In quelle celle manca la dignità di Valentino Maimone La Ragione, 19 settembre 2024 Facciamo così: visto che la contabilità dei suicidi in carcere sta evidentemente provocando assuefazione- se è vero che il tassametro continua a scorrere al ritmo di un caso ogni 3 giorni e mezzo e ormai la notizia finisce in coda ai tg o in un trafiletto in basso a sinistra - proviamo ad affrontare l’argomento da un’altra prospettiva. I suicidi sono la prima causa di morte dietro le sbarre (fonte: Garante dei diritti dei detenuti). La fascia di età in cui si registra il maggior numero di detenuti che si tolgono la vita è quella fra i 18 e i 24 armi (dati del Ministero della Giustizia). Che cosa sappiamo di questi giovani? Nulla più di qualche gelida riga su un comunicato istituzionale. Quanto ci preoccupiamo del percorso di recupero che avevano intrapreso, delle loro responsabilità (un detenuto su tre è in attesa di giudizio), dei motivi che li hanno spinti a farla finita, della sofferenza delle loro famiglie? Ancora meno, cioè niente. Non aveva neanche 25 anni Aldo Scardella quando, all’alba del 26 dicembre di tanti anni fa, una pattuglia della Squadra mobile di Cagliari si presentò a casa sua per una perquisizione. Gli investigatori si erano convinti di aver individuato in lui, studente universitario incensurato, uno dei banditi che tre giorni prima avevano rapinato un negozio di liquori e ucciso il titolare. “Lo portarono in Questura, poi non ne sapemmo più nulla. Per dieci giorni nessuno comunicò ai miei genitori in quale carcere lo avessero portato. E anche quando lo venimmo a sapere, ci impedirono di andarlo a trovare per tre mesi e mezzo” ci racconta oggi il fratello Cristiano. “Per dieci giorni non poté usufruire di un difensore, perché con scuse sempre diverse non gli fu consentito di firmare la delega necessaria ad attribuire il mandato. E anche quando ci riuscì, quel difensore non lo incontrò mai”. Ad Aldo Scardella fu negata l’autorizzazione ad assistere alla Messa di Pasqua, ad appendere poster e disegni alle pareti della sua cella, dove peraltro la luce non veniva spenta neanche di notte. Intanto diverse perizie avevano escluso che il giovane avesse sparato o indossato il passamontagna ritrovato nelle vicinanze di casa sua. E il pm non tenne conto di un’altra pista concreta indicata dalla polizia. Poi arrivò il 2 luglio 1986. “Lo trovarono impiccato nella sua cella. Accanto al corpo c’era un biglietto con su scritto “Muoio da innocente” “ ricorda Cristiano. “Nel suo sangue c’era metadone, nonostante non fosse mai stato un tossicodipendente. Noi familiari avevamo potuto vederlo solo tre volte in sei mesi. Venne fuori che il giudice istruttore non lo aveva mai interrogato e aveva condotto un’attività processuale ‘esigua’. Eppure quel magistrato se la cavò con una censura del Csm. In seguito saltarono fuori i veri responsabili di quella rapina. Se solo penso alla disperazione che deve aver provato mio fratello, sto male ancora oggi”. Nessuno meglio di Cristiano Scardella sa cosa vuol dire suicidarsi dietro le sbarre: “Questa storia ha tolto la vita al mio adorato Aldo e ha rovinato per sempre la mia. Al di là di quelle mura c’è una sofferenza immane, una solitudine impossibile da capire per noi che siamo fuori. Le istituzioni ci mettono del loro, costringendo i detenuti a vivere in condizioni indecenti. I media si ricordano di quel mondo solo quando ci sono le rivolte, senza però approfondire i veri motivi del disagio che porta i detenuti a esplodere. Il carcere può piegare chiunque, anche chi crede di essere forte. Ecco perché si può arrivare al suicidio, proprio com’è capitato a mio fratello. E non c’entra essere innocenti o colpevoli: come qualunque essere umano, anche loro hanno diritto a essere trattati con dignità”. La sua amarezza è tutta in una considerazione finale: “Non posso pensare che probabilmente quel che è successo ad Aldo stia succedendo ad altri. I tempi sono diversi, è cambiato il codice di procedura penale, ma se mi guardo attorno l’impressione è che si sia fatto ben poco per andare davvero avanti. E questo mi fa soffrire”. “Troppe incarcerazioni, il sovraffollamento è dovuto a politiche populiste” di Sara Manfuso La Notizia, 19 settembre 2024 “Il decreto Caivano criminalizza eccessivamente i giovani”. Parla Stefano Anastasia, Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio al secondo mandato e fondatore dell’Associazione Antigone, nata alla fine degli anni ottanta, per “I diritti e le garanzie nel sistema penale”. Il sovraffollamento nelle carceri italiane ha raggiunto livelli allarmanti con incremento di suicidi e tentativi di suicidio rispetto al passato. Nel Lazio, penso al caso di Regina Coeli con un tasso del 180% superiore al numero di detenuti che potrebbe ospitare. Quale l’origine di una simile emergenza? “A dire il vero, quando si parla di sovraffollamento in carcere, non si può più definirla un’emergenza: il nostro sistema penitenziario è in sovraffollamento strutturale dall’inizio degli anni 90 del secolo scorso. Né la costruzione di nuove carceri (da allora è aumentata di 15mila posti la capacità del sistema penitenziario), né le alternative alla detenzione (moltiplicatesi per venti volte) sono riuscite a contenere questo fenomeno: più se ne fanno, di carceri e di alternative, più aumenta la popolazione in carcere e fuori. D’altro canto, tra le cause del sovraffollamento possiamo escludere l’aumento dei gravi reati contro la persona o contro la sicurezza pubblica, che non ha traccia nelle statistiche ufficiali. Il sovraffollamento, dunque, è in senso proprio un abuso di incarcerazioni che non risponde a reali esigenze di sicurezza e che non riesce a essere fronteggiato dalla pur enorme crescita delle alternative alla detenzione. Se ne dovessi individuare due cause, le indicherei nella fragilità di un sistema politico-istituzionale privo di effettiva rappresentatività e dunque votato a politiche populiste, particolarmente propense a un uso simbolico della giustizia penale, e nella progressiva desertificazione dei servizi di sostegno e integrazione della marginalità sociale, inevitabilmente destinata a finire in carcere in assenza di qualsiasi altra politica degna di nota”. Con l’approvazione del Ddl Sicurezza il rischio è che in carcere finiscano anche coloro che occupano una strada o una ferrovia in segno di protesta. La cosiddetta norma “anti-Gandhi”. Cosa ne pensa? “La repressione penale di forme di protesta nonviolente è un precedente gravissimo per il nostro diritto penale, che torna così a essere uno strumento dell’autorità contro i cittadini. La libertà di riunione e di manifestazione è tutelata dalla Costituzione e soggetta solo a ‘preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica’. Da qui alla repressione penale di una manifestazione nonviolenta, seppure non autorizzata, ce ne corre”. Da Gandhi passiamo alla Salis, inevitabile un pensiero all’eurodeputata eletta nelle file di Avs e bersaglio polemico delle destre, con l’ok al nuovo reato di ‘occupazione arbitraria di un immobile destinato a domicilio’. La giusta risposta al problema delle occupazioni abusive? “Il problema delle occupazioni abusive è il riflesso dell’assenza di una politica abitativa degna di questo nome. Lasciamo perdere il caso degli attivisti politici che organizzano e talvolta partecipano alle occupazioni: dobbiamo guardare la luna, non il dito che la indica, e la luna è l’assenza di politiche abitative che rispondano alle esigenze di ampie fasce della popolazione, in modo particolare nelle grandi aree urbane. Quando parlo di desertificazione dei servizi sociali che producono incarcerazione penso anche a questo: e a questo enorme problema veramente il Governo pensa di rispondere minacciando carcere e pene a persone in stato di bisogno? Se si vuole avere un esempio dell’uso populista del diritto penale, eccolo qua”. Insomma, pare che con l’introduzione di tutti questi nuovi reati le carceri siano destinate a riempirsi ulteriormente anche a causa del tanto discusso articolo 15 che rende facoltativo il rinvio della pena per le donne in gravidanza e le madri con figli sotto l’anno. Non si rischia di far pagare ai minori le responsabilità genitoriali arrecando loro un danno? “Il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne incinte o con figli minori di un anno è un’eredità del codice penale voluto e approvato dal regime fascista. Anche allora quello che poi sarebbe stato chiamato il supremo interesse del minore veniva prima dell’esecuzione di una pena che può essere differita nel tempo. D’altro canto, per i casi tanto sbandierati dalla propaganda leghista contro le donne rom, già oggi la legge consente la custodia cautelare in carcere in attesa del processo, se vi è pericolo di reiterazione del reato: altrimenti perché avremmo ancora la vergogna di donne incinte e addirittura di parti in carcere? Dunque: nulla che giustifichi nulla, solo un uso populista (e, nel caso di specie, neanche tanto velatamente razzista) del diritto penale”. In riferimento proprio ai minori, per effetto del decreto Caivano sono aumentati gli ingressi negli istituti penitenziari a loro destinati. La detenzione è la giusta risposta alla criminalità giovanile? “L’etichettamento dei minori devianti come criminali pericolosi da custodire in carcere approfondisce la frattura tra ragazzi in difficoltà, le istituzioni e le comunità di riferimento. Per questo, saggiamente, il nostro ordinamento aveva scelto la strada della decarcerizzazione e del sostegno educativo, al più in comunità dedicate. Con il decreto Caivano il Governo ha imposto un’altra narrazione, in cui i minori devianti sono giovani criminali da rieducare con la punizione: i risultati sono sotto gli occhi di tutti, nelle proteste e nella contrapposizione alle istituzioni che vediamo tutti i giorni manifestarsi nelle carceri minorili, da cui potranno venire solo più strutturate carriere criminali e non certo percorsi di rieducazione e reinserimento sociale”. Se le condizioni di vita dei detenuti in Italia incrementano il rischio suicidario tra questi, anche gli agenti penitenziari che lavorano in quegli stessi ambienti non se la passano bene. Di qualche giorno fa le proteste di questi davanti al carcere di Poggioreale uniti dalla richiesta ‘il governo mantenga le promessè. Cosa occorrerebbe fare per dar loro una risposta immediata? “Il governo pensa di dare soddisfazione al personale penitenziario, legittimamente frustrato dalle proprie condizioni di lavoro in carenza di organico e in ambienti fatiscenti e sovraffollati, bastonando i detenuti, come propone con l’introduzione del nuovo reato di ‘rivolta in carcerè, che sarà attribuibile anche a tre detenuti che si rifiutino pacificamente di rientrare in cella perché vogliono rappresentare al direttore, al magistrato di sorveglianza o al garante qualcosa che non funziona in cella o nella loro sezione. In questo modo, però, non si fa altro che esacerbare gli animi e rendere più difficile il lavoro del personale penitenziario e, in particolare, degli agenti che lavorano in sezione, a diretto contatto con i detenuti. Servirebbe, invece, lavorare per rendere possibile l’azione rieducativa delle istituzioni penitenziarie, a partire dall’adeguamento delle risorse umane ai bisogni della popolazione detenuta. Quindi, certamente va riempito l’organico della polizia penitenziaria, come si è fatto con gli educatori e come si sta facendo con i dirigenti, ma poi vanno ridotte le presenze in carcere a quei detenuti la cui gravità della pena consente e necessita l’opera rieducativa di cui la polizia penitenziaria è gran parte, restituendo al territorio quella marginalità sociale che invece ha bisogno di servizi di sostegno per una vita autonoma e indipendente nella legalità”. In carcere non c’è più tempo né spazio, anche la resistenza passiva diventa reato di Francesco Rosati I Riformista, 19 settembre 2024 Un grido di dolore, una richiesta d’aiuto lacerante, arriva da P.M., detenuto nel braccio C del carcere di Torino Lo Russo e Cutugno. La lettera è stata recapitata al tesoriere di Radicali Italiani, Filippo Blengino, dopo la visita dei Radicali Italiani al carcere di Torino del 18 agosto. Una lettera dolorosa, che parla di dignità e denuncia condizioni disumane. “Caro Filippo, dopo la tua visita la situazione purtroppo non è cambiata. Senza l’indulto ci condanneranno a crepare come cani rinchiusi in queste celle, dove la sicurezza non esiste, celle bollenti, prive di ogni regola sanitaria, invase da cimici e scarafaggi, dove i diritti degli esseri umani vengono continuamente violati. Mi chiamo P.M. e sono detenuto presso il carcere di Torino ‘Lo Russo e Cutugno’, blocco C. Qui si muore, perché questa non è più una vita dignitosa e, per sfuggire a questa tortura, qualcuno di noi decide di farla finita. Entrati in questo girone dell’inferno, si perde ogni tipo di diritto e non esiste riabilitazione o rieducazione per correggere i comportamenti sbagliati; qui siamo carne da macello, privati della libertà e della dignità. La nostra punizione non può essere crudele, disumana e degradante. Chiediamo di essere salvati da uno Stato che ha deciso che la nostra punizione si traduca nella pena di morte celata! Un malato psichiatrico non è considerato una persona fragile, non gli viene riconosciuto il diritto alla salute. Siamo disperati, aiutateci!”. Sempre a Torino, nel carcere “Le Vallette”, 57 detenute sono entrate in sciopero della fame per protestare contro le strutture fatiscenti e insalubri, dove è difficile gestire un’esistenza. Nella lettera inviata a Rita Bernardini scrivono che non c’è più tempo né spazio. Dopo il susseguirsi di suicidi, eventi critici, roghi, detenuti e agenti feriti, la costante crescita del sovraffollamento, al termine di un’estate rovente, queste 57 donne hanno deciso di portare avanti una protesta non violenta: uno sciopero della fame a staffetta, per richiamare l’attenzione del Parlamento e delle istituzioni sulla situazione di emergenza totale, richiedendo misure in grado di ridurre il sovraffollamento e la liberazione anticipata speciale di 75 giorni. “A causa del sovraffollamento, questi magazzini di corpi stanno per esplodere. L’unico crimine che vediamo e che subisce tutta la comunità penitenziaria è l’indifferenza. Ci rivolgiamo al presidente Mattarella, in quanto garante del rispetto della Costituzione: convinca il governo a ridurre il numero dei reclusi, servono soluzioni logiche e umane”. Di recente è arrivato l’ok della Camera all’aumento delle pene per disobbedienza all’interno di un carcere, compresa la “resistenza passiva”. Costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza. In sostanza viene equiparata la resistenza passiva a condotta violenta. Che dire: “Non c’è più tempo né spazio”. Neanche per la resistenza passiva. Ragazzi in carcere, che futuro possono costruire? di Livia Zancaner Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2024 Il malessere, il vuoto, il senso di estraneità, la mancanza di fiducia nei confronti degli adulti. Sono i sentimenti che oggi accomunano tanti giovani, in una società che li vuole sempre più performanti e in cui fanno fatica a riconoscersi e trovare un senso. Un disagio che può trasformarsi in comportamenti aggressivi e distruttivi, verso gli altri o verso se stessi. A ribadirlo è don Claudio Burgio, cappellano dell’istituto penale per minorenni Cesare Beccaria di Milano e fondatore della comunità Kayròs, a Vimodrone: “Si tratta di un disagio che appartiene a tutti i ragazzi, al di là del ceto sociale. I giovani si sentono soli, persi, senza un futuro, cercano di riempire un vuoto”. Don Claudio, al centro di prima accoglienza del Beccaria, ha incontrato anche il diciassettenne che a Paderno Dugnano ha ucciso madre, padre e fratello di 12 anni. Il ragazzo, ora trasferito al carcere minorile di Firenze, “non appartiene al mondo della devianza. Per lui - sottolinea Burgio - il Beccaria non è il posto adatto, visti anche gli ultimi accadimenti”. Oggi - come testimoniano le rivolte, i tentativi di fuga, le polemiche legate a sovraffollamento e mancanza di agenti - le carceri minorili non hanno alcun valore rieducativo, ma sono solo luoghi di detenzione, ribadisce don Claudio all’evento Giovani tra disagio e musica, organizzato dalla Fondazione Darefrutto di padre Piero Masolo. Con don Claudio, nella Tenuta san Marzano Mercurina di Pieve del Cairo (Pv), ci sono Mario e Morgan, due ventenni ospiti di Kayros, la comunità che ogni giorno a Vimodrone accoglie ragazzi con procedimenti penali in corso, un passato nelle carceri minorili o all’interno di percorsi di messa alla prova. Una comunità dove la musica trap diventa terapia. Differenze che portano al disagio - Mario e Morgan, come tutti i ragazzi di Kayròs, hanno storie diverse. Il primo, adottato all’età di 9 anni, appartiene a una famiglia benestante, senza problemi economici. Il secondo a 6 anni viene dato in affido. Senza il papà, morto quando è ancora piccolino, Morgan vive solo con la mamma. “Lei diceva che andava dal fornaio ma io sapevo che andava alla mensa della Caritas”, spiega Morgan, il quale, tornato in famiglia all’età di 12 anni, inizia a commettere i primi furti. Mario, invece, finisce in strada perché si sente oppresso dalla famiglia, definisce la mamma iperprotettiva, i genitori gli chiedono continuamente: cosa vuoi fare nella vita? Ma lui non lo sa. A 14 anni la sua camera diventa una cella, così fugge. Sia Morgan sia Mario vengono mandati da psicologi e psichiatri: “I professionisti del disagio”, li chiama don Claudio. “Mi raccomando, vai dallo psicologo, vedrai che diventerai come gli altri bambini”, dice a Morgan l’assistente sociale. Parole che segnano, che fanno male. Alle medie la professoressa lo presenta davanti a tutta la classe come un bambino con adhd, ovvero con difficoltà di apprendimento. “Mi hanno preso in giro, sono stato etichettato. A 12 anni prendevo psicofarmaci, ero uno zombie, pesavo 90 chili”, ricorda Morgan. “La scuola è il primo palco sociale, reitera le disuguaglianze. Oggi le differenze sono molto marcate e tale disagio può trasformarsi in reati o in condotte autodistruttive”, ripete Burgio. La mancanza di fiducia - “Non mi apro perché ho paura che l’adulto usi le mie debolezze contro di me. È un problema di fiducia”, spiega Mario. “Quando sbagliavo mi dicevano: fai schifo. Don Claudio è stato l’unico a riprendermi a Kayros, a darmi altre opportunità nonostante gli sbagli. Non mi era mai capitato”, dice Morgan che ora fa il gelataio. A spiegare la ratio è sempre Don Claudio: “La fiducia si dà dopo il tradimento, altrimenti che fiducia è. Bisogna credere in questi ragazzi”. E lui nei ragazzi ha sempre creduto, come ci hanno creduto Sugar e Universal music Italia. Così, all’interno di Kayros, è comparsa una sala di registrazione ed è nata l’etichetta musicale Kayros Music. I ragazzi, refrattari a farsi aiutare dai professionisti, in comunità trovano una forma di cura nella musica, che per gli educatori diventa uno strumento educativo. Fondamentale l’idea di un progetto da seguire e costruire. La musica come terapia - A Kayròs i ragazzi incidono, da sempre, musica rap e trap. Nelle stanze di Vimodrone sono nati artisti come Baby Gang, Sacky, Simba La Rue. Trapper da milioni di visualizzazioni, spesso contestati per il linguaggio violento e sessista usato nei loro testi. Tanto che qualcuno ha invocato la censura e il ministero della Cultura ha parlato di un maggior controllo sui contenuti. In una chiacchierata, qualche tempo fa, proprio a Kayros, Don Claudio ci aveva spiegato bene il senso di quello che gli educatori e i giovani fanno in comunità. “Per un educatore è fondamentale che i ragazzi possano esternare e verbalizzare tutto quello che hanno vissuto. Dunque se in questa comunità, grazie alla musica, riescono a buttare fuori per la prima volta pagine oscure della propria vita - cosa che non hanno mai fatto con gli psicologi o in carcere - per noi ha un grande valore”, spiega il fondatore di Kayros. Anche nell’ultimo album di Baby Gang (vero nome Zaccaria Mohuib), L’Angelo del male (il 25 ottobre partirà il tour), tra le righe ci sono tutte le violenze subite nelle carceri. E non solo. C’è l’idea di un’autorità vissuta come potere ostentato e dispotico. Il merito delle canzoni trap e rap è parlare di temi reali, anche se con una narrazione spietata. Baby Gang, Simba La Rue, Sacky descrivono i quartieri in cui sono cresciuti, le situazioni che hanno vissuto, raccontano la vita reale, fatta di violenza, droga, armi, raccontano il carcere. “Abbiamo parlato del fatto che i loro testi possano influenzare i più piccoli. Ma loro raccontano quello che hanno vissuto. Sono gli adulti che devono aiutare i ragazzi, soprattutto i più giovani, a comprendere tutto ciò”, aggiunge don Claudio. Per quest’ultimo la censura, dunque, non serve ma bisogna accompagnare i giovani nell’ascolto dei brani, perché realtà come quelle raccontate nei testi trap esistono. “Ad esempio, non riesco ancora a credere che un quartiere come San Siro, a 20 minuti in macchina dal Duomo, possa versare in tali condizioni di miseria”, ricorda Burgio. Il futuro esiste - Anche Morgan scrive musica trap, fa parte del progetto partito a maggio con Universal Music Italia. “La musica è una via d’uscita, mi aiuta a tirare fuori le emozioni”, sottolinea il giovane, neanche ventenne, spiegando che ci sono vari modi di fare musica: “C’è chi vuole far vedere quello che non è e chi racconta quello che ha vissuto”. Con Morgan ci sono altri sei ragazzi, come Andy, in arte Fandy, 19 anni, a Kairòs da un anno e mezzo. “Io voglio trasmettere dei valori con la musica e sto imparando a farlo”, racconta. Mario, invece, non fa musica: è pronto a iniziare il suo lavoro di educatore. “Mio papà, ancora oggi mi dice di farmi curare. Ma io non sono malato, sono arrabbiato”, racconta Mario, che ora sembra aver trovato quel senso che tanto mancava nella sua vita. Grazie anche ai cancelli aperti di Kayròs, che in greco significa “il momento opportuno”, e a quella scritta, diventata il motto della comunità: non esistono ragazzi cattivi. Perché a Kayros non ci sono né chiavi né barriere, tutto è basato sulla fiducia, sulla possibilità di cadere e poi rinascere. Rivolte in carcere, votata la stretta di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2024 Arrivano il nuovo delitto di rivolta in carcere, integrato anche solo da atti di resistenza passiva (“Un attacco allo stato di diritto”, tuona il Pd) e valido pure per i centri per i migranti, e l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi se commesso all’interno di un istituto di pena. Arrivano il nuovo delitto di rivolta in carcere, integrato anche solo da atti di resistenza passiva (“Un attacco allo stato di diritto”, tuona il Pd) e valido pure per i centri per i migranti, e l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi se commesso all’interno di un istituto di pena. L’Aula della Camera ha ripreso ieri tra le polemiche le votazioni del disegno di legge Sicurezza, approvando alcune tra le strette più contestate. Come quella sull’acquisto delle Sim da parte dei cittadini extra Ue: tra i documenti che un operatore dovrà acquisire per venderle, oltre a quelli di identità, sarà necessaria “copia del titolo di soggiorno”. “Una bestialità che favorirà lo sviluppo del mercato illegale”, attacca Riccardo Magi di +Europa. Respinti gli emendamenti soppressivi presentati dalle opposizioni. “Siamo di fronte a un’escalation di misure repressive e crudeli che rivelano un regime di tensione evidente, volto a distogliere l’attenzione dai fallimenti di questo governo”, scandisce in Aula la responsabile giustizia del Pd, Debora Serracchiani. E il M5S, con il deputato componente del Copasir Marco Pellegrini, denuncia come “pericolosissime” le novità sui servizi segreti contenute all’articolo 31: “Rendono permanente - è l’accusa - l’autorizzazione per l’intelligence a porre in essere condotte che configurano reati, anche molto gravi”. Ottengono il semaforo verde dell’assemblea, inoltre, le tante norme a tutela delle forze dell’ordine, salutate con favore dai sindacati di polizia, come quella che prevede l’aumento fino a 10mila euro dell’anticipo delle spese legali in ogni fase del procedimento e quella che autorizza a indossare bodycam durante il servizio (23 milioni in tre anni). “Una protezione che fornirà agli agenti prove oggettive contro accuse troppo spesso infondate”, sottolinea dalla Lega Igor Iezzi. Via libera anche alla disposizione che permette agli agenti di portare senza licenza alcune tipologie di armi quando non sono in servizio, tra cui rivoltelle e pistole di ogni misura. Al voto mancano soltanto gli ultimi articoli del provvedimento: il sì finale dovrebbe arrivare già oggi, poi il testo passerà al Senato. Coronando il giro di vite securitario voluto dal governo. A giorni il nuovo Garante dei detenuti. Nordio vuole una figura “di alto profilo” di Errico Novi Il Dubbio, 19 settembre 2024 Il Guardasigilli nominerà entro la prossima settimana il presidente dell’Autorità. L’obiettivo: una scelta gradita al Colle e che contribuisca a riforme senza strappi. “Ci impegneremo per far valere la nostra particolare sensibilità sul carcere”. È la promessa con cui i deputati di Forza Italia si sono congedati dalla battaglia, persa, sulle detenute madri, nell’ambito del ddl sicurezza. Ed è un obiettivo che Antonio Tajani e il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto ribadiscono da tempo: favorire l’adozione di nuovi strumenti per migliorare la condizione dei reclusi, decongestionare gli istituti di pena e arginare la macabra scia dei suicidi, arrivati ormai alla raccapricciante cifra di 72 dall’inizio dell’anno. È però una sfida che gli azzurri condurranno senza passare per una scorciatoia in teoria “comoda”: il Garante dei detenuti. Dal 22 agosto, giorno in cui è scomparso il compianto Maurizio D’Ettore, il collegio che costituisce l’Autorità è senza presidente. Restano l’avvocata Irma Conti e il professor Mario Serio. Ma sulla scelta del successore, il guardasigilli Carlo Nordio ha chiara la strada: individuare una figura di altissimo profilo, che non sia riconducibile a un partito e che possa aspirare al gradimento di Sergio Mattarella. È con il Capo dello Stato, infatti, che il ministro intende confrontarsi a breve sugli interventi da operare in ambito penitenziario. In realtà Nordio ha già ristretto al massimo la rosa. E il provvedimento di nomina dovrebbe arrivare non più tardi della prossima settimana. Sarà una scelta delicata, sulla quale però via Arenula mantiene il massimo riserbo. È soprattutto una scelta politicamente difficile. Si deve tener conto dell’orientamento “rigorista” che continua a prevalere nella maggioranza. E che non è certo coincidente con le prospettive coltivate da Forza Italia. Deve trattarsi dunque di una figura in grado di non sfidare in modo paradossale il governo su un terreno, quello degli sconti di pena, rispetto al quale non si è disposti a concedere alcunché. Ma il futuro presidente del collegio che costituisce l’Autorità garante delle persone private della libertà personale dovrà essere capace, nello stesso tempo, di contribuire a un orientamento più centrato sull’umanità della pena e sull’accesso alle misure alternative. È un campo nel quale, per la maggioranza, non si tratta solo di “sostanza” ma anche di “forma”. Lo dimostra un passaggio della discussione di ieri sul ddl sicurezza a Montecitorio. Il segretario di + Europa Riccardo Magi si è lamentato per aver visto respingere, dal centrodestra, un proprio emendamento con cui puntava a formalizzare l’istituzione delle “case territoriali di reinserimento sociale: strutture alternative al carcere di capienza limitata”, ha spiegato il parlamentare di opposizione, “destinate ad accogliere tutti i soggetti che debbano scontare una pena inferiore a un anno di detenzione, quindi circa 8mila, che sono il 20% del totale dei detenuti”. Il no del centrodestra non è, evidentemente, all’ipotesi in sé, ma all’idea di doversi far dettare tempi e modi dagli avversari. Perché nelle stesse ore in cui nell’aula della Camera i deputati del centrodestra bocciavano la proposta Magi, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, di Fratelli d’Italia, spiegava ai cronisti in Transatlantico che il ministero è a buon punto sul rafforzamento delle pene alternative, proprio nel senso di garantire “un domicilio per chi non può accedere a tali misure perché non dispone di un’abitazione propria: non è corretta una giustizia a doppia velocità a seconda del censo”, ha detto l’esponente di punta dei meloniani in materia di Giustizia. “Oggi abbiamo 8mila detenuti”, ha proseguito, “a cui manca un anno, altri 8mila a cui mancano due anni: evidentemente possono già accedere a pene alternative, che però non vengono concesse, attualmente, dalla magistratura, la quale avrà i suoi buoni motivi. Se però uno dei motivi fosse quello del presupposto oggettivo della mancanza di domicilio, il ministero con questa operazione se ne farà carico”. Basta raffrontare le due dichiarazioni, Magi da una parte e Delmastro dall’altra: è evidente come proposte dell’opposizione (respinte in Aula) e piani operativi della maggioranza (a quanto pare prossimi a concretizzarsi) siano in gran parte sovrapponibili. Ma governo e partiti di centrodestra intendono misurare le parole, su un terreno dal loro punto di vista delicato, in termini di consenso, qual è l’esecuzione penale. Si punta a valorizzare soluzioni che assicurino non solo la deflazione ma anche l’avvicinamento, per chi intravede il traguardo del fine pena, al mondo del lavoro. È la strada indicata nei giorni scorsi da Andrea Ostellari, il sottosegretario alla Giustizia della Lega, anche in un’intervista al Dubbio. Agire in modo da alleviare la congestione delle carceri, ma senza consentire che il governo di centrodestra possa assumere, agli occhi degli elettori, un profilo di indiscriminata indulgenza, di “lassismo”. Un sentiero strettissimo. Chi assumerà le funzioni di garante dovrà avere una statura abbastanza elevata e, soprattutto, spalle sufficientemente robuste per riuscire a confrontarsi con queste complicate esigenze di equilibrio, senza alimentare tensioni. Una missione impegnativa, diciamo. Ma per la quale, a quanto sembra, Nordio è convinto di aver individuato la soluzione giusta. Sì della Camera al Ddl Sicurezza: dall’alt alla cannabis light alle armi libere per gli agenti di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2024 Disco verde finale al provvedimento, che passa al Senato per la seconda lettura. Nei 38 articoli del disegno di legge Sicurezza che l’Aula della Camera ha approvato sventola la più forte delle bandiere identitarie della destra al governo del Paese: in assenza di margini per misure davvero popolari sul piano economico, è qui che la maggioranza sta definendo in modo netto il suo posizionamento. I sì sono stati 162, i no 91 e 3 gli astenuti. Il provvedimento passa all’esame del Senato. Sono quattro le macroaree entro le quali il testo - targato Interno, Giustizia e Difesa - si muove: un giro di vite panpenalistico fatto di nuovi reati e aumenti delle pene; un deciso rafforzamento delle tutele e delle garanzie per forze dell’ordine e intelligence; una stretta alla droga, con la misura simbolo dell’alt alla cannabis light; un irrigidimento sull’ordine pubblico, attraverso la stretta sulle manifestazioni No Ponte e no Tav e sulle rivolte nelle carceri e nei centri di accoglienza per i migranti. I nuovi reati di terrorismo - Il primo fronte si manifesta sin dall’articolo 1, che modifica il Codice penale introducendo il reato di “detenzione di materiale con finalità di terrorismo” (punito con la reclusione da 2 a 6 anni chiunque si procuri o detenga istruzioni per preparare armi o sostanze per compiere atti di violenza o sabotaggio) e anche una nuova fattispecie del delitto di “fabbricazione o detenzione di materie esplodenti” (articolo 435 Cp), ai sensi dalla quale è punito con il carcere da 6 mesi a 4 anni chiunque, anche per via telematica, distribuisce, diffonde o pubblicizza materiale per preparare o usare sostanze tossiche, accecanti o infiammabili per compiere delitti non colposi contro la personalità dello Stato che prevedono la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, come lo spionaggio o l’associazione sovversiva. Ha sempre finalità antiterrorismo la stretta sul noleggio di veicoli introdotta durante l’esame nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia: gli esercenti dovranno comunicare anche i dati identificativi della macchina noleggiata (targa e numero di telaio) nonché gli intervenuti mutamenti della proprietà e gli eventuali contratti di subnoleggio. Viene introdotta anche in questo caso un’altra