Il rapporto choc del Garante Nazionale: carceri al collasso di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 settembre 2024 Il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, dopo la recente scomparsa di D’Ettore, composto ora dall’avvocata Irma Conti e dal professore Mario Serio, ha recentemente pubblicato un rapporto che getta l’ennesima luce inquietante sulla situazione delle carceri. Lo studio, aggiornato al 16 settembre 2024, rivela un quadro allarmante di suicidi e sovraffollamento che mette nuovamente in discussione l’intero sistema penitenziario. Dall’inizio dell’anno, 67 detenuti (anche se secondo lo studio attento di Ristretti Orizzonti siamo a 70) hanno deciso di togliersi la vita, un numero che supera di gran lunga i 48 suicidi registrati nello stesso periodo del 2023. Questo drammatico aumento di 19 casi in soli nove mesi evidenzia una crisi profonda che si sta consumando lontano dagli occhi della società. Il profilo di chi sceglie di porre fine alla propria vita dietro le sbarre è variegato, ma emergono alcuni dati significativi. La stragrande maggioranza sono uomini (65 su 67), con un’età media di 40 anni. Il 54% sono italiani, mentre il restante 46% proviene da 15 diversi paesi, sottolineando come il disagio non conosca nazionalità. Particolarmente colpite sono le fasce d’età tra i 26 e i 39 anni (30 persone) e tra i 40 e i 55 anni (18 persone), evidenziando come il suicidio colpisca soprattutto nel pieno della vita adulta. La posizione giuridica di chi si toglie la vita offre ulteriori spunti di riflessione: 29 erano stati condannati in via definitiva, ma ben 24 erano in attesa di primo giudizio, 9 avevano una posizione cosiddetta “mista con definitivo”, cioè con almeno una condanna definitiva e altri procedimenti penali in corso, 2 ricorrenti, 2 appellanti e 1 internato provvisorio. Questo dato solleva interrogativi sulla gestione dei detenuti in attesa di processo e sulle condizioni in cui sono costretti a vivere. Il rapporto del Garante non si limita a fornire numeri, ma scava più a fondo, rivelando dettagli che dipingono un quadro ancora più preoccupante. Delle 67 persone che si sono suicidate, 18 (il 27%) risultavano senza fissa dimora, mentre 31 (il 46%) erano disoccupati. Questi dati suggeriscono una correlazione tra marginalità sociale e rischio di suicidio in carcere, evidenziando come il sistema penitenziario spesso si trovi a gestire problematiche che vanno ben oltre la semplice detenzione. L’analisi delle sezioni in cui sono avvenuti i suicidi rivela un altro dato allarmante: l’ 85% dei casi (57 su 67) si è verificato in sezioni a custodia chiusa, suggerendo che l’isolamento e la mancanza di contatti sociali possano essere fattori determinanti nella decisione di togliersi la vita. Ma il dramma dei suicidi è solo la punta dell’iceberg di un sistema in crisi. Il rapporto evidenzia un aumento generalizzato degli eventi critici rispetto all’anno precedente. Aggressioni, atti di autolesionismo, tentativi di suicidio e manifestazioni di protesta sono tutti in aumento, dipingendo l’immagine di un ambiente sempre più teso e instabile. Al centro di questa crisi c’è il problema del sovraffollamento. L’indice di sovraffollamento è passato dal 115,36% del 30 giugno 2022 al 131,77% del 16 settembre 2024. In pratica, le carceri italiane ospitano un terzo di detenuti in più rispetto alla loro capacità. Alcuni istituti raggiungono livelli di sovraffollamento estremi, come San Vittore (226,56%), Brescia (206,04%), Foggia (194,78%) o Verona (186,48%). Il Garante ipotizza una correlazione diretta tra l’aumento del sovraffollamento e l’incremento degli eventi critici, suggerendo che le condizioni di vita sempre più difficili all’interno delle carceri possano essere un fattore scatenante per comportamenti autolesionisti o violenti. Non meno preoccupante è il dato sui decessi per cause da accertare: 17 dall’inizio dell’anno, di cui 10 italiani e 7 stranieri. Anche in questo caso, l’età media si aggira intorno ai 40 anni, confermando come la fascia centrale della vita adulta sia quella più a rischio. Il rapporto del Garante Nazionale si configura come un grido d’allarme che non può essere ignorato. La situazione nelle carceri ha raggiunto un punto critico, dove sovraffollamento, mancanza di prospettive e condizioni di vita degradanti stanno creando un mix esplosivo. In tutto questo si inserisce anche il dibattito in corso sul disegno di legge sulla sicurezza, attualmente in Parlamento, che sta sollevando forti preoccupazioni tra i Garanti territoriali. Il Portavoce della Conferenza Nazionale dei Garanti, Samuele Ciambriello, e il Coordinamento nazionale denunciano il rischio di misure di dubbia legittimità costituzionale che potrebbero avere conseguenze devastanti sul sistema carcerario italiano. L’esasperazione nelle carceri, aggravata da condizioni inumane e dall’indifferenza istituzionale, rischia di far esplodere la situazione. Nonostante esistano proposte per alleggerire la pressione, come la liberazione anticipata speciale promossa dal deputato Roberto Giachetti e Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, il Parlamento sembra ignorarle, mettendo a rischio la stabilità del sistema penitenziario. Il disegno di legge sulla sicurezza, attualmente in discussione, introduce diverse misure altamente contestate. Tra queste, l’abolizione del differimento obbligatorio della pena per le donne incinte e le madri di bambini piccoli, in contrasto con le norme sulla tutela della maternità. Inoltre, le nuove disposizioni rafforzano i controlli nelle carceri e nei centri per migranti, introducendo pene più severe per le proteste, anche quelle pacifiche. In particolare, si teme una criminalizzazione del dissenso, con l’equiparazione tra atti di violenza e semplici forme di disobbedienza civile, come gli scioperi della fame. I Garanti per i diritti delle persone private della libertà hanno espresso profonda preoccupazione per queste misure, lanciando un appello al ministro della Giustizia affinché intervenga. Preoccupazione anche della garante per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti, che a prosito delle tensioni negli Ipm, da Milano fino a Roma, ha dichiarato: “È un dato oggettivo l’aumento significativo degli ingressi negli istituti penali minorili a seguito del decreto Caivano: parliamo di un + 50,6% in un anno. Credo che gli Ipm debbano essere profondamente ripensati perché siano veramente luoghi di recupero del minorenne”. Sovraffollamento e suicidi: così non si può continuare di Stefano Anastasia garantedetenutilazio.it, 17 settembre 2024 Al rilevamento del 31 agosto scorso, pubblicato sul sito del ministero della Giustizia, erano 61.758 le persone detenute nelle carceri italiane, circa quindicimila in più rispetto ai posti effettivamente disponibili. Non c’erano così tanti detenuti in carcere in Italia da quando la Corte europea dei diritti umani, nel 2013, ci condannò per trattamenti inumani e degradanti causati dal sovraffollamento degli istituti di pena. Nel frattempo, dall’inizio dell’anno settanta persone si sono tolte la vita in carcere, alcune non sopportando la restrizione in quelle condizioni, altre la prospettiva di lunghe pene, altre ancora il rimorso nei confronti delle vittime o dei propri stessi familiari (condannati con loro a una vita di sofferenze); altri - infine - perché terrorizzati dalla prossima uscita, dalla incertezza per un futuro a cui il carcere non ha dato quello che la Costituzione richiede, una prospettiva di reinserimento nell’autonomia e nella legalità. Certo, il sovraffollamento e l’elevato tasso di suicidi in carcere (ma mai così alto come quest’anno!) sono malattie endemiche del nostro sistema penitenziario, che richiedono scelte strategiche su cui investire e che finora non sono mai state fatte con convinzione e determinazione: vogliamo che il carcere sia l’extrema ratio della sanzione penale, riservato agli autori dei reati più gravi contro la persona o al soldo delle organizzazioni criminali, oppure ci sta bene quello che di fatto è, un ospizio dei poveri che vivono di espedienti e disturbano la quiete o il decoro pubblico? Nel primo caso strutture e personale penitenziario sono più che sufficienti: in carcere non ci starebbero più di venti-trentamila persone, che potrebbero essere prese adeguatamente in carico e accompagnati nel percorso rieducativo previsto dalla Costituzione. Bisognerebbe però investire in strutture e servizi pubblici, in progetti di sostegno sociale e di inserimento lavorativo per le persone, i quartieri e le aree territoriali svantaggiate. Nel secondo caso, quello dell’ospizio dei poveri, non basteranno gli otto padiglioni programmati con i fondi PNRR, né le caserme, le comunità o i rimpatri favoleggiati dal Governo, ma bisognerebbe raddoppiare il personale penitenziario, sanitario e scolastico impegnato nelle carceri, in un piano non meno che decennale. Per chi scrive, queste sono due lucide prospettive alternative, una di destra (il carcere ospizio dei poveri), l’altra di sinistra (l’extrema ratio, il recupero e il reinserimento sul territorio della marginalità sociale), e spero che un giorno se ne possa discutere seriamente. Intanto però si deve agire nell’emergenza di un sovraffollamento intollerabile e di una sequenza di suicidi impressionante. Il Governo fin qui ha fatto finta di non vedere o di non capire, alimentando tensioni nelle carceri con una politica di contrapposizione e di chiusura. Esempi ne sono l’inutile decreto approvato ai primi di agosto e il disegno di legge all’esame della Camera, in cui al florilegio dei reati contro le manifestazioni di opposizione o le occupazioni di immobili, sono state aggiunte la revisione in peggio del codice penale di epoca fascista, che stabiliva il rinvio obbligatorio della esecuzione della pena per le donne incinte e la madri di neonati con meno di un anno di età, e il nuovo reato di rivolta carceraria, che potrà essere commesso anche da tre detenuti che in maniera assolutamente pacifica si rifiutino di rientrare dal cortile dell’aria per poter parlare con il direttore, il magistrato di sorveglianza o il garante di qualcosa che non funziona in carcere. In un momento di resipiscenza, non appena approvato l’inutile decreto, il Ministro Nordio ha incontrato i garanti territoriali e ha annunciato nuovi provvedimenti, che avrebbe illustrato direttamente al Presidente della Repubblica, per dare soluzione al problema del sovraffollamento. Intanto però alla Camera si vota quel disegno di legge esplicitamente rivolto all’aumento della popolazione detenuta attraverso la criminalizzazione di manifestazioni politiche, condizioni di disagio e legittime proteste. In questo modo, diciamolo chiaro, non se ne viene a capo: le condizioni di vita e di lavoro in carcere saranno sempre peggiori e con il sovraffollamento aumenteranno proteste e atti estremi di autolesionismo. È ora che il Governo ne prenda atto e si apra al confronto con le opposizioni anche per l’adozione di provvedimenti straordinari di clemenza previsti dalla Costituzione. Nel frattempo sta alla responsabilità e alla intelligenza degli operatori della giustizia, del penitenziario e del territorio usare tutti gli strumenti a disposizione per allentare la tensione nelle carceri e facilitare l’accesso alle alternative di chi potrebbe legittimamente goderne. Defence for Children lancia l’allarme: “Sovraffollamento inaccettabile negli Ipm italiani” Il Messaggero, 17 settembre 2024 Un’analisi sulle condizioni dei giovani nelle carceri svela le condizioni in cui vivono i detenuti italiani. Dopo i recenti avvenimenti nelle carceri minorili in Italia tra evasioni e proteste dei detenuti, Defence for children lancia l’allarme sulle condizioni dei ragazzi negli IPM. “Ennesima rivolta nelle carceri minorili. Questa volta è successo a Casal Del Marmo (Roma), dove se ne contano tre nel giro di una settimana. Il problema è il fallimento di una recente politica istituzionale senza progetti capaci di garantire misure preventive e riabilitative così come prevede la legge e che ha condotto al sovraffollamento delle carceri minorili”, commenta Pippo Costella, direttore di Defence For Children Italia. I recenti fatti di cronaca che hanno visto coinvolto l’Istituto Penale Minorile nella periferia di Roma. “Come dimostrano i dati rilevati dall’osservazione di Antigone, e come abbiamo noi stessi avuto modo di constatare come Associazione tramite le attività che conduciamo in alcuni IPM, a seguito delle nuove decretazioni, la popolazione carceraria minorile negli ultimi mesi è cresciuta