Affollamento, chiusura, tensione e fragilità: è l’emergenza carceri di Mauro Palma Avvenire, 1 settembre 2024 Un mese difficilissimo per chi è ristretto nelle patrie galere è stato l’agosto 2024. E anche per chi vi lavora o per chi tenacemente cerca di portare al suo interno ipotesi credibili di speranza. La difficoltà non nasce soltanto dal bollettino quotidiano delle mancanze, né dall’analisi delle difficoltà e della palese inaccettabilità delle condizioni materiali nella quasi totalità degli Istituti: tutto è noto da tempo e la pur doverosa ripetizione talvolta non aiuta a comprendere né a portare a valore le poche, ma esistenti, esperienze positive e costruirne una possibile estensione. Perché non è certo l’analisi a essere carente: a mancare completamente è la prospettiva di mutamento che da essa possa e debba scaturire; nonché la volontà di ricercarla. Le attuali condizioni detentive sono facilmente sintetizzabili in quattro parole: affollamento, chiusura, tensione, fragilità. L’affollamento incide sulle altre; ma incide anche l’interpretazione restrittiva di indicazioni che, nate per sollecitare progettualità e attività, hanno di fatto determinato in molti, troppi, casi la chiusura nella cella per la gran parte della giornata laddove non si hanno attività e progetti, del resto di difficile realizzazione se si lotta ogni giorno con numeri che superano la soglia tollerabile. Le prime due parole sono perciò premessa per le successive: per la tensione che ineludibilmente si accentua e che rende difficilissima la quotidianità interna e per quella perdita di sensatezza e di valore della propria vita che incide particolarmente su chi sta vivendo un momento di maggiore fragilità. Il contatore di coloro che scelgono la non-vita è stato ed è implacabile. Questa pur nota analisi non è però produttrice di esiti conseguenti, né di decisioni minimamente adeguate. Al contrario, la distanza tra constatazione e proposte si è allargata in questi mesi. Perché le proposte avanzate da chi ha diretta responsabilità politica continuano a seguire una logica diversa dai criteri utilizzati per l’analisi: se questi ultimi guardano al mondo interno, a come in quei luoghi si vive e si lavora, le proposte guardano invece all’esterno, al loro essere coerenti con le pulsioni del proprio elettorato e funzionali al suo consenso. Non guardano prioritariamente alla soluzione dei fattori che configurano in molti casi la vita interna al carcere come prossima al “trattamento contrario al senso di umanità” e certamente distante da una finalità di possibile positivo reinserimento, bensì all’umore e al consenso di quella larga parte della collettività esterna che, pressata dalla logica della gestione delle paure, tende ad affidarsi a chi si propone come inflessibile garante di una inesauribile richiesta di sicurezza. Nessuno, infatti, può seriamente ritenere credibili le proposte contenute nel decreto recentemente convertito in legge per affrontare la difficile situazione documentata ogni giorno nelle diverse carceri della penisola. Né valgono i maldestri tentativi di sostenere che le celle dei nostri Istituti “sono in linea con gli standard europei “ o quelli di chi, per mostrare vicinanza al tema continua a ritenere che la vita in carcere si comprenda attraverso le visite spot agli operatori di Polizia penitenziaria, come se si comprendesse la funzionalità di una struttura sanitaria senza incontrare i malati e incontrando solo quel settore del personale ritenuto più corrispondente alla propria impostazione culturale e politica. Non sono proposte credibili e neppure credute da chi le ha avanzate e ha subito chiarito, contraddicendo l’enfasi dell’annuncio, che in seno al governo se ne stavano valutando altre. Nel frattempo, l’attesa di chi è ristretto all’interno di quelle mura ha subito una nuova frustrazione. E in certi luoghi la frustrazione non è senza conseguenze. In questo contesto di assenza da parte dei responsabili politici sia di proposte di immediata attuazione, sia di interventi nel medio e lungo periodo che credibilmente incidano su vivibilità e sensatezza, anche la responsabilità amministrativa traballa. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria ha emanato una nota, con preghiera di massima diffusione “anche appendendola nelle sale comuni”, in cui venivano interpretate le nuove previsioni del decreto in una forma sintetica, per più aspetti giuridicamente sgrammaticata e soprattutto capace di suscitare improprie attese da parte delle persone detenute. Solo ventiquattro ore dopo ha però fatto marcia indietro ed è stata derubricata a semplice nota interna, da non far circolare. Una vaghezza che contribuisce al senso di abbandono e accresce tensioni. Parallelamente, su alcuni temi su cui l’amministrazione dovrebbe agire con celerità, non provvede, tergiversa: dal gennaio di quest’anno la Corte costituzionale ha chiarito che il divieto assoluto e indiscriminato di riservatezza dei colloqui tra persone detenute e i loro cari contrasta con la nostra Carta e ha chiamato le Istituzioni a risolvere tale contraddizione, ma nulla l’amministrazione penitenziaria ha ancora realizzato, al di là di un mero gruppo di studio. Una responsabilità politica assente o sostanzialmente affermativa del castigo meritato, con disattenzione alla prospettiva del positivo reintegro nella società esterna; una responsabilità amministrativa sostanzialmente aderente a tale impostazione e non in grado di esercitare un ruolo progettuale complessivo; una crescente denuncia di insostenibilità del sistema da parte di chi è attento al tema delle pene e della loro esecuzione. Questa la fisionomia che le riflessioni di questi mesi ci consegnano. Riflessioni che aprono necessariamente all’altra fondamentale funzione che tiene insieme il sistema: il controllo. Quell’occhio esterno di vigilanza che si esprime sia nella tutela giurisdizionale da parte della magistratura di sorveglianza, sia in quella non giurisdizionale da parte degli organismi di garanzia, sovranazionali e nazionale. Tralasciando qui, per brevità, l’analisi dei bisogni della magistratura di sorveglianza e la constatazione della inadeguata - o spesso inesistente - attenzione a essa rivolta dal decisore politico, mi limito a spendere alcune parole per la funzione di garanzia non giurisdizionale, perché il mese di agosto si è rivelato di particolare, triste, difficoltà. Il Presidente del Garante nazionale è improvvisamente deceduto, dopo aver esercitato il suo mandato per appena duecento giorni. Giorni vissuti con impegno, nell’intento di mantenere visibile l’istituzione e conoscere un mondo che, nonostante la sua competenza giuridica e la pluriennale esperienza politica, non gli era precedentemente familiare. Non è semplice, del resto, entrare nella dinamica di un organismo di controllo che ha anche una proiezione sovranazionale - essendo il Garante nazionale “terminale” di un sistema di vigilanza delle Nazioni Unite sulla privazione della libertà personale in una prospettiva di prevenzione di ogni possibile trattamento contrario al senso di umanità e alla dignità delle persone ristrette. Questa dimensione comporta, innanzitutto, che il mandato si estenda a tutte le forme di privazione della libertà personale e non solo al carcere. Comporta poi che quel verbo “visitare” richiamato dalla norma istitutiva del Garante nazionale abbia una specificità che lo rende distante dal semplice “andare in visita” perché implica tempi adeguati, accesso a documenti, colloqui riservati e distesi con le persone: quindi, preparazione, supporto tecnico, check list su cosa vedere, discussioni in seno alla delegazione che compie la visita, raccomandazioni successive. Sono modalità che si acquisiscono gradualmente e che purtroppo non è stato possibile trasmettere come esperienza dal precedente Collegio all’attuale: una discontinuità che tuttora attende di essere sanata. Ora, sono proprio quelle parole-chiave che attualmente sintetizzano la difficile situazione della detenzione in carcere a richiedere che si agisca con celerità nel ricostituire la pienezza del Collegio, attraverso la procedura di nomina del nuovo Presidente, tenendo fermi alcuni noti capisaldi: l’assoluta indipendenza, la competenza nel settore della privazione della libertà e della tutela dei diritti umani, l’apertura all’interlocuzione con gli organi di controllo sovranazionali. Sono premesse ineludibili per rafforzare la continuità dell’Istituzione, ma anche per far sì che il Garante nazionale sia di stimolo a quel necessario cambio di passo che i diversi luoghi della privazione della libertà attendono, come cultura, come azione, come recupero del valore della dignità di chi in essi è ristretto. Per mettere al riparo il governo la Consulta finisce al guinzaglio di Liana Milella La Repubblica, 1 settembre 2024 Nessuna trattativa per scegliere il giudice mancante ormai da nove mesi. Strategia meloniana “pigliatutto” per i tre giudici che scadranno a dicembre. Il rischio paralisi. Lo scontro politico quest’estate c’è stato su tutto. Con la contrapposizione gridata tra una maggioranza aggressiva come quella meloniana e un’opposizione presa dall’angosciosa ricerca del campo largo quasi fosse un miraggio irraggiungibile. Una sola questione è rimasta fuori dall’agenda per tutti. La Corte costituzionale. Quel giudice che manca dall’11 novembre 2023 dopo la fine del mandato di Silvana Sciarra mentre altri tre, compreso l’attuale presidente Augusto Barbera, e con lui Franco Modugno e Giulio Prosperetti, a breve non potranno neppure partecipare più alle udienze perché i nove anni del mandato si chiudono il 21 dicembre. Ne ha parlato solo Sergio Mattarella, alla cerimonia del Ventaglio. Era il 24 luglio. Considerazioni nette le sue perché non avere ancora eletto quel giudice è un “vulnus alla Costituzione” e va sanato “subito” con un voto immediato. Per tutta risposta, il 5 agosto, il presidente della Camera Luciano Fontana ha fissato una data, il 17 settembre, che non era proprio dietro l’angolo. Certo, i signori parlamentari non rinunciano alle vacanze per scegliere un giudice costituzionale…Con un comune sentire, agosto è passato senza che si potesse avvertire un solo fiato. Argomento non pervenuto. Non basta. Il chiacchiericcio politico non dedica neppure attenzione al tema, tant’è che non si fa parola del possibile candidato. Tranne qualche nome di eventuali aspiranti, come il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, fido berlusconiano, che già nel 2015 aveva tentato l’avventura sponsorizzato dai suoi, in quanto l’obiettivo era ed è quello di fregiare la famiglia Sisto anche con quest’onorificenza. E poi il costituzionalista meloniano Francesco Saverio Marini, noto figlio d’arte, patron del premierato. Una candidatura la lancia già adesso Enrico Costa di Azione: “Sia per la Consulta che per il Csm io punto su Gian Domenico Caiazza”. Cioè l’ex presidente delle Camere penali. Non a caso Costa parla di Consulta ma anche di Csm, perché dà per scontato che per palazzo Bachelet bisognerà, prima o poi, sostituire la consigliera meloniana Rosanna Natoli inevitabilmente costretta a dire addio al suo posto dopo aver incontrato, da giudice, una magistrata sotto processo disciplinare. Ma il pronostico, che ipotizza lo stesso Costa, è che non si farà nulla fino alla scadenza di dicembre, quando la Corte, a quel punto senza quattro giudici, si troverà sull’orlo del baratro, perché basterebbe la sola malattia di uno di loro per bloccarne del tutto l’attività. Ma nessuno pare in allarme. La verità è che, nell’apparente indifferenza, il “sacco” della Corte si avvicina. Per mano del centrodestra. Che farà man bassa di poltrone come ha già fatto a gennaio per il Consiglio superiore della magistratura. C’erano dieci posti per i consiglieri laici. Se n’è presi sette lasciandone solo tre alle opposizioni, uno al Pd, uno a M5S, uno a Italia viva. Con la Corte farà di più. Su quattro posti potrebbe averne uno solo il Pd. Provocando peraltro un’occasione di scontro nel fantomatico campo largo. Gli altri tre sono appannaggio della maggioranza. E Meloni potrebbe pretenderne più d’uno. Il lapalissiano obiettivo è trasformare la Corte nella quarta gamba del governo. Proprio quando dovrà affrontare questioni delicatissime, a partire dal referendum sull’Autonomia differenziata, nonché il decreto Caivano, la maternità surrogata, il limite ai mandati dei sindaci nei grandi comuni. Un rapido sguardo all’attuale assetto della Corte ci dice che gli 11 giudici che resteranno a dicembre non fanno presagire di certo uno squilibrio a sinistra. Tutt’altro. I tre che lasciano furono scelti nel 2015, Barbera su indicazione del Pd, Franco Modugno di M5S, Giulio Prosperetti dell’allora gruppo centrista di Area popolare. L’anno prima, sempre il Pd, aveva candidato Silvana Sciarra. Tre anni dopo il Parlamento elesse Luca Antonini, indicato dalla Lega, anche se lui non vuole che lo si ripeta adesso perché si considera un giudice costituzionale super partes. La presenza più forte, con i cinque giudici al completo, è quella indicata dal Quirinale. Mattarella ha proposto nel 2018 il professore di diritto penale di Milano Francesco Viganò. Due anni dopo la giurista pisana esperta di diritto privato Emanuela Navarretta. E