Due nuovi suicidi in carcere, 72 da inizio 2024. I dati del sovraffollamento di Fulvio Fulvi Avvenire, 18 settembre 2024 Dal 1° gennaio 72 detenuti si sono tolti la vita. Un esubero di quasi 15mila persone. A Milano venerdì manifestazione per ricordare Yussef, morto bruciato a San Vittore. Celle sempre più sovraffollate, tensione alle stelle dietro le sbarre e la strage dei detenuti suicidi che non si ferma più. Tra ieri e stamattina ce ne sono stati altri due, ad Ariano Irpino e Regina Coeli, portando il conto complessivo dei morti dalla fine dell’anno a 72. Aumentano pure le aggressioni, gli atti di autolesionismo, le risse e le manifestazioni di protesta collettiva. L’emergenza carceri rimane dunque gravissima in Italia e attende ancora una soluzione decisiva. Ad accendere i riflettori sul dramma delle prigioni italiane è anche l’ultimo report del Garante nazionale delle persone private della libertà, anche se sul numero dei suicidi ci sono versioni discordanti e, purtroppo, con cifre ben più allarmanti di quelle “ufficiali”. Alla data del 16 settembre i detenuti presenti nei 192 istituti di pena italiani erano 61.840, con un indice di affollamento pari al 131,77% (nel giugno del 2023 era il 120,08%). Per capire quanto pesi il “fenomeno” delle presenze in eccesso nelle strutture, basta confrontare il numero degli attuali ospiti con la capienza effettiva del sistema penitenziario: sono 46.929 i posti disponibili (ovvero quelli previsti dal regolamento al netto dei letti che al momento non si possono utilizzare per lavori in corso o altre necessità): l’esubero, quindi, è di 14.911 persone, che rendono le celle ancora più zeppe e invivibili. Le cifre sono state fornite dal Garante nazionale delle persone private della libertà, autorità ancora senza il presidente (che il governo deve nominare), dopo la prematura scomparsa di Maurizio D’Ettorre, avvenuta il 22 agosto scorso. Secondo il report, i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno fino a ieri 16 settembre risultano 67 (di cui due avvenuti all’esterno degli istituti), ovvero 19 in più rispetto allo stesso periodo del 2023. Ma i numeri non collimano con quelli forniti dai sindacati della Polizia penitenziaria e dell’autorevole rivista Ristretti Orizzonti, curata dai detenuti della Casa circondariale di Padova e da esperti del settore che invece ne ha contati 70. Ma ieri pomeriggio un nigeriano di 32 anni arrestato per reati connessi all’immigrazione clandestina è stato trovato impiccato nella sua cella ad Ariano Irpino, in provincia di Avellino e oggi all’alba un altro ristretto, un italiano di 50 anni, ha deciso di farla finita nel carcere romano di Regina Coeli nello stesso modo, con un lenzuolo legato alle sbarre e stretto attorno al collo: era stato arrestato il 25 agosto per maltrattamenti in famiglia e sottoposto alla custodia cautelare, i poliziotti nel giro di controllo delle 6.45 lo hanno trovato riverso sul pavimento e nulla hanno potuto fare per salvarlo. I suicidi sarebbero dunque in tutto 72, a tutt’oggi, considerando alcuni casi dubbi e un giovane che si è ucciso nel Cpr di Roma. Altro dato preoccupante: la fascia d’età dei suicidi, che per la maggior parte hanno tra i 26 e i 39 anni. Tra i 67 morti per mano propria rilevati dal garante, inoltre, solo 29 erano stati giudicati in via definitiva, gli altri si trovavano in attesa del processo o erano ricorrenti o appellanti, uno invece era un internato provvisorio. Le carceri dove in questi nove mesi si sono verificati più suicidi sono quelle di Napoli Poggioreale, Pavia, Prato, Parma, Verona, Teramo, con tre morti ognuna. L’85% dei “gesti estremi” (perlopiù tramite impiccagione ma anche per inalazione di gas dal fornelletto della cucina) è avvenuto nelle sezioni di custodia chiusa (isolamento), il 27% dei ristretti che si sono uccisi risulta senza fissa dimora, il 46% era disoccupato. La tensione “dentro”, dunque, è sempre altissima: le aggressioni ad agenti di polizia penitenziaria, al personale degli istituti o ad altri detenuti sono state finora 4.172 (309 in più rispetto all’anno passato), gli atti di autolesionismo sono schizzati a 9.430 dai precedenti 8.936 (con un incremento di 494 casi). E non sono mancati i tentativi di suicidio: 1.529 le morti scongiurate per il tempestivo intervento degli addetti alla sicurezza o di compagni di cella. Infine, va rilevato l’elevato numero dei decessi per cause ancora da accertare che risultano 17 (erano state 19 in tutto il 2023 e nel 2022). L’ultima morte che ha scosso l’ambiente carcerario e interrogato l’opinione pubblica sull’emergenza carceri, è quella del 18enne di origine egiziana Youssef Barsom, trovato carbonizzato nella sua cella a Milano San Vittore il 6 settembre scorso. Probabilmente non si è trattato di un suicidio ma di una protesta finita in tragedia: il giovane avrebbe dato fuoco alle coperte della branda. E per commemorare Youssef è stata indetta per venerdì prossimo dalle 18.30 al Cam Garibaldi di fronte alla fermata Lanza della metropolitana, una manifestazione con le associazioni, la società civile, i cittadini. Tra i promotori, la Cgil di Milano, l’associazione Antigone, Cnca, liberi professionisti, l’ex magistrato Gherardo Colombo e don Roberto Mozzi, già cappellano di San Vittore. E nel “bollettino di guerra” delle carceri italiane, non vanno dimenticati i 7 agenti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno: anche loro sono, in qualche modo, vittime di un sistema che non funziona, costretti a turni massacranti e a sopportare una continua alta tensione dovuta proprio al disagio di chi sta dietro le sbarre. “Una strage senza fine e senza precedenti che certifica, ancora una volta, il fallimento più totale del sistema carcerario - commenta Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria - Il silenzio sostanziale del ministro della Giustizia, Carlo Nordio e della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sulla crisi sempre più profonda delle carceri non solo preoccupa, ma è da irresponsabili, servono interventi urgenti e tangibili per deflazionare la densità detentiva - conclude De Fazio - potenziare il Corpo di polizia penitenziaria e assicurare l’assistenza sanitaria e psichiatrica, vanno avviate riforme complessive per reingegnerizzare le prigioni e riorganizzare la polizia penitenziaria: siamo a 131, un passo dal baratro”. Carceri, suicidi senza fine nel silenzio di Nordio e Meloni di Angela Stella L’Unità, 18 settembre 2024 72 dall’inizio dell’anno, ieri il terzo nel carcere romano. I sindacati: “Una strage e il governo non dice nulla”. A via Arenula tutto fermo sulla scelta del Garante. Sedici settembre: “32 anni, nigeriano, in carcere per reati connessi all’immigrazione clandestina e altro, nel pomeriggio è stato trovato impiccato nella sua cella della Casa Circondariale d’Ariano Irpino. A nulla sono valsi i soccorsi della Polizia penitenziaria e dei sanitari”. 17 settembre: “50 anni, italiano, tratto in arresto il 25 agosto scorso per maltrattamenti in famiglia, ha deciso di farla finita e verso le 6.45 è stato rinvenuto impiccato nella sua cella del carcere romano di Regina Coeli”. Questo il bollettino di morte arrivato dai nostri istituti di pena attraverso due comunicati della Uilpa Polizia Penitenziaria. Siamo al “72esimo dall’inizio dell’anno. A queste morti, vanno aggiunti i 7 appartenenti alla Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita nel 2024. Una strage senza fine e senza precedenti che certifica, ancora una volta, il fallimento più totale del sistema carcerario”, ha denunciato il segretario del sindacato Gennarino De Fazio. “Il silenzio sostanziale del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sulla crisi sempre più profonda delle carceri non solo preoccupa, ma è da irresponsabili. Servono interventi urgenti e tangibili per deflazionare la densità detentiva, potenziare il Corpo di polizia penitenziaria e assicurare l’assistenza sanitaria e psichiatrica. Vanno avviate riforme complessive per reingegnerizzare le prigioni e riorganizzare la Polizia penitenziaria. Siamo a un passo dal baratro”, ha concluso De Fazio. Hanno commentato la notizia anche il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, e la Garante di Roma Capitale, Valentina Calderone: “Ancora un suicidio in carcere, di nuovo a Regina Coeli, ancora in VII sezione. Un uomo di cinquant’anni, arrestato lo scorso 25 agosto, per la prima volta in carcere. In attesa che il Governo faccia qualcosa contro il sovraffollamento, che è certamente concausa di questa terribile sequenza di suicidi (oggi a Regina Coeli ci sono 1168 detenuti per 626 posti regolamentari effettivamente disponibili), torniamo a chiedere la chiusura della VII sezione e la riorganizzazione a Regina Coeli di una sezione di accoglienza degna di questo nome, cui dare spazi e personale qualificato per la prevenzione del rischio suicidario”. Critico, ovviamente, anche Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone: nel carcere romano “Le celle sono piccolissime e ospitano 2 o 3 persone su un unico letto a castello. Il wc e il lavandino si trovano in una piccola stanza adiacente senza intimità. Le finestre sono più piccole che altre sezioni e dotate di celosie, il che non consente all’aria di circolare e riduce l’ingresso della luce naturale. Solo le celle del terzo piano sono dotate di doccia. In questi spazi così ristretti, le persone trascorrono 23 ore al giorno”. Per Francesco Petrelli, presidente dell’Unione Camere Penali, “la terribile sequenza delle morti e dei suicidi, due nelle ultime ore, non si interrompe e costituisce il più diretto atto di accusa nei confronti di chi non interviene con misure urgenti ed efficaci che possano portare il necessario equilibrio fra risorse e popolazione carceraria. La deflazione è l’unico rimedio capace di risolvere questa inarrestabile crisi che sta travolgendo l’intera istituzione carceraria con un danno che investirà inevitabilmente lo stesso ordinamento della giustizia penale. Chi si dice garantista e chi ha davvero a cuore la dignità dei detenuti non può consentire questo drammatico scempio”. Due giorni fa, intanto, l’autorità del Garante nazionale ha pubblicato i dati al 16 settembre 2024 del numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane: 61.840 persone su 46.929 posti disponibili, con un indice di sovraffollamento del 131,77%. Al 30 giugno 2022, l’indice di sovraffollamento era invece al 115,36% (47.539 i posti disponibili, 54.482 i detenuti presenti); alla data dell’8 giugno 2023 l’indice era del 120,08% (47.704 i posti disponibili, 57.284 i detenuti presenti). In questo ennesimo momento di grande criticità per le nostre carceri, sarebbe assolutamente necessario che il Governo accelerasse nella selezione del presidente del Collegio del Garante, dopo la prematura scomparsa di Felice Maurizio D’Ettore. La prassi prevede prima dei colloqui a Via Arenula e poi il parere delle commissioni giustizia di Camera e Senato ma al momento non si vede nulla in calendario. In cella ogni giorno 6 tentativi di suicidio di Serena Riformato La Stampa, 18 settembre 2024 La Camera conferma tra le polemiche la stretta sulle rivolte: punita anche la “resistenza passiva”. Due suicidi in carcere nell’arco di poche ore. E 1. 529 tentativi di suicidio dall’inizio dell’anno: vale a dire quasi sei episodi ogni giorno. Resta alto l’allarme nei penitenziari italiani. Un cinquantenne italiano, arrestato il 25 agosto scorso per maltrattamenti in famiglia, all’alba di ieri è stato trovato impiccato dagli agenti di polizia penitenziaria nella sua cella del carcere romano di Regina Coeli: si tratta del terzo episodio dall’inizio dell’anno nel carcere romano. Il secondo caso nell’istituto avellinese di Ariano Irpino. Era un trafficante di migranti il detenuto di nazionalità nigeriana che ieri si è tolto la vita. Lunedì aveva dato fuoco agli arredi della stanza e poi aveva ferito alcuni agenti accorsi per fermarlo ed evitare ulteriori incidenti. Si è impiccato utilizzando un lenzuolo all’interno della camera di sicurezza dove era stato trasferito. Quanti sono i detenuti che si sono suicidati in carcere nel 2024? Per il Garante nazionale delle persone private della libertà sono 67 (già 19 in più rispetto allo scorso anno), un numero diverso rispetto alla conta delle morti in cella portata avanti dai sindacati del settore della penitenziaria, secondo cui a togliersi la vita dall’inizio dell’anno sono stati 72 detenuti. Questo perché su alcuni di questi episodi le indagini degli inquirenti non si sono ancora concluse. Resta il nodo del sovraffollamento degli istituti di pena italiani, che ormai ha raggiunto e superato quota 130%. E quanto emerge dai dati del report del Garante nazionale per le persone private della libertà personale. Al 16 settembre, a fronte di 46.929 posti disponibili, nelle prigioni italiane sono presenti 61.840 detenuti. Intanto l’aula della Camera conferma la stretta sugli autori di aggressioni al personale sanitario e di chi partecipa a rivolte in carcere anche solo mediante “resistenza passiva”: in questi casi la pena va dai due agli otto anni di reclusione. Il segretario di +Europa, Riccardo Magi, attacca le nuove norme: “Con il reato di rivolta in carcere, la maggioranza sta introducendo l’ennesima follia. La cosa più grave - spiega - è che in questo modo si equipara chi manifesta la propria opposizione a una violazione di diritti fondamentali, scegliendo la via nonviolenta, a chi compie un’aggressione nei confronti di un agente penitenziario, parificandolo sostanzialmente ai delitti di mafia e di terrorismo”. Carceri, ecco perché bisogna agire sulle questioni irrisolte di Pietro Buffa* Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2024 Che il sistema penitenziario italiano sia sovraffollato è ormai quasi una non-notizia tanto è sbandierata in decine di interventi pubblici ed articoli. Chi conosce la storia penitenziaria sa che è da sempre così. Sino al 1990 si provvedeva con periodiche amnistie ed indulti che calmieravano la pressione all’interno degli istituti penitenziari. La modifica dell’articolo 79 della Costituzione, intercorsa nel 1992, con la previsione di una maggioranza di due terzi per la loro approvazione, considerate le dinamiche parlamentari del nostro Paese, ha reso difficile, se non impossibile, adottare questi provvedimenti. Si pensi solo all’insuccesso che seguì il messaggio al Parlamento di Papa Giovanni Paolo II e alle resistenze che accolsero quello del Presidente Napolitano nel 2013, pur a fronte delle forche caudine della Corte europea dei Diritti dell’uomo che aveva condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti in ragione di un sovraffollamento strutturale che vedeva quasi 70.000 detenuti presenti. In quella circostanza il rischio di pagare risarcimenti milionari smosse, se non le coscienze, almeno l’interesse a modificare alcune norme già esistenti per incrementare l’uscita dal carcere di migliaia di persone. L’onda di quel momento diede lo spunto per far crescere, negli anni successivi, un sistema di pene alternative e di comunità con il chiaro intento di ridurre l’incarcerazione. A distanza di pochi anni, nel 2019, una parte dei commentatori delle questioni penitenziarie applaudì come una buona notizia il “pareggio” che vedeva 60.000 persone in carcere contro altrettante soggette aduna misura penale esterna. Oggi, dati alla mano del ministero della Giustizia, se contiamo quasi 62.000 persone detenute ne registriamo oltre 85.000 destinatarie di misure