Stop al sovraffollamento e alla recidiva di Giacomo Galeazzi interris.it, 16 settembre 2024 Il problema delle carceri “non si risolvono con la bacchetta magica dell’indulto e dell’amnistia. Così come non servono le bandierine ideologiche. E le volgarità sociale e culturali di affermazioni come ‘buttiamo la chiavè”. Il presidente del Cnel, Renato Brunetta avverte che “su questo tema non ci dobbiamo dividere”. Per inquadrare il quadro della situazione della carceri italiane, che “rappresenta un fallimento totale nella storia repubblicana”, Brunetta cita Francesco De Gregori che canta “nessuno si senta escluso”. E cioè l’articolo 27 della Costituzione che sintetizza dicendo che servono “lavoro e dignità”. Secondo Alcide De Gasperi la “politica vuol dire realizzare”. Questo è “il cuore della cultura di governo”. Invece, aggiunge Brunetta, “le carceri sono una discarica sociale misurata da suicidi, sovraffollamento e dalla recidiva. Misuriamo se facciamo bene questo mestiere e la recidiva è stabilmente sopra al 70%. Perché chi esce dal carcere torna a fare quello che faceva prima di entrarci. E magari lo fa anche meglio”. Insomma “in carcere ha avuto un percorso di formazione professionale per il crimine”. Intanto il tasso di affollamento reale nelle carceri italiane ha raggiunto il 119% nel 2023, con picchi che superano il 190% in istituti come quello di Lucca. È uno dei dati che emerge dal Paper “Recidiva Zero. Istruzione, Formazione e Lavoro in Carcere. Dalle esperienze progettuali alle azioni di sistema”, realizzato da Teha per conto del Cnel - Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Tra le proposte avanzate nel paper per migliorare l’efficacia del sistema carcerario e ridurre la recidiva. Promuovere un accordo tra ministeri e Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) per un quadro d’azione comune con interventi organizzativi e formativi. Creare centri di servizi e competenze nelle carceri, in collaborazione con il Dap, imprese e cooperative, per la formazione di detenuti e personale. Stipulare accordi strategici a lungo termine tra carceri, organizzazioni esterne, imprese pubbliche e pubblica amministrazione. Replicare casi virtuosi in altri istituti, diffondendo circuiti carcerari aperti e misure alternative di detenzione. Rafforzare la collaborazione tra direzioni carcerarie, enti locali ed ecosistemi regionali. Adottare misure per garantire continuità tra formazione e lavoro durante e dopo la detenzione, potenziando gli incentivi per la reintegrazione. In conclusione, il Cnel e Teha ribadiscono la necessità di un intervento coordinato e sistemico per trasformare il lavoro carcerario in un vero strumento di rieducazione e reintegrazione sociale. Un sistema carcerario più aperto e integrato con il tessuto socioeconomico del Paese potrebbe non solo migliorare la sicurezza e il benessere dei detenuti. Ma anche generare un impatto positivo sull’intera società. Riducendo il tasso di recidiva e favorendo il recupero di capitale umano altrimenti destinato all’emarginazione. Il sovraffollamento “ostacola la gestione quotidiana delle strutture”, evidenzia il rapporto. Inoltre “riduce anche drasticamente le opportunità per i detenuti di partecipare a programmi di istruzione, formazione e lavoro. Fondamentali per il loro reinserimento sociale”. E purtroppo il sovraffollamento comporta anche una maggiore incidenza di eventi critici. Come violenze, aggressioni, autolesionismi e suicidi. Tutto ciò “mina la sicurezza sia dei detenuti che del personale degli istituti penitenziari”. In particolare, nel 2021 ci sono state 25 manifestazioni di protesta. E 24 atti di auto-danno intenzionale ogni 100 detenuti. La situazione delle carceri italiane, quindi, richiede “un intervento strutturale e sistematico”. Per migliorare le condizioni di detenzione. E, soprattutto, per favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Lo Stato italiano destina oltre tre miliardi di euro all’anno all’amministrazione penitenziaria. Eppure il sistema carcerario continua a soffrire di un sovraffollamento cronico. Ed è penalizzato da una gestione inefficace delle risorse. In Italia solo un detenuto su tre è coinvolto in attività lavorative. Il tasso di affollamento reale nelle carceri italiane ha raggiunto il 119% nel 2023. Con picchi che superano il 190% in istituti come quello di Lucca. “In carcere non si finisce… si ricomincia” è il nome del progetto promosso dalla direzione della Casa di Reclusione di Vigevano, in provincia di Pavia. In collaborazione con le imprese sociali “bee.4 altre menti” e “Divieto di Sosta”. L’obiettivo è “avviare una nuova filiera di attività lavorative all’interno dell’istituto di pena”. Il nuovo call center, operativo da quattro mesi, è stato realizzato anche grazie alle aziende. Come la società di telecomunicazioni Eolo Spa. La società di produzione energetica Dolomiti Energia. La società Sielte spa. E la società TeamSystem. L’iniziativa si colloca all’interno di un progetto più ampio che riguarda l’impatto delle attività lavorative in carcere. Formare e offrire lavoro ai detenuti significa, tra l’altro, contribuire notevolmente all’abbattimento della recidiva. Lo scopo del progetto è offrire alle persone in carcere l’opportunità di qualificazione professionale. Impegnando positivamente il tempo della pena in linea con la Costituzione. Le possibilità di impiego riguardano l’erogazione di servizi di assistenza clienti. Per le imprese partner che hanno sposato l’idea di un carcere moderno. Capace di creare valore e occasioni di riscatto. Si va dalla gestione reclami alla validazioni contrattuali, ai cambi del piano tariffario fino alle attività di back office. Attualmente nove persone stanno lavorando con un regolare contratto a tempo pieno. E altre nove hanno avviato un percorso formativo in vista di una possibile assunzione entro la fine settembre. Rosalia Marino, direttrice del carcere è soddisfatta per questa importante tappa. Afferma Rosalia Marino: “Abbiamo iniziato a lavorare a questo progetto sul finire dello scorso anno perché non volevamo arrenderci a un’idea. Quella che Vigevano dovesse essere un carcere privo di opportunità e di speranze” “Ci sentiamo investiti da una missione - ha aggiunto Pino Cantatore, presidente di Bee.4 Altrementi: portare oltre le mura di Bollate quanto di buono abbiamo sperimentato fin qui, offrendo a persone che vivono il carcere in contesti difficili come quello di Vigevano opportunità per ricominciare”. Secondo Renato Brunetta “possiamo azzerare la recidiva con il lavoro e la formazione dentro e fuori dal carcere, un obiettivo difficile ma raggiungibile”. In quest’ottica è nato il programma “Recidiva zero”, un grande progetto di inclusione volto a creare un ponte tra carcere e società. È un programma che il Cnel ha avviato grazie all’intuizione del ministro Carlo Nordio circa la necessità di inserire ogni intervento di gestione dell’emergenza carceraria all’interno di un quadro sistemico di collaborazione tra società civile e sistema della giustizia. Un piano imperniato sul principio costituzionale e sul coinvolgimento strutturale dei corpi intermedi e delle categorie produttive. “I dati - precisa Brunetta -ci dicono che il sistema penitenziario è affetto da due disfunzionalità croniche. Il sovraffollamento e l’alto tasso di recidiva. Due patologie strettamente interconnesse tra loro. È ormai accertato che l’offerta di opportunità di lavoro e di formazione ai detenuti è correlata a una netta riduzione della recidività (pari oggi a circa il 70%). Ma le imprese sono poco impegnate nella causa sociale dell’inserimento lavorativo di queste persone. Del 33% dei detenuti coinvolti in attività lavorative (oltre 19 mila nel 2023) ben l’85% lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, usualmente per poche ore al giorno o al mese”. Per migliorare la situazione attuale, il Pnrr ha stanziato 132,9 milioni di Euro entro il 2026 per costruire e ottimizzare padiglioni e spazi all’interno delle carceri, creando 640 nuovi posti detentivi e favorendo attività lavorative per ridurre i tassi di sovraffollamento e recidiva. Uno degli aspetti più critici del sistema carcerario italiano è infatti l’elevato tasso di recidività dei detenuti. Attualmente, il 60% dei detenuti in Italia ha già avuto almeno un’esperienza precedente in carcere. Tuttavia, i dati suggeriscono che il coinvolgimento in attività lavorative possa ridurre significativamente questa percentuale (fino al 2%) per i detenuti che hanno avuto possibilità di accesso a un’occupazione stabile durante la reclusione. Il paper sottolinea inoltre la necessità di incrementare la collaborazione tra il mondo delle carceri e il sistema delle imprese attraverso Partnership Pubblico-Private (PPP). Queste collaborazioni costituiscono strumenti fondamentali per permettere ai detenuti di acquisire competenze professionali spendibili sul mercato del lavoro. Migliorando le loro prospettive di reintegrazione. Il quadro che viene in mente leggendo il libro di Wanda Marra “Cose che mi hanno salvato la vita” (People editore) è il celebre ritratto di Félix Fénéon di Paul Signac. Ogni singola parola, ognuna delle brevissime frasi che irrompono in ogni pagina, fanno pensare ai puntini colorati che, alla fine, compongono un unico insieme variegato. Esattamente come la tecnica pittorica del “puntinismo” di cui Signac, insieme a Georges Seurat, è stato uno dei massimi esponenti. Nel quadro, di fine ‘800, si vede un signore distinto, con tanto di bastone, cilindro e guanti in una mano, che porge, con l’altra, un fiore, sullo sfondo coloratissimo, geometrico, pieno di luci ed ombre che esplode in una serie di spicchi, ognuno differente dall’altro. Tutti uniti da un punto di fuga invisibile, ma fondamentale. Un modo, per Signac, di descrivere il suo amico, famoso critico d’arte, dalla personalità eccentrica, poliedrica, anarcoide, raffinatissima, come se fosse il narratore o il contenitore di mille mondi. E in questo volume è un po’ quello che fa Wanda Marra, giornalista politica e studiosa di Giacomo Leopardi. Attraverso una sorta di “puntinismo letterario”, fa affiorare brandelli di vita. A cominciare da esperienze importanti come quella vissuta nel carcere di Casal del Marmo, dove ha tenuto un ciclo di incontri-lezioni con detenuti e detenute minorenni nell’ambito di un progetto di “giustizia riparativa”. Da “Cose che mi hanno salvato la vita” emergono così pensieri, sensazioni ed emozioni, descritti nell’imminenza del loro accadimento. Come se fossero minuscole pennellate che, alla fine, guardandole da lontano, dopo aver chiuso il libro, compongono un insieme. Youssef. Morto in carcere a 18 anni di Denise Armerini sinistrasindacale.it, 16 settembre 2024 Youssef è morto. Morto carbonizzato in carcere, dove era recluso in attesa di giudizio, a soli 18 anni. Youssef, arrivato in Italia dopo aver vissuto i campi di