minimamente più articolati, servono gli spazi per allestire delle strutture, oltre che i soldi. Ma soldi e spazi in carcere non ci sono. Nonostante il sistema carcerario sia costosissimo, le spese vanno essenzialmente negli stipendi della polizia penitenziaria. Se si considera con quanti soldi mangiano i detenuti e se si guardano le cifre per le manutenzioni, emerge che la distribuzione delle risorse è inadeguata, così come le somme spese per il loro lavoro”, commenta Alessio Scandurra, coordinatore per Antigone dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione. Il fatto che i detenuti lavorino soprattutto per l’amministrazione penitenziaria, poi, comporta che le competenze che possono acquisire sono in gran parte meno spendibili, una volta usciti dal carcere, rispetto a quelle raggiunte lavorando per un ente esterno, dove anche i rapporti umani cambiano. “Ci dicono di essersi riscoperti e di avere ricostruito la propria autostima - racconta Erika Bardi, responsabile degli inserimenti lavorativi per il laboratorio di pasticceria “Banda Biscotti” del carcere di Verbania - ci sono persone che vediamo cambiare in pochi mesi nella riacquisizione di capacità relazionali, soprattutto perché in carcere subiscono a lungo rapporti di potere e qui ne sperimentano altri molto diversi”. È d’accordo Luciana Delle Donne, fondatrice di “Made in Carcere”, una sartoria nella casa circondariale di Lecce dove le detenute lavorano alla produzione di borse e vestiti: “Imparano a gestire le relazioni tra colleghi, le regole del mondo del lavoro, ma soprattutto la bellezza di un lavoro onesto che le fa uscire dal tunnel dell’invisibilità. Spesso, prima di lavorare in sartoria, non avevano mai ricevuto una busta paga con scritto il loro nome. Poi la responsabilità del successo del prodotto è loro, perché compiono scelte creative selezionando i tessuti, mentre in carcere devono chiedere il permesso anche per alzare il braccio”. Oltre a permettere di costruirsi un futuro fuori dal carcere, avere un lavoro consente ai detenuti di pagarsi il sopravvitto e le spese legali. A volte è anche l’unica fonte di sostentamento per le loro famiglie. In alcune situazioni specifiche, consente inoltre di chiedere permessi e misure di detenzione alternative, come la semilibertà. Nel caso del progetto “Banda Biscotti”, i lavoratori hanno la facoltà di uscire dal carcere per recarsi al laboratorio esterno, una condizione che riguarda 565 detenuti su tutto il territorio nazionale, con tempi di assunzione variabili. “Di base restano un anno, alcuni diventano tutor per quelli che arrivano dopo. Difficilmente proseguono al termine della reclusione, ma sono consapevoli che i nostri posti di lavoro non sono infiniti ed è necessario dedicarli a chi sta scontando una pena”, spiega Bardi. Tra i motivi per i quali il lavoro in carcere è poco, oltre alla scadenza dei finanziamenti su cui si basano i progetti delle cooperative sociali, ci sono anche le difficoltà burocratiche che rendono complicato per le imprese ricevere le agevolazioni previste. Secondo Scandurra, c’entrano anche le diverse priorità tra istituti di pena e aziende: “È difficile intercettare le imprese, perché il carcere pensa all’ordine interno, mentre gli imprenditori, pur animati dalle migliori intenzioni, hanno come obiettivo pure il guadagno, che non sempre è sostenibile nelle dinamiche carcerarie, dove tutto funziona finché non ci sono degli imprevisti. Quando il laboratorio non funziona o le persone non possono lavorare per un certo periodo, il lavoro salta”. A fare da sfondo a questa situazione complessa c’è la condizione di fragilità che caratterizza la popolazione detenuta e che rende difficile l’accesso al lavoro. Le persone in carcere considerate tossicodipendenti sono quasi il 30 per cento, il 20 per cento fa uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi, mentre il 12 per cento ha una diagnosi psichiatrica grave, in crescita rispetto al 2022, come segnala Antigone nel suo ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione. Anche per questo, il percorso verso un impegno lavorativo richiede prima adeguati interventi di supporto. Il doppio carcere che il Governo calpesta di Giacomo Spinelli Il Manifesto, 20 settembre 2024 Ddl sicurezza. Mettere le persone recluse nell’impossibilità di protestare sconvolge il quadro della vita dentro perché nella grande comunità tutti i reclusi sono legati l’un l’altro. Il disegno di legge “sicurezza” approvato alla camera comprime il già minimo stato di diritto riconosciuto ai detenuti in carcere. La punibilità della resistenza passiva non farà che aumentare la frustrazione di chi vive situazioni di estremo disagio senza poterle chiaramente manifestare. L’effetto a lungo termine, che il governo evidentemente non considera, riguarderà non solo il dentro ma anche il passaggio inevitabile dalla reclusione alla vita civile. Poiché il carcere è un’unità composta da due parti diverse ed indivisibili: l’una senza l’altra non potrebbe né esistere né essere pensata. Una metà di quest’unità è rappresentata dal carcere visibile, quello dei celloni sovraffollati, dei suicidi, delle grate e dei cortili quadrati in cemento grigio. Questo è l’oggetto di cui si discute quando si parla di carcere. È il dentro, tutto quello che succede alle persone in prigione. L’altra metà è invece il carcere che ti entra dentro e che non esce più: il marchio che rimane impresso a chi ha vissuto per un periodo sufficientemente lungo in prigione da potercisi abituare. La seconda metà dell’unità carceraria è quella più complessa poiché fortemente psichica e non più fisica, e cioè quella che trasforma in profondità chi vive l’esperienza del carcere ed è composta da tutto quello che succede alle persone dopo che sono state in reclusione ed qualcosa a cui il governo non sembra pensare. L’alterazione dell’equilibrio psichico nel passaggio dal dentro al fuori segna un trauma generato durante la detenzione ma che si manifesta, quasi automaticamente, dopo di essa. Essere detenuti è essere sottoposti ad una condizione di vita radicalmente diversa da quella di cui si fa esperienza nella vita civile. Si sa che l’essere umano è volubile e si adatta all’ambiente che lo circonda, così si adatta anche a vivere nel carcere, che non è solo il luogo dell’espiazione della pena e della rieducazione ma è anche e soprattutto un modo diverso di stare nel mondo. Lo stereotipo del carcere ha forgiato l’immaginario sul canone della pericolosità del luogo, una sorta di giungla di sofferenza dove è bene guardarsi da tutto e da tutti. La realtà è ben diversa e le case di reclusione sono in tutto e per tutto un habitat con le sue leggi, le sue prospettive e le sue regole. Dopo tanti anni di prigione si esce da un luogo dove non ci sono cellulari, dove l’onore è una cosa concreta, si spediscono lettere, si vive in comunità, non circola denaro, non ci si sottrae alle parole e non è lecita l’intimità se non sotto gli occhi indiscreti dei poliziotti. Nei reparti le persone si mischiano come si mischiano le carte in un mazzo: vivere a stretto contatto con chi fuori avresti giurato di non frequentare mai è un’esperienza che scuote nelle fondamenta tutte le convinzioni maturate vivendo da liberi. Sono effettivamente poche le cose buone che si imparano in carcere: tra queste c’è il senso del vivere in comunità, costretto a condividere il niente che hai. Ho sentito un amico dire che stare in carcere è come stare in trincea, non ci saranno assalti alla baionetta e avanzamenti ma si impara a condividere la paura, la malinconia, la nostalgia e le lettere da casa. Si passa insieme attraverso un tempo vuoto che incombe. Mettere le persone recluse nell’impossibilità di protestare sconvolge il quadro della vita dentro perché essendo il carcere una grande comunità tutti i reclusi sono legati l’un l’altro. Il passaggio dalla reclusione alla libertà è tremendamente difficile perché il carcere non è stato in grado di preparare al reinserimento. Al contrario ha proceduto attraverso un annichilimento che trasforma uomini e donne in soggetti vulnerabili, alienati, soli e privi di una qualsivoglia forma di aggiornamento lavorativo. Le case di reclusione in Italia disegnano una geografia di bolle temporali ramificate in ogni angolo del territorio, con le quali la società civile ha estrema difficoltà ad interagire, paradossale per una contemporaneità dove le barriere e gli impedimenti a comunicare sono totalmente crollati. L’alienazione tra dentro e fuori è tale che spesso chi esce di prigione si sente più solo e più disperato di prima. Le due parti dell’unità carceraria, il dentro e il fuori, non rappresentano un’unità fine a sé stessa, ma un ingranaggio rodato per creare esclusione sociale, per allontanare dal corpo sano la parte malata. C’è veramente bisogno di ripensare al carcere come causa e come effetto, rielaborando l’esperienza della detenzione come parte di una struttura che espande le sue condizioni anche al di fuori delle sue mura. Il rapporto stretto, mediatico, tra l’immaginario carcerario e la realtà della detenzione non è che una maniera univoca di voler categorizzare una struttura senza valutarne gli impatti sulle persone che la abitano. La trasversalità del carcere e la necessità di rielaborarne le fondamenta riguarda tutta la cittadinanza e non solo una parte. Carcere: libri, incendi e rivolte. L’inutilità delle pene più severe di Anna Grazia Stammati* cobas-scuola.it, 20 settembre 2024 L’estate del 2024 rappresenta un tragico punto di rottura per il sistema carcerario italiano. Con 72 suicidi avvenuti in pochi mesi, è diventato evidente che le condizioni di vita dei detenuti sono al limite della sostenibilità e, non a caso, in questa estate, le rivolte nei penitenziari hanno coinvolto sia le strutture per adulti che quelle minorili, evidenziando una generalizzata situazione critica. Tra gli episodi più emblematici, la rivolta all’Istituto Penale Minorile di Torino ha colpito per la sua simbologia e per la rabbia che ha generato. In un gesto disperato e di protesta, alcuni giovani detenuti hanno appiccato un rogo, utilizzando i libri della biblioteca dell’istituto per dare fuoco ai locali del penitenziario. Questo atto, evidenzia una decisa frattura con l’obiettivo educativo del carcere, in quanto i ragazzi vedono il carcere come luogo di oppressione senza vie d’uscita. Il rogo dei libri è più di un semplice atto vandalico: rappresenta la distruzione di ciò che la società e l’istituzione carceraria propongono come mezzo di riscatto. La biblioteca, luogo di cultura e crescita, diventa il bersaglio di una rabbia che nasce dal sentirsi abbandonati, privati di un vero futuro. Questo episodio ci obbliga a riflettere sulle attuali politiche carcerarie e sugli obiettivi di rieducazione e reinserimento sociale. Un altro episodio significativo si è verificato nel carcere di San Vittore a Milano, dove due giovani detenuti hanno dato fuoco per protesta a un materasso e il giovane di 18 anni è morto. La cronaca riporta che durante tale episodio, sulla lavagna di una classe è comparsa una scritta enigmatica: “1+1=3”, evidente segnale di ribellione, sfida aperta all’istituzione carceraria e alla scuola, percepite come punitive e inefficaci, perché la detenzione, anziché fornire strumenti per un riscatto sociale, trascina i giovani detenuti in un contesto di alienazione che scatena conflitto. Il Fallimento delle Politiche di Inasprimento delle Pene. La crisi del sistema penitenziario non si limita solo agli episodi di rivolta e suicidio, ma tocca il cuore delle recenti scelte legislative. Il governo, infatti, ha approvato un inasprimento delle pene, in particolare per i giovani adulti, e il decreto legge Caivano “Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile”, a sei mesi dalla sua entrata in vigore, ha aumentato del 10% l’ingresso dei minorenni in carcere i quali, invece di intraprendere percorsi di recupero o essere gestiti con pene alternative, finiscono negli istituti penitenziari. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: istituti sovraffollati e giovanissimi detenuti gestiti con dosi massicce di psicofarmaci, così, anziché assistere a un miglioramento della sicurezza o della situazione sociale, si sono moltiplicate le rivolte e i segnali di malcontento. Questi dati dimostrano l’inefficacia delle politiche repressive e l’idea che pene più dure possano servire da deterrente per la criminalità giovanile si è rivelata infondata perché, al contrario, si sono esacerbate le tensioni, radicalizzando i giovani detenuti, sempre più oppressi e privati di prospettive future. Il carcere, da strumento di riabilitazione, si trasforma in un ambiente di isolamento e ribellione, allontanando ulteriormente questi ragazzi dalla società. A peggiorare la situazione è il sovraffollamento delle carceri, un problema che affligge il sistema penitenziario italiano da anni, condizione che rende impossibile attuare programmi di rieducazione efficaci e contribuisce ad aumentare il rischio di violenze e tensioni interne, come dimostrano le recenti rivolte. Gli episodi di violenza, i suicidi e le rivolte all’interno delle carceri italiane dimostrano in maniera chiara l’insostenibilità dell’attuale sistema di inasprimento delle pene che sta contribuendo ad aggravare la crisi e il carcere, così come è concepito, non sta adempiendo al suo ruolo di rieducazione e reinserimento sociale, perché invece di promuovere un percorso di recupero, alimenta un ciclo di violenza e ribellione. In questo contesto, è essenziale ripensare le politiche penali, investendo in misure alternative alla detenzione, soprattutto per i giovani, garantendo condizioni di vita dignitose all’interno degli istituti penitenziari. Occorre un cambiamento di paradigma: passare, attraverso un rinnovamento profondo delle politiche carcerarie e penali, da un approccio punitivo a uno riabilitativo, che metta al centro la persona, le sue potenzialità e il suo diritto a un futuro diverso. In conclusione, il drammatico aumento dei suicidi, le rivolte e il sovraffollamento sono segnali di un fallimento sistemico. È, dunque, il momento di un cambiamento radicale, che metta al centro la dignità umana e la speranza di un reinserimento sociale effettivo. Per tali motivi il CESP, in accordo con il Salone Internazionale del Libro di Torino, sta entrando nel merito di pacchetti educativi e percorsi di lettura da portare all’interno dei penitenziari attraverso la Rete delle scuole ristrette, per offrire la possibilità a tutti i detenuti e le detenute di diventare protagonisti del proprio riscatto sociale. *Presidente CESP Tempo di nomine per Nordio: dal Garante dei detenuti al Commissario per l’edilizia penitenziaria di Ermes Antonucci Il Foglio, 20 settembre 2024 Il ministro della Giustizia nominerà nei prossimi giorni due figure importanti per la gestione delle carceri. La prospettiva politica resterà quella securitaria voluta da Fratelli d’Italia e Lega, contrarie a qualsiasi misura che possa apparire come uno “sconto” per i detenuti. Tempo di nomine per Carlo Nordio. Entro la prossima settimana, il ministro della Giustizia sceglierà il nuovo Garante dei detenuti e delle persone private della libertà personale, che andrà a sostituire Felice Maurizio D’Ettore, morto improvvisamente il 22 agosto scorso. Sui possibili nomi vige il massimo riserbo, ma secondo quanto si apprende da fonti di Via Arenula la nomina avverrà nel segno della continuità. Tradotto: sarà Fratelli d’Italia (partito da cui proveniva D’Ettore) a scegliere il nuovo garante, e questo nonostante Forza Italia da questa estate abbia deciso di puntare molto sul tema delle carceri, avviando una campagna di sensibilizzazione sui diritti dei detenuti insieme al Partito radicale. I vertici di FI sarebbero addirittura all’oscuro della rosa di nomi sulla quale Nordio sta facendo le sue valutazioni. La seconda nomina attesa riguarda sempre il mondo carcerario. Si tratta del commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, figura prevista dal decreto sulle carceri approvato lo scorso agosto. La nomina, come riferito ieri al Senato da Nordio, avverrà “ad horas”. La funzione del commissario sarà quella di “compiere tutti gli atti necessari per la realizzazione di nuove infrastrutture penitenziarie nonché delle opere di riqualificazione e ristrutturazione delle strutture esistenti, al fine di aumentarne la capienza e di garantire una migliore condizione di vita dei detenuti”. Tutto ciò, si legge ancora nel decreto, “per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari”, che al momento ospitano circa 64 mila detenuti a fronte di 49 mila posti disponibili (sovraffollamento del 130 per cento). Il commissario resterà in carica fino al 31 dicembre 2025, quindi difficilmente sarà in grado di intervenire nel settore dell’edilizia carceraria con una prospettiva di lungo periodo. A ogni modo per la sua nomina si prevede che sia necessario un decreto del presidente del Consiglio, su proposta del ministro della Giustizia, di concerto con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, cioè Matteo Salvini. Su questa nomina, dunque, sarà soprattutto la Lega a far sentire il proprio peso. D’altronde, come abbiamo già raccontato su queste pagine, ai tempi della formazione del governo il Carroccio ha fatto di tutto per ottenere la delega sulla gestione delle carceri, poi infatti attribuita al sottosegretario Andrea Ostellari. In entrambi i casi (garante e commissario straordinario), la prospettiva politica generale resta quella securitaria, fondata sulla “certezza della pena” e contraria a qualsiasi misura che possa apparire come un beneficio o uno “sconto” per i detenuti. Nordio dovrà poi nominare anche il nuovo capo ufficio stampa, posto vacante da metà agosto, dopo l’uscita di scena di Raffaella Calandra. Da allora l’attività del ministro è rimasta avvolta dietro una sfera impenetrabile ai giornalisti. Tornando alle carceri, il Guardasigilli al momento non avrebbe reiterato la richiesta avanzata ai primi di agosto al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di un incontro per parlare di soluzioni al problema del sovraffollamento carcerario, con particolare attenzione alle misure cautelari. La richiesta venne accolta con un certo imbarazzo dal Quirinale, in quanto giunse in concomitanza con il via libera definitivo del Parlamento al decreto carceri, che proprio del sovraffollamento, in teoria, avrebbe dovuto occuparsi. Il provvedimento, invece, pur prevedendo interventi anche positivi nel medio-lungo periodo, non contiene alcuna misura per ridurre nell’immediato il sovraffollamento nelle carceri. Intanto il numero di suicidi fra i detenuti da inizio anno è salito a 72. A chiedere un incontro al ministro Nordio è stato invece ieri Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali dei detenuti, con una lettera in cui si esprime “preoccupazione per lo scollamento tra la realtà drammatica delle carceri italiane e i provvedimenti normativi già promulgati o in corso di approvazione”. Sovraffollate e con “un numero altissimo di suicidi tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria, le carceri sono una polveriera”, scrive Ciambriello, indicando uno dei possibili interventi per migliorare la situazione: “Più di ottomila detenuti, che devono scontare un residuo di pena inferiore a un anno, potrebbero uscire dal carcere con interventi mirati - come, ad esempio, la cosiddetta liberazione anticipata ‘speciale’ - che il Parlamento non sembra voler prendere in considerazione”. I Garanti dei detenuti hanno chiesto un incontro al Ministro della Giustizia Carlo Nordio linkabile.it, 20 settembre 2024 Il portavoce Ciambriello: “Le carceri sono una polveriera, servono interventi urgenti ed efficaci. subito la nomina del nuovo Garante nazionale”. “Esprimiamo una preoccupazione per lo scollamento tra la realtà drammatica delle carceri italiane e i provvedimenti normativi già promulgati o in corso di approvazione. Carceri sovraffollate e con un numero altissimo di suicidi tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria, le carceri sono una polveriera: esasperazione, abbandono e indifferenza verso il modo dell’esecuzione della pena, che non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, fanno di questo momento storico il più delicato dopo la sentenza “Torreggiani” della Corte europea dei diritti dell’uomo. Più di ottomila detenuti, che devono scontare un residuo di pena inferiore a un anno, potrebbero uscire dal carcere con interventi mirati - come, ad esempio, la c.d. liberazione anticipata “speciale” - che il Parlamento non sembra voler prendere in considerazione. Chiediamo un incontro con il Ministro della Giustizia Carlo Nordio come Portavoce e Coordinamento della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private di libertà”. Così in una lettera scritta dal Portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali che è anche il Garante campano dei diritti dei detenuti Samuele Ciambriello al Ministro della Giustizia Carlo Nordio. La lettera del Portavoce Ciambriello si conclude con un sollecito al Ministro e al Governo per la nomina del nuovo Garante Nazionale delle persone private della libertà personale in sostituzione del compianto prof. Maurizio Felice D’Ettore che ci ha lasciato il 22 agosto: “sollecitiamo la nomina del nuovo Garante Nazionale per completare il Collegio, in considerazione anche delle lunghe procedure che ci sono in successione alla nomina per rendere la stessa efficace.” Loro giocano con i delitti e le pene di Stefano Anastasia L’Unità, 20 settembre 2024 Nato male, come un tributo al programma elettorale securitario, questo ddl può finire peggio. Avete fatto fare il loro giro di giostra ai propagandisti del penale, ora è il tempo della responsabilità. Fermatevi! Prima che sia troppo tardi, fermatevi e ripensateci. Il disegno di legge di iniziativa governativa sulla sicurezza è nato male, ma può finire peggio. È nato, diciamolo esplicitamente, come tributo a un programma elettorale securitario, in cui le forze politiche di destra avevano promesso alle organizzazioni sindacali della polizia tutto quello che loro avrebbero voluto, come un po’ troppo disinvoltamente si tende a fare quando bisogna prender voti. Prudentemente qualcuno tra il Viminale, via Arenula e Palazzo Chigi avrà suggerito che cose così strampalate, come il reato di disubbidienza nonviolenta agli ordini impartiti in carcere, o la libertà di porto d’armi private e fuori dal servizio per gli appartenenti alle forze di polizia, non potevano diventare legge per decreto, come ormai il Governo è uso fare, essendo ormai invertito il modus fisiologico della produzione legislativa. Qualcuno dotato di senno avrà saggiamente suggerito che la propaganda elettorale si poteva continuare a fare anche per via ordinaria, mettendo in un disegno di legge la fiera delle vanità securitarie e lasciando sui binari privilegiati della decretazione d’urgenza cose più rilevanti nell’agenda politica di governo. Peraltro, questo viaggiare a scartamento ridotto del disegno di legge sulla sicurezza consentiva anche di dare seguito a promesse dal sen fuggite allo stesso Ministro della giustizia quando, impressionato da una duplice morte nel carcere torinese delle Vallette, si era lasciato andare alla promessa di un aumento delle opportunità di colloquio telefonico dei detenuti con i loro congiunti: messo nel disegno di legge (invece che realizzato per regolamento governativo) non sarebbe successo nulla per un bel un po’ (e in effetti c’è voluto quasi un anno e molte decine di altre morti perché un decreto-legge, per altro inutile, autorizzasse i direttori a procedere in deroga alla normativa vigente). Ma messo lì, sui binari della creatività penalpopulista, il disegno di legge si è arricchito della qualunque, o almeno di qualsiasi cosa non riuscisse ad affermarsi come norma di legge in via d’urgenza. E allora via con la criminalizzazione delle manifestazioni non autorizzate e delle occupazioni degli immobili, per non dire della reformatio in peius del codice penale fascista sul punto della sospensione della pena per le donne incinte o con neonati di età inferiore a un anno e da ultimo della revivescenza della sempreverde castrazione chimica, che son vent’anni che qualcuno vuole imporla per legge, dimostrando di non aver capito nulla della violenza maschile contro le donne, continuando a rubricarla sotto la formula autoassolutoria dell’impulso e della