nel 2022 l’amministrativista Marco d’Alberti, che era stato consigliere giuridico dell’ex premier Mario Draghi. L’anno scorso Mattarella premia la giudice cattolica esperta di diritto dell’economia Antonella Sciarrone Alibrandi e il costituzionalista Giovanni Pitruzzella, ex presidente dell’Antitrust, che già nel 2015 volevano portare alla Corte Alleanza popolare e Scelta civica. Nomine che s’ispirano a più di un’area culturale. I giudici della Cassazione hanno votato via via i colleghi Giovanni Amoroso, Stefano Petitti e Maria Rosaria San Giorgio. Il Consiglio di Stato ha eletto l’ex ministro, nonché al vertice del CdS in quel momento, Filippo Patroni Griffi. Dalla Corte dei Conti ecco, anche in questo caso, il presidente in carica Angelo Buscema. Un parterre che non si può certo etichettare come “di sinistra”, pur se esponenti della maggioranza continuano a sostenerlo solo perché dalla Consulta pretenderebbero decisioni filogovernative, politicamente orientate a destra, a prescindere dai paletti previsti dalla nostra Carta. Proprio Augusto Barbera, in un lungo speech al meeting di Rimini, ha voluto mettere in fila le coraggiose decisioni assunte dalla Corte negli ultimi anni, dal fine vita, alla gestazione per altri, al riconoscimento del terzo sesso, all’affettività dei detenuti in carcere, “riuscendo grazie al nostro ordinamento costituzionale a sfuggire a una paralizzante bipolarizzazione tra valori e diritti”. Cioè la fotografia di un Parlamento paralizzato dalle contrapposizioni politiche. La netta sensazione è che l’obiettivo del governo Meloni sia solo quello di “normalizzare” la Consulta. Per farne una Corte compiacente rispetto ai voleri politici della maggioranza. Ovviamente quelli di destra. Sarà una mission difficile. Soprattutto per loro. Perché, facendo i conti, da soli non hanno i numeri per raggiungere gli agognati e necessari due terzi. Lo hanno scritto nel loro libro sulla Corte Costituzionale, Storie di diritti e di democrazia, Giuliano Amato e Donatella Stasio, individuando un “buco” di 11 parlamentari mancanti. Ma con il progressivo spostamento nel “campo largo” di Italia viva, e fors’anche di Azione, la faccenda si complica e peggiora. La maggioranza sarà costretta a un compromesso. Pena il fatto che la Corte, con soli 11 giudici, potrà bloccarsi. E la responsabilità, assai grave, ricadrà tutta e solo sul governo. L’antimafia delle farfalle. E dei farfalloni di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 1 settembre 2024 Il carcere di Gangi diventerà una “casa delle farfalle”. Sempre rimasto inutilizzato, fu costruito quando Cosa nostra sembrava invincibile. Piccolo, ma massiccio. Guardandoli dall’esterno quei blocchi di cemento dovevano rimandare, senza alcuna concessione all’immaginazione, esattamente alla funzione per cui erano stati eretti. Servivano a murare vivi i reclusi, i dannati del 41 bis. Doveva essere un carcere di massima sicurezza, ma per la logistica era tutto fuorché sicuro. A Gangi, borgo sulle Madonie, la costruzione ha risucchiato un bel po’ di miliardi di lire senza che un solo detenuto vi sia stato rinchiuso. Un’incompiuta fra le tante in terra di Sicilia dove lo stato sa essere più sciupone che altrove. Qui c’era di mezzo la Cosa nostra che all’epoca, negli anni Ottanta, sembrava invincibile. I padrini erano ancora liberi, non come oggi che sono tutti reclusi o che in carcere ci sono rimasti fino all’ultimo respiro. Basterà a giustificare tanto spreco di denaro pubblico? Chissà. Una cosa è certa: nessuna colpa è stata espiata nelle dodici celle, disposte lungo il corridoio, le une di fronte alle altre. Sono rimaste vuote. In virtù di un progetto presentato un decennio fa - la burocrazia in Sicilia è come la giustizia, lenta - il carcere diventerà una casa delle farfalle. Le più esotiche e le più belle del mondo. Farfalle libere di svolazzare in una cella. E’ un’immagine salvifica, che sa di seconde opportunità, di altri mondi possibili. Niente a che vedere con i farfalloni che si posano sulle macerie della giustizia autoassolvendosi. La buttano in caciara, sperando nella memoria corta degli altri. Che fine hanno fatto, per esempio, la trattativa stato-mafia e i crociati che ne facevano la causa di tutte le nefandezze della storia repubblicana? Sparita la prima, spariti i secondi. Per quasi due decenni la Procura di Palermo ha spacciato la verità farlocca che i carabinieri avessero traccheggiato con i corleonesi guidati da Totò Riina. I giornali, quelli fedeli al vaticinio della magistratura, hanno smerciato titoloni che hanno suggerito paginate di libri, che hanno ispirato sceneggiature cinematografiche, che hanno condizionato a loro volta l’opinione pubblica e le giurie popolari dei processi nelle corti di assise. Si è arrivati al punto di sostenere nelle sentenze, non al circolo della briscola, che la strage di via D’Amelio avesse subìto un’accelerazione a causa della Trattativa. Si disse che Paolo Borsellino avesse scoperto l’esistenza del patto sporco fra pezzi delle istituzioni e capimafia e per questo decisero di eliminarlo cinquantasette giorni dopo l’attentato di Capaci. C’era uno straccio di prova che lo dimostrasse per imbastire un processo, qualcosa di più di una suggestione? No, era un azzardo, basato sulla fragilità del sentito dire e l’autorevolezza sgangherata dei pentiti smemorati che campano sulle spalle dello stato fino a quando aprono bocca. E se non hanno più niente da dire straparlano pur di non divenire dei sacchi vuoti. Il processo è affondato nelle contraddizioni chiare fin dall’inizio, per nascondere le quali si urlava lo slogan “fuori la mafia dallo stato”. Ora che la Procura di Caltanissetta sta riprendendo in mano la trascurata pista del dossier “mafia e appalti” c’è la corsa a raccontare della Cosa nostra imprenditrice già dalla fine degli anni 80, delle infiltrazioni nel gruppo Gardini-Ferruzzi, della genesi di quella che sarebbe diventata Tangentopoli, iniziata con il controllo dei costruttori palermitani Buscemi e Bonura delle cave di marmo in Toscana. La Procura di Massa Carrara aveva inviato le carte ai colleghi di Palermo che aprirono un’inchiesta quasi subito archiviata. “Le cointeressenze sono indubbie, ma le indagini, giova ripeterlo, non hanno comunque fornito spunti idonei a individuare singoli episodi costituenti fatti di reato”: così c’era scritto nella richiesta di archiviazione del giugno 1992. Un mese dopo la carica di tritolo faceva saltare in aria la 126 parcheggiata sotto l’abitazione della madre del magistrato. Ed ecco la nuova ipotesi a cui lavorano i pm nisseni, l’indagine fu solo apparente. Fecero finta di attivarsi, era una messinscena perché in realtà i pubblici ministeri di Palermo, guidati dal procuratore Pietro Giammanco, avrebbero coperto le malefatte dei mafiosi. Borsellino cercava collegamenti con i boss siciliani, ne discusse anche con Antonio Di Pietro. Non aveva, però, la delega per le indagini sulle cosche di Palermo che arrivò alle 7 del mattino del 19 luglio 1992 con una telefonata di Giammanco. Qualche ora dopo Borsellino sarebbe saltato in aria in via D’Amelio. Tre decenni dopo si riparte dal dossier “mafia e appalti”. Tutte le indagini sono legittime, diventano necessarie quando ci sono di mezzo verità negate. Sarebbe confortante riuscire, almeno stavolta, ad evitare l’avanspettacolo giudiziario in cui si è scaduti nel recente passato. Se il buongiorno si vede dal mattino, però, ha tutta l’aria di un film già visto. Tutti a scandalizzarsi, a chiedersi come mai il dossier “mafia e appalti”, l’intuizione di Paolo Borsellino, non sia stato sviluppato, né nell’immediatezza della strage né nei decenni successivi. Non c’è un articolo, un’inchiesta, un resoconto giornalistico, un’intervista in cui venga citata la trattativa stato-mafia considerata per troppo tempo alla stregua dell’aristotelico motore immobile, la causa prima dello spargimento di sangue. La Trattativa è scomparsa dal lessico e dai ragionamenti. Meno se ne parla, meglio è. La sentenza ha aperto gli occhi a (quasi) tutti. Qualcuno resiste, continua a vedere nella Cassazione non il luogo dove era inevitabile che emergesse l’illogicità della ricostruzione dell’accusa, ma il consesso dove il potere si autoconserva. A parte gli aficionados in attesa delle fantasmagoriche rivelazioni del pentito di turno a cui ritornerà la memoria magari in punto di morte, tutti gli altri vivono un comprensibile imbarazzo. Parlare di “mafia e appalti” significa innanzitutto dovere ricordare che al dossier lavorava Mario Mori e cioè il generale dei carabinieri processato e assolto per la Trattativa. Un imbarazzo acuito dal fatto che è stata la famiglia Borsellino negli anni a chiedere maggiore attenzione su “mafia e appalti”. Secondo Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, una delle figlie del magistrato ucciso, e avvocato della famiglia, qualcuno si era innamorato della Trattativa e l’ha portata avanti in maniera dogmatica. E invece c’erano ricostruzioni alternative e plausibili. La verità è che le nuove indagini sulla strage di via D’Amelio sono figlie del fallimento della magistratura. Per decenni ci hanno fatto credere che Vincenzo Scarantino, un malacarne di borgata, avesse partecipato all’uccisione di Borsellino e degli agenti della scorta. Poi si è scoperto che era un falso pentito e sarebbe stato costretto a mentire a suon di botte dal capo degli investigatori, il super poliziotto Arnaldo La Barbera. Nel frattempo pubblici ministeri e giudici - un centinaio di magistrati fra primo grado, appello e Cassazione - sulla base di queste bugie hanno condannato degli innocenti all’ergastolo. Se c’è stato un grande depistaggio, indottrinando Scarantino, dunque agendo con dolo (è l’oggetto di alcuni processi in corso), e successivamente trascurando l’indagine “mafia e appalti”, bisognerebbe ammettere che si è verificato un altro depistaggio (senza dolo, s’intende), inteso come allontanamento dal sentiero investigativo che porta alla verità. Ed è stata la trattativa stato-mafia, frutto di un’indagine e di un processo lunghi e costosi che hanno seguito una direzione opposta a quella attuale che tutti celebrano come la più giusta. Solo che è più comodo dimenticare, fare finta che la Trattativa non sia mai esistita. Un dato mostrerebbe, però, una differenza fra presente e passato. L’indagine di Caltanissetta fa notizia ma la Procura non sembra cercare la ribalta mediatica. Probabilmente perché la faccenda è piuttosto delicata. Pubblici ministeri che indagano su altri pubblici ministeri. Sotto inchiesta sono finiti Gioacchino Natoli e Giuseppe Pignatone. Quest’ultimo per anni è stato procuratore aggiunto a Palermo, poi capo delle procure di Reggio Calabria e Roma, ora giudice del Tribunale vaticano. Delle indagini si sa meno del passato, e anche questo è un segnale. Il fattore tempo non aiuta e confonde. Difficile riannodare i fili, facile dare per scontate circostanze con il senno di poi e raggiungere conclusioni che allora probabilmente non erano così chiare. Di sicuro bisogna chiedersi perché tutto ciò si stia facendo trent’anni dopo. Complicato per chi indaga, ideale per una nuova stagione dell’antimafia della fuffa e dei mascariamenti. Nella danza dei chiaroveggenti c’è la corsa a ricicciare vecchi resoconti per potere issare il vessillo del “noi lo avevamo detto”. Eh certo, dicono tutto e il contrario di tutto. A scrivere e parlare sono gli stessi che non si erano accorti di Scarantino il pataccaro, che pendevano dalle labbra del super poliziotto La Barbera, o che hanno fatto entrare nei processi le panzane del pataccaro Massimo Ciancimino. Ad esempio è tornato a farsi sentire Antonio Ingroia, l’ideologo della Trattativa, che di una lunga stagione giudiziaria fatta di adunanze mediatiche è stato il simbolo. Fu lui a definire il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo un’icona dell’antimafia, tra un interrogatorio e l’altro. Finì per credere anch’egli di essere un’icona talmente pop da potersi guadagnare il consenso del popolo alle elezioni. Un paio di impalpabili tentativi gli hanno fatto cambiare idea e adesso fa l’avvocato. Poi un periodo così, diciamo di scarso appeal mediatico, interrotto dalle vicissitudini di una sua cliente illustre, Gina Lollobrigida, impegnata nella battaglia per l’eredità con il figlio. All’improvviso Ingroia è di nuovo in grande spolvero nei temi tanto cari dell’antimafiosità dura e pura. Eccolo ricordare che il pentito Giovanni Brusca gli riferì che “il dottor Pignatone era in rapporti con uomini di mafia di peso”, che Borsellino una volta disse a Pignatone che “su mafia e appalti non gliela contava giusta”, a sorprendersi della scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere del suo ex collega (vorrebbe forse rinunciarvi per i suoi clienti?). Se Borsellino era sospettoso di Pignatone sulla gestione delle indagini “mafia e appalti” perché credere sempre e solo nella Trattativa come causa dell’accelerazione della strage di via D’Amelio? La fantasia si sa è come le farfalle, libera di svolazzare. Restano liberi, oltre alle farfalle di Gangi, anche i farfalloni che da vent’anni a questa parte ammorbano i Palazzi di Giustizia. Sono aggregati in una Confraternita esoterica, in un santuario di fanatismo. C’è il