esponenzialmente nel sistema dei 17 istituti penali presenti in Italia”, continua Costella. A fine giugno del 2023 erano 406 i minori negli istituti penitenziari, adesso sono 529 per 496 posti ufficialmente disponibili, dicono i numeri diffusi dal Garante nazionale delle persone detenute. Si tratta di un sovraffollamento del 106,65%. “Questa crescita - spiega Costella - è causata soprattutto dal cosiddetto Decreto Caivano che amplia le possibilità di custodia cautelare e limita le opportunità di applicare misure alternative al carcere. Un approccio molto lontano da ciò che il nostro stesso ordinamento del 1988, considerato ‘illuminato’ nel mondo, è riuscito concretamente a dimostrare negli anni passati”. Sarebbe stato proprio il sovraffollamento a far scattare le proteste nel carcere minorile di Casal Del Marmo. Secondo alcune fonti, sembrerebbe che vivano in 70 in spazi programmati per 50 persone. Una situazione di disagio che ha portato i giovani detenuti a bruciare materassi e a barricarsi nella sala medica. “Ogni ragazzo ha bisogno e diritto di essere considerato ed ascoltato per fare in modo che qualsiasi misura possa risultare utile ed adeguata. Questa è la logica che abbiamo seguito nel raccogliere le loro voci nel nostro podcast Just Closer”, conclude Costella. Figli di una giustizia minore. Dietro le evasioni e le rivolte nelle carceri minorili di Valentino Maimone La Ragione, 17 settembre 2024 Possiamo raccontarcela come vogliamo, ma l’Italia resta quel Paese in cui - se parli di carceri - il tuo interlocutore tende ad assumere un’espressione assente di disinteresse (bene che ti vada) oppure si monte il labbro nel tentativo di trattenersi dal risponderti qualcosa come: “La galera non è un albergo”. Che decine di migliaia di esseri umani vivano accalcati in casermoni lerci, vetusti e indegni di una comunità civile sembra essere diventata un’ovvietà. Ci si abitua a tutto, figuriamoci a qualcosa che neanche si vede, se non attraverso qualche manciata di secondi di immagini (di repertorio) nei Tg quando arriva la notizia dell’ennesimo suicidio, dell’ennesima rivolta, dell’ennesima evasione. A prescindere da quel pochissimo che sta facendo la politica, l’aspetto più avvilente è che neppure le continue manifestazioni di protesta nelle carceri minorili riescono a far breccia nell’imperturbabilità del cittadino medio. In questi giorni abbiamo saputo di evasioni riuscite e tentate, celle devastare, materassi incendiati, disordini arginati a fatica nei penitenziari riservati ai minorenni. à successo al “Beccaria” di Milano e a “Canal del Marmo” di Roma, ma chissà quante altre strutture sono in ebollizione mentre state leggendo queste righe. Per la grande maggioranza dei cittadini il mondo degli istituti penitenziari rninorili è ancora più misconosciuto di quello delle carceri per adulti. Errore blu: ignorarlo potrà cancellarlo dalla coscienza, ma non certo rimuoverlo dalla realtà. E allora scoperchiamolo, questo universo carcerario per under 18. Come per gli adulti, anche nell’altra metà del cielo a scacchi si soffre un sovraffollamento fino a qualche anno fa sconosciuto e ora in vertiginoso aumento. Gli ultimi dati di Antigone spiegano che, nei 586 istituti penali per minorenni, nel 2023 si è toccato il numero più alto di nuovi ingressi da diverso tempo a questa parte (1.142). E che a metà giugno di quest’anno il totale dei giovani detenuti era di 555 unità, a fronte di 514 posti ufficialmente disponibili. Per capirsi: a giugno 2023 i presenti totali erano 406, alla fine del 2019 dietro le sbarre c’erano solo 369 ragazzi. Andiamo avanti. Poco meno di due giovani ristretti su tre (il 64,1% contro circa il 30% fra i maggiorenni) sono in attesa di una sentenza definitiva, dunque ancora innocenti. Qualcuno di loro verrà definitivamente assolto e a quel punto cosa mai potrà riparare il danno? E ancora. In quella realtà - che non ha nulla a che spartire con la saga patinata e buonista di “Mare fuori” - il 61% degli ospiti (346) è under 18, il resto è fatto da giovani adulti in cella per un reato che risale a quando erano minorenni. Un po’ meno della metà è fatto di stranieri, in tre casi su quattro nordafricani. La struttura più affollata è quella di Nisida a Napoli (66 detenuti), quella con meno presenze è a Cagliari (9 a Quartucciu). Più di un addetto ai lavori segnala i danni della cosiddetta Legge Caivano del dicembre scorso: pensata per reprimere il fenomeno delle baby gang, ha finito per incrementare gli ingressi e per aumentare il travaso di detenuti 18-20enni nei penitenziari per adulti (interrompendo quindi i percorsi educativi), con in più il difetto di aver limitato l’accesso alla “messa in prova”. E così una situazione già complicata di suo ha finito per aggravarsi: giovani arrestati al Nord vengono trasferiti nelle carceri del Sud per sovraffollamento, sradicandoli da quei pochi riferimenti territoriali che hanno. Con l’unico risultato concreto di spostare temporaneamente il problema. Mentre centinaia di ragazzi finiscono sotto trattamento generalizzato di psicofarmaci, nell’impossibilità per le strutture carcerarie di seguirli individualmente. E’ nella nostra pia illusione che l’art. 27 della Costituzione e l’art. 1 dell’ordinamento penitenziario abbiano ancora un significato concreto. Il panpenalismo preventivo rischia di travolgere i principi del diritto penale liberale e alimenta la “colpa d’autore” di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 17 settembre 2024 È capitato spesso nel nostro Paese che singoli fatti di cronaca abbiano indotto i governi ad assumere iniziative istantanee in materia di politica criminale, sull’onda emotiva dell’opinione pubblica, magari condizionata dal rimbalzare delle notizie sui media, spesso moltiplicatori dell’ansia securitaria. Molte volte è accaduto che eventi traumatici della cronaca nera abbiano convinto i decisori politici a inasprire le pene per un determinato reato, a rendere obbligatoria una misura cautelare in carcere per i presunti autori di delitti particolarmente odiosi, a introdurre nuove ostatitività alla concessione di misure alternative o addirittura nuove fattispecie di illecito o nuove aggravanti per coprire contesti devianti di particolare allarme sociale. È accaduto con i reati a sfondo sessuale, con il fenomeno dell’immigrazione irregolare, con i reati di genere, con i reati di corruzione. Si è trattato di iniziative di politica estemporanee, intrinsecamente giustificate da una forte spinta emotiva collettiva, che proprio per questa ragione sono infine cadute sotto la scure della Corte costituzionale o sono state oggetto di ripensamento da parte dello stesso legislatore. Ma ciò che è accaduto e che sta accadendo ora con il cd. “pacchetto sicurezza” ha qualcosa di imprevisto e di innovativo, in quanto non si tratta di norme insufflate da sentimenti viscerali di insicurezza e dalla sensazione diffusa di un accerchiamento da parte di una criminalità aggressiva e non altrimenti controllabile. Difatti, non sono solo i dati statistici a rassicurarci in ordine alla costante diminuzione dei reati nel nostro Paese, ma è anche vero che i fatti criminali più sconcertanti che hanno caratterizzato le più recenti cronache giudiziarie, sono apparsi a tutti come fenomeni maturati all’interno di ambiti familiari o frutto di devianze occasionali e incontrollabili che non hanno pertanto prodotto indiscriminate istanze securitarie dal basso. Persino i fenomeni relativi alle rivolte carcerarie sono stati caratterizzate da moti estemporanei condizionati più dal disagio che da vere e proprie spinte criminali, privi di una qualche organizzazione e di alcuna finalità eversiva. Insomma, i fenomeni più recenti sembrano aver bisogno più che di dure risposte repressive, di ascolto della realtà, di una presenza dello Stato fatta di assistenza, di prevenzione e di recupero. Contesti che necessitano dunque di più vasti e complessi interventi culturali piuttosto che di criminalizzazione del dissenso e di inasprimenti sanzionatori. Si tratta, infatti, di aree problematiche che più ragionevolmente potrebbero essere gestite attraverso una maggiore efficienza delle amministrazioni e una più oculata presenza delle istituzioni. Ciò a cui oggi assistiamo è dunque qualcosa di nuovo e di diverso. Una sorta di pan- penalizzazione preventiva a vasto spettro, che implica la creazione di nuove fattispecie di reato, la criminalizzazione di condotte che non erano state mai ritenute offensive, uno sproporzionato aumento delle sanzioni a tutela univoca dei tutori dell’ordine, l’introduzione di nuove ostatività alla concessione di benefici penitenziari, l’aumento delle prerogative della polizia giudiziaria. Un disegno riformatore di evidente quanto irragionevole impronta repressiva e securitaria, introdotto sostanzialmente “a freddo”, che non risponde infatti, contrariamente a quanto accaduto più volte nel passato, ad alcuna spinta sociale, ad alcun evento destabilizzante. È quanto era già accaduto all’esordio di questo governo, con la legge anti- rave. Una serie di misure prese nell’ambito della regolamentazione di un fenomeno privo di veri connotati criminali, di modesta incidenza e allarme sociale, per il quale l’ordinamento è stato dotato di misure sproporzionate quali l’intercettazione e la confisca e di un armamentario sanzionatorio degno di ben altri fenomeni illeciti. I principi di ragionevolezza, di proporzionalità e di offensività, propri di quel diritto penale liberale al quale dovrebbe tendere ogni moderno Stato di diritto, vengono evidentemente travolti. Ma viene anche a cadere ogni possibile ipocrita giustificazione dell’aver dovuto rispondere a una irresistibile sollecitazione emotiva dal basso, instaurandosi, invece, una costruzione identitaria deliberatamente impostata sull’impronta di un “diritto penale del nemico” e su di una responsabilità da “colpa d’autore”, tipica dei regimi autoritari, nella quale la stigmatizzazione penale si attiva non per quello che eventualmente hai fatto ma per “quello che sei”. Si tratta di un voltare pagina definitivo su quel diritto penale liberale che avrebbe dovuto al contrario ispirare l’azione riformatrice di questo governo. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Decreto flussi e giustizia, accelerata sulle riforme per blindare Salvini di Serena Riformato La Stampa, 17 settembre 2024 La solidarietà al segretario della Lega arriva anche da Tajani e dall’ungherese Orban. Le priorità sul tavolo sono la separazione delle carriere e la riforma della Bossi-Fini. La difesa di Matteo Salvini da parte della maggioranza, sul caso Open Arms, si sviluppa su due linee parallele. La prima: il sostegno pubblico, senza eccezioni e senza esitazioni, di tutto il centrodestra. La seconda: un’azione legislativa rinvigorita sui temi riportati sotto i riflettori dal processo, immigrazione e giustizia. Sul piano della comunicazione, il leader del Carroccio può rivendicare la solidarietà dell’internazionale delle destre europee contro quello che definisce “un processo politico e un tentativo della sinistra di attaccare il governo e il diritto alla difesa dei confini nazionali”. Dopo Marine Le Pen, Geert Wilders, Jordan Bardella, Gerolf Annemans, Santiago Abascal, anche il primo ministro ungherese Viktor Orbán gli ha espresso la sua vicinanza con parole di miele: “Matteo Salvini è il nostro eroe!”. Di più: “Il patriota più coraggioso d’Europa punito per aver fermato la migrazione”. Nonostante le rimostranze dell’Associazione nazionale magistrati, i giudizi dell’esecutivo italiano sul processo in corso continuano a essere tranchant. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani, intervistato all’Aria che tira su La7, denuncia “un intento politico da parte della pubblica accusa” di Palermo che “cerca di ribaltare una posizione politica sull’immigrazione”. Se il segretario di Forza Italia rivendica “toni diversi dalla Lega sul modo di integrare”, non ha dubbi nel vedere una “forzatura” da parte dei magistrati. Uno scontro fra poteri? “Bisogna fare la riforma della giustizia” proprio per evitarlo, ragiona Tajani: “Ecco perché è indispensabile la separazione delle carriere”. Dopo l’accelerazione decisa a giugno in un vertice di centrodestra, il disegno di legge prosegue il suo iter in commissione Giustizia alla Camera. La maggioranza va a passo di marcia, ma non vuole legare il tema all’attualità: “Non si fanno le riforme costituzionali sull’onda dell’emozione di un caso di cronaca”, dice a La Stampa il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto. Certo, continua il forzista, “è intendimento del governo arrivare in aula prima possibile”. Una data, per ora, non c’è. Il provvedimento deve ancora superare la fase delle audizioni. Il presidente della commissione Giustizia Nazario Pagano, nel cadenzare i lavori, segue l’alternanza decisa da un accordo di coalizione: una settimana dedicata al premierato, una alla separazione delle carriere. Un intervento normativo sicuramente in arrivo riguarderà invece l’immigrazione. Il governo andrà a ritoccare la Bossi-Fini, e più nello specifico i decreti flussi che ogni anno permettono l’ingresso di una quota prestabilita di stranieri regolari. Nel 2023 i dati avevano evidenziato delle palesi irregolarità (tuttora al centro di un’indagine): la Campania da sola contava la metà delle domande, cinque volte i numeri del Veneto. Per questo, le nuove norme allo studio del Viminale elimineranno il meccanismo del click day nazionale e prevederanno una ripartizione regionale. E soprattutto, sulle aziende verranno esercitati controlli più rigidi, a partire dalle verifiche sullo storico: quante le richieste inoltrate negli anni precedenti, quanti i contratti realmente registrati per i lavoratori richiesti. Lunedì 23 settembre, il governo incontrerà i sindacati a Palazzo Chigi per discutere del dossier. E c’è chi, come Andrea Zini, presidente di Assindatcolf, Associazione Nazionale dei datori di lavoro domestico, chiede già cambiamenti più significativi per “uscire dal rigido sistema delle quote e superare la logica del click day, prevedendo, per il lavoro domestico, la possibilità di avanzare domanda in qualsiasi momento dell’anno sulla base del fabbisogno delle famiglie, che non è programmabile”. Il paradosso del decreto legge Nordio: lascia abuso d’ufficio e nuovo peculato in vigore insieme di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2024 L’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, prevista dalla legge del 9 agosto 2024 n. 114, ha sollevato critiche sostanziali, sia sul piano giuridico che su quello istituzionale. La recente memoria della Procura di Reggio Emilia, che solleva la questione di legittimità costituzionale della norma che ne ha disposto l’abrogazione, mette in luce le molteplici incongruenze che questa decisione legislativa ha generato, in particolare, per quanto riguarda la tutela del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, ma anche per le possibili violazioni degli obblighi internazionali. Uno dei punti chiave sollevati nella memoria è la possibile violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione. L’abrogazione dell’abuso d’ufficio ha di fatto eliminato, infatti, la sanzione per una condotta che, in molte circostanze, appare di maggiore gravità rispetto ad altre fattispecie ancora penalmente rilevanti, come l’omissione di atti d’ufficio (art. 328 c.p.). Questo ha creato una “disparità di trattamento”, come argomentano i magistrati, tra condotte omissive meno gravi, che restano punibili, e condotte più dannose che ora risultano non perseguibili. La Procura non manca, contemporaneamente però, di sottolineare che la questione della legittimità costituzionale rischierebbe di reintrodurre retroattivamente, in caso di una dichiarazione di incostituzionalità della legge, norme penali abrogate comportando un effetto “in malam partem” per gli imputati per via della “riespansione” della norma abrogata. A parte questo effetto, quale diretta conseguenza di un accoglimento del ricorso, cosa possibile considerata la qualità del percorso legislativo, un altro aspetto importante riguarda la violazione degli obblighi internazionali, in particolare quelli derivanti dalla Convenzione Onu di Merida contro la corruzione, ratificata dall’Italia nel 2009. Con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, l’Italia va contro gli impegni assunti per garantire la trasparenza e prevenire i conflitti di interesse nella gestione della cosa pubblica. Ma non basta, la scelta del legislatore pone il nostro Paese in una posizione di non conformità anche rispetto alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea, dove il reato di abuso d’ufficio rappresentava una garanzia contro l’uso illecito dei fondi pubblici. Ma non è tutto. Un elemento poco discusso, ma rilevante, riguarda la tempistica della firma del Presidente della Repubblica. La firma del d.d.l. Nordio è arrivata, infatti, al trentesimo giorno proprio per consentire prima la pubblicazione del decreto-legge “carceri” che introduceva il nuovo reato di peculato per distrazione (art. 314-bis c.p.), pensato come compensazione per l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Questa manovra, ideata per evitare un vuoto normativo, ha però provocato una situazione paradossale in cui, per un breve periodo, entrambi i reati sono stati in vigore contemporaneamente, generando confusione e incertezze nel sistema giudiziario. Questa sovrapposizione normativa ha complicato notevolmente il lavoro dei giudici, creando difficoltà nell’applicazione delle norme, che vedremo in seguito per i ricorsi che ne verranno, e nella gestione dei procedimenti penali in corso. Per cui, se da una parte, come evidenziato dalla memoria della Procura di Reggio Emilia, l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio non solo solleva questioni di legittimità costituzionale, ma pone anche l’Italia in violazione di obblighi internazionali e europei, dall’altra la strategia adottata per compensare l’abrogazione, con l’introduzione del reato di peculato per distrazione, ha di fatto generato una sovrapposizione normativa temporanea che complica ulteriormente il panorama giuridico e giudiziario. La decisione del Presidente della Repubblica di firmare il d.d.l. Nordio al trentesimo giorno prova quanto sia stata complessa la situazione, con ripercussioni potenzialmente dannose per l’equilibrio del sistema giudiziario ma, principalmente, al di là di qualsiasi valutazione puramente ideologica, mette in luce carenze significative nel processo di redazione legislativa. La qualità del percorso seguito, infatti, presenta una serie di criticità strutturali e procedurali che hanno amplificato le conseguenze negative di questa scelta. Innanzitutto, la decisione di abrogare un reato così centrale per la tutela dell’integrità della pubblica amministrazione appare priva di un’adeguata valutazione d’impatto. L’abuso d’ufficio non è stato sostituito da un altro strumento normativo equivalente per garantire la trasparenza e prevenire i conflitti di interesse, lasciando aperti ampi margini di impunità per condotte che, in un sistema moderno, dovrebbero essere fortemente sanzionate. L’introduzione dell’art. 314-bis c.p. (peculato per distrazione) come tentativo di compensare questa lacuna normativa risulta debole e non risponde pienamente alle esigenze di tutela pubblica precedentemente garantite dall’abuso d’ufficio, per non dire della tempistica confusa con cui sono state introdotte queste modifiche. Questa sovrapposizione normativa è indice di una scarsa pianificazione legislativa, aggravata dalla mancanza di chiarezza e di coordinamento sulle finalità e sulle conseguenze pratiche delle nuove disposizioni. L’assenza di questi aspetti, purtroppo, denota una debolezza nella valutazione giuridica internazionale e nella visione legislativa, che dovrebbero essere, invece, elementi centrali in ogni riforma normativa. *Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato Su Open Arms commenti irrazionali. La politica non può dare ordini ai pm di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 17 settembre 2024 Il magistrato: “Il Parlamento disse sì all’indagine ma questo non equivale a condannare. Il vicepremier non è a processo per aver difeso i confini, ma per come lo ha fatto”. Nei commenti alla richiesta di condanna del ministro Salvini da parte dei Pm di Palermo oltre a diversi “toni forti”, colpisce la irrazionalità, quando non la stravaganza di non poche posizioni. Piuttosto che confrontarsi con la specificità del caso meglio buttare il pallone in tribuna: “Processo politico, magistratura politicizzata”, “Nefasta eredità del 92-93 Tangentopoli”. La riforma sui processi per i “reati ministeriali” è stata adottata con la legge costituzionale n.1 del 1989: Tangentopoli era di là da venire. Processo politico, si dice, ma la magistratura procede perché il Parlamento nel 2019 ha escluso che in questo caso “l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”. Un limite chiarissimo all’azione della magistratura posto dal testo della legge costituzionale del 1989. La valutazione “insindacabile”, come prevede la legge costituzionale, è certamente, come ogni valutazione del Parlamento, politica, e come tale criticabile da chi non la condivise. Ma se vi è un caso in cui l’iniziativa della Procura è stata un “atto dovuto” è proprio questo: il Parlamento ha “ordinato” di procedere all’indagine. Indagine, rinvio a giudizio, richieste della pubblica accusa non sono ovviamente condanna ed è del tutto lecito che se ne discuta e si propongano critiche. Ha colpito l’entità della pena richiesta, sei anni di reclusione, ma è una conseguenza del più grave reato di sequestro di persona. La difesa non mancherà, immagino, di contestarne la ricorrenza nel caso specifico. Più arduo, immagino, contestare la sussistenza del reato di rifiuto di atto di ufficio, per il rifiuto, reiterato per diversi giorni, di indicare un Porto Sicuro come prescritto, dal diritto internazionale e prima ancora e da sempre dalla “legge del mare”. Il film “Comandante” l’anno scorso, ha riproposto la vicenda del comandante Salvatore Todaro del sommergibile italiano “Cappellini” che aveva soccorso e portato in un Porto Sicuro i naufraghi della nave che aveva affondato in azione di guerra. La Marina italiana è giustamente orgogliosa del gesto del comandante Todaro, che invece fu aspramente criticato dall’Ammiraglio nazista Karl Doenitz (poi condannato a dieci anni dal Tribunale di Norimberga) per aver messo a rischio la sua unità da guerra. L’invettiva di Elon Musk, “quel pm pazzo dovrebbe andare lui in galera per sei anni”, anche se si tratta di personaggio non irrilevante nel panorama mondiale, potrebbe essere liquidata come una “americanata”. Non altrettanto la confusione di alcuni commenti e, soprattutto, la grave sgrammaticatura istituzionale delle prese di posizione di diversi esponenti del Governo. La seconda carica dello Stato, il senatore Ignazio La Russa, denuncia: “I pm vogliono interpretare le norme!”, ma è ciò che pm, giudici e giuristi fanno da sempre e ovunque e non vi si sarà sottratto, nella sua attività professionale, nemmeno l’avvocato La Russa. Non è un elegante escamotage, ma solo furbesco atteggiamento quello del ministro Nordio che esprime “piena e affettuosa solidarietà al collega”. Cosa vuol dire? Solidarietà all’ “ingiustamente perseguitato dalla magistratura politicizzata”? Solidarietà umana a chi si è messo nei guai? Il ministro Piantedosi ci vuole spiegare perché la richiesta dei pm di Palermo è “una evidente e macroscopica stortura e una ingiustizia per lui e per il Paese”? Il ministro Tajani parla di “scelta irragionevole e senza fondamento giuridico”. I due ministri sembrano volersi aggregare al collegio di difesa di Salvini, peraltro egregiamente assicurata dall’avvocato Giulia Bongiorno, che non ha certo bisogno di così ingombranti supporti. Il nodo ineludibile è che il Parlamento, escludendo la sottrazione al giudizio della magistratura di un “atto politico di governo insindacabile” e dunque concedendo l’autorizzazione a procedere, ha messo fuori gioco la difesa oggi retoricamente e vacuamente evocata dal Ministro Salvini, processato non per aver “difeso i confini del proprio Paese”, ma per il come lo ha fatto. A maggior ragione, è una grave sgrammaticatura istituzionale il “mandato ricevuto dai cittadini” chiamato in causa dalla presidente del Consiglio Meloni, mandato che giammai potrebbe giustificare la violazione del diritto internazionale. Oggi alcuni ministri e la stessa presidente del Consiglio si avventurano sul delicato confine del rapporto tra esecutivo e magistratura, ma, per fortuna, non possono “ordinare” al pm di adeguarsi al “mandato ricevuto dai cittadini”. Vi è di che riflettere per coloro che, sostenendo la necessità di separare il pm dalla carriera comune con i giudici, lo avvicinerebbero pericolosamente all’influenza, dapprima, e poi, forse, alle direttive del governo. In diversi Paesi europei di consolidata democrazia il pm, con carriera separata dai giudici, è soggetto in qualche misura alle direttive del governo. Ma questa facoltà viene esercitata