patologia individuale. Oggi questo accrocco mostruoso è stato approvato dalla Camera e si trasferisce in Senato per la seconda lettura. Non sappiamo se anche al Senato sarà dato libero sfogo alla creatività punitiva dei senatori della maggioranza e dei loro occasionali stakeholders, arricchendo di nuove perle il catalogo delle oscenità illiberali contenute nel disegno di legge, o se - disciplinati a dir sì in seconda lettura - se ne asterranno, sazi della festa della forca compiuta a Montecitorio. Certo il Governo non può non assumersi la responsabilità di quel che c’è scritdeocolloqui, to in questo disegno di legge e di quel che ne potrà venire dalla sua approvazione. Io la vedo sempre dal mio fondo di bottiglia, dal carcere, dove finiscono per depositarsi tutte le scorie degli usi e degli abusi del diritto penale. Non sono stati sufficienti il decreto Caivano e le chiusure in carcere (alle licenze speciali per i semiliberi, alle telefonate e ai videlle celle e delle sezioni) per capire che quel che dai ti torna? Se tratti i detenuti come non-persone, neanche meritevoli di un’attenzione istituzionale durante una visita in carcere, ma sempre e solo come animali in gabbia, che più ne fanno e più ne potrebbero fare, da rinchiudere sempre più serratamente, cosa ti aspetti che ne venga? Dopo un’estate di morti e proteste, in cui intere sezioni sono diventate inagibili, ma i cui detenuti non possono essere spostati perché non c’è più posto (il problema delle prossime settimane a Regina Coeli, per esempio, sarà liberare le aule scolastiche dai letti con cui sono state riempite durante le “vacanze”), dopo un decreto-legge così insignificante da costringere la Presidente del Consiglio a convocare una riunione a Palazzo Chigi il giorno della sua approvazione per capire come gestirne il vuoto pneumatico, dopo l’annuncio del Ministro Nordio di nuove iniziative per affrontare l’emergenza carceri, di cui addirittura avrebbe voluto parlare con il Presidente della Repubblica, dopo tutto questo, che fate, ai detenuti gli dite che da oggi vi beccate nuovi anni di carcere ogni volta che disobbedite agli ordini della polizia? Non vi rendete conto che questa è una vera e propria provocazione e che vi toccherà gestirne le conseguenze, e che soprattutto toccherà a quei poveri poliziotti di sezione, sotto organico e stremati dai doppi e tripli turni, gestirne le conseguenze, carcere per carcere e sezione per sezione? È così che volete rappresentarli, i lavoratori della sicurezza? Fermatevi, dunque: avete fatto fare il loro giro di giostra ai propagandisti del penale, ora è il tempo della responsabilità, fermatevi finché siete in tempo. Migranti, poveri, disobbedienti: per il Governo tutti criminali di Esecutivo di Magistratura democratica L’Unità, 20 settembre 2024 Il messaggio del Ddl sicurezza è chiaro: legge e ordine, chi protesta, chi è marginale, chi non pratica ginnastica d’obbedienza domani rischierà ben più di ieri. Pur nella consapevolezza del carattere articolato dell’intervento normativo, rileviamo che il Ddl 1660 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario) di iniziativa governativa, esprime una “visione” dei rapporti tra autorità e consociati fortemente orientata al versante dell’autorità, coltivando l’ambizione di risolvere - con l’inasprimento di pene, l’introduzione di nuovi reati, l’ampliamento dei poteri degli apparati di pubblica sicurezza - problemi sociali che probabilmente potrebbero trovare più efficaci risposte senza usare per forza la leva penale. Colpisce, nel complesso, la tendenza a introdurre nuove incriminazioni e, in linea generale, a introdurre inasprimenti sanzionatori. Una linea di tendenza che però non assicura affatto risultati concreti sul piano della prevenzione dei fenomeni criminali. Preoccupa, in secondo luogo, la costruzione di nuove fattispecie penali (o l’introduzione di aggravanti) che perseguono l’obiettivo di sanzionare in modo deteriore gli autori di reato che hanno commesso fatti nel corso di manifestazioni pubbliche o di iniziative di protesta contro la realizzazione di c.d. grandi opere. A ciò si aggiunge l’ampliamento del catalogo di misure di prevenzione atipiche, con attribuzione del potere al Questore di vietare a determinate categorie di persone l’accesso ai luoghi ove si realizzano le c.d. grandi opere. Si tratta di previsioni che intendono disegnare un “tipo d’autore” veicolando nel discorso pubblico l’idea che la pubblica manifestazione di protesta è in sé un fatto da stigmatizzare. Espressione della over-criminalization per “tipo di autore” sono anche la previsione o l’inasprimento delle misure repressive nei confronti di chi occupa case, di chi fa blocchi stradali (anche non violenti), di chi adotta iniziative di protesta particolarmente appariscenti (si allude alle norme che intendono aggravare il trattamento sanzionatorio rispetto a fenomeni di protesta come quelli posti in essere dal movimento Ultima generazione). Novità che lasciano perplessi sia in ordine alla proporzionalità della risposta sanzionatoria (che si vuole inasprire) sia sotto il profilo della selezione dei fatti cui attribuire disvalore penale (si pensi ai blocchi stradali non violenti). Sempre nel solco dell’ampliamento dei poteri attribuiti all’autorità di pubblica sicurezza di incidere direttamente sulla libertà personale meriterebbe una seria riflessione l’ampliamento delle ipotesi di possibilità di arresto in c.d. flagranza differita, posto che essa rischia di porsi in frizione con le garanzie scolpite nell’art. 13 della Costituzione. Come espressione di una logica penale principalmente repressiva e muscolare si segnalano, ancora, le norme in materia penitenziaria: gli interventi che potenzialmente renderanno possibile l’ingresso in carcere di bambini di età inferiore a tre anni (o la forzata rescissione dei legami con la madre); l’introduzione del reato di rivolta penitenziaria (che incrimina anche atti di resistenza passiva all’esecuzione di ordini, senza nemmeno avere la cura di specificare che tali ordini debbono essere almeno legittimi…); l’introduzione di ulteriori ipotesi di ostatività o di automatismi che rendono più arduo l’accesso a benefici penitenziari. Per contro - e rispondendo alle attese elettorali che alimentano il consenso di forze ampiamente rappresentate in Parlamento - si introducono numerose disposizioni che intendono offrire uno statuto privilegiato agli operatori del settore della sicurezza pubblica: il porto d’armi senza licenza (che ha l’effetto potenziale di aumentare il numero di armi in circolazione); l’introduzione di fattispecie incriminatrici ad hoc (con possibilità di arresto in flagranza differita); l’introduzione della possibilità di avere sostegno economico in caso di sottoposizione a procedimenti penali in conseguenza di fatti connessi all’esercizio della funzione rivestita (a differenza della generale platea dei dipendenti pubblici). Il Ddl interviene anche sulla questione migratoria. E lo fa - ancora una volta - con interventi normativi che intendono rendere più difficile il soccorso (si allude agli interventi di modifica al codice della navigazione, che possono introdurre ulteriori ostacoli alle attività delle Ong impegnate nei soccorsi in mare) e più difficile la vita dei migranti, una volta giunti sulle rive italiane. Anche se il nome giornalistico del provvedimento, scelto dalla maggioranza di governo, richiama la “sicurezza”, molte delle disposizioni di questo decreto non solo non giovano alla sicurezza pubblica ma anzi rendono le città meno sicure per tutti. È certamente il caso della disposizione che modifica il codice delle comunicazioni elettroniche, obbligando gli esercenti commerciali che vendono SIM a richiedere il permesso di soggiorno a persone straniere come condizione per procedere all’acquisto. Una vera e propria disposizione anti-migranti, che limita la possibilità di acquistare e possedere beni nei confronti di una categoria di cittadini stigmatizzata in base all’etnia, così riportando alla memoria i tempi più bui del secolo scorso. Ma non è solo questo. Prendersi carico della sensazione di insicurezza che viene percepita, soprattutto nei grandi centri urbani, a seguito dei ricorrenti episodi di violenza che hanno per protagonisti migranti che vivono in strada, soprattutto nelle zone delle stazioni, senza nessun accesso alle reti della società, significa, come il semplice buon senso dovrebbe chiarire a chiunque, dotarsi un sistema sociale di presa in carico di queste persone: identificarle innanzitutto, visitarle per capire se hanno problemi fisici o psichici che richiedano interventi immediati, allocarle in centri dove abbiano almeno un letto e un pasto garantito e soprattutto toglierle immediatamente dalla strada, dove l’unico sbocco di sopravvivenza è la criminalità, che infatti spesso li sfrutta coinvolgendoli nel consumo e nel piccolo spaccio di stupefacenti, così aggravando le loro problematiche psichiche e personali e incrementando la possibilità di condotte violente. Questo ci rende tutti più insicuri. Rispondere con pene sempre più severe non aiuta certo le vittime di quei reati, che intanto li hanno subiti e continueranno a subirli in misura sempre maggiore, se i migranti non regolari vengono deliberatamente spinti a delinquere da disposizioni come questa. Non vediamo poi cosa c’entrino con la sicurezza dei cittadini le tante norme del decreto che criminalizzano il dissenso verso le politiche di governo, come quella che introduce il reato di “blocco stradale”, chiaramente rivolta alle associazioni ambientaliste, o quella che introduce un’ulteriore circostanza aggravante dei delitti di resistenza a pubblico ufficiale se il fatto è commesso al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica, anch’essa chiaramente rivolta alle manifestazioni contro la realizzazione di grandi opere come la TAV o il Ponte sullo Stretto, manifestazioni che peraltro vedono spesso un’ampia partecipazione delle comunità cittadine locali. L’unica “messa in sicurezza”, in questo caso, è quella delle politiche di governo, che usa il grimaldello del diritto penale per disincentivare e reprimere il dissenso, proprio da parte chi lamenta sempre la presunta “politicizzazione della giustizia”. Il Ddl 1660 - oggetto della libera discussione in Parlamento - sembra dunque usare la leva penale per disegnare simbolicamente un nuovo assetto dei rapporti tra Autorità e consociati, veicolando un chiaro messaggio: legge e ordine, chi protesta, chi è marginale, chi non pratica ginnastica d’obbedienza domani rischierà ben più di ieri. “La maggior parte delle sue disposizioni (come sostiene l’OCSE nel parere reso il 27 maggio 2024) ha il potenziale di minare i principi fondamentali della giustizia penale e dello stato di diritto”. Non ci sembra che il Ddl, così come è formulato, sia un messaggio coerente con le esigenze del sistema penale e penitenziario, né con la proclamata necessità di costruire un sistema penale liberale e informato al garantismo. L’inasprimento delle pene voluto dal Governo fa tanto share, ma non risolve niente di Davide Faraone linkiesta.it, 20 settembre 2024 Il carcere è soltanto la scorciatoia di chi pensa di coprire con gli slogan la propria incapacità di affrontare alla radice i mali che via via emergono nella società. Prevenire il problema invece che curarlo con interventi estemporanei non è tra i piani di questa classe dirigente. Nel ddl pseudo sicurezza approvato ieri alla camera si introducono ventiquattro fra nuovi reati e inasprimenti pene. L’escalation è impressionante: 633, 633 bis, 634, 634 bis. Sono gli articoli del Codice Penale che disciplinano e disciplineranno, ad esempio, il reato di occupazione abusiva di alloggi, terreni, box, in generale i beni immobili. Non è ancora finita la legislatura e già la maggioranza è intervenuta due volte con i bis. Appena entrato in vigore, esattamente dal 30 maggio 2023, il nuovo articolo 583-quater del Codice Penale che rafforza il contrasto alle lesioni personali ai danni dei sanitari innalzando la pena detentiva fino a sedici anni, dopo le aggressioni di Foggia, il Ministro Schillaci, annuncia un bis, un nuovo decreto legge che prevede l’arresto in flagranza per chi aggredisce il personale