nuova fattispecie di reato, con l’arresto fino a tre mesi o un’ammenda fino a 206 euro. Le modifiche al Codice antimafia - L’obbligo di documentazione previsto per ditte e società è esteso ai contratti di rete e il prefetto, in caso di informazione interdittiva, potrà non applicare i divieti di contrattare e di ottenere concessioni o erogazioni per l’impresa individuale se ne conseguisse il venir meno dei mezzi di sostentamento per l’interessato e la sua famiglia. Vengono esclusi dai benefici ai superstiti delle vittime della criminalità organizzata i parenti o affini entro il quarto grado di soggetti destinatari di misure di prevenzione o sottoposti a procedimento penale. Oltre ad ampliare il ricorso ai documenti di copertura per rafforzare la protezione di collaboratori e testimoni di giustizia, il Ddl estende da 10 a 30 giorni il termine per ricorrere contro le misure di prevenzione personali decise dai giudici; stabilisce che la relazione dell’amministratore giudiziario sui beni sequestrati ne illustri nel dettaglio le caratteristiche tecnico-urbanistiche, evidenziando gli eventuali abusi e descrivendo i possibili impieghi dei beni; modifica alcune norme sulla gestione delle aziende sequestrate. Fino a 7 anni per chi occupa abusivamente un immobile - Altro nuovo reato previsto dal disegno di legge (articolo 10), punito con la reclusione da 2 a 7 anni, è quello di “occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui” (o delle relative pertinenze). Si procede d’ufficio se il fatto riguarda un bene pubblico o destinato al pubblico ed è contemplata una procedura d’urgenza per il rilascio dell’immobile e la reintegrazione nel possesso. Il giro di vite sulle truffe - L’articolo 11 modifica il Codice penale per rendere più incisiva la repressione delle truffe agli anziani, con una specifica ipotesi di truffa aggravata con la pena della reclusione da 2 a 6 anni, la multa da 700 a 3mila euro e la possibilità della custodia cautelare in carcere. La nuova fattispecie finisce inoltre nel novero dei reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Viene poi introdotta una nuova circostanza aggravante comune legata all’aver commesso il fatto “nelle aree interne o nelle immediate adiacenze delle infrastrutture ferroviarie o all’interno dei convogli adibiti al trasporto passeggeri”. Manifestazioni, per i danni ora si rischia di più - L’articolo 12, introdotto in commissione, inasprisce le pene (reclusione da 1 anno e 6 mesi a 5 anni e multa fino a 15mila euro) per il delitto di danneggiamento in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico qualora il fatto sia commesso con violenza alla persona o minaccia. L’ampliamento del Daspo urbano contro i borseggi - Con l’articolo 13 il Ddl estende l’ambito di applicazione della misura di prevenzione del divieto di accesso alle aree urbane, disposta dal questore, anche nei confronti di coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nei cinque anni precedenti, per uno dei delitti contro la persona o contro il patrimonio previsti dal libro secondo, titoli XII e XIII del Codice penale, qualora siano commessi nelle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze. L’osservanza dell’alt è ulteriore condizione al cui rispetto può essere subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena. La disposizione estende infine l’ambito di applicazione dell’arresto in flagranza differita anche al reato di lesioni cagionate a un pubblico ufficiale in servizio in occasione di manifestazioni e individua le sanzioni nei casi di lesioni cagionate al personale sanitario a causa delle funzioni o del servizio, nonché a chiunque svolga attività ausiliarie di cura, assistenza sanitaria o soccorso. I blocchi stradali diventano delitto - L’articolo 14 del provvedimento, molto controverso, eleva da illecito amministrativo a illecito penale, punibile con la reclusione fino a un mese o la multa fino a 300 euro, il blocco stradale o ferroviario attuato mediante ostruzione fatta col proprio corpo. La pena è aumentata (da sei mesi a due anni) se il fatto è commesso da più persone riunite, come avvenuto ad esempio con gli attivisti per l’ambiente di Ultima generazione. Detenute madri, reclusione possibile anche con i neonati - Ancora più contestato è stato l’articolo 15 fortemente voluto dalla Lega, che modifica gli articoli 146 e 147 del Codice penale rendendo facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età inferiore a un anno e disponendo che scontino la pena, qualora non venga disposto il rinvio, presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri. L’esecuzione non può essere rinviabile ove sussista il rischio, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti. Inizialmente la maggioranza si era spaccata, con Forza Italia contraria alla norma. Ma in Aula il dissenso è rientrato ed è stato approvato un generico emendamento di compromesso che prevede una relazione al Parlamento sull’applicazione delle misure. Accattonaggio, il pugno diventa più duro - Viene punito l’impiego nell’accattonaggio di minori fino ai 16 anni (non più fino ai 14) e la pena sale da uno a cinque anni di reclusione al posto dei tre anni al massimo previsti finora. Il Ddl introduce la fattispecie di “induzione all’accattonaggio”: per chiunque se ne macchi la pena passa dalla reclusione da 1 a 3 anni a da 2 a 6 anni. L’età inferiore a 16 anni della persona offesa è prevista come circostanza aggravante ad effetto speciale, per la quale si prevede un aumento di pena da un terzo fino alla metà. Infiorescenze della canapa, scatta il divieto - Grandi proteste della filiera agroindustriale della canapa per l’articolo 18, introdotto con un emendamento del governo durante l’esame in sede referente e confermato dal voto in assemblea, che dispone la stretta sulla cannabis light: modificando la legge 242/2016, il disegno di legge stabilisce il divieto di importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione e consegna delle infiorescenze della canapa, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché dei prodotti- che le contengono, compresi gli estratti, le resine e gli olii derivati. Lo stop è finalizzato a evitare che l’assunzione di prodotti da infiorescenza della canapa possa favorire, con “alterazioni dello stato psicofisico”, l’insorgere di “comportamenti che possono porre a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica o la sicurezza stradale”. Forze dell’ordine: più difese e bodycam sulle divise - Il capo III del Ddl è interamente dedicato a misure per la tutela del personale delle forze di polizia, delle forze armate e del corpo nazionale dei Vigili del fuoco. Tante le novità: si va dall’aumento della pena di un terzo se i delitti di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale sono commessi nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza all’introduzione di un’ulteriore aggravante in virtù della quale la pena è aumentata fino a un terzo se la violenza o la minaccia è commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica. Un altro passaggio controverso, ribattezzato dai detrattori “anti no Ponte”. Viene poi introdotta la nuova fattispecie di reato di “lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni” punita con la reclusione da 2 a 5 anni nel caso di lesioni semplici; da 4 a 10 anni nel caso di lesioni gravi; da 8 a 16 anni nel caso di lesioni gravissime. E l’articolo 21 consente alle forze di polizia, stanziando 23 milioni di euro fino al 2026, di utilizzare dispositivi di videosorveglianza indossabili nei servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del territorio, di vigilanza di siti sensibili, nonché in ambito ferroviario e a bordo treno. Tutela legale fino a 10mila euro e armi private “libere” - Durante l’iter in commissione è arrivata un’altra norma molto attesa dagli agenti: il riconoscimento di un beneficio economico a decorrere dal 2024 fino a 10mila euro in ogni fase del procedimento a fronte delle spese legali sostenute da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria, nonché dai vigili del fuoco, indagati o imputati per fatti inerenti al servizio svolto. Si prevede un’autorizzazione di spesa nel limite di 860mila euro a decorrere dal 2024. Vengono inoltre inasprite le sanzioni per chi non si ferma all’alt della polizia stradale. L’articolo 28 autorizza infine gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza alcune tipologie di armi, tra cui rivoltelle e pistole di ogni misura, quando non sono in servizio. Carceri e migranti, il nuovo reato di “rivolta” e la stretta sulle Sim - Per la sicurezza nelle carceri l’articolo 26 introduce l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi (articolo 415 Codice penale), con pena aumentata fino a un terzo, se commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute e il delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario (articolo 415 bis Cp), integrato non solo da atti di violenza o minaccia o da tentativi di evasione, ma pure da “resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti”. Previsione che ha fatto parlare le opposizioni di norma incostituzionale, “un attacco allo stato di diritto”. La pena base è stabilita nella reclusione da 2 a 8 anni, aumentata da 3 a 10 anni se si usano armi e da 10 a 20 anni se si causano vittime. Viene punita con il carcere da 1 a 5 anni anche la mera partecipazione alla protesta. Pene severe anche per chi promuove, organizza o dirige una rivolta nei centri di permanenza per il rimpatrio o nelle strutture per l’accoglienza dei migranti. Che avranno vita più difficile anche per l’acquisto delle Sim: tra i documenti che gli operatori dovranno acquisire per poterle vendere, oltre a quelli di identità, sarà necessaria “copia del titolo di soggiorno” Nuovi reati, più aggravanti e più carcere. Ok dalla camera al Ddl sicurezza di Giuliano Santoro Il Manifesto, 19 settembre 2024 Il catalogo dei nemici della destra ora va al Senato. “Avrà la priorità” assicura Salvini. Dagli occupanti agli eco-attivisti: la maggioranza insegue i media e colpisce le lotte. “Restituire certezza del diritto ai proprietari di casa e sbattere il galera chi occupa le case e sgomberarle al di là delle chiacchiere di altri e dei processi politici, è un servizio agli italiani”: con queste parole ieri Matteo Salvini in Transatlantico alla camera ha salutato l’approvazione in prima lettura del Ddl sicurezza con 162 sì e 91 no. Il pacchetto di norme che istituiscono nuovi reati e inaspriscono pene contiene praticamente tutto il campionario delle questioni sociali trasformate in emergenze da reprimere. L’esempio salviniano è emblematico: parla di casa (e dell’emergenza tutta mediatica delle occupazioni) proprio il ministro delle infrastrutture, che dovrebbe occuparsi di politiche abitative, e che ha cancellato ogni misura di sostegno ai morosi in difficoltà ed evita di dialogare con i sindacati e le associazioni che tutelano gli inquilini. A chi gli ha chiesto se il suo partito solleciterà tempi rapidi per l’approvazione definitiva del provvedimento, il leader leghista ha risposto: “Assolutamente sì, prima si approva e meglio è, questo incide in meglio nella vita dei cittadini. La Lega chiederà un canale di urgenza assoluta, i dati sulla sicurezza i dati lo dicono”. Dunque, il rischio è che la palla passerà presto al senato. Ieri, in sede di approvazione definitiva, la maggioranza non si è fatta mancare un ordine del giorno che impegna il governo a istituire un tavolo tecnico per l’introduzione della castrazione chimica in Italia in caso di reati di violenza sessuale o di altri gravi reati determinati da motivazioni sessuali. È la ciliegina sulla torta panpenalista, che contiene altre forzature allo stato di diritto. Si è parlato, nei giorni scorsi, delle detenute madri che tornano in galera, dell’insensato giro di vite sulla cannabis light (pare molto caro al sottosegretario alla presidenza del consiglio Alfredo Mantovano), delle norme vessatorie contro la resistenza passiva per strada (evidentemente pensata per colpire quei pericolosi gandhiani degli ecoattivisti) o nelle carceri (particolarmente odiosa in tempi di suicidi e disperazione dietro le sbarre) o dell’aggravante pensata per punire le proteste se volte a impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica. C’è anche l’articolo 28, che autorizza gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza alcune tipologie di armi quando non sono in servizio. Carabinieri, agenti della polizia, della guardia di finanza e della polizia penitenziaria potranno detenere senza licenza le armi elencate all’articolo 42 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (che risale al Regio decreto n. 773 del 1931): arma lunga da fuoco, rivoltella e pistola di qualunque misura, bastoni animati con lama di lunghezza inferiore ai 65 centimetri. O l’articolo 11, che, con il recepimento in Commissione di un emendamento della Lega, insegue le bolle mediatiche dei giustizieri youtuber (si pensi al fenomeno Cicalone) e introduce come aggravante quella di “avere commesso il fatto all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri”. Non mancano i pericolosi strascichi delle sciagurate scelte dei governi di centrosinistra che introdussero (il governo era quello di Paolo Gentiloni, ministro dell’interno era Marco Minniti) il Daspo urbano. Adesso il questore, in caso di reiterazione delle condotte considerate pericolose, può “disporre il divieto di accesso” alle aree delle infrastrutture di trasporto e alle loro pertinenze, come le stazioni, nei confronti di coloro che risultino anche solo denunciati o condannati anche con sentenza non definitiva nel corso dei precedenti cinque anni. Viene ampliata anche l’applicazione dell’arresto in flagranza differita prevista per chi viene accusato di lesioni personali a un pubblico ufficiale in servizio: adesso, guarda un po’, varrà anche nei casi in cui il fatto è commesso in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico. Le destre non puntano solo a inseguire i facili consensi delle emergenze virtuali, quelle che sembrano costruire per nascondere i problemi reali, o a inventare nuovi nemici. Sembra vogliano davvero regolare i conti con la società e chi la anima, coi conflitti che la fanno vivere e sopravvivere. E che vogliano farlo svuotando a colpi di leggi repressive gli spazi pubblici e ogni forma di solidarietà reciproca e mutuo soccorso che si possa costruire, come accade in un picchetto antisfratto, davanti a una fabbrica a rischio chiusura, in un luogo di detenzione in cui si chiedono condizioni più umane. Un programma politico, più che un semplice giro di vite. Ddl Sicurezza, rispunta la castrazione chimica: sì alla proposta della Lega di Valentina Stella Il Dubbio, 19 settembre 2024 Via libera della Camera al ddl Sicurezza. Il provvedimento, recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”, ha avuto l’ok dell’aula di Montecitorio con 162 sì, 91 no e 3 astenuti. Il testo ora passerà al Senato per l’approvazione finale e la Lega è pronta a chiedere la procedura d’urgenza. Bocciata la totalità delle proposte di modifica delle opposizioni. Introdotto il reato di resistenza passiva definito “attacco allo stato di diritto” dalla deputata Pd Michela Di Biase. La parlamentare ha aggiunto: “Con questa norma il governo e la maggioranza stanno compiendo un grave passo indietro rispetto ai diritti delle persone detenute che rappresenta una vera e propria violenza allo stato di diritto. Peraltro il nostro codice penale già prevede punizioni per le rivolte violente in carcere. Non è chiaro, quindi, quale obiettivo stia perseguendo il governo, se non quello di impedire ai detenuti anche di denunciare e manifestare pacificamente il loro disagio di fronte a una condizione delle carceri italiane che è insostenibile e disumana, e che è frutto dell’inattività del governo”. La Camera ha invece bocciato un emendamento del deputato di +Europa Riccardo Magi, relatore di minoranza del ddl Sicurezza, che proponeva di istituire le case territoriali di reinserimento sociale: “La maggioranza ha sprecato l’ennesima occasione per intervenire sulla tragica situazione delle carceri italiane. Ringrazio i colleghi del Partito Democratico, Alleanza Verdi-Sinistra, Italia Viva e Azione che hanno sottoscritto e sostenuto l’emendamento, che proponeva di istituire strutture alternative al carcere di capienza limitata, caratterizzate da