con grandissimo self restraint e mai si potrebbero trovare, su un caso specifico che coinvolga un esponente di governo, dichiarazioni come quelle che abbiamo appena visto da noi. Prima di toccare un delicato equilibrio costituzionale meglio, prudentemente, attestarsi, con Bartleby lo scrivano di Melville, su: “ Preferirei di no”. Caso Open Arms, dal divieto di ingresso al processo: tutte le tappe di Valentina Stella Il Dubbio, 17 settembre 2024 Nell’agosto 2019 l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini impedì lo sbarco di centinaia di migranti, poi l’autorizzazione a procedere e la richiesta di sei anni di reclusione per il leader leghista. Che respinge le accuse. Matteo Salvini è accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio per avere impedito, cinque anni fa, lo sbarco a Lampedusa dalla Open Arms di 147 migranti, comprese decine di minori, soccorsi nel Mediterraneo. Sabato la procura di Palermo ha chiesto per lui una condanna a sei anni di carcere. Ripercorriamo qui le tappe principali della vicenda. Il Conte I e il decreto sicurezza bis - Nel 2019 Salvini era ministro dell’Interno e vice presidente del Consiglio nel Governo Conte I, sostenuto dalla Lega e dal M5S. Nell’agosto del 2019, per 19 giorni, l’allora responsabile del Viminale impedì alla nave della ong spagnola di attraccare nei porti italiani, secondo il decreto sicurezza bis da poco approvato. Il primo agosto Salvini disponeva nei confronti della Open Arms il “divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale nazionale” con un decreto controfirmato dai Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, Trenta e Toninelli. Il divieto di ingresso poggiava sulla considerazione che l’attività della Open Arms avrebbe potuto determinare “rischi di ingresso sul territorio nazionale di soggetti coinvolti in attività terroristiche o comunque pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica”. Ma quando il pm chiederà a Salvini se “c’erano indicazioni specifiche, con nomi e cognomi, di possibili terroristi a bordo dell’Open Arms?”, lui risponderà “No”. Su ricorso dei legali della Open Arms il 14 agosto il Tar del Lazio sospendeva con proprio decreto l’efficacia del divieto di ingresso, emesso in data primo agosto 2019. In quel momento la Open Arms era in navigazione già da quasi due settimane, e a bordo la situazione stava diventando sempre più difficile: l’equipaggio, per esempio, aveva finito gli antibiotici e c’erano solo due bagni chimici per centinaia di persone. Grazie alla sentenza del Tar la nave potè entrare nelle acque italiane e arrivare fino alle coste dell’isola di Lampedusa, chiedendo di poter far sbarcare le persone. La “difesa” di Conte - Ma il Ministero dell’Interno predisponeva un nuovo decreto interdittivo per la Open Arms che, però, veniva sottoscritto dal solo Ministro Salvini poiché, come più volte emerso nel dibattimento, gli altri Ministri che avrebbero dovuto sottoscriverlo si erano rifiutati di controfirmarlo. Ad esempio, come spiegato dall’allora Ministra Trenta, non erano “intervenute altre novità, se non novità peggiorative rispetto alla vita di chi era a bordo. Ritengo che le nostre battaglie, giuste, non debbano ricadere sulla vita dei più fragili e che ci siano dei diritti umani che vadano sempre, sempre, sempre rispettati. Seppure ci fosse stata una minaccia di terrorismo, si poteva far sbarcare immediatamente le persone, assisterle e nel frattempo fare tutte le verifiche del caso”. Stesso dicasi per Toninelli: “Le informazioni che arrivavano erano informazioni che a bordo della nave la situazione diventava complicata”. Anche l’ex presidente del Consiglio Conte si pose successivamente al primo agosto contro le decisioni di Salvini. Tra le varie missive ne scrisse una in cui sottolineava come “ho ricevuto informazioni che confermerebbero la presenza, sull’imbarcazione Open Arms, di alcune decine di minorenni in condizioni di emergenza e in pericolo di vita” e invitava Salvini almeno a far sbarcare loro. Conte disse anche che diversi Paesi europei - tra i quali Francia, Germania e Spagna - gli avevano comunicato la disponibilità ad accogliere le persone migranti soccorse dalla Open Arms. Ciò non servì a far indietreggiare Salvini. Lo sbarco dalla Open Arms dopo 19 giorni e il via alle indagini - Fatto sta che la sera del 20 agosto, dopo 19 giorni, alla nave fu consentito di sbarcare le 83 persone migranti ancora sulla Open Arms. Nel frattempo alcune si erano buttate in mare, altre avevano raggiunto la terraferma con piccole imbarcazioni, o erano state autorizzate a scendere perché minorenni. Lo sbarco venne ordinato dal procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, dopo aver visitato la nave e aver incontrato la Capitaneria di porto. A novembre del 2019 il Tribunale dei Ministri ricevette la richiesta dai pm di procedere a indagini preliminari nei confronti del leader della Lega. A febbraio 2020 arrivò la decisione del collegio di chiedere al Senato l’autorizzazione a procedere. Nel provvedimento, con il quale il tribunale sostanzialmente avallava la ricostruzione dei pm, i giudici affermavano il principio dell’obbligo di prestare soccorso in mare e definirono come “amministrativo” e non politico l’atto di vietare l’approdo ai migranti disposto da Salvini. La decisione di non far sbarcare a Lampedusa i profughi soccorsi, secondo i magistrati, insomma, fu un atto deciso dall’allora ministro dell’Interno in maniera autonoma, quindi non condiviso con gli altri esponenti del Governo. Il 30 luglio del 2020 il Senato diede al tribunale dei ministri di Palermo l’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini, anche se inizialmente la Giunta per le immunità del Senato aveva dato parere negativo. Nel frattempo però era cambiato il contesto politico: Salvini era finito all’opposizione e si era insediato un governo di coalizione tra M5S e Partito Democratico, sempre con Conte come presidente del Consiglio. Anche il Movimento, che governava insieme a Salvini nel 2019, votò per autorizzare il procedimento contro Salvini. Il rinvio a giudizio - Nell’aprile del 2021 Salvini fu rinviato a giudizio, come chiesto dalla procura di Palermo che ora ne ha chiesto la condanna. Secondo i magistrati requirenti il leader del Carroccio “ometteva, senza giustificato motivo, di esitare positivamente le richieste di POS (place of safety) inoltrate al suo Ufficio di Gabinetto da IMRCC (Italian Maritime Rescue Coordination Centre) in data 14, 15 e 16 agosto 2019 (Il Tribunale dei Ministri individuò il 14 agosto 2019 come il momento a partire dal quale lo Stato italiano avrebbe dovuto indicare il POS essendosi, solo allora, manifestatasi, in via esclusiva, la responsabilità italiana), così provocando consapevolmente l’illegittima privazione della libertà personale dei predetti migranti, costringendoli a rimanere a bordo della nave per un tempo giuridicamente apprezzabile”. Il fatto è “aggravato per essere stato commesso da un pubblico ufficiale, con abuso dei poteri inerenti alle sue funzioni, nonché per essere stato commesso anche in danno di soggetti minori di età”. Il 18 ottobre parola alla difesa. Caso Open Arms, Musolino: “Deriva trumpiana, chi governa pretende un’immunità totale” di Mario Di Vito Il Manifesto, 17 settembre 2024 Intervista al segretario di Magistratura democratica: “L’idea che tutto sia un complotto o una macchinazione inquina i rapporti tra le istituzioni. Alzano il livello dello scontro per cercare di imporre le loro riforme”. La richiesta di condanna a sei anni nei confronti di Matteo Salvini per la vicenda Open Arms riapre, ancora una volta, il romanzone dello scontro tra forze politiche e magistratura, grande classico del dibattito pubblico italiano da almeno un trentennio a questa parte. Stefano Musolino, procuratore aggiunto a Reggio Calabria e segretario di Magistratura Democratica, nel weekend dal governo sono arrivati tuoni e fulmini contro la magistratura: hanno parlato tutti, da Meloni in giù e i toni sono quelli dello scontro totale… La reazione di Salvini, e ovviamente anche quelle del resto del governo, mi sembrano una sorta di influenza trumpiana sulla politica italiana. Il vicepremier, forse più degli altri, interpreta un po’ questo riflesso. È come se mancasse completamente la percezione della differenza tra ruolo istituzionale e vicende personali. Il risultato è, appunto, un attacco sempre più diretto ai magistrati. Nel merito, però, la vicenda appare piuttosto chiara: la requisitoria contro Salvini ha ricostruito con una certa precisione quanto accaduto nell’estate del 2019... Prima di tutto bisogna dire che siamo alla richiesta di condanna, non alla sentenza. In ogni caso, le reazioni di questi giorni sembrano quasi voler dire che quel processo non si doveva proprio fare, come se qualsiasi pronunciamento al di fuori dell’assoluzione fosse inaccettabile. Ma la cosa più incredibile di tutte è un’altra. Quale? C’è un tentativo di assimilarsi alla voce del popolo, quando in realtà un vicepremier è evidentemente in una posizione privilegiata rispetto a tantissimi altri. Mi spiego: ci sono molti imputati che si lamentano perché ritengono di aver subito una condanna troppo pesante o perché proprio ritengono di non dover rispondere di alcunché. Va bene, ma tutti debbono sottostare al processo. Nel caso di Salvini invece ci si pone al di sopra delle leggi e si pretende una sorta di immunità assoluta. Alla contestazione di fatti precisi si risponde come se fosse lesa maestà. Processi, scandali, teorie del complotto, addirittura gossip. Ogni settimana ne arriva una nuova. Non le sembra che questo governo soffra di sindrome dell’accerchiamento? L’idea che tutto sia un complotto o una macchinazione inquina i rapporti tra le istituzioni. La verità è che discorsi di questo tipo servono solo a distogliere l’attenzione dai problemi reali del paese, concentrandosi invece su questioni che riguardano gli interessi di pochissimi. In questo clima di scontro, le sembra che l’Anm stia facendo abbastanza? Le risposte alle dichiarazioni del governo certo non mancano, ma non si vedono iniziative più, diciamo, concrete. È un periodo in cui nel paese, anche per effetto dei ripetuti attacchi sistematici che vediamo ogni giorno, la magistratura non gode dei favori dell’opinione pubblica. Mi pare chiaro che da parte del governo ci sia un tentativo di alzare il livello dello scontro per portare avanti con maggiore facilità le riforme di cui tanto parlano. L’obiettivo finale è deformare i rapporti istituzionali. Soprattutto contro la magistratura e contro i diritti dei più deboli. Di battaglie tra toghe e politica ne abbiamo viste parecchie. Rispetto al passato come giudica questa fase? Probabilmente è una delle fasi peggiori di sempre, proprio perché c’è stato un lungo lavoro di logoramento dell’immagine della magistratura, che ora è più debole rispetto al passato e viene vista come una parte come un’altra all’interno dell’agone politico. Intendiamoci, questo è avvenuto anche per colpe proprie, ma dobbiamo ricordarci che l’attacco alla magistratura è un attacco ai diritti di tutti. Caso Cospito, Donzelli: “Delmastro mi disse che non erano notizie riservate” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 settembre 2024 Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d’Italia, chiamato come testimone al processo che vede imputato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro con l’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio nell’ambito della vicenda Cospito, ha ricostruito in aula, quanto avvenuto il 30 e il 31 gennaio 2023. Dopo le polemiche scaturite dalle dichiarazioni in aula Donzelli ha chiesto al sottosegretario Delmastro se le informazioni riferite su Cospito fossero o meno di natura riservata. “È stato nettissimo, ha detto: “sono cose che potevo dirti”“, spiega Donzelli. “Delmastro mi assicurò che quelle notizie che mi aveva riferito non erano riservate - dice il testimone -. Lui mi disse di averlo chiesto anche al magistrato Sebastiano Ardita che gli assicurò che non c’era alcuna violazione”. Ardita, lo ricordiamo, ha diretto la direzione generale detenuti del Dap ed è stato componente togato del Csm. “Il 30 ho avuto il primo colloquio con Delmastro - ha detto ancora Donzelli - in generale sul rapporto tra Cospito e altri detenuti e lì mi ha accennato qualcosa, ma le parole specifiche che ho citato sono invece del 31 mattina” quando ho incontrato il sottosegretario alla Giustizia casualmente “in Transatlantico. Ho preso appunti sul cellulare e su un fogliettino. E poi sono andato a elaborare gli appunti prima dell’intervento in aula. Ho pensato che fosse necessario evidenziare in Parlamento quanto fosse utile difendere il 41 bis. Perché ero preoccupato delle posizioni che avevo visto. Anche perché nel frattempo era stato arrestato Matteo Messina Denaro, che aveva veri problemi di salute. E la mia preoccupazione era esattamente quella di far passare il messaggio che per dei problemi di salute era utile e necessario sottrarre qualcuno al 41 bis. Il ragionamento che facevo è: se uno che si procura problemi di salute con lo sciopero della fame deve essere tolto dal 41 bis, Messina Denaro che ha un tumore e non se l’è procurato rischia di perdere il 41 bis. E questa sarebbe stata un’agevolazione alla mafia”. Donzelli ha anche aggiunto: “Delmastro ha una memoria incredibile su tutto, cita anche eventi di decenni prima. Io invece ho una memoria pessima. Suppongo che Delmastro lo avesse letto il verbale del Nic (Nucleo Investigativo centrale) della Polizia Penitenziaria, ma non lo ha letto davanti a me. Mi ha riferito delle parti. Io quel verbale non l’ho mai letto”. Proprio su quest’ultima parte Angelo Bonelli, portavoce di Europa Verde e deputato dell’Alleanza Verdi e Sinistra, che presentò l’esposto da cui partì l’indagine, fa notare: “Oggi il deputato Donzelli, durante la sua testimonianza al processo Delmastro, ha detto di non aver letto e avuto i verbali del Nic sui colloqui di Cospito con ‘ndranghetisti e camorristi. Ma allora perché in aula alla Camera ha detto una cosa diversa? Onorevole Donzelli, può spiegare la ragione di due versioni diverse?”