penali esterne. Forse non sono buone notizie. Il carcere non è diminuito ma sono più che raddoppiate le persone raggiunte da una misura penale che oggi colpiscono oltre 147.000 persone e, probabilmente, in futuro questa cifra è destinata ad aumentare. Nel frattempo i posti in carcere effettivamente disponibili sono circa 48.000 e alla fine di agosto i detenuti erano 61.758 con un saldo negativo di oltre 13.000 unità. Sugli effetti non mi soffermo tanto sono noti ed immaginabili. Certo è che questo argomento diventa motivo di dissidio politico tra chi vorrebbe costruire nuove carceri, e chi ne chiede la decompressione attraverso misure amnistiali. Entrambe le soluzioni non possono essere, per vari motivi, risolutive. È quindi un dibattito infinito al quale siamo pressoché assuefatti e che svia la questione di fondo. Il sovraffollamento penitenziario non è un fenomeno a sé ma l’effetto di questioni irrisolte sulle quale si dovrebbe agire. Non può essere tutto rinviato aduna presunta cattiveria, una, sorta di marchio di Caino, propria di una fascia di popolazione dedita al crimine e alla violenza. Dobbiamo riconoscere che lo zoccolo duro della popolazione detenuta è frutto di emarginazione e rifiuto nei processi scolastici, lavorativi, abitativi, di accoglienza migratoria, di cura, di distribuzione di risorse ed opportunità. Non sono opinioni; è sufficiente scorrere i dati della loro scolarizzazione, professione, condizione di vita, nazionalità. Si scoprirebbe che in questo il carcere non è mai cambiato. Nei libri di storia penitenziaria si ritrovano dati ricorrenti sulla marginalità di questa popolazione dolente, problematica e disturbante. In queste condizioni spesso si collocano i presupposti necessari alla commissione di reati predatori e violenti e, di conseguenza, alla incarcerazione. Allora se gli sforzi della politica e di ognuno di noi andassero nella direzione di ovviare al fallimento di quei processi fondamentalmente riconosciuti dalla nostra Costituzione è molto probabile che il sovraffollamento penitenziario diminuirebbe proporzionalmente ai nostri sforzi di rendere il nostro Paese un mondo migliore. *Criminologo, già dirigente del ministero della Giustizia Rivolte in carcere, votata la stretta: anche la resistenza passiva integra il nuovo reato di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2024 I dem: “Misure crudeli”. Arrivano il nuovo delitto di rivolta in carcere, integrato anche solo da atti di resistenza passiva (“Un attacco allo stato di diritto”, tuona il Pd) e valido pure per i centri per i migranti, e l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi se commesso all’interno di un istituto di pena. L’Aula della Camera ha ripreso ieri tra le polemiche le votazioni del disegno di legge Sicurezza, approvando alcune tra le strette più contestate. Come quella sull’acquisto delle Sim da parte dei cittadini extra Ue: tra i documenti che un operatore dovrà acquisire per venderle, oltre a quelli di identità, sarà necessaria “copia del titolo di soggiorno”. “Una bestialità che favorirà lo sviluppo del mercato illegale”, attacca Riccardo Magi di +Europa. Respinti gli emendamenti soppressivi presentati dalle opposizioni. “Siamo di fronte a un’escalation di misure repressive e crudeli che rivelano un regime di tensione evidente, volto a distogliere l’attenzione dai fallimenti di questo governo”, scandisce in Aula la responsabile giustizia del Pd, Debora Serracchiani. E il M5S, con il deputato componente del Copasir Marco Pellegrini, denuncia come “pericolosissime” le novità sui servizi segreti contenute all’articolo 31: “Rendono permanente - è l’accusa - l’autorizzazione per l’intelligence a porre in essere condotte che configurano reati, anche molto gravi”. Ottengono il semaforo verde dell’assemblea, inoltre, le tante norme a tutela delle forze dell’ordine, salutate con favore dai sindacati di polizia, come quella che prevede l’aumento fino a inmila euro dell’anticipo delle spese legali in ogni fase del procedimento e quella che autorizza a indossare bodycam durante il servizio (23 milioni in tre anni). “Una protezione che fornirà agli agenti prove oggettive contro accuse troppo spesso infondate”, sottolinea dalla Lega Igor lezzi. Via libera anche alla disposizione che permette agli agenti di portare senza licenza alcune tipologie di armi quando non sono in servizio, tra cui rivoltelle e pistole di ogni misura. Al voto mancano soltanto gli ultimi articoli del provvedimento: il sì finale dovrebbe arrivare già oggi, poi il testo passerà al Senato. Coronando il giro di vite securitario voluto dal governo. La Camera approva il Ddl sicurezza. Le opposizioni: “Nuovi reati infami” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 18 settembre 2024 Approvati gli articoli contro resistenza passiva, Sim ai migranti e rivolte nei Cpr. Oggi la Camera dovrebbe approvare in prima lettura i 38 articoli, con relativi emendamenti, del Ddl sicurezza. Dopo cannabis light, occupazioni e blocchi stradali, ieri l’esame dell’aula ha riguardato ulteriori fattispecie di reato e/o aggravanti introdotte dalla destra per combattere i folk devil agitati davanti ai media. Ieri è stata la volta di chi è colpevole di non eseguire gli ordini nei Cpr e addirittura nei centri di detenzione per minori migranti. Il che crea dei paradossi giuridici non da poco, visto che, come ha fatto osservare la deputata M5S Ida Carmina “gli stranieri ospiti di questi centri parlano le lingue più diverse tra loro, e spesso anche in presenza del mediatore culturale non riescono a comprendere eventuali ordini impartiti. Ciò determina la loro non punibilità”. Arnaldo Lomuti, anche lui 5 Stelle, ha detto senza mezzi termini che “nei Cpr si vive come bestie. Se io fossi detenuto lì probabilmente commetterei questo nuovo reato per essere trasferito in un carcere. Il governo dovrebbe avere un sussulto di civiltà ed umanità eliminando questa norma”. È stato dato il via libera anche all’articolo che prevede, per la prima volta, il reato di resistenza passiva in carcere. “È una scelta irragionevole e incostituzionale - protesta il dem Federico Fornaro - Chiediamo alla maggioranza e al governo di ripensarci per scongiurare un pericoloso declino verso forme e modelli di democrazia illiberale e di inciviltà giuridica”. “Negare il diritto alla protesta è una scelta infame, intrisa di una cultura autoritaria che è difficile ricondurre ad uno Stato di diritto”, ha aggiunto Nicola Fratoianni di Avs. L’ultima trovata riguarda il divieto di rilasciare una carta telefonica ai migranti senza permesso di soggiorno. “Con questo provvedimento crescerà il mercato illegale di Sim che sfuggirà al controllo molto più di quanto non accada ora - afferma Riccardi Magi da +Europa - Nella maggior parte dei casi passano molti mesi prima di avere l’appuntamento per andare a fare la domanda o ritirare il permesso di soggiorno. In una situazione in cui non c’è una irregolarità di fatto ma c’è un’attesa dei tempi dell’amministrazione, qual è la ratio di impedire a un cittadino straniero che non è formalmente irregolare ma no Il nuovo Decreto Sicurezza, ovvero più galera per tutti di Pino Corrias vanityfair.it, 18 settembre 2024 Il coniglio miracoloso della propaganda di governo ci offre un riparo da tutte le paure sociali: 13 nuovi reati, tutti sollecitati dalla cronaca. Anziché agire sulle tensioni sociali, carcere anche per studenti e ambientalisti che protestano in sit-in pacifici. Sorvegliare, punire, vantarsene. Il nuovo decreto sicurezza approvato tra gli applausi della maggioranza di governo è il cilindro del mago: estrae il coniglio miracoloso della propaganda securitaria che offre un riparo da tutte le paure sociali, o almeno lo promette. Lo fa scoprendo nuovi reati, tredici a essere precisi, tutti sollecitati dalla cronaca, dopo la mezza dozzina di nuovi reati inventati nel primo anno di governo, a partire da quello ormai celebre che proibisce e punisce il delitto di rave party. La giustizia è intasata, i processi vanno in prescrizione, le carceri scoppiano? Intanto ci portiamo avanti con i muscoli del “panpenalismo”, che vuol dire moltiplicare reati e pene, anziché agire sulle tensioni sociali o illudersi di prevenire, educare, dissuadere. Gli studenti e gli ambientalisti protestano? Galera per tutti i sit-in pacifici se intralciano una strada, una stazione, un cantiere. Guai ai detenuti che fanno scioperi o resistenza passiva nelle carceri. Guai agli immigrati rinchiusi nei Cpr, se protestano per non rimanere rinchiusi fino a diciotto mesi, senza processo. Pene maggiori per l’omicidio nautico e quello stradale, già ampiamente previsti dai codici, ma siccome fanno notizia, specialmente d’estate, meglio aggiungere una serratura in più che fa scena e fa curriculum. Lo stesso vale per le donne in gravidanza, le terribili borseggiatrici rom della metropolitana che da anni allarmano i giustizieri da talk show, non importa nemmeno che abbiano figli minori di un anno. Sono dieci, sono trenta in tutta Italia? Troppe, l’opinione pubblica le detesta, vanno punite. E galera, galera, galera per i coltivatori di cannabis light, pericolosa quanto il basilico, per i genitori che non mandano i figli a scuola, per i “ladri di case”, nemici sociali da quando la famigerata Ilaria Salis è stata eletta al Parlamento europeo. Pene maggiori per furti, scippi rapine. Per chi spaccia e chi consuma droghe, anche leggere. Per chi guida senza patente o parlando al cellulare. Per l’accattonaggio e pure per il racket, con una ostinazione tale a sottintendere che prima fossero reati non punibili. Il messaggio è: via tutte le blande pene amministrative. Basta con le chiacchiere dei sociologi, dei giustificazionisti che rendono fiacca e permissiva la Nazione. “Tuteliamo l’Italia normale”, detta Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, che all’Italia normale è iscritto con beneficio d’inventario, visto che è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio. Protestano le opposizioni, ma la maggioranza non se ne cura. Meno che mai il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che all’inizio della sua parabola faceva fede di garantismo, prometteva meno reati e meno pene per tutti, pulizia dei codici, poco carcere, tanta giustizia riparativa. Peccato che tutta l’indulgenza l’abbia usata per smacchiare i colletti bianchi dei politici, abolire l’abuso di ufficio, avvallare 15 condoni fiscali. E ora prendere le difese di Giovanni Toti e Matteo Salvini, vittime delle toghe rosse, a prescindere. Consulta, fumata nera del Parlamento sull’elezione del giudice mancante di Giulia Merlo Il Domani, 18 settembre 2024 Il Parlamento in seduta comune non è riuscito nemmeno alla sesta votazione convocata ad eleggere il giudice costituzionale mancante, nonostante le ripetute sollecitazioni del Colle per colmare il posto vacante lasciato dall’ex presidente Silvana Sciarra. Nuova fumata nera: il parlamento in seduta comune non ha eletto il giudice costituzionale mancante ormai da parecchi mesi. Si tratta della sesta votazione andata a vuoto, per cui serviva la maggioranza qualificata dei tre quinti dei componenti del parlamento. Nessuno, però, ha raggiunto il quorum. Il risultato è l’ennesimo rinvio di una votazione a cui però sembrano mancare le basi per sbloccarsi: non esiste un confronto serio tra maggioranza e opposizione per individuare un nome comune. Nella votazione odierna sono risultati 7 voti dispersi, 343 schede bianche e 24 schede nulle. Si dovrà quindi andare alla settima votazione, non ancora calendarizzata. Tra le ipotesi c’è quella di collocarla a dicembre, quando saranno in scadenza altri tre giudici costituzionali. In questo modo potrebbe avvenire una sorta di spartizione, con una nomina “a pacchetto”: tre nomi al centrodestra, uno alle opposizioni. Il Quirinale - L’ennesima fumata nera lascia indispettito soprattutto il Quirinale, che non più tardi dell’ultima cerimonia del Ventaglio aveva espresso il suo auspicio per un rapida nomina del quindicesimo giudice mancante. Se davvero si arrivasse alla scadenza degli altri tre giudici di dicembre, si arriverebbe a una situazione mai avvenuta: quella di una Consulta composta solo da 11 membri effettivi e quattro da eleggere, che quindi sarebbe appesa a un filo e non riuscirebbe a operare se solo mancasse un altro membro per malattia. “Questa situazione che si protrae da tempo credo che sia ormai diventata insostenibile”, ha detto il deputato di Più Europa Benedetto Della Vedova in Aula alla Camera “Credo che questa stia diventando una pantomima che squalifica questo Parlamento e sta a noi. Per una volta non è colpa del governo se il parlamento non fa una bella figura. Il presidente della Repubblica ha richiamato in modo nettissimo e noi oggi abbiamo fatto finta di nulla. Se si riconvoca il parlamento non si può ripetere questa manfrina, si va a oltranza, non possiamo auto-infliggere questo vulnus”. Presunzione d’innocenza, il Csm muto sui pm ribelli di Valentina Stella Il Dubbio, 18 settembre 2024 L’esemplare riserbo del procuratore di Parma sul caso dei due neonati uccisi è contraddetto da chi dileggia le norme a tutela degli indagati. Le ispezioni di Nordio? Nessuna notizia di “processi” disciplinari. Il comunicato stampa del procuratore di Parma Alfonso D’Avino in merito alla vicenda dei due neonati trovati morti nel giardino di una casa a Traversetolo, rappresenta, se non un unicum, una rara eccezione tra le Procure d’Italia. E l’occasione non poteva non essere colta al balzo dal deputato Enrico Costa, da due giorni tornato in Forza Italia, che sul social “X” ha commentato: “Le parole con cui il procuratore di Parma spiega le ragioni del riserbo tenuto in una delicata indagine andrebbero studiate a memoria alla Scuola superiore della magistratura”. Tra i punti salienti della comunicazione del magistrato, quello relativo al fatto che data “la delicatezza estrema di questo nuovo episodio (il ritrovamento dei resti del secondo neonato, nda), vi è stata l’apertura di un fascicolo per possibile violazione del segreto di indagine in relazione alla propalazione della relativa notizia, che rischia di incidere sulle acquisizioni investigative in corso”. E a tal proposito, Costa dice al Dubbio: “Invito ad affiancare le dichiarazioni del procuratore D’Avino, un magistrato che non soltanto rispetta il dettato normativo ma dimostra di apprezzarlo e di metterlo in pratica proprio perché convinto che corrisponda a dei principi costituzionali, con quelle di un altro magistrato che recentemente ha sfottuto le regole sulla presunzione di innocenza”. Il riferimento è al fatto che proprio qualche giorno fa il procuratore di Napoli Nicola Gratteri, durante una conferenza stampa convocata per illustrare una maxi operazione antidroga, ha detto, ironizzando, per l’ennesima volta, sulla legge di recepimento della direttiva europea: “L’indagine è la dimostrazione tecnico-giuridica dell’esistenza di un’associazione a delinquere dedita al traffico di stupefacenti, di un’associazione a delinquere di stampo mafioso e di tutta quella serie di reati fine tipici di un’associazione mafiosa, quali estorsione, traffico di droga, riciclaggio e autoriciclaggio. Quindi questa notte abbiamo arrestato trentadue presunti innocenti”. Questo, per Costa, dimostra come vi sia “una stragrande maggioranza di magistrati che svolge il proprio lavoro nel riserbo dovuto alla fase delle indagini, e una minoranza insofferente a queste regole. Perciò sarebbe utile, anche per la formazione dei magistrati, che il comunicato del procuratore di Parma venisse affisso nelle aule della loro Scuola”. Inoltre, sottolinea il parlamentare, “se fossi una delle persone, presunta innocente, interessata dalle indagini della Procura di Napoli, non accetterei di, come dire, subire frasi ironiche. I pm hanno il grande potere di chiedere gli arresti e i giudici di disporli, ma nessuno ha il diritto di svilire un principio costituzionale”. Fu proprio grazie a Costa che due anni fa alla Camera venne approvato un ordine del giorno che impegnava il governo a far svolgere dall’Ispettorato generale del ministero della Giustizia un monitoraggio degli atti motivati dei procuratori capo circa l’esistenza dell’interesse pubblico che deve giustificare, per legge, la convocazione di conferenze stampa e comunicati degli organi inquirenti. “Il governo, a una mia interrogazione, ha risposto che il monitoraggio è stato avviato, e che erano iniziate anche alcune azioni disciplinari, ma bisognerebbe vedere al Csm quale esito hanno avuto. Non dimentichiamo che la legge delega 71 del 2022, la riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario, ha disposto la modifica dell’articolo 2, comma 1, lettera v), del decreto legislativo 109 del 2006, inserendo tra gli illeciti disciplinari la violazione delle norme sulla presunzione d’innocenza. Comunque è evidente che un monitoraggio deve essere non soltanto portato avanti con costanza ma anche reso noto negli esiti, senza additare le singole Procure ma almeno evidenziando quanti abbiano violato la norma e perché”. A proposito di norme sulla presunzione d’innocenza, domani inizia l’esame, nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato, del decreto legislativo approvato a inizio settembre dal Consiglio dei ministri che prevede il divieto di pubblicare l’ordinanza di custodia cautelare, proposto sempre da Costa. Un provvedimento che passerà senza problemi: il Parlamento esprime un parere non vincolante, e la maggioranza su questo è compatta. “Le tutele per gli indagati? Inutili se chi le ignora non è sanzionato” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 settembre 2024 Dell’esemplare comunicato stampa del procuratore di Parma Alfonso D’Avino sul caso dei neonati trovati uccisi a Traversetolo, parliamo con il professore, e avvocato, Vittorio Manes. ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna, il cui libro Giustizia Mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo (Il Mulino, 2022) è stato definito, dallo stesso D’Avino, illuminante a proposito dei devastanti effetti causati dal processo mediatico “parallelo a quello giudiziario”. Finalmente un pm che denuncia le conseguenze negative del processo mediatico. A fronte, oltretutto, di un pur grave e raccapricciante reato... Mi pare davvero apprezzabile il comunicato del procuratore di Parma, dottor D’Avino, sia per la particolare autorevolezza della fonte che per le circostanze di contesto, vista la gravità della vicenda e la difficoltà di arginare le crescenti richieste di informazioni: dimostra una rara sensibilità per i valori in gioco, e per le ricadute devastanti che la sovraesposizione mediatica può avere per le indagini e, soprattutto, per i diritti fondamentali delle persone coinvolte. Ha notato anche lei, da alcune espressioni del procuratore, che è consapevole di essere “spiazzante” rispetto alle aspettative ormai inevitabili dell’opinione pubblica? Certo, è un comunicato sorprendente e spiazzante, come lei lo definisce, rispetto alle attese, perché dal loro canto giornali e media reclamano, comprensibilmente, il diritto di cronaca. Ma il dovere di informare e il diritto dei cittadini di essere informati non sono valori assoluti, al cospetto dei quali possano essere dimenticati e calpestati gli ulteriori valori, parimenti importanti, che stanno sull’altro piatto della bilancia: altrimenti gli uni diventano diritti tirannici, e gli altri si riducono a garanzie di carta, o a semplici paper rules. Tra i valori contrapposti, come appunto evidenzia il comunicato, si staglia in primo piano la presunzione di innocenza, principio e valore che rischia di essere annichilito dalla spettacolarizzazione mediatica delle indagini, trasformando l’indagato in un presunto colpevole, o in un colpevole in attesa di giudizio... Una rappresentazione che in casi di reati gravissimi come quello di cui si sta parlando finisce col trasformare l’indagato in un autentico mostro agli occhi dell’opinione pubblica, distruggendone irrimediabilmente l’immagine pubblica e privata: se è così, deve essere tanto più condivisa e apprezzata, dunque, la particolare cautela che ha ispirato l’iniziativa del procuratore di Parma, orientata a evitare di produrre effetti informativi che, per la posizione dei soggetti coinvolti, sarebbero sostanzialmente irreversibili. È interessante anche il fatto che D’Avino citi il suo libro, professore: il procuratore sembra così riconoscere che la funzione di un magistrato non è “onnipotente”, e che è importante tener conto dei contributi offerti da altri giuristi... Al di là della citazione personale, è sicuramente apprezzabile che un magistrato si confronti con le opinioni degli esperti e degli studiosi, della “dottrina”, perché solo dalla considerazione, dal rispetto e dal confronto critico con le posizioni altrui può svilupparsi una comune sensibilità per i valori sul tappeto. Del resto, dovrebbe essere chiaro che tutti gli attori che partecipano o osservano il processo penale contribuiscono paritariamente alla amministrazione della giustizia, a prescindere dalla appartenenza alla magistratura, al foro o all’accademia: avere cioè la consapevolezza che la giustizia, come scrisse Balzac, dipende essenzialmente dalle azioni di tutti i protagonisti di quella pièce giudiziaria che è il processo. Ciò significa che il dialogo tra i diversi attori, all’interno della “comunità degli interpreti”, è un metodo necessitato, imprescindibile, per individuare i problemi e per rintracciare possibili soluzioni. L’iniziativa del procuratore D’Avino sembra confermare quanto fosse opportuno recepire la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza… Il recepimento della direttiva europea sul rafforzamento della presunzione di innocenza è stato un primo passo, significativo ma certo non risolutivo, e come tutti i provvedimenti normativi presenta criticità e margini di miglioramento. Ha però evidenziato l’urgenza del problema, dando inizio a una “profilassi” che deve essere ancora sviluppata compiutamente, anche e anzitutto sul piano culturale: e anche da questa angolatura mi pare apprezzabile il comunicato, perché si sforza di promuovere un diverso atteggiamento culturale, “sensibile” ai valori in gioco. Il comunicato termina annunciando che “vi è stata l’apertura di un fascicolo per possibile violazione del segreto di indagine”. Si tratta anche qui di un’iniziativa isolata, perché, pur venendo violato il segreto in altre Procure, non si indaga mai sulla fuga di notizie…. Vero. La repressione sanzionatoria, a mio avviso, non è mai una soluzione convincente, ma un divieto sistematicamente lasciato privo di sanzione mina la stessa credibilità del precetto, ingenerando la convinzione che sia sostanzialmente “ammesso” trasgredire il segreto istruttorio, con effetti fortemente negativi sulla efficacia delle stesse indagini. Secondo lei cosa occorre fare per invertire la rotta di un processo mediatico parallelo in cui stampa e magistratura si dividono le responsabilità? È un problema complesso, che ha una dimensione anzitutto culturale, e come tale non credo che vi sia una qualche misura terapeutica, o una qualche soluzione legislativa, che possa risolverlo: serve piuttosto una diversa sensibilità e una rinnovata consapevolezza, da parte di tutti gli attori, della estrema vulnerabilità e “deperibilità” di valori come la presunzione di innocenza o il rispetto della vita privata e familiare, e tutti dovrebbero contribuire a un’informazione rights- sensitive, sensibile, attenta e rispettosa dei diritti in gioco. Perché, ad esempio, non pensare a un percorso di formazione specialistica e di “professionalizzazione” per il giornalista che si occupa di cronaca giudiziaria? E a un sistema di incentivi, o di disincentivi, per i giornali o i media che dimostrano di offrire sempre una informazione giudiziaria rispettosa dei valori in gioco, evitando toni sensazionalistici, espressioni o aggettivazioni colpevoliste, forme di spettacolarizzazione tanto gratuite quanto pregiudizievoli per gli interessati? Bisogna anche ammettere però, e vari casi di cronaca lo confermano, che, come scrive lei, “quando l’avvocato si presta a questo gioco (al processo mediatico, ndr) lo fa a suo rischio e pericolo, perché difficilmente governerà le correnti di opinione che si agitano nel vortice mediatico, dove il passo dai Campi Elisi alle paludi dello Stige può essere davvero breve”... Questa è la tentazione in cui può cadere l’avvocato, quando cede alle lusinghe della ricerca di visibilità, senza avvedersi che il torrente mediatico rischia sempre di travolgere chi lo alimenta e pensa magari di governarlo, finendo invece per pregiudicare anche la posizione del proprio assistito. Sempre meglio attenersi a una comunicazione sobria, ed essenziale, e solo ove ciò sia davvero necessario per indirizzare una informazione corretta sull’evoluzione della vicenda o per correggere eventuali notizie distorte e pregiudizievoli per l’assistito. “Direttori di Giustizia, l’obiettivo del ministero è valorizzare le risorse” di Errico Novi Il Dubbio, 18 settembre 2024 Sulla vertenza con gli amministrativi interviene il vertice del Dipartimento organizzazione giudiziaria del dicastero di Nordio. In teoria, fra i “direttori di Giustizia” e via Arenula sarebbe tuttora aperto un confronto sindacale, riconducibile alla più generale concertazione sul contratto integrativo e per la definizione delle “nuove famiglie professionali”. In pratica, i dipendenti amministrativi hanno preferito non attendere gli esiti del “tavolo” e manifestare, lo scorso 10 settembre, davanti alla sede della Cassazione, dove hanno anche proclamato una vera e propria giornata di sciopero per dopodomani. Ne parliamo con Gaetano Campo, che nel dicastero guidato da Carlo Nordio è a capo del Dog, il dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi. Rispetto alla polemica con i direttori, che va avanti da diversi giorni, qual è, a questo punto, la posizione del ministero? Conviene partire da alcuni punti fermi e indiscutibili, per evitare letture superficiali, a volte strumentali, della questione. Già l’attuale ordinamento professionale colloca i direttori all’interno della terza area, la stessa dei funzionari. Il contratto nazionale del comparto funzioni centrali 2019/ 2021, che ridisegna le famiglie professionali, conferma questa collocazione. Lo afferma chiaramente la tabella di trasposizione nel nuovo ordinamento professionale dei precedenti inquadramenti, richiamata dall’articolo 18 del contratto. Non si tratta quindi di scelte dell’amministrazione, men che meno unilaterali, ma della disciplina dettata dal contratto collettivo nazionale. E qual è lo stato del confronto sul contratto integrativo? Il contratto integrativo ha lo scopo di calare nell’amministrazione della giustizia l’ordinamento professionale individuato in via generale, per tutte le amministrazioni centrali, dal contratto 2019/ 2021. Il ministero è da tempo impegnato in un confronto con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, le uniche legittimate a trattare. È il tavolo di trattativa sindacale il luogo nel quale dovranno essere scritti il contratto integrativo e il nuovo ordinamento professionale. Non ci sono quindi decisioni dell’amministrazione, ma solo proposte che si confrontano con quelle dei sindacati. I direttori chiedono di essere inseriti nell’area delle elevate professionalità. È una richiesta fondata? L’area delle elevate professionalità è riservata a profili di particolare competenza e responsabilità, che ogni amministrazione deve individuare in base alle proprie specifiche esigenze. Si tratta di incarichi che hanno natura temporanea, non superiore a tre anni, e la durata va ovviamente commisurata ai contenuti dell’incarico. Per dare concretezza al discorso, in un’amministrazione come la nostra, caratterizzata da un accelerato e costante processo di digitalizzazione e dalle prospettive di un decentramento amministrativo iniziato con la costituzione degli uffici periferici per la gestione di beni e servizi, l’area delle elevate professionalità va riservata anche a profili e competenze professionali di carattere tecnico e non solo amministrativo. Quindi quali sono le modalità di accesso a quest’area? Il contratto nazionale esclude modalità di accesso automatico e prevede, come per tutti i casi di passaggio a un’area superiore, procedure selettive fondate su requisiti costituiti in questo caso dal possesso di laurea magistrale e delle peculiari competenze richieste dalla natura dell’incarico. L’accesso, e questo aspetto va sottolineato per escludere qualsiasi fraintendimento, è riservato a tutti i dipendenti inquadrati nella terza area, quindi non solo ai direttori, ma anche ai funzionari, purché in possesso dei requisiti previsti. I direttori lamentano una loro dequalificazione professionale… on vi è alcuna dequalificazione professionale dei direttori, né sotto il profilo dell’inquadramento, che è quello previsto dal contratto nazionale, né su quello del contenuto dei compiti svolti. Una lettura non capziosa né strumentale della proposta dell’amministrazione conferma che la descrizione delle mansioni si pone nel solco dei contenuti e del ruolo di questa figura all’interno dell’organizzazione amministrativa. Non c’è alcuna volontà dell’amministrazione di svalutare o mortificare le professionalità esistenti. Anzi, l’intenzione è all’opposto quella di sviluppare una maggiore professionalizzazione del proprio personale, adeguata alle sfide lanciate dai profondi cambiamenti in atto. Ma qual è via d’uscita dall’attuale situazione di contrasto? In realtà il contratto collettivo individua lo strumento di valorizzazione dei compiti di organizzazione e coordinamento all’interno degli uffici. Si tratta delle posizioni organizzative, che individuano proprio incarichi a termine di natura organizzativa o professionale che, pur rientrando nell’ambito delle funzioni di appartenenza, richiedano lo svolgimento di compiti di maggiore responsabilità e professionalità. L’impegno del ministero è proprio nel senso di reperire risorse adeguate alla realizzazione di questo obiettivo. È possibile l’estensione delle politiche dell’amministrazione in materia di personale? Il contratto integrativo rappresenta un passaggio importante per delineare l’ordinamento professionale dell’amministrazione della giustizia dei prossimi anni. Dobbiamo pensare che l’ultimo contratto integrativo risale al 2010, e che da allora i modelli organizzativi sono profondamente mutati. In questo senso, il Pnrr sta costituendo un fattore di forte accelerazione di questa trasformazione. Stiamo assistendo all’inserimento di nuove professionalità, gli addetti all’ufficio per il processo, in generale il personale tecnico, la cui presenza negli uffici giudiziari sta già determinando un cambiamento dei modelli organizzativi precedenti. L’amministrazione è attenta a questi cambiamenti, tanto da avere ottenuto, in sede di rinegoziazione del Piano, la proroga al 30 giugno 2026 del personale assunto