programmi di trattamento espressamente finalizzati alla ricollocazione sociale del condannato, e destinate ad accogliere tutti i soggetti che debbano scontare una pena inferiore a un anno di detenzione, quindi circa 8 mila, che sono il 20% del totale dei detenuti”. Si tratta di una proposta depositata alla Camera, ha concluso il parlamentare, “anche in forma di proposta di legge, e sottoscritta dagli altri gruppi di opposizione, a cui chiedo fin da subito di sostenerne la calendarizzazione. Su questo in passato il capo del DAP Giovanni Russo e perfino il ministro Nordio aveva espresso un orientamento positivo: tuttavia il Governo ha puntualmente disatteso, decidendo di restare ancora una volta immobile nonostante le condizioni disumane in cui versano le carceri italiane”. Castrazione chimica, passa l’Odg della Lega - Montecitorio però ha dato il via libera, dopo il parere favorevole del governo, all’ordine del giorno al ddl Sicurezza firmato da Igor Iezzi (Lega) che impegna l’esecutivo a “istituire quanto prima una commissione o un tavolo tecnico con lo scopo di valutare, nel rispetto dei principi costituzionali e sovranazionali, in caso di reati di violenza sessuale o di altri gravi reati determinati da motivazioni sessuali, la possibilità per il condannato di aderire, con il suo consenso, a percorsi di assistenza sanitaria, di natura sia psichiatrica sia farmacologica, anche con eventuale trattamento di blocco androgenico mediante terapie con effetto temporaneo e reversibile, diretti ad escludere il rischio di recidiva”. Ha esultato il segretario del Carroccio su X Matteo Salvini: “Vittoria della Lega! Bene così, un altro importante passo in avanti per una nostra storica battaglia di giustizia e buonsenso: tolleranza zero per stupratori e pedofili”. Dure critiche dalle opposizioni. “Rispunta come ordine del giorno l’ossessione leghista della castrazione chimica. La vocazione repressiva della Lega è senza confini e trascina senza sforzo tutta la destra, senza distinzioni”, hanno commentato Devis Dori e Filiberto Zaratti, capogruppo di AVS nelle commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera. “Con buona pace di Forza Italia il governo è ormai piegato sulle posizioni estremiste di Salvini e della Lega. Una proposta incostituzionale che mina alle basi il nostro ordinamento giuridico che ha superato da secoli il ricorso alle pene corporali”: così in una nota la capogruppo democratica in commissione Affari costituzionali della camera, Simona Bonafè sullo stesso tema. Al Senato la proposta sulle vittime di reato - Contemporaneamente al Senato la maggioranza si divideva sul disegno di legge costituzionale che vorrebbe inserire nell’articolo 11 della Costituzione, quello sul giusto processo, anche la tutela per “le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato”. Forza Italia infatti è assolutamente contraria e prende tempo perché, come ha spiegato il capogruppo in Commissione Giustizia del Senato, Pierantonio Zanettin, “si altererebbe l’equilibrio tra l’accusa e la difesa che sono e restano le parti principali del processo”. Così il provvedimento, che era stato approvato a larga maggioranza in Commissione Affari Costituzionali, dopo essere stato fermo per circa 6 mesi in Commissione Giustizia in attesa del parere, ora torna in I Commissione, quella presieduta da Alberto Balboni (FDI), per un ciclo di audizioni. Ddl Sicurezza, spunta il “tavolo tecnico” sulla castrazione chimica di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 19 settembre 2024 Incurante del diluvio di critiche delle opposizioni e delle perplessità di giuristi e associazioni, la maggioranza ha tirato dritto. E così, in serata, l’Aula di Montecitorio ha dato il primo via libera, con 162 sì a fronte di 91 no e 3 astenuti, al discusso disegno di legge sulla sicurezza voluto dal governo. Ora il testo passa all’esame del Senato, con la Lega già in pressing : “Chiederemo un canale d’urgenza perché prima lo si approva, meglio è”, dice in Transatlantico ai cronisti il vicepremier e segretario del Carroccio Matteo Salvini. Anche il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il resto del centrodestra sostengono il provvedimento e ne salutano con favore il primo sì parlamentare. Nella versione licenziata ieri dalla Camera in prima lettura, il provvedimento introduce una serie di novità: dalle misure severe per limitare le proteste nelle carceri (col reato di “resistenza passiva”) e nei Cpr alle maggiori tutele legali per le forze dell’ordine e alle “bodycam” per gli agenti di polizia; dal giro di vite contro l’occupazione abusiva di abitazione a quello nei confronti di chi manifesta bloccando le strade (le opposizioni parlano di norma “anti Gandhi”). Ancora, nel testo ci sono la stretta contro la cannabis light e il divieto ai gestori telefonici di vendita di carte Sima cittadini extraeuropei senza permesso di soggiorno. E diventa facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio della pena detentiva per le donne incinte (o con bimbi sotto l’anno). Sempre ieri, prima del voto finale, la maggioranza ha sostenuto l’approvazione di alcuni ordini del giorno, fra cui uno con una proposta inizialmente avanzata come emendamento in commisio ne e poi rispuntata come odg. Lha firmato illeghista Igor lezzi, che in estate aveva annunciato novità sulla castrazione chimica. E autorizza l’apertura di un tavolo tecnico che valuti la possibilità per il condannato di aderire a percorsi di assistenza sanitaria, psichiatrica e farmacologica, anche con un eventuale trattamento di “blocco androgenico. Un altro odg impegna l’esecutivo a “valutare l’opportunità di inasprire le pene per il reato di cessione di sostanze stupefacenti al fine di garantire la punibilità degli spacciatori delle cosiddette droghe leggere”. Negli interventi in Aula, annunciando il loro voto contrario, le opposizioni hanno bocciato i contenuti del ddl. Per il responsabile Sicurezza del Pd, Matteo Mauri, contiene misure “liberticide” e “nulla sulla sicurezza, ma solo aumento delle pene, propaganda e norme pericolose”, senza dare “più risorse alla polizia e agli enti locali”. Preoccupato e “angosciato” si dice Riccardo Magi, segretario di +Europa, per “l’uso propagandistico del Codice penale, con più di 20 tra nuovi reati e aumenti di pena”, che daranno “molto lavoro a tribunali e alla Corte Costituzionale, dove molte norme contenute nel ddl sicurezza verranno smontate, non prima di aver prodotto danni”. Tagliente anche Avs, con Filiberto Zaratti, che parla di “norme repressive e autoritarie” contro “disoccupati che protestano, attivisti climatici, detenuti, migranti, donne rom”. E conclude paragonando la maggioranza al personaggio più malvagio del “Signore degli Anelli”: “Rileggete Tolkien: Sauron siete voi!”. “Occupazione abusiva”, il nuovo reato è un mega spot quasi impossibile da applicare di Massimo Pasquini* Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2024 Mentre scrivo è ancora in corso la discussione del ddl Sicurezza, Atto Camera 1660. Al contempo l’Aula della Camera ha già approvato l’articolo 10 che si riferisce alle occupazioni di immobili altrui e Salvini su X lo ha annunciato così: “Grande vittoria per una battaglia storica della Lega: via libera della Camera - in attesa del passaggio al Senato - per l’introduzione del nuovo reato per chi occupa abusivamente case, con una pena prevista dai due ai sette anni di carcere. Altro che clemenza per gli abusivi, come vorrebbe una certa sinistra: tolleranza zero!” Prima di passare alle conseguenze di tale articolo vorrei far presente che nel nostro codice penale ci sono già tre, dicasi tre articoli, nei quali viene disciplinata l’occupazione abusiva. Questi sono: - l’articolo 633 del codice penale (Invasione di terreni o edifici), che prevede la reclusione da uno a tre anni e con la multa da euro 103 a euro 1.032”; - l’articolo 633-bis, che per chi organizza o promuove l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di realizzare un raduno musicale, prevede la reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000; - l’articolo 634, che prevede che chiunque, fuori dei casi indicati negli articoli 633 e 633 bis, turba, con violenza alla persona o con minaccia, l’altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 3090. Con l’articolo 10 del disegno di legge “sicurezza” si aggiunge l’art. 634-bis (occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui), che prevede per chiunque, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze, ovvero impedisce il rientro nel medesimo immobile del proprietario o di colui che lo detiene legittimamente, la reclusione da due a sette anni. Stessa pena per chi si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile. Quindi non bastavano i precedenti tre articoli; ora si va ulteriormente avanti, sostanzialmente aumentando le pene ma anche l’areale dei soggetti su cui intervenire. Non si tratta qui di discutere i casi di proprietari o assegnatari di prima casa che per un qualche motivo devono assentarsi dall’alloggio e che gli viene occupata; in questo caso l’intervento, ovviamente, deve essere immediato, senza perdere tempo e casomai si poteva limitare l’articolo 634 bis a questi casi. Invece no, si è voluto andare oltre, molto oltre: non a caso chi in precedenza aveva denunciato che questo articolo si sarebbe applicato, per esempio, anche agli sfrattati con sentenza esecutiva, ha visto confermare questo con la bocciatura da parte del Governo e della maggioranza di emendamenti tesi ad escludere l’applicazione del 634 bis agli sfrattati con sentenza esecutiva per morosità. Il 634 bis così diventa un mega spot quasi impossibile da applicare. Basti pensare che secondo Federcasa sono circa 50.000 le famiglie occupanti case popolari e circa 40.000 le nuove sentenze di sfratto emesse ogni anno. Nel 2022 le sentenze di sfratto con richiesta di esecuzione erano oltre 100.000. Come si può pensare, al di là delle questioni sociali e delle ricadute sui comuni, di affrontare una mole così ampia di casi prevedendo arresti? Questa previsione come si raccorda conoscendo lo stato delle nostre carceri, già insufficienti, e dei tribunali, nonché la mole di lavoro che andrà a ricadere sulle forze dell’ordine? Senza contare che analogo trattamento verrebbe riservato anche a chi “coopera”, che nel caso di sfrattati si intenderebbe anche chi vuole evitare, pacificamente, che una famiglia con minori, disabili, o malati terminali vada per strada. Il Governo ha percorso la strada di gettare in pasto all’opinione pubblica la faccia truce e poliziesca dello Stato autoritario, ma solo con i poveri. Un bluff. Un Governo autoritario, sì, ma incapace perfino di tenere in conto alcune sentenze della Cassazione, vedi Sez. II, 9.10-9.12.2020, n. 35024 che in presenza di occupazione per dare alloggio a minori in estremo disagio interviene - richiamando l’articolo 54 del Cp in materia di stato di necessità. Anche nel 2021 la Corte di Cassazione con sentenza 46054 aveva richiamato, in un caso di occupazione di casa popolare, la non punibilità prevista dall’art. 131 bis, in quanto l’occupazione abusiva non è reato se realizzata per dare un tetto ai figli. Così come la Corte Costituzionale si è pronunciata, con la sentenza n. 28 del 2024, intervenendo su un caso di occupazione di immobile inutilizzato a Firenze: ha affermato che, nel caso in cui gli imputati avessero agito in stato di necessità, le loro condotte sarebbero state scriminate ai sensi dell’art. 54 del Codice penale, e quindi non sarebbero state punibili. Al governo e alla maggioranza di destra, infine, non viene neanche in mente un semplice assunto: se ci fossero abbastanza case popolari, e affitti sostenibili, che senso avrebbe occupare alloggi spesso colpevolmente lasciati vuoti per anni, per esempio dagli enti gestori di edilizia residenziale pubblica? Ora, sull’articolo 634 bis c’è da attendersi, a mio parere, una censura di incostituzionalità. E che dire dei poveri sindaci già accerchiati da una precarietà abitativa alla quale non sanno far fronte, che al momento di sgomberi dovranno trovare un alloggio alternativo per i nuclei familiari poveri dove ci sono disabili, bambini e soggetti ultrasessantenni? Ora il disegno di legge tra pochi giorni passerà al Senato: la battaglia non è ancora persa. *Attivista per il diritto all’abitare, ex Segretario nazionale Unione Inquilini Quando i pm preferiscono i teoremi ideologici alla verità di Cataldo Intrieri Il Domani, 19 settembre 2024 Tre processi penali (Toti, Ilva, Salvini) hanno riportato sulla scena il vecchio tema dei rapporti tra giustizia e politica non in termini, stavolta, di puro conflitto tra categorie, ma di scelte strategiche e ideologiche da parte di alcuni settori della magistratura. L’ideologia è una visione del mondo e dei suoi valori, qualcuno ne ha sancito il definitivo tramonto, ma, se c’è una corporazione che ne custodisce gelosamente la memoria, ebbene questa è la magistratura. La definizione del caso Toti ha sorpreso molti e suscitato critiche verso la scelta dell’ex governatore: invece dovrebbe destare altrettanto scalpore la decisione della procura genovese di offrire essa stessa a Toti la soluzione per un esito più soffice della sua vicenda giudiziaria che lo aveva visto detenuto per diversi mesi. I pm hanno messo sul piatto la concessione dell’ipotesi meno grave di corruzione, quella per gli atti legittimi dell’ufficio, che rende difficile capire la feroce determinazione con cui è stata perseguita la custodia cautelare e le espressioni durissime adottate fino a indurre l’indagato alla rinuncia al suo ufficio elettorale. Ciò è spiegabile con la necessità di cogliere un risultato che rendesse legittima l’azione giudiziaria, perché in caso contrario la forza simbolica della vicenda sarebbe venuta meno. Nello stesso tempo, la corte di assise di appello di Lecce ha spazzato la corposa sentenza con cui i giudici di Taranto in primo grado avevano condannato a pene durissime (oltre vent’anni di reclusione) i vertici dell’Ilva di Taranto per il reato di disastro ambientale doloso. All’origine della clamorosa scelta vi è l’incompetenza funzionale originaria dei magistrati jonici in quanto parti offese dei reati per i quali hanno condannato. La difesa aveva posto la questione sin dalle prime battute, dimostrando che tra le parti offese si erano costituiti due magistrati e che alcuni dei componenti la giuria vivevano negli stessi luoghi delle parti civili del processo. I magistrati di Taranto si sono ferocemente opposti a ogni possibilità di trasferimento del processo, che oggi rischia di sfumare definitivamente nella prescrizione. Tale insistenza trova la sua spiegazione proprio nel grande valore simbolico di una condanna perseguita e raggiunta dai magistrati della città vittima del danno ambientale, e anche in una certa cultura densa di pregiudizio verso le ragioni dell’industria. L’ideologia di una visione militante del proprio ruolo è un vecchio retaggio di una forte componente della magistratura che pure ha avuto il non indifferente merito di contribuire alla modernizzazione del paese nel Dopoguerra contribuendo alla concreta applicazione della Costituzione, che rischiava di restare una vuota proclamazione di principi. Per un accurato approfondimento si rimanda al bel volume di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli Conflitto tra poteri (Il Saggiatore). L’idea di una giustizia asettica è pura ipocrisia: il diritto è una visione culturale e ideologica, e nella sua prassi applicativa, nelle aule giudiziarie, fatalmente si riflette anche la contrapposizione politica. Di ciò è un perfetto esempio il processo a Matteo Salvini. Altri hanno spiegato molto bene il conflitto tra i principi costituzionali e le varie normative-sicurezza varate dai governi populisti. Da Norimberga in poi è patrimonio comune che l’obbedienza alla legge formale non giustifica l’offesa a principi morali di base che sono parte del patrimonio dell’umanità. Tale è il soccorso verso chi è in pericolo. Eppure vi è qualcosa che stride nell’accusa a Salvini, ed è la qualificazione del reato a lui contestato in modo spropositato. Non sussiste il sequestro di persona, che è il frutto di una interpretazione forzata dell’art. 2 della direttiva europea 2013/33, che definisce il concetto di “luogo di trattenimento” e non può adattarsi a una nave cui viene rifiutato l’attracco, semmai ai centri