concentramento e le torture in Libia, dopo un viaggio che lo aveva visto attraversare il Mediterraneo legato mani e piedi. Un ragazzo con importanti problemi di sofferenza psichica. Morto in un carcere sovraffollato all’incredibile, dove non avrebbe dovuto stare. Un carcere dove sono presenti 1.100 detenuti, a fronte di 445 posti disponibili. Un luogo dove lo Stato dovrebbe prendersi cura di chi ha in custodia, dove le strutture, le forniture dovrebbero essere adeguate a prevenire e impedire certi episodi, autolesionismo, suicidi. Un esempio. I materassi ignifughi. Ci sono? Dove sono? La situazione delle carceri, veri e propri contenitori di marginalità, disagio, sofferenza, vere e proprie discariche sociali, è ormai davvero al limite. Ce lo dicono i numerosi, troppi suicidi, arrivati ormai a 70. Ce lo dicono le tante proteste, legate all’invivibilità degli spazi, all’assenza di veri percorsi di socializzazione e rieducazione. Problemi che quotidianamente si registrano e che rischiano di sfociare in rivolte. È la negazione dei diritti e della dignità delle persone, anche di chi dentro il carcere lavora, costretto a compiti di mera sorveglianza, in ambienti degradati e fatiscenti, con dotazioni organiche e professionalità inadeguate. È la negazione della clemenza, del rispetto per le persone, dell’umanità che dovrebbe informare ogni pena, ogni percorso di giustizia. Che ci imporrebbe la nostra Costituzione, l’articolo 27 sempre richiamato e mai così disatteso. Il governo, in tutto questo, continua con provvedimenti di facciata, come il decreto Nordio sulle carceri, che è stato motivato da requisiti di urgenza, ma che già abbiamo, anche in queste pagine, definito inutile, perché non ha e non avrà nessun effetto sul sovraffollamento, perché non interviene in maniera concreta e significativa sulle dotazioni organiche (500 assunzioni di personale di polizia penitenziaria nel 2025, 500 nel 2026, e nulla per quanto riguarda le altre indispensabili e carenti professionalità come educatori, mediatori culturali, psicologi), perché non modifica le condizioni di vita all’interno degli istituti, perché non ha nessun effetto sul quantum di pena di scontare. A questo si aggiunge il ‘decreto sicurezza’, attualmente in discussione alla Camera, che prevede la non obbligatorietà del differimento della pena per le donne incinte e madri di bambini fino a un anno di età. In merito a questo particolare provvedimento, vogliamo sottolineare che la campagna “Madri fuori dal carcere, con i loro bambini” ha promosso un appello, al quale è possibile aderire, il cui testo è pubblicato sul sito di Società della Ragione: https://www.societadellaragione.it/campagne/carcere-campagne/madri-fuori/no-al-carcere-per-le-donne-incinte-appello-della-societa-civile-contro-il-disegno-di-legge-sicurezza/ La direzione è sempre la stessa: un giustizialismo sfrenato, una logica esclusivamente punitiva, che nega ogni processo rieducativo. Del resto, anche la sorveglianza dinamica è stata messa in soffitta, sia per la mancanza di personale, sia perché la logica è quella di chiudere i detenuti in cella, dove scontare pene severe, “certe”. Dove marcire. Perché, come qualcuno ha avuto modo di affermare, le carceri non sono alberghi. E, allora, cosa c’è di strano se stanno in dieci in celle pensate per quattro persone, se il cibo è insufficiente e scadente, se non ci sono le docce, se manca l’acqua calda, se i cessi sono a vista, se fa un caldo torrido d’estate e un freddo gelido d’inverno? A questo si aggiunge la sofferenza psichica di tantissime persone ristrette, sofferenza alla quale si risponde esclusivamente con gli psicofarmaci, aggravata dalle condizioni di vita e dalla mancanza di occasioni di socializzazione, di formazione, di lavoro. Dalla mancanza di prospettive: non è un caso che la maggioranza dei suicidi avvenga al momento dell’ingresso in carcere per l’impatto con una realtà così devastante, o in prossimità della scarcerazione, proprio per l’assenza di prospettive. Allora serve davvero una svolta, una grande mobilitazione civile. Lo dobbiamo a Youssef, lo dobbiamo ai tanti ragazzi rinchiusi nei minorili, ai quali vanno davvero offerte occasioni e possibilità concrete di un futuro migliore: soprattutto per loro la pena dovrebbe essere l’extrema ratio, ed essere davvero un’occasione di formazione, di istruzione, di rieducazione. Servono alternative concrete al carcere, che permettano di superare il carcere come unica risposta possibile, che si promuovano pene alternative vere, in stretto legame con i territori e la comunità. Ddl sicurezza verso il primo ok: pene inasprite per proteste e occupazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2024 Con il testo del Governo trasformati in illecito penale il blocco stradale o dei treni. Molte disposizioni sono state criticate perché puntano a reprimere le proteste e per la loro connotazione ideologica. Alla ripresa dei lavori parlamentari dopo la pausa estiva è proprio il tema della sicurezza a polarizzare la maggiore tensione tra le forze politiche. Che ci sia un allarme sociale diffuso, al di là di singoli ed efferati episodi di violenza, è tutto da verificare, anche se i dati attestano una crescita delle denunce sino a superare i livelli antecedenti all’epoca Covid. Di certo però la maggioranza ha messo nero su bianco un pacchetto di interventi che più di altri, contestano le opposizioni, ne svelano l’anima repressiva. Alla Camera, nell’arco di questa settimana, sarà approvato in prima lettura un denso disegno di legge che interviene su una pluralità di fronti. Dall’attività di contrasto a criminalità organizzata e terrorismo, alla sicurezza urbana, passando per le carceri e le forze dell’ordine. Misure di tenore diverso, molte a elevato tasso ideologico. Con l’effetto sicuro di moltiplicare il numero di reati e le condanne anche alla detenzione, in un momento però di assoluta emergenza per le drammatiche condizioni delle carceri. Esemplari in questo senso sono le misure contro alcune forme di criminalità ritenute di maggiore gravità e allarme. A partire dalle occupazioni abusive e dalle forme pubbliche di protesta: per contrastare le prime è introdotto un nuovo delitto nel Codice penale, l’occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio, e una nuova norma nel Codice di procedura penale, il reintegro nel possesso dell’immobile. La sanzione va da 2 a 7 anni di carcere. A far discutere ci sono anche le misure che trasformano in illecito penale - al posto dell’attuale infrazione amministrativa - il blocco stradale o ferroviario attuato con ostruzione fatta col proprio corpo. La pena è aumentata se il fatto è commesso da più persone riunite. Norme che, si polemizza, hanno più l’obiettivo di reprimere la protesta sociale, anche nelle forme magari più discutibili di espressione del dissenso, che quello di elevare gli standard di sicurezza. A dividere, almeno per un po’, la medesima maggioranza, peraltro c’è stata anche la disciplina da applicare alla detenute madri e donne incinte. Ad una Lega fermamente orientata a cancellare il divieto di detenzione in questi casi assai delicati si è contrapposta Forza Italia che è arrivata a presentare un emendamento per confermare lo stop al carcere. Punto di equilibrio trovato poi con una correzione delle ultime ore che affida a un monitoraggio la verifica degli effetti della soppressione del divieto e del recupero di margini di discrezionalità da parte dell’autorità giudiziaria. E ancora, sulla criminalità “di strada”, si colpisce in maniera più pesante l’accattonaggio con l’età del minore portata sino a 1 a 6 anni e le truffe, con un mix di aggravanti generali e speciali a protezione soprattutto dei soggetti deboli come gli anziani. Per le forze dell’ordine i segnali sono diversi, dall’aumento della copertura legale per le azioni commesse in servizio, a una maggiore liberalizzazione del possesso di alcune categorie di armi fuori servizio. A essere inasprito è poi tutto il trattamento sanzionatorio per le forme di resistenza e di aggressione alle forze di polizia. Nuovi reati anche nelle carceri, per sanzionare più pesantemente le rivolte: la pena base è la reclusione da 2 a 8 anni, l’aver commesso il fatto con uso di armi è punito con la reclusione da 3 a io anni; l’aver causato una lesione personale ha come conseguenza l’aumento della pena fino ad un terzo; l’aver causato la morte è punito con la reclusione da io a 20 anni. La sola partecipazione alla rivolta è invece punita con la reclusione da 1 a 5 anni. C’è più controllo del territorio. Aumentare le pene? Non serve di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2024 Intervista a Fabio Roia, Presidente del Tribunale di Milano. Idati si prestano a una doppia lettura: da un lato, “l’aumento dei presidi di sicurezza” e, in alcuni casi, della fiducia nello Stato. Dall’altro la persistenza di una serie di reati “inaccettabili”, che vanno però studiati e non solo repressi. A commentare con queste parole le statistiche del Viminale pubblicate in queste pagine è Fabio Roia, presidente del Tribunale di Milano. Emerge un’Italia in cui i reati denunciati sono in aumento. Qual è la sua lettura dei dati? Sicuramente c’è un maggiore controllo del territorio rispetto al passato. Le faccio un esempio: nel 2024 a Milano abbiamo il 30% in più di arresti in flagranza di reato per reati predatori, e quindi scippi, rapine, piccolo spaccio. Si può fare di più ovviamente, ma c’è un forte problema di risorse: in polizia e carabinieri risultano carenze di organico importanti. Milano ha la maggiore densità di reati denunciati. È indice di scarsa sicurezza? Apparentemente c’è questo triste primato, ma non mi sento il presidente del tribunale di Gotham city. Non credo che la città abbia un problema più grave rispetto ad altre metropoli con le stesse caratteristiche, anche su base europea. L’altissimo flusso turistico può attrarre predatori e questo alimenta la percezione di insicurezza. D’altro canto, le scarse denunce in altre aree del Paese possono significare che il controllo del territorio sia appaltato a realtà alternative allo Stato. Come valuta l’aumento degli omicidi volontari? È un dato tragico: la voce più alta sono i femminicidi, una piaga sociale che non riusciamo a contenere malgrado gli sforzi legislativi. C’è una motivazione culturale che deve essere sradicata: ci vorranno anni. Crescono anche gli omicidi colposi da incidente sul lavoro... Un’altra piaga sociale inaccettabile. Credo l’aumento sia dovuto all’assenza di risorse, di prevenzione e controllo. Ci vorrebbe un piano di sanzioni intermedie e in questo senso la patente a punti nell’edilizia potrebbe essere un buon tentativo. Riconosce fenomeni criminali nuovi rispetto al passato? L’uso più frequente, soprattutto tra i giovani adulti, di armi bianche. È strettamente connesso all’aumento dei reati violenti come aggressioni, minacce e lesioni. Anche