. Andrea Delmastro, il Sottosegretario dalla memoria prodigiosa di Ermes Antonucci Il Foglio, 17 settembre 2024 Donzelli ascoltato al processo contro il sottosegretario alla Giustizia, accusato di rivelazione di segreto sul caso Cospito: “Mi disse che non erano notizie riservate, non mi mostrò documenti”. Delmastro, insomma, con una memoria infallibile avrebbe riferito a Donzelli in Transatlantico le esatte parole contenute nelle relazioni ricevute dal Dap. Un sottosegretario dalla memoria prodigiosa. Andrea Delmastro come Pico della Mirandola. È l’immagine che emerge dal processo in corso a Roma nei confronti del sottosegretario alla Giustizia, imputato di rivelazione di segreto d’ufficio sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito. Ieri, davanti ai giudici dell’ottava sezione penale del tribunale penale di Roma, è stata la volta del testimone più atteso: Giovanni Donzelli, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, amico nonché coinquilino di Delmastro, ma soprattutto colui che fece esplodere il caso che poi ha portato il suo collega di partito a processo. Il 31 gennaio 2023, infatti, Donzelli intervenne alla Camera rivelando il contenuto di alcune informative del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) su colloqui avvenuti in carcere tra Cospito e due mafiosi al 41 bis, lanciando una dura accusa contro i parlamentari del Pd che avevano incontrato in carcere l’anarchico, all’epoca in sciopero della fame: “Voglio sapere se la sinistra sta dalla parte dello stato o dei terroristi con la mafia!”. I colloqui di Cospito erano contenuti in atti che erano stati richiesti dal sottosegretario Delmastro e che erano classificati come “a limitata divulgazione”, cioè non sarebbero dovuti uscire dal ministero della Giustizia. “La mattina del 31, dopo aver letto un articolo di stampa, ho chiesto a Delmastro in Transatlantico dettagli su Cospito e i dialoghi con gli altri detenuti al 41 bis. Presi appunti su dei foglietti e sul cellulare. Poi sono andato a elaborare in vista dell’intervento in Aula”, ha detto ieri davanti ai giudici Donzelli. “Non gli ho chiesto da chi arrivassero queste informazioni - ha aggiunto - ma supponevo venissero dal Dap. Mi disse che non erano notizie riservate”. Donzelli ha poi escluso che Delmastro gli abbia mostrato documenti: in altre parole, il sottosegretario è andato a braccio. Il problema, evidenziato in udienza dalla pubblica accusa, è che le parole pronunciate in Aula da Donzelli “sono esattamente coincidenti, identiche, persino negli avverbi” con quelle contenute nella relazione inviata dal Nic, il Nucleo investigativo centrale della Polizia penitenziaria, al Dap, che poi venne trasmessa a Delmastro. In altre parole, Delmastro con una memoria infallibile avrebbe riferito all’amico Donzelli in Transatlantico le esatte parole contenute nelle relazioni ricevute dal Dap, lette nelle ore precedenti. Donzelli, come ha ribadito anche ieri, si sarebbe limitato a prendere appunti, per poi riportare quei contenuti nell’intervento all’Aula della Camera. “Io ho trascritto quello che mi ha detto Delmastro e poi l’ho detto in Aula”. Dunque la coincidenza tra la trascrizione dell’intervento in Parlamento di Delmastro e la relazione del Nic è solo dovuta alla memoria di Delmastro. Una ricostruzione che non sembra aver molto convinto il presidente del collegio giudicante, Francesco Rugarli, che dopo aver sbuffato più volte si è direttamente rivolto al testimone Donzelli: “Onorevole, ma sono perfettamente coincidenti, cioè hanno persino la stessa sequenza dei termini, cioè sono la stessa cosa”. “Ribadisco che posso riferire sulla mia memoria, che non è buona, per questo sono abituato a prendere appunti. Se Delmastro ha una buona memoria…”, ha replicato Donzelli. In apertura della sua testimonianza, il capogruppo alla Camera di FdI aveva dichiarato che “Delmastro ha una memoria incredibile su tutto, cita anche cose di dieci anni prima”. A ogni modo, supponendo che Delmastro avesse letto il verbale del Nic (per poi rivelarne alcuni contenuti), Donzelli non ha dato una grande mano al sottosegretario alla Giustizia. A mettere nei guai quest’ultimo sono però soprattutto le parole del capo del Dap Giovanni Russo, ascoltato come testimone lo scorso giugno: “Su richiesta del sottosegretario Delmastro, gli inviai due relazioni sul caso del detenuto Cospito, entrambe con la clausola ‘a limitata divulgazionè, che quindi sarebbero dovuti rimanere all’interno dell’amministrazione”. A dispetto della clausola di riservatezza, Delmastro riferì i contenuti di quei documenti al suo amico Donzelli, che poi li rivelò alla Camera. Ariano Irpino (Av). Detenuto si impicca in cella di isolamento di Katiuscia Guarino Il Mattino, 17 settembre 2024 Si è tolto la vita John Ogais, il detenuto nigeriano ristretto nel carcere di Ariano Irpino che l’altra notte aveva appiccato un incendio nella cella e poi aveva aggredito tre agenti mandandololi all’ospedale. È stato trovato impiccato nella cella di isolamento. Gli agenti hanno tentato di strapparlo alla morte. Purtroppo, è stato inutile. Il detenuto aveva 32 anni. Era stato ristretto per reati connessi all’immigrazione clandestina. Era stato trasferito dal carcere di Avellino a quello del Tricolle. Soffriva di problemi psichici. Si era reso protagonista in più occasioni di episodi violenti nei confronti dei poliziotti e degli altri detenuti. L’altro ieri aveva creato tensioni nella sezione dove era ristretto. Aveva incendiato la cella appiccando il fuoco al materasso e alle suppellettili. Non solo. Aveva aggredito gli agenti intervenuti per domare l’incendio. Tre poliziotti sono rimasti feriti. Sono stati trasportati in ospedale. Hanno rimediato dai 15 ai 30 giorni di prognosi. Uno ha riportato una frattura a una gamba, altri due sono stati colpiti alle braccia con un oggetto contundente ricavato dalle suppellettili della cella. Mentre altri poliziotti sono rimasti intossicati dai fumi sprigionati dal rogo. Faccio un appello alla Regione affinché si apra un tavolo sulla gestione della salute mentale. Convocherò i direttori delle Asl per un confronto per cercare di trovare soluzioni”, fa sapere il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Lucia Castellano. Che aggiunge: “I detenuti con tali problemi sono difficili da gestire nel carcere. Gli agenti fanno sforzi notevoli”. “Il detenuto - aggiunge l’Osapp - era noto per comportamenti violenti anche contro i compagni di detenzione, era stato oggetto di ripetute richieste da parte della direzione del carcere per un suo trasferimento”. “Sale così a 71 la tremenda conta dei reclusi che si sono suicidati dall’inizio dell’anno, cui vanno aggiunti 7 appartenenti alla Polizia penitenziaria - evidenzia Gennarino De Fazio della Uil-Pa. Del resto, con 15mila detenuti oltre i posti disponibili, 18mila unità mancanti alla Polizia penitenziaria, strutture fatiscenti, equipaggiamenti approssimativi e disorganizzazione imperante, le prigioni, oltre a essere diffusamente fuori legge, non assolvono a nessuna delle loro funzioni, neanche meramente retributive o contenitive. Al contrario, con omicidi, stupri, risse, aggressioni, violenze d’ogni genere, traffici illeciti, evasioni e molto altro ancora, oltre a rivelarsi piazze di spaccio e scuola del crimine, finiscono per essere dispensatrici di morte, infliggendo a casaccio la pena capitale di fatto. Ribadiamo - rimarca De Fazio - che servono misure efficaci e immediate a partire dal deflazionamento della densità detentiva, dal rafforzamento della Polizia penitenziaria e dall’assicurazione dell’assistenza sanitaria e psichiatrica”. Roma. Suicidio a Regina Coeli: i Garanti chiedono la chiusura della VII Sezione Ristretti Orizzonti, 17 settembre 2024 “Ancora un suicidio in carcere, il terzo a Regina Coeli dall’inizio dell’anno, ancora in VII sezione: un uomo di cinquant’anni, arrestato lo scorso 25 agosto, per la prima volta in carcere. In attesa che il Governo finalmente faccia qualcosa contro il sovraffollamento, che è certamente concausa di questa terribile sequenza di suicidi (oggi a Regina Coeli ci sono 1.168 detenuti per 626 posti regolamentari effettivamente disponibili), torniamo a chiedere la chiusura della VII sezione e la riorganizzazione a Regina Coeli di una sezione di accoglienza degna di questo nome, cui dare spazi e personale qualificato per la prevenzione del rischio suicidario”. E’ quanto dichiarano il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, e la Garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Valentina Calderone. I sindacati: 1.168 reclusi e solo 626 posti, siamo sul baratro La denuncia della Uilpa Polizia penitenziaria: “Carceri sovraffollate e pochi agenti, è un'emergenza”. Un altro suicidio in carcere, secondo caso in 12 ore e 72esimo dall'inizio dell'anno. L'ultima morte a Roma, nell'istituto di pena di Regina Coeli, dove il detenuto è stato ritrovato impiccato. Ne danno notizia i sindacati tramite Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, che al calcolo dei decessi aggiunge e ricorda anche i sette agenti proprio della polizia penitenziaria che si sono tolti la vita sempre in questo 2024. “Italiano, 50 anni, arrestato il 25 agosto scorso per maltrattamenti in famiglia, ha deciso di farla finita e verso le 6.45 è stato rinvenuto impiccato nella sua cella del carcere romano di Regina Coeli - racconta l'ultima mote De Fazio -. A nulla sono valsi i soccorsi, una strage senza fine e senza precedenti che certifica, ancora una volta, il fallimento più totale del sistema carcerario”. Sovraffollamento - Il sindacato denuncia così il quadro generale, di sovraffollamento e organico carente. “Con 1.168 detenuti a fronte di 626 posti disponibili e il 184% di surplus di detenuti, Regina Coeli è uno dei penitenziari più sovraffollati del Paese. A questo fa da contraltare una voragine negli organici del corpo di polizia penitenziaria che vede assegnati 350 agenti quando ne servirebbero 709. D'altronde, a livello nazionale sono 15 mila i reclusi oltre i posti disponibili e 18 mila le unità mancanti alla polizia penitenziaria. A questo si aggiungano strutture fatiscenti, dotazioni inadeguate, carenze nell'assistenza sanitaria e psichiatrica, approssimazione organizzativa - prosegue De Fazio - e il quadro che ne emerge è desolante. A pagarne le spese detenuti e operatori con questi ultimi esposti ad aggressioni continue (oltre 2.500 nell'anno) e sottoposti a turnazioni massacranti con la compressione dei più elementari diritti anche di rango costituzionale. Ma come si può pensare di rieducare i condannati violando le leggi dello Stato anche nei confronti di chi lo Stato incarna e rappresenta?”