a tempo determinato e da aver posto le basi normative per la loro futura stabilizzazione al termine del Piano. L’attenzione dell’amministrazione per il personale amministrativo è provata dai numerosi accordi sindacali perfezionati in questi due anni. Sono ben undici gli accordi conclusi, sono stati sbloccati i fondi per la retribuzione accessoria fermi al 2019, ed entro il mese di ottobre verranno perfezionati gli accordi per il 2023 e il 2024, così come sono state attuate le procedure di riqualificazione e progressione del personale, anch’esse ferme dal 2019. Il confronto con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative di tutto il personale è in questo quadro fondamentale. La rappresentatività sindacale sicuramente costituisce per l’amministrazione un elemento di razionalizzazione del confronto, ma, soprattutto, costituisce un valore per i dipendenti. Il microcorporativismo porta a un conflitto interno al mondo del lavoro, mettendo gli uni contro gli altri, e offusca una visione d’insieme dell’organizzazione, al cui interno ogni professionalità contribuisce per la propria parte alla realizzazione degli obiettivi generali di efficienza del servizio reso alla collettività. Aggressioni a medici e infermieri: diventa possibile l’arresto in flagranza differita di Paolo Russo La Stampa, 18 settembre 2024 Nel 2023, secondo un Report del ministero della Salute, le aggressioni fisiche e verbali verso i sanitari sono state 16mila, una media di 40 al giorno. Così, la decisione di anticipare la stretta, dopo un vertice a Palazzo Chigi. Le aggressioni a medici e infermieri si moltiplicano di giorno in giorno e così il Governo ha deciso si stringere i tempi varando la stretta verso chi alza le mani contro il personale sanitario con il veicolo più veloce a disposizione: il decreto omnibus varato ad agosto che dovrà essere convertito in legge entro l’8 ottobre prossimo. La decisione di velocizzare l’arresto in “flagranza differita” è stata presa nel corso del vertice di stamattina a Palazzo Chigi tra il ministro della Salute, Orazio Schillaci, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano e i ministri per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, della Giustizia, Carlo Nordio, dell’Interno, Matteo Piantedosi. Un incontro al termine del quale l’Esecutivo ha voluto rimarcare con una nota l’impegno già profuso per la sicurezza delle strutture sanitarie, ricordando che “sono 198 i presidi di polizia attivi nelle strutture ospedaliere del territorio nazionale, a fronte dei 126 preesistenti. In particolare, dall’inizio del 2023 si è registrato un incremento di 72 presidi, pari al +57,1%. Parallelamente è aumentato anche il numero degli operatori della Polizia di Stato impiegati, passati dai 299 iniziali agli attuali 432, pari al +69,2%. È stato assicurato, altresì, l’ampliamento delle fasce orarie giornaliere di apertura dei suddetti presidi”, conclude la stessa nota. Ma che la presenza di poliziotti e vigilantes non basti lo sanno bene anche Schillaci e i rappresentati di medici e infermieri, tant’è che per chi si macchia di aggressioni nei loro confronti da ottobre scatterà il cosiddetto “arresto in flagranza differita”. In pratica basteranno le immagini inequivocabili di un video di sorveglianza o persino una foto o un filmato realizzati con lo smartphone per far scattare l’arresto anche a distanza di 48 ore dai fatti. Basterà invece un provvedimento amministrativo, come ad esempio una circolare, per varare l’altra misura preannunciata da Schillaci, quella che istituisce un filtro in ingresso negli ospedali per gli accompagnatori, che potrà essere al massino uno se il paziente non è autosufficiente. Questo perché nella maggioranza dei casi le violenze vengono perpetrate da gruppi di pareti e amici, come nel caso dell’assalto all’ospedale di Foggia che ha fatto traboccare un vaso già all’orlo. Perché nel 2023, secondo un Report del ministero della Salute, le aggressioni fisiche e verbali verso i sanitari sono state ben 16mila, una media di 40 al giorno. E i numeri sono in crescita: +38% negli ultimi 5 anni, documenta la Società italiana di chirurgia, che punta però l’indice contro la carenza di personale. Intanto il governo pensa ad un altra mossa per arginare la fuga di medici e infermieri dalla sanità pubblica, alimentata non solo dalle aggressioni fisiche ma anche da quelle legali, spesso temerarie, ma che mettono i sanitari sulla difensiva. Magari facendo loro prescrivere anche quel che non serve per mettersi preventivamente al sicuro. Probabilmente con il milleproroghe di fine anno verrà prorogato fino alla riforma della responsabilità medica lo scudo legale che protegge solo fino alla fine del 2024 i camici bianchi dal ricorso alle aule dei tribunali, salvo che per i casi di dolo e colpa grave. Io, in aula per Giulio Regeni, chiedo verità e giustizia di Elena Cattaneo* La Stampa, 18 settembre 2024 Domani riprenderà a Roma il processo per l’omicidio di Giulio Regeni. Un processo eccezionale già dalle motivazioni della sentenza con cui la Corte costituzionale ne ha permesso lo svolgimento nonostante l’impossibilità di notificare il procedimento agli imputati, i quattro agenti della sicurezza nazionale egiziana rinviati a giudizio per avere, a vario titolo, sequestrato, torturato e poi brutalmente ucciso Giulio. Ed è stato proprio per accertare il reato universale di tortura che il procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi, ha dato impulso alla questione di legittimità costituzionale dell’articolo 420bis del codice penale che impediva lo svolgimento del processo in assenza dell’imputato. A seguito della sentenza, in Italia non è più ammessa quell’odiosa forma di impunità per i delitti di tortura commessi da agenti pubblici protetti dalla mancata cooperazione dello Stato di appartenenza. La Consulta ha chiarito che non è accettabile - per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale - lasciare una “zona franca” di impunità per i cittadini-funzionari imputati di atti di tortura. Diversamente, si finirebbe con l’offendere i diritti inviolabili della vittima, il principio di ragionevolezza e gli standard di tutela dei diritti umani recepiti e promossi dalla Convenzione di New York contro la tortura. Lo scrive la Corte, ma è anche un lascito di civiltà giuridica e umanità che dobbiamo a Giulio. I genitori, Paola e Claudio, saranno come sempre in aula, immancabili e tenaci, con le spille gialle che chiedono “verità per Giulio”. Accanto a loro, l’instancabile avvocata Alessandra Ballerini. Nel mese di luglio, anch’io ho scelto di assistere a una delle udienze, innanzitutto perché ritengo istituzionalmente doveroso mantenere alta l’attenzione sul processo e garantire una vicinanza a questa famiglia che da anni sta tentando di ristabilire uno dei principi su cui si basa la nostra democrazia, vale a dire la libertà di ricerca (anche della verità storica), di studio, di movimento. Ma l’ho fatto anche perché ho sempre avuto ben impresse nella mente le parole di Giulio nel video fatto a sua insaputa dal capo del sindacato degli ambulanti e diffuso dopo la sua tragica uccisione. In quella registrazione lo si sente dire: “Sono un accademico; sono un ricercatore e mi interessa procedere nella mia ricerca; non ho altri interessi”. Nel pronunciare quelle parole, Giulio stava difendendo i valori di onestà e indipendenza senza i quali non potrebbe esistere la ricerca scientifica. Partecipare a quell’udienza ha confermato l’idea che avevo di lui: un ricercatore curioso e determinato, sinceramente appassionato dei suoi studi. Mi è stato chiaro sia ascoltando i racconti di Giulio bambino, poi ragazzo, dalla voce della madre Paola, sia grazie alla testimonianza del comandante del Reparto Anticrimine dei Carabinieri Onofrio Panebianco (all’epoca colonnello dei ROS) che, nel riportare al pm Sergio Colaiocco intercettazioni telefoniche e documenti utili a ricostruire i fatti avvenuti nei giorni precedenti il sequestro, ha letto una mail che Giulio Regeni aveva inviato a Gennaro Gervasio, suo amico e allora docente alla British University del Cairo. Nella mail, Giulio commenta un film che avevano visto insieme qualche giorno prima. Il comandante Panebianco non riferisce il titolo ma riassume la trama: il film raccontava la storia di un gruppo di operai di un distretto del Cairo e riguardava il tema dei diritti dei lavoratori. “Un film impegnato”, ha precisato e poi, riflettendo sullo scambio di valutazioni tra Giulio e l’amico, aggiungeva: “non stiamo parlando di ragazzini… queste persone parlano di cose, da un punto di vista culturale, molto elevate”. Nel testo del messaggio, letto in aula dal comandante, Giulio parlava di parallelismi storici, condivideva le sue riflessioni sul marxismo, citava gli autori della letteratura sulla rivoluzione. Panebianco, colpito dalla profondità del pensiero di Giulio, ha concluso: “si vede che stanno parlando due accademici”. Impossibile rimanere indifferenti a quelle parole che descrivono Giulio in modo diverso da quello in cui siamo stati abituati a ricordarlo, cioè “solo” come la vittima innocente di una brutalità di stato cieca e insensata. Quelle parole riconoscono in Giulio l’accademico, lo studente appassionato che era arrivato al Cairo con un’idea, tradotta in un progetto di ricerca sugli ambulanti egiziani e con l’ambizione di poterlo portare avanti, vincendo, in competizione con altri, i fondi che gli avrebbero permesso di proseguire nelle sue ricerche. Giulio lo studioso, che era andato sul campo, tra la gente, che non aveva percepito il pericolo tanto era concentrato su ciò che voleva scoprire, convinto -come immagino ogni ricercatore - che i risultati di quel suo studio avrebbero portato dei vantaggi a tutti, permettendo di conoscere e comprendere una realtà sociale complessa e lontana dal nostro “fortunato” Occidente. Magari avrebbero comportato una denuncia, un cambiamento. E, perché no, la conquista di nuovi diritti. Chi decide di dedicare la propria vita alla ricerca sa bene che si tratta di un impegno senza fine, senza tempo, fino al raggiungimento di un nuovo traguardo di conoscenza. Facciamo in modo che sia senza fine anche il sostegno della comunità accademica, delle istituzioni e della società tutta, per Paola e Claudio e per la loro ricerca di verità e giustizia per Giulio. Il traguardo, una volta raggiunto, sarà di verità e giustizia anche per noi. *Docente della Statale di Milano e Senatrice a vita Emilia Romagna. Il Garante: “Allarme sovraffollamento, da inizio anno situazione aggravata” ravennawebtv.it, 18 settembre 2024 Al 30 giugno scorso nelle strutture emiliano-romagnole erano rinchiuse oltre 3.700 persone, 750 in più rispetto alla capienza massima. Il sovraffollamento si associa a problemi di patologie psichiche, tubercolosi, violenza e suicidi: sono 5 i detenuti che si sono tolti la vita nel 2023 e quest’anno sono già sei i morti, fra cui due giovanissimi. In un’intervista a On ER, il giornale dell’Emilia-Romagna, il settimanale televisivo dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, il Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri ha parlato del problema del sovraffollamento, che ormai interessa tutte le carceri della regione, delle proteste dei detenuti per le difficili condizioni in cui sono costretti a vivere, dell’aumento dei suicidi, delle difficoltà per un vero reinserimento lavorativo dopo la detenzione. E ha parlato anche del “Codice ristretto”, un vademecum che spiega a chi vive in carcere quali sono i propri diritti. Informazioni di cui quasi nessun detenuto è in possesso. Nelle carceri dell’Emilia-Romagna vivono oggi 167 donne, mentre i detenuti stranieri sono più di 1800. Del totale, in 2.600 stanno scontando la pena frutto di una sentenza definitiva, mentre 1.125 sono in custodia cautelare o in attesa di giudizio. In aumento anche il numero dei detenuti con meno di 25 anni. Uno dei principali problemi, poi, è la mancanza di lavoro: sui quasi 3.800 detenuti, ogni giorno 900 persone fanno ‘lavoretti’ all’interno delle strutture come le pulizie, aiuto cuoco, piccoli interventi di manutenzione, gestione della spesa. Ma, se si calcolano i detenuti realmente alle dipendenze di vere e proprie aziende, il numero cala drasticamente del 75%, arrivando a poco più di 150 persone, di cui nemmeno 10 sono donne. Il sistema quindi ha iniziato a collaborare con la comunità Papa Giovanni XXIII di Rimini, fondata da don Oreste Benzi. L’associazione si occupa di reinserire i detenuti nel mondo del lavoro, permettendo loro di vivere in vere e proprie comunità dove imparano un mestiere. Ariano Irpino (Av). Detenuto suicida in cella: i pm aprono un’inchiesta sul decesso di Katiuscia Guarino Il Mattino, 18 settembre 2024 È stato trovato impiccato nella cella di isolamento dove era stato trasferito. Si chiamava John Ogais, il detenuto nigeriano di 32 anni che l’altra sera si è tolto la vita nel carcere di Ariano Irpino dopo aver appiccato il fuoco nella cella e aggredito quattro agenti. È stato trovato impiccato nella cella di isolamento dove era stato trasferito in seguito ai disordini causati il giorno prima. Inutili i tentativi di soccorso dei poliziotti. La salma si trova presso l’obitorio dell’ospedale di Ariano Irpino, in attesa di disposizioni da parte della Procura della Repubblica di Benevento che ha aperto un’inchiesta sul decesso. Roma. Il dramma di Regina Coeli: “Detenuti 23 ore in cella. La VII sezione va chiusa” di Edoardo Iacolucci lacapitale.it, 18 settembre 2024 Il suicidio del detenuto 50enne ha fatto riemergere la necessità della chiusura della VII sezione di Regina Coeli. Un carcere nato come convento e inadatto, per architettura e sovraffollamento, ad una vita decorosa al suo interno. Il suicidio a Regina Coeli di uomo di 50 anni, trovato impiccato nella sua cella, è stato il secondo in 12 ore, il 72esimo dall’inizio dell’anno in Italia, il terzo dall’inizio 2024 nel carcere romano. Un tragico episodio che ha scatenato le dure reazioni nel mondo della politica e dell’associazionismo. Tutti concordi con la necessità della chiusura della settima sezione di Regina Coeli. Il carcere di Regina Coeli non è infatti un luogo nato per accogliere detenuti, né in via definitiva né in attesa di giudizio. La struttura sorge nel Seicento, sotto papa Urbano VIII, ma i lavori furono interrotti alla sua morte e ripresi dal suo successore, Innocenzo X. Ed è un convento. Nel periodo napoleonico, dal 1810-1814, il convento viene confiscato e dopo l’unità d’Italia, nel 1873, le monache carmelitane lo abbandonano definitivamente. È solo a fine Ottocento, con l’acquisito dell’edificio adiacente, che la struttura diventa un carcere, il carcere femminile delle Mantellate. È quindi l’architettura, oltre al sovraffollamento, ad creare questa complessa e ormai insostenibile situazione. Condizioni che emergono in tutta la sua tragicità nella famigerata settima sezione. Celle piccole e bagni senza intimità: “Condizioni pessime” - “A Regina Coeli detenuti 23 ore chiusi in cella Terzo suicidio del 2024 a Regina Coeli, tutti nella settima sezione che va chiusa immediatamente - ha commentato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone -. La situazione della settima sezione del carcere di Regina Coeli non può essere più tollerata. I tre suicidi di questi ultimi mesi sono il segnale più evidente di problematiche che al momento non è possibile risolvere e per cui l’unica soluzione è la chiusura immediata della sezione”. La VII sezione del