sanitario. Potrei continuare con gli esempi, mi fermo a questi due. Dall’inizio delle legislatura l’elenco è in continuo aggiornamento: rave illegali, aumentate le pene fino a sei anni, traffico di migranti fino a trent’anni, violenza di genere fino a cinque anni, violenza contro il personale scolastico, aumentate le pene fino a sette anni, omicidio nautico fino a dieci anni, reato universale di gestazione per altri fino a due anni, incendi boschivi, aumentate le pene fino a sei anni di carcere. E poi istigazione all’anoressia, proposta reclusione fino a quattro anni, istigazione alla violenza sui social, proposte pene fino a cinque anni. Acquisto di merce contraffatta, proposte pene fino a un anno. Truffa ai danni di soggetti minori o anziani, proposte pene fino a sei anni. Baby gang, pene più severe per i minorenni, fino a cinque anni per spaccio. Ogni volta che accade qualcosa che finisce nelle prime pagine dei giornali si interviene con una modifica del codice penale: non costa nulla e fa molto share. Come se finora le nostre leggi non consentissero interventi e pene anche dure e soltanto per rispondere a qualche imbecille che predica l’impunità per chi occupa una casa o imbratta i monumenti. Sono arrivati loro, gli unici che si siano accorti delle storture della società e che abbiano pensato di raddrizzarle tutte col carcere o quando il carcere è già previsto con l’inasprimento della pena. Se non mandi il bambino a scuola, non ricevi una visita dell’assistente sociale ma di un poliziotto che ti mette le manette. Se imbratti i muri o blocchi una strada per protesta, non vieni mandato a pulire i giardinetti, invitato a pagare una multa salata, ti mettono direttamente in cella con un pluriomicida. Tutti i mali della società vengono puniti nelle strutture carcerarie che dovrebbero rieducare e che così malmesse e stracolme incattiviscono e shakerano le donne e gli uomini che si imbattono in un reato, un pluriomicida con chi fuma una canna, un ergastolano con chi per protesta siede sui binari in una stazione. Tutti in carcere, tutti delinquenti allo stesso modo, come canta De Gregori: “Tutti sono uguali, tutti rubano nella stessa maniera. Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera”. Sì, il carcere è soltanto la scorciatoia di chi pensa di coprire con il populismo penale la propria incapacità di affrontare alla radice i mali che via via emergono nella società. Costa di più stanziare risorse per far funzionare i pronto soccorso assumendo medici e infermieri, ridurre le liste d’attesa, per presidiarli con la forza pubblica, per sensibilizzare i cittadini al rispetto del personale sanitario, che intervenire sul Codice Penale per un reato già esistente. Vi risulta che prima dell’arrivo della Meloni al governo, qualcuno potesse entrare in ospedale e picchiare un medico e se denunciato restare impunito? E poco importa poi se chi pensa al carcere come panacea di tutti i mali proponga l’impunità per una donna che subisce uno scippo e passa e ripassa con la sua automobile sul corpo dello scippatore fino alla sua morte. In questo caso fa più audience spendere un paio di post a favore di chi procura un omicidio, se poi il ladro è pure un immigrato, ancora di più. Aumentare le pene è un modo molto semplice per ottenere titoli dei giornali, trasmissioni televisive, spazi nei telegiornali, evita di investire tempo e risorse per una seria prevenzione che costa sicuramente molti più sacrifici, ma porterebbe sicuramente risultati più duraturi nel tempo. “Fermiamo il Ddl sicurezza”. Il fronte sociale si organizza di Giuliano Santoro Il Manifesto, 20 settembre 2024 Fanno pena Arci, Cgil, sindacati di base, Magistratura democratica contro “la svolta autoritaria”. Oggi a Roma conferenza stampa in piazza della rete Liberi di lottare. Approvato alla camera il Ddl sicurezza, oltre alle opposizioni in parlamento si fanno sentire anche le voci delle organizzazioni sociali che la gran parte dei 38 articoli di cui il provvedimento si compone intendono mettere a tacere. Il Ddl 1660, l’ideologia che trasuda e le misure repressive che mette a punto, viene riconosciuto da soggetti diversi come minaccia al protagonismo sociale e al dispiegarsi della democrazia. Per usare le parole dell’esecutivo di Magistratura democratica, “sembra usare la leva penale per disegnare simbolicamente un nuovo assetto dei rapporti tra autorità e consociati, veicolando un chiaro messaggio: chi protesta, chi è marginale, chi non pratica ginnastica d’obbedienza domani rischierà ben più di ieri”. Md ricorda anche che l’Ocse, in un parere reso a maggio, aveva già sostenuto che il Ddl ha “il potenziale di minare i principi fondamentali della giustizia penale e dello stato di diritto”. Anche per Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, il Ddl sicurezza “contiene un attacco al diritto di protesta come mai accaduto nella storia repubblicana, portando all’introduzione di una serie di nuovi reati con pene draconiane anche laddove le proteste siano pacifiche. Così si colpiranno gli attivisti che protestano per sensibilizzare sul cambiamento climatico, gli studenti che chiederanno condizioni più dignitose per i propri istituti scolastici, lavoratori che protestano contro il proprio licenziamento, persone detenute che in carcere protestano contro il sovraffollamento delle proprie celle”. Per le segretarie confederali della Cgil Daniela Barbaresi e Lara Ghiglione ci troviamo di fronte a “un condensato di propaganda e populismo istituzionale. Una ulteriore conferma di quanto questo governo, tutto, compattamente, pensa in tema di sicurezza, declinato solo come azione repressiva dei conflitti sociali e come politica punitiva, di giustizia e carcere”. “Lo avevamo già evidenziato alla fine dello scorso anno, quando il consiglio dei ministri aveva approvato il testo che poi è passato al vaglio delle commissioni in parlamento - affermano dall’Arci nazionale - In pochi avevano rilevato la sua gravità. Siamo davvero preoccupati per questo accanimento contro chi si oppone agli sfratti e cerca soluzioni abitative per chi non ce la fa, contro le donne rom in carcere con i loro figli che dovrebbero anche partorire in galera, contro chi si oppone con azioni non violente alle condizioni spaventose nelle carceri italiane, contro gli attivisti per il clima, che con azioni dimostrative provano a smuovere le coscienze contro il disastro ambientale, contro le persone che si oppongono con picchetti e azioni nonviolente alla costruzione di grandi opere inutili e dannose”. La Rete dei numeri pari, che raccoglie moltissime realtà sociali che in tutt’Italia si impegnano per garantire diritti e dignità usa parole molto dure. “Accettare quello che sta succedendo in silenzio, senza mobilitarci, significherebbe tradire i principi fondamentali della nostra Costituzione e colludere con chi sta minando la democrazia e il nostro patto di civiltà dal cuore delle Istituzioni repubblicane - fanno sapere - Associazioni, movimenti per la giustizia sociale e ambientale, reti sociali, cooperative, presidi antimafia, parrocchie, centri antiviolenza, case delle donne, si oppongono con forza a questa deriva e non faranno un passo indietro nella difese di diritti, territori e democrazia”. Da tempo Unione inquilini lancia l’allarme sugli effetti del Ddl. “Nel paese dell’emergenza, anche per la questione dell’abitare si è rincorsa per decenni la speculazione a danno dei diritti degli inquilini - raccontano - Ma questo governo ha superato l’asticella portando un cambiamento culturale non indifferente con il tramutare in ‘furbetti’ coloro che avrebbero necessità di maggiori tutele, i poveri”. Per questo Unione inquilini insieme ad Alleanza internazionale degli abitanti ha consegnato alle Nazioni unite, che più volte hanno riconosciuto l’emergenza della situazione del nostro paese, un Rapporto sulle violazioni dell’Italia al diritto alla casa. Per oggi alle 12 a piazza Capranica, la rete Liberi di lottare (cui aderiscono sindacati di base, comitati, centri sociali e movimenti territoriali) ha convocato un presidio-conferenza stampa. “Siamo di fronte - argomentano - a un attacco frontale all’agibilità di manifestare, scioperare, contestare e mettere in discussione un sistema organizzato a uso e consumo dei profitti di pochi privilegiati, che non desiderano essere disturbati mentre devastano e saccheggiano tutto e tutti”. Milano. L’ultimo saluto a Yussef, il 18enne morto bruciato nell’incendio della sua cella di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 20 settembre 2024 Oggi, venerdì 20 settembre, dalle 18.30, presso il Cam in corso Garibaldi 27 (M2 Lanza) la organizzano cittadini e associazioni attive sul carcere da 1.100 detenuti in 445 posti, dove il giovane egiziano (che in città aveva un fratello del tutto regolare) era finito il 13 luglio 2024: il ragazzo, i cui disturbi psichiatrici non erano affrontati dal sistema di assistenza (come per caso capitò al Corriere di raccontare l’11 dicembre 2023), sotto psicofarmaci e alcol al pari di un complice, era scappato sull’auto-sharing di una donna alla quale aveva tentato di strappare una catenina, venendo trovato dalla polizia con un machete. Risultava fuggito da una comunità di Morbegno, dove era stato messo dal Tribunale dei Minorenni il 19 maggio in “misura di sicurezza del riformatorio giudiziario”: e ciò anche sulla base di accertamenti che, già in occasione dell’arresto il 3 febbraio 2023 per rapina impropria in un negozio, additavano “la necessità di cura in contesto altamente protetto”, per vizio di mente secondo i parametri minorili che (differenti da quelli degli adulti) richiamavano non tanto una patologia psichiatrica ma un’”immaturità” rispetto all’età, “disabilità intellettiva lieve, tratti istrionici e disturbo funzionale su base post traumatica” delle torture di migranti in Libia. Il gip Fabrizio Filice, decisa la custodia cautelare per la ritenuta pericolosità del mix fuga-psicofarmaci-rapina-machete, già quel 14 luglio nella convalida d’arresto non esclude “in astratto” i domiciliari con braccialetto, però non concessi perché nessuno rende disponibile un domicilio per il ragazzo. Dopo un mese e mezzo, il 3 settembre la pm Ilaria Perinu chiede il giudizio immediato; il 4 il gip Filice lo firma; il 5 il difensore chiede perizia psichiatrica, che però dopo l’immediato non può essere disposta più dal gip, il quale prima avrebbe potuto su richiesta delle parti e non d’ufficio. La notte tra 5 e 6 settembre Youssef muore nel rogo. Milano. Morto il boss della ‘ndrangheta Santaiti: era detenuto a Opera al 41 bis di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 20 settembre 2024 Da tempo era malato. La procura di Milano ha comunque disposto l’autopsia sul suo corpo. È morto nel reparto penitenziario dell’ospedale San Paolo di Milano il boss della ‘ndrangheta Demetrio Carmelo Santaiti, considerato il capo bastone di Seminara, in provincia di Reggio Calabria. L’uomo, 69 anni, era detenuto nel carcere di Opera al 41 bis. Secondo le prime informazioni Santaiti era malato da tempo e da una decina di giorni era ricoverato al San Paolo nell’ala del reparto penitenziario riservata ai detenuti al cosiddetto “carcere duro”. Le sue condizioni nelle ultime settimane erano molto peggiorate. Tra le altre indagini era stato coinvolto nell’operazione “Cosa mia” della procura della Repubblica di Reggio Calabria sulle cosche Gallico-Santaiti. La procura di Milano ha comunque disposto l’autopsia sul corpo del boss di Seminara. Milano. In carcere le parole dell’Odissea per riflettere su vita e destino di loredana lipperini La Stampa, 20 settembre 2024 Tommaso Spazzini Villa racconta il progetto partecipativo in cui ha fatto leggere e commentare il poema di Omero a 361 detenuti del carcere di Bollate: “Un testo collettivo in cui nei millenni si sono ritrovate milioni di persone”. A volte viene cerchiato di rosso un “perché”, oppure si sottolinea “sfinito dalle disgrazie”. È impossibile dare una definizione di quello straordinario esperimento che è Autoritratti, che esce per Quodlibet a firma di Tommaso Spazzini Villa. Nei fatti, il testo è Odissea di Omero, nella mitica traduzione di Rosa Calzecchi Onesti: ma è arricchito da segni, sottolineature, brevi commenti fino