di accoglienza. In tutta franchezza, tale forzatura fa pensare all’esigenza di un’adeguata pesante condanna simbolica perché altrimenti i reati in astratto configurabili e più calzanti (dalla violenza privata all’omissione di atti di ufficio) consentirebbero solo condanne assai più modeste. Non consentirebbero in particolare l’adeguata sanzione etico-culturale di un individuo e delle sue idee aberranti e lo sfogo adeguato all’indignazione. Il rischio tuttavia è di dargli l’immeritata etichetta di vittima politica: un regalo che Salvini non merita. Speriamo lo capiscano i giudici di Palermo. Interdittive antimafia nel mirino della Cedu: dubbi sulla “prevenzione” che nasconde una “pena” di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 19 settembre 2024 Vacillano, davanti ai giudici europei, le norme che colpiscono anche le imprese vittime dei boss. Anche le interdittive antimafia sono finite al vaglio della Cedu. Nei prossimi mesi, infatti, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sarà chiamata a pronunciarsi sulla rispondenza ai principi convenzionali non solo delle misure di prevenzione personali e patrimoniali ablative, disposte dalla Autorità giudiziaria, ma anche di quelle amministrative, quale è l’informativa interdettiva antimafia. Un’altra peculiarità della prevenzione, infatti, è di non essere presidiata pienamente dalla riserva di giurisdizione, con conseguenti asimmetrie nella valutazione dei presupposti applicativi delle misure. L’interdittiva, in particolare, viene emessa dal prefetto quando questi abbia sospetti di “tentativi” di infiltrazioni mafiose nell’impresa, al fine di inibire all’imprenditore ogni contratto ed ogni contatto con la Pubblica amministrazione. Gli effetti sono però più ampi, determinando usualmente la revoca degli affidamenti bancari e, di conseguenza, la cessazione dell’impresa. Limitato è poi il sindacato del Tar, giudice competente a decidere sui ricorsi avverso l’interdittiva, il quale, pur disponendo in questa materia di un sindacato di merito, spesso si arresta a quello di legittimità proprio della valutazione dei vizi dell’atto amministrativo, senza affrontare la congruità logico- ricostruttiva della motivazione dello stesso. Ora, finalmente, i Giudici convenzionali pongono al Governo Italiano dei quesiti ai quali sarà difficile dare una risposta convincente, rispetto all’effettivo carattere delle misure di prevenzione e alla rispondenza del procedimento ai canoni del giusto processo. Vuol sapere, innanzitutto, la Corte di Strasburgo se i ricorrenti abbiano avuto la possibilità di sottoporre le loro contestazioni a un “tribunale” con “piena giurisdizione” ai sensi della giurisprudenza sviluppata dalla Cedu in relazione all’articolo 6 § 1 della Convenzione, e se le norme applicate nel caso di specie, contenute nel decreto legislativo 159 del 2011, costituiscano una base giuridica sufficientemente accessibile, chiara e prevedibile, secondo le autorevoli indicazioni contenute nella nota sentenza De Tommaso. Ma, soprattutto, i giudici convenzionali chiedono all’Italia se l’ingerenza nella attività dell’impresa sia proporzionata, alla luce della interpretazione dei giudici nazionali dell’articolo 86 del decreto legislativo 159/ 2011, stante la tendenzialmente illimitata durata nel tempo di questa misura di prevenzione, non a torto definita un “ergastolo imprenditoriale”. La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha colto evidenti profili di contrasto della normativa nazionale con i principi convenzionali, stante la indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al prefetto di emettere il provvedimento interdittivo, che, incidendo sulla libertà di iniziativa economica (garantita dall’articolo 41 della Costituzione), dovrebbe invece essere ancorato a basi legali chiare, precise, predeterminate e prevedibili. La norma nazionale, invece, fa riferimento a “tentativi di infiltrazioni mafiosa”. Espressione del tutto generica e oscura, idonea a consentire (come difatti avviene) una tale anticipazione della soglia di intervento statale, da determinare l’aggressione non solo degli imprenditori “compiacenti”, ma anche di quello “soggiacenti”, vittime, cioè della pervasività criminale mafiosa. Ma i giudici di Strasburgo si domandano anche se l’interdetto goda di un diritto di difesa effettivo, che possa essere esplicato avanti ad un giudice dotato di pieni poteri di cognizione. Il riferimento a principi quali “precisione” e “prevedibilità (corollari della legalità formale), “effettività della difesa” e, soprattutto, “proporzionalità” è, nella sostanza, un refrain rispetto alle ordinanze interlocutorie rese nei procedimenti Cavallotti e Macagnino+ 27, in tema, rispettivamente, di pericolosità sociale qualificata e generica. Si tratta di principi - la proporzionalità, in particolare - che evocano il concetto di sanzione penale. Il sospetto che la Cedu sembra nutrire sull’effettivo carattere delle misure di prevenzione pare essere proprio questo: se esse abbiano davvero natura amministrativa, ovvero possano e debbano essere considerate “pena”. Le domande poste al Governo Italiano sembrano convergere verso una decisione che, a differenza di quanto accaduto in passato, potrebbe riconoscere carattere punitivo alle misure di prevenzione, con conseguente loro assoggettamento a tutte le regole della “materia penale”, sostanziale e processuale. Fino ad oggi, il riconoscimento di un carattere non penale e la affermazione di finalità preventive hanno fatto passare in secondo piano l’enorme grado di afflittività che contraddistingue le misure di prevenzione. I dubbi espressi nelle ordinanze interlocutorie, tuttavia, fanno sperare che la Corte europea non si accontenti più, come in passato, della “lettura” dello strumento di prevenzione elaborata dalla giurisprudenza nazionale, ma intenda invece studiarne e valorizzarne la sostanza e gli effetti, per denunciarne il versante più marcatamente punitivo, denunciando queste misure nella loro reale dimensione di pene senza condanna. *Osservatorio Misure patrimoniali e di prevenzione dell’Unione Camere penali italiane Calabria. Reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti: la strada per ridurre la recidiva reggiotoday.it, 19 settembre 2024 Si è riunita, presso la sala Oro della Cittadella regionale della Calabria, la cabina di regia per il reinserimento delle persone sottoposte a provvedimenti giudiziari. L’incontro, presieduto dall’assessore alle politiche sociali Caterina Capponi, segna un ulteriore passo in avanti verso la creazione di percorsi integrati che favoriscano il ritorno alla vita sociale e lavorativa di chi ha scontato pene detentive o è in procinto di concluderle. La cabina di regia, istituita con la delibera di giunta regionale n. 670/2022, si pone come obiettivo l’implementazione delle linee guida dell’accordo sancito dalla Conferenza unificata del 28 aprile 2022. Si tratta di una rete coordinata di interventi e servizi sociali che mira a promuovere opportunità concrete di reinserimento per coloro che sono stati coinvolti in procedimenti giudiziari. L’assessore Capponi ha sottolineato come tale percorso rappresenti un passaggio cruciale per offrire a queste persone una seconda chance, attraverso la promozione di competenze e l’inserimento nel mondo del lavoro. Un sistema integrato per contrastare la recidiva - Durante l’incontro, l’assessore ha presentato i risultati ottenuti fino a oggi grazie alle programmazioni degli anni precedenti, evidenziando l’importanza di una gestione coordinata delle risorse finanziarie europee, nazionali e regionali. La cabina di regia si propone di migliorare l’efficacia degli investimenti, coinvolgendo vari enti e istituzioni in una sinergia volta a costruire un sistema integrato e più efficiente. I lavori della cabina di regia - Capponi ha ribadito come questo modello si ponga l’obiettivo di abbattere il tasso di recidiva, un problema che in Italia continua a rappresentare una sfida rilevante: sei condannati su dieci, infatti, tornano in carcere. La situazione carceraria italiana resta critica, con un indice di sovraffollamento che nel 2024 ha raggiunto il 139,67%. “Non possiamo ignorare queste cifre”, ha affermato l’assessore Caterina Capponi, “dobbiamo agire con misure concrete per ridurre la recidiva, garantendo un sistema di giustizia più inclusivo e attento alle esigenze di reinserimento”. Proposte per un futuro inclusivo - La riunione ha visto una condivisione unanime tra i partecipanti sulle proposte avanzate dall’assessore Capponi, in particolare riguardo alla programmazione regionale relativa all’utilizzo dei fondi del Piano nazionale povertà e inclusione. Questi fondi saranno impiegati in attività e interventi rivolti a settori cruciali quali l’istruzione, la formazione professionale e l’inserimento lavorativo, oltre a offrire sostegno alle famiglie e sviluppare progetti di housing sociale e infrastrutture. L’elaborazione della proposta sarà presentata nella prossima seduta della cabina di regia prima di essere trasmessa al ministero di grazia e giustizia per l’approvazione definitiva. L’assessore Capponi ha espresso grande soddisfazione per i progressi fatti, sottolineando come il lavoro della cabina di regia sia essenziale per garantire un futuro migliore a chi ha pagato il proprio debito con la giustizia. La Calabria si dimostra così pioniera in un approccio che mira non solo alla riabilitazione, ma anche alla costruzione di un percorso di vita nuovo per le persone sottoposte a provvedimenti giudiziari, contribuendo a una società più inclusiva e giusta. Roma. Regina Coeli, settima sezione: benvenuti all’inferno di Giulio Cavalli La Notizia, 19 settembre 2024 Nel carcere di Regina Coeli si è suicidato il terzo detenuto dall’inizio dell’anno. Anzi, a voler essere precisi, si è suicidato il terzo detenuto del 2024 della settima sezione del carcere romano. Come racconta l’associazione Antigone la settima sezione è allo stesso tempo una sezione di ingresso, di transito, disciplinare, di isolamento sanitario. Le persone qui recluse restano in cella per 23 ore al giorno in una condizione che di dignitoso non ha nulla. Le celle sono piccolissime e ospitano 2 o 3 persone su un unico letto a castello. Il wc e il lavandino si trovano in una piccola stanza adiacente senza intimità. Le finestre sono più piccole che nelle altre sezioni e dotate di celosie che non consentono all’aria di circolare e riducono l’ingresso della luce naturale. Solo poche celle sono dotate di doccia. Il Garante dei Diritti dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasia (leggi intervista a pagina 4) racconta che solo ieri, e solo sul lato destro della sezione, è partito il riscaldamento, dopo settimane di freddo che non può essere temperato neanche dall’acqua calda, che nelle stanze non c’è. “Ci sono le coperte, certo, - racconta il garante - ma non sempre le consegne sono tempestive e più di un detenuto mi ha riferito di aver passato almeno una notte all’addiaccio, senza coperta, spesso senza lenzuola e senza cuscino. In settima sezione finanche il tavolo e le sedie sono un miraggio: i detenuti siedono e mangiano per terra o sul letto. Quelli più fortunati, che hanno avuto delle celle con armadietti in dotazione, li rimuovono e li mettono a terra, per sedersi, mangiare o giocare a carte con i coinquilini”. Terzo suicidio in pochi mesi. Vai a sapere il perché. Roma. Il fratello rifiuta di ospitarlo a casa durante i domiciliari e lui si impicca in carcere di Alessia Marani Il Messaggero, 19 settembre 2024 Cinquant’anni, italiano, arrestato il 25 agosto scorso per maltrattamenti in famiglia, Salvatore D. V., l’altro ieri ha deciso di farla finita e verso le 6.45 è stato rinvenuto impiccato nella sua cella del carcere di Regina Coeli. A nulla sono valsi i soccorsi. Salvatore dietro le sbarre pensava di non finirci. Quando il magistrato, al momento dell’arresto, gli ha chiesto se avesse un posto sicuro dove potere scontare la pena alternativa ai domiciliari, lui aveva risposto “sì, da mio fratello”. Invece a casa il fratello non lo ha accettato e a lui non è rimasto che varcare l’ingresso dell’istituto capitolino, già iper-affollato e teatro, quest’estate, di numerose rivolte, soprattutto per le condizioni di disagio vissute dalle persone più fragili e con disagi psicologici e psichiatrici (difficili da gestire anche per gli agenti di custodia). Ma la sua detenzione è durata meno di un mese. Il cinquantenne dell’Alessandrino, è il secondo detenuto suicida in 12 ore nelle carceri italiane, il 72esimo dall’inizio dell’anno. Alla triste conta vanno aggiunti i sette appartenenti alla Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita nel corso del 2024. “Una strage senza fine e senza precedenti che certifica, ancora una volta, il fallimento più totale del sistema carcerario”, tuona Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-pa Polizia penitenziaria. Ieri pomeriggio, infine, un altro dramma: Giovanni Procaccianti, assistente capo coordinatore della penitenziaria di 55 anni è morto, probabilmente stroncato da un infarto, mentre stava portando un detenuto in visita all’Israelitico. Un cane che si morde la coda quello del sovraffollamento negli istituti di pena e su cui sta incidendo in maniera pesante anche la mole di posti detentivi inutilizzabili, resi inagibili proprio durante gli episodi di ribellione a causa dei danni, cancellati e/o in via di ristrutturazione. Nelle carceri laziali sono quasi seicento, una stima che gli addetti di settore ritengono persino al ribasso. Secondo i report del Ministero di Giustizia nel Lazio a fronte di su 4683 posti disponibili, risultano ben 6870 sono i reclusi effettivi, per un sovraffollamento superiore al 146%. “I posti non disponibili per vari motivi di ristrutturazioni superano le 590 unità, che fa salire ulteriore del 10% la criticità di spazio detentivo, un panorama preoccupante”, affermano ancora dalla Uil-pa. Lo scenario replica, di fatto, quanto avviene anche a livello nazionale per cui “i posti inutilizzabili sono 4200 per un surplus di dodicimila detenuti, in pratica un terzo”. Regina Coeli è uno dei penitenziari più sovraffollati del Paese. “A questo fa da contraltare una voragine negli organici del Corpo di polizia penitenziaria che vede assegnati 350 agenti quando ne servirebbero 709 - affonda De Fazio - A questo si aggiungano strutture fatiscenti, dotazioni inadeguate, carenze nell’assistenza sanitaria e psichiatrica (...). A pagarne le spese detenuti e operatori con questi ultimi esposti ad aggressioni continue e sottoposti a turnazioni massacranti. Come si può pensare di rieducare i condannati in una simile condizione?”