carcere romano di via della Lungara “è allo stesso tempo - spiega Gonnella - una sezione di ingresso, di transito, disciplinare, di isolamento sanitario. Le persone qui recluse restano in cella per 23 ore al giorno in una condizione che di dignitoso non ha nulla”. Da quanto è emerso dalle visite a Regina Coeli, in questa sezione le celle sono molto piccole, ospitano 2 o 3 persone su un unico letto a castello. Il wc e il lavandino si trovano in una piccola stanza adiacente e senza alcuna intimità. Gonnella continua: “Le finestre sono più piccole che nelle altre sezioni e dotate di celosie, il che non consente all’aria di circolare e riduce l’ingresso della luce naturale”. Inoltre secondo l’osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione, “a causa del sovraffollamento nel carcere romano nel secondo e nel terzo piano della sezione le aule ricreative sono state trasformate in celle e le condizioni igienico sanitarie della sezione sono pessime”. Assessore Catarci: “Situazione insostenibile” - Sul tragico evento si è espresso anche l’assessore alle Politiche del Personale del Comune di Roma Andrea Catarci: “Si registra il terzo suicidio dall’inizio dell’anno, avvenuto ancora una volta nella VII sezione. Esprimiamo profonda preoccupazione per una situazione divenuta esplosiva e ormai insostenibile”. L’assessore Catarci si associa all’appello della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale capitolina Valentina Calderone per la chiusura immediata della VII sezione. Anastasìa e Calderone: “Il Governo faccia qualcosa contro il sovraffollamento” - “In attesa che il Governo finalmente faccia qualcosa contro il sovraffollamento - hanno sottolineato il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive del Lazio, Stefano Anastasìa, e la Garante delle persone private della libertà personale del Campidoglio, Valentina Calderone -, che è certamente concausa di questa terribile sequenza di suicidi (oggi a Regina Coeli ci sono 1168 detenuti per 626 posti regolamentari effettivamente disponibili), torniamo a chiedere la chiusura della VII sezione e la riorganizzazione a Regina Coeli di una sezione di accoglienza degna di questo nome, cui dare spazi e personale qualificato per la prevenzione del rischio suicidario”. Ilaria Cucchi (Avs): “La VII sezione di Regina Coeli va chiusa” - “Ancora un tragico suicidio nel carcere di Regina Coeli, il terzo dall’inizio dell’anno nella famigerata VII sezione, un reparto disumano che deve essere immediatamente chiuso, così come chiediamo da tempo. È inaccettabile - scrive in una nota la senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi - che si continui a ignorare l’urgenza di un intervento drastico e risolutivo. Il problema principale nelle carceri resta il sovraffollamento, che nel Lazio raggiunge il 180 per cento, tra i più alti in Italia. Questa situazione è indegna in uno Stato di diritto: servono spazi adeguati e, soprattutto, personale qualificato per prevenire tragedie come questa”. Cuneo. “Pestaggi, taser e insulti razzisti in carcere”. Sospesi dal servizio i due principali indagati di Elisa Sola La Stampa, 18 settembre 2024 I verbali dei detenuti nell’inchiesta che già conta 33 indagati. Gli agenti intercettati: “Quella notte li hanno portati tutti giù e bum bum bum”. “Era il mese del Ramadan. Io stavo facendo digiuno, gli altri no. Ho chiesto di essere trasferito in un’altra cella. Nel casellario mi hanno fatto spogliare. Quando ero nudo mi hanno colpito con un oggetto di metallo che mi hanno passato per tutto il corpo. Uno mi insultava in dialetto napoletano. Minacciava di morte mia madre. Diceva che mi avrebbe ucciso, se fosse successo un’altra volta. Ma io avevo solo chiesto di potere andare in una cella diversa per fare il Ramadan”. Carcere di Cuneo, 5 aprile 2022. Zakaria è uno dei dieci detenuti puniti per avere osato chiedere qualcosa. Nel suo caso, di pregare in pace. Quel giorno erano in cinque. “Una guardia colpiva e le altre guardavano. Non so dire con cosa mi hanno picchiato. Ho sentito una scossa elettrica. Ma non ho visto bene quella cosa. Io la chiamo la pistola luce. Fa una scossa strana”. Non era la prima volta che i poliziotti infliggevano a Zakaria il trattamento del taser. Era già successo il 27 dicembre 2021. Anche quella volta era nudo. Solo che, il 5 aprile, qualcuno ci ha preso troppo la mano, col taser. Perché Zakaria, scrive il medico legale, è svenuto nella cella di isolamento. Troppe scosse. O troppo forti. “Ha riportato una ferita di otto centimetri, necessario il ricovero urgente in ospedale con prognosi di 30 giorni”, ha scritto il medico legale. Zakaria non ha più pregato nel carcere di Cuneo. Quando è finito il Ramadan non era ancora stato dimesso. La lista può allungarsi - Non è l’unico. Ma uno dei dieci detenuti che a Cuneo hanno, secondo la procura, subito torture. La lista potrebbe allungarsi. Il reato è stato riconosciuto anche dal gip di Cuneo, che nei giorni scorsi, accogliendo alcune delle richieste del procuratore Onelio Dodero, ha ordinato la misura della sospensione dal servizio - per dodici mesi e dieci mesi - nei confronti di due indagati, l’assistente capo R.R., difeso dall’avvocato Leonardo Roberi e l’ispettore G.V., assistito dal legale Antonio Mencobello. Gli indagati non sono solo due. Ma trentatré. Potrebbero aumentare. L’inchiesta è ancora aperta. “Mentre mi colpivano con la scossa gli altri agenti ridevano. Credo fossero ubriachi. Sentivo un forte odore di alcol. Per noi è risaputo che bevano. Un mio amico che fa le pulizie toglie sempre le lattine di birra e le bottiglie di vino in sala video”, denuncia Zakaria. Gli agenti indagati, scrive la gip, “hanno agito con crudeltà cagionando violenze fisiche e psicologiche”. Non c’era pietà nemmeno per le persone disabili nell’ennesimo carcere piemontese - dopo quelli di Torino, Ivrea, e Biella - finito nel mirino degli inquirenti per presunte torture. C’è un verbale del novembre 2021 dove viene descritta una scena che rende l’idea della “crudeltà”. “Un detenuto disabile con protesi a entrambi gli arti inferiori, dopo una notte in isolamento, viene trascinato giù lungo il corridoio”. I poliziotti, per riportarlo in cella, lo fanno strisciare per terra. “Ci trattavano come animali”, dicono le vittime. Un mese prima un altro detenuto, dopo una discussione con i compagni nel campo di calcio, viene picchiato mentre viene portato in isolamento. Ed è così disperato che si taglia le braccia davanti a tutti. Anche lui finisce in ospedale. Non c’era un motivo preciso per essere picchiati. “Io ti rompo il culo. Devi comportarti come si deve. Se ti comporti come si deve, vieni trattato come si deve”. È una delle frasi degli agenti riportate nell’ordinanza di centocinquanta pagine. Un terzo di queste raccontano quella che ormai, per le vittime, è diventata nota come “la notte della mattanza”. Una Diaz del carcere. Tra il 20 e il 21 giugno 2023 nelle celle 416 e 417 cinque detenuti pakistani subiscono un agguato da venti agenti liberi dal servizio e senza divisa. Una perquisizione “illegale e illecita”, scrive la giudice, ideata per “fare capire chi comanda”. “È entrato un poliziotto che noi chiamiamo il brasiliano - ricorda una vittima - e ha detto una sola parola. Buonasera. Noi stavamo andando a dormire. Le luci erano spente. Avevano guanti neri e passamontagna. Ci hanno picchiati in silenzio. Trascinati in infermeria. E qui di nuovo colpiti con calci in faccia, pugni, testate contro il muro. Il medico se ne è andato. Ci gridavano: Pakistani di merda”. Sono stati derisi perché “stranieri”. E puniti, questa la tesi dei pm, perché poche ore prima avevano osato protestare perché uno di loro, che aveva un forte dolore alla gamba, non era stato visitato. Il pestaggio è durato dodici ore. Dalle celle all’infermeria. E da qui alla stanza dell’isolamento. “Eravamo per terra, in mutande, senza materassi, senza lenzuola, senza acqua e senza cibo. Uno di noi ha pianto tutta la notte”. La direttrice del carcere, sentita in procura come teste, ha confermato: “Non ho mai autorizzato alcuna perquisizione né alcun trattamento dell’isolamento quella notte”. Complimenti a vicenda - “Ci hanno detto che dovevamo renderci conto di quello che potevamo fare oppure no”, ricorda un detenuto. “E a me e a un altro di tagliarci i baffi e i capelli. Se non lo avessimo fatto, avremmo ricevuto un’altra razione di botte”. La notte della mattanza per gli agenti indagati ha fatto storia. Traditi dalle intercettazioni, si dicono, il 3 luglio 2023: “Perché quello ha la mano rotta? Ah ho capito quando è successo: durante la fila indiana”. In un altro dialogo si complimentano a vicenda: “Robi mi ha detto, per fortuna che è arrivata gente valida, se no una cosa del genere magari non sarebbe riuscita così”. Un altro poliziotto, il 4 ottobre 2023, si lascia scappare una confidenza: “Li hanno portati tutti giù. Bum, bum. Bum”. Torino. Torture in carcere, parlano le vittime: “Clima ostile e violento, gli insulti erano routine” di ludovica lopetti La Stampa, 18 settembre 2024 Ventidue agenti della Penitenziaria in servizio al Lo Russo e Cutugno a processo a Torino. “La prima con cui ho parlato è stata l’educatrice. Le ho raccontato delle botte, le ho fatto vedere i lividi sulle ginocchia e sui gomiti. Quando sono uscito gli agenti mi guardavano male e mi parlavano forte. Poi ho parlato con la garante, ma ho alleggerito un po’ il racconto perché avevo molta paura”. Al processo sulle presunte torture inferte dagli agenti ai detenuti del padiglione C del carcere Lo Russo e Cutugno, è il turno delle vittime. Detenuti ed ex detenuti si avvicendano al banco dei testimoni, convocati dal pm Francesco Pelosi che contesta il reato di tortura a 22 poliziotti. Il primo che sale sulla tribuna riconosce il suo presunto aggressore su un album fotografico. “Quando mi picchiavano cercavo di non guardarli in faccia. Ma lui lo riconosco” sussurra in un italiano approssimativo. A verbale aveva detto anche: “Gli agenti si divertono a prendere di mira gli stranieri, quelli che hanno difficoltà con l’italiano. Africani, in particolare”. Per la prima volta a puntare il dito contro le divise (in ascolto al fondo dell’aula) sono le vittime in persona, non un loro confidente. Chi è tornato in libertà parla più liberamente, chi è ancora dentro misura le parole, talvolta ritratta quanto dichiarato anni fa. “Elio (nome di fantasia, ndr) esagerava un po’ i discorsi, è una persona molto instabile e impaurita. Ha molte ossessioni” puntualizza un detenuto che ha cambiato padiglione dopo essersi iscritto all’Università, fine pena 2026. Il riferimento è a un episodio che ricorre nelle domande del pm: una perquisizione in cella nel corso della quale gli agenti avrebbero spruzzato detersivo per piatti sulle lenzuola e sugli abiti del recluso che la occupava. “Secondo me - dichiara il detenuto-studente che vi assistette - la caduta del detersivo fu accidentale. Era parte di quel mettere sottosopra, com’è normale durante una perquisizione”. A deporre c’è anche un ex detenuto di professione medico, già finito sulle pagine di cronaca anni fa in veste di imputato. Ora descrive con lucidità quello a cui ha assistito dietro le sbarre. “Ho visto un recluso tenuto faccia al muro per 30-40 minuti durante l’ora d’aria, con gli agenti che controllavano. Io ero in un gruppetto con altri 3 o 4, ma non ci siamo avvicinati per paura di ritorsioni” dichiara. Parla di un clima ostile e di “disprezzo” da parte dei poliziotti. “Temevamo - prosegue - che per qualunque passo falso avremmo avuto delle conseguenze che ci avrebbero reso la vita ancora più dura. Del resto gli insulti per alcuni di noi erano routine. Espressioni come “pedofilo”, “pezzo di merda” si sprecavano. Molte cose poi non le ricordo, sto cercando di dimenticare cosa succedeva lì dentro”. Per gli stessi addebiti tre poliziotti sono già stati giudicati con il rito abbreviato e in quel filone il reato di tortura è caduto. Il gup a settembre 2023 ha assolto dal favoreggiamento l’ex comandante Giovanni Battista Alberotanza, ha inflitto 300 euro di multa per omessa denuncia all’ex direttore dell’istituto, Luigi Minervini, e 9 mesi più 300 euro di multa per abuso di autorità all’agente Alessandro Apostolico. Bergamo. Giustizia, il grido d’allarme: “Servono risposte da Roma” di Maddalena Berbenni Corriere della Sera, 18 settembre 2024 Magistrati, avvocati e funzionari riuniti allo stesso tavolo. In cima alla lista delle criticità, la mancanza di risorse Commissioni per migliorare l’efficienza degli uffici. Ci sono problemi strutturali, come il nodo aggrovigliatissimo delle risorse sottodimensionate, tema con cui la giustizia fa i conti da decenni e che a Bergamo riguarda praticamente tutti i settori e l’intera gerarchia, dal cancelliere al magistrato. I governi si susseguono, le riforme si sprecano a suon di slogan, ma in piazza Dante e via Borfuro, nel concreto, non si registrano miglioramenti. Poi, ci sono problemi organizzativi più a portata di mano, procedure poco agili e inefficienze che possono apparire banali e che, però, nella migliore delle ipotesi, fanno perdere ore di lavoro agli avvocati. Nella peggiore, precludono diritti al cittadino. Per fare pressioni sui primi e trovare soluzioni ai secondi, ieri pomeriggio, in Sala Galmozzi, si è tenuto il primo tavolo di lavoro permanente che ha riunito tutte le componenti del mondo giustizia. Presenti, il presidente del tribunale Cesare de Sapia e il procuratore aggiunto Maria Cristina Rota (in vece del procuratore Maurizio Romanelli, insediatosi lunedì) e poi il presidente dell’Ordine degli avvocati Giulio Marchesi, il dirigente amministrativo del tribunale Sergio Cammarano, i rappresentanti delle associazioni forensi (dalla Camera penale Roberto Bruni all’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia, dalla Camera civile a quella Tributaria, per citarne alcune), fino a semplici funzionari. “Abbiamo bisogno di essere meglio strutturati”, è la sintesi del presidente de Sapia quando il presidente dell’Ordine degli avvocati introduce la criticità in cima alla lista, quella che riguarda la mancanza di risorse. I giudici di pace sono un terzo rispetto agli organici previsti sulla carta, “nonostante l’aumento di competenze”, sottolinea Marchesi. Manca il 25% di assistenti e cancellieri, cioè fra le 30 e le 35 figure su un totale teorico di 114 persone, a cui si sommano chi si prende periodi di aspettativa, i distacchi sindacali, i prossimi pensionamenti. “L’obiettivo comune - chiarisce Marchesi - è quello di fare pressione sul ministero”, anche attraverso la stesura di un documento unico. Per l’ottimizzazione di alcune procedure saranno invece create commissioni ad hoc. “Sarebbe già tanto poter pagare all’Unep (l’Ufficio notifiche, esecuzioni e protesti cambiari, ndr) con un Iban invece che in contanti”, risponde l’avvocato Barbara Carsana, per l’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori. In altre città, già lo si fa. È solo un esempio, ma fa capire quanto conterebbero anche “piccoli” aggiustamenti. All’incontro di ieri, servito a impostare il metodo più che a scendere nei contenuti, si arriva a partire dallo stato di agitazione proclamato ad aprile dagli avvocati della Camera penale. Denunciavano, in particolare, l’apertura limitata e diversificata per giorni e orari dei vari uffici (“a macchia di leopardo”, l’hanno definita) e la mancata digitalizzazione del fascicolo del pm in casi in cui i termini sono stringenti, come per i decreti di giudizio