a diventare opera nell’opera, come solo l’arte partecipativa sa fare. Spazzini Villa è un artista milanese che vive a Roma: nel 2018, racconta nel volume (che include le postfazioni di Matteo Nucci e Saverio Verini), coinvolge 361 detenuti di diverse carceri italiane. “Il progetto - racconta - è nato da un lavoro che inizialmente facevo senza coinvolgere altre persone. Sulla pagina di un testo sottolineavo alcune parole per fare emergere frasi nascoste, non immediatamente visibili se non fosse stato per il gesto che le metteva in luce. Per esempio, ho sottolineato sei diverse frasi su un canto del Purgatorio, per provare a vedere quante ne potessero emergere dal testo di Dante: di queste una sola è il mio autoritratto. Qualche anno fa a Milano ho partecipato a un Ted talk, occasione in cui ho conosciuto Cosima Buccoliero, allora direttrice del carcere di Bollate. Le ho proposto di fare un laboratorio all’interno dell’istituto chiedendo ai detenuti di sottolineare una frase per ogni pagina dell’Odissea”. Ma perché l’Odissea? “Perché per me è uno specchio prismatico che si rifrange in tante odissee minori, in altrettanti ritorni. È il poema della conoscenza conseguita attraverso il superamento degli ostacoli. È una condizione che viene imposta ad Odisseo, lui la soffre, deve costruire la sua pace, deve costruirsi la via del ritorno e impiega dieci anni per percorrere questa strada. È il libro del mare, l’archetipo di ogni futuro romanzo di avventura. Ed è anche il poema degli umili: il leale porcaro Eumeo, la fedele nutrice Euriplea, il bovaro Filezio. Mi sono chiesto come sia visto Odisseo da una persona privata della libertà, che vive lontano da casa e dalla famiglia. Al contrario di Achille, che è un personaggio unitario, di marmo e di luce, Odisseo è tanti, è eroe, mendicante, viaggiatore, marito, condottiero, padre, amante. È una mente variopinta, sinuosa, che ben si adatta alla caduta delle strutture sociali di oggi. È il poema degli archetipi, il testo che contiene i moti del nostro animo, quelli che pensiamo di essere gli unici a vivere. È come se qualcosa dentro di me si sciogliesse quando leggo di un eroe che li affronta con coraggio e pazienza”. Il progetto non si è svolto come una lettura condivisa: “Distribuivo ad ogni partecipante una sola pagina del testo omerico e su quella lui doveva lavorare. L’Odissea non è presa in considerazione per la sua struttura narrativa ma come insieme di immagini, segni, emozioni contenuti all’interno di una singola pagina, che diventa così un insieme di parole da cui estrarre quelle che più ci toccano, cercando di comporre una frase di senso compiuto. È un gesto di verità, non estetico. Non c’è nulla di automatico ed inconscio - è un lavoro lontano dall’approccio al testo dadaista. Quello di sottolineare è un gesto lento in cui chi legge si rispecchia nelle parole del testo, le cerchia, le sottolinea, le cancella, le ritrova andando lentamente a comporre un ritratto di sé, di ciò che quella pagina riflette e rispecchia di sé”. Al progetto hanno partecipato anche alcuni studenti, ed è interessante capire quali siano le parole scelte dall’uno e dall’altro gruppo. Intanto le più sottolineate sono “cuore” e “mare”, che diventano due grandi spazi di riflessione, due specchi in cui leggere il mondo emotivo. “L’acqua/di mare/è casa” ha sottolineato qualcuno. “Il cuore/lontano da te/gridava/forte” sottolinea qualcun altro. I detenuti si identificano più con Odisseo, distante da casa e dagli affetti. Nelle frasi che hanno sottolineato si rivolgono alle mogli e ai figli lontani, alla casa abbandonata. “Era un massacro/il/ricordo/dell’amore/lontano”, “Mi hai donato/ figli bellissimi/e io/ così misero”. Gli studenti invece parlano più ai padri e alle madri: “Scusa/madre/per/ogni giorno”, “Da tempo/mi impedisce il cammino/è mio padre”. È un rito collettivo restituito, quello di Spazzini Villa: “L’Odissea nasce all’interno di una tradizione orale in cui aedi e rapsodi cantavano al popolo le gesta di eroi e di dei. Chi ascoltava ritrovava nelle loro parole gli archetipi dei propri moti d’animo - nostalgia, paura, ira, amore - e qualcosa andava sciogliendosi nella comprensione di non essere l’unico e il primo a vivere quei tormenti. È un testo collettivo in cui milioni di uomini, in migliaia di anni, hanno trovato e riconosciuto quel materiale altrimenti denso e informe che sono i moti del nostro animo, emozioni che con l’ascolto reiterato e ripetuto trova luogo e pace, sollievo e comprensione”. E quanto ne abbiamo bisogno? “Nell’ultimo secolo abbiamo visto sgretolarsi i momenti di condivisione profonda all’interno delle società in cui viviamo, e tra questi anche quelli dell’arte. Nel suo piccolo questo progetto ne è lo specchio. Ogni partecipante ha affrontato la pagina nell’intimità della sua solitudine. Io ho raccolto tutte le pagine dopo i loro interventi e ho ricomposto l’Odissea nella sua interezza così che il lettore si trovi di fronte a una coralità di voci interne, riflesse nelle parole di Omero. È una dimensione collettiva nata da momenti di solitudine. Durante un incontro al Carcere di Bollate una detenuta si è improvvisamente alzata e ha detto davanti a tutti “Questa pagina mi ha spiegato la vita, cioè la mia vita”. Io non ho fatto in tempo a chiedere cosa intendesse che lei ha continuato “Alla fine quando nasci è come quando sei all’inizio della pagina, hai ancora tutto davanti. Poi cominci a fare delle scelte, che ne implicano altre e altre ancora. E alla fine se hai fatto delle scelte di merda finisce che ti blocchi, come sono bloccata io qui dentro”. Reggio Calabria. Il Reggio Film Fest nelle carceri, per non dimenticare i detenuti rivieraweb.it, 20 settembre 2024 La nuova iniziativa per la promozione del cinema nelle carceri ha come obiettivo quello di non emarginare completamente i detenuti, di credere nella riabilitazione e nel reinserimento nella società. Cinema dentro e fuori le mura, sezione storica del Reggio FilmFest appena conclusosi, riunisce questi tre elementi in un unico evento, che viene organizzato dal Festival, fin dalla sua prima edizione, all’interno degli istituti penitenziari - Palmi, Locri, Vibo Valentia, Cosenza e, negli ultimi anni, Reggio Calabria - dove la popolazione carceraria viene coinvolta nella proiezione di un film che offre ai detenuti una preziosa occasione di apertura verso la società e un importante spunto di riflessione. Un’iniziativa il cui forte impatto emotivo e la grandissima valenza sociale sono stati confermati, nel corso dell’incontro tenutosi nei giorni scorsi presso l’Istituto Panzera di Reggio, dalle stesse detenute partecipanti, attraverso una lettera letta da una giovanissima ed emozionatissima reclusa. Una ventina in tutto le donne della sezione femminile invitate ad assistere alla proiezione del film Nella città l’inferno, di Renato Castellani, preceduta da una breve ma significativa chiacchierata con il Direttore Generale del Reggio FilmFest Michele Geria, la referente del progetto, Avvocata Giovanna Suriano, la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Avvocata Giovanna Russo, il critico cinematografico Paolo Micalizzi, la giornalista Manuela Iatì, conduttrice dell’incontro, e il criminologo Sergio Caruso. “In carcere mantenere vivi i propri interessi e bisogni senza cadere nella monotonia è una delle sfide più dure, che ognuna di noi deve affrontare durante il proprio percorso”, legge, da un foglio scritto a penna e con voce rotta dall’emozione, la giovane detenuta. “Ecco perché vi ringraziamo per iniziative come questa, che hanno il fascino di scuotere le nostre coscienze e nutrire la nostra sensibilità, facendoci sentire non emarginate, ma parte integrante della società, al di là di ogni pregiudizio, pur essendo fisicamente escluse. È sempre un’emozione intensa - continua la ragazza, toccando i cuori dei presenti - percepire che qualcuno là fuori si ricorda di noi. Speriamo che questo ponte umano intriso di buoni sentimenti possa continuare, proiettandoci nella speranza che la società sappia accoglierci nel migliore dei modi alla fine delle nostre pene”. Parole commoventi, che dimostrano, ancora una volta, come con Cinema dentro e fuori le mura il RCFF sia, da ben 18 anni, sulla strada giusta. Lo rimarca anche il Direttore della casa circondariale reggina, Rosario Tortorella: “Il carcere dev’essere ricordato dalla società, non deve essere dimenticato, perché la pena prima o poi finisce e si deve poter tornare fuori con pensieri diversi”, dice, rivolgendosi agli ospiti, ma soprattutto alle signore che dentro quel carcere stanno scontando la loro pena. “Abbiamo scelto di coinvolgere in questo evento la sezione femminile perché ci sembrava più indicata per il tipo di film in programma, che può sicuramente far breccia nei cuori. Ringrazio l’Avvocata Russo e il Reggio FilmFest per l’impegno e il valore di questo progetto, capace di unire cultura e rieducazione in un contesto così delicato”, continua. “Il cinema ha il potere unico di esplorare la realtà attraverso la finzione e trasmettere messaggi di speranza e rinascita. Come questo film, che non solo stimola una riflessione critica sul passato, ma offre ai detenuti la possibilità di immaginare un futuro migliore e compiere scelte che facilitino il loro reinserimento. Le iniziative dall’esterno sono sempre ben accolte, poiché il carcere non deve rimanere isolato. La cultura e l’arte sono strumenti preziosi di connessione e riflessione”, conclude. Michele Geria, Direttore Generale del RCFF, ricorda fiero i 500 libri donati dal Festival nella prima edizione dell’iniziativa, consentendo al carcere l’apertura di una biblioteca: “Mi emoziona trovarmi in questo teatro dedicato all’educatore Emilio Campolo - dice - l’iniziativa è nata infatti 18 anni fa grazie alla sua collaborazione, con l’obiettivo di portare cultura ed emozioni all’interno delle carceri e ribadire che anche chi è privato della libertà ha il diritto di “evadere” attraverso un film o un libro. La cultura è uno strumento potentissimo e, nel tempo, abbiamo anche visto detenuti trasformarsi in attori professionisti. Ricordo con emozione il tour delle carceri calabresi con il cast di Cesare deve morire dei fratelli Taviani, che offrì ai detenuti l’opportunità di scoprire il loro potenziale. Questo è un momento di speranza e cambiamento, e speriamo che il nostro festival possa contribuire a un futuro migliore per chi affronta queste difficoltà”. Gli fa eco la Garante comunale dei detenuti Giovanna Russo: “Ho accettato con entusiasmo di supportare questo progetto perché è essenziale non tirarsi indietro quando si ha l’opportunità di fare del bene per la reintegrazione e la speranza delle persone. Questo non è solo un dovere, ma una risposta a un sentire profondo. Sono fermamente convinta che portare un messaggio di speranza e riconciliazione con l’esterno sia fondamentale”, afferma. Giovanna Suriano, referente del Progetto, pronuncia parole appassionate nel sottolineare come l’iniziativa abbia sempre contribuito a suscitare emozioni, sogni e speranza: “Con questa sezione il Reggio FilmFest crea un ponte tra la società e il carcere attraverso il cinema. Il progetto riconosce i diritti delle persone detenute, promuovendo momenti di cultura e leggerezza, fondamentali per la loro rieducazione e benessere. Quest’anno l’attenzione è stata dedicata alle donne detenute, un universo complesso e carico di esperienze diverse. Attraverso la visione del film abbiamo voluto offrire loro un momento di sollievo e speranza. È significativo ricordare il messaggio di Papa Francesco, rivolto ai detenuti, in cui sottolinea l’importanza di mantenere viva la speranza per un futuro migliore. Questo progetto evidenzia come il cinema possa essere uno strumento potente di cambiamento e riflessione, dentro e fuori le mura del carcere, contribuendo a un futuro diverso, migliore”. A scegliere l’opera oggetto di proiezione, Paolo Micalizzi, decano dei critici cinematografici italiani, sostenitore da sempre del RCFF oltre che giurato del concorso per cortometraggi Millennial Movie, e tra i primi a credere nel valore dell’iniziativa. “Questo è un film drammatico degli anni ‘50, di uno dei maggiori registi italiani, e soprattutto è una storia