. Per la Fns Cisl Lazio ribadisce la necessità della “costituzione di un gruppo di lavoro per la prevenzione del rischio suicidario negli istituti penitenziari del Lazio, come discusso con l’assessore regionale Luisa Regimenti”. Intanto, la polizia penitenziaria si stringe ai familiari di Procaccianti, originario di Olevano Romano e in servizio a Rebibbia, per l’improvvisa scomparsa. “Il collega - spiegano dal sindacato autonomo Sappe - era autista del mezzo che portava il detenuto e la scorta all’ospedale Israelitico ma, appena arrivato, è cascato per terra. Nonostante l’intervento degli infermieri e medici, l’uomo è deceduto per un probabile infarto. Siamo sconvolti”. Al cordoglio si unisce anche la Uilpa. Per tutti “Giovanni era un “ragazzone” buono, sempre disponibile ad aiutare i colleghi nel servizio”. Cuneo. Torture in carcere: le proteste nella stanza 416 e quella “notte nera” in cella di elisa sola La Stampa, 19 settembre 2024 La ricostruzione con i video delle telecamere, le intercettazioni e le testimonianze dei feriti. Di lì nasce il primo esposto finito, pochi giorni dopo, sulla scrivania del procuratore Dodero. Tutto è iniziato nella stanza 416. Alle 21,30 del 20 giugno 2023. I detenuti sbattono cucchiaini e caffettiere contro le sbarre. Fanno rumore, perché uno di loro sta male da due giorni, ma nessuno lo visita. Quello che succede dopo viene ricostruito con i video delle telecamere, le intercettazioni e le testimonianze dei detenuti feriti. “È arrivato un poliziotto e ha detto: “Che problemi avete? Continuate pure a fare rumore, tanto non arriva nessuno a visitarlo”. Dopo dieci minuti un agente lo ha portato via. È passato ancora del tempo. Sono entrate 20, 25 guardie e hanno iniziato a picchiare. Alcuni avevano l’uniforme, altri no. Uno aveva i guanti neri. Un altro gli occhiali da sole”. Il pestaggio di quella notte nera nel carcere di Cuneo è l’oggetto del primo esposto finito, pochi giorni dopo, sulla scrivania del procuratore Onelio Dodero. La grande inchiesta che tuttora vede indagati 33 agenti della polizia penitenziaria, anche per altri episodi risalenti fino al 2021, nasce da questo episodio. Il trattamento che avrebbero subito i detenuti pachistani delle celle 416 e 417 costituisce, anche secondo la gip di Cuneo, il reato di tortura. I detenuti erano stati picchiati, denudati e costretti a un isolamento illegittimo per tutta la notte. Le ferite e i lividi sono stati esaminati dal medico legale. La giudice ha ritenuto attendibili le versioni dei carcerati: “Di autentica sincerità”. Una vittima ricorda: “Hanno continuato a picchiare anche fuori dalla cella. Per le scale hanno schiantato la testa di uno contro il muro. Nell’infermeria ci hanno presi a calci e pugni. Un poliziotto ci picchiava con la sedia, ma un altro lo ha fermato. Dicevano: “Adesso parla italiano, che sai parlare, lo so che parli l’italiano”. Le vittime sono tutte immigrate. “Pakistani di m...”, si sarebbero sentite dire. A un altro carcerato, un poliziotto avrebbe detto: “Se domani non ti tagli barba e baffi ti pesto di nuovo”. Le violenze di gruppo, così le descrivono i testi, sarebbero proseguite anche all’interno dell’infermeria. “Dopo che i poliziotti hanno finito di picchiarci - ricorda un altro detenuto - hanno chiesto a chi era per terra se stava bene. Anche il medico lo ha domandato. Eravamo tutti impauriti, abbiamo detto di sì. Poi ci hanno portati via in una stanza, in isolamento. Abbiamo passato tutta la notte senza acqua e cibo. Ci hanno liberati verso le quattro di sera del giorno dopo. Per due o tre giorni non ci hanno fatti cambiare. C’è chi è andato al Pronto soccorso solo al quarto giorno, dopo avere visto l’avvocato”. Molti non hanno nemmeno provato a chiedere aiuto. “Non ho chiesto di essere visitato perché avevo paura che mi avrebbero picchiato di nuovo”, è la testimonianza di un altro carcerato, che ricorda: “C’era anche chi guardava e non picchiava. Una guardia ai suoi colleghi diceva: “Voi fate quello che volete. Io non so niente”“. “Tutto è iniziato nella nostra cella, la 416 - ha denunciato una delle vittime -, hanno portato via il compagno che stava male. Stavamo per andare a dormire. Dopo 15 minuti sono arrivati in 25. L’ispettore ha aperto senza bussare. Ha detto: “Buonasera”. Hanno picchiato prima quelli che erano di fronte alla porta. Poi gli altri. Ci picchiavano come animali. Uno, mentre lo faceva, diceva: “Guardami negli occhi”“. Cuneo. “Gli diamo la scossa”, il giallo del taser usato contro i detenuti di Elisa Sola La Stampa, 19 settembre 2024 Per il gip che indaga sulle violenze sarebbe stato impiegato “uno strumento con impulsi elettrici non in dotazione al personale penitenziario”. La “pistola luce” non l’ha mai vista bene nessuno durante i pestaggi. Perché più che vedersi, si sente. Ma se la chiamano così, i detenuti che sarebbero stati vittime delle sue scariche, forse c’è un motivo. Dicono: “Dà una scossa elettrica fortissima”. Il 27 dicembre 2021, alle ore 14, Zakaria, uno dei dieci uomini reclusi nel carcere di Cuneo che hanno sporto denuncia per le presunte torture subite da alcuni dei 33 agenti indagati, al medico penitenziario ha detto: “Non so dire esattamente cosa sia. Ho avuto la sensazione che fosse come una scossa elettrica. Dopo la scossa ho iniziato a tremare. Non ho visto bene quella pistola luce. Ma le scosse erano strane”. Cos’è la pistola luce? Per la procura di Cuneo, che continua a indagare sulle presunte violenze commesse dal 2021, non ci sarebbero dubbi. È il taser. E lo storditore elettrico sarebbe stato usato durante i pestaggi più brutali. Con alcuni accorgimenti. Solo quando il detenuto era solo, così eventuali compagni di cella non avrebbero potuto testimoniarne l’esistenza. E quando la vittima era nuda e girata di schiena. Di modo che nemmeno potesse vedere bene cosa fosse quella luce. Esiste un problema ulteriore però, adesso, che aggraverebbe il quadro delle botte date con i guanti neri e i passamontagna. L’uso del taser non è consentito dai poliziotti penitenziari. Il taser è un’arma. Ma non può essere nemmeno portata dentro una prigione. Eppure a Cuneo, secondo gli investigatori del Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria, che svolge l’indagine su ordine del procuratore Onelio Dodero, le scosse elettriche sarebbero state uno degli strumenti di tortura. La gip Daniela Rita Tornesi, che ha ordinato nei giorni scorsi la sospensione dal servizio per dodici e dieci mesi nei confronti di due dei 33 indagati, difesi dagli avvocati Antonio Mencobello e Leonardo Roberi, considera il tema degno di “approfondimenti investigativi”. Scrive che gli indizi gravi di colpevolezza in ordine all’uso dello storditore non sarebbero per ora sufficienti. Ma riporta integralmente un’intercettazione. È il 3 agosto 2023. L’ispettore e l’assistente capo poi sospesi dal servizio chiacchierano senza sapere di essere intercettati. Un terzo li ascolta. Discutono se dividere o meno alcuni detenuti, compagni di cella. Ci sono “abbinamenti” che non vanno bene perché “si spalleggiano”. Uno dei due fa i nomi delle persone “di più difficile gestione”. E dice: “C. è un’altra mina vagante, e basta. E poi, arriverà la scossa finale”. La scossa finale. Lo dice chiaro. Tutti sorridono. L’agente che finora ha solo ascoltato afferma: “È previsto”. Uno dei due agenti poi sospesi gli fa eco: “In c…. già è regola, già è regola”. L’ascoltatore ribadisce: “È previsto”. E il secondo poliziotto indagato conclude: “È ammesso a nome di tutti. È ammesso a nome di tutti”. È il taser, a essere ammesso a nome di tutti anche se è proibito? Per la gip è possibile. Perché scrive nell’ordinanza: “Tale conversazione parrebbe alludere all’uso di uno strumento con impulsi elettrici, anche se si tratta di uno strumento attualmente non in dotazione del personale di polizia penitenziaria”. Il giallo del Taser è formalmente aperto. La procura continua a cercare prove. E se ne troverà altre, anche la denuncia di Zakaria diventerà più che un indizio. Ricorda: “Nel casellario ero nudo. Loro in cinque. Un agente mi ha messo il braccio al collo. Mi hanno pestato con i piedi sulla schiena. Tante volte tutti e cinque mi hanno calpestato con i piedi sulla schiena. Il dolore era così forte che pensavo che si fosse rotta. Ero con la faccia a terra. Ho sentito come una forte scossa, altro non posso dire perché non riuscivo a distinguere se ero stato colpito da una persona o da un oggetto. Era una scossa elettrica fortissima. Quel giorno sono stato visitato da un medico che mi ha prescritto delle punture. Ho avuto male per 15 giorni. Non volevo fare denuncia perché ho paura. È stata la direttrice del carcere a spronarmi a farla”. Forse, la verità sulla pistola luce è vicina. Modena. Violenze in carcere, per la Gip “Servono altre indagini” di Lorenza Pleuteri osservatoriodiritti.it, 19 settembre 2024 La giudice di Modena si oppone all’archiviazione e dispone sei mesi di proroga dell’inchiesta su violenze e pestaggi denunciati da un gruppo di detenuti coinvolti nella sommossa del marzo 2020, quando tra il carcere Sant’Anna di Modena e il resto d’Italia si contarono 13 reclusi morti, decine di feriti tra reclusi e agenti, milioni di danni. “Violenze gratuite, botte e manganellate a freddo, umiliazioni, angherie mentre erano inoffensivi e inermi”. La procura di Modena non ritiene fondati i drammatici racconti ripetuti dai detenuti via via usciti allo scoperto dopo la sommossa, considerati imprecisi, inattendibili e incoerenti. La gip Carolina Clò, però, non si accontenta delle conclusioni innocentiste delle indagini condotte contro 120 baschi azzurri, come se nulla di perseguibile fosse successo, come se i carcerati mentissero tutti e la polizia penitenziaria non avesse superato alcun limite. Disposti altri sei mesi di indagini per i fatti di Modena - La giudice per le indagini preliminari, dando i canonici sei mesi di tempo, impone di andare avanti, approfondire, verificare gli aspetti insondati. Perché, su questo non ci sono dubbi, gli operatori in divisa usarono la forza per riprendere possesso del campo sportivo e per gestire le fasi tra la fine della rivolta e il trasferimento di centinaia detenuti e detenute. Per ore avevano perso il controllo dell’istituto, messo a ferro e fuoco, saccheggiato, violato con tentativi di evasone, depredato di metadone e farmaci, gli estintori i e gli attrezzi da lavoro usati come arieti e come armi. Un inferno, riassumono i testimoni. Alla fine tra la casa circondariale emiliana e i penitenziari di destinazione si contarono 9 cadaveri, poi attribuiti a overdosi da una inchiesta arenata nelle secche dell’archiviazione. Violenze in carcere: domande senza risposta - I querelanti Hamza., Mattia, Derek, Pietro, Saif e compagni furono deliberatamente picchiati e torturati dai poliziotti penitenziari, andati oltre l’uso legittimo della forza? Oppure agenti e graduati reagirono con le maniere forti “solo” per difendersi, evitare fughe, mettere in sicurezza il carcere? Qualcuno passò il segno, per lo smacco subito per la sommossa, per ritorsione, per uno smacco duro da digerire? E chi mente e chi dice la verità, tra custodi e custoditi? Il gip nega l’archiviazione di massa per le violenze nel carcere di Modena - Il 23 giugno 2023, con una ricostruzione di 245 pagine non priva di smagliature e lacune, le pm Lucia De Santis e Francesca Graziano hanno chiesto al gip di archiviare in toto l’inchiesta avviata contro 120 donne e uomini della polizia penitenziaria, dal comandante Mauro Pellegrino ai rinforzi mandati da altre città. I legali dei detenuti, del loro garante nazionale e di Antigone, complessivamente 20 persone offese, si sono opposti. E la giudice Carolina Clò, il 9 agosto 2024, ha deciso di non chiudere il fascicolo, “non fosse altro - spiega - che per addivenire a un quadro completo dell’intera vicenda”. Escono di scena 22 agenti su 120 - La gip ha archiviato unicamente le posizioni dei 22 poliziotti non in servizio nei turni sotto esame e ha disposto la proroga degli accertamenti per 98 colleghi. Sono in maggioranza giovani e giovanissimi, con cognomi e storie del Sud, salta agli occhi scorrendo le carte. In carcere uno veniva chiamato Rambo, un altro Van Damme. Tra i denuncianti, definiti da un agente “non angioletti”, si alternano italiani e stranieri. Alcuni, se non tutti, furono a loro volta indagati per i saccheggi, le devastazioni e le aggressioni al personale. Del fascicolo si sono perse le tracce. Uso legittimo della forza o torture? La procura sostiene che le lesioni subite dai detenuti siano riconducibili ad un uso legittimo della forza da parte della polizia penitenziaria, per contenimento, oppure siano state provocate da comportamenti tenuti dagli stessi rivoltosi, incidenti o scontri tra fazioni. E qui sta il punto, il discrimine. La giudice Clò osserva che ferite, traumi e fratture potrebbero essere associabili alle angherie denunciate in più riprese da un gruppo di reclusi, seppur con incongruenze e imprecisioni. Quattro sono i fronti da scandagliare con sei mesi di investigazioni supplementari: i sistemi di videosorveglianza, l’incontro e gli accordi tra tre indagati prima della convocazione in questura, l’edulcorazione di una relazione di servizio, la documentazione sanitaria. Telecamere funzionanti e telecamere fantasma - Le riprese delle telecamere hanno fatto la differenza nell’inchiesta gemella sulle torture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, documentando soprusi e vessazioni. Nel campo sportivo di Modena e in altri spazi in cui sarebbero avvenute le violenze, come la caserma, non c’erano sistemi di videosorveglianza o quelli esistenti erano fermi da tempo. Non è dato sapere se funzionassero o meno le telecamere di sicurezza collocate in cortili, atri di piano e corridoi di collegamento tra padiglioni, teatro degli abusi riferiti dai detenuti feriti. Il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria non è stato in grado di riferirlo agli investigatori e non si è preoccupato di acquisire notizie sul punto dalla direzione del carcere. Manca questa informazione, in migliaia di carte, e mancano immagini “contro”, C’è inoltre un buco di un paio d’ore, dovuto al black out provocato dai rivoltosi. Nei faldoni dell’inchiesta si trovano invece fotogrammi “pro” agenti, immagini che smentiscono una denuncia e ne contestualizzano altre, escludendo eccessi. Risposte e dichiarazioni concordate a tavolino? Almeno tre degli indagati, sottoposti a settimane di intercettazioni telefoniche, sembrano accordarsi per vedersi prima di andare in questura ed essere interrogati. Concordano le versioni da dare? Che altro? Ai quesiti che sorgono dai rilievi della gip se ne aggiungono altri, derivanti dalla lettura degli atti. Sembra verosimile che dal cellulare del comandante Pellegrino, quello messo sotto controllo in un periodo di ferie, siano passate 66 conversazione e solo due di queste riguardassero i fatti della rivolta? Per un subalterno, uno del terzetto di chiacchieroni citati dalla gip, in un mese ne sono state contate 600. La prima relazione di servizio - La gip indirizza l’attenzione su una relazione di servizio modificata qualche giorno dopo la prima stesura. La vice ispettrice L.P., non indagata in questa inchiesta, nel rapporto interno datato 26 marzo 2020 scrive: “I detenuti presentavano tutti i quanti i segni fisici dovuti all’intervento della polizia penitenziaria e di altre forze dell’ordine durante la sedazione della rivolta”. Carabinieri e polizia di Stato, da lei tirati in ballo, non sono stati coinvolti in questo o altri filoni d’inchiesta. La Scientifica ha effettuato riprese e rilievi. La squadra Mobile è entrata in campo per le indagini. Il 6 aprile 2020 la stessa vice ispettrice compila un’integrazione della prima relazione di servizio: “I segni fisici indicati dalla scrivente - annota - si volevano riferire ad uno status generale derivante verosimilmente dalle azioni di rivolta poste in essere poco prima da parte della popolazione detenuta”. Violenze in carcere: chi fece integrare il rapporto? La precisazione che suona pro colleghi, rileva la giudice Clò, non è spontanea. Al contrario, si legge nel diniego all’archiviazione di massa, “è stata redatta su specifica richiesta del personale della casa circondariale di Modena”. La vice ispettrice dice di non ricordarsi il nome del suggeritore, che le contesta di aver scritto troppo. La procura lo indica come “tale Franco”, segno che non lo ha identificato. Da un’intercettazione, evidenziata dalla gip, emerge anche un ulteriore passaggio rimasto sullo sfondo delle indagini e degno di maggior interesse. La vice ispettrice, mentre alcuni detenuti da trasferire passavano tra un cordone di colleghi, percepì che qualcuno dei suoi voleva alzare le mani. Ammonì di non farlo, di non toccarli. E si arrabbiò con due sottoposti. Cartelle cliniche da acquisire - Da fare meglio sono pure gli accertamenti sulle lesioni denunciate dai detenuti, fin qui correlate ad azioni di forza legittime della polizia penitenziaria, a ferimenti accidentali durante la rivolta o a colluttazioni tra reclusi. Astrattamente, rimarca la gip, potrebbero essere compatibili con le denunce. Sicuramente, parole sue, “meritano ulteriore approfondimento”. Per questo, dispone la giudice, vanno acquisite le cartelle cliniche di tutti i detenuti sfollati dal carcere di Modena a fine disordini (417, contando anche i 4 morti durante e dopo il viaggio, su 546 ristretti) e sentire a verbale il medico che le ha compilate (si parla al singolare, ma alla partenza e alle destinazioni finali erano presenti più camici bianchi). Non è stato fatto in tutti questi mesi? Possibile? Eppure si tratta di atti necessari per verificare le condizioni psicofisiche dei trasferiti e stabilire se eventuali contusioni o fratture siano state causate da atti illeciti. Prefetto e dirigenti da risentire - L’elenco minimo delle persone da sentire o risentire, sempre su indicazione della gip Clò, include anche la direttrice di allora del carcere e la collega al timone prima di lei (Maria Martone e Federica Dallari, da interrogare sulla dislocazione e l’efficienza delle telecamere), il magistrato di sorveglianza di turno l’8 marzo e il prefetto, Pierluigi Faloni. Il giorno della rivolta era all’istituto, secondo agenzie e giornali per coordinare gli interventi d’emergenza. Dopo la sommossa, dopo i nove morti e le denunce delle torture, è rimasto dietro le quinte. A Modena ha mantenuto l’incarico solo per pochi altri mesi. Il comandate Pellegrino, l’indagato numero 92, di recente ha avuto quella che nell’ambiente è considerata una promozione: il passaggio al carcere di Parma. Agrigento. Si autolesiona per costringere la polizia a fargli vedere i familiari: il giudice lo assolve di Gerlando Cardinale agrigentonotizie.it, 19 settembre 2024 Il detenuto era stato accusato di violenza a pubblico ufficiale per essersi barricato dentro la cella. Detenuto si barrica in cella, rifiutandosi di uscire nonostante il richiamo dei poliziotti penitenziari, li insulta, ingerisce del detersivo e si picchia in testa per costringere gli agenti a fargli avere un colloquio con i familiari. L’uomo finisce a processo per violenza a pubblico ufficiale ma viene assolto “perché il fatto non sussiste”. La sentenza è stata emessa dal giudice Sabrina Bazzano nei confronti del 51enne Angelo Sirone, scagionato pure dall’accusa di oltraggio a pubblico ufficiale. La vicenda che lo ha fatto finire a processo risale al 5 agosto del 2019. Due poliziotti aprono la porta della sua cella dopo che si era barricato per protesta e Sirone avrebbe insultato uno dei due etichettandolo come “pezzo di m...”