immediato. Inoltre, lamentavano l’aumento dei reati per cui non viene più comunicato a voce il numero del fascicolo, con il risultato che i legali sono costretti a richiedere la certificazione che attesta l’avvenuta iscrizione nel registro degli indagati e quindi a ingolfare gli uffici ancora di più. Per il rilascio di questo tipo di certificato se prima bastava una settimana, ora siamo a tre. Infine, anche Bergamo aderirà venerdì allo sciopero di 24 ore proclamato dal Comitato nazionale dei direttori di giustizia. Sono 3 in procura e 5 in tribunale. Si tratta dei primi collaboratori dei capi degli uffici, figure specializzate che possono fare anche le veci dei dirigenti. Si oppongono alla proposta del ministero di accorparli nell’Area dei funzionari amministrativi, dal loro punto di vista un demansionamento. Chiedono, invece, di essere inquadrati nell’Area delle elevate professionalità, che aderirebbe al grado di responsabilità e alla preparazione richieste dal loro lavoro. Modena. La Giustizia chiede aiuto a volontari e pensionati di Stefania Piscitello Gazzetta di Modena, 18 settembre 2024 Gli uffici della Procura sono in difficoltà. Il motivo? La carenza di personale, che inevitabilmente può portare a rallentamenti delle attività di gestione della macchina. Ed ecco che in ausilio alla Giustizia arrivano i volontari e i pensionati. Per il momento sono tre e hanno pronunciato e sottoscritto formale dichiarazione d’impegno lunedì mattina: sono membri dell’Associazione nazionale finanzieri d’Italia in congedo della sezione di Modena. Un accordo sulla scorta del protocollo d’intesa tra Procura e Auser volontariato di Modena. L’arrivo di queste tre nuove figure permetterà alle segreterie di corso Canalgrande di avere un aiuto in più. Tutto è nato da un impulso di Auser. In primo piano - Sì, perché il presidente Michele Andrana è venuto a sapere della situazione di difficoltà in cui si trova la Procura di Modena. Manca il personale ausiliario e di cancelleria, quello che opera nelle retrovie ma il cui lavoro è essenziale per il corretto funzionamento della macchina. Il rinforzo - Ecco dunque che Auser ha immediatamente manifestato la propria disponibilità a trovare una soluzione a questa criticità. Lo ha fatto attivandosi nel richiedere all’Associazione dei finanzieri in congedo, nello specifico al presidente luogotenente carica speciale Francesco Giordano, di prestare attività di volontariato. E, con grande senso civico, l’Anfi senza esitazione ha espresso la sua pronta adesione. I ringraziamenti - La novità è stata formalizzata lunedì, e Auser e Anfi hanno già ricevuto il plauso dello stesso procuratore Luca Masini, del personale della magistratura, di quello amministrativo e della sezione della polizia giudiziaria, che hanno ringraziato le due associazioni per avere deciso di mettersi a disposizione, andando a rispondere con un gesto concreto alla carenze di personale negli uffici. Roma. “Nessuno escluso”, progetto per la comunità penitenziaria di Antonella Barone gnewsonline.it, 18 settembre 2024 Un progetto ispirato dalla richiesta di testi giuridici gratuiti inviata da un detenuto alla Giuffrè Francis Lefebvre. Un episodio che ha costituito l’occasione per la casa editrice di entrare in contatto con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e di confrontarsi sull’esigenza di portare la cultura giuridica in carcere. Così, con la collaborazione dell’Associazione Antigone, ha preso forma “Nessuno Escluso”, iniziativa rivolta a tutta la comunità penitenziaria per diffondere e rendere il diritto accessibile tutti, inaugurata ieri nella Casa circondariale di Roma Rebibbia Femminile “Germana Stefanini”. Presenti all’evento - introdotto dai saluti della direttrice dell’istituto Nadia Fontana - il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, il capo del DAP Giovanni Russo (in collegamento a causa di un piccolo intervento, come lui stesso ha spiegato), il direttore Comunicazione e Relazioni istituzionali di Giuffrè Francis Lefebvre Antonio Delfino, il presidente dell’Associazione Antigone Patrizio Gonnella, il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano Giovanna di Rosa, il professore di Diritto Costituzionale presso l’Università RomaTre Marco Ruotolo e il componente del Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Irma Conti. “Mettiamo da parte le barriere ideologiche: forse la ricetta sarà diversa, ma abbiamo tutti lo stesso obiettivo”, è stato l’invito del sottosegretario Andrea Ostellari. “Mettiamo al centro del nostro impegno, dell’impegno di tutti, tre valori chiave: la persona; il recupero, che si attua attraverso strumenti come la formazione, il lavoro e il miglioramento degli spazi in cui si sconta la pena; e la speranza. Ringrazio Giuffrè Francis Lefebvre e Antigone per contribuire a raggiungerli attraverso questo importante progetto”. “Il concetto portante del nostro impegno è dare un senso di continuità tra il carcere e la società”, ha sottolineato il Capo del DAP Giovanni Russo. “Facciamo del nostro meglio per affiancare alla certezza della pena e alla certezza del diritto un’altra certezza: quella che l’esecuzione della pena porti a una effettiva rieducazione. Il carcere dev’essere un servizio pubblico partecipato. E con questa iniziativa abbiamo accolto un’offerta straordinaria per sostenere il percorso di rieducazione dei detenuti”. Il programma, che trae origine dal protocollo d’intesa firmato a nel gennaio scorso da Ministero della Giustizia-DAP, Giuffrè Francis Lefebvre e Associazione Antigone, comprende 5 lezioni frontali in ognuno dei 5 istituti penitenziari coinvolti (Bari, Torino, Catania e Alghero, oltre a Roma Rebibbia femminile), rivolte soprattutto, ma non esclusivamente, ai detenuti e dedicate ai temi costituzionali che ruotano intorno ai concetti di pena, rieducazione, uguaglianza, dignità e solidarietà. “Con iniziative come questa, ribadiamo il nostro impegno a mettere a disposizione tutte le nostre risorse editoriali e tecnologiche per rendere il diritto più accessibile a tutti, anche e soprattutto a coloro che si trovano in contesti più fragili o complessi, per provare a portare avanti chi è rimasto indietro”, ha dichiarato Antonio Delfino di Giuffrè Francis Lefebvre. “La nostra Costituzione è la nostra memoria, ma è anche la mappa che ci orienta intorno alla modalità dell’esercizio del potere di punire, ai suoi limiti, nonché alla necessità di proteggere i diritti fondamentali di tutti, comprese le persone private della libertà personale”, ha detto Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone. “Per questo portare la Costituzione in carcere, discuterne insieme alle persone detenute e a tutto lo staff è un’occasione importante per sentirsi tutti parte dello stesso progetto democratico e costituzionale, che, come detto, è memoria ma anche futuro”. Per l’attuazione del progetto “Nessuno escluso” la casa editrice Giuffrè Francis Lefebvre condividerà le proprie risorse culturali, autoriali ed editoriali all’interno degli istituti penitenziari italiani al fine di favorire l’interazione sociale, attraverso programmi mirati volti allo sviluppo culturale e umano. Prima dell’inizio dell’incontro gli ospiti hanno visitato il corner del progetto allestito nella biblioteca del carcere romano nel quale le detenute potranno consultare le pubblicazioni di Giuffrè Francis Lefebvre in forma cartacea e digitale. I corner ospiteranno anche incontri periodici con docenti, esperti, magistrati e rappresentanti delle istituzioni, finalizzati ad approfondire specifici tematiche e a fornire ai detenuti le conoscenze e gli strumenti più idonei per renderli consapevoli e parte attiva del loro percorso di reinserimento. Roma. Giornali in carcere: la voce dei detenuti di Lucandrea Massaro romasette.it, 18 settembre 2024 Tre esperienze raccontate alla Casa del Jazz grazie all’associazione “Ossigeno per l’informazione”. Le opinioni dei reclusi e le proposte per la formazione e la rieducazione. Fare un giornale dal carcere con i detenuti. Raccontare il mondo dietro le sbarre a chi è dall’altra parte, a chi non ha mai perso la propria libertà nemmeno per un giorno. È la sfida che in molti si sono proposti di raccogliere e portare avanti in tante carceri italiane. L’associazione “Ossigeno per l’informazione”, che da 15 anni si occupa di difendere il diritto di cronaca e i giornalisti dalle minacce, dalla censura e dalle intimidazioni, ha raccolto tre esperienze nella sua sede a Roma, negli spazi della Casa del Jazz, spazi sottratti alla mafia e messi a disposizione dal Comune. In questa iniziativa c’è un filo rosso che unisce le esperienze che danno voce ai carcerati e l’associazione: la lotta alla censura, perché il mondo dei ristretti è un mondo fatto anche di ricatti piccoli e grandi da parte delle istituzioni. Nelle carceri, è stato sottolineato, i “giornalini” subiscono talvolta censure di vario grado in merito a quanto può essere pubblicato. Ma vanno avanti, con i mezzi e gli spazi che possono, raccontando e raccontandosi al mondo. A portare la propria testimonianza, tra i primi, Claudio Bottan, che dopo essere stato a sua volta in carcere per sei anni e mezzo, dopo aver scontato la pena è diventato vicedirettore della rivista “Voci di dentro”, edita dall’omonima associazione, realizzata con i detenuti delle carceri di Chieti e Pescara. Bottan, durante la detenzione, ha vissuto una rinascita, ha incontrato la sua attuale compagna Simona, con cui poi ha iniziato a occuparsi di sensibilizzazione nelle scuole sul tema delle prigioni e dei pregiudizi che le accompagnano: lui ex carcerato, lei in sedia a rotelle, due situazioni difficili che segnano la vita. “L’umanità in carcere è in mano al volontariato”, dice Claudio, che racconta come solo grazie a un sacerdote non si sia suicidato in carcere: “Penso che questo sia un fallimento da parte delle istituzioni”. Alla sua voce si affianca quella di Roberto Monteforte, giornalista professionista e animatore di “Non tutti sanno”, il giornale di Rebibbia che si sforza di “formulare proposte che migliorino davvero la vita dei ristretti” e la cui missione è “riuscire a comunicare la complessità della vita dei detenuti, combattendo gli stereotipi”. Il giornale da qualche tempo viene stampato con il contributo del Vicariato di Roma che contribuisce alla distribuzione nelle parrocchie più impegnate nella pastorale carceraria. Stefano Liburdi, giornalista, da più di un anno - fatta salva la pausa estiva - ha portato sulle colonne del suo giornale, Il Tempo, i frutti di un laboratorio che coinvolge altre sezioni di Rebibbia, compresa la Massima Sicurezza, facendo parlare i detenuti non di carcere ma di sport, cronaca, politica dal loro punto di vista, un “punto di vista spesso molto concreto, che va al nocciolo”, spiega Liburdi. L’iniziativa si chiama “Visto da dentro”. Fare informazione in questi contesti vuol dire dare voce a chi non ce l’ha più, contribuire alla formazione e alla rieducazione di chi ha sbagliato e oggi paga, ma non per questo ha perso la sua dignità che anzi va riconosciuta e protetta dagli abusi. Come ha detto in chiusura dell’evento Irma Conti, componente dell’ufficio del Garante nazionale dei detenuti: “È la comunità che deve accogliere e sostenere queste persone nel loro percorso di riabilitazione”, percorso che per padre Lucio Boldrin, cappellano a Rebibbia, deve anche contenere una “educazione alla libertà”. Affinché chi esce non rientri di nuovo e si spezzino davvero le catene. Verona. Premazione del concorso letterario riservato ai detenuti “Carlo Castelli” cronacadiverona.com, 18 settembre 2024 Si svolgeranno a Verona venerdì 4 e sabato 5 ottobre le manifestazioni per la consegna del 17° premio letterario “Carlo Castelli”, riservato i detenuti degli istituti penitenziari italiani (anche minorili), organizzato dalla Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV, Settore Carcere e Devianza. Il tema prescelto per l’edizione 2024 è significativo di un indirizzo di speranza e incoraggiamento: “Perché? Ti scrivo perché ho scoperto che c’è ancora un domani”. La cerimonia di premiazione si svolgerà venerdì 4 alle ore 15 nella Casa circondariale di Montorio. L’introduzione e i saluti istituzionali saranno presentati da Francesca Gioieni, direttrice della casa circondariale. Seguiranno gli interventi di Carlo Vinco, Garante per Verona dei diritti delle persone private della libertà e Vincenzo Varagona, presidente nazionale di Ucsi (Unione cattolica stampa italiana). Interverranno quindi per i saluti i responsabili della Società di San Vincenzo De Paoli ODV, le autorità presenti e Paola Da Ros, presidente della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV. Alle 16 la dottoressa Maria Grazia Failla, già presidente del Tribunale di Massa Carrara e presidente della Giuria del Premio Carlo Castelli, aprirà la cerimonia di consegna del Premio; quindi si svolgerà la lettura dei testi del primo, secondo e terzo classificati. Alle 17,30 è previsto l’intervento della Capo area educativa della Casa Circondariale di Verona. Seguirà la testimonianza dei soci vincenziani volontari della Casa Circondariale e di alcuni detenuti. Massa Carrara. Teatro con le detenute dell’Istituto penale minorile di Pontremoli di Niccolò Gramigni La Nazione, 18 settembre 2024 Nove ragazze protagoniste di uno spettacolo il 21 settembre. Uno spettacolo teatrale con protagoniste ragazze detenute in una struttura minorile e con studenti della scuola secondaria si terrà il 24 settembre alle 21 nella Chiesa di San Geminiano a Pontremoli (Massa Carrara). Lo spettacolo è ‘La Ballata dell’Angelo Ferito’ con la regia di Paolo Billi con ragazze dell’Istituto penale minorile di Pontremoli insieme agli studenti del liceo Malaspina e dell’Istituto Pacinotti-Belmesseri di Pontremoli. In scena anche gli attori pontremolesi Lorenzo Borrelli ed Eleonora Casetta, con la partecipazione di don Giovanni Perini, cappellano nell’Istituto di Pontremoli. Si tratta di uno spettacolo per gruppi limitati di spettatori e allestito in un luogo di raccoglimento e silenzio. L’istituto femminile è l’unico in Italia completamente dedicato a ospitare ragazze, provenienti soprattutto dalle regioni settentrionali. Tra le peculiarità dell’istituto, l’idea di creare percorsi per il loro reinserimento nella società. Le nove protagoniste, ospiti dell’istituto minorile, hanno svolto la quasi totalità delle prove e sette spettacoli all’esterno del carcere nella stessa chiesa di san Geminiano, che ha accolto con grande disponibilità le attività a settembre. Il progetto teatrale dell’Istituto minorile di Pontremoli giunge al suo 11/o anno di attività ed è proseguito a partire da agosto con un laboratorio di teatro che ha impegnato le ragazze in attività quotidiane. Il lavoro è a cura del Teatro del Pratello insieme al Centro Giovanile Monsignor Sismondo di Pontremoli. È realizzato con il sostegno di Istituto penale minorile di Pontremoli, Comune di Pontremoli, Regione Toscana e il contributo dei Fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese, della Fondazione Cassa di Risparmio di Carrara e dell’Associazione Cio Nel Cuore. Pordenone. “Libera la cultura”, i detenuti portano in scena uno spettacolo teatrale in carcere pordenonetoday.it, 18 settembre 2024 Successo per il progetto “Libera la cultura”, che si è tenuto nella casa circondariale di Pordenone. Un progetto che si è concluso con uno spettacolo teatrale, ideato e rappresentato dai detenuti, e che ha visto la partecipazione di diverse