vera, che con la straordinaria interpretazione di Anna Magnani affronta il delicato tema proprio del carcere e della possibile riabilitazione. L’inferno del titolo è quello interiore, di persone sopraffatte dal destino, ma il film parla di speranza, attraverso il personaggio di “Marietta”, interpretato dalla giovanissima Cristina Gajoni. Marietta si innamora di un uomo che ha visto da dietro le sbarre, interpretato da Renato Salvatori, e sogna di sposarlo una volta libera. E’ questo sogno che le dà la spinta per resistere ed è il riflesso potente delle storie di chi si trova recluso, che può e deve continuare a sognare e sperare”. Chiusura dell’incontro affidata a Sergio Caruso, criminologo ed esperto psicologo al carcere di Rossano, che ha spiegato con parole semplici quale sia il valore di portare il cinema in carcere, in particolare attraverso un festival di questo calibro: “Un film, un libro, un momento come questo aiutano ad andare oltre questo luogo, la prigione, e anche oltre noi stessi. L’amore, le emozioni, aiutano ad essere persone migliori, diverse. Ed è questo ciò a cui dovete puntare - dice alle donne che ascoltano in silenzio - Tutti nella vita sbagliano, ma l’importante è essere consapevoli, capire l’errore. Un film aiuta la mentalizzazione, attraverso l’immedesimazione e le emozioni, ha il potere di penetrare l’inconscio, e il contenuto arriva, aiutando a crescere, aiutando i detenuti nella revisione critica di se stessi. Quella di oggi è un’importante occasione di confronto e scambio con finalità terapeutica. È anzi fondamentale che eventi come questi diventino sempre più frequenti nei luoghi di sofferenza e riflessione come le carceri, poiché il cinema può offrire un supporto decisivo in tali contesti”, afferma. E i sorrisi accennati e gli occhi attenti e a tratti commossi delle donne che ascoltano, spesso annuendo, le sue parole e quelle degli altri presenti, sono la risposta migliore e il giusto stimolo per chi porta arte e cultura in luoghi, come le carceri, normalmente percepiti come distanti e separati dalla società. Nel tentativo di abbattere le barriere e offrire l’opportunità, ai detenuti, di avvicinarsi, attraverso la magia del cinema, al mondo esterno. Verona. “Ragazzi a metà partita”: calcio a sette in ricordo di Matteo Concetti Corriere di Verona, 20 settembre 2024 Un quadrangolare di calcio a sette per ricordare Matteo Concetti, morto suicida nella Casa circondariale di Ancona in gennaio, e per accendere un faro sul tema del disagio giovanile in carcere. La manifestazione benefica “Ragazzi a metà partita, per non perdere la speranza” si terrà il 27 settembre dalle 18 nel campo sintetico dell’Intrepida a Madonna di Campagna. Dalle 19.30 si affronteranno ex calciatori dell’Hellas Verona Onlus, dell’Intrepida ‘70/’74, dell’Ac Forense Verona e della Squadra Polizia Penitenziaria Verona. Saranno presenti i genitori di Concetti, l’attuale presidente del Chievo Sergio Pellissier, il consigliere regionale Tomas Piccinini e i cuochi della pizzeria Olimpia, che offriranno del risotto. La raccolta fondi sarà destinata all’acquisto di beni di prima necessità per i detenuti delle carceri di Verona e Padova. Liberarsi dal carcere, liberarsi del carcere. Sull’ultimo libro di Beppe Battaglia di Sara Manzoli monitor-italia.it, 20 settembre 2024 Sarà presentato lunedì 23 settembre, a Napoli, “La libertà è un organismo vivente”, ultimo libro di Beppe Battaglia. Il libro racconta la storia di una comunità di detenuti politici che, esauritasi l’esperienza della lotta armata, alla fine degli anni Ottanta avvia un processo di liberazione dal carcere e di ritorno alla vita sociale, attraverso una progettazione autodeterminata negli spazi consentiti dalla legge penitenziaria, tra il carcere di Avellino e un bosco nel comune di Tufo. Del libro si discuterà a Santa Fede Liberata, a partire dalle 18:00. Con l’autore interverranno Dario Stefano Dell’Aquila, Luigi Romano e Nicola Valentino. La parola libertà compare nei tre i titoli dei libri che Beppe Battaglia ha pubblicato per Sensibili alle foglie, forse perché l’attesa della libertà è stata il dispositivo centrale della sua vita da detenuto, oppure perché nella sua militanza come volontario in carcere ha cercato di sostenere processi di liberazione per le persone detenute, o ancora, più probabilmente, perché la sente come necessità irrinunciabile per l’essere umano. Il primo libro, “Le tre libertà”, racconta la differenza sostanziale fra tre forme di liberazione dal carcere: la libertà conquistata fa riferimento al sapere collettivo necessario per un piano di evasione; la seconda forma di libertà, quella comprata, fa riferimento al momento in cui una persona reclusa collabora con l’istituzione carceraria o giudiziaria scambiando una via d’uscita con la vita altrui; la terza è la libertà che arriva per concessione istituzionale. Ne “La libertà ha le ali”, il suo secondo libro, Beppe racconta della sua attività di volontario, che ha consentito a un gruppo di detenuti di scontare qualche giorno in meno di carcere per lavorare alla costruzione di un aereo a due posti completamente in legno. “La libertà è un organismo vivente” intende invece la libertà come creazione di forme di liberazione dalla detenzione attraverso ciò che le leggi consentono. Una libertà che intercetta l’idea di solidarietà, spesso intesa a senso unico, ma che la supera, promuovendo una liberazione dalle mura per i detenuti che parteciperanno al progetto, ma anche e soprattutto una liberazione, per ognuno di loro, dal proprio carcere interno. In maniera orizzontale, senza un vertice, senza centri di potere, superando la politica, incentrandosi sulla reciprocità. Questo organismo vivente della liberazione nasce a metà degli anni Ottanta a Bellizzi Irpino, in provincia di Avellino, quando un gruppo di detenuti politici avvia un progetto di lavoro sociale dentro un carcere nuovo di zecca, con tutti gli spazi necessari per poter renderlo possibile senza aiuti economici o scambi di favori (la libertà comprata). L’esperienza può essere avviata, provocando i primi respiri di libertà. Dal ricavato delle vendite dei manufatti prodotti, il gruppo genera una relazione a distanza con comunità in Brasile e in Perù, un mutuo aiuto tra gli ultimi della terra: “Il paradigma era semplice: se gli ultimi della Terra, non importa a quali latitudini e in quali forme si connoti lo stato di bisogno, mutuano le loro risorse, è possibile praticare territori di liberazione. Fin da subito abbiamo voluto esplicitamente sgombrare il campo da una possibile ambiguità: la nostra iniziativa non era di ordine filantropico! Anche noi eravamo in una condizione di bisogno dalla quale intendevamo liberarci […]. Si trattava, in fondo, di un’adozione reciproca fra ultimi della Terra”. Ma il tempo in carcere non ha la stessa dimensione di chi lo vive all’esterno delle mura, e la libertà ha un peso differente da chi la cerca sfidando ostacoli quotidiani. Il desiderio di accelerare il processo di liberazione diventa sempre più forte, e il solo lavoro di pelletteria insufficiente a soddisfare questa esigenza. Un elemento necessario è la socializzazione del percorso, far conoscere ciò che sta accadendo a Bellizzi Irpino. Così la liberazione prende la forma di un convegno, organizzato non per raccontare desideri e buone intenzioni, ma per mostrare un fatto compiuto. Vi partecipano quasi duemila persone. “Se quel convegno dette coraggio ad alcuni dei presenti, altri ne ebbero paura. Al Ministero della giustizia, per esempio, generò scompiglio. Il direttore generale delle carceri Nicolò Amato si precipitò a Bellizzi Irpino e, come era solito fare, mandò via tutti e rimase da solo con noi nei locali del laboratorio, per comunicarci con candore una sua decisione: “Voi avete il torto, che nessuno vi perdonerà mai, di aver realizzato un progetto che alimenta l’idea della libertà. Il carcere invece deve fare paura! Vi credevamo socialmente morti e invece, con questo convegno e questi laboratori, avete dimostrato di essere più vivi che mai. Non c’è più ragione di tenervi in carcere. Via via che si avranno le condizioni tecniche andrete tutti a casa. Nessun altro detenuto però sarà autorizzato ad aderire a questa associazione”. […] Il rischio era grande per tutti. Ma per noi si trattava di vita o di morte, di libertà o di carcere”. È più o meno così che nell’Irpinia terremotata ha preso vita un processo di restituzione e di liberazione: un pezzo di bosco e un capannone abbandonato messi a disposizione di un gruppo di detenuti, che avevano un unico e chiaro scopo, produrre liberazione. “Detenuti, uomini, donne, bambini, persone anziane dalla comunità di Tufo - racconta Battaglia - sono andati oltre la semplice relazione d’aiuto, mettendo in gioco ciascuno le proprie possibilità, operando in nome e per conto della libertà come un organismo vivente che soffoca e gioisce inchinandosi alla bellezza!”. La libertà era stata conquistata. Il bosco e le relazioni riportano a ricordi lontani, a una vita fuori dal perimetro dell’istituzione, a una vita senza sbarre, senza relazioni disumanizzanti, generando libertà attraverso il superamento della mortificazione quotidiana a cui inevitabilmente ci si abitua. La misura alternativa, però, crea allo stesso tempo nei partecipanti al gruppo anche una nuova dimensione di uomo semi-libero, che in qualche modo deve diventare il secondino di se stesso, tenendo sempre a mente che la sera dovrà tornare dentro le mura di cinta, rispettando orari e regole, pur respirando aria di libertà: “Avevamo imparato nei lunghi anni di prigionia che quando il recluso è solo nel rapporto con l’istituzione è sottoposto al suo arbitrio. Solo la dimensione collettiva può rendere possibile un percorso di liberazione proteggendo ogni millimetro del suo avanzamento”. Il giorno di San Valentino del 1991 finisce l’odissea carceraria di Beppe Battaglia (la libertà per concessione istituzionale), che già aveva iniziato un percorso di volontariato in una comunità per tossicodipendenti. Il carcere non l’ha mai lasciato del tutto, ed è tuttora volontario presso l’istituto a custodia attenuata di Solliccianino. Di carcere continua a parlare e scrivere - anche se i suoi libri hanno la parola libertà nei propri titoli - e per la totale abolizione del carcere continua a lottare. Dove porta la cancellazione del conflitto di Alessandra Algostino Il Manifesto, 20 settembre 2024 Ddl sicurezza. Il disegno di legge Piantedosi è l’ennesimo provvedimento in materia di sicurezza, espressione della fascinazione per il populismo penale e la criminalizzazione di dissenzienti, poveri e migranti, che ha attratto nel corso degli anni in modo multipartisan le forze politiche. È un canto delle sirene irresistibile per gli amanti delle soluzioni autoritarie come per i patrocinatori delle agende neoliberiste: consente di archiviare le politiche sociali, delegittimando, espellendo e punendo la marginalità sociale come la contestazione politica. Un connubio perfetto per il neoliberismo, la cui aggressività e competitività contempla la normalizzazione della guerra, per una società dominata dal “Tina” e da logiche identitarie dicotomiche, e una destra (in)-culturalmente intollerante a limiti e critiche. La divergenza politica e sociale, gli eccedenti, sono i nemici; tanti gli effetti collaterali utili: il conflitto sociale non esiste e non ha titolo di esistere; le radici delle diseguaglianze sociali e della devastazione ambientale sono oggetto di un transfert che le addossa a chi le subisce e a chi le contesta; si crea uno stato di permanente emergenza e distrazione. Il nuovo provvedimento è emblematico in tal senso. Due esempi: le difficoltà abitative sono “risolte” con l’inasprimento delle pene per le occupazioni, indicando i movimenti per il diritto all’abitare come i colpevoli della situazione; le condizioni disumane in carcere e nei Cpr scompaiono perché rese invisibili dall’impossibilità di mettere in atto qualsiasi tentativo di chi vi è rinchiuso di farsi sentire. È un modus operandi, che, ancor prima degli specifici profili di incostituzionalità delle singole misure, è contro il progetto della Costituzione, che si propone, muovendo dalla consapevolezza dell’esistenza delle