. Disordini nelle carceri - E del resto, nelle ultime settimane, negli istituti di pena si moltiplicano anche i disordini, frequenti a Roma pure nel carcere minorile di Casal del Marmo. “Servono interventi urgenti e tangibili per deflazionare la densità detentiva, potenziare il corpo di polizia penitenziaria e assicurare l'assistenza sanitaria e psichiatrica, siamo a un passo dal baratro”, conclude De Fazio. San Gimignano (Si). Torture al carcere di Ranza: iniziato il processo di appello per i 15 agenti radiosienatv.it, 17 settembre 2024 Il procedimento in Appello è stato riunificato ma ci saranno due sentenze separate. A fine mese l’istruttoria sarà integrata dall’ascolto della comandante della Polizia Penitenziaria del carcere, su richiesta delle difese, poi a inizio ottobre la Corte emetterà il suo verdetto. Si è tenuto ieri a Firenze, in Corte di Appello, il primo appuntamento del processo di secondo grado sul caso delle presunte torture al carcere di Ranza (San Gimignano) contro un detenuto tunisino, vittima di un pestaggio durante un trasferimento di cella, nel 2018. Un noto fatto che è costato la condanna a 15 operatori di Polizia Penitenziaria impiegati nella casa circondariale. Per 10 soggetti era giunta in principio la condanna con rito abbreviato, a carico di altri 5 invece che avevano scelto l’ordinario nel marzo 2023, sono stati comminati tra i 5 e 6 anni di pena. Un verdetto “storico” in quanto per la prima volta veniva contestato in Italia il reato autonomo di tortura ad appartenenti alle forze dell’ordine: decisiva fu per i giudici la visione del filmato delle telecamere interne che ha ripreso la scena. Il procedimento in Appello è stato riunificato ma ci saranno due sentenze separate. A fine mese l’istruttoria sarà integrata dall’ascolto della comandante della Polizia Penitenziaria del carcere, su richiesta delle difese, poi a inizio ottobre la Corte emetterà il suo verdetto. La speranza dei difensori degli agenti è di ribaltare, o in subordine rimodulare la sentenza nel tentativo di far riqualificare l’accusa di tortura in lesioni, così da permettere il rientro a lavoro degli agenti ormai sospesi da anni. Roma. Nelle carceri minorili le rivolte diventeranno strutturali di Ilaria Dioguardi vita.it, 17 settembre 2024 “Quella di ieri all’Istituto penale per minori Casal del Marmo è stata l’ennesima protesta delle ultime settimane. Ormai le tensioni sono diventate quasi strutturali”. A parlare è Valentina Calderone, Garante delle persone private della libertà personale di Roma capitale, che ieri è andata nell’Ipm e ci racconta cosa ha visto. Nell’Istituto penale per minorenni Casal del Marmo di Roma, ieri sono stati incendiati dei materassi in una stanza, in una delle palazzine. “Questa protesta ha avuto eco anche nell’altra palazzina, ieri pomeriggio c’era un andirivieni di problemi, in tutte e due le sezioni”, dice Valentina Calderone, garante delle persone private della libertà personale di Roma capitale. “Alla fine è stato chiamato un contingente di supporto interno al Dipartimento: polizia e carabinieri sono rimasti fuori, non sono dovuti intervenire. Nessuno si è fatto male, tranne dei ragazzi che, quando sono andata nell’istituto ieri pomeriggio, stavano andando in infermeria perché avevano respirato fumo”. I fatti succedono a una settimana da un’altra rivolta in cui due celle sono state incendiate nella palazzina Minori e dall’evasione di tre ragazzi a fine luglio. Calderone, com’è la situazione negli Istituti penali per minori? Stanno facendo molta fatica, per il sovraffollamento, per la mancanza di personale. È come se ci fosse una sorta di circolo vizioso che continua ad autoalimentarsi e che non si riesce a interrompere. Ci spieghi meglio... Negli ultimi mesi, a volte, l’innesco è stata una lite tra gruppi diversi. In questo caso, quella di ieri è stata una protesta generale. C’è una difficoltà del sistema in tutta Italia e non solo a Roma, che in questo momento non riesce a contenere le tensioni, a fornire delle alternative per attenuare delle condizioni che sono troppo difficili. Trovare un’unica spiegazione, quando succedono queste proteste, diventa riduttivo. Sono sempre più frequenti le proteste, i disordini negli Ipm di tutta Italia... Le proteste sono un sintomo della difficoltà del sistema, un sintomo di qualcosa che non sta funzionando. Non si forniscono delle prospettive a questi ragazzi, delle attività continuative che possono abbassare il livello della tensione. Probabilmente anche il nervosismo degli operatori (di cui c’è carenza) fa sì che, invece di stemperare una tensione nascente, la si porti all’estremo. Viene a mancare un po’ quella capacità di mediazione che dovrebbe essere fondamentale. Un’unica risposta al perché accadono alcune proteste, dei disordini è difficile da trovare. La frustrazione e i sentimenti negativi di questi ragazzi, chiusi per tante ore nelle loro stanze, si amplificano e per un nonnulla si innesca una scintilla. L’innesco può essere qualsiasi cosa, in una situazione così delicata e faticosa. Ad esempio, basta una richiesta e invece di ricevere una risposta in un’ora arriva in 12 ore: una piccolezza che, sommata a tante difficoltà, si amplifica e crea un’“esplosione”. Controllare questa dinamica è molto complicato. Perché, nell’Ipm, si fanno poche attività? Le attività ci sono ma si fa fatica a garantirle. A volte non c’è abbastanza personale di sorveglianza, quindi non possono accompagnare i ragazzi a farle. Altre volte alcuni di loro hanno litigato, potrebbero partecipare in 10 e invece partecipano in due perché si evita di farli incontrare. È tutto un circolo vizioso. Ogni litigata, ogni tensione diventa motivo per tenere i ragazzi nelle loro stanze per la tranquillità, per la gestione della sicurezza e dell’ordine interno. Ma non si può andare avanti così. Napoli. “Il caffè di Secondigliano”, parte progetto nel carcere di Elena Scarici Corriere del Mezzogiorno, 17 settembre 2024 Una piantagione di caffè nel carcere di Secondigliano. È uno degli obiettivi del progetto “Un chicco di speranza”, programma di reinserimento per detenuti del penitenziario a nord di Napoli, che vede insieme Kimbo, azienda leader del settore, il carcere e la Diocesi, presentato ieri mattina. Il programma prevede di insegnare ai reclusi l’arte di preparare il caffè; come lavorare il terreno e coltivare il chicco, affinché un domani possa nascere “il caffè di Secondigliano”. La piantagione vedrà la luce su un terreno di 10 mila mq, situata all’interno dell’istituto penitenziario. Per realizzarla è previsto il coinvolgimento del Dipartimento di Agraria della Federico II per capire quale sia il tipo di pianta di caffè più adatta alle potenzialità organolettiche del terreno. “Questa miscela si chiamerà “caffè di Secondigliano” - ha sottolineato il presidente di Kimbo, Mario Rubino - ci vorrà del tempo affinché possa crescere ed essere raccolto, ma abbiamo voluto piantare questo seme di speranza in un luogo dove tanta fortuna non c’è. Speriamo che questo campo incolto diventi il campo dei miracoli, che diventi il primo momento di rinascita”. Primo step del progetto “Un chicco di speranza” è la formazione dei detenuti. In 10 avranno la possibilità di essere preparati come baristi ma anche come manutentori tecnici. Infatti, sarà allestito all’interno dell’istituto un magazzino ricambi per le macchine da bar da riparare e rigenerare con la possibilità per i detenuti in semi libertà di prelevare e riconsegnare la strumentazione nei punti vendita. Un esempio importante da parte della Kimbo, azienda del territorio che offre un’opportunità al mondo carcerario, potrebbe fare da apripista per altri imprenditori locali, così come sottolineato anche dalla direttrice della struttura detentiva, Giulia Russo. “Attraverso le best practice lavoriamo per passare dalla rieducazione del condannato, mission dell’amministrazione penitenziaria, alla risocializzazione, per arrivare alla riabilitazione partendo da un presupposto saldo: i detenuti ritornano cittadini. Questo progetto si anima su tre direttrici - ha evidenziato Russo - la formazione professionale, la realizzazione di un laboratorio specifico che inseriremo nel nostro polo di arti e mestieri che abbiamo qui già da due anni e la lavorazione del terreno per la creazione di un chicco di caffè tutto nostro”. Al fianco ci sarà anche la magistratura di sorveglianza che vigilerà e supporterà le attività e gli spostamenti dei detenuti. “Dietro alla filosofia di questo progetto ci sono nomi e volti e oggi con questo protocollo diamo inizio alla concretezza di una speranza vera e autentica per questi ragazzi, per trasformare sempre e comunque il disagio in risorsa, la fragilità in opportunità”, ha detto l’arcivescovo Battaglia. Ai lavori ha preso parte anche Antonio Mattone, direttore dell’ufficio per la pastorale sociale e del lavoro della Diocesi. Milano. Giovani detenuti al lavoro come figure di supporto in Centri Diurni per disabili superabile.it, 17 settembre 2024 Il Comune di Milano e il Tribunale per i Minorenni hanno sottoscritto, alla presenza degli assessori Alessia Cappello (Sviluppo economico e Politiche del lavoro) e Lamberto Bertolé (Welfare e Salute) e della presidente del Tribunale per i Minorenni Maria Carla Gatto, un accordo che riconosce il Comune come azienda ospitante per i Lavori di Pubblica Utilità dedicati a minori e giovani adulti autori di reato. Inizialmente la sperimentazione inizierà con 7 giovani, se poi i risultati saranno soddisfacenti la misura verrà ampliata. L’amministrazione ha infatti individuato alcune sedi in cinque direzioni (Giovani e Sport, Cultura, Servizi Civici, Ambiente e Verde e Welfare e Salute), che saranno messe a disposizione per lo svolgimento dei lavori e, per favorire la funzione rieducativa e riabilitativa della pena. Il Comune garantirà il sostegno e l’accompagnamento di un educatore professionale utile al minore per prendere consapevolezza del disvalore delle proprie azioni e conferire una valenza riparativa al percorso. Tra queste sedi figurano alcuni Centri Diurni per persone con disabilità dove i ragazzi e le ragazze in corso di recupero saranno di supporto agli operatori per lo svolgimento di attività di intrattenimento, di piccola manutenzione e di logistica; il Museo di Storia Naturale, all’interno del quale si occuperanno dell’inventariazione e catalogazione degli oggetti, oltre che dello svolgimento di lavori di manutenzione e di botanica; il Laboratorio Agrozootecnico Rinnovata Pizzigoni, dove potranno mettersi alla prova nel supporto alla cura degli animali e delle piante. Anche nelle postazioni presso il Museo Botanico di Villa Lonati e di Comunemente Verde, dove hanno sede le serre comunali, i ragazzi dovranno avvicinarsi alle prime operazioni di scerbatura. Infine, al Cimitero Monumentale, saranno messi all’opera in affiancamento al personale cimiteriale per la pulizia e la manutenzione ordinaria e il supporto alla direzione per gli aspetti organizzativi dei servizi. L’accordo, frutto della collaborazione tra il Tribunale per i Minorenni e il Comune di Milano, rientra tra le iniziative del ‘Patto per il Lavoro di Milano’ che tra le numerose azioni prevede anche la messa a terra di politiche attive per l’inclusione sociale, il lavoro e la formazione professionale delle persone in esecuzione penale, in stretto collegamento con le articolazioni penitenziarie milanesi e i tribunali di competenza. Vibo Valentia. Il Comune impiega tre ex detenuti per la piccola manutenzione corrieredellacalabria.it, 17 settembre 2024 L’amministrazione guidata dal sindaco Romeo: pronti a stipulare nuove convenzioni a partire con quella con la casa circondariale vibonese. “L’amministrazione comunale di Vibo Valentia guidata dal sindaco Enzo Romeo ha avviato un’iniziativa significativa in collaborazione con l’Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna di Vibo Valentia. Tale iniziativa, nata dal protocollo firmato nell’ottobre 2023, prevede l’impiego di persone sottoposte a misure alternative, come la “messa alla prova”, per svolgere servizi di volontariato a favore della comunità”. Lo riferisce una nota del Comune vibonese. “A seguito di una ricognizione interna - prosegue la nota - è emersa la necessità di rafforzare le attività di piccola manutenzione, a causa della carenza di risorse umane. Per risolvere questo problema, l’amministrazione ha deciso di impiegare lavoratori di pubblica utilità. Attualmente, tre persone hanno già iniziato il loro percorso a settembre, svolgendo attività che, secondo la convenzione, mirano a riparare il danno sociale causato dal reato commesso, favorendo al contempo il loro reinserimento sociale. Il progetto offre un duplice beneficio: da un lato, l’ente pubblico ottiene manodopera gratuita, alleviando le difficoltà di bilancio; dall’altro, i lavoratori scontano la parte residua della loro pena impegnandosi in attività di pubblica