associazioni del territorio. Lo spettacolo, in scena il 16 settembre, ha visto tra il pubblico il prefetto Natalino Domenico Manno, il direttore del carcere Leandro La Manna, il provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Triveneto Rosella Santoro e il magistrato di sorveglianza Maria Carla Majolino. Presenti anche i rappresentanti delle realtà che hanno partecipato al progetto, tra cui Pordenonelegge, Polinote, Casa dello Studente, Cinemazero e il musicista Francesco Tizianel. I progetti culturali in carcere continueranno: come ha annunciato la consigliera regionale Lucia Buna, sono stati stanziati 100 mila euro a favore dei cinque carceri del Friuli Venezia Giulia. Un fondo di 20 mila ciascuno per realizzare nuove idee e migliorare la qualità della vita dei detenuti. Novara. Una partita in carcere tra bambini e genitori detenuti novaratoday.it, 18 settembre 2024 La “Partita con mamma e papà” è organizzata da Bambinisenzasbarre in collaborazione con l’ente EssereUmani. Una partita di calcio con mamma e papà, ma in un luogo diverso dal solito: nel cortile del carcere di Novara. Oggi, mercoledì 18 settembre , figli e genitori detenuti giocheranno la “Partita con mamma e papà” sul campo della Casa Circondariale di Novara dalle 10 alle 12. La “Partita con mamma e papà” offre la possibilità di condividere un momento ludico, normale per tutti gli altri bambini, che risulta eccezionale per questi bambini e le loro famiglie e permane a lungo nella loro memoria. Ideata da Bambinisenzasbarre, nel 2015, l’iniziativa è partita con l’adesione di 12 istituti e la partecipazione di 500 bambini e 250 papà detenuti, e si è tenuta tutti gli anni fino al 2019. Interrotta per due anni a causa della pandemia, ha avuto un forte impatto nell’edizione di ripresa del giugno 2022 (76 istituti, 82 partite, 4100 bambini, 1900 genitori) che ha sancito la riapertura degli Istituti penitenziari alle famiglie. La settima edizione, giocata nel 2023, ha visto l’adesione di 79 istituti italiani dove si sono disputate 83 partite, coinvolgendo gli agenti della polizia penitenziaria, gli educatori, 4250 bambini, 2050 genitori detenuti e le loro famiglie. La campagna ha l’obiettivo di sensibilizzare sul tema dell’inclusione sociale e delle pari opportunità per tutti i bambini e ha lo scopo di portare in primo piano il tema dei pregiudizi e dell’emarginazione di cui spesso sono vittime i 100mila bambini in Italia (2,2 milioni in Europa) che hanno il papà o la mamma in carcere. Viareggio docet. Dai Suv ai coltelli di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 18 settembre 2024 L’omicidio di Said Malkoun ad opera dell’imprenditrice Cinzia Del Pino, alla quale era stata sottratta la borsa dal sedile della propria autovettura, scoperchia il vaso di pandora del securitarismo italiano. La macchina di produzione della paura, ovvero forze politiche, media e social, da anni insiste sull’equazione tra migranti e criminalità, stigmatizzando oltre l’eccesso gli atti devianti o di violazione della legge compiuti dai migranti. In nome delle minacce plurime incarnate da questa classe pericolosa, tra le cui fila allignano periodicamente ladri, rapinatori, spacciatori, stupratori, pedofili e terroristi, si giustifica ogni reazione da parte delle “vittime” italiane, anche a costo della violazione della legge. Una parte dell’opinione pubblica italiana fa di Cinzia Del Pino una vera e propria eroina, icona dei cittadini onesti spazientiti dalle vessazioni e dalle prepotenze messe in atto dai migranti. A dispetto non soltanto dell’omicidio commesso, ma anche del modo in cui ha infierito sulla vittima, schiacciandola con la propria auto contro una vetrina di un negozio ben quattro volte. Qualcosa non funziona all’interno di queste rappresentazioni, ed è figlia del legalitarismo, dell’ossessione per la proprietà privata, della domanda di sicurezza che da un trentennio attraversano la società italiana. Da anni, dai settori più affluenti e integrati, proviene la domanda di potere difendere legittimamente la propria roba (in senso verghiano) e la propria incolumità, facendo uso delle armi. Non a caso, sono stati varati provvedimenti che ampliano la legittima difesa e autorizzano la formazione di gruppi di sicurezza composti da privati cittadini. Leggi ispirate dalla dicotomia tra italiani buoni e migranti cattivi, che hanno già sortito i loro effetti. Si pensi ai fatti di Voghera del 2019, quando Younes Boussettaoui venne ucciso in piazza da un ex assessore, e agli svariati casi di cronaca, prevalentemente al nord, di imprenditori che sparano ai migranti autori di presunte o effettive effrazioni. Eppure non si tratta di un fenomeno politicamente connotato, in quanto anche al di fuori del centrodestra circolano pulsioni analoghe. La cultura legalitaria, che pone enfasi sul binomio legge e ordine, e considera qualunque atto contrario alle leggi esistenti un fatto criminale in sé, degno di riprovazione morale, è diffusa anche a sinistra. La domanda di pene più severe e di carcere è fortemente diffusa anche tra quei settori dell’opinione pubblica che si autodefiniscono libertari, sfociando talvolta in quello che Tamar Pitch definisce il femminismo punitivo. Viceversa, in contesti analoghi, c’è chi, scorgendo questo pericolo, sottolinea la necessità di garantire l’autodifesa anche per mezzo del possesso e dell’uso di armi. Legalitarismo e giustizia fai da te rappresentano due facce della stessa medaglia, in quanto si abdica definitivamente alla possibilità di stabilire forme di convivenza civile basate sul rispetto reciproco e sull’implementazione dei diritti, alimentando un clima di insicurezza e di sfiducia che, in ultima analisi, si ritorce sempre contro i gruppi sociali più marginali. In particolare, ci viene in mente il panico morale che, nell’ultimo lustro, si è scatenato nei confronti dei minori, culminando, dopo i fatti di Caivano, nel varo di un provvedimento che nei fatti ha distrutto la giustizia minorile e prodotto un sovraffollamento degli Istituti Penali Minorili (IPM), mai visto prima. Il problema della devianza minorile è lungi dall’essere risolto. Anzi, pochi giorni prima della tragedia di Viareggio, un giovane di 16 anni, Fallou Sall, è stato accoltellato a morte da un suo coetaneo. Sono partiti i dibattiti sui giovani violenti, che portano e usano i coltelli con facilità. Ma se gli adulti uccidono per una borsa e passano sopra il cadavere, dai giovani, cosa ci aspettiamo? Quei rifugiati e i guanti bianchi di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 18 settembre 2024 Sulla Open Arms c’erano non solo emigranti “economici” come vengono liquidati quanti partono (come i nostri nonni) da Paesi poveri, ma persone fuggite dal Chad, dal Sudan, dall’Etiopia, dal Gambia, dalla Costa d’Avorio ma soprattutto dall’Eritrea. C’erano 125.099 parole, nella requisitoria con cui la pm Marzia Sabella ha chiesto la condanna a sei anni di Matteo Salvini per avere “abusando dei suoi poteri privato della libertà personale 147 migranti di varie nazionalità”. E non una volta la magistrata, citando la Convenzione di Bruxelles del 1910 che includeva in mare “finanche il salvataggio del nemico a conferma della universalità dei beneficiari” e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 e la convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati secondo cui “le persone a bordo devono avere anche la possibilità di esercitare il diritto alla presentazione della domanda di protezione internazionale” o ancora la Convenzione contro la Tortura del 1984, ha citato la provenienza di quei 147 migranti sulla Open Arms. Proprio perché, per le leggi internazionali, i principi di diritto venivano prima, a prescindere dai passaporti. Così come ci sono pochi cenni al contesto del braccio di ferro deciso dall’allora ministro dell’Interno esattamente nei giorni in cui, col vento in poppa della vittoria alle Regionali sarde e dei sondaggi stratosferici, puntava al voto anticipato chiedendo i “pieni poteri” e presentando una mozione di sfiducia contro il governo giallo-verde di cui faceva parte. Una scommessa, come è noto, per lui finita malissimo. Eppure i luoghi da cui erano partiti quei 147 uomini, donne, bambini avrebbero potuto aiutare a capire il tema al di là del “diritto a emigrare” rivendicato dai nostri nonni che passarono i confini, spesso clandestinamente, per “catàr fortuna” in Europa, nelle Americhe, in Australia. C’erano sulla Open Arms, infatti, non solo emigranti “economici” come vengono liquidati quanti partono (come i nostri nonni) da Paesi poveri, ma persone fuggite dal Chad, dal Sudan, dall’Etiopia, dal Gambia, dalla Costa d’Avorio (Paesi in guerra o stremati da crisi climatiche o in coda nel ranking del Democracy Index) ma soprattutto dall’Eritrea. Dove il dittatore Isaias Afewerki, al potere dal ‘91 e presidente a vita dal ‘93, contende da anni l’ultimo posto tra i Paesi canaglia alla Corea del Nord di Kim Jong-un. Fuggiaschi che, in base alle leggi, avevano diritto a ottenere lo status dei rifugiati. Se solo avessero potuto farsi riconoscere come tali invece di venire sequestrati da chi, come Salvini, si era spinto a dire che “quanti scappano davvero dalla guerra vanno trattati con i guanti bianchi”. Il tribunale di Catania libera i richiedenti asilo: “La Tunisia non è Paese sicuro” di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 settembre 2024 Detenzione amministrativa I giudici etnei smentiscono il governo usando le informazioni del ministero degli Esteri. La decisione firmata dal presidente della sezione specializzata in immigrazione. Sempre più a rischio i centri in Albania, nonostante Piantedosi dica: “Non temo ricorsi”. “Insanabile contrasto tra il decreto del ministero Affari esteri e cooperazione internazionale 7/5/2024, letto in uno alla Scheda paese, e la norma di legge primaria”. Così recita il provvedimento con cui ieri il tribunale di Catania ha liberato un richiedente asilo tunisino dal centro di Pozzallo. La formula giuridica può risultare oscura, ma indica una cosa semplice: la Tunisia non è un paese sicuro. Escono, con analoghe motivazioni, altri sei connazionali e due egiziani. Il trattenimento durante le procedure di frontiera, infatti, può essere applicato in due casi: uno residuale, quando il migrante elude i controlli al confine, e uno molto più diffuso, quando il paese di origine è incluso nel decreto ministeriale che elenca quelli “sicuri”. A maggio di quest’anno il governo Meloni lo ha esteso a 22 Stati. Tra loro compaiono Egitto e Tunisia. Quest’ultima è molto rilevante sia per il numero di sbarchi nel 2024, quasi 6.200 su un totale di 44.767, che per ragioni politiche: il regime di Kais Saied è al centro della strategia italo-europea di contenimento delle partenze. A giugno dell’anno scorso la premier italiana Giorgia Meloni, accompagnata dall’omologo olandese Mark Rutte e dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, ha firmato con Tunisi un memorandum d’intesa da 127 milioni di euro per il “contrasto della migrazione irregolare”. È notizia di questi giorni che le autorità tunisine - insieme a quelle di Algeria, Libia e Costa d’Avorio - parteciperanno al G7 dei ministri dell’Interno che si svolgerà dal 2 al 4 ottobre in provincia di Avellino. Già sabato scorso i giudici etnei avevano deciso di non convalidare il trattenimento di un ragazzo egiziano argomentando che per il paese governato dall’ex generale Al-Sisi non vale la “presunzione di sicurezza”, perché mancano i requisiti richiesti dalla legge: assenza di torture e trattamenti inumani e degradanti; rispetto di diritti e libertà fondamentali; esistenza di un sistema di rimedi, dunque di una magistratura indipendente davanti cui far valere le proprie istanze. In quel caso il tribunale aveva sostenuto il suo ragionamento attraverso un’ampia rassegna di fonti indipendenti, dai report di Amnesty International a quelli del dipartimento di Stato Usa. Per la Tunisia, invece, ha semplicemente accostato il dettato della legge alla “scheda paese” usata dal ministero degli Esteri per giustificare l’inserimento nel decreto di quelli “sicuri”. Le contraddizioni tra quanto prevede la norma in senso generale e la situazione concreta dello Stato nordafricano sono lampanti. Infatti il tribunale rileva che “per valutazioni richiamate dallo stesso ministero” la Tunisia: non rispetta il divieto di arresti e detenzioni arbitrarie; pratica arresti con prove inesistenti; applica misure cautelari senza il vaglio giudiziario; chiude tv contrarie al governo; reprime la liberà di associazione; discrimina i diritti lgbt; tollera la violenza sulle donne; consente la tortura in stazioni di polizia e carceri; non offre sufficienti garanzie ai richiedenti asilo di altri paesi. Il provvedimento è firmato dal presidente della sezione specializzata in immigrazione, ciò lascia supporre che esprima un orientamento condiviso o comunque maggioritario tra le toghe catanesi. La decisione è basata su argomenti molto forti che verosimilmente varranno per tutti i richiedenti originari della Tunisia (discorso analogo per l’Egitto). Rispetto ai casi di ieri, poi, i giudici sollevano anche obiezioni procedurali sulla possibilità di applicare l’iter accelerato di frontiera, su cui si basano le richieste di trattenimento firmate dal questore di Ragusa. I nove richiedenti asilo erano tutti sbarcati a Lampedusa, che è in provincia di Agrigento. Dunque è quella la frontiera, non un comune situato in un altro distretto siciliano e la cui competenza ricade sotto un diverso tribunale (Catania invece di Palermo). Resta da capire perché il Viminale abbia dirottato a Pozzallo quei migranti, avendo a disposizione 70 posti nell’analoga struttura di Porto Empedocle, adiacente alla città dei Templi. Si possono avanzare due ipotesi. La prima è che il tribunale di Palermo, sebbene con motivazioni più circostanziate ai casi singoli che non toccano la questione dei paesi sicuri, continua a non convalidare i trattenimenti: sabato scorso ne ha bocciati sei su sei. La seconda è che il governo, alla luce del processo Salvini, cerchi nuovi argomenti per attaccare la magistratura, accusandola di sabotare le politiche migratorie messe in campo. Tema che, alla luce di quanto sta accadendo nelle corti siciliane, si riproporrà con ben altra eco per i centri in Albania, su cui è competente il tribunale di Roma. Martedì Piantedosi ha dichiarato di non temere ricorsi perché la normativa alla base dei trattenimenti oltre Adriatico, la stessa di Pozzallo e Porto Empedocle, “anticipa una regolamentazione europea che entrerà in vigore nel 2026”. A quella data, però, mancano ancora due anni. La carica dei professori: “Sindaco Gualtieri, fai chiudere il Cpr di Ponte Galeria!” L’Unità, 18 settembre 2024 L’istanza del mondo accademico al Sindaco contro il centro di Ponte Galeria “Chieda al Viminale di disporne la chiusura, altrimenti pronti a un’azione popolare in tribunale”. Primo firmatario l’ex garante dei detenuti Mauro Palma. Un ampio e qualificato numero di Professori universitari ha inviato un’istanza al Sindaco di Roma affinché, esercitando i poteri previsti dal Testo unico sugli Enti Locali, chieda la chiusura immediata del Centro di Permanenza per i Rimpatri (CPR) di Roma Ponte Galeria, ritenendo la sua presenza nel territorio comunale gravemente lesiva dell’identità e dell’immagine della Città di Roma nonché della comunità dei suoi abitanti. Nell’istanza si evidenzia come l’assenza di norme per l’effettiva tutela dei diritti delle persone