santone con le stimmate e il fratello irredento del giudice ucciso; c’è l’avvocato buono per tutte le intemerate giudiziarie e ci sono i combattenti e i reduci della fantomatica Trattativa: di quel colossale intruglio di azzardi e imposture che, per oltre dieci anni, ha procurato alla Confraternita onori e visibilità. Il fantomatico processo gli aveva spalancato le porte di giornali e televisioni. E loro - registi e sceneggiatori dell’imbroglio - giravano in lungo e largo per l’Italia, non perdevano una conferenza né un dibattito televisivo, raccoglievano cittadinanze onorarie e promozioni di carriera, pubblicavano libri e venivano protetti da scorte sempre più appariscenti, sempre più impenetrabili. In realtà spacciavano solo teoremi, buoni per una opinione pubblica affascinata dai misteri e dai complotti. I loro attrezzi di scena sono stati per dieci anni sempre gli stessi: le trame oscure e le regie occulte, i servizi segreti deviati e le verità inconfessabili. Fandonie, ovviamente, suffragate da un plotone di pentiti, pronti a qualsiasi bugia, a qualsiasi invenzione e a qualsiasi contraddizione. Ma sostenute soprattutto da un pataccaro, come Massimo Ciancimino, che aveva nelle vene il sangue del padre, quel don Vito Ciancimino che era riuscito, protetto dai feroci corleonesi di Totò Riina, a diventare addirittura sindaco di Palermo. L’unico farfallone che non si è salvato è proprio lui, Massimuccio. Lo avevano vestito come un pupo da palcoscenico. Lo avevano travestito da “icona antimafia”; lo mandavano in avanscoperta a ravvivare il teatrino televisivo di Santoro e Travaglio; gli consentivano di frequentare le segrete stanze della procura e di aprire persino i computer dove c’erano i codici riservati. Lui stava al gioco e parlava sempre a nome di don Vito. Si era trasformato nel ventriloquo del padre. E recitava così bene il ruolo del mafioso redento che il fratello del giudice Borsellino lo baciava pubblicamente nelle piazze per conferire alle sue patacche il crisma della verità. Per una beffa del destino, Massimo Ciancimino oggi si aggira stanco e sconfitto tra i tavoli di un bar della Palermo residenziale. Solo col suo bicchiere di latte e con i segni, profondi, lasciati dal carcere: è stato condannato, oltre che per le calunnie, anche per i ventitré candelotti di tritolo nascosti nel suo giardino di via Torrearsa. È rimasto solo. I reverendissimi farfalloni della Confraternita - quelli che sono caduti in piedi, anche dopo la disfatta giudiziaria della Trattativa - non gli rivolgono la parola. Gli sfrecciano quasi ogni giorno davanti, chiusi nelle loro auto super blindate, protetti da un concerto di sirene esagerato, sguaiato, spocchioso, urticante, invadente. Ma nessuno - di quelli che lo coccolavano e lo addestravano - si ferma a salutarlo. Dimenticato, cancellato, rinnegato. La giustizia è una grande lotteria, c’è chi vince e c’è chi perde. Lui ha perso. I registi e gli sceneggiatori sono invece rimasti sul palcoscenico, pronti per nuove recite. In nome della giustizia e dell’antimafia. Milano. Nuova rivolta al carcere minorile Beccaria: quattro tentativi di evasione, otto feriti di Matteo Castagnoli e Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 1 settembre 2024 I giovani detenuti avrebbero usato lenzuola annodate per fuggire dalle celle e dato fuoco ai materassi. Ore di tensione sabato notte all’istituto penitenziario minorile Cesare Beccaria di Milano. Fin dalla prima serata si erano verificati disordini all’interno del carcere e tentativi di evasione di massa. Il bilancio alla fine è stato di otto detenuti feriti e quattro giovani che hanno scavalcato il muro di cinta del carcere, tutti ritrovati dalla polizia giunta in breve tempo sul posto. Secondo quanto riportato dagli agenti, uno dei ragazzi dopo aver scavalcato la recinzione ha cercato di nascondersi tra la vegetazione che costeggia l’istituto. È stato catturato prima che potesse proseguire la fuga. Individuati e fermati anche gli altri tre. Lenzuola usate per la fuga - I detenuti avrebbero usato delle lenzuola annodate per uscire dalle celle. A favorire la fuga sarebbe stata la rivolta organizzata poco prima dai giovani: avrebbero bruciato alcuni materassi presenti all’interno delle camerate. Feriti tra i detenuti e gli agenti - “Una notte di ordinaria follia”, secondo il segretario nazionale Uilpa Polizia penitenziaria Gennarino De Fazio. “Nel corso dei disordini, cui avrebbero preso parte tutti i 58 reclusi presenti, diversi hanno tentato di evadere e ben quattro sono riusciti a scavalcare il muro di cinta, ma dopo ore di ricerche - ha spiegato in una nota - sono stati tutti rintracciati all’interno del perimetro che delimita il carcere e altri uffici del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità”. “Si registrano alcuni contusi non gravi - aggiunge -, sia fra i detenuti sia fra gli agenti, un ristretto è stato ricoverato in ospedale ed è momentaneamente piantonato dalla Polizia di Stato per mancanza di operatori della Penitenziaria”. Secondo De Fazio quanto accaduto “è la prova provata del fallimento organizzativo e gestionale del sistema penale inframurario minorile, che fa il paio con quello per gli adulti”. I precedenti - In passato si sono già verificati altri episodi simili. Lo scorso 20 agosto cinque agenti di Polizia penitenziaria e tre detenuti sono stati portati in ospedale per una leggera intossicazione a causa di un materasso in fiamme. Altri incendi sono stati appiccati anche durante il mese di luglio quando un lenzuolo ha preso fuoco all’interno di una cella al piano terra. L’intervento dei vigili del fuoco ha impedito che l’incendio divampasse e si propagasse negli altri spazi. L’evasione di giugno - Uno degli ultimi episodi di fuga risale, invece, a giugno quando due giovani reclusi hanno tentato di scappare dall’istituto. Entrambi sono stati ripresi dopo qualche tempo. Gli arresti di aprile - Da alcuni mesi l’istituto penitenziario Beccaria è nel mirino della Procura di Milano. Dalla fine di aprile gli arresti e le sospensioni di 21 agenti della polizia penitenziaria accusati di violenze nei confronti dei detenuti hanno fatto crescere l’attenzione sulle condizioni all’interno dell’istituto minorile. “Nel carcere non c’era un direttore stabile e il comandante era assente nei momenti cruciali- ha sottolineato in un’intervista al Corriere la presidente del Tribunale per i minorenni di Milano Maria Carla Gatto. Serve una formazione specifica degli agenti di polizia penitenziaria”. Negli ultimi mesi si sta lavorando per cercare di riportare un clima sereno nell’istituto, anche tramite l’apertura alla cittadinanza della messa domenicale. Napoli. L’allarme del Garante: “Episodio di cannibalismo nel carcere di Poggioreale di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 1 settembre 2024 “Nel pomeriggio di mercoledì, all’interno della casa circondariale di Poggioreale, si è verificato un episodio terribile di cannibalismo. Un detenuto affetto da disturbo psichico, diagnosticatogli presso l’ospedale di Torre del Greco dal quale era stato dimesso, ha aggredito prima lanciando detersivo negli occhi, e poi letteralmente staccato e mangiato parte di un dito di un altro detenuto, anche lui affetto da problematiche psichiche”. È quanto rende noto il garante campano dei diritti dei detenuti, Samuele Ciambriello. Patologie psichiatriche - “Oltre che l’aumento degli psichiatri, è ormai chiaro che serve nel carcere di Poggioreale una struttura adatta all’accoglienza di detenuti affetti da disturbi psichici. Se non una struttura, almeno un’unità operativa dedicata con infermieri, assistenti sociali, tecnici della riabilitazione e psicologi- spiega Ciambriello- Sono più di duecento i detenuti psichiatrici presenti nell’istituto, una ottantina sono psicotici. Occorre applicare il decreto della Giunta regionale della Campania area sanitaria n. 6 del 25/01/2018, art. 33.3. cura i pazienti psichiatrici liberi?”. “Carenza di personale” - “Il dipartimento di Salute mentale è formato da psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali, tecnici della riabilitazione psichiatrica, educatori, operatori socio sanitari- sottolinea ancora il garante- Dunque, per curare la malattia mentale non occorre solo lo psichiatra, motivo per il quale anche in carcere sono necessarie queste figure professionali”. Infine, il garante campano ricorda che “nella casa circondariale di Poggioreale sono presenti 2067 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 1.404 posti”. Torino. In cella anche vendette, è ormai guerra tra clan di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 1 settembre 2024 Hanno approfittato del cambio turno della polizia penitenziaria per creare scompiglio e raggiungere la cella di un detenuto marocchino e pestarlo a sangue. I protagonisti di questa ennesima giornata di disordini e violenza sono stati alcuni reclusi albanesi. A denunciare l’episodio, avvenuto il 30 agosto nel Padiglione B del carcere Lorusso e Cutugno, è il sindacato Osapp che parla apertamente di “guerra tra bande” di detenuti di diversa nazionalità: la faida vede contrapposti albanesi e marocchini. Questi ultimi giovedì avrebbero sfregiato un detenuto albanese e il giorno dopo sarebbe scattata la rappresaglia. Stando a quanto ricostruito dal sindacato, una quarantina di albanesi che occupano le celle della quarta sezione, al primo piano del padiglione, avrebbero approfittato del cambio turno degli agenti di polizia penitenziaria e forzando i cancelli della rotonda si sono diretti al terzo piano. Qui hanno fatto irruzione nella dodicesima sezione dopo aver aggredito la polizia penitenziaria, impossessandosi così delle chiavi dei cancelli interni e delle celle. Infine, hanno raggiunto la stanza di un detenuto marocchino e lo hanno picchiato a sangue: le sue condizioni di salute sono molto gravi, ma non è in pericolo di vita. Nella rivolta sono stati feriti anche due agenti, che hanno cercato di opporsi al gruppo di albanesi: un poliziotto sarebbe stato travolto da una branda (usata per sfondare l’ingresso in sezione) e ha riportato la frattura di una costola con una prognosi di 20 giorni, il compagno se la caverà in 6 giorni. “Per l’ennesima volta - spiega il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci - ci troviamo ad affermare che il carcere di Torino è totalmente “in mano ai detenuti”. Nella guerra tra bande, il personale di polizia risulta del tutto “impotente” ed incapace di reagire per tempo, come dimostra la sottrazione delle chiavi”. Per il sindacalista i problemi vengono sistematicamente sottovalutati dal Dap: “Il carcere di Torino e decine di altri penitenziari sul territorio nazionale sono privi di comandanti e direttori titolari. È ora che il Guardasigilli Carlo Nordio e i sottosegretari delegati Delmastro e Ostellari prendano atto del fallimento”. Reggio Emilia. Suicidi in carcere, il Pd si mobilita: “Un Consiglio comunale aperto” di Nicola Bonafini Il Resto del Carlino, 1 settembre 2024 Il sindaco Massari: “Ne parleremo con la direttrice della Pulce, i detenuti vanno tutelati e non dimenticati”. Un Consiglio comunale aperto, con la finalità di rendere più stretto il legame tra il Comune di Reggio Emilia, con i suoi servizi, e il mondo che ruota attorno alla Casa Circondariale, i suoi detenuti e chi vi opera all’interno. Lo ha annunciato il sindaco Marco Massari, venerdì sera, alla Festa nazionale dell’Unità in corso di svolgimento al Campovolo, durante un dibattito sulla questione dell’Autonomia differenziata ed il governo delle città, che l’ha visto protagonista assieme ad altri sindaci del Pd tra cui Roberto Gualtieri, primo cittadino di Roma, Vito Leccese, neosindaco di Bari ed Elena Piastra, a capo dell’Amministrazione comunale di Settimo Torinese. Il tutto moderato da Davide Baruffi, sottosegretario alla presidenza della giunta regionale, nonché membro della segreteria nazionale del Partito Democratico. Il tragico evento avvenuto nella notte tra giovedì e venerdì al carcere della Pulce dove un detenuto di origine marocchina di 54 anni, in carcere per cumulo di pene per furti, rapina e resistenza a pubblico ufficiale (con ‘fine pena’ prevista per il 2026, ma con possibile uscita anticipata al 2025 grazie ai benefici carcerari), si è tolto la vita impiccandosi alle grate della sua cella con dei brandelli di una maglietta, dopo una lite con il suo compagno di cella, ha scosso le coscienze. Sull’accaduto sta indagando la procura reggiana, con il sostituto Maria Rita Pantani che - come riportato ieri dal Carlino - ha aperto un fascicolo contro ignoti per l’ipotesi di reato di istigazione al suicidio. È stato proprio Baruffi, nel suo intervento introduttivo, a ricordare come col suicidio dell’altra notte: “Sono 67 le persone che si sono tolte la vita in carcere dall’inizio dell’anno in tutta Italia. Il nostro partito ha denunciato a tutti i livelli questa situazione, che è ampiamente nota. Tuttavia il Governo sta tergiversando ed i provvedimenti assunti non producono risultati. È evidente che non siamo in grado di rispettare il dettato della Costituzione nella detenzione delle persone”. Una perdita, quella del detenuto 54enne, che è stata ricordata con un minuto di silenzio prima dell’inizio del dibattito al campovolo. Cui ha fatto