nell’ambito di scontri tra gruppi per motivi banali, risse fuori dai locali della movida e in relazione alla diffusione di nuovi stupefacenti che spingono a una maggiore aggressività. Sono fenomeni che vanno studiati e prevenuti, non solo repressi. Si riferisce al decreto Caivano? Aumentare la presenza sul territorio è un fatto positivo, genera maggiore sicurezza. Inasprire le pene è una direttrice sterile: i reati non diminuiscono. L’aumento delle denunce, però, può essere un dato positivo? Sicuramente. Ad esempio, l’aumento di denunce di estorsione, reato spia di una situazione strutturata di criminalità, indica maggiore fiducia nello Stato. Così come l’aumento di denunce per reati da Codice rosso. C’è un problema di risposta da parte dell’apparato giudiziario? L’apparato sta soffrendo molto per la carenza di risorse e quando verranno meno le risorse del Pnrr la risposta rischia di essere ancora più lenta. No, cari garantisti, il processo a Salvini non ha nulla di politico di Claudio Cerasa Il Foglio, 16 settembre 2024 Il carcere per sei anni è ridicolo. Il processo no. Augurarsi che Salvini venga condannato è sciocco. Ma dovesse succedere due suggerimenti: commutare la pena e costringere il vicepremier a studiare i trattati europei (e farsi un giro su una nave ong). Diciamoci la verità: si può dire davvero che ci sia un accanimento? Prima i fatti, poi il commento. I fatti li conoscete e riguardano il processo a Matteo Salvini. Il leader della Lega è imputato per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio per aver ritardato lo sbarco di 147 migranti a bordo della nave della ong Open Arms nell’agosto del 2019, quanto ricopriva la carica di ministro dell’Interno con il governo Conte. Sabato scorso la richiesta di condanna per il ministro Salvini è stata formulata dalla procuratrice aggiunta di Palermo, Marzia Sabella, con queste parole: “Il diniego consapevole e volontario ha leso la libertà personale di 147 persone per nessuna, ma proprio per nessuna, apprezzabile ragione… Anche per ciascuna di queste persone ci accingiamo a chiedere la condanna dell’imputato oltre che per difendere i confini del diritto. Per questo chiediamo la condanna alla pena di anni sei di reclusione”. Piccolo promemoria, per passare dai fatti alle opinioni. Fu Salvini, nel 2019, a dire, su queste vicende, “processatemi pure”. Fu Salvini, nel 2019, a rivendicare, con orgoglio, il diritto del governo di cui era vicepremier a sfidare il diritto del mare. E fu Salvini, nel 2019, a spacciare per protezione dei confini la volontà di spingersi a un passo dal violare alcuni trattati internazionale (nel 2019 il tribunale dei minori di Palermo descrisse il caso della Open Arms come “una situazione che equivale, in punto di fatto, a un respingimento o diniego di ingresso a un valico di frontiera” e il respingimento come è noto è vietato sia dalle leggi italiane sia da quelle internazionali). Sul caso Open Arms c’è da augurarsi, di cuore, che Salvini sia innocente, e nessuna persona con la testa sulle spalle può augurarsi che il destino di un leader di partito venga deciso da una procura della Repubblica. Ma intorno al caso Open Arms non c’è un tema legato al garantismo, non c’è un tema di persecuzione di un politico, non c’è un tema di complotto contro il governo, non c’è, come ha detto sabato la premier Giorgia Meloni, l’aver svolto semplicemente “il proprio lavoro, difendendo i confini della nazione”. E non c’è, come scritto ancora dalla premier, la volontà di “trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani”. Il tema è diverso, è più importante, perché in ballo, nel caso Salvini, non c’è la volontà di misurare la capacità della magistratura di rispettare la legge di uno stato, la legge fatta da un governo, ma c’è la possibilità di considerare legittimo il tentativo da parte di un ministro di calpestare il diritto internazionale, nel caso specifico il diritto del mare, e di far prevalere la propaganda di un governo (il punto di riferimento fortissimo della sinistra era all’epoca il presidente del Consiglio di quel governo, ovvero Giuseppe Conte, che oggi dice che non c’era e se c’era dormiva e non si è accorto di nulla) sui trattati internazionali. Dunque, come dovrebbe essere evidente, non si tratta, sul caso Open Arms, di capire se i magistrati sanno stare al loro posto, ma si tratta di chiedere a un ministro della Repubblica di valutare se un ministro che decide deliberatamente di ignorare la legge per questioni legate più alla propaganda personale che all’interesse nazionale può farlo oppure no. E per una volta, da parte della magistratura, per quanto questa possa essere ideologizzata, non c’è una caccia alle streghe, non c’è disprezzo per il garantismo ma c’è semplicemente il tentativo di far rispettare lo stato di diritto. Salvini sapeva (a) che in virtù degli articoli 10 e 117 della Costituzione “una norma di rango primario non può essere in contrasto con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia” e che (b) quando si parla di diritto del mare vi sono alcuni doveri a cui gli Stati devono adempiere che hanno a che fare con il diritto alla vita e il rispetto della libertà e della dignità umana. Dunque, in sintesi estrema, più che vittima della giustizia, ancora una volta, Salvini dimostra di essere vittima solo di sé stesso, della sua propaganda, della sua irresponsabilità, nel senso letterale, nel senso di non voler assumersi la responsabilità di aver cercato di mettere il diritto internazionale su un piedistallo più basso rispetto alle leggi di uno Stato. E in un certo senso ha ammesso lui stesso di essere colpevole di quello che ha fatto sia all’inizio della storia, quando si è detto pronto a essere processato per quello che ha fatto, sia alla fine, quando ha accettato di far parte di un governo, quello attuale, che ha scelto di rinunciare al salvinismo sull’immigrazione, pur essendo Salvini al governo, archiviando la stagione dei porti chiusi nella consapevolezza che l’Italia abbia il dovere di gestire il dossier dell’immigrazione non difendendo da sola i propri confini ma chiedendo un aiuto all’Europa. I pieni poteri che possono aiutare l’Italia a risolvere i suoi problemi sono quelli dell’Europa, non dei ministri che decidono di prendere a schiaffi il diritto internazionale ballando in mutande in una discoteca sulla spiaggia. Sul caso Open Arms c’è da augurarsi, di cuore, che Salvini sia innocente, e nessuna persona con la testa sulle spalle può desiderare che il destino di un leader di partito venga deciso da una procura della Repubblica. Ci permettiamo solo di suggerire al tribunale di Palermo un po’ di creatività: il carcere, i sei anni, sono semplicemente ridicoli, è evidente. Nel caso in cui Salvini dovesse essere condannato sarebbe sufficiente commutare la pena e costringere il vicepremier a passare 1.000 ore a studiare i trattati internazionali e 1.000 ore a girare il Mediterraneo con una ong, gli potrebbe capitare persino di trovarne una che collabora con il governo di cui fa parte, Open Arms compresa. In bocca al lupo di cuore. La politica c’entra (ma per il ruolo dei Cinque Stelle) di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 settembre 2024 Processo Open Arms: furono i parlamentari del Movimento a mandare l’ex alleato davanti ai giudici. Mentre tecnico-giuridici sono stati i calcoli che hanno portato alla richiesta di sei anni di reclusione. Raggiunta partendo dal minimo della pena previsto dal codice penale. Il processo Salvini-Open Arms non è un processo politico, ma è un processo di derivazione politica. A consentirne la celebrazione, infatti, è stato il Senato della Repubblica quando nel 2020 concesse l’autorizzazione a procedere ribaltando la decisione dell’apposita Giunta: finì 149 a 141, con il voto favorevole e decisivo dei Cinque Stelle. I quali a marzo 2019, quando ancora governavano con la Lega, si schierarono invece contro il processo all’allora ministro dell’Interno ugualmente accusato di sequestro di persona per aver trattenuto 150 migranti a bordo della nave italiana Diciotti, e per il quale un altro tribunale per i reati ministeriali aveva chiesto l’autorizzazione. In quell’occasione i grillini affidarono la decisione al voto degli iscritti alla loro piattaforma telematica, ponendo un quesito che nei tribunali si chiamerebbe “domanda suggestiva”, perché implicitamente suggeriva la risposta: “Il ritardo dello sbarco della nave Diciotti, per redistribuire i migranti nei vari Paesi europei, è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato?”. Il 60 per cento disse sì, seguendo le indicazioni della classe dirigente del Movimento, e il processo fu negato. L’anno successivo, a maggioranza giallo-verde andata in fumo, i Cinque stelle cambiarono opinione, e mandarono il loro ex alleato alla sbarra. Decisione politica, senza dubbio. Dopodiché le carte sono tornate sul tavolo della Procura di Palermo, e la procedura ha seguito il suo corso secondo le regole dei codici penale e di procedura penale, come per tutti gli imputati. Senza più valutazioni politiche, bensì esclusivamente giuridiche. Sebbene di politica si sia parlato e molto, durante il dibattimento e nella requisitoria con cui i pubblici ministeri hanno chiesto la condanna. Ma è accaduto perché politica è stata la difesa del ministro, il quale ha sempre sostenuto di avere agito per seguire la linea concordata dalla maggioranza di governo, nel cui “contratto” c’era il contrasto all’immigrazione clandestina da perseguire con il coinvolgimento dell’Europa nell’accoglienza dei migranti giunti in Italia. Obiettivo da raggiungere con la strategia dei “porti chiusi” e il principio “prima la redistribuzione e poi lo sbarco”. Ne hanno discusso testimoni, avvocati e pm i quali, al momento di concludere, hanno ribadito che secondo le regole del diritto né “tavoli tecnici” né direttive governative “possono prevalere sulla legge del mare che non distingue il tipo di nave che procede al soccorso; prevede l’obbligo della “dovuta diligenza” gravante sia sullo Stato che su tutti i comandanti delle imbarcazioni; non ammette la chiusura dei porti in occasione di eventi di salvataggio; non arretra sulla competenza dello Stato nelle cui acque territoriali si sia verificato un evento di recupero naufraghi; sancisce a chiare note il principio di non respingimento oltre a quello della tutela rafforzata per i minori migranti”. E sulla Open Arms ce n’erano alcune decine. Inoltre nella fase del sequestro di persona a lui contestato Salvini perseguì in solitudine quella linea politica, senza più l’appoggio degli altri ministri né dell’allora premier Giuseppe Conte; soprattutto dopo che il Tar aveva sospeso il divieto d’ingresso della nave in acque italiane. Tutto questo è stato ricordato dai pm non per sostenere una linea politica inversa, ma per dimostrare il cosiddetto “elemento soggettivo” del reato, cioè la consapevolezza