diseguaglianze esistenti, di rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’emancipazione personale e sociale, mentre la sostituzione dello stato sociale con lo stato penale occulta, trasfigura e strumentalizza gli ostacoli. Su queste pagine il disegno di legge è stato analizzato e criticato nella sua ratio e nelle sue disposizioni, vorrei ancora insistere su un punto. Il fil noir che lo attraversa è la negazione del conflitto, represso e surrogato con la figura del nemico; non è inutile allora ricordare qual è il senso del riconoscimento del conflitto. Il conflitto consente l’espressione dei subalterni, degli oppressi, delle vite di scarto (Bauman), dei dannati della terra (Fanon), ne riconosce l’esistenza e la legittimazione a lottare per la propria dignità e autodeterminazione. Il conflitto, dunque, produce riconoscimento, inclusione ed emancipazione. È emancipazione in sé e veicola emancipazione. Il conflitto è il motore che anima la dialettica della storia. La storia è “storia di lotta di classi”, “di oppressori e oppressi”, che “sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese” (Marx); “sono in ogni repubblica due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi”, “tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro” (Machiavelli). Il conflitto è un elemento dinamico, che veicola trasformazione. Chi avversa il conflitto tende a mantenere lo status quo, le relazioni di dominio e di diseguaglianza esistenti. È attraverso i conflitti che nascono i diritti, si esercitano e si preservano. Il conflitto è il fondamento della democrazia; insieme ad una visione all’insegna della complessità, rende vivo il pluralismo; con la mobilitazione e l’attivismo che reca con sé sconfigge l’apatia, l’indifferenza, la passività, favorendo la partecipazione, che della democrazia è il cuore. Preciso: il conflitto si pone in antitesi alla guerra. Si situa nell’orizzonte della complessità e della differenza, del riconoscimento reciproco, della discussione e della convivenza, mentre la guerra tende alla semplificazione identitaria, ad una artificiale e coartata omogeneità, alla delegittimazione del nemico, e, in definitiva, alla sua eliminazione. Il disegno di legge Piantedosi mira a negare il conflitto e si situa nello spazio della guerra contro il dissenso, i poveri, i migranti. L’orizzonte della trasformazione è sostituito dalla repressione; l’immaginazione e la pratica del cambiamento soffocati a colpi di reati; la democrazia diviene un mero simulacro che copre una gestione autoritaria e blinda un modello economico-sociale strutturalmente diseguale. Vittime in Costituzione: Forza Italia dice no, maggioranza spaccata di Valentina Stella Il Dubbio, 20 settembre 2024 Il ddl costituzionale di modifica dell’articolo 111 sul giusto processo torna in prima Commissione. Pierantonio Zanettin: “Così si altera l’equilibrio tra l’accusa e la difesa”. Maggioranza divisa sul disegno di legge costituzionale che vorrebbe inserire nell’articolo 111 della Costituzione, quello sul giusto processo, anche la tutela per “le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”. Ricordiamo che il 6 dicembre 2023 la Commissione Affari Costituzionali del Senato aveva adottato un testo unificato di quattro disegni di legge di modifica costituzionale (Antonio Iannone di Fratelli d’Italia, Bruno Marton del Movimento Cinque Stelle, Dario Parrini del Partito Democratico, Peppe De Cristofaro di Alleanza Verdi e Sinistra) che si compone di un solo articolo: “1. All’articolo 111 della Costituzione, dopo il quinto comma, è inserito il seguente: “La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”. Da quanto abbiamo potuto verificare dai resoconti non c’è stata alcuna discussione approfondita. Cosa che invece dovrebbe avvenire adesso grazie a Forza Italia. Gli azzurri si sono detti assolutamente contrari alla proposta e hanno deciso di allungare i tempi perché, come ha spiegato il capogruppo in Commissione Giustizia del Senato, Pierantonio Zanettin, approvando una tale modifica “si altererebbe l’equilibrio tra l’accusa e la difesa che sono e restano le parti principali del processo. Siamo tutti consapevoli dell’impatto mediatico che hanno le parti offese e le parti civili non solo sulla società ma delle volte anche sui giudici. Bisogna scongiurare il rischio di creare ulteriori disequilibri”. Zanettin si dice infatti d’accordo con il professor Ennio Amodio che al Dubbio ha detto: “Sarebbe una legge-manifesto finalizzata solamente a ridimensionare il garantismo espresso dalla norma costituzionale sul giusto processo”. Così ora il provvedimento, che era stato approvato a larga maggioranza in Commissione Affari Costituzionali, dopo essere stato fermo per circa sei mesi in Commissione Giustizia in attesa del parere, ora torna in I Commissione, quella presieduta da Alberto Balboni (Fratelli d’Italia), per un ciclo di audizioni. “Una questione tanto delicata - ha spiegato ancora Zanettin - non può essere affrontata così in tutta fretta con un testo messo a punto in poco tempo. Si tratta di un tema che va approfondito perché si rischiano di alterare non solo gli equilibri del processo, ma anche i tempi del processo. Così, meglio ascoltare dei costituzionalisti, avvocati e anche magistrati prima di prendere decisioni che potrebbero avere gravi conseguenze”, ha osservato. La Lega, comunque favorevole al provvedimento, sembra nutrire qualche perplessità in attesa di “ulteriori valutazioni tecniche”. Anche per la senatrice di FdI Susanna Donatella Campione “l’introduzione della tutela delle vittime in Costituzione è tema molto delicato che comporta conseguenze importanti sugli equilibri del processo. Per questi motivi concordemente con Forza Italia e con la Lega abbiamo chiesto di poter approfondire lo studio dell’argomento anche con audizioni che consentano di valutare ogni ricaduta sul piano sostanziale e processuale”. Sulla questione si è anche espresso Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, per cui “L’inserimento della “vittima” in Costituzione contraddice frontalmente i principi fondamentali che la stessa Costituzione garantisce in materia di diritto penale liberale. I diritti dell’indagato e dell’imputato sono altrettanti limiti all’esercizio del terrificante potere che lo Stato è in grado di mettere in campo contro di lui”. Stragi nazifasciste. Il doppio binario della memoria di Franco Corleone L’Espresso, 20 settembre 2024 Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sta assumendo sempre più l’immagine del difensore della storia migliore dell’Italia. Un volto severo e serio che si contrappone alla sguaiataggine che connota tanti esponenti della vita pubblica. Il 14 settembre scorso ha partecipato ad Ampezzo alla cerimonia per celebrare gli ottant’anni della Zona libera della Carnia, una repubblica partigiana caratterizzata da una realtà ampia per territorio e che comprendeva 40 paesi con oltre 80 mila abitanti. La Carnia, terra martoriata già nella Grande Guerra con l’esperienza della tragica guerra di montagna, nel secondo conflitto mondiale subì prove di violenza e di dolore incommensurabili. La costituzione della repubblica avvenne il 1° agosto 1944 con il libero voto espresso nei Comuni non solo dagli uomini, ma anche dalle donne: una conquista civile che anticipò l’introduzione del voto femminile in occasione dell’elezione della Assemblea costituente e del referendum istituzionale del 2 giugno 1946. Va anche detto che tra i princìpi fondamentali venne prevista l’abolizione della pena di morte, sancita poi nella Costituzione della Repubblica: scelta straordinaria in un tempo in cui il clangore delle armi si imponeva senza pietà. L’esperienza di autogoverno era stata preceduta il 21 e il 22 luglio 1944 da una strage nazifascista perpetrata nella Malga di Promosio e nella Valle del But: una vera carneficina con più di trenta vittime innocenti. La Repubblica ebbe una durata limitata a causa anche dell’occupazione della Carnia da parte dei cosacchi alleati di Adolf Hitler, un popolo cui era stata promessa quella terra come nuova patria. Il discorso di Mattarella è stato drastico nella condanna senza ambiguità del fascismo complice del nazismo. Ha esaltato la sfida dei partigiani e della popolazione alle truppe di occupazione, rifiutando l’attendismo, senza aspettare la liberazione da parte degli alleati. Una lotta per l’indipendenza e per ritrovare la dignità e non essere sudditi, ma cittadini dopo venti anni di dittatura. Mattarella ha esaltato la repubblica partigiana come laboratorio di democrazia e ha ricordato l’ammonimento di Giuseppe Mazzini di rifiutare la libertà regalata da altri e non conquistata. Il 1944 fu un anno “carico di orrore”, in tutta Italia si verificarono stragi ed eccidi senza giustificazione, se non per l’odio e la rabbia di un sogno di dominio spezzato: da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto, dal carnaio delle Fosse Ardeatine alla pratica della tortura in via Tasso a Roma e a Villa Triste a Firenze e a Milano. La Carnia, terra di frontiera, fu l’ultimo lembo di Italia liberata il 2 maggio 1945, subendo distruzioni di paesi ed eccidi anche a tempo scaduto. Sono passati ottant’anni, ma la memoria non si è ancora tradotta in giustizia. La legge del 2022 che ha istituito un Fondo per risarcire le vittime è incredibilmente boicottata: quasi si ritenesse di dover ricompensare creditori, invece che sanare ferite in carne viva. Così le cause per il risarcimento dei danni provocati dal Terzo Reich vanno a rilento e proprio in Friuli si assiste a un boicottaggio della legge. Il presidente Massimiliano Fedriga, che ha ascoltato le parole di Mattarella, dovrebbe chiedere al governo di far cessare questo ostruzionismo delle avvocature dello Stato, intollerabile e offensivo. La presidenza del Consiglio è responsabile di un comportamento che mette in dubbio reati contro l’umanità, imprescrittibili. Oriundi, caccia alla cittadinanza: in Veneto già ventimila ricorsi in tribunale di Silvia Madiotto Corriere del Veneto, 20 settembre 2024 Più domande dal Sudamerica che bimbi nati qui. Per 92 mila bambini e ragazzi (spesso nati qui) figli di genitori stranieri che frequentano le scuole venete no. Per circa 300 mila oriundi, nati all’estero, anche se mai hanno messo piede in Italia ma hanno un trisnonno emigrato dal Veneto sì. È una sintesi violenta, ma spiega la proporzione dei numeri che vengono forniti quando si parla di cittadinanza italiana, ius scholae e ius sanguinis: di chi non può dirsi cittadino perché i tempi sono lunghi, e di chi invece lo è proprio grazie a una legge di oltre trent’anni fa, con addirittura diritto di voto in un Paese mai visto. Brasiliani e argentini - Sono tantissimi i brasiliani e argentini che ci provano, in molti riescono ad ottenere il passaporto per via amministrativa nei Comuni. Ma chi non ce la fa procede per via giudiziaria: e così il tribunale di Venezia, che si occupa di tutte le pratiche del Veneto per le cittadinanze iure sanguinis, raccoglie da solo il 43% delle richieste per discendenza di tutta Italia. Il dato è del presidente, Salvatore Laganà: “I numeri continuano ad aumentare. Al 30 agosto, quindi nei due anni da quando è stata trasferita a noi la competenza, sono stati oltre 23 mila e 18 mila sono le pratiche pendenti ancora da trattare - spiega -. Se il Veneto ha dati così alti in proporzione al resto del Paese è perché è stato la prima regione per emigrazione nell’Ottocento. È un fatto storico. Qualcuno potrebbe pensare al Sud, e invece è da qui che molti cittadini sono partiti verso le Americhe”. Nuclei familiari - Il fatto è che una pratica non riguarda una sola persona: spesso sono interi nuclei familiari a presentare la richiesta di passaporto e quindi il numero di atti e teste si moltiplica per anche cinque, dieci persone, arrivando anche a centomila. E in Veneto, per capirci, in un anno nascono circa 30 mila bambini. Meno degli oriundi. Numeri mostruosi se si pensa che vengono sbrigati, in prima battuta, in Comuni talvolta molto piccoli: come Val di Zoldo, dove le pratiche in sospeso sono 550 e da inizio 2024 sono nati 11 bambini, ma i nuovi cittadini sono 54. Gli altri? Brasiliani di quaranta, anche ottant’anni. E possono votare tutti dall’estero. Mentre