utilità. L’amministrazione comunale intende inoltre ampliare il numero di persone impiegate in questo contesto e stipulare nuove convenzioni, a partire da quella con la casa circondariale di Vibo Valentia. Questo progetto rappresenta un’importante iniziativa sociale, particolarmente rilevante in un momento di scarsità di risorse economiche per l’ente comunale”. Roma. Carceri, a Rebibbia parte il progetto “Nessuno escluso” radioroma.it, 17 settembre 2024 Oggi pomeriggio alle ore 16, presso la Casa circondariale femminile “Germana Stefanini” di Roma Rebibbia, sarà inaugurato il progetto “Nessuno escluso”, programma nazionale finalizzato a sensibilizzare la comunità penitenziaria sulla cultura giuridica e costituzionale, curato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, Giuffrè Francis Lefebvre e Associazione Antigone. Alla presentazione è stato invitato il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il progetto “Nessuno escluso” è concepito per supportare la riabilitazione sociale dei detenuti e promuovere l’accesso alla cultura giuridica. Giuffrè Francis Lefebvre e Antigone forniranno risorse culturali e editoriali, istituendo corner all’interno degli istituti penitenziari. Questi spazi saranno dedicati alla formazione e informazione, ospitando incontri con docenti universitari, magistrati e rappresentanti delle istituzioni. Il progetto prevede cinque incontri per ogni carcere, con lezioni frontali su temi costituzionali rilevanti come la pena, la rieducazione, l’uguaglianza, la dignità umana e la solidarietà. Gli incontri sono progettati per fornire ai detenuti conoscenze che possano facilitare la loro comprensione del sistema giudiziario italiano e promuovere una partecipazione attiva nel loro percorso di reinserimento sociale. Vicenza. Visita del presidente del Consiglio comunale Zaramella ai detenuti-studenti di Giulia Matteazzi vipiu.it, 17 settembre 2024 Ieri mattina il presidente del Consiglio comunale Massimiliano Zaramella ha fatto visita alla casa circondariale di Vicenza “Filippo Del Papa”, in occasione dell’inizio dell’anno scolastico per i detenuti studenti presenti all’interno del carcere. Nel suo discorso di saluto Zaramella, accompagnato dalla direttrice del carcere Luciana Traetta e dal dirigente scolastico dell’istituto “Guido Piovene” Carlo Dal Monte, ha sottolineato l’importanza della presenza istituzionale a salutare il primo giorno di scuola in carcere, così come la settimana scorsa era avvenuto per le scuola comunali: “Sono particolarmente contento di essere qui oggi - ha dichiarato - e ringrazio di cuore la direttrice Traetta di aver accolto questa mia disponibilità. È infatti la prima volta che un presidente del Consiglio comunale visita i detenuti in occasione dell’inizio dell’anno scolastico. Dopo la presenza mercoledì scorso di rappresentanti del Comune in molte scuole comunali, essere qui oggi vuole sottolineare l’impegno da una parte degli istituti di pena di offrire e fornire uno strumento di crescita e spero di riscatto per chi si trova in carcere, e dall’altra parte la volontà di queste persone di guardare oltre il loro presente drammatico pensando comunque a un futuro diverso”. Grazie al Cpia (Centro provinciale istruzione adulti) i detenuti possono frequentare i corsi sino alla scuola secondaria di primo grado. Inoltre, sono presenti le sezioni di scuola secondaria di secondo grado del “Piovene” e dell’istituto “Canova”. Il presidente ha incontrato una decina di studenti, detenuti di alta sicurezza, della seconda superiore dell’istituto “Piovene”, la cui classe è formata da 14 iscritti, con altre 10 richieste in attesa. “Salute e istruzione, e quindi sanità e scuola, sono i pilastri di una società democratica moderna - ha ricordato Zaramella -, eppure questi due diritti costituzionali vivono ormai da anni una crisi profonda che ha radici e responsabilità sia politiche, mancando scelte che attestino e certifichino la priorità di questi due diritti, sia della società civile che non sottolinea e protegge a sufficienza il valore dell’istruzione e scolarizzazione nel percorso di crescita di una persona. Questo porta a una conseguente perdita di ruolo sociale degli insegnanti e del personale sanitario, vittime di aggressioni ormai non solo verbali”. A proposito del legame tra salute e istruzione, il presidente Zaramella ha anche citato uno studio recentemente pubblicato sulla rivista scientifica The lancet Public Health, che evidenzia come ogni anno di istruzione in più possa ridurre il rischio di mortalità di quasi il 2%: non avere istruzione è dannoso per la salute quanto l’alcool ed il fumo di sigaretta: “Alla luce di questo - ha concluso -, desta grande preoccupazione il recente rapporto del Cgia su dati Eurostat ed Istat che quantifica in 33.000 i ragazzi in Veneto che lo scorso anno hanno deciso di abbandonare la scuola, dà inoltre molto da pensare che la percentuale di abbandono, mentre a livello nazionale sia in diminuzione, nel Veneto risulti in crescita, soprattutto nelle famiglie con disagio sociale o in difficoltà economiche”. La visita, dopo il saluto e l’augurio di un buon anno scolastico in rappresentanza di tutta l’amministrazione comunale, si è conclusa con la consegna di una lettera al presidente del Consiglio comunale da parte dei detenuti studenti, con elencate alcune richieste legate miglioramento delle condizioni di studio all’interno del carcere di Vicenza. Cuneo. Giustizia di comunità, il 19 e il 20 settembre un convegno internazionale progettomondo.org, 17 settembre 2024 I principali esperti di giustizia riparativa e mediazione penale in Italia, si incontreranno il 19 e il 20 settembre a Cuneo, per partecipare al convegno internazionale “Per una giustizia di comunità. Raffronto tra le esperienze territoriali italiane di giustizia riparativa alla luce della recente Riforma Cartabia e il modello boliviano”. L’appuntamento, in programma all’Università degli Studi “ex Mater Amabilis”, in via Ferraris di Celle 2, avrà respiro internazionale grazie all’esperienza promossa da Progettomondo in Bolivia che, nel 2011, ha inaugurato il Centro di reintegrazione Qalauma, a La Paz, e da anni interviene nel paese dell’America Latina per promuovere un modello di giustizia riparativa, che tenga conto della vittima e delle sue ferite e coinvolga le famiglie e la comunità nei percorsi di reintegrazione sociale tanto della vittima, quanto dell’autore di reato. Progettomondo lavorare sulla prevenzione, in particolare in ambito educativo, per tentare di anticipare il crimine e aiutare i giovani ad affrontare le situazioni di disagio prima che la violenza o la dipendenza da sostanze entri nelle loro vite generando ulteriori conseguenze. L’evento è promosso dal Comune di Cuneo, capofila del progetto “Cambiando de Lente: modelli locali partecipativi di giustizia e prevenzione della delinquenza/violenza giovanile” che vede come ente esecutore in Bolivia proprio la nostra associazione, in collaborazione con gli altri partner del progetto: l’Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna (UEPE) di Cuneo, il Centro Volontari Cooperazione allo Sviluppo (CVCS), il Governo Municipale di Cochabamba, ente locale boliviano, e il Governo Autonomo Dipartimentale di Cochabamba, ente regionale boliviano. Il ruolo di Progettomondo, con la rete dei partner locali, è promuovere attività di prevenzione nelle scuole, supportare i servizi di assistenza terapeutica a giovani con problemi di abuso di alcool e droghe e svolgere attività formative per il personale dei servizi pubblici. Il convegno internazionale è articolato su due giornate, giovedì 19 settembre dalle 9 alle 17 e venerdì 20 settembre dalle 9 alle 13. Gli esperti porteranno all’attenzione dei partecipanti diversi aspetti legati all’implementazione della Giustizia Riparativa in Italia alla luce della recente Riforma Cartabia, con particolare riferimento alla mediazione penale. Il raffronto con l’esperienza della Bolivia sarà garantito dal contributo di Abraham Colque, coordinatore Paese in Bolivia per Progettomondo, che interverrà sul tema “Dalla riforma del codice penale minorile alla proposta di legge sulla mediazione penale: dieci anni di giustizia riparativa in Bolivia”, sviluppato ulteriormente dal contributo di altri ospiti boliviani che, venerdì mattina parleranno di Sistema Penale Minorile e servizi di giustizia riparativa territoriali in Bolivia e della prevenzione sociale sul territorio specifico di Cochabamba. La mattinata si concluderà con una tavola rotonda sull’esperienza di mediazione penale e giustizia riparativa in Piemonte e Bolivia, per un confronto su esperienze, punti di forza e difficoltà. Il convegno è aperto a tutti e tutte, la partecipazione è gratuita ma con iscrizione obbligatoria, da effettuarsi a questo link entro lunedì 16 settembre. È inoltre in corso di accreditamento all’Ordine degli Assistenti del Piemonte e l’Ordine degli Avvocati. A latere del convegno è stata organizzato anche uno spettacolo teatrale giovedì 19 settembre alle 21 al Teatro Toselli grazie al contributo di Voci Erranti onlus. Si tratta della rappresentazione “La Classe”, con la regia di Grazia Isoardi e in scena gli attori-detenuti della Casa di Reclusione “R. Morandi” di Saluzzo. Lo spettacolo è a ingresso gratuito, ma è consigliata la prenotazione, al link: https://forms.gle/k13Zm7urnRq3JiWu8. Libri, carte e parole nelle realtà carcerarie garantedetenutilazio.it, 17 settembre 2024 In un volume edito dall’Università Sapienza alcune riflessioni sul ruolo della lettura dietro le sbarre. In attesa della versione cartacea, è scaricabile gratuitamente dal sito dell’Università Sapienza editrice la versione in formato Pdf del volume “Liber/liberi- Libri, carte e parole nelle realtà carcerarie”, a cura di Marta Marchetti, Pisana Posocco e Arianna Punzi che raccoglie gli atti delle tre giornate di studio organizzate dalla Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza sul ruolo che i libri hanno all’interno dei contesti penitenziari (Roma 8-10 giugno 2022) e si interroga su come esso, in tutte le sue varie funzioni, possa contribuire in maniera sostanziale al rispetto dell’articolo 27 della Costituzione italiana per il quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. A partire da una ricognizione degli spazi che nelle carceri permettono e alimentano la circolazione di libri (cella, scuola, università, laboratori, biblioteche etc.), il volume, primo della Serie Voci da dentro, esplora sia il processo di lettura praticato dai detenuti e dalle detenute (individuale e silenzioso o condiviso e orale) sia l’uso che direttori, educatori, insegnanti e operatori esterni fanno di queste risorse nei contesti carcerari. Al centro vi è la domanda comune su come il libro (di qualsiasi tipo e in qualsiasi forma) possa concretamente aiutare chi è privato della libertà personale a costruire uno spazio tutto per sé, luogo necessario per abitare qualsiasi processo di risocializzazione e cura. Tra i diversi interventi, il secondo capitolo, scritto da Stefano Anastasìa, è dedicato al mito della prigione romantica e del detenuto politico-intellettuale, che sopravvive soprattutto nell’immaginario di studiosi che, a vario titolo, si avvicinano al penitenziario, “la prigione dell’indomito - scrive Anastasìa - dell’uomo di pensiero e azione, dell’intellettuale che trasforma la sua cella in luogo di lettura, elaborazione e scrittura, di preparazione alla libertà e alla liberazione. È il mito della prigione come luogo d’elezione del detenuto politico, costretto dalle avversità alla prova della reclusione, dalla Ventotene di Luigi Settembrini a quella di Altiero Spinelli e degli altri padri fondatori dell’idea federalista europea, passando per la cella di Turi, in cui fu costretto Gramsci”. Scarica il libro: https://www.editricesapienza.it/sites/default/files/6357_2024_10_9788893773386_Liber_Liberi_eBook.pdf Don Antonio Mazzi: “I miei ragazzi in Carovana, viaggio di liberazione e crescita” di Giangiacomo Schiavi Corriere della Sera, 17 settembre 2024 Nei giorni in cui i ragazzi che sbagliano finiscono dentro, don Mazzi li porta fuori: li invita a uscire dalle prigioni vere e da quelle metaforiche, li contagia con parole che invitano all’ascolto, a lasciarsi alle spalle i rancori, le paure, la rabbia. Lo fa da sempre, il dialogo coi giovani per lui resta il viaggio, meglio se attraverso una Carovana che nel tempo è diventata un metodo, la bandiera di Exodus, comunità che nasce sulla strada con un progetto educativo itinerante, alternativo, a volte contestato perché fin troppo libero, ma dentro questa