seguito l’importante riflessione del sindaco di Reggio, Marco Massari: “Il tema dei suicidi in carcere non va né dimenticato, né accantonato - ha sottolineato il primo cittadino della città del tricolore - Queste persone sono nelle mani dello Stato, che ne deve garantire la tutela, dal punto di vista della loro sicurezza e salute. Spesso le persone che si suicidano in carcere sono malate, o, comunque, non sono curate”. Da qui l’opportunità, condivisa in un incontro con la direttrice del carcere di via Settembrini, di organizzare un Consiglio Comunale aperto “in modo da portare dentro la Casa Circondariale i nostri servizi: scuola, salute, avviamento al lavoro, formazione. Proprio perché il carcere non può essere considerato un’entità separata rispetto al tessuto sociale della città - ha specificato Massari - È opportuno attivare tutti i percorsi possibili di riabilitazione. Che non riguardano solo i detenuti (sono ben 7 i casi di suicidio dall’inizio dell’anno in Emilia-Romagna e il 67esimo in Italia, ndr) ma anche le guardie carcerarie (7 in tutto il Paese da inizio 2024, ndr), perché anche tra loro il tasso di suicidi non è indifferente Quello è un mondo che, sia dal punto di vista etico che umano, abbiamo il dovere di non abbandonare”. Alessandria. Ilaria Salis in visita al carcere incontra Luigi Spera, accusato di terrorismo di Franco Stefanoni Corriere della Sera, 1 settembre 2024 “Caso politico. Nelle celle situazioni raccapriccianti”. L’europarlamentare di Avs visita il penitenziario di San Michele ad Alessandria. Spera, pompiere siciliano, è accusato di aver buttato molotov contro la Leonardo a Palermo. Ilaria Salis ha visitato ieri il carcere di San Michele di Alessandria, dove ha incontrato Luigi Spera, pompiere siciliano accusato di terrorismo con l’accusa di aver partecipato la notte del 26 novembre 2022 a Palermo insieme ad altre sei persone a un attacco alla sede della Leonardo, azienda partecipata dallo Stato e produttrice, tra l’altro, di armi. “Un compagno di Palermo al centro di un vero e proprio caso politico, su cui occorre fare convergere le nostre energie solidali”, ha detto l’eurodeputata di Alleanza Verdi e Sinistra (Avs). Secondo l’accusa, Luigi Spera, 42 anni, quella notte avrebbe contribuito a creare un incendio con lancio di bottiglie molotov, e successivamente divulgato un comunicato per rivendicare le ragioni del fatto. Da qui la contestazione di terrorismo e istigazione a delinquere, quindi la reclusione in regime di “alta sicurezza”. Dal carcere ha scritto lettere per denunciare le condizioni “inumane” di vita interne, suicidi, sovraffollamento, oltre che per sostenere “l’abolizione del carcere e dello Stato capitalista”. Avs ha più volte solidarizzato con lui contro il trattamento in corso e partecipato a manifestazioni in suo appoggio. Ieri, all’uscita dal carcere, Salis ha poi descritto la situazione vista all’interno della struttura, pubblicando un video su Instagram. “In questa casa di reclusione sono presenti 367 detenuti a fronte di una capienza di 287 persone. Visitando le sezioni comuni, oltre all’autolesionismo che è praticamente una pratica quotidiana purtroppo, i problemi principali che ho riscontrato sono in primo luogo la difficoltà ad accedere alle cure mediche dovuta a un perenne sotto organico del personale sanitario”. L’europarlamentare inoltre ha sottolineato che al San Michele e nell’altro carcere di Alessandria, il Cantiello e Gaeta, sono “presenti in totale sette educatori che si devono dividere appunto tra i due istituti”. “Infine in questo carcere sono detenute 133 persone che hanno fine pena sotto i tre anni. Ricordiamo quindi che per legge la maggior parte di loro avrebbe diritto ad accedere alle misure alternative, cosa che di fatto non avviene”, ha detto ancora Salis, “la situazione più critica l’ho riscontrata nelle sezioni Isolamento e dove sono detenute le persone in articolo 32. Qui ho trovato una situazione a dir poco raccapricciante in cui le persone sono praticamente abbandonate a se stesse perché non possono prendere parte a nessun tipo di attività. E in queste sezioni c’è l’immondizia abbandonata nei corridoi e anche nelle docce”. La visita dell’europarlamentare è stata commentata dal segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, Leo Beneduci. “Devo dire con piacere che viene constatato da più parti che c’è una situazione disastrosa nelle carceri, che c’è uno stato di abbandono, di immondizia, di sporcizia, mancanza di personale, sanità inesistente cose che noi denunciamo da tempo”, afferma il sindacalista. “Unico problema”, aggiunge Beneduci, “è che va anche notato che non si dice nulla sulle condizioni disastrose del personale di polizia penitenziaria. Manca personale dell’area educativa, dell’area sanitaria, mancano servizi. Ma il personale di polizia penitenziaria che è quello su cui grava la gestione, disastrosa fino a oggi per colpa delle autorità delle carceri, vive condizioni di disagio, di stress e di rischio sproporzionato rispetto a quello che la legge gli chiede di fare e nonostante tutto continuano ad assolvere ai loro doveri. I politici e i parlamentari che vengono in carcere, ben vengano, tengano conto anche di questo”. Alessandria. La risposta dei sindacati di Polizia penitenziaria: “Il vero stress è per gli agenti” di Adelia Pantano La Stampa, 1 settembre 2024 Ilaria Salis, eurodeputata con un passato da attivista pagato con la durissima detenzione in Ungheria, ha definito “raccapricciante” la situazione dell’istituto di pena alessandrino. Ispezione a sorpresa la sua, poi il racconto: “Qui ci sono 367 detenuti, a fronte di una capienza di 287 persone. Oltre all’autolesionismo che è una pratica quotidiana, ho riscontrato difficoltà ad accedere alle cure mediche dovute anche a un perenne sotto organico del personale sanitario”. Sottolineata poi la carenza del personale educativo. “Sono 7 in totale gli addetti, ma si devono dividere tra i due istituti della città”. Ilaria Salis, che per un anno e mezzo è stata nel carcere di Budapest prima di ottenere la liberazione per l’immunità parlamentare, punta l’attenzione su altri due aspetti: “Ci sono 133 persone con un fine pena sotto i tre anni. Per legge, la maggior parte di loro avrebbe diritto a misure alternative cosa che di fatto non avviene”. C’è poi la questione dei detenuti in articolo 32, ovvero nelle sezioni in isolamento. “Sono abbandonati a loro stessi, non possono prendere parte a nessun tipo di attività. Inoltre in queste sezioni c’è l’immondizia nei corridoi e anche nelle docce”. Nell’area di alta sicurezza l’incontro con Luigi Sbarra, un vigile del fuoco siciliano di 43 anni accusato di aver partecipato ad un’azione di natura terroristica. Sulle attività per i detenuti in isolamento, replica Carmine Falanga, presidente di “Idee in fuga” che opera all’interno del carcere: “Loro sono esclusi e non possono partecipare a nessun tipo di attività”. Anche le sigle sindacali della Polizia penitenziaria dicono la loro. “Da più parti viene contestata la situazione nelle carceri, ma spesso non si dice nulla sulle condizioni disastrose degli agenti”, commenta il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, che poi rimarca: “Il personale di polizia è quello su cui grava la gestione disastrosa, gli agenti vivono in condizioni di stress e di rischio. Si tenga conto di questo”. Una posizione che trova d’accordo anche il Sappe. Il vice segretario regionale Demis Napolitano puntualizza: “La pulizia della sezione è compito di un detenuto che ogni mese, per alcune ore al giorno, è pagato per pulire le celle. Sulla questione sanitaria noi portiamo per visite specialistiche almeno 100 detenuti ogni mese: a loro la terapia viene data”. Su chi ha un fine pena sotto i tre anni, aggiunge: “Le misure alternative sono previste per le pene definitive, molti di loro non l’hanno. Non è colpa del carcere”. A rimarcare i rischi della polizia penitenziaria è l’ennesimo caso di violenza segnalato ieri a San Michele. Due detenuti della sezione di isolamento hanno dato fuoco a un materasso e a diversi suppellettili della cella. “Il rischio per gli agenti è molto alto - conclude Napolitano. Ci chiediamo quando, oltre alle passerelle politiche, passeremo a fatti concreti”. Pesaro. Biancani, Cucchi e Mengucci in visita al carcere di Villa Fastiggi radioincontro.com, 1 settembre 2024 Visita congiunta per il sindaco Andrea Biancani, la senatrice Ilaria Cucchi e l’assessora alla Sicurezza Sara Mengucci all’interno del carcere di Villa Fastiggi dove, al loro arrivo, sono stati accolti dal Direttore in missione Palma Mercurio, dal Comandante Gabriele Celli, dalla Direttrice e coordinatrice dell’area pedagogica Enrichetta Vilella, dal Responsabile area Contabile Fernando Del Mastro e dalla Polizia Penitenziaria. “È sempre toccante far visita ai detenuti del carcere di Pesaro - ha sottolineato il sindaco Biancani -: una realtà che conosco bene e di cui mi occupo da anni. In primis, però, mi preme ringraziare la senatrice Ilaria Cucchi per la sensibilità che ha mostrato negli anni sulla tematica e che, proprio sotto sua richiesta, ho avuto il piacere di accompagnare tra le celle dei detenuti della sezione maschile e femminile”. Alla visita del sottosegretario al Ministero della Giustizia Andrea Delmastro, fatta in autonomia la scorsa settimana senza il coinvolgimento delle istituzioni territoriali, è seguita quella del sindaco Biancani, della senatrice Cucchi e dell’assessora Mengucci che, durante le oltre 3 ore di visita, hanno avuto modo di confrontarsi anche con i vertici della Casa circondariale di Pesaro. Tra le difficoltà più evidenti da affrontare all’interno della struttura, sottolineate da detenuti e Polizia Penitenziaria, vi sono “la necessità di una maggior formazione professionale che possa aiutare i detenuti a imparare un mestiere, guadagnandosi da vivere una volta scontata la pena - hanno proseguito Biancani e Mengucci -; un miglior intervento di assistenza psichiatrica che, in alcuni casi, potrebbe ridurre anche la contingenza con i suicidi all’interno delle carceri; l’aumento di personale che rimane punto fondamentale su cui lavorare; sistemi di videosorveglianza non completamente funzionanti”. Attenzione particolare anche nei confronti della rete informatica, dei sistemi di ventilazione e degli impianti elettrici presenti nella struttura, attualmente datati e che andrebbero sostituiti per permettere ai detenuti di poter svolgere i colloqui in videochiamata o per avere un ricircolo dell’area adeguato anche per il personale che sta in divisa: “A riguardo l’amministrazione comunale si era proposta per trovare delle ditte che potessero mettere a disposizione dei veri e propri ventilatori, ma che attualmente non è possibile installare proprio per via del vecchio dell’impianto che non ne sostiene il carico elettrico”, hanno precisato Biancani e Mengucci. “Una situazione che crea disagio a tutti coloro che lavorano e vivono all’interno della struttura”. Presenti al sopralluogo anche l’associazione Braccia Aperte che organizza, con i fondi della Comunità europea, corsi lavorativi riconosciuti per il reinserimento nella società dei detenuti e assieme a Isaia, Caritas, educatori e volontari hanno poi condiviso i progetti, coordinati da Ambito Territoriale Sociale 1, che nella città di Pesaro continuano ad essere attivi in collaborazione con l’amministrazione comunale che, nel corso degli anni, si sono intensificati, tanto da creare una vera e propria rete di aiuto, direttamente dal carcere, allo sviluppo educativo dei detenuti. “Figure che ringraziamo e che svolgono un ruolo fondamentale per la comunità carceraria - sottolineano Biancani e Mengucci -. Un aiuto prezioso che, in parte, sopperisce alla mancanza di personale ma vanno aiutate e incrementate nello svolgimento di ulteriori corsi”. “Figure che ringraziamo e che svolgono un ruolo fondamentale per la comunità carceraria - sottolineato Biancani e Mengucci -. Un aiuto prezioso che, in parte, sopperisce alla mancanza di personale che però vanno aiutate e incrementate nello svolgimento di ulteriori corsi”. Inoltre, “abbiamo avuto anche modo di verificare il lavoro della Polizia Penitenziaria, che svolge non solo un ruolo di controllo e sorveglianza ma che, con i detenuti, ha instaurato rapporti umani e di supporto mentale in situazioni difficili, che sono all’ordine del giorno nel settore carcerario. Un lavoro complesso che va riconosciuto”. La senatrice Ilaria Cucchi, pesarese d’adozione, ha anche ricordato come il carcere di Pesaro abbia, per lei, una valenza significativa: “È il primo a cui ho fatto visita nella mia veste di senatrice. Una struttura che presenta diversi problemi e mancanze a cui gli agenti di polizia penitenziaria, gli operatori e i volontari sopperiscono come possono. Purtroppo, devo sottolineare che ho trovato le condizioni del carcere di Villa Fastiggi del tutto invariate rispetto alla mia prima visita. Il sottosegretario Del Mastro questa estate ha fatto il giro delle carceri solo per farsi selfie con gli agenti, che però ormai si sentono anche un po’ presi in giro - conclude Cucchi. La situazione del pianeta carcere è sotto gli occhi di tutti. E il governo non sta facendo nulla per affrontare il problema anzi, lo usa come discarica