. Poi avrebbe rivolto lo stesso insulto all’altro poliziotto penitenziario aggiungendo che lo avrebbe ammazzato e, per costringerli a fargli avere un colloquio con i familiari, avrebbe ingerito una miscela di acqua e detersivo e poi si sarebbe dato un colpo in testa con lo sgabello minacciando altri gesti autolesionistici. Il pm, per la sola accusa di violenza a pubblico ufficiale, aveva chiesto l’assoluzione. Il difensore l’avvocato Angelo Benvenuto, al contrario, ha sostenuto che la protesta non avesse integrato gli estremi di nessun reato. Tesi che è stata recepita dal giudice. Rimini. Migliorare il reinserimento sociale dei detenuti, al via la progettazione degli interventi geronimo.news, 19 settembre 2024 Migliorare le condizioni di vita dei detenuti sia all’interno degli istituti penitenziari sia all’esterno, al fine di arginare episodi di recidiva. È questo uno dei pilastri della nuova istruttoria pubblica pubblicata dal Comune di Rimini per la progettazione congiunta degli interventi nell’ambito del reinserimento sociale dei detenuti, in collaborazione con il progetto regionale triennale ‘Territori per il reinserimento Emilia-Romagna’. L’iniziativa, in particolare, è stata pensata per offrire una gamma di attività finalizzata a facilitare la reintegrazione sociale, con un focus sui temi dell’interculturalità, della genitorialità e della prevenzione della violenza di genere. Un aspetto centrale del progetto, in particolare, è la continuità dello sportello informativo presente all’interno della Casa circondariale di Rimini, il quale funge da punto di riferimento per l’ascolto, l’orientamento e la mediazione linguistica, con un’attenzione speciale ai detenuti in procinto di essere rilasciati. È prevista inoltre una maggiore sinergia tra i servizi interni ed esterni al carcere, al fine di creare un collegamento stabile tra le istituzioni penitenziarie e le risorse presenti sul territorio. Un altro ambito di intervento focale del progetto riguarda poi la formazione e l’educazione, soprattutto per quanto concerne la promozione della cittadinanza attiva e i lavori di pubblica utilità, strumenti fondamentali per favorire il reintegro nel tessuto sociale e creare opportunità concrete per ricostruirsi. Si conferma inoltre il ruolo dell’operatore di rete, figura essenziale che fungerà da intermediario tra i detenuti e le realtà locali, aiutando a costruire un ponto tra le necessità individuali dei detenuti e quelle esterne. L’istruttoria pubblica prevede un prossimo incontro il 27 settembre (ore 10.30) presso la sede comunale del Sostegno all’abitare e Inclusione sociale, quale occasione per le realtà interessate, come enti del terzo settore e associazioni locali, di partecipare alla co-progettazione e contribuire al miglioramento del sistema di reinserimento. La scadenza per la presentazione dei progetti è fissata per il 27 settembre. “Con iniziative come queste - è il commento dell’assessore alla protezione sociale del Comune di Rimini, Kristian Gianfreda - miriamo a ridurre il rischio di recidiva e a combattere il circolo vizioso della criminalità, con la promozione di strumenti a favore di un reinserimento efficace e di una maggiore collaborazione tra le istituzioni penitenziare e la comunità, con il coinvolgimento della società civile”. Il 19 settembre, il Garante dei detenuti di Rimini, eletto dal consiglio comunale, verrà a relazionare il suo operato in Aula. Sarà l’occasione per fare il punto sullo stato attuale e sulle prospettive della casa circondariale, nonché sulla situazione dei detenuti sul territorio. Bergamo. I detenuti diventano giornalisti con una rivista tutta loro di Maddalena Berbenni Corriere della Sera, 19 settembre 2024 Una tiratura di 500 copie distribuite fra carcerati, famiglie e operatori del settore. Magnetti Building, azienda del Gruppo Grigolin, ha scelto di sostenere infatti “Spazio. Diario aperto dalla prigione”, un progetto editoriale singolare che permette ai detenuti del carcere di Bergamo di cimentarsi con la scrittura giornalistica e dialogare con i cittadini e la comunità in generale nell’affrontare e indagare temi di attualità, del carcere e cari al territorio. Magnetti Building infatti, attraverso una donazione, sosterrà i costi relativi alla stampa e distribuzione della rivista: questa iniziativa, spiega, “mira a rompere le barriere dei pregiudizi, incoraggiando un confronto aperto e costruttivo tra chi vive all’interno e chi vive all’esterno delle mura carcerarie”. La redazione di “Spazio” è composta da detenuti della Casa Circondariale di Bergamo, che trovano nella lettura e nell’incontro con esperti di scrittura e professionisti un modo per dare significato alla loro detenzione e mettersi alla prova in nuove attività. La rivista trimestrale - con una tiratura di 500 copie distribuite a detenuti, alle loro famiglie, agli operatori e agli attori e istituzioni che ogni giorno dialogano con la struttura-, ospita anche contributi di studenti, ex detenuti e operatori legati al carcere, creando un dialogo che cerca un equilibrio tra pena e rieducazione, tra giustizia e reinserimento sociale e lavorativo. Magnetti Building, fin dal suo ingresso nel Gruppo Grigolin, ha sostenuto questo percorso con determinazione: in occasione del Natale e della Pasqua, il laboratorio dolciario del carcere è stato coinvolto per realizzare i regali per i dipendenti dell’azienda. Inoltre, lo scorso ottobre, è stata avviata una sperimentazione che ha permesso a un detenuto di iniziare un percorso lavorativo diurno all’interno dell’azienda, con rientro serale nella casa circondariale. Infine, il consueto meeting aziendale di fine anno di Magnetti Building si è svolto proprio all’interno della struttura penitenziaria, sottolineando ancora una volta questo legame, nel tempo sempre più forte e partecipativo. l primo numero di “Spazio”, appena pubblicato, ospita anche un’intervista a Benedetta Grigolin, CEO di Magnetti Building, che ha scelto di aderire a tali progetti di inclusione sociale e reinserimento, confermando il ruolo cruciale che il mondo aziendale può avere nella costruzione di una società più giusta e inclusiva. Adriana Lorenzi, Coordinatrice di “Spazio, Diario Aperto Dalla Prigione”: “Questa rivista rappresenta un’occasione per i detenuti di imparare ad ascoltare, un’opportunità di fare qualcosa assieme, un progetto di cui farsi carico ed essere responsabili. Il carcere ferma il male, la sfida è far fiorire il bene: lavoriamo per realizzare delle situazioni e progetti grazie ai quali i detenuti imparino a lavorare su loro stessi insieme ad altri per poi proporsi in maniera diversa una volta usciti dal carcere”. Benedetta Grigolin, CEO di Magnetti Building: “La collaborazione con il carcere di rinnova e siamo particolarmente orgogliosi di questo nuovo tassello: la scrittura diventa strumento di riscatto, contribuendo da un lato al reinserimento sociale dei detenuti e dall’altro, non meno importante, a realizzare una cultura aziendale aperta e di comprensione reciproca, sfidando gli stereotipi e costruendo ponti concreti e reali tra il carcere e la comunità. Ritengo che le aziende non siano solo attori economici, ma abbiano un ruolo sociale fondamentale, su cui devono investire, contribuendo alla realizzazione di una società inclusiva e aperta al dialogo”. Modena. Csi, il progetto “Il mio canto libero”, lo sport entra nelle carceri di Antonio Montefusco Il Resto del Carlino, 19 settembre 2024 Lo sport è quella luce in fondo al tunnel dopo tanto buio. Lo sport è integrazione, voglia di rivincita, spensieratezza, inclusione e dialogo. Nel novembre 2023 è partito il progetto ‘Il mio campo libero’ che fa capo all’iniziativa Sport di tutti carceri promossa dal Ministero per lo sport e i giovani, in collaborazione con Sport e Salute la società dello stato per lo sviluppo delle discipline sportive e dei corretti stili di vita. Il mio campo libero è la versione modenese messa in campo da Csi Gialloblù, Mutina Sport, Abracadam, Polisportiva Campogalliano, Pgs Smile, Csi Modena Volontariato ODV e Club 64. A Modena l’iniziativa si sviluppa negli ambiti motorio/sportivo, ricreativo e formativo, la sezione maschile del Sant’Anna si cimenta nelle seguenti discipline: calcio, basket, biliardino, giochi da tavolo, urban dance e palestra. Mentre sul fronte femminile le detenute praticano pallavolo e danza. Sui 510 detenuti presenti nella casa di pena, sono coinvolti settimanalmente nelle attività sportive circa 80 carcerati, fra questi tutte e 30 le donne presenti al Sant’Anna. Si fa sport dal lunedì al sabato con 4 sezioni coinvolte: “Come amministrazione - ha sottolineato l’assessore allo sport del comune di Modena Andrea Bortolamasi- siamo impegnati in diverse iniziative che vedono coinvolta la popolazione carceraria. Lo sport è un elemento di inclusione e mi auguro che progetti come Il mio campo libero diventino sempre più frequenti”. Il movimento e il confronto su un campo con altri detenuti è di vitale importanza, la sottolineatura arriva da Orazio Sorrentini direttore del carcere modenese: “Il nome del progetto - dice il direttore - non è casuale, lo sport è le attività sportive sono tra i pilastri del trattamento carcerario come riportato anche nell’articolo 15 della legge sull’ordinamento penitenziari. La prima preoccupazione del recluso è avere più spazi possibili e a disposizione ed è quello che sta accadendo”. Il Csi è il motore di tutto quanto: “Questo è uno strumento educativo - commenta Emanuela Carta presidente di Csi Gialloblù Sport -, l’occasione per intrecciare le relazioni mettendo a disposizioni istruttori e volontari”. Al fianco di Modena e della associazione Sport e salute: “La nostra è una società giovane - il commento di Antonella Luminosi coordinatrice regionale dell’ente- che ha deciso di portare le discipline sportive anche nelle carceri a livello nazionale dove cerchiamo di trasmettere valori importanti che probabilmente non gli sono stati dati in precedenza. Modena è una città molto virtuosa che ha sempre raccolto le opportunità per le persone meno fortunate”. Eraldo Affinati: “Non si risponde alle inquietudini dei giovani solo inasprendo le pene” di Viola Giannoli La Repubblica, 19 settembre 2024 Intervista allo scrittore, professore alle scuole superiori: “Ciò non significa che, di fronte al reato, dobbiamo lasciar correre. Ma nel momento in cui puniamo abbiamo già perso”. “Rispondere all’inquietudine dei giovani inasprendo le pene non servirà a niente”. Parola di Eraldo Affinati, scrittore e appassionato docente, immerso quanto più tempo possibile tra i suoi studenti, compresi quelli (pochi) che contestano e che rischiano di pagare a caro prezzo anche il dissenso pacifico. Il disegno di legge approvato alla Camera punisce con la reclusione i sit-in e i blocchi stradali di cui spesso sono protagonisti i giovanissimi in rivolta per l’istruzione o per l’ambiente, lei cosa ne pensa? “Credo che la repressione di queste manifestazioni rischi di esacerbarle. Per evitare che si arrivi allo scontro, bisognerebbe agire in modo preventivo: lo diceva don Giovanni Bosco ai suoi tempi, ma lo pensano ancora oggi tanti educatori alle prese con ragazzi difficili. Ciò non significa che, di fronte al reato, dobbiamo lasciar correre. Ma, per come la vedo io, nel momento in cui puniamo, abbiamo già perso”. Si criminalizza la protesta. Ma mobilitarsi, appassionarsi a una causa, uscire dai social e scendere in piazza non fa parte, secondo lei, anche del percorso di crescita dei ragazzi? “Certo, i ragazzi hanno bisogno di uno spazio dialettico, inteso come un avversario con cui misurarsi, altrimenti non possono crescere. Il problema è che molti adulti si limitano a indicare i precetti che i giovani devono rispettare, invece di incarnarli”. Reprimendo del tutto il conflitto sociale democratico, si rischia di sottrarsi a un confronto che per quanto aspro può essere sano? “Sì, perché l’esperienza della realtà non possa attraverso una vera prova: sui social, ad esempio, si ha l’impressione di poter commettere un danno senza pagare il prezzo del risarcimento. Questo per un giovane è deleterio. Mancano i modelli di riferimento: un adolescente di oggi, in potenziale contatto col mondo intero, a me sembra molto più solo rispetto al passato”. Lei ha scritto due libri su Don Milani che è stato anche ispiratore di alcuni movimenti di contestazione studentesca. C’è una lezione, in questo contesto, da trarre da quell’insegnamento? “Don Milani, contrariamente a quanto molti pensano, era tutt’altro che permissivo. Spesso si rivelava severo e intransigente, pur essendo dolcissimo. Era amico e maestro: condivideva le passioni e gli entusiasmi dei suoi scolari senza temere di perdere il loro consenso: anzi spesso li sfidava, sapendo ehe educare significa ferirsi”. Ma perché il dissenso fa così paura oggi? “Dopo la caduta, benefica, delle ideologie, siamo diventati fragili e insicuri, schiavi dei risultati che vorremmo raggiungere. I ragazzi più carichi di energia scoprono questa nostra vulnerabilità: ecco perché rispondere alla loro inquietudine inasprendo le pene non servirà a niente. Guardiamo cosa sta succedendo nelle carceri minorili: è come un fuoco che divampa”. Crede che la deriva securitaria possa diventare una deriva autoritaria? “Spero di no perché credo nella scuola: l’unica zona di resistenza etica presente nel Paese, grazie al contributo quotidiano di tanti insegnanti che, rimboccandosi le maniche, fanno una rivoluzione al giorno: pochi sanno cosa vuol dire oggi entrare in un’aula di venticinque alunni cercando di far brillare i loro occhi spenti”. Migranti. Il deputato Magi: “Centri in Albania già falliti. Meloni incolperà i giudici” di Giansandro Merli Il Manifesto, 19 settembre 2024 Migranti Intervista al segretario di +Europa: “Le decisioni dei tribunali di Palermo e Catania sono un fatto enorme da un punto di vista giuridico: tutta l’impalcatura costruita dal governo per detenere i richiedenti asilo nasce già morta”. Onorevole Riccardo Magi, i tribunali di Palermo e Catania bocciano la detenzione dei richiedenti asilo, con motivazioni diverse ma valide anche per i centri in Albania. Il ministro dell’Interno Piantedosi, però, dice di “non temere ricorsi”. Non è strano? Le ultime pronunce, in particolare quelle catanesi, colpiscono al cuore la detenzione generalizzata per le procedure di frontiera. È un fatto enorme da un punto di vista giuridico: tutta l’impalcatura costruita dal governo per l’Albania nasce già morta. Le decisioni dei giudici sanciscono in maniera argomentata ciò che in parlamento abbiamo sollevato più volte: la lista dei paesi sicuri contenuta nel decreto del ministero degli Esteri non è affidabile. Visto che include paesi come Egitto o Tunisia, teatro di sistematiche violazioni dei diritti umani. Piantedosi rivela tutta la sua incompetenza in materia. La tranquillità serve ad anticipare