libertà, spiega il don, nascono sentimenti di amicizia, di fratellanza, di reciproco aiuto. La Carovana è qualcosa di antico e di nuovo, è un percorso che mette alla prova, che rimanda a esodi biblici e agli antichi pellegrini o, se volete, anche ai pionieri del vecchio West: attraversa territori che sembrano praterie, luoghi di struggente bellezza, paesi e paesaggi che non si possono dimenticare. Da quarant’anni Exodus sperimenta con l’avventura la relazione educativa tra gli adolescenti mischiando storie e vite randagie, provando che c’è un altro modo per affrontare il dramma della droga e delle dipendenze. “È un viaggio di liberazione, una spinta a fare gruppo - spiega il fondatore di Exodus - e un’avventura che moltiplica le capacità di adattamento alla vita”. Tra luglio e agosto la Carovana ha attraversato l’Italia da Milano all’Aspromonte, passando per Montecassino, la Sila e la costiera adriatica: 8 adolescenti, 15 ragazzi, 8 educatori, 3000 chilometri, 3 furgoni e un camper. La Fondazione “Progetti del cuore” ha messo a disposizione i mezzi. Irene Maglio, guida e responsabile della spedizione, racconta con passione il significato di un’esperienza educativa che ti mette alla prova e parla di giovani perduti che hanno avuto un’opportunità per ritrovarsi: “La convivenza - ammette - non è sempre facile. Ci sono gli imprevisti, le tensioni, le fragilità, ma alla fine è vincente la capacità di dare aiuto, quello che ognuno può offrire all’altro”. “In Carovana - prosegue Maglio - si impara a non essere solo orientati sul proprio io, ma ad aprirsi agli altri e al mondo che non è sempre ostile”. Chiunque deve avere una possibilità nella vita, spiega don Mazzi: “Hai dei talenti da coltivare? Se posso ti aiuto. Hai un sogno per il futuro? Facciamo in modo che tu possa realizzarlo”. Non ci sono confini all’immaginazione per chi si mette in viaggio e cerca di capire qualcosa di sé, magari interrogandosi sugli errori commessi, su come ha fatto a finire dalla parte sbagliata. Nelle tappe del viaggio si lavora, si fatica, si discute, si scrivono pagine di un diario che racchiude emozioni e sentimenti. Un ragazzo al rientro da questa esperienza confida nella sua pagina di essersi trovato troppe volte solo nella vita, senza amici, senza nessuno a cui appoggiarsi. Vedeva tutto nero, e la Carovana è stata un punto di luce. Un altro ammette che si può vivere e star bene senza sostanze e smartphone: “A parlare sotto le stelle ho scoperto una semplicità che non ricordavo più”. Un altro ancora si mette a nudo: “Ho sbagliato e ho fatto anche cose brutte. Ma adesso è più forte il desiderio di avere un sogno e poterlo realizzare insieme a una persona da amare”. Secondo don Mazzi e gli educatori che negli anni si sono alternati nel viaggio, i risultati della Carovana di Exodus sono superiori ad altri interventi psicologici, comunitari. “Se eri un leader negativo ti aiutiamo a diventarlo in positivo, a convivere con le diversità, ad essere accogliente”, dice Irene Maglio. Ci sono tanti ragazzi che chiedono di essere aiutati, non di finire reclusi, dietro le sbarre. Molti di loro si portano dietro storie pesanti, dallo spaccio alla violenza, altri sono segnati da incomprensioni, genitori disarmati, adulti incapaci ed essere adulti. Era cosi anche quarant’anni fa, ricorda don Mazzi, quando si mise in moto la prima Carovana in una Milano da bere oscurata da un tappeto di siringhe: il Parco Lambro era come un cimitero, si moriva con l’ago nel braccio. Exodus è nata così: in un posto da salvare, mettendosi dalla parte dei disperati, dei tossici, degli emarginati. Gesù, come lo interpreta don Mazzi, è il Gesù degli ultimi, degli scarti, di quelli che chiedono aiuto. Entrambi hanno scelto di stare sulla strada. La Carovana nel 1984 fu la coraggiosa risposta all’emergenza droga, un metodo alternativo per superare la logica del carcere, quello minorile per primo. Breve preparazione degli educatori, poi partenza in bicicletta, nove mesi attraverso l’Italia, due camper al seguito e 13 ragazzi tutti dipendenti da stupefacenti. “Al ritorno, la notte di Natale, loro erano felici - ricorda il don - e noi avevamo trovato un nuovo modo di rispondere al disagio e alla domanda di aiuto di ragazzi e ragazze”. Senza misure repressive, attraverso l’avventura educativa del viaggio: un metodo che don Mazzi rilancia con forza nella confusione disarmante in cui si muovono oggi i nostri ragazzi. “Il disagio non deve restare chiuso nel lamento dei tempi difficili. Noi ascoltiamo questi giovani, camminando insieme sui sentieri da esplorare”. Medio Oriente. Richiedenti asilo africani arruolati in cambio del permesso di soggiorno di Ester Nemo Il Manifesto, 17 settembre 2024 Su “Haaretz” il piano del ministro della difesa di Tel Aviv. Uno schema organizzato e supervisionato dai consulenti legali dell’esercito. Richiedenti asilo africani arruolati nell’esercito israeliano per combattere nella Striscia, in cambio di un permesso di soggiorno permanente. La rivelazione, con relative bacchettate per i grossi interrogativi etici che una simile pratica solleva, è arrivata dalle colonne del quotidiano israeliano Haaretz. Le fonti consultate, sia interne al ministero della Difesa che appartenenti alla potenziale platea di questa particolare campagna di reclutamento, illustrano uno schema consolidato e organizzato, portato avanti sotto la supervisione di consulenti legali dell’esercito perché classificato “altamente problematico” da alcuni funzionari. “Platea” potenziale i circa 30mila richiedenti asilo giunti in Israele dall’Africa subsahariana. 3500 sono sudanesi con uno status temporaneo di rifugiati concesso dal tribunale in attesa che le autorità preposte esaminino la loro richiesta. Dopo il 7 ottobre - quando anche tre richiedenti asilo sono rimasti vittime della mattanza di Hamas - alcuni si sono resi disponibili per sostituire i palestinesi nei lavori di agricoltura ed edilizia. Qualcuno pare si sia detto disponibile ad arruolarsi e l’idea ha così preso corpo, con il placet dell’esercito. Agli interessati sono state garantite due settimane di addestramento e uno stipendio simile a quello del lavoro che già svolgevano. La differenza sta nell’ad personam promesso, un dettaglio prezioso per qualsiasi migrante privo di status giuridico: il rilascio dei documenti israeliani, con conseguente diritto a restare legalmente in Israele. Un’operazione win-win, in apparenza. Per Israele una soluzione più a buon mercato rispetto a quanto accadeva in passato. C’è stato un tempo infatti in cui i richiedenti asilo africani indesiderati venivano deportati “volontariamente” in Ruanda. Circa 4mila persone , tra il 2014 e il 2018, principalmente eritrei e sudanesi, alla scadenza del permesso di soggiorno temporaneo vennero costretti a scegliere tra rimpatrio, carcere in Israele o trasferimento in Ruanda con un volo di sola andata e una buonauscita di 3.500 dollari. Trattandosi in prevalenza di persone fuggite dalle persecuzioni dei rispettivi regimi, poco attratte dalla prospettiva di tornare nella bocca del leone, ma altrettanto poco disposte a finire in un carcere israeliano, scelsero tutti la terza opzione. Peccato che il promesso futuro da “regolari” si rivelò un’illusione. In molti, dopo una breve permanenza in un centro di detenzione ruandese, furono trasferiti in Uganda. Altri sono stati messi in contatto con i trafficanti di esseri umani direttamente dai loro “ospiti”, in base a un sistema di collusione istituzionale. In un modo o nell’altro, mentre in Israele crescevano proteste come quelle dell’aprile 2018 “contro le deportazioni”, si sono rimessi in viaggio. Destinazione Europa stavolta. Perché Sea Shepherd non sta supportando il suo fondatore ancora in carcere? di Michele Manfrin L’Indipendente, 17 settembre 2024 Da 57 giorni Paul Watson, fondatore dell’organizzazione per la salvaguardia del mare Sea Shepherd, si trova nel carcere di Nuuk, in Groenlandia. La detenzione va avanti dal 21 luglio, quando l’uomo è stato incarcerato in ottemperanza ad un mandato di arresto internazionale richiesto dal Giappone, che lo accusa di reati come “cospirazione per violazione di domicilio”, “violazione e distruzione di proprietà” e “ostruzione al commercio”. Watson da tutta la vita si batte per contrastare la pesca illegale e difendere il mare e le forme di vita che lo abitano, scontrandosi con gli interessi dell’industria ittica e navale. Nei due lunghi mesi di detenzione non è arrivata una sola parola in sua difesa da parte della fondazione che ha costituito nel lontano 1977 e che ha lasciato nel 2022. Un silenzio assordante, apparentemente immotivato ma che in realtà ha radici concrete nella strada che l’organizzazione ha intrapreso negli ultimi anni, con la quale Watson non era d’accordo. L’Indipendente ne ha chiesto conto a Sea Sheperd Italia, ottenendo le risposte assai evasive che vi riportiamo di seguito. Innanzitutto, riavvolgiamo il nastro di quella che somiglia a una persecuzione giudiziaria che non accenna a risolversi. Era il 21 luglio 2024 quando la nave di Paul Watson, la John Paul DeJoria, attraccava a Nuuk, in Groenlandia, per fare rifornimento prima di dirigersi verso il Pacifico settentrionale. Appena i motori si sono spenti, 14 agenti di polizia sono saliti a bordo della nave, ammanettando Watson. Al momento del suo arresto, il fondatore di Sea Sheperd era in viaggio per bloccare la Kangei Maru, una nuovissima “nave madre” giapponese di 9.300 tonnellate, in partenza per una spedizione di caccia alle balene nel Pacifico settentrionale. L’arresto di Watson fa seguito ad un mandato di cattura internazionale dell’Interpol, spiccato nel 2012 su richiesta delle autorità giapponesi per fatti che si riferiscono al gennaio e febbraio 2010. Dopo due udienze preliminari, una in luglio e una in agosto, Watson è ancora detenuto nel carcere di Nuuk in attesa della sentenza dell’Alta Corte della Groenlandia, prevista per il 2 ottobre prossimo, in cui si deciderà il suo destino. Il Giappone ne chiede l’estradizione per mandarlo a processo, come spiegato dall’avvocato danese Jonas Christoffersen che si occupa del caso. Watson ha fondato Sea Shepherd nel 1977, per poi abbandonarla nel 2022 a causa, a suo dire, di una diversa visione dell’agire. Una spaccatura talmente ampia che Watson è arrivato a definire l’organizzazione da lui fondata “uno specie di taxi per burocrati”. Watson era infatti un fautore della linea dura, quella dell’azione diretta ad impedire, con ogni mezzo, la caccia alle balene. Gli altri componenti ai vertici dell’organizzazione, invece, promuovevano una linea decisamente più morbida, volta a collaborare con i governi e le aziende. Insomma, mentre Watson voleva continuare a fare il pirata in sostegno e in difesa dei mari e degli oceani, Sea Shepherd voleva divenire una sorta di associazione che punta a raggiungere i propri obiettivi in modo collaborativo e senza rischiare processi. Per questo motivo, Watson ha creato poi la Captain Paul Watson Foundation, così da poter continuare la “feroce ribellione” in difesa di mari e oceani. Nonostante il burrascoso addio, in molti si aspettavano una presa di posizione in sostegno e in solidarietà di Watson da parte di Sea Shepherd che, invece, non è avvenuta. In fin dei conti, i principi che muovono entrambi dovrebbero essere rimasti i medesimi e le accuse mosse contro Watson si riferiscono a fatti avvenuti quando l’attivista era ancora ai vertici dell’organizzazione. Come spiegato da Lamya Essemlali, presidente e cofondatrice di Sea Shepherd France, solo Sea Shepherd Francia e Brasile sono rimasti a fianco di Watson. Sea Shepherd Italia, da noi contattata, ha preferito non rispondere alle domande in merito alla vicenda. Dietro alla nostra richiesta, ci è stato risposto in maniera evasiva, dapprima dirottando il nostro interessamento alla Captain Paul Watson Foundation: “In questo periodo gli equipaggi di Sea Shepherd Italia sono incessantemente impegnati nelle molte campagne attive: attualmente siamo in piena attività in mare con operazione SISO 7 ed in difesa della foca monaca. (…) Per quanto riguarda l’arresto, la detenzione e gli aspetti legali concernenti Paul Watson riteniamo più appropriato contattare la Captain Paul Watson Foundation”. Alla nostra domanda se non fossero preoccupati che il suo caso potesse costituire un pericoloso precedente per tutti gli attivisti, siamo stati invitati a far visita all’organizzazione, per poter così prendere atto di tutte le attività svolte da Sea Shepherd Italia. Una risposta surreale, che non ha speso sul destino di Watson nemmeno una parola.