sociale”. Messina. La Garante dei detenuti: “A Gazzi realtà drammatiche, malgrado la gestione positiva” di Alessandra Serio tempostretto.it, 1 settembre 2024 Gli incontri con chi vive da sempre dietro le sbarre lasciano il segno anche nella giurista, che a Palazzo Zanca chiederà impegni concreti. E sull’attuale deriva del sistema penale spiega. “Sono rimasta particolarmente colpita dall’incontro con un detenuto straniero. Ha passato la maggior parte della sua esistenza in carcere. Mi ha raccontato di essere nato dietro le sbarre, dove è cresciuto fino a 7 anni. A 14 anni c’è tornato per sua colpa, poi vi è uscito e rientrato a più riprese, per periodi sempre più lunghi in cella. Ha passato praticamente la sua intera esistenza in carcere. Mi chiedo quale possa essere la prospettiva di una esistenza che non ha conosciuto altra realtà, la disperazione della consapevolezza di non aver avuto altra alternativa”. Lucia Risicato racconta così l’ispezione al carcere messinese di Gazzi, effettuata insieme ad una delegazione della Camera Penale Pisani-Amendolia e l’onorevole Tommaso Calderone. Una mission voluta per aprire il tavolo di confronto con la direttrice, Angela Sciavicco, in vista della relazione al consiglio comunale che la neo Garante comunale per i diritti dei detenuti sta per presentare. Alla domanda se questo episodio l’ha motivata ancora di più nel suo ruolo, la professoressa Risicato risponde da giurista (una giurista che l’Italia invidia a Messina). Dove va il sistema penale in Italia? “A motivarmi nel presentare la candidatura è stata la proposta di legge allora presentata dall’oggi presidente del Consiglio per l’abolizione del comma III dell’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Anziché commentare, mi rifaccio a una espressione del professore Gaetano Silvestri: “La dignità umana non si acquista per meriti e non si perde per demeriti”. La proposta fortunatamente è stata accantonata, però era stata presentata, così come quella volta ad abolire il delitto di tortura”. Tornando alla situazione del carcere di Gazzi, la neo Garante si prepara a relazionare al consiglio comunale cui presenterà il quadro di una struttura ottimamente gestita, dove il personale è caratterizzato da “intelligenza e competenza” e dove fortunatamente non esistono problemi di sovraffollamento. Anche Gazzi però sconta i problemi del sistema penitenziario italiano in generale, dal sistema sanitario alle carenze di programmazione che portano tanti soggetti a restare in carcere quando potrebbero invece non starci. Ed è su questi punti che la Risicato chiederà la collaborazione di Palazzo Zanca, dai consiglieri all’amministrazione. Le richieste della Garante a Palazzo Zanca - “Uno sportello dell’ufficio anagrafe dedicato al carcere, operativo anche soltanto una volta a settimana, mi appare fattibile nel breve termine. Anche gli intoppi burocratici per i detenuti sono problemi più grandi, loro non possono mettersi in fila ed attendere il turno, o tornare dopo giorni per un certificato. Si pensi che la residenza è un aspetto cruciale per la concessione dei permessi premio, misure alternative e la possibilità di candidarsi ad altri benefici. Molti detenuti non sono messinesi, e vivono in uno stato di completo abbandono rispetto alle famiglie d’origine. Poi ce ne sono molti che sono per esempio gravemente malati. Ma non possono andare in una Rsa perché non sono anziani, né in una struttura riabilitativa perché non hanno problemi psichiatrici. Per questi soggetti, chiederò al Comune l’impegno a individuare delle strutture di accoglienza, di cui possono beneficiare per esempio i soggetti con al massimo un anno di pena residua da scontare, così da poter agevolare progetti di reinserimento nella società, o per non lasciare morire in carcere persone che non sono più un pericolo per nessuno”. Il nodo sovraffollamento - Dalla situazione messinese al piano politico: “Le strutture italiane, a differenza di quella messinese, soffrono il sovraffollamento e ne abbiamo visto in questi mesi i risvolti drammatici. Su 14 mila detenuti “in più”, 8 mila di loro devono scontare una pena inferiore ad un anno. Sono tutti detenuti che potrebbero non restare in carcere e si era parlato della concessione speciale della libertà anticipata. Una misura che “costa” poco e aiuta molto. Ma né il Parlamento né il Governo alla fine, in sede di conversione, hanno scelto questa strada”. “La politica - prosegue Risicato - ha scelto invece altre misure. Nel decreto Carceri recentemente convertito si innalza a 6 per esempio il numero delle chiamate consentite ai detenuti verso i familiari. Una situazione surreale, se si pensa che era già prevista la possibilità per i direttori di autorizzarne più di quattro. In alcuni paesi è consentito ad alcuni detenuti di tenere un telefono, ovviamente opportunamente “manipolato” perché possa comunicare soltanto con specifiche utenze. Ecco, questo è un altro aspetto che mi ha molto colpito, incontrando i detenuti a Gazzi. Tutti, malgrado le condizioni “buone” del carcere messinese rispetto ad altre strutture, chiedevano maggiore possibilità di incontrare i familiari”. Catanzaro. L’Asp: “Nel carcere di Siano offerte cure adeguate alle condizioni cliniche” Corriere della Calabria, 1 settembre 2024 Le precisazioni dopo l’annuncio dello sciopero della fame di un detenuto. “Il servizio continuerà a tutelare la salute dei ristretti”. Dopo la vicenda del detenuto Mario Francesco, che avrebbe annunciato uno sciopero della fame per avere cure adeguate, l’Azienda Sanitaria di Catanzaro ritiene di dover fare alcune precisazioni, anche per rendere un quadro completo all’opinione pubblica. La puntualizzazione è affidata alle parole del Responsabile della Sanità penitenziaria Prof. Giulio Di Mizio. “Il modello organizzativo della Sanità Penitenziaria dell’Asp di Catanzaro opera secondo criteri di appropriatezza clinica, gli unici possibili nell’erogazione di servizi sanitari. Questa impostazione vale per il sig. Mario Francesco così come per tutti gli altri circa 700 ospiti di questo Istituto penale: tempi, modalità e criteri di erogazioni delle terapie rispondono a criteri ben precisi, nel rispetto dei LEA. Non posso, per obbligo istituzionale, entrare nel merito dei singoli punti portati in maniera distorta alla ribalta mediatica, trattandosi di detenuto paziente in carico a questo Sevizio, per il quale sussiste l’obbligo di tutela oltre che della salute, della privacy e del segreto d’ufficio. La Magistratura competente è comunque costantemente informata della vicenda clinica, ben conosciuta da tutti noi ormai da anni. Non sussiste alcun pericolo per la vita e per la salute della persona in argomento. Sorprende come questioni prettamente cliniche possano essere affrontate in maniera impropria su testate giornalistiche, fornendo per l’ennesima volta alla opinione pubblica informazioni fuorvianti e di parte che peraltro - in un momento così complicato della realtà penitenziaria nazionale - mal si coniugano con la obbligatoria responsabilità Istituzionale”. “Questo Servizio di Sanità Penitenziaria - si legge ancora nella nota - ovviamente continuerà a tutelare la salute dei ristretti essendone il vero unico garante istituzionale, nonostante le polemiche mediatiche ed i reiterati tentativi di delegittimare tutte quelle Istituzioni che con abnegazione lavorano quotidianamente nel complesso mondo penitenziario; rispetteremo l’impegno civile, morale e istituzionale di coniugare tutela della salute con la certezza della pena, nel rispetto delle “Linee guida in materia di modalità di erogazione dell’assistenza sanitaria negli Istituti penitenziari per adulti; implementazione delle reti sanitarie regionali e nazionali” - Conferenza Stato Regioni e Unificata del 2015 e dell’art 11 Ordinamento Penitenziario, e saremo sempre i primi - essendo in posizione di garanzia - a suggerire, d’iniziativa, e senza subire strumentalizzazioni, tutte le misure adeguate alla tutela della salute della popolazione detenuta”. Lucera (Fg). La lettura che cura i bambini invisibili figli di genitori detenuti ilfrizzo.it, 1 settembre 2024 “Bambini invisibili, figli di genitori detenuti: la lettura che cura”. È questo il titolo dell’incontro che si terrà giovedì 4 settembre alle ore 19 al Circolo Unione di Lucera, organizzato dalla associazione “Lavori in corso” in collaborazione con il Circolo e con il sostegno del “Centro per il Libro e la Lettura” del Ministero della Cultura. L’evento divulgativo viene promosso a distanza di quattro mesi dalla donazione della mini “Biblioteca Ciaia” ai bambini figli di genitori detenuti del carcere di Foggia all’interno dello Spazio Giallo, luogo di accoglienza e relazione gestito da Lavori in Corso Aps, da parte della professoressa universitaria Floriana Conte. La biblioteca è stata messa a disposizione da Laterza in occasione del Premio “Giambattista Gifuni”, assegnato alla docente foggiana. L’incontro del prossimo 4 settembre al Circolo Unione di Lucera, sarà dunque l’occasione per discutere del prezioso valore della lettura in contesti di disagio sociale, quali il carcere, e in particolare per i bambini che vivono situazioni di possibile povertà educativa. Questi gli interventi che animeranno l’incontro “Bambini invisibili, figli di genitori detenuti: la lettura che cura”: Giovanni Gifuni, già Consigliere parlamentare della Camera dei Deputati, che partirà nella sua analisi dal valore sociale del pluriventennale Premio “Giambattista Gifuni”; l’importanza della lettura come stimolo per la crescita di un contesto sociale difficile, unitamente alla famiglia ed al territorio di appartenenza, sarà la traccia che sarà approfondita da parte di Floriana Conte, professoressa di Storia dell’Arte presso l’Università degli Studi di Foggia e accademica dell’Arcadia; Rossella Caso, Ricercatrice in Pedagogia generale e sociale all’Università degli Studi di Foggia discuterà di lettura e del libro come strumento di mediazione e di relazione tra operatori, bambini e genitori detenuti. Modererà l’incontro Antonietta Clemente, avvocata e criminologa, direttrice di Lavori in Corso, l’Associazione di promozione sociale che, attraverso i propri operatori, ogni giorno accoglie i circa 350 bambini che varcano le soglie del carcere di Foggia per incontrare i propri genitori, accompagnandoli nel delicato momento che precede il colloquio con laboratori di arte terapia e lettura. Torino. Studiare in carcere: la storia di Roberto, maturità classica e due lauree di Roberta Barbi vaticannews.va, 1 settembre 2024 Nei 22 anni di pena che ha scontato, Roberto Gramola, ormai in libertà da 11, ha conseguito la maturità classica e le lauree in Giurisprudenza e Scienze politiche all’interno della casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino. Oggi lavora per la Caritas con i migranti e dice ai giovani: fuggite dalla vita facile. Lo studio in carcere: una possibilità utile sia per apprendere competenze spendibili una volta fuori e corredarle di un titolo che abbia valore legale, ma anche per reinserirsi in società con un’immagine e un ruolo diversi da quelli che accompagnano tutti gli ex detenuti. È questo che Roberto Gramola - 22 anni di carcere terminati 11 anni fa - testimonia con la sua parabola di riscatto, tanto da essere invitato ovunque quando c’è da parlare di cultura, studio e formazione professionale al di là delle sbarre. Normale e giusto che sia così, perché questo energico ottantenne dalla sua cella di Torino ha conseguito prima la maturità classica - lui che nella vita fuori era geometra ma non aveva mai esercitato come tale - e poi addirittura due lauree, in Giurisprudenza e Scienze politiche. “Il carcere - racconta a Radio Vaticana Vatican News - è un’istituzione totale che ti toglie tutto. Quando entri il trauma è forte, ti cambia il modo di vivere e ci vuole tempo per reagire, ma poi capisci che davanti hai solo due scelte possibili o aspettare la fine della pena seduto sulla branda a parlare con gli altri detenuti di cosa si combinerà fuori, oppure cercare di capire chi sei e soprattutto perché sei finito lì. Per me è stata un’occasione per ricominciare”. Mettersi a studiare in carcere per Roberto diventa un modo di esercitare la propria libertà interiore, l’unica che gli è rimasta. “Prima dell’arresto - ricorda - non avevo mai fatto un lavoro sedentario, avevo sempre girato il mondo, sapevo che per me le quattro mura di una cella sarebbero stata una costrizione troppo grande. Dai miei compagni ho ricevuto tantissimo aiuto: quando dovevo studiare loro guardavano la televisione senza l’audio, e per persone costrette a trascorrere in una stanzetta la maggior parte della loro vita con la tv come unica finestra sul mondo, è stato un gesto incredibile di solidarietà come probabilmente non se ne vedono neanche fuori”. Così, giorno dopo giorno, anno dopo anno, Roberto raggiunge tutti i traguardi che si è prefissato. Roberto faceva il rappresentante di marmi e graniti. Girava l’Italia, poi l’Europa e, negli anni Settanta, anche Stati Uniti e Sudamerica, dove incontra i narcotrafficanti con cui collabora fino all’arresto, nel 1997. “Studio e lavoro nella mia vita di prima non erano valori, ho sempre voluto fare meno fatica possibile - prosegue - i soldi, quelli sì erano sempre