la mossa propagandistica del governo di fronte al fallimento della loro strategia: attaccare la magistratura e accusarla di essere eversiva. Secondo lei il governo punta sul fallimento di un progetto su cui Meloni ha scommesso tanto solo per prendersela con i giudici? Non è che punta al fallimento ma sa che si troverà di fronte, e già ci sono tutti gli elementi, all’impraticabilità di quella soluzione. In Albania la detenzione sarebbe senza alternative. Oltre al tema dei paesi sicuri, una delle ragioni principali delle mancate convalide della detenzione dei richiedenti è che va argomentata caso per caso. Altrimenti si viola il diritto Ue. In Albania, al contrario, non può che essere sistematica. Se il progetto fallisse per Meloni sarebbe un danno di immagine enorme... Il suo problema è che è andata al governo promettendo un impossibile blocco navale mentre è finita ad accettare il pessimo Patto Ue su migrazione e asilo, che rischia di trasformare l’Italia nel campo profughi d’Europa. Così per cercare delle scappatoie si è inventata i centri in Albania che non reggono in termini procedurali e giuridici. Ora ha bisogno di giustificare l’enorme spreco di risorse pubbliche, quasi un miliardo di euro. La magistratura proscioglie tutte le ong, manda a processo Salvini, ora boccia la detenzione dei richiedenti. In democrazia la destra può realizzare le politiche per cui è stata votata o no? È un tema estremamente delicato e importante. Tutti i governi che hanno legittimamente ricevuto la fiducia del parlamento devono poter realizzare i propri obiettivi politici, ma nessuno può ritenersi al di sopra del diritto e della legge. La questione è decisiva in tema di privazione della libertà, soprattutto se non sono stati commessi reati ma si è solo in attesa di una procedura amministrativa. In ogni caso serve un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, altrimenti si colpirebbe duramente lo stato di diritto costituzionale. Il laburista Starmer ha vinto le elezioni spostando il partito verso il centro e dopo due mesi è venuto a prendere lezioni sull’immigrazione da Meloni. Chi si propone come alternativa alla destra non riesce a elaborare una propria proposta? Abbiamo visto questa dinamica anche in parte della sinistra italiana negli anni passati, quando era al governo, poi faticosamente ha fatto autocritica. Ora ritorna nella Gran Bretagna di Starmer e nella Germania di Scholz. L’errore di fondo che porta le forze progressiste in un vicolo cieco è stato rinunciare ad affrontare la questione a livello Ue. Per esempio riformando il regolamento Dublino, con la redistribuzione obbligatoria dei richiedenti. Per due volte l’europarlamento ha detto sì, per due volte si è opposto il Consiglio. Avete lanciato una proposta di referendum per la riforma della cittadinanza. Cosa chiede? La riforma è in stallo da quattro legislature. La proposta estiva di Tajani sullo Ius Scholae è per sua stessa ammissione più restrittiva della legge attuale. Invece il referendum chiede di tornare alla norma precedente al 1992, intervenendo sul requisito dei dieci anni di soggiorno legale e continuativo per riportarlo a cinque. La modifica riguarderebbe 2,2 milioni di adulti e 500mila minori. Persone regolari, contribuenti, lavoratori, studenti, che parlano italiano e hanno scelto di vivere qui. Si può firmare online fino al 30 settembre. Stati Uniti. La storia di Dale, che prega coi detenuti prima dell’esecuzione capitale di Elena Molinari Avvenire, 19 settembre 2024 Dale Recinella era un avvocato finanziario di successo a Miami quando la chiamata è arrivata, con la voce stentorea di Thomas Horkan che urlava il suo nome sul sagrato della chiesa. “Tom era un collega e mi ha letteralmente inchiodato dopo la messa per convincermi a scrivere una memoria legale contro la pena di morte per i vescovi della Florida - spiega Recinella -. Non avevo nessuna voglia di farlo, ma non mi ha mollato finché non ho ceduto”. I tre mesi impiegati a scrivere quell’incriminazione della pena capitale sono stati la svolta nella vita di Recinella. Ci sono voluti ancora anni perché dicesse di sì, ma il seme era piantato. Nel 1998, Recinella ha messo da parte la professione legale per diventare cappellano laico del braccio della morte di Macclenny e dei suoi 400 uomini condannati all’iniezione letale. “Era un lavoro tutto da inventare. Appena arrivato, per esempio, ho scoperto che non esistevano strutture o persone che si prendessero cura delle famiglie dei condannati prima dell’esecuzione. Mia moglie Susan allora si è fatta avanti e ha cominciato ad accompagnare genitori, nonni e mogli come volontaria in nome della Chiesa cattolica. E continua a farlo”. Quanto a Dale, da allora ha vegliato insieme ai detenuti prima della loro esecuzione decine di volte, scoprendo che molti di loro avevano forti disabilità intellettuali: “L’esecuzione di routine dei malati di mente è una corruzione di ogni principio posto a giustificazione della pena di morte. Attraverso le mie esperienze ho capito quanto questa pratica fosse prevalente”. Per Recinella, quei primi giorni nel forno di scatole di cemento esposte al sole estivo della Florida furono surreali. Migliaia di uomini (contando quelli in reclusione solitaria) rinchiusi in gabbie d’acciaio senza alcun sollievo dal caldo, senza nessun contatto umano autentico. “Li guardavo, sudati, in mutande, soli. Alcuni sembravano nonni. Alcuni erano troppo giovani per radersi. E mi dicevo: questi uomini sono il cuore della Chiesa e nessuno li tratta come esseri umani”. Dale è diventato la loro voce, parlando in conferenze, testimonianze e quattro libri. L’ultimo, “A Christian on Death Row: My Commitment to Those Condemned”, (Un cristiano nel braccio della morte, il mio impegno per i condannati), è uscito il 27 agosto con la prefazione di papa Francesco. Tre anni fa, inoltre, il 72enne ha ricevuto dalla Pontificia accademia per la vita il premio “Guardiani della vita”. Per Dale è stata la conferma della “profonda dichiarazione da parte della Chiesa di quanto siano importanti le vite delle persone nel braccio della morte”. La prigione di Macclenny è cambiata molto da quando Recinella e i giovani volontari che vi ha portato vi hanno messo piede. “Quando sono arrivato e un membro del personale parlava di un decesso in famiglia o di qualcuno che era gravemente malato e proponevo di pregare insieme, ricevevo un silenzio imbarazzato. Ora ci sono medici, segretari, direttori regionali e guardiani che si avvicinano alle celle, prendono per mano i detenuti attraverso le sbarre e pregano insieme a loro. Adesso fa parte della vita del carcere e porta a riconoscere la nostra spiritualità condivisa e a onorare la nostra comune dignità umana”. Un altro cambiamento importante che Dale ha notato è una maggiore capacità della struttura penitenziaria di riconoscere e aiutare i detenuti che decidono di cambiare. “Supponiamo che la persona abbia commesso il crimine, e non è sempre così - spiega - possono dire scelgo di non partecipare più in quello stile di vita e scelgo di provare con tutto me stesso a fare i passi necessari per starvi lontano. E se Gesù non scherzava quando diceva che chi mostra misericordia riceverà misericordia, allora non possiamo ignorare quel pentimento. Dobbiamo fare qualcosa”. Molto resta da fare: “Ci sono migliaia di persone in cella che aspettano la nostra scelta essere misericordiosi. Il che non significa lasciare uscire i colpevoli o non avere regole, significa riconoscere la propria umanità e trovare una strada per aiutarli a diventare le persone che Dio vuole che siano”. Medio Oriente. Se si sta spezzando la corda di Netanyahu di alessia melcangi La Stampa, 19 settembre 2024 Come nel 1967, quando gli stati arabi stavano predisponendo l’ennesima guerra contro Israele, e Tel Aviv anticipò le loro mosse sbaragliando in sei giorni le forza militari egiziane, siriane e giordane, allo stesso modo Israele gioca oggi d’anticipo. Questa volta però il governo di Netanyahu non si muove solo in maniera difensiva, ma provoca, alza la posta in gioco. Davanti all’Iran esitante e a Hezbollah che in fondo, con un consenso in declino, non vuole la guerra dentro i suoi confini, Israele spariglia le carte, rendendo ancora più improbabile qualsiasi de-escalation. In questi giorni, il primo ministro israeliano ha minacciato di voler modificare lo status quo del Monte del Tempio per permettere la preghiera ebraica in uno dei luoghi più sacri dell’islam, la Spianata delle Moschee. Decisione presto ritirata: qualcuno deve averlo messo in guardia dall’incauto provvedimento che avrebbe di certo provocato una rivolta interna. Nel 2000, infatti, la passeggiata dell’allora leader del Likud, Ariel Sharon, in questo luogo inviolabile per musulmani, aveva portato all’esplosione della seconda intifada. Ma il governo di Netanyahu non si ferma qui: trapela la notizia della prossima defenestrazione del ministro della Difesa Yoav Gallant, uno dei falchi dell’amministrazione israeliana, colpevole tuttavia di aver recentemente messo in discussione ciò che è diventato un dogma del governo israeliano: guerra a oltranza a Gaza fino alla distruzione totale di Hamas. E ancora, sempre nei giorni scorsi, il governo di Tel Aviv ha dichiarato di aver inserito tra gli obiettivi di guerra il rientro dei circa sessantamila israeliani sfollati dalle loro case al confine con il Libano a causa dei continui lanci di razzi, missili e droni da parte di Hezbollah. Martedì e ieri, due ripetuti attacchi ai quadri operativi di Hezbollah attraverso esplosioni di device wireless, riconducibili, seppur senza rivendicazione ufficiali, quasi sicuramente ai servizi israeliani, provoca migliaia di feriti e diversi morti in tutto il Libano. Il messaggio sembra essere chiaro: Tel Aviv punta adesso al fronte nord, vuole sferrare un duro colpo a Hezbollah e mettere in sicurezza il confine. E lo fa attraverso questo “attacco creativo” che, oltre a disarticolare l’operatività della milizia filo-sciita dimostrando la propria superiorità tecnologica e di intelligence, ha lo scopo di sbalordire per l’efficacia dell’esecuzione e mandare un messaggio inequivocabile: Israele è in grado di colpire al cuore i propri nemici, qualsiasi essi siano, dovunque essi si trovino, oltre ogni speranza di impunità. Siamo quindi alle soglie di un nuovo scontro lungo la frontiera libanese, il primo intervento di grande portata dalla guerra del 2006? Ma al di là dell’avvio di un nuovo conflitto, che piagherebbe ulteriormente un paese, il Libano, già in profonda crisi politica ed economica, aumentando il numero ormai oneroso di vittime di questa guerra, cosa comporta questa nuova mossa? Hezbollah è al centro della cintura di fuoco creata dall’Iran, i cui perni sono tutti quei proxy sui quali fa affidamento la Repubblica islamica per accerchiare Israele: gli Houthi yemeniti, Hamas, i gruppi armati in Iraq e Siria, una rete di milizie creata negli anni e legata dalla solidarietà sciita o dall’avversione comune allo stato ebraico. Tuttavia, una differenza sostanziale tra questi attori c’è, e può essere decisiva in questa fase: tutte le milizie sono sacrificabili eccetto una con la quale Teheran ha stabilito forti legami già dai primi anni della Repubblica islamica, caposaldo della strategia della guerra asimmetrica dell’Iran: Hezbollah. Teheran potrebbe non voler assistere inattiva allo smantellamento della milizia i cui rapporti con i pasdaran e con i vertici religiosi iraniani sono consolidati e potrebbe decidere di scendere in difesa dell’alleato più solidale nell’area. Nell’ipotesi si un attacco massiccio israeliano contro Hezbollah, difficilmente le voci più moderate e pragmatiche in Iran riuscirebbero a frenare quella reazione promessa già dopo l’assassino di Haniyeh ma per il momento rimandata. Allora si aprirebbe lo scenario più temuto, una guerra dalle conseguenze drammatiche per l’intera regione, in cui lo stesso Israele rischierebbe di pagare l’avventurismo del suo governo Medico ucciso in cella e raid su una scuola a Gaza. Berlino: armi sospese di Chiara Cruciati Il Manifesto, 19 settembre 2024 La foto di Ziad Mohammed al-Dalou pubblicata ieri sui siti di informazione lo ritrae sorridente, in camice bianco. Probabilmente è stata scattata prima del 7 ottobre e della trasformazione del suo ospedale, lo Shifa, in un campo di detenzione e in un’enorme fossa comune. Al-Dalou è morto in una prigione israeliana, è il terzo medico di Gaza a perdere la vita in custodia, il sessantesimo palestinese. Era stato arrestato a marzo durante l’assedio israeliano dell’ospedale: due settimane che sembravano non finire mai, medici, pazienti e sfollati prigionieri della struttura e dei colpi di mortaio dell’artiglieria. Non si entrava e non si usciva. I soldati invece entravano e sono decine le testimonianze che raccontano di medici e malati giustiziati sul posto e di cibo introvabile. I racconti hanno trovato orribile conferma dopo la fine dell’assedio: centinaia di corpi, molti decomposti, altri a pezzi o schiacciati dai bulldozer. E poi arresti di massa: in quei giorni lo stesso esercito israeliano parlò di 900 detenuti. Tra loro al-Dalou, responsabile di medicina interna. Ad aprile a morire in cella era stato il chirurgo ortopedico Adnan al-Bursh, capo del suo reparto allo Shifa. Era in carcere da dicembre. A giugno era giunta la notizia del decesso di Iyad al-Rantisi, ucciso dalle torture: dirigeva il reparto di maternità del Kamal Adwan Hospital, era stato arrestato a novembre. Ad agosto l’ong israeliana B’Tselem ha pubblicato un rapporto di 118 pagine in cui definisce le prigioni israeliane una rete di campi di tortura. Sde Teiman, scrive l’organizzazione, non è che la punta dell’iceberg. Proprio su quella base militare vicina al confine con Gaza, tramutata in pochi mesi in un luogo di abusi, umiliazioni e torture, si è espressa ieri la Corte suprema israeliana che ha accolto il ricorso di associazioni palestinesi e israeliana che ne chiedono la chiusura: “Nessuno nega che l’attuale guerra pone molte sfide allo stato - ha detto il presidente dell’alta corte, Uzi Vogelman - compresa quella dell’incarcerazione dato il considerevole numero di individui arrestati. Ma lo stato deve rispettare i requisiti di legge”. La Corte ha però deciso di non ordinarne la chiusura immediata. Intanto a Gaza ieri è stata un’altra giornata di bombe su una scuola, routine che appare normalizzata. I palestinesi uccisi nella Ibn al-Haytham School sono otto, nel quartiere di Shujaya, a Gaza City. Anche quell’istituto era usato come rifugio agli sfollati. Le autorità israeliane hanno rilasciato la solita nota: un “bombardamento preciso” contro “un centro di comando e controllo di Hamas camuffato nella scuola Ibn al-Haytham”. Nelle stesse ore due uccisi e dieci feriti nell’attacco di un drone israeliano su un’auto nella zona “sicura” di al-Mawasi, sud-ovest della Striscia. Raid anche a nord, svuotato da mesi di gran parte dei propri abitanti ma dove resistono ancora decine di migliaia di civili, tanti rientrati dopo la fuga. Vivono nei cosiddetti “centri di evacuazione”, le scuole, ormai prese di mira con cadenza regolare: “La gente ora scappa da quei centri - riporta il giornalista Tareq Abu Azzoum - per cercare rifugio sotto le tende tra le macerie delle case distrutte”. Ieri in Egitto l’incontro tra il ministro degli esteri Badr Abdelatty e il segretario di stato Usa Antony Blinken ha consegnato nuovi impegni per un cessate il fuoco che non è nemmeno all’orizzonte. Abdelatty ha ribadito che Il Cairo non accetterà modifiche dello status del corridoio Philadelphia, 14 km di zona cuscinetto al confine tra Gaza ed Egitto, come vorrebbe Tel Aviv: un controllo israeliano della frontiera. Blinken ha definito l’accordo tra Israele e Hamas “una questione politica, più che di sostanza”. Nessun accenno alle armi Usa che rimpolpano l’arsenale israeliano e oggetto della nuova battaglia di Bernie Sanders: il senatore dem ha annunciato una proposta di legge per bloccare l’invio di 20 miliardi di dollari di armi Usa a Tel Aviv. Secondo Reuters, anche la Germania segue a sorpresa la stessa via: Berlino avrebbe sospeso il rilascio di nuove licenze di vendite militari verso Israele. È in attesa della risoluzione di due controversie legali, ricorsi che l’accusano di complicità in crimini di guerra, uno di fronte a una corte tedesca e uno di fronte a quella internazionale dell’Aja.