dell’imputato di agire contro le regole, per un fine da lui stesso dichiarato. Di questo s’è trattato: valutazioni giuridiche che toccano - inevitabilmente, quando sotto processo è un ministro - questioni politiche. E tecnico-giuridici sono stati i calcoli che hanno portato alla richiesta di sei anni di reclusione. Raggiunta partendo dal minimo della pena previsto dal codice penale (tre anni) con l’aumento dovuto alla continuazione del reato (un sequestro per ogni migrante, valutato anch’esso al minimo previsto dalla legge) e dell’altro contestato: i rifiuti di atto d’ufficio reiterati per ogni richiesta di sbarco negata. E senza poter concedere, a parere della procura, le attenuanti generiche giacché nel certificato penale di Matteo Salvini c’è una condanna definitiva per diffamazione aggravata dall’odio razziale (commessa nel 2009 e sancita nel 2014) inflitta con un decreto penale che ha sospeso la pena. Considerazioni sulle quali, dopo l’arringa della difesa che ovviamente la vede all’opposto dei pm, deciderà il tribunale, secondo le interpretazioni che darà delle stesse leggi e regole. Non opinioni politiche. La premier Giorgia Meloni ha definito “incredibile” la richiesta di condanna per il suo vice; e il ministro dell’Interno Piantedosi, che durante l’inchiesta è stato indagato e poi archiviato in qualità di capo di Gabinetto di Salvini al Viminale, “una macroscopica stortura e un’ingiustizia”. Commessa dalla stessa Procura che, per citare un precedente ancora recente e attuale, coordinò le indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro; quel giorno la presidente del Consiglio si precipitò a Palermo per congratularsi con il procuratore in persona. Quel confine invalicabile tra la giustizia e la politica di Giovanni Orsina La Stampa, 16 settembre 2024 Il Parlamento ha dato il via libera ma è ipocrita negare il ruolo della magistratura. La destra fa la sua parte, anche se a fasi alterne: per Toti non c’è stata la stessa reazione. Quello che Matteo Salvini sta subendo sulla vicenda Open Arms è un processo politico. Consentito, non per caso, da un voto parlamentare. L’articolo 96 della Costituzione stabilisce che, perché possa procedere in caso di presunti reati ministeriali, il potere giudiziario ha bisogno dell’autorizzazione della Camera o del Senato. La legge costituzionale numero 1 del 1989 aggiunge che l’assemblea può negare tale autorizzazione “ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”. Saggiamente, la Carta lascia così alla politica la facoltà di disegnare i propri stessi confini, di stabilire fin dove si spinge il terreno della discrezionalità politica sul quale la magistratura non può addentrarsi. Nel caso in questione, il via libera l’ha dato il Senato quattro anni fa, il 30 luglio del 2020, contro il parere della propria stessa Giunta per le autorizzazioni a procedere. Allora si opposero 141 senatori appartenenti ai partiti dell’attuale maggioranza e votarono a favore 149 delle forze ora all’opposizione. Oggi il processo a Salvini è un evento giudiziario destinato a svolgersi seguendo le regole del diritto, ma non sarebbe mai esistito se a monte non ci fosse stata la decisione squisitamente politica che un’assemblea rappresentativa ha assunto a maggioranza, dividendosi lungo linee partitiche. In Italia il rapporto fra politica e giustizia è patologico da almeno un trentennio, è dai tempi di Tangentopoli che l’equilibrio fra i poteri è saltato e che infuria un duro conflitto politico per la sua ridefinizione. Ed è da allora che la richiesta che la politica non s’immischi con la giustizia - puntualmente ripetuta, stentorea e vibrante, a ogni piè sospinto -, suona vana e falsa. Nel caso Salvini-Open Arms siamo un bel passo più avanti, però: qui la natura politica del conflitto è talmente evidente che negarla o scandalizzarsene appare ancora più ipocrita del solito. I magistrati che hanno portato Salvini a processo stanno perseguendo anche scopi politici, in senso lato: se si arrivasse a una condanna, ne risulterebbe compresso il campo della discrezionalità politica e, di conseguenza, ampliato lo spazio di sorveglianza del potere giudiziario. “Tra i diritti umani e la protezione della sovranità dello Stato”, ha dichiarato ad esempio il procuratore di Palermo nella sua requisitoria, “in democrazia i primi prevalgono sempre, e non possono essere inficiati da chi riveste una funzione pubblica”. Una frase della quale si potrebbe discutere molto a lungo - ma che contiene indiscutibilmente un ambizioso programma politico. Meno ambiziosa ma altrettanto politica la dichiarazione della giunta palermitana dell’Associazione nazionale magistrati: “La piena uguaglianza di tutti di fronte alla legge è l’autentica essenza della democrazia, a prescindere dalla carica e dal rilievo politico”. Una frase che dà per assodato proprio quello di cui invece si discute, se l’articolo 96 della Costituzione dal quale siamo partiti stabilisce che un ministro non possa andare a processo, e perciò non sia affatto uguale a tutti gli altri, quando la politica dichiara che ha agito a tutela di un preminente interesse pubblico. Ma, si dirà, il 30 luglio del 2020 la politica ha deciso che Salvini non agiva a tutela di un interesse pubblico. Veniamo così, dopo la magistratura, al secondo attore della commedia: l’allora maggioranza, attuale opposizione, che votò contro Salvini. Non le è parso vero quattro anni fa né le sembra vero adesso di poter utilizzare la giustizia per le proprie finalità politiche - ossia di poter far fare opposizione ai giudici. Una scelta politicamente razionale nel breve periodo ma che, col tempo, finisce per consentire che il campo della politica nel suo complesso sia eroso, danneggiando tutti coloro i quali ci si muovono, a destra così come a sinistra. Anche questa dell’autolesionismo di una politica miope è una storia vecchia, del resto: è esattamente quel che è accaduto nel 1992-1993. Da ultimo lo ha scritto ieri su Facebook l’ex-governatore della regione Liguria, Giovanni Toti, e non c’è niente da aggiungere: “Il vero nemico della politica non è la magistratura, ma la politica stessa che ha costruito la gabbia in cui si è rinchiusa”. Il terzo attore, infine: la destra di governo. Politicizzando il processo Salvini, non sta facendo nient’altro che il suo mestiere. Di nuovo: scandalizzarsene è da ipocriti. Tanto più perché la nuova destra populista e/o sovranista ha promesso agli elettori proprio di ripristinare gli spazi della politica e, per il suo tramite, della volontà popolare, contrastando l’espansione delle istituzioni non politiche e non rappresentative, fra le quali, ovviamente, quelle giudiziarie. Semmai qui lo scandalo è un altro, allora: che la destra di governo il suo mestiere lo abbia fatto e faccia a fasi alterne; che - poiché lo abbiamo citato - su un caso sconcertante come quello di Toti sia scesa in campo col freno a mano tirato; che abbia spesso ceduto anche lei, e mica poco, al giustizialismo. Che, insomma, non abbia ancora deciso se preferisce ripristinare la politica o continuare a giocare con l’antipolitica. L’atto d’accusa dei pm: “Ecco perché il Viminale violò i confini del diritto” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 16 settembre 2024 “Chiediamo la condanna dell’imputato Matteo Salvini a sei anni per difendere i confini del diritto”, ha detto sabato pomeriggio la procuratrice aggiunta Marzia Sabella. E quando i riflettori si sono spenti nella grande aula del tribunale, i tre pubblici ministeri hanno consegnato una memoria scritta al collegio giudicante presieduto da Roberto Murgia: 237 pagine che ripercorrono le ragioni dell’accusa. “L’imputato è responsabile di sequestro di persona, oltreché di rifiuto di atti d’ufficio”, hanno ribadito i pm Geri Ferrara e Giorgia Righi. Ed ecco i “confini del diritto”, che nella drammatica estate del 2019 l’allora ministro dell’Interno superò “con una serie di provvedimenti illegittimi - argomentano i magistrati - indubbiamente a vantaggio della propria immagine di politico intransigente nella gestione del fenomeno migratorio”. Le legge piegata alla politica. È importante la “memoria conclusionale” come l’hanno chiamata i pubblici ministeri con un termine tecnico, non è solo materia per giuristi, è una lezione di educazione civica, è un serrato ragionamento sulle ragioni del diritto contrapposte a quelle dei tweet. Scrive la procura: “La condotta tipica del reato di sequestro di persona è rappresentata dal compimento di atti che privano taluno della propria libertà personale (…) atti che possono avere natura commissiva o anche omissiva, purché la condotta del soggetto agente sia illegittima”. Ecco il punto di partenza dell’accusa: il blocco della nave era illegittimo perché “sul ministro dell’Interno gravava l’obbligo di indicare il place of safety, il porto sicuro, alla nave della Ong Open Arms che aveva soccorso i migranti”. La procura non ha dubbi, ma l’ufficio inquirente presieduto da Maurizio de Lucia non smette di argomentare, di indagare fra tutte le ricostruzioni alternative, innanzitutto la tesi difensiva, che parla di “atto politico”: “È necessario rispondere a una serie di quesiti - scrivono i pm - per verificare se sussistessero elementi, sia di fatto che di diritto, in grado di esonerare il ministro dell’Interno dall’obbligo di rilasciare il place of safety. O di ritardarlo”. Per la procura, bisognava accogliere subito a terra quella nave con 147 migranti. “Non c’era alcun rischio di terroristi a bordo”, precisano i magistrati, “non c’era da parte dell’Ong un’attività di trasferimento illegale di migranti”. E ancora: “Non aveva senso mandare la nave in Spagna, i migranti erano stremati per tanti giorni di navigazione”. I pm contestano alla radice la legittimità del decreto che vietava l’ingresso dell’Open Arms: “Non si poteva impedire la conclusione di eventi di soccorso”. Un altro passaggio: “Il ministro dell’Interno ben conosceva la situazione di pericolo a bordo”. La memoria cita il tribunale dei ministri: “Salvini voleva proseguire la politica dei porti chiusi anche contro il diritto”. E aggiunge: “Quel decreto, fondato già su una norma traballante, giammai poteva svincolare lo Stato italiano dalle proprie responsabilità previste dalle leggi del mare e da quelle, anche nazionali, in tema di accoglienza dei minori”. Dall’elemento oggettivo a quello soggettivo del reato, come lo chiamano i giuristi. La procura contesta a Salvini di essere stato “consapevole che il suo non provvedere perpetuava, sin da subito, un impietoso e illegittimo stato di restrizione di 147 persone”. Nella memoria si parla di “inerzia dell’imputato, che non ha fatto altro che incidere, aggravandolo, sullo stato di privazione della libertà personale, sotto il duplice profilo della possibilità del libero movimento sulla nave e della possibilità di libero movimento fuori dal natante”. Eccolo, il cuore dell’accusa, ruota attorno alla “volontarietà dell’illegittimità degli atti commessi”: per i pm “è dimostrata dal consapevole e a lui noto caos istituzionale, interno e internazionale, che si generò”. La conclusione della procura è troncante: “Anche i più alti obiettivi, seppur governativi, devono essere perseguiti attraverso le leggi vigenti o attraverso norme all’uopo promulgate, ma mai con strumenti illeciti”. Alla fine, i pm bacchettano pure i tweet compulsivi del ministro: “L’imputato nel condurre la propria politica dei porti chiusi aveva adottato una posizione di intransigenza che lo portava, non solo ad affermazioni drastiche sui social incompatibili rispetto ai suoi doveri amministrativi di rilasciare i place of safety, ma a ritenere di potere stravolgere le regole”. Così, dicono i pubblici ministeri di Palermo, “abbiamo difeso i confini del diritto”. “Il vero obiettivo della destra è sottomettere i pm all’esecutivo e abolire l’azione penale obbligatoria” di Liana Milella La Repubblica, 16 settembre 2024 Intervista all’ex magistrato Armando Spataro: “Spero non si torni all’epoca delle leggi ad personam di Berlusconi: quegli interventi furono già bocciati dalla Consulta”. Prima la solidarietà di Nordio, poi l’altolà di Delmastro con quel “non si processa chi difende la Patria!”