la politica si divide fra favorevoli e contrari allo Ius scholae, la possibilità che dopo un percorso scolastico un minore possa accedere alla cittadinanza in anticipo rispetto alle tempistiche attuali, dal Sudamerica arrivano tonnellate di plichi perché l’avo veneto consente ai discendenti di chiedere la cittadinanza al municipio d’origine. Intasando, di conseguenza, le anagrafi comunali: a Val di Zoldo (caso emblematico) ci sono meno di tremila residenti, più 1.700 residenti all’estero e di questi metà vive in Brasile. Commenta il sindaco Camillo De Pellegrin: “Mentre parliamo di migranti e imprese che chiedono forza lavoro ma non trovano risposte, gli apparati dello Stato vengono intasati da cittadinanze che invece di dare risposte creano problemi, oltretutto senza alcun controllo sulla persona che chiede il riconoscimento, a partire dalla fedina penale. Preoccupiamoci piuttosto di chi viene in Italia per rimanere qui e solo dopo al resto, se rimane tempo e soprattutto denaro. Le richieste oggi sono uno strumento per avere benefici di passaporto. Non siamo contrari se vivono qui, ma non succede mai”. Le difficoltà dei comuni - Le difficoltà dei Comuni sono note: oltre a trovarsi con centinaia di pratiche da evadere, la mole di lavoro comprende anche l’analisi di documenti incompleti e non rispondenti alle formalità previste per le trascrizioni, ricerche d’archivio, la ricostruzione della genealogia in vari casi di non immediata interpretazione, adempimenti anagrafici per iscrizione Aire, il dispendioso invio di cartoline per le elezioni. La conseguenza è una totale confusione che, spiega il direttore di Anci Carlo Rapicavoli, “pregiudica il normale funzionamento degli uffici di Stato Civile con inevitabili ripercussioni sull’attività. Gli uffici con le attuali disponibilità di personale e con i vincoli normativi relativi alla sua gestione, a fatica possono far fronte al carico di loro competenza non potendo, tra l’altro, essere succubi di minacce e diffide ad adempiere da parte di consulenti vari che hanno fatto di tali pratiche l’oggetto principale delle loro attività”. Migranti. Respinta la nuova istanza, resta in carcere l’attivista curda Madjidi ansa.it, 20 settembre 2024 Arrestata a Crotone il 31 dicembre 2023 con l’accusa di essere una scafista, ma è accusata solo da due migranti su 77. Maysoon Madjidi, l’attivista curda arrestata a Crotone il 31 dicembre 2023 con l’accusa di essere una scafista dell’imbarcazione sbarcata sulla spiaggia di località Gabella con a bordo 77 persone, resta in carcere. Il Tribunale di Crotone, che la sta giudicando, ha nuovamente rigettato la richiesta di modifica della misure cautelare dal carcere ai domiciliari. Una richiesta che la stessa imputata ha fatto nel corso di una dichiarazione spontanea al collegio penale presieduto dal giudice Edoardo D’Ambrosio a conclusione di una udienza fiume durata oltre cinque ore. Maysoon Madjidi, di 29 anni, è in carcere perché accusata da solo due migranti su 77, un iracheno e un iraniano, di essere stata l’aiutante del capitano, Akturk Ufuk, reo confesso ed a processo con rito abbreviato. “Mi accusate di aver aiutato i passeggeri durante il viaggio e poi mi dite che sono una scafista perché non li ho aiutati a sbarcare ma sono fuggita - ha detto l’imputata -. Come posso essere una scafista se sono stata costretta a stare con altre decine di persone in un sotterraneo in attesa dei camion per andare ad imbarcarci? Come posso essere una scafista se, come avete anche detto voi, ho continuato a cercare i soldi per pagarmi il viaggio fino a tre giorni prima della partenza? Ho chiesto un prestito al partito Komala, di cui io e mio fratello eravamo membri, per poter partire”. Maysoon Madjidi, detenuta dal 1 di gennaio in carcere (attualmente è a Reggio Calabria) ha ribadito la sua innocenza nell’aula del Tribunale di Crotone nella quale erano presenti anche decine di attivisti giunti a sostegno dell’artista curda. Nel corso dell’udienza sono state ascoltate le testimonianze degli operatori di polizia giudiziaria che hanno proceduto al fermo dell’imputata in base alle dichiarazioni accusatorie di due migranti che erano a bordo della barca. Il tenente della Guardia di finanza, Gaetano Barbera, all’epoca comandante del nucleo navale, ha risposto alle domande del pm, Maria Rosaria Multari, ricostruendo i fatti e ribadendo la validità delle accuse raccolte nel corso dell’indagine. Tesi che ha contestato l’avvocato Giancarlo Liberati che ha anche chiesto come mai la Guardia di finanza sia stata incapace di rintracciare i due testimoni chiave del processo, nonostante la difesa avesse fornito i loro indirizzi, mentre i giornalisti Mediaset li hanno trovati in Inghilterra e Germania: “Ci siamo attivati con il comando generale di Roma per il servizio cooperazione polizia, ma ad oggi non abbiamo contezza di dove siano”. L’avvocato ha domandato: “possibile che dei giornalisti li trovino e lo Stato italiano non ci riesca?”. Barbera ha spiegato: “La domanda dovrebbe farla a polizia tedesca, noi abbiamo comunicato tutto a Roma che poi si avvale del collaterale organo di polizia estero”. All’ufficiale è stato anche chiesto dal presidente del Tribunale se sui telefonini degli imputati analizzati in modo profondo ci fossero video o foto che riprendono Madjidi mentre aiuta il capitano? La risposta è stata negativa. D’Ambrosio ha poi chiesto come mai sono stati sentiti solo due migranti: “Stiamo parlando del 31 dicembre - ha risposto Barbera -. Era attività che doveva fare la polizia e che è stata passata a noi perché c’era il Capodanno Rai e loro dovevano gestire l’ordine pubblico. Si è cercato di fare il massimo in quel caso. Dopo non ne abbiamo ascoltati altri perché dopo qualche giorno sono andati via”. Migranti. Io ho attraversato quel mare e vi dico chi sono i veri scafisti di Ibrahima Lo Il Manifesto, 20 settembre 2024 Come Maysoon Majdi e Marjan Jamali, centinaia e centinaia di persone sono arrestate con l’accusa di favoreggiamento: significa costruire un muro davanti agli occhi dei cittadini europei perché non vedano ciò che sta accadendo. Maysoon Majidi e Marjan Jamali sono due delle tante persone arrestate dopo essere arrivate in Europa, accusate di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Le pene erano già alte prima, ma sono state aumentate dal decreto Cutro, una norma che mette a rischio la tutela dei diritti umani di chi si trova in situazione di pericolo o vulnerabilità. Sappiamo quello che sta succedendo in paesi come l’Iran o la Libia: nessuna delle persone che fugge da quei contesti dovrebbe essere arrestata quando arriva in Europa. Maysoon era una donna che nel suo paese, l’Iran appunto, lottava contro il regime, un regime dittatoriale che arresta le persone, soprattutto le donne, che si battono per la libertà. Ha combattuto ed è fuggita, ma giunta finalmente in Europa è finita in carcere con l’accusa di essere una “scafista”. In casi come questi bisogna stare attenti. Una persona che non capisce la lingua delle autorità, che ha difficoltà a comunicare anche con i mediatori, perde la sua voce, il suo diritto di parlare. Speriamo che nelle udienze di ottobre possa avere veri mediatori linguistici che capiscono la sua lingua in modo da poter affermare finalmente la verità. Quello che possiamo dire noi è che in Europa vengono arrestate centinaia e centinaia di persone con l’accusa di favoreggiamento: significa costruire un muro davanti agli occhi dei cittadini europei perché non vedano ciò che sta accadendo. I veri scafisti non sono le persone che guidano le barche, che ci viaggiano a bordo, che scappano dalle discriminazioni vissute sulla propria pelle. I veri scafisti sono quelli a cui l’Unione Europea e l’Italia offrono soldi ogni giorno. Basta guardare la Libia, che prende milioni e milioni di euro ogni anno per bloccare le partenze e detenere le persone. I veri scafisti sono quelli che di giorno indossano la divisa della “guardia costiera” di Tripoli e di notte organizzano i viaggi, mettendo uomini, donne e bambini in mezzo al mare per farli partire. I veri scafisti sono quelli che gestiscono i campi di detenzione privati dove le persone sono catturate, torturate, trattate come schiavi. Questo l’ho vissuto io, Ibrahima Lo, sulla mia pelle, sul mio corpo. Se vogliamo fermare le migrazioni irregolari non serve arrestare i poveri che arrivano. Bisogna aprire veri canali legali per migrare. Bisogna fermare dittatori, criminali e mafiosi che fanno perdere alle persone i loro diritti. Come hanno perso i loro diritti le due sorelle italiane finite in carcere. Non sono scafiste, i veri scafisti trattano con i governi europei. Bielorussia. Maria Kalesnikava: il lento omicidio in carcere di un fantasma di Valter Vecellio L’Opinione, 20 settembre 2024 Da oltre 22 mesi nessuno, nemmeno un familiare o un legale, ha contatti diretti con Maria Kalesnikava, una delle leader dell’opposizione bielorussa. Detenuta in una cella di isolamento, Kalesnikava, 42 anni, è in condizioni di salute sempre più gravi: oltre le difficoltà estreme causate dal regime carcerario duro, soffre di gravi problemi allo stomaco che l’hanno portata in passato, tra l’altro, a subire un’operazione per curare un’ulcera perforante, e non riceve dalle autorità carcerarie gli alimenti che il suo corpo può tollerare. “Sta morendo di fame” dice a El Pais Ivan Kravtsov, segretario esecutivo del Consiglio di coordinamento dell’opposizione bielorussa. Non si conoscono le reali condizioni fisiche della donna, negli ultimi mesi non si sa più quasi nulla di lei. Si parla di un dimagrimento spaventoso, tale da portare Kalesnikava a pesare 45 chili, oltre venti in meno rispetto a quando è entrata in carcere. Quando il presidente della Bielorussia Aljaksandr Lukaš?nka ha graziato 30 prigionieri politici - 23 uomini e 7 donne, in gran parte genitori di bambini piccoli - condannati per aver protestato contro il governo, ha intaccato una goccia nel mare dell’implacabile repressione del regime di Minsk. “Hanno presentato una richiesta di grazia, hanno ammesso la loro colpa, si sono sinceramente pentite, hanno promesso di condurre una vita rispettosa della legge” si legge in un comunicato della presidenza bielorussa. Altri 30 prigionieri, affetti da malattie gravi o anziani, erano già stati graziati a metà agosto. Nell’elenco non c’è Maria Kalesnikava, che d’altra parte mai ha ammesso nulla, né espresso pentimento, né chiesto la grazia. Non c’era il suo nome neppure nel maxi-scambio estivo di prigionieri che ha coinvolto Stati Uniti, Russia, Bielorussia, Germania e altri paesi. Si è calcolato che vi siano ancora oltre 1.300 prigionieri politici nelle carceri bielorusse. Kolesnikova è tra i più conosciuti: fa parte del trio femminile della protesta contro Lukaš?nka formato anche da Sviatlana Tsikhanouskaya e Veronika Tsepkalo. Nata a Minsk da genitori ingegneri, Kalesnikava è una musicista, flautista e direttrice d’orchestra. Nel 2020 in occasione delle presidenziali, è diventata responsabile della campagna del banchiere e filantropo Viktar Babaryka, che si proponeva di contrastare il dominio di Lukaš?nka; risultato: Babaryka è stato prima arrestato, poi bandito dalle elezioni. Kalesnikava ha così sostenuto la campagna di Sviatlana Tsikhanouskaya, a sua volta costretta a riparare in Lituania. Contro di loro il regime aveva avviato un procedimento penale per tentato golpe e minaccia alla sicurezza nazionale. A inizio settembre 2020 Kalesnikava ha costituito un nuovo partito, Razam (“Insieme”), ma il 7 settembre è stata arrestata in strada a Minsk da uomini dei Servizi. La cronaca a questo punto è confusa, incerta: trasportata al valico con l’Ucraina, secondo alcuni resoconti è stata arrestata per aver strappato il passaporto mentre le autorità bielorusse cercavano di costringerla ad attraversare la frontiera. Dopo poco meno di un anno di detenzione Kalesnikava è stata processata a porte chiuse da un tribunale di Minsk, si è dichiarata non colpevole, e condannata a 11 anni da scontare in una colonia penale per aver guidato le proteste contro le frodi elettorali nelle presidenziali. Da agosto 2023 risulta in isolamento nel carcere femminile n. 4 di Gomel, colonia penale del sud-est della Bielorussia.