al centro dei miei pensieri: pensavo fossero l’inizio e la fine di ogni felicità e li ho sempre perseguiti, prima con il lavoro onesto e poi con il resto. Ho sempre messo me stesso al centro di tutto, finché sono arrivato in carcere e ho capito, anche attraverso l’intervento della Provvidenza”. È grazie alla Caritas di Torino che Roberto inizia a uscire con permessi di studio e lavoro, i suoi titoli e la sua capacità di parlare 7 lingue sono molto utili al lavoro che svolge quotidianamente con i migranti di tutto il mondo. “La Caritas ha fatto quello che avrebbe dovuto fare il carcere: ha creduto in me, mi ha dato la responsabilità di qualcosa oltre me stesso e io l’ho accettata, finalmente”. Oggi, dall’alto dei suoi 80 anni, Roberto non risparmia i propri consigli ai giovani: “Non lasciatevi attrarre dal denaro facile e da chi vi promette tutto e subito, applicatevi nello studio e nel lavoro perché solo facendo bene queste due cose otterrete l’autostima, uno dei beni più preziosi”. Oltre a conservare la libertà. Nasce nel 2018 la Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari (Cnupp) che si pone l’obiettivo di fornire un modello, purtroppo spesso soltanto ideale, di come erogare l’istruzione universitaria a chi è rinchiuso in un istituto di pena, in termini di spazi adeguati, accesso alle biblioteche, alle risorse informatiche e alla didattica a distanza, tenendo conto che uno dei principali problemi delle carceri italiane è proprio il sovraffollamento. Oggi sono 40 i poli universitari penitenziari funzionanti, cui sono iscritti circa 1800 immatricolati, si tratta del 3% della popolazione ristretta, ma nonostante sia un dato esiguo, molti passi avanti sono stati compiuti negli ultimi anni. Attualmente i detenuti iscritti all’università sono per il 95,8% uomini, mentre le donne (che comunque costituiscono una minoranza della popolazione carceraria) sono circa il 4,2%; gli stranieri, infine, rappresentano il 10,4%. In crescita il numero degli studenti universitari degli atenei collaboranti che decidono di diventare tutor per i colleghi ristretti, mentre tra le criticità maggiori c’è la questione dei libri di testo, difficili da reperire e da coprire da un punto di vista finanziario. La confusione è bipartisan: perché la “cultura woke” fa paura a destra e sinistra di Giorgia Serughetti* Il Domani, 1 settembre 2024 L’opacità del termine lo rende malleabile e adattabile al punto da poter essere impiegato come un collante identitario, per ridicolizzare o condannare ogni idea o iniziativa politica ispirata a ideali di inclusività. Una “follia”, un errore fatale, persino “un pericolo per la civiltà occidentale”: a leggere la stampa di destra, non c’è male più grande in questo tempo di quello che va sotto il nome di ideologia o cultura “woke”. Per un paradosso comprensibile solo alla luce dei pubblici sempre più ristretti, frammentati e polarizzati a cui si rivolge l’informazione, una parola il cui significato è oscuro ai più (un amico professore mi ha detto di averla sempre associata alla padella wok) è divenuta l’arma preferita per attaccare, in stile populista, le élite intellettuali e politiche della sinistra. Le quali tuttavia, anziché mettere in discussione questo frame discorsivo e i suoi contorni nebulosi, sembrano inclini a formulare negli stessi termini i conflitti che agitano il campo progressista. Uso e abuso della parola - Cosa significa “woke”? Si tratta di un aggettivo - letteralmente “sveglio” - in uso da decenni nei movimenti per i diritti civili e rilanciato da Black Lives Matter. Essere “woke” vuol dire essere “consapevole”, prestare attenzione alle ingiustizie sociali, specialmente legate alla “razza”, al genere, all’orientamento sessuale. Indica un atteggiamento, dunque, più che un’agenda politica. Da tempo, tuttavia, sulla valenza positiva del termine in uso nei movimenti è andata prevalendo quella negativa che gli associano i critici, in primis i conservatori americani, da cui quelli italiani traggono volentieri le loro formule polemiche. “Woke”, come termine denigratorio, andrebbe a indicare le espressioni più intransigenti e aggressive del pensiero progressista, pronto a sanzionare violentemente ogni espressione o comportamento accusato di veicolare messaggi razzisti, sessisti, omotransfobici. Se però si osserva l’uso che se ne fa nel dibattito italiano, si ha la sensazione che la parola sia divenuta un passe-partout per stigmatizzare (come esagerazioni o follie) tutte le preoccupazioni per i vecchi e nuovi diritti civili. Per la destra è “woke” la pretesa che un’atleta registrata all’anagrafe come donna competa nella propria categoria, anche se intersessuale; è la posizione di chi pensa che l’”italianità” non abbia nulla a che fare con il colore della pelle. Ma l’opacità del termine lo rende malleabile e adattabile al punto da poter essere impiegato come un collante identitario, per ridicolizzare o condannare ogni idea o iniziativa politica ispirata a ideali di inclusività, ogni tentativo di mettere in discussione - anche attraverso il linguaggio, la cultura, lo sport - le gerarchie di genere, sessuali, sociali, razziali che strutturano le nostre società. I dibattiti sulla cultura “woke” agitano anche il campo avverso, quello progressista, dove - in modo del tutto speculare a quello che si osserva a destra - la confusione semantica porta a comprendere sotto lo stesso cappello tanto la condanna di atteggiamenti antiliberali diffusi nei movimenti giovanili, quanto il posto che occupano le questioni di genere, sessuali, razziali nell’agenda della sinistra. Quando per esempio l’intellettuale liberal Ian Buruma, intervistato da La Repubblica, si rallegra per la sparizione dei temi “woke” dalla convention dei democratici di Chicago, ciò che intende è l’assenza di riferimenti a battaglie per i diritti delle persone trans o alle “battaglie identitarie”, cioè legate a genere, “razza”, sessualità. Ciò segnalerebbe la volontà di riportare il partito a occuparsi di temi quali le diseguaglianze economiche, il lavoro, i problemi materiali delle persone. Mancanza di un progetto - Ma è davvero da salutare con favore il fatto che il ritorno di attenzione - atteso, necessario - a problemi di uguaglianza sostanziale avvenga a spese di battaglie contro le discriminazioni, per l’inclusività? Il pericolo “woke” non è piuttosto diventato il nome della rinuncia, da parte progressista, ad articolare questioni materiali e culturali, diritti sociali e diritti civili, domande di riconoscimento delle maggioranze e delle minoranze, in un nuovo progetto politico? La reazione - giusta - contro i rischi di frammentazione delle battaglie identitarie deve portare a bollare come “woke” ogni presa di parola contro il razzismo sistemico o il patriarcato? Se “woke” diventa un concetto generico, un’hegeliana notte in cui tutte le vacche sono bigie, il dibattito progressista rivela una coazione a replicare gli schemi della destra nella lettura dei conflitti politici. Rinunciando a guardare a come nuove sintesi tra rivendicazioni di classe, genere, “razza” già siano in moto nella società - si pensi ai nuovi movimenti femministi - e a farsi promotori di visioni più avanzate di giustizia. *Filosofa Gianni Amelio va alla guerra: “La violenza ci sta sopraffacendo” di Fulvia Caprara La Stampa, 1 settembre 2024 Il regista porta in gara “Campo di battaglia” accolto da sette minuti di applausi. “Il nostro eterno desiderio di sopraffazione mi tormenta da sempre. “Le guerre purtroppo continuano, e non bastano i film per fermarle. Magari fosse così. La follia va avanti perché l’essere umano è contagiato dal maledetto virus del potere, le guerre non nascono dalla democrazia, ma dalle dittature che vogliono sempre di più. La malattia della guerra non si spegne e così continuano a morire i civili, i bambini, chi non ha nessuna colpa. Le guerre sono tante, di forme diverse, è guerra anche l’affondamento di un barcone di migranti”. Nel nuovo film Campo di battaglia, in gara alla Mostra e accolto da 7 minuti di applausi, il primo degli italiani in corsa per il Leone d’oro, Gianni Amelio mette in scena il contrasto tra due ufficiali medici, amici d’infanzia, Giulio (Alessandro Borghi) e Stefano (Gabriel Montesi), impegnati nello stesso ospedale militare dove ogni giorno arrivano feriti gravi, reduci dall’inferno del fronte. Siamo alla fine del primo conflitto mondiale, teatro di un massacro in cui lo scontro tra soldati nemici era “diretto, ragazzi contro ragazzi, una persona davanti all’altra”. Un apologo sulla guerra, tema quanto mai attuale. Da dove nasce l’idea del film? “La guerra è connaturata alla natura umana, è una necessità che nasce dal desiderio di sopraffazione, dal fatto che qualcuno vuole qualcosa di più di qualcun altro. E a pagare sono sempre gli innocenti. È un tema che mi tormenta da sempre, da quando ho iniziato a essere una persona ragionante. La guerra è un evento masochistico, eppure l’umanità non ha ancora imparato il modo per farne a meno. Qualunque soluzione è migliore del conflitto, lo sappiamo tutti, ma le persone di potere sembrano dimenticarsene. Oggi queste domande sono obbligatorie, che cosa dobbiamo fare per far finire le guerre? L’unica risposta è nell’utopia”. I due protagonisti hanno atteggiamenti opposti. Giulio cerca espedienti per evitare che i militari tornino a combattere dopo essere guariti. Stefano li rispedisce al fronte. Qual è il senso di questa contrapposizione? “Il vero campo di battaglia è l’ospedale, luogo dove, normalmente, i malati vengono curati. Il paradosso dell’ospedale di guerra è che i ricoverati vengono curati per poi essere rimessi in condizione di morire. Quella di Giulio è una specie di ribellione, una sfida assurda”. Tra loro si staglia una figura femminile importante, Anna (Federica Rosellini), infermiera della Croce Rossa, la prima ad accorgersi delle insubordinazioni di Giulio. Perché ha voluto una donna in un contesto molto maschile? “È il personaggio femminile più forte di tutti i miei film. Se il mondo desse più potere alle donne, ci sarebbero tante guerre in meno. La donna rappresenta strutturalmente la negazione del conflitto, fa nascere la vita e quindi è naturale che non voglia toglierla, sa quanto grande sia il suo valore, perché l’ha portata in grembo. Secondo me in questa caratteristica sta la differenza basilare tra i due generi, maschile e femminile. Nei confronti di un figlio o di un qualunque bambino le donne hanno sentimenti di appartenenza molto più marcati degli uomini. Lo so bene perché, da quando ero piccolo, sono stato in mezzo a donne che portavano pesi lasciati dai maschi, le cosiddette vedove bianche. Gli uomini muovono armi contro altri uomini, le donne, per la loro stessa natura, non lo farebbero mai”. Ha scelto due attori, Borghi e Montesi, di solito impegnati in ruoli che ne esaltano la fisicità. Qui sono riflessivi, simbolici. Perché ha voluto proprio loro? “La mia è stata una scelta controcorrente, quasi contronatura. La sfida era proprio questa, volevo che mostrassero personalità nuove, diverse. Montesi interpreta per la prima volta il personaggio di un borghese, con un accento che non ha mai usato prima. Borghi mette in mostra le sue fragilità, viene da Suburra e dalla serie su Siffredi, in genere è molto “macho”, qui, invece, è dolce e sottotono, abitato da una malinconia profonda”. Alla tragedia della guerra segue quella dell’epidemia di spagnola. Tornano in mente gli incubi recenti legati alla pandemia... “La spagnola è arrivata a metà del 1918, attraverso i soldati. Raccontarla era un modo per parlare di una seconda guerra, stavolta giusta, da combattere con la forza della scienza e dell’intelligenza umana, armi che dovrebbero servire sempre a liberare l’umanità dalle malattie, dall’indigenza, dalla fame”. È in corsa per il Leone d’oro. Quanto contano i premi nella vita di un autore? “Per me gareggiare non ha mai significato nulla. Quello che mi interessa, il mio unico desiderio, è fare film. Farli fino all’ultimo respiro. Il mio unico, vero, premio è il pubblico, la più grande soddisfazione della mia carriera cinematografica l’ho avuta con Il ladro di bambini. Non tanto per il riconoscimento, comunque molto importante, ricevuto al Festival di Cannes, quanto per la gioia provata nel vedere le sale dov’era proiettato piene di spettatori. I festival servono a far conoscere i film, e sono importanti per questo, ma i premi vanno dati a chi è giovane, io ho compiuto 80 anni, non ho davanti una carriera da costruire, non ho la bramosia di vincere”. Il femminicidio non è né bianco né nero di Igiaba Scego La Stampa, 1 settembre 2024 Richard Wright, grande autore afroamericano degli anni 40, parlando nella sua autobiografia del Sud segregazionista degli Stati Uniti dov’era cresciuto, diceva che in quel clima di ansia e paura, fatto di vendette sommarie e soprusi, il crimine commesso da un nero, diventava per la società bianca suprematista, automaticamente il crimine di tutti i neri. Si puntava quindi il dito su tutte le persone nere e tutte le persone nere diventavano portatrici di colpa per il suprematismo bianco. Suprematismo che così aveva gioco facile nel trasformare, attraverso uno sguardo coloniale e feroce, ogni nero in un corpo a cui farla pagare cara, attraverso il