. Che effetto le fa? “Potrei forse comprendere la solidarietà, ma non il fatto che si consideri difesa della patria impedire lo sbarco di disperati che hanno lasciato le loro terre solo per la speranza di una vita dignitosa. La politica dei “porti chiusi” è inaccettabile per ogni democrazia”. La premier Meloni dice l’opposto. Per lei “sarebbe grave trasformare un dovere in un crimine”. Il “dovere” è quello di Salvini... “Per l’ennesima volta siamo di fronte a un conflitto tra politica e magistratura, che è cosa ben diversa dalle normali tensioni che pure possono sussistere tra poteri dello Stato. Peraltro si tratta di posizioni che oscillano a seconda dei casi. Come dimenticare che la premier nel gennaio 2023 si è recata di persona a Palermo per complimentarsi con il procuratore per l’arresto di Messina Denaro? Mi chiedo: quella procura è un ufficio che merita apprezzamento o può essere delegittimato?”. È singolare però che Meloni rifiuti la sola idea che un suo ministro possa aver commesso un delitto. E gli esempi ci sono… “Si dimentica che se un imputato è colpevole o meno lo decide il giudice, anche se le sentenze sono criticabili, ma nessuno potrà mai impedire al pm di indagare su ogni ipotesi di reato di cui abbia notizia. È suo dovere farlo in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale, e ciò rafforza l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, che oggi potrebbe scomparire se fosse approvata la separazione delle carriere”. Meloni e i suoi ministri pretendono un lodo che li tuteli dalla magistratura? “Ancora non vedo questo pericolo che potrebbe evocare l’epoca delle leggi ad personam berlusconiane. Speriamo che non si arrivi mai a quel tipo di interventi che furono bocciati dalla Consulta o finirono su un binario morto grazie alla reazione di giuristi e cittadini”. E il caso Toti? Perfino il patteggiamento venduto dalla destra come prova che la procura ha sbagliato? “Mi limito a dire che i colleghi di Genova hanno agito all’evidenza con professionalità e sobrietà comunicativa”. Per difendere Meloni, La Russa certifica che lei ha attaccato i pm e non i giudici. La separazione delle carriere metterà i pm sotto l’esecutivo così staranno buoni? “Questa legge viene presentata come lo strumento che risolverà i problemi della giustizia. Invece è una vera e propria impostura che, come in tutti i Paesi dove esiste eccetto il Portogallo, finirà per mettere il pm sotto l’esecutivo”. È quello che vogliono... “Qualcuno lo nega, ma la conseguenza è inevitabile. Quanto a La Russa non mi sorprende che si ritengano criticabili i pm in quanto “non giudici”. Eppure si dice assai spesso che proprio i giudici sarebbero appiattiti sui pm. Qui dico solo che i giudici decideranno secondo libertà e coscienza, e nessuna critica o consenso ai pm potrà condizionarli in alcun modo. Neppure le manifestazioni che si vorrebbero organizzare dinanzi al palazzo di giustizia di Palermo”. Giusto per copiare Berlusconi... “Quella si rivelò una protesta comica e senza alcun effetto”. La Russa boccia anche i pm che “interpretano”. Dovrebbero uniformarsi al governo? “Anche questa è una vecchia storia che ignora il ruolo fondamentale dell’interpretazione delle leggi, irrinunciabile per pm e giudici, come la Consulta ha più volte scritto nelle sue sentenze”. Ha letto l’ex toga Matone, ora deputata leghista, che vede l’Anm come “un lupo vestito da agnello”. Se è vero che su lupi e cervi è lecito sparare qui la magistratura è messa male… “Se lupi e cervi siamo, viviamo però in una riserva naturale protetta dai cittadini, e dunque nessuno ci potrà mai sparare”. Open Arms, Salvini: “Mi dichiaro colpevole di aver difeso l’Italia” Il Dubbio, 16 settembre 2024 Centrodestra compatto in difesa del ministro per cui i pm chiedono sei anni. Meloni: “Il dovere non è reato”. E scende in campo anche Elon Musk. Sfondo buio, nero. Luce soffusa, dal basso. Matteo Salvini appare in giacca nera e camicia bianca, senza cravatta, per rispondere ai magistrati di Palermo che chiedono per lui sei anni di reclusione per la vicenda Open Amrs. Parla scandendo piano le parole, Salvini, ripreso a mezzo busto o con primi piani strettissimi. Non gesticola, le mani nemmeno si vedono. D’altra parte, il messaggio contenuto nelle parole è netto, e asciutto. “Mi dichiaro colpevole di aver difeso l’Italia e gli italiani”, dice a chiosa del video in cui ripercorre quanto accaduto nel 2019 con la nave Ong. Non c’è, nel video, l’attacco a chi lo accusa. C’è, invece, nella commento che lascia in calce al video: “È follia”. Una difesa che dà la linea a tutto il centrodestra. A cominciare dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. “È incredibile che un Ministro della Repubblica Italiana rischi sei anni di carcere per aver svolto il proprio lavoro difendendo i confini della Nazione, così come richiesto dal mandato ricevuto dai cittadini”, scrive la premier sui social network. “Trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani dall’immigrazione illegale è un precedente gravissimo. La mia totale solidarietà al Ministro Salvini”. Un intervento che innesca la reazione delle opposizioni. La segretaria del Pd, Elly Schlein, giudica il post della premier “molto inopportuno” perché “noi pensiamo che il potere giudiziario ed esecutivo siano separati secondo il principio della separazione dei poteri e quindi il rispetto istituzionale imporrebbe di non mettersi a commentare dei processi che sono aperti”. Piuttosto, osserva Schlein, “stupisce che oggi abbia trovato il tempo per commentare la vicenda di Salvini, mentre da ieri, non abbia ancora proferito parola sul patteggiamento di Giovanni Toti”. Quello che ai dem appare chiaro è il tentativo della maggioranza di trasformare il processo a Salvini in un processo politico. Di più: alle istituzioni. “Una cosa è chiara: quello a Salvini non è un processo politico né tantomeno un processo all’Italia. È semplicemente un processo a chi ha sequestrato 147 persone, e se lo ha fatto per obiettivi politici è semplicemente ancora più grave”, attacca Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana. Per il segretario di Più Europa, Riccardo Magi, “Meloni sta evidentemente tentando di intimidire il pubblico ministero. Avere un Ministro accusato di sequestro di persona già dovrebbe essere fonte di imbarazzo per un governo di qualsiasi Paese democratico, ma avere addirittura la premier che interviene a gamba tesa nel processo rappresenta un’ingerenza gravissima del potere esecutivo nei confronti del potere giudiziario da far tremare i polsi”. Ad alzare un muro a difesa di Salvini è la maggioranza, compatta. “Salvini ha fatto il suo dovere di ministro”, dice il leader di Forza Italia, Antonio Tajani che aggiunge: “Sono convinto che c’è sempre un giudice che riconosce la correttezza del comportamento di un ministro, il cui compito è anche quello di difendere la legalità, e ritengo che Salvini l’abbia fatto”. Solidarietà dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio: “Esprimo la mia piena ed affettuosa solidarietà al collega Salvini. Per quanto riguarda il processo, la sua origine e le sue caratteristiche, mi riporta ai tanti articoli che ho scritto in merito prima di diventare ministro”, aggiunge il Guardasigilli. “Piena e totale solidarietà al ministro Salvini”, fa eco il responsabile del Viminale, Matteo Piantedosi che parla di “evidente e macroscopica stortura e un’ingiustizia per lui e per il nostro Paese”. Dall’altra parte dell’oceano, arriva la solidarietà del patron di Tesla, Space X e X. Ed è al suo social che Elon Musk affida l’attacco alla magistratura Italiana: “È quel giudice pazzo che andrebbe condannato a sei anni”. Roma. Rivolta a Casal del Marmo, blitz della polizia penitenziaria per liberare la mensa di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 16 settembre 2024 Quattro ore di trattativa, poi l’intervento degli agenti del Gruppo operativo mobile. I reclusi avevano anche incendiato alcuni materassi. È la terza protesta nell’arco di una settimana. In diciotto si sono barricati nella mensa del carcere minorile dopo aver tentato di incendiare alcuni materassi. E per quasi quattro ore si sono rifiutati di interrompere l’ennesima protesta a Casal del Marmo, dopo quelle portate avanti nelle settimane scorse, durante le quali sono rimasti feriti anche alcuni agenti della polizia penitenziaria. Domenica pomeriggio, poco dopo le 17, sono stati proprio loro, con un rinforzo arrivato da Rebibbia, a entrare nel locale occupato dai giovani reclusi, non tutti minorenni. L’ennesima rivolta - Non ci sono stati feriti, anche se adesso si indaga per risalire ai motivi della nuova protesta e identificare gli organizzatori degli incidenti. Come accaduto in passato, potrebbero essere subito trasferiti presso altre strutture penitenziarie. Sul posto, poco dopo le 13, sono intervenuti i carabinieri - che hanno circondato l’edificio per scongiurare il rischio di evasioni - insieme con il Reparto mobile della polizia, un paio di ambulanze dell’Ares 118 e i vigili del fuoco. Una trattativa è stata subito avviata con i detenuti che si erano chiusi nella mensa ed è stata portata avanti fino a quando la Penitenziaria, con gli agenti del Gom, il Gruppo operativo mobile, ha deciso di intervenire per interrompere l’occupazione. Non ci sarebbero stati contatti fisici e i reclusi avrebbero rispettato l’ordine di tornare nei loro reparti. I sindacati: “Sistema in crisi” - Per Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, che ricorda l’evasione di tre giovani dal Beccaria di Milano solo qualche giorno fa, “quanto sta