trattenute, le condizioni precarie in cui si trova la struttura, l’alto livello di degrado, le tragiche morti che in essa sono avvenute e le modalità di gestione minano profondamente i valori su cui Roma si fonda, come sancito dallo Statuto della Città. In tale contesto, l’esistenza del Centro e la sua funzione privativa della libertà senza alcuna prospettiva positiva è considerata dai firmatari incompatibile con i principi di accoglienza, solidarietà e di tutela dei diritti umani di cui la città è portatrice. Il mondo accademico sollecita, quindi, il Sindaco di Roma a chiedere al Ministero dell’Interno di disporre la chiusura del CPR di Roma Ponte Galeria e di prevedere forme risarcitorie della comunità territoriale per il danno da lesione dell’immagine e dell’identità cittadina che tale presenza le ha arrecato. I sottoscrittori confidano che il Sindaco di Roma accoglierà l’istanza; tuttavia, in caso di inerzia sono pronti a depositare l’azione popolare in Tribunale, come già avvenuto - e con successo - a Bari. L’istanza è stata sottoscritta da Professori di diritto e di medicina. Primo firmatario è l’ex Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Prof. Mauro Palma, oggi Presidente del Centro di ricerca ‘Diritto penitenziario e Costituzione - European Penological Center’ dell’Università Roma Tre. L’istanza è stata sottoscritta da: Mauro Palma, Luigi Ferrajoli, Marco Ruotolo, Flavia Lattanzi, Maria Rosaria Marella, Patrizio Gonnella, Antonella Massaro, Alice Riccardi, Antonello Ciervo, Enrica Rigo, Claudio De Fiores, Giancarlo Monina, Marco Benvenuti, Gianluca Bascherini, Antonello D’Elia, Osvaldo Costantini, Maria Irene Papa, Fabio Macioce, Paolo Benvenuti, Lorenzo D’Orsi, Carlo Bracci, Pasquale Bronzo, Salvatore Geraci, Francesca Angelini, Valeria Ribeiro Corossacz, Valeria Torre, Dario Ippolito, Pietro Vereni, Maurizio Marceca, Andrea Zampetti, Elisa Olivito, Antonio Marchesi, Tamar Pitch, Francesco Bilancia, Silvia Mazzoni, Massimo Siclari, Aldo Morrone, Silvia Talini, Paola Bevere. L’attivista per i diritti Maysoon Majidi a processo: è di nuovo in sciopero della fame di Eleonora Camilli La Stampa, 18 settembre 2024 Trentotto chili appena. Dopo otto mesi di carcere Maysoon Majidi è l’ombra di sé stessa. Da qualche giorno ha ripreso lo sciopero della fame nel carcere di Reggio Calabria, in attesa dell’udienza di domani, 18 settembre in cui sarà lei a chiedere che le siano concessi almeno gli arresti domiciliari. La ragazza, 28 anni, curdo iraniana è detenuta con un’accusa che ritiene “infamante”, di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, di essere cioè una scafista e di aver partecipato attivamente al traffico di essere umani nel caso dello sbarco in Italia nel dicembre 2023 di un imbarcazione con 76 persone a bordo. Maysoon continua a dichiararsi innocente e ha già mostrato in aula le ricevute del pagamento della tariffa per affrontare il viaggio: 8.500 dollari sborsati sia da lei che da suo fratello per raggiungere l’Italia. Inoltre agli atti ci sono anche le dichiarazioni del capitano della nave, il turco Akturk Ufuk, anche lui in carcere che ha smentito ogni collaborazione, sottolineando che Majidi era una migrante come gli altri. Ma contro la ragazza ci sarebbero le dichiarazioni di altri due naufraghi, oggi irreperibili, che l’avrebbero indicata come aiutante di Ufuk. Testimonianze ritenute però “inattendibili” dall’avvocato di Maysoon, Giancarlo Liberati. I due migranti, raggiunti in Germania da un inviato della trasmissione Le Iene, hanno ritrattato davanti alla telecamera. Non solo, ma sotto la lente è anche il lavoro del traduttore che ha fatto da tramite per gli interrogatori. Intanto, in attesa dell’udienza di domani per Maysoon Majidi si stanno mobilitando le organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani. La ragazza, infatti, è stata un’attivista per i diritti delle donne. E proprio per le sue posizioni in contrasto con il regime era stata costretta a lasciare l’Iran. Stasera a Roma è previsto un presidio di supporto presso la taverna curda Bazar. E’ prevista una staffetta di interventi di diverse organizzazioni tra cui Amnesty International, A buon diritto, Arci. L’identità negata di una donna che spaventa di Mauro Palma Il Manifesto, 18 settembre 2024 L’attivista curda Maysoon Majidi. Come per molti migranti, l’identificazione negativa si affianca alla non considerazione della storia personale. Rischia di essere estradata proprio dove ha combattuto l’oppressione. C’è una dimensione specifica dell’agire violento che contraddistingue il nostro mondo nei confronti di chi lascia i propri luoghi per un ‘altrove’ sperabilmente migliore, così preferendo l’incognita a ciò che pur noto non è però sopportabile. Una dimensione dell’agire che connota tutto il processo del migrare dopo il difficile abbandono del legame con affetti, ricordi, panorami, nelle traversie del percorso e nell’approdo in quel luogo che si rivela diverso dalle speranze, non accogliente e pronto a sollevare scudi e difese. È la dimensione dell’anonimia, a cui spesso si dedica minore attenzione, soprattutto perché inserita in altre dimensioni connotate da una materialità densa di maltrattamenti, rifiuto, respingimenti. Eppure è una dimensione fondamentale perché le persone migranti sono spesso materialmente e simbolicamente anonime; cessano di avere nomi perché assumono la fisionomia di casi, da regolare, gestire, respingere, rinchiudere o accogliere: pur sempre casi, se non, come spesso accade, numeri. Nessuno conosce i nomi delle vittime di un naufragio né quelli da mettere sulle bare dei corpi raccolti; spesso neppure di coloro che una volta giunti sono privati della libertà personale perché il nome di una persona non è soltanto una etichetta posta su un fascicolo, ma un condensato di storia personale. Invece la complessiva identità di una persona migrante sparisce attraverso il percorso burocratico che subentra, con altrettante impervie vicissitudini, al percorso compiuto, con grande lentezza e con improvvisa subitaneità. Quest’ultima soprattutto quando si tratti di chiudere porte e di rinviare a un altrove diverso. L’identità di una persona migrante è densa del suo progetto migratorio, così come della sua attività e della sua vita precedente: elementi materiali a cui si sommano le paure della partenza e le speranze del muoversi; soprattutto a cui si somma la poliedricità della propria esperienza personale vissuta e il suo non poterla più condurre in alcuni contesti. Accade così che frettolosamente una persona possa essere identificata, sin dal suo primo approdo sul territorio - sul nostro territorio ormai ostile a chi arriva - come responsabile dell’organizzazione del viaggio, come “scafista”, parola a cui ci siamo ormai abituati, magari per aver aiutato qualcuno durante il viaggio o perché qualcun altro voglia addebitare a terzi la sofferenza vissuta in quel pericoloso tragitto o voglia togliere da sé ogni sospetto. Succede. Ho avuto modo di verificarlo con storie raccolte durante la mia prolungata esperienza di visite in carceri e centri per migranti, europei e italiani. Tutti casi in cui la densità della storia personale svanisce - anche un film di poco tempo fa ricordava come si possa divenire, forzati dalle circostanze, soggetti in una situazione di cui si è in realtà oggetti. Questa identificazione negativa si affianca all’anonimia frutto di non considerazione del passato di una persona migrante. Così avviene che la storia precedente non sia elemento di comprensione della pienezza della persona, bensì venga compressa nel suo essere contingentemente un caso, o ancor più un problema. Così avviene che oggi sia in carcere Maysoon Majidi e che corra il rischio di rimanerci o addirittura di essere estradata proprio laddove la sua storia positiva si è costruita in opposizione all’oppressione. Maysoon viene da una cultura e da un luogo che sono sinonimi di non riconoscimento perché è curda e tale identità porta con sé tutta l’oppressione che più Paesi hanno attuato, con modalità diverse ma convergenti, per annientare l’identificarsi con quella regione che non ritroviamo nell’atlante geografico, il Kurdistan, ma che appartiene a tradizioni, lingua, storia, quantunque frantumata in più realtà statuali odierne. È figlia, quindi, di una identità non riconosciuta, se non in termini negativi: un’identità che fa paura a chi vede nella pluralità un pericolo e nell’oppressione una rassicurante uniformità. Maysoon viene anche da un contesto attuale, iraniano, che l’ha vista protagonista dell’affermazione femminile del diritto alla pienezza del proprio esistere, ancor più rivendicato dopo che l’oppressione a tale pienezza ha palesemente assunto la fisionomia dell’oppressione violenta. Come donna e come donna attivamente promotrice della consapevolezza dei propri diritti fa doppiamente paura a regimi teocratici che piegano i diritti a concessioni maschili. Non solo, ma Maysoon viene con la capacità riconosciuta di trasferire la propria identità e la propria lotta per il diritto alla piena esistenza in forme comunicative in grado di far conoscere ed espandere il desiderio di vita che la sua storia esprime: è artista e l’arte è implicitamente fonte di timore per ogni potere dittatoriale, a meno che non si pieghi alle forme della propaganda. Donna, curda, attiva nella difesa dei diritti di ogni persona, artista. Un concentrato di timori. Ma anche una identità negata nel nostro Paese che, dichiarandosi democratico ed essendolo nel suo essersi ritrovato e riconosciuto nella Carta costituzionale più di settantacinque anni fa, dovrebbe portare a valore proprio tali elementi. Invece è stata risucchiata dall’anonimia colpevolizzante: è divenuta un caso, un caso penale. Mentre scrivo queste righe penso che presto ci sarà un giudice a pronunciarsi: vedo il rischio e confido nella ragionevolezza. Ma vedo soprattutto il non riconoscimento della sua storia - che lei ha raccontato anche indicando i passi che costituiscono la sua difesa. Non sono questi passi gli elementi per me più importanti, perché mi preme la considerazione della pienezza della sua persona, della sua origine, della sua lotta come donna, della sua capacità di parlare con il gesto e con l’arte. Mi preme che siano riconosciuti e che non si debba tornare anche nel suo caso a quei versi dell’Eneide, quando Ilioneo si rivolge alla regina Didone dicendo: “Ma che gente è la tua? Che barbaro costume ci impedisce di scendere a terra e di fermarci sulla spiaggia? Perché farci guerra?”. Viene da lontano il problema della non accoglienza e della paura. Mimmo Lucano: “Oggi a Crotone per Maysoon: liberatela” di Silvio Messinetti Il Manifesto, 18 settembre 2024 L’europarlamentare sarà all’udienza in tribunale a carico dell’attivista curda. In cella da nove mesi, è accusata di essere una “scafista”. Il 2 settembre le ha fatto visita in carcere a Reggio Calabria. Ed oggi sarà in aula a Crotone per la terza udienza del giudizio immediato a carico dell’attivista e regista curda Maysoon Majidi, detenuta da 9 mesi in Calabria con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. L’europarlamentare Mimmo Lucano (The left) ha sposato in pieno la causa di Maysoon e anche quella di Marjan Jamali, la giovane madre iraniana, ai domiciliari con la medesima accusa. Lo rintracciamo a Strasburgo, in procinto di partire imbarcarsi per la Calabria. Dove oggi alle 10.30 terrà una iniziativa pubblica presso il circolo crotonese Gli spalatori di nuvole. Lucano, lei ha fatto visita in carcere a Majidi poche settimane fa. Come l’ha trovata? Molto dimagrita ma determinata ad avere giustizia. Il padre mi ha scritto una bella lettera così come ho letto quella che avete pubblicato sul manifesto. È davvero una vicenda grottesca. Maysoon è innocente, andrebbe liberata immediatamente. Mi sono trovato anche io sotto torchio giudiziario. Solo chi vive di persona queste situazioni sa quanto faccia piacere sentire la solidarietà. Vado a Crotone non per il mio attuale ruolo istituzionale, ci vado da sostenitore della causa curda. I curdi e gli iraniani sono perseguitati e andrebbero protetti non mandati in carcere proprio da noi che ci professiamo il mondo libero. Questa storia dei cosiddetti scafisti poi è davvero assurda. Non lo dico oggi. Quasi trent’anni fa dopo il primo sbarco di curdi a Riace ne arrestarono quattro. Io andai a visitarli in carcere, erano dei disperati, li avevano pescati nel mucchio a causa di false delazioni. Poi risultarono innocenti. Lei ha dichiarato di voler investire della questione il parlamento europeo. In che modo? Voglio far conoscere all’Europa la deriva umanitaria in atto in Italia, le persecuzioni continue ai danni dei migranti, i progetti di deportazione in Albania, I casi di Maysoon e Marjan sono solo la punta dell’iceberg. La tragedia di Cutro, di cui non si parla più, con il mare che fagocitava bambini e li trasportava, cadaveri, a riva, è la fotografia di questo colpevole fallimento delle politiche migratorie del governo Meloni. Ci sono persone che chiedono solo di poter vivere e noi li criminalizziamo da subito, appena sbarcati, trattandoli da trafficanti mentre i veri trafficanti sono altrove. Non bisogna mai dimenticare che è l’occidente il responsabile degli esodi migratori, siamo noi che vendiamo le guerre e traffichiamo in armi, noi che abbiamo saccheggiato i loro territori. In Europa sull’immigrazione si profila un asse tra i socialisti (per ora quelli tedeschi e inglesi) e i conservatori. Rimpatri celeri, ritorno ai confini pre Schengen, deportazioni modello Inghilterra/Ruanda, Italia/Albania. Che ne pensa di questo cambio di marcia dei socialisti europei? Si tratta del solito giochino politicista fatto di opportunismi e miopi calcoli elettorali. Una cosa disgustosa oltre che un grosso errore. Fare calcoli sulla pelle di poveri cristi è ripugnante, trattare le persone sulla base della convenienza politica è lontanissimo dal mio modo di intendere la politica. Si fa politica seguendo la coscienza non per raccattare qualche voto. La nostra è una sinistra utopica, più vicina alla chiesa che ai socialisti E lo dico da laico. Ma, come afferma padre Alex Zanotelli, chi è contro i migranti non dovrebbe neanche entrare in chiesa. Esattamente un anno fa terminava il suo processo di appello a Reggio Calabria che poi sarebbe andato a sentenza il 10 ottobre. Oggi per un curioso scherzo del destino il suo storico rivale, il ministro Salvini si trova sul banco degli imputati con una richiesta di pena di sei anni di reclusione per sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio. È la legge del contrappasso o cos’altro? Sono le cose della vita, come si dice. Ma sono vicende diametralmente opposte. Intanto dal punto di vista del metodo: io non mi sono mai proclamato innocente a priori anche se sapevo di esserlo. Ma ho lasciato che la giustizia facesse il proprio corso e i giudici mi hanno dato ragione. Poi si tratta di capi di accusa molto diversi. Chi ha dato a Salvini il potere di sequestrare centinaia di persone in mare? Com’è stato possibile che si sia arrogato il diritto di disporre a suo piacimento di esseri umani per la sua propaganda? Io da sempre lotto per una società giusta e solidale che è l’esatto contrario di quel che fanno i leghisti. A Riace la Lega ha governato cinque anni e alle ultime elezioni è arrivata ultima. Vorrà pur dire qualcosa. Significa che alla prova del governo falliscono. Significa che le loro politiche, anche quelle sui migranti, sono fallimentari.