linciaggio. Come Richard Wright questo senso di angoscia ha dominato anche me. In un contesto diverso però: l’Italia della nostra contemporaneità. Da donna nera musulmana ad ogni crimine commesso da chi mi assomigliava un po’ per meklanina o cultura ho negli anni tremato, pianto, ho avuto molta paura. Ho avuto anche la tachicardia. L’insonnia. Il sentore di poter essere trasformata da soggetto ad oggetto. Tutto ciò mi annientava. Come Wright sentivo che mi pesava addosso come un macigno quella colpa collettiva di cui ero innocente. C’era quello sguardo su di me/noi che via via mi/ci trasformava in altro, in qualcosa di innominabile: un omicida, un terrorista, un violentatore, un selvaggio. La colpa collettiva serviva qui come negli Stati Uniti della segregazione a farci sentire persone non grate e a rischio costante. Lo sguardo suprematista si sa è uno sguardo impositivo, il cui unico desiderio è sottomettere gli altri. Al suprematismo non interessa mai la vittima, soprattutto se donna. Anzi di solito la vittima del crimine viene messa in secondo piano, se non addirittura dimenticata e tirata fuori solo per mostrarla come un feticcio. Ma come salvarsi da questa collettivizzazione del crimine? Ieri quando l’identità dell’assassino di Sharon Verzeni, il reo confesso Moussa Sangare, è venuto alla luce, insieme alla sua afrodiscendenza, ho cercato subito, quasi fosse un esercizio spirituale, di non rispondere alle provocazioni e allo sciacallaggio di certi parti politiche che collettivizzano il crimine per fini elettorali. E ho fatto altro invece, una preghiera per Sharon Verzeni, una donna, una sorella, il cui nome ahinoi si aggiunge alla triste lista di femminicidi nel nostro paese. Dopo questo atto di sorellanza, ma anche di consapevolezza che il patriarcato non ha colore, e che il patriarcato vuole ucciderci tutte, mi sono messa solo un attimo a guardare il can can del patriarcato politico che, senza un pensiero di dolcezza e tenerezza verso la vittima, ha solo pensato di lucrare sul suo corpo di donna per fini elettorali. Mi è venuta la nausea. Sharon Verzeni è stata uccisa dal patriarcato due volte, da chi l’ha uccisa e da chi ne ha usato le spoglie ancora calde. Era troppo! Come cambiare rotta? Allora sono tornata a Richard Wright. Alla letteratura. Se il suprematismo considera il crimine di un nero il crimine di tutti i neri, noi che combattiamo queste generalizzazioni, forse dobbiamo smettere di lasciarci provocare da queste polemiche. Che sbraitino pure. Io da persona nera ho smesso di parlare con chi vuole solo offendere e ferire. Non vale la pena entrare dentro queste polemiche cheap. Serve invece cambiare agenda. Lo stesso caso di cronaca ci ha fatto vedere quanto la società italiana è complessa e stratificata. Senza la testimonianza di due ragazzi italo-marocchini patiti di kickboxing, che hanno incrociato Sangare e lo hanno trovato alterato, l’assassino non sarebbe mai stato preso. Chi siamo quindi? L’omicida o i testimoni? I due ragazzi di fatto rompono la narrazione di chi voleva etichettare tutto come delitto delle seconde generazioni, solo per negare il diritto sacrosanto dei figli di migranti ad avere una cittadinanza italiana. La narrazione razzista di alcuni gruppi politici stride totalmente davanti a questa complessità del reale. Una pluralità che c’è già da tempo nella nostra società ed è ormai quotidiana, capillare. Quindi è importante non stare più a traino dell’agenda del razzismo, che vuole solo polemica, solo le parole storte, ma serve un grande sforzo, questo si collettivo, per creare un’agenda dove possiamo mettere la pluralità al centro. La complessità del nostro paese che è già il nostro presente. E lasciatemi concludere questo pezzo con un pensiero per Sharon Verzeni, in qualsiasi cosa andremo a costruire insieme come società plurale, va eliminata, a tutti i costi, la violenza sulle donne. Lo dobbiamo come dovere verso Sharon Verzeni e verso tutte le donne vittime del patriarcato. L’attivismo della Chiesa non nasce dai sondaggi ma dall’ascolto della realtà di Marco Damilano Il Domani, 1 settembre 2024 Il protagonismo autentico delle comunità ecclesiali non si trova (soltanto) nei raduni nazionali, ma in una presenza capillare, diffusa, nel radicamento in tutti gli angoli del paese, nei territori in cui i politici nazionali si avventurano poco e i media nazionali spengono le luci. Castelguidone, provincia di Chieti, meno di trecento abitanti, diocesi di Trivento, a cavallo tra Molise e Abruzzo. C’era tutto il paese, e di più, alla giornata della legalità, responsabilità e impegno organizzata dal parroco e direttore della Caritas don Alberto Conti. “In un piccolo posto è nata una cosa grande”, ha detto don Luigi Ciotti, riferendosi alla scuola di politica intitolata a Paolo Borsellino trentuno anni fa, nel 1993, un anno dopo la strage di via D’Amelio. È uno dei tanti incontri di fine estate. Questa mattina il presidente della Conferenza episcopale cardinale Matteo Zuppi celebrerà la messa al santuario di Montevergine, in Irpinia. In questi giorni si parla di nuovo protagonismo sociale e politico della chiesa, dopo la settimana sociale di Trieste a luglio, il meeting di Rimini di Comunione e liberazione, la Route nazionale della comunità capi scout Agesci a Verona. E si dimentica che il protagonismo autentico delle comunità ecclesiali non si trova (soltanto) nei raduni nazionali, ma in una presenza capillare, diffusa, nel radicamento in tutti gli angoli del paese, nei territori in cui i politici nazionali si avventurano poco e i media nazionali spengono le luci. Questione democratica - Non c’è oggi una questione cattolica in Italia, categoria in disuso da decenni, dall’unità nazionale in poi la questione cattolica è sempre stata la spia di una questione democratica più ampia, di separazione del popolo dalle classi dirigenti, di altre fratture. Va cercata nei luoghi dove aumentano la sfiducia, la disaffezione, l’astensionismo. “È il silenzio, spesso indecifrabile, che riscontriamo in un vivere sociale dove vince il presentismo e il vuoto di significato; in un vivere religioso fatto di appartenenza senza impegno; con una conseguente zona grigia di inerte indifferenza”, ha scritto Giuseppe De Rita in un piccolo libro, prezioso e denso, Lo sviluppo e il divenire. È lì che sta crescendo qualcosa. L’avversione, anzi, l’istintiva allergia del mondo cattolico per il disegno di autonomia differenziata che divide il paese in regioni deboli e forti, non nasce a tavolino, con qualche sondaggio commissionato, ma dall’ascolto della realtà. Appartiene a questa cultura politica il regionalismo, le autonomie locali, la diffidenza verso il centralismo, ma non l’egoismo territoriale, il mito delle piccole patrie con i piccoli governatori. Lo stesso vale per lo Ius scholae, e ancora più per lo Ius soli per i bambini nati in Italia da migranti, o per il radicale cambiamento della legge Bossi-Fini sui flussi. L’integrazione è una questione che chi fa educazione incontra quotidianamente. È questo che fa reagire violentemente quel blocco formalmente ossequioso della chiesa, ma profondamente anti-cristiano e anti-evangelico. Vogliono una chiesa chiusa nel tempio, servile con i potenti, subalterna ai poteri. Con un Dio creato a loro immagine e somiglianza: un Dio che divide. E odiano, da sempre, la chiesa che esce dalle sacrestie, che si sporca le mani, che riprende voce accanto a tanti altri, che è in strada, che va in mare a soccorrere i migranti, come ha fatto la barca della fondazione Migrantes della Cei accanto a quella della ong Mediterranea Saving Humans, benedetta dal papa, con la sua catechesi sul mare e il deserto, sul peccato dei respingimenti. Sotto l’attacco della strana alleanza tra i tradizionalisti e le destre anticlericali. Seminare il campo - Per un trentennio, dopo la fine dell’unità politica dei cattolici nella Democrazia cristiana, la leadership ecclesiastica del cardinale Camillo Ruini ha teorizzato la fine dell’impegno politico per i laici credenti, accentrando nelle mani del presidente della Cei la delega a trattare con la politica, in un rapporto di negoziato, di scambio al vertice. Il risultato è stato il deserto di figure, di intelligenze, di reti sociali. Un impoverimento della chiesa che ha impoverito anche la democrazia. Oggi l’impegno del cardinale Zuppi e di tante altre figure ecclesiali e laiche che stanno riemergendo, su spinta di papa Francesco, è di semina su un campo che esiste, ma che va rianimato. Una semina destinata a dare frutti in futuro, che non si misura sulle esigenze contingenti della politica. La semina non riguarda la formazione di futuri partiti di centro, non è l’immagine di una chiesa che guida l’opposizione al governo Meloni (curiosa critica che arriva da chi appoggiò il Family Day del 2007, manifestazione contro il governo guidato dal cattolico Romano Prodi, sponsorizzata dalla Cei di allora). La semina è una risposta a chi punta sulla divisione del paese. Divisioni territoriali, divisioni di genere, generazionali, divisioni tra ricchi e poveri, tra vecchi e nuovi italiani, con il razzismo che ritorna, con le rotture non riparate da nessuno. L’uscita dal tempio dei cattolici, come la definiva anni fa padre Bartolomeo Sorge, è contrastata da chi li vorrebbe silenziosi, indifferenti, nella zona grigia. Per chi scommette su una ripresa di partecipazione della società italiana, per chi riuscirà a organizzare questa che per ora è appena una testimonianza di buona volontà, è invece una occasione. A saperla cogliere. Zuppi: “Non rassegniamoci alla paura, dobbiamo costruire insieme” di Marco Ferrando e Matteo Liut Avvenire, 1 settembre 2024 Il presidente della Cei parla di “collaborazione globale” per i migranti, di “patto sociale” sull’autonomia, di ius scholae come “strumento di inclusione”. E dei “buoni” rapporti col governo. Il mondo mette paura, ma “non ci possiamo rassegnare”. Con il coraggio del futuro, con la forza della speranza, con tutti quegli sforzi di “mediazione al rialzo” che questo momento storico esige, e a cui la Chiesa è pronta a contribuire “non contrapponendosi ai processi culturali ma cogliendo la domanda umana e spirituale” che portano con sé. In un’intervista in uscita domani su Avvenire, il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana affronta tutti i grandi temi, dalle guerre ai migranti, fino all’agenda d’autunno che attende l’Italia: la tenuta sociale del Paese, le riforme, lo stato di salute e il contributo che può dare la Chiesa. Ecco in anticipazione alcuni estratti. “Siamo dentro la pandemia della guerra, che proietta ombre pericolose su tutti. Qualche volta mi sembra che stia vincendo la paura della vita, tanto che cerchiamo prima tutte le risposte e sicurezze per scegliere e pensiamo di avere sempre tempo”, dice Zuppi... “Non ci possiamo rassegnare. È proprio vero, ma lo crediamo poco: nessuno si salva da solo. Coltivo il sogno ingenuo che anche in Italia sia possibile mettere da parte le ideologie - ma non gli ideali, la conoscenza, la passione - per evitare una politica ridotta a rissa e polarizzazione. Coltivo il sogno che sia ancora possibile su temi fondamentali per la nostra convivenza ricercare un consenso ampio, il più ampio possibile”. Il Papa ha rilanciato mercoledì il suo grido di dolore e speranza per i migranti: questione di regole e di atteggiamento con cui si guarda loro. Da dove partire? Salvare chi è in pericolo è un dovere gravissimo, primario. Il Papa invita sempre a un approccio integrale del fenomeno dell’immigrazione (i famosi quattro verbi: proteggere, accogliere, integrale e promuovere) e a una collaborazione globale (delle istituzioni e dei governi, come delle comunità e delle famiglie. È un approccio, ripeto, di grande realismo sul quale speriamo l’Europa si decida a un approccio comune e a non lasciare solo il nostro Paese. Che cosa pensa del nuovo dibattito sullo ius scholae? Quando un problema umanitario e per certi versi tecnico diventa un problema di scontro politico non si capisce più chi ha ragione e chi no. Aprendo una sessione del Consiglio Permanente della Cei già nel luglio del 2022 osservavo che concedere la cittadinanza italiana ai bambini che seguono il corso di studi con i nostri ragazzi, il cosiddetto Ius Scholae, costituisce uno strumento importante di inclusione delle persone ed è un “tema di cultura”. E si trattava di una istanza da tempo ribadita dalla Cei. Dibattito aperto e acceso anche sull’Autonomia differenziata, un processo che affonda in realtà le sue radici nella riforma del titolo V della Costituzione... Ne siamo ben coscienti. Per questo, la Nota approvata dal Consiglio Episcopale Permanente nel mese di maggio richiamava i principi di solidarietà e sussidiarietà a livello nazionale. Preoccupati che possa venir meno il vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, abbiamo auspicato un “patto sociale e culturale” (Evangelii gaudium, 239) perché si incrementino meccanismi di sviluppo, controllo e giustizia sociale per tutti e per ciascuno. Come sono i rapporti con il governo Meloni? Con questo Governo, così come avvenuto con quelli passati, c’è una buona interlocuzione e su certi temi una ottima collaborazione. Se la Chiesa esprime un’opinione non è per entrare nel dibattito politico, o