avvenendo nei penitenziari, anche per minorenni, certifica la crisi del sistema e il fallimento complessivo della sua organizzazione e gestione. Crisi che non è affrontabile percorrendo scorciatoie e con la ricerca di capri espiatori. Dopo il decreto Caivano, che ha prodotto maggiori ingressi negli istituti penali per minorenni, non vi sono state le misure operative e di rafforzamento di sicurezza attiva e passiva proporzionate alle accresciute esigenze. E continua a essere un problema il mantenimento nel circuito minorile di detenuti fino a 25 anni”. “Occorre dare un segnale che lo Stato c’è” - Solo il 7 settembre scorso a Casal del Marmo tre celle sono state date alle fiamme, distrutte alcune telecamere e tre poliziotti finiti in ospedale. Nel carcere minorile al momento risulta un esubero di 20 detenuti rispetto ai cinquanta previsti, ma c’è anche una carenza di organico da parte della polizia penitenziaria. Analoga situazione martedì scorso. “Registriamo con disappunto - spiega invece Massimo Costantino, segretario generale Fns Cisl Lazio - che i detenuti responsabili degli incidenti di domenica scorsa sono ancora all’interno dell’Ipm: occorre dare un segnale che lo Stato c’è, e che il rispetto delle leggi e dei regolamenti viene applicato nei circuiti minorili. E che tali detenuti devono essere spostati in altri istituti, altrimenti, come si è visto, non si fermano davanti a nulla”. Sotto accusa anche la mancanza delle carceri minorili di “circuiti differenziati per detenuti con psicopatologie, problemi di dipendenza, contrasti fra etnie diverse: gli spazi stretti contribuiscono ad alzare il livello di tensione. Senza turn-over - conclude Costantino - i pochi agenti rimasti sono costretti a turni massacranti”. Torino. “Senza indulto siamo destinati a crepare, è una pena di morte celata” torinoggi.it, 16 settembre 2024 Un detenuto del carcere “Lo Russo e Cutugno” di Torino ha inviato al tesoriere di Radicali Italiani Filippo Blengino una lettera in cui denuncia le drammatiche condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti. “Caro Filippo, dopo la tua visita la situazione purtroppo non è cambiata. Senza l’indulto ci condanneranno a crepare come cani rinchiusi in queste celle sudice, dove la sicurezza non esiste, celle bollenti prive di ogni regola sanitaria, invase da cimici e scarafaggi, dove i diritti degli esseri umani vengono continuamente violati. Mi chiamo P.M. e sono detenuto presso il carcere di Torino ‘Lo Russo e Cotugno’, blocco C. Qui si muore, perché questa non è più una vita dignitosa e, per sfuggire a questa tortura, qualcuno di noi decide di farla finita. Entrati in questo girone dell’inferno, si perde ogni tipo di diritto e non esiste riabilitazione o rieducazione per correggere i comportamenti sbagliati; qui siamo carne da macello, privati della libertà e della dignità. La nostra punizione non può essere crudele, disumana e degradante. Chiediamo di essere salvati da uno Stato che ha deciso che la nostra punizione si traduca nella pena di morte celata! Un malato psichiatrico non è considerato una persona fragile, non gli viene riconosciuto il diritto alla salute. Siamo disperati, aiutateci!” “La situazione è drammatica, ci rivolgiamo-come suggerito dal detenuto- al Presidente Mattarella. Questa situazione non è più tollerabile. Servono misure immediate e concrete, non è possibile perdere altro tempo. A settembre abbiamo già raggiunto il numero di morti registrato nel 2023. Un dato devastante, una tragedia silenziosa che si consuma ogni giorno nelle carceri italiane. Non possiamo più attendere le fantomatiche riforme del Governo: è necessario approvare immediatamente il DL Giachetti e riflettere seriamente su indulto e amnistia”. Lo dichiara in una nota Filippo Blengino-Tesoriere Radicali Italiani. Brescia. Il progetto del nuovo carcere è ancora fermo di Mario Pari Brescia Oggi, 16 settembre 2024 Uno “stallo assoluto”. Non usa altre definizioni, espressioni, Calogero Lo Presti, coordinatore regionale della Fp Cgil polizia penitenziaria quando viene sollecitato a parlare del nuovo istituto di pena di pena, in merito al quale le voci circolano da decenni. “Il vero problema - spiega Lo Presti - è che ora non circolano più nemmeno le voci. All’orizzonte non c’è nulla. Normalmente un anno prima abbiamo avvisaglie su data e inizio lavoro. Per ora niente”. “Un silenzio assordante” - C’è qualcosa che colpisce il sindacato: il silenzio. “Sul versante politico - prosegue - la sindaca Castelletti si sta interessando moltissimo. Ha scritto alle autorità competenti per proporre l’esproprio dei terreni circostanti Verziano, ma la risposta fino a questo momento è stata solo il silenzio”. La sensazione di Lo Presti è che a differenza della politica locale, quella nazionale stia vivendo una “situazione di confusione, con una forma di diffidenza”. E ribadisce: “Da decenni si parla della posa della prima pietra, ma c’è solo uno stato di stallo che è molto preoccupante”. La questione economica - E Lo Presti entra nel vivo della questione economica: “I fondi bastano solamente per il padiglione, per un nuovo istituto di pena preferisco non azzardare ipotesi. I 50 milioni di euro basterebbero solo per il nuovo padiglione di Verziano, con Canton Mombello che rimarrebbe in funzione. E secondo il rappresentante sindacale, si tratta di una soluzione che “rovinerebbe Verziano e manterrebbe utilizzabile Canton Mombello”. Verso il futuro - Quindi la prospettiva per chi vive attendendo il cambiamento è quella di “lanciare sempre più l’allarme nei confronti dei politici bresciani che hanno mostrato interesse per quelle che non sono solo le nostre aspettative. Sono quelle dei detenuti. Ma non bisogna dimenticare che un innalzamento della qualità di vita di chi sta scontando una pena, significa innanzitutto un miglioramento delle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria”. E non è tutto: “La detenzione in un ambiente che non deve fare i conti con il degrado è importante anche per far capire al detenuto che, una volta scontata la pena, avrà delle possibilità di reinserimento nella società, magari dopo aver imparato una professione”. Sulla proposta di aprire un padiglione nuovo, all’interno di Verziano, infine Lo Presti sottolinea: “Per noi è deleterio togliere ossigeno ai detenuti, non si può prevedere un miglioramento delle loro e nostre condizioni”. “Un mattino Josef K, senza che avesse fatto nulla di male, fu arrestato...” di Dario Pontuale Il Dubbio, 16 settembre 2024 Un secolo fa, mese più mese meno, allo scrittore Max Brod viene recapitata una lettera spedita da un vecchio amico conosciuto all’università ventidue anni prima, deceduto da poco: “Carissimo Max, la mia ultima preghiera: tutto quello che si trova nel mio lascito (dunque nelle librerie, nell’armadio della biancheria, nella scrivania a casa e in ufficio, o dovunque qualcosa dovesse esser stato portato via e che ti capiti a tiro), diari, manoscritti, lettere di altri e mie, disegni, ecc., brucialo interamente e senza leggerlo, come anche tutti gli scritti e i disegni che tu, o altri a cui dovessi chiederlo a nome mio, possedete. Chi non voglia consegnarti le lettere, dovrebbe almeno impegnarsi a bruciarle di persona”. Il firmatario della richiesta risponde al nome di Franz Kafka, il boemo dalla scrittura nevrotica, il bambino taciturno e solitario nato da una famiglia proprietaria di una ditta di commercio, ma allevato dai domestici. Cresce a Praga, nell’Altstad, la città vecchia dove si mescola cultura tedesca e ceca; in un perfetto esempio di borghesia ebraica occidentalizzata. Studia legge, strada pressoché obbligata per un giovane ebreo che disdegna il commercio; annota: “Studiai dunque giurisprudenza. Ciò vuol dire che un paio di mesi prima degli esami, con abbondante sciupio di nervi, il mio spirito si nutrì di segatura che oltre a ciò era già masticata in precedenza da mille bocche”. Diligente suddito dell’impero asburgico, tirocinante presso uno studio legale, s’impiega prima nel Tribunale correzionale, poi alle “Assicurazioni generali” di Trieste, infine in un’agenzia specializzata in infortuni sul lavoro. Sbriga la quotidianità tediosa del funzionario parastatale, schiavo della burocrazia e delle convenzioni sociali che ne inibiscono l’innata aspirazione: “Vedo che tutto dentro di me sarebbe pronto per un lavoro poetico, il quale sarebbe una soluzione divina e il vero modo di acquistare vita, mentre qui in ufficio per colpa di una pratica così miserabile devo privare di un pezzo di carne un corpo capace di tanta felicità”. Soggiorna sui laghi del nord Italia, visita Berlino, Parigi, Vienna, frequenta dei teatranti jiddish che ne accrescono la cultura ebraica, tuttavia l’incombente figura paterna gli pesa addosso, l’aspro rapporto con l’autoritario genitore, rende il ragazzo oltremodo introverso. La crepa tra Beruf (professione) e Berufung (vocazione letteraria) si acuisce specie quando si ritrova a dover amministrare anche l’azienda di famiglia. Neppure la vita sentimentale lo soddisfa. Si fidanza con la berlinese Félice Bauer, tuttavia il rapporto dura appena un trimestre; la compagna gli è distante non soltanto geograficamente. Egli stesso ne estrinseca le profonde diversità: “Non cedo in alcuna delle mie esigenze per quanto riguarda una vita stravagante, calcolata unicamente in vista del mio lavoro; lei sorda a tutte le mute preghiere, esige una vita mediocre, in un appartamento confortevole, e un interesse da parte mia per l’azienda. Rimette all’ora giusta il mio orologio che va avanti un’ora e mezza da un mese”. La relazione con Félice riprende durante un soggiorno a Marienbad, ma dura meno della precedente. Secondo la caparbia passione di Kafka è la scrittura “la vita vera”, una spinta totalizzante, quasi maniacale, un martirio attraverso il quale ambire alle conoscenze supreme. Quando gli diagnosticano la tubercolosi, vista la gravità della prognosi, ottiene il pensionamento anticipato e trascorre le stagioni tra i necessari ricoveri ospedalieri e i benefici della campagna. Conosce Milena Jesenskà-Pollak, scrittrice, che intuisce certi malesseri esistenziali soprattutto dopo la lettura dei Diari, quaderni ai quali Kafka, dal 1910 al 1923, affida i propri dolori. Tra i due s’instaura un intimo scambio epistolare, nonché un tenero sentimento, le confessa: “Io cerco sempre di comunicare qualcosa di non comunicabile, di spiegare qualcosa di inspiegabile, di parlare di ciò che ho nelle ossa e che soltanto in queste ossa può essere vissuto”. Il legame, ad ogni modo, risulta irrealizzabile, Milena è già sposata. Durante una degenza sul Baltico conosce Dora Dymant, un’ebrea polacca assieme alla quale si trasferisce a Berlino, vivendo un periodo di amore e serenità. Sciaguratamente la calma dell’anima è fugace, il 3 giugno del 1924 i polmoni collassano definitivamente nel sanatorio di Kierling, in Austria. Viene sepolto nel cimitero ebraico di Praga, non ha compiuto nemmeno quarantuno anni. L’incolore esistenza del povero Franz contribuisce a una cronica insonnia che lo istiga a scrivere di notte, ore nelle quali i doveri giornalieri lasciano libertà creativa. Nel 1904 redige le novelle Preparativi di nozze in campagna e Descrizione di una battaglia, quest’ultima appare sulla rivista Hyperion; nel 1912 pubblica la raccolta: Meditazione, quattro anni dopo il racconto: La condanna, seguito dal celeberrimo La metamorfosi. Nel 1919 partorisce la seconda raccolta Un medico di campagna e la novella Nella colonia penale, poco dopo la morte esce la raccolta: Il digiunatore. Opta sistematicamente per la forma del racconto, più o meno breve, parte da un quotidiano che si converte in inquietudine, da dettagli che trascendono il realismo, sfiorando l’inaudito. Attento alla logica dell’invisibile, anticipa il Surrealismo realizzando il proprio impegno intellettuale attraverso un meticoloso lavorio di autoanalisi. Sforzi poco compresi sia dai critici, sia dai lettori suoi contemporanei. Metodico, consegna alle stampe soltanto ciò di cui è qualitativamente convinto, quel che resta nel cassetto chiede di distruggerlo. L’amata Dora rispetta le ultime volontà, l’amico Brod affatto; intuendone il valore letterario, trascorre il resto dei giorni nell’esegesi dei manoscritti. Dal mucchio di carte emergono anche tre romanzi, un’atipicità nella bibliografia kafkiana: L’America, inizialmente intitolato Il disperso, Il processo e Il castello. Iniziati in momenti diversi, nessuno portato a conclusione. Emblematico, e dagli ambigui significati, appare Il processo, steso tra l’estate del 1914 e la primavera del 1915, durante un momento cardine nella vita dell’autore. Ha finalmente abbandonato la casa paterna, rotto il fidanzamento con Félice e, sebbene la guerra contagi il mondo, trova la giusta predisposizione letteraria. I Diari, usciti postumi nel 1949, forniscono preziosi indizi per intuirne la genesi. L’incipit è conosciuto, immediato e punta diritto al sodo: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato”. Josef K. Lavora come procuratore in una banca, sono due gli agenti in borghese che gli comunicano d’essere l’imputato di un processo, ma non viene né trattenuto, tantomeno notificata l’accusa. Il protagonista è convinto si tratti di un malinteso e di poter fermare prontamente la macchina giudiziaria, ma sbaglia di grosso. Muovendo da scenari prossimi all’esperienza comune, e senza segni premonitori, la trama sconfina nell’inverosimile, nell’insolito, nell’illogico dove l’incredulità rende disagevole qualsiasi codificazione. Mancano oggetti, persone o situazioni soprannaturali, tutto è talmente assurdo ed enigmatico da rientrare in un universo coerente, permettendo all’alienazione di dilagare, all’allucinata brutalità dei fatti di assumere colori angosciosi. Non è un romanzo fantastico, non rientra minimamente nelle intenzioni dell’autore, così il lettore segue le peripezie del Signor K., senza la piena convinzione che si tratti di sogno o realtà. Nulla rompe il dubbio, la maestria di Kafka aumenta gradualmente la tensione tramite un’aggettivazione essenziale, una prosa asciutta, ricorrendo speso al discorso libero indiretto, quasi somigliante a un monologo interiore. Il protagonista assume il ruolo del testimone oculare, eppure non spetta a lui il compito di raccontare la propria tragica sorte, l’uso della terza persona introduce un narratore di cui si ode la voce, senza mai intravedere la sagoma. Una presenza oggettiva che non giudica, nemmeno analizza, ma che conosce i pensieri del malcapitato, perfino il disagio nutrito da un reato non commesso, da una colpa ignota. K. è costretto a difendersi da un potere superiore e crudele, incarnato da occhi indifferenti, da volti algidi: lo studente Berthold, la signorina Burstner, l’infermiera Leni, il commerciante Block, l’avvocato Huld, lo zio, il bastonatore, l’industriale, il pittore. Ostacoli ingannevoli in una lotta illusoria, devoti servitori di una burocrazia ciecamente arbitraria, intenzionati ad addomesticare qualsiasi resistenza psicologica, decisi a salvaguardare un sistema sadico e corrotto. Indifeso e traumatizzato il signor K. viene paradossalmente trascinato sul banco degli imputati, sul ciglio della desolazione fino alle estreme conseguenze, fino all’irrevocabile condanna. Un romanzo apparso in libreria nel 1925, una storia dalle molteplici ipotesi interpretative, un archetipo metafisico, nel quale non alberga mai la pietà. Un capolavoro edito in Italia il libro nel 1933 da Frassinelli, tradotto da Alberto Spaini e che lascia strascichi lunghi un secolo, oltrepassando i confini letterari, diventando ispirazione per altre grandi menti. Nel 1962, infatti, il regista Orson Welles ne ricava un bianco e nero nel quale Anthony Perkins indossa i panni di Joseph K.. Anche se la trama non risulta troppo fedele al romanzo, specialmente nel finale, lo sguardo visionario del regista statunitense registra fotogrammi dalla smisurata carica simbolica, glorificando le tormentate pagine dello scrittore ceco. Tra le tante opere incompiute lasciate da Kafka, Il processo è certamente tra le più finite, infatti sono soltanto sei i capitoli incompleti sui quali Brod attuò un rispettoso “processo” di integrazione. Tra gli altri fogli che scamparono alla distruzione, e sui quali l’esecutore testamentario lavorò alacremente per quasi tre decenni, compaiono: la raccolta Durante la costruzione della muraglia cinese (1931), Lettera al padre (1952), cento pagine scritte e mai spedite; Lettere a Milena (1952) l’epistolario con l’autrice slava, Quaderni in Ottavo (1953) una fitta raccolta di appunti e Aforismi da Zürau (1931), tra i quali uno risulta estremamente calzante: “Da un certo punto in là non c’è più ritorno. Ed è questo il punto da raggiungere”. Due brevi frasi, un granitico pensiero, intento non unicamente letterario. La giustizia “kafkiana”? Un marchio dei sistemi democratici di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 16 settembre 2024 Dal “Processo” al “Castello”, passando per “America”, la distruzione dell’individuo non avviene con la forza bruta ma tramite dispositivi legali e razionali della burocrazia. Il suo nome è diventato addirittura un aggettivo, come accade solo agli scrittori più grandi: “omerico”, “dantesco”, “shakespeariano” e, per l’appunto, “kafkiano”. Un contesto kafkiano - recita l’enciclopedia Treccani - è qualcosa di angoscioso ma, allo stesso tempo, di assurdo e paradossale, una situazione in cui l’individuo si ritrova imprigionato, intrappolato, umiliato e sopraffatto da un sistema tanto razionale quanto ottuso, labirintico, un sistema alimentato e sostanziato dalla burocrazia, autentico moloch della modernità. Kafka però non illumina la ferocia cannibale dei tiranni o lo zelo dei comitati di salute pubblica, non mette a fuoco il sangue delle dittature o delle rivoluzioni ma il corso ordinario del dispositivo democratico. In questo rimane un autore decisamente attuale. La macchina burocratica come viene descritta ne Il Processo o nel Castello non è al servizio del fascismo o dell’ideologia totalitaria ma della democrazia, del mondo “libero” (per quanto poteva esserlo l’impero austroungarico) la distruzione psicologica dell’individuo, della sua umanità non si compie attraverso la violenza brutale o l’arbitrio, al contrario le regole, le norme, i codici, sono rispettati alla lettera, ed è proprio l’obbedienza pedissequa all’intrico dei protocolli, l’idolatria del canone a schiacciare il singolo. L’opera che più evidenzia gli effetti disumanizzanti del mostro burocratico è forse America che mostra i dipendenti dell’Hotel Occidental ridotti a semplici ingranaggi di un macchinario alienante, un universo chiuso fatto di uffici, biglietterie, ascensori, dove le azioni si susseguono con frenesia robotica e gli impiegati emettono rumori “metallici” e lavorano “con la testa intrappolata in un cerchio di acciaio che incolla i ricevitori dei telefoni alle orecchie “. Tutti hanno qualcosa da fare e nessuno parla mai con gli altri: “La gente andava e veniva velocemente. Nessuno salutava, questa formalità era del tutto eliminata, tutti si accontentavano di seguire le orme di chi li aveva preceduti e guardare il pavimento sul quale volevano avanzare il più velocemente possibile”. L’unico obiettivo di ogni azione umana è l’assolvimento razionale del compito, il rispetto della funzione nella divisione sociale del lavoro e tutto il sistema ruota attorno a questo principio, anche nelle sue articolazioni punitive. L’allucinante macchina della tortura mostrata nel racconto La Colonia penale non segue una logica vendicativa ma ultra-razionale così come, in America, gli uffici sofisticati impongono la loro logica di ultrarazionale della burocrazia. Come scriveva lo stesso Kafka in un lettera a Felice Bauer “una macchina con le sue esigenze silenziose e serie mi sembra esercitare una costrizione più forte e più crudele di un essere umano... davanti al dittafono l’impiegato è degradato, ridotto allo stato dell’operaio che mette il suo cervello al servizio del ronzio di una macchina”. Dietro il vetro opaco della burocrazia c’è un potere invisibile e incomprensibile, dalle ramificazioni grottesche come appare ne Il Castello, metafora contorta dello Stato e della sua amministrazione per quanto venata di elementi fantastici e misteriosi. La sottomissione degli individui a questo dispositivo, ne assicura la perennità, i rapporti di potere sono interiorizzati, Kafka sottolinea sempre il ruolo delle illusioni e di tutte le tecniche per mantenerle in piedi da parte del sistema, tecniche di “stregoneria” avverte lo scrittore praghese, svelando il sostrato mistico della razionalità. Il livello di deferenza verso l’autorità può avere conseguenze estreme, il dominato ha interiorizzato la sua illegittimità, la sua nullità e il suo stato di prostrazione a tal punto che lui stesso si convince di meritare il suo infausto destino. Se nelle dittature conta soltanto la forza coercitiva, indipendente dal grado di resistenza o di accettazione dei dominati, i regimi democratici hanno disperatamente bisogno dell’assenso della vittima, della sua “servitù volontaria” per dirla con La Boetie. Joseph K., nel Processo, è letteralmente sommerso dal senso di colpa e tutti gli ufficiali di giustizia che sembrano arrestarlo, giudicarlo, consigliarlo, sono solo gli elementi fittizi di un processo che si svolge in gran parte nella sua stessa mente. Il tribunale è essenzialmente un tribunale interno e il coltello da macellaio con cui uno dei due carnefici lo uccide non è altro che il coltello con cui egli entra dentro se stesso, intimamente convinto di essere colpevole di qualcosa, arrestato per vivere nella paura, nell’angoscia. Non è altro che un povero diavolo che “non aveva fatto nulla di male”, e di questo ne