per dare indicazioni socio-politiche specifiche, che competono alle forze politiche e sociali, ma solo per promuovere la persona e senza interessi di parte. E questa è proprio la libertà della Chiesa. Cosa è lecito aspettarsi dall’Europa, spesso così afona?... Speriamo che la prossima Commissione scelga di difendere le radici più profonde e vere dell’Europa che significano anche il ripudio della guerra e la scelta di trovare vie di soluzione alternative ai conflitti. Continuo a pensare che è necessaria una “Camaldoli per l’Europa”. Che ruolo punta ad avere la Chiesa nella società italiana, al centro di un processo di secolarizzazione che sta accelerando? Il ruolo della Chiesa non è tanto quello di contrapporsi ai processi culturali, ma di sapere cogliere in questi la domanda umana e spirituale. La secolarizzazione spegne il desiderio, la sete, la nostalgia? Non è una domanda di maggiore prossimità? La Settimana sociale di Trieste ha mostrato incoraggianti segnali di vivacità e passione civile: come li legge? La Settimana Sociale è stata un dono di grazia. Mi hanno colpito tanti credenti, anche giovani, che nel nostro Paese non si rassegnano alla crisi della democrazia. Mai come in questo momento avvertiamo il terreno fertile per superare steccati e per offrire atteggiamenti costruttivi. Migranti. Perché i respingimenti sono un peccato grave di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 1 settembre 2024 L’appello del Papa dovrebbe scuotere le forze politiche che si dicono cattoliche. Invece vediamo Ong costrette a vagare e pugno duro sulla pelle di chi soffre- “C’è chi opera sistematicamente e con ogni mezzo per respingere i migranti. E questo quando è fatto con coscienza e responsabilità è un peccato grave”. Così si è espresso il Papa, affrontando il tema dei migranti e del loro trattamento. Nessuna espressione poteva essere più chiara. Né è difficile identificare i destinatari della condanna, dal momento che è proprio il governo italiano (e non solo questo) che usa ogni mezzo per contrastare l’arrivo dei migranti, soprattutto via mare. Migranti, il Papa: “Respingerli è peccato grave” - La dura e chiara indignazione del Papa non è emotiva o occasionale, cosicché è inammissibile la reazione degli ambienti della destra al governo e dei suoi media, ridottasi ad una alzata di spalle e ad un indecente “che se li prenda lui”. La posizione espressa dal Papa enuncia al massimo livello quella che da tempo è la pratica di diverse organizzazioni, che fanno capo alla Chiesa cattolica. Esse non compiono solo una serie di singoli atti di carità nei confronti di immigrati in difficoltà. Si tratta invece di una pratica organizzata e sistematica, sostenuta da mezzi materiali e giustificazioni etiche e religiose. L’attuazione, cioè, di un programma. Basta avere attenzione all’ammirevole azione delle articolazioni nazionali e diocesane della Caritas e soprattutto alle prese di posizione della Fondazione Migrantes, organismo della Conferenza Episcopale Italiana. Nulla di più ufficiale e maggiormente espressivo dell’orientamento e dell’azione della Chiesa rispetto ai tanti aspetti problematici degli arrivi dei migranti e della loro accoglienza nel territorio italiano. Vi sono prese di posizione riguardanti la gestione del fenomeno generale, che attendono azioni di carattere politico. Il respingimento di coloro che si affacciano alla terra italiana rischiando la vita in mare è un aspetto di una questione ineliminabile, qualunque sia la politica adottata rispetto al tema generale e all’intenzione di ottenere dai Paesi di partenza o di attraversamento comportamenti diretti a contrastare le partenze: accordi difficili anche perché non possono violare esigenze di umanità per ciascuno dei migranti. Coloro che comunque e in ogni modo riescono - e riusciranno sempre - ad affrontare le traversate in mare vanno salvati e ricevuti a terra. Politiche di respingimenti sono spesso incompatibili con gli obblighi legali internazionali che ha l’Italia, derivando tra l’altro dalla Convenzione europea dei diritti umani, oltre che dal diritto internazionale del mare e dal diritto dell’Unione europea. Vietati sono i respingimenti e le espulsioni collettive, prive, cioè, dell’esame della posizione di ciascun migrante richiedente protezione e delle ragioni che l’hanno spinto a lasciare il proprio Paese. Di ciò, dell’osservanza delle regole legali da parte delle autorità si occupano naturalmente i giudici, che sono istituiti proprio a tale scopo, ma anche organizzazioni della società civile, come l’Asgi (Associazione Studi Giuridici Immigrazione), in un virtuoso integrarsi di motivazioni laiche e religiose, giuridiche ed etiche. Cosa fa invece il governo e cosa è stato previsto da una serie di leggi che aggravano quelle precedenti e sono espressamente dirette a impedire gli arrivi, usando ogni mezzo per dissuadere le partenze con il far vedere la durezza delle condizioni del viaggio e degli arrivi. Un mezzo adottato dal governo è il contrasto all’azione delle navi delle Organizzazioni non governative (Ong) che pattugliano il mare per condurre a terra migranti che rischiano la vita a bordo di imbarcazioni di fortuna. Lo scopo è quello di tener lontane le navi private che recuperano i migranti in mare. Il mezzo usato è anche quello di assegnare il più lontano possibile il “porto sicuro” di sbarco dei migranti recuperati in mare. Così una nave che arriva di fronte alle coste meridionali italiane viene costretta a navigare fino ad un porto lontano del mare tirreno o adriatico: giorni di navigazione con i migranti a bordo, costi aumentati e soprattutto giornate in cui la nave è assente dagli specchi d’acqua ove si verificano le traversate dei migranti. A questo vergognoso espediente (vergognoso perché impedisce salvataggi in mare) si aggiungono sanzioni pecuniarie e provvedimenti di fermo della nave. “Con ogni mezzo” -secondo le parole del Papa- si usano i migranti salvati dalle navi delle Ong per impaurire gli altri, quelli che sono già in viaggio o pensano di affrontarlo. Da anni si susseguono leggi restrittive di vario contenuto. Con questo governo e questa maggioranza in Parlamento si è messo in opera un apparato particolarmente repressivo, in gran parte inteso a lanciare messaggi di fermezza ad uso di politica interna. Il numero di migranti che le navi delle Ong potrebbero portare a terra è comunque minimo rispetto a quello degli sbarchi con mezzi autonomi e, a maggior ragione, rispetto al flusso di migranti che si verifica in altri modi e luoghi di ingresso. Vedremo se l’intervento del Papa inciderà sulla condotta di forze politiche che non mancano mai di presentarsi come espressive e garanti dell’identità culturale e religiosa italiana. E non lasciano passare occasione per dichiararsi orgogliose, di questo e di quello. Migranti. Colonia albanese: viaggio a Shengjin, nel Cpr italiano: “Pronti a fine settembre” di Niccolò Zancan La Stampa, 1 settembre 2024 A Shengjin e Gjader i centri migranti di Meloni quasi pronti per l’apertura. Manca la fognatura? “Scarichiamo nel fiume Drin”. E i locali fanno affari d’oro con gli affitti. Resta un problema. La rete fognaria. “Per il momento si è deciso di scaricare tutto nel fiume Drin, secondo le mie informazioni i primi migranti potrebbero arrivare qui fra il 10 di settembre e la fine del mese. Hanno fretta di farli arrivare”. Aleksander Preka è il responsabile comunale di questo piccolo paese nel nord dell’Albania. Un posto dimenticato sulla mappa del mondo, famoso per un aeroporto militare chiuso nel 1996 e per niente altro. “Eravamo tremila abitanti al tempo del comunismo, siamo rimasti in seicento. Ma adesso c’è tutta questa gente nuova che arriva e che arriverà”. Ormai è chiaro, visibile agli occhi, tremendamente definito. Ecco il campo: i container, le reti, le recinzioni. Ci sono carabinieri e poliziotti italiani ovunque. “Questa casa noi l’affittavamo a una cifra che oscillava dai 30 ai 50 euro al mese, i vostri militari l’hanno presa a 400 euro al mese per due anni”, dice ancora Aleksander Preka dal suo negozio di commestibili. È l’unico spaccio nel raggio di chilometri: cipolle, aglio, patate, bibite gassate, caramelle e sigarette. Il silenzio, tutto intorno, è rotto solo dalla benna di un’escavatrice che ancora picchia sulla terra arsa per piazzare gli ultimi tubi. Il primo centro di detenzione per migranti italiano costruito in terra straniera è ormai pronto. Non era in dubbio che i lavori procedessero al porto di Shëngjin: l’hotspot per trecento persone potrebbe aprire domani. È piazzato fra le barche, la spiaggia e un piccolo Luna Park. Questa sarà la prima tappa per i migranti partiti verso l’Italia e deportati in Albania, per scelta del governo italiano in accordo con il governo albanese. Da lì dentro non vedranno niente: l’intero perimetro è circondato da un gabbia alta sette metri. Ma forse sentiranno le canzoni della fine dell’estate sparate dai bar del lungomare. Poi, dopo le pratiche di identificazione, saranno caricati su pullman e portati a Gjadër. Quindici chilometri, verso l’interno. È qui che manca ancora l’allacciamento alla rete fognaria. È qui che incominciano i dubbi. Il centro di detenzione amministrativo di Gjadër è stato costruito nel nulla. Il terreno era inadatto anche per un capanno degli attrezzi. Non c’erano le fondamenta. Non c’era l’impianto elettrico, non arrivava l’acqua. Ecco la ragione dei ritardi. Ieri facevano le prove per la connessione internet, che sarà fondamentale per gestire a distanza migliaia di pratiche per migliaia di vite in attesa di giudizio. Accolti o respinti? E in che tempi, i funzionari italiani, smaltiranno questo lavoro? Con quale certezza del diritto? Il campo avrà 1.150 posti per il trattenimento e 24 per un piccolo penitenziario interno. Sono tanti gli interrogativi sospesi. Per la costruzione delle due strutture, fino a questo momento, sono stati spesi 800 mila euro. Ma è una spesa conteggiata per difetto, alla quale mancano tutte quelle voci “non quantificabili a piè di lista” che riguardano i viaggi, vitto e alloggio per quelli che parteciperanno - o dovranno partecipare - a questa operazione in Albania. Doveva essere pronto a maggio. Lo sarà nei prossimi giorni, al massimo in autunno. Tutti i lavori vengono autorizzati con procedure speciali. I materiali sono stati comprati dal governo italiano da aziende di Trento, Colaziocorte e Carimate. Sono pezzi per la costruzione di container che in genere servono agli sfollati dei terremoti o di qualche altra sciagura. Oggi gli operai che montano il campo sono albanesi, kosovari e montenegrini. Stanno lavorando tutta l’estate, anche sabato e domenica, perché conoscono quella frase che ripete il responsabile comunale del paese. “Hanno fretta di fare arrivare i primi migranti. Non si può tardare oltre”. E infatti, è iniziato il reclutamento per trecento lavoratori albanesi che dovranno affiancare gli operatori italiani nella gestione delle due strutture di detenzione. Il bando, appena pubblicato, incomincia così: “Azienda Medihospes che gestirà i campi profughi di Shengjin e Gjadër, a partire dal mese di agosto, ricerca personale di emergenza per i servizi all’interno dei campi secondo i seguenti profili”. Cercano psicologi, mediatori culturali, traduttori, operatori sociali, tecnici informatici. Per un “dipendente per servizi semplici”, lavoro che comprende mansioni di distribuzione e consegna cibo, accompagnamento dei migranti, pulizia degli alloggi e delle aree comuni, lo stipendio base sarà di 1200 euro al mese per 38 ore di lavoro settimanale. “Ma voi sapete quanto guadagna un insegnante della scuola media albanese? Meno di 600 euro al mese”. Nell’unico bar di Gjadër si parla di questo. Dei soldi che stanno arrivando assieme ai migranti. Del fatto che gli operai di questa zona non avevano mai guadagnato 30 euro per una giornata di lavoro. “Io sto facendo tutta la cablatura della connessione web”, dice l’operaio Andrit Prenga. “Siamo vicini alla conclusione dei lavori. Ma mancano ancora gli ultimi container, manca la cancellata di ingresso, poi c’è il problema di dove scaricheranno le acque nere”. Hanno deciso che verranno sversate nel fiume, e dal fiume al mare. “Lo facevamo già ai tempi dei soldati albanesi in servizio all’aeroporto militare. Erano cinquemila soldati. Possiamo farlo ancora”. Nella guerra fra poveri, gli ultimi saranno quelli dentro alle gabbie. Stanno per riempirle. Stanno per arrivare le navi dei deportati. “Da qua scappare non è tanto facile. La montagna è bruciata. Non puoi nasconderti nella vegetazione. E comunque, se vogliono andarsene, che vadano. Tanto lo sappiamo tutti che non resterebbero da noi”. Verso la costa, schiere di palazzi alti dodici piani tagliano la vista dell’orizzonte e nascondono il mare. Un ristoratore ha tappezzato il suo nuovo locale di quadri che raffigurano la “benefattrice” Giorgia Meloni. File e file di ombrelloni sono ancora piene di turisti lungo la costa di Shëngjin. E chi sono i turisti albanesi? Gli albanesi stessi, che tornano a casa da ogni parte d’Europa per le ferie. “Io non lo so se è giusto quello che succederà qui”, dice il signor Arthur Bahiti. “Ma per me i migranti sono i benvenuti. Perché anche io sono stato un migrante e non lo dimenticherò mai”.