ha inizialmente coscienza, poi la consapevolezza si dirada, evapora, se la polizia è venuta a prenderlo, se la giustizia non gli dà tregua qualcosa di male avrà pur fatto, la sua soggettività collassa e Jospeh K. si convince che quello Stato onnipotente sia anche onnisciente, condannato a ubbidire e a non capire quel che gli sta accadendo. Così Kafka è entrato in un’Aula di tribunale a Mosca di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 16 settembre 2024 “L’arringa” del dissidente russo Oleg Orlov condannato a due anni e mezzo di carcere che si è difeso in udienza leggendo un passo de “Il Processo”: “qui l’assurdità è mascherata da pseudo-legge”. Quando, il 26 febbraio scorso, il tribunale Golovinsky di Mosca ha condannato a due anni e mezzo anni di carcere Oleg Orlov, copresidente di Memorial (organizzazione impegnata nella difesa dei diritti umani e premio Nobel per la Pace nel 2022), l’indignazione degli oppositori politici, in Russia e all’estero, è stata tanta. L’accusa mossa nei confronti di Orlov, in Germania dallo scorso agosto dopo uno scambio di prigionieri tra Russia, Stati Uniti e altri Paesi, ha riguardato il “ripetuto discredito” dell’esercito russo e la critica contro l’aggressione militare in Ucraina. In tribunale Orlov si è difeso leggendo durante le udienze il romanzo di Franz Kafka, “Il processo”. “La nostra attuale situazione - ha dichiarato il dissidente davanti ai giudici - e la situazione in cui si è trovato l’eroe di Kafka hanno caratteristiche comuni: si tratta di assurdità e arbitrarietà, mascherate sotto l’osservanza formale di alcune procedure pseudo-legali. Si viene accusati di diffamazione, senza spiegare cosa sia e in cosa si differenzi dalla critica legittima. Siamo accusati di diffondere informazioni deliberatamente false, senza la preoccupazione di dimostrare la falsità. Il governo sovietico ha agito esattamente allo stesso modo, considerando bugie qualsiasi critica”. L’avvocata Nataliya Sekretareva, difensore di Orlov e responsabile del team legale di Memorial, a proposito della condanna del suo assistito ha parlato di una vera e propria “persecuzione politica”: “Il caso giudiziario ha dell’incredibile. Orlov è stato condannato per aver ripetutamente “screditato le forze armate russe”. Tanto per cominciare, questo “crimine” non dovrebbe esistere in un Paese democratico. Il reato contestato è stato quello di aver scritto un articolo contro la guerra, definendo fascista l’attuale regime politico russo. In altre parole, è stato perseguito solo per aver esercitato la sua libertà di parola”. Quando ad Oleg Orlov è stato concesso di esprimere l’”ultima dichiarazione” - poslednee slovo - in udienza, prima del verdetto finale, l’esponente di Memorial ha argomentato in maniera molto arguta per convincere il giudice a non seguire la tendenza consolidatasi ormai da anni in Russia: quella di condannare sempre gli oppositori del regime putiniano, soprattutto dopo la guerra di aggressione ai danni dell’Ucraina. L’”ultima dichiarazione “, nell’ultima occasione per prendere la parola nel processo, per sostenere la propria innocenza e per rafforzare la linea difensiva, è stata trasformata da Oleg Orlov in un atto processuale “ad alto tasso di letterarietà”. Un modo per rendere ancora più forte la denuncia di norme liberticide create in un Paese che non ammette la critica e il dissenso. “Mi sono rifiutato - ha affermato Orlov nell’udienza del febbraio scorso - di prendere parte attiva all’attuale processo contro di me, il che, per fortuna, mi ha dato la possibilità di rileggere “Il processo” di Franz Kafka durante le udienze. Ci sono alcune cose in comune con la situazione in cui si è ritrovato il protagonista di Kafka: assurdità e tirannia mascherate da adesione formale ad alcune procedure pseudo-legali. Siamo accusati di screditamento, ma nessuno spiega in che modo questo sia diverso da una critica legittima. Siamo accusati di diffondere informazioni consapevolmente false, ma nessuno si preoccupa di mostrare cosa c’è di falso in esse. Quando cerchiamo di dimostrare perché le informazioni sono effettivamente accurate, questi sforzi diventano motivo di persecuzione penale. Siamo accusati di non supportare il sistema di credenze e la visione del mondo che le autorità hanno ritenuto corretti, eppure la Russia non dovrebbe avere un’ideologia di Stato. Siamo condannati per aver dubitato che l’obiettivo di attaccare uno Stato vicino sia quello di mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Assurdo”. Il copresidente di Memorial considera l’opera di Kafka un punto di riferimento per fare il punto sulla compressione dei diritti in Russia. “Fino alla fine del romanzo - ha aggiunto -, il protagonista di Kafka non ha idea di cosa sia accusato, eppure viene condannato e giustiziato. In Russia, siamo formalmente informati delle accuse, ma è impossibile comprenderle all’interno di qualsiasi quadro di legge. Tuttavia, a differenza del protagonista di Kafka, sappiamo il vero motivo per cui veniamo detenuti, processati, arrestati, condannati e uccisi. Veniamo puniti per aver osato criticare le autorità. Nella Russia odierna, questo è assolutamente proibito. I parlamentari, gli investigatori, i procuratori e i giudici non lo riconoscono apertamente. Lo nascondono dietro la formulazione assurda e illogica di nuove cosiddette leggi, incriminazioni e verdetti. Ma questa è la realtà. In questo momento, Alexey Gorinov, Alexandra Skochilenko, Igor Baryshnikov, Vladimir Kara- Murza (lo storico Kara-Murza è stata liberato all’inizio di agosto con Orlov, ndr) e molti altri vengono lentamente uccisi nelle colonie penali e nelle prigioni. Vengono uccisi per aver protestato contro lo spargimento di sangue in Ucraina, per aver voluto che la Russia diventasse uno Stato democratico e prospero e che non rappresentasse una minaccia per il mondo intero”. Infine un riferimento al più importante oppositore di Putin, Alexey Navalny, morto il 16 febbraio nella colonia penale “Polar Wolf”, nell’Artico russo. “Ma quale difesa: nella nostra colonia penale la colpa è sempre una certezza” di Franz Kafka Il Dubbio, 16 settembre 2024 Pubblichiamo di seguito un estratto del racconto “Nella colonia penale” di Franz Kafka (ed. Feltrinelli, Collana Zoom Filtri). La macabra operazione avviene in presenza di un esploratore che domanda incredulo al giudice-ufficiale: “l’uomo conosce la sua condanna?”; “no, ne sarebbe nata solo confusione”. In questo racconto kafka mette in scena l’esecuzione di un soldato condannato per insubordinazione attraverso uno strumento di tortura che imprime la “sentenza” direttamente sul corpo. “È un apparecchio singolare”, disse l’ufficiale all’esploratore e abbracciò con uno sguardo quasi d’ammirazione l’apparecchio che pure gli era ben noto. L’esploratore sembrava aver accettato solo per cortesia l’invito del comandante ad assistere all’esecuzione di un soldato che era stato condannato per insubordinazione e oltraggio ai superiori. L’interesse per quella esecuzione non doveva esser molto forte in tutta la colonia penale. Quanto meno, nella piccola valle profonda e sabbiosa, chiusa all’intorno da pendii scabri, oltre all’ufficiale e all’esploratore c’erano soltanto il condannato, un uomo dall’espressione inebetita, dalla bocca larga, i capelli e il viso incolti, e un soldato che teneva la pesante catena nella quale confluivano le piccole catene con cui il condannato era legato ai polsi, alle caviglie e al collo, e che erano collegate anche fra loro da catene trasversali. Del resto il condannato aveva un aspetto così bestialmente sottomesso, che sembrava lo si potesse lasciar andare in giro liberamente per i pendii e che all’inizio dell’esecuzione bastasse fischiare perché tornasse. L’esploratore aveva poco interesse per l’apparecchio e camminava su e giù, con indifferenza quasi manifesta, alle spalle del condannato, mentre l’ufficiale faceva gli ultimi preparativi, ora infilandosi sotto l’apparecchio piantato in profondità nel terreno, ora arrampicandosi su una scala a pioli per controllare le parti superiori. Erano operazioni che in verità si sarebbero potute affidare a un meccanico, ma l’ufficiale le eseguiva con grandissimo impegno, sia che fosse un particolare sostenitore dell’apparecchio, sia che non si potesse, per altre ragioni, affidare ad altri quell’incombenza. “Ora è tutto pronto!”, esclamò infine scendendo dalla scala. Era terribilmente spossato, respirava con la bocca spalancata e si era infilato due delicati fazzoletti da donna nel colletto dell’uniforme. “Queste uniformi sono troppo pesanti per i tropici”, disse l’esploratore, anziché informarsi dell’apparecchio, come l’ufficiale s’era aspettato. “Certo”, disse l’ufficiale lavandosi le mani sporche d’olio e di grasso in un secchio d’acqua che stava lì pronto, “ma significano la patria; non vogliamo perdere la patria. - Ma ora guardi questo apparecchio”, aggiunse subito, asciugandosi le mani con un panno e indicando al contempo l’apparecchio. “Fin qui si è reso ancora necessario del lavoro manuale, ma d’ora in poi l’apparecchio lavorerà da solo”. L’esploratore assentì e seguì l’ufficiale. Questi cercò di premunirsi contro tutti gli inconvenienti e disse poi: “Si verificano naturalmente dei guasti; spero che oggi non se ne presentino, comunque bisogna prevederne la possibilità: l’apparecchio resterà in moto per dodici ore consecutive. Ma anche qualora si verifichino guasti, sono di piccola entità e saranno subito riparati”. “Non vuole sedersi?”, chiese infine, trasse da una catasta una sedia di bambù e la offrì all’esploratore; questi non poté rifiutare. Sedeva ora sull’orlo di una fossa, nella quale gettò un sguardo di sfuggita. Non era molto profonda. Su un lato la terra scavata era stata ammucchiata a formare un terrapieno, sull’altro si ergeva l’apparecchio. “Non so”, disse l’ufficiale, “se il comandante le abbia già descritto l’apparecchio”. L’esploratore fece un gesto vago con la mano; l’ufficiale non chiedeva di meglio, perché ora poteva spiegare lui stesso l’apparecchio. “Questo apparecchio”, disse afferrando una biella e appoggiandosi a essa, “è un’invenzione del nostro vecchio comandante. Io ho collaborato subito ai primissimi esperimenti e ho partecipato a tutti i lavori fino alla fine. Ma il merito dell’invenzione spetta a lui soltanto. Ha sentito parlare del nostro vecchio comandante? No? Bene, non esagero affermando che l’organizzazione dell’intera colonia penale è opera sua. Noi, i suoi amici, sapevamo già al momento della sua morte che l’organizzazione della colonia è talmente conchiusa in sé, che il suo successore, anche se avesse avuto mille nuovi progetti in mente, non avrebbe potuto cambiare nulla dell’antico ordine, almeno per molti anni. E la nostra previsione si è avverata; il nuovo comandante ha dovuto riconoscerlo. Peccato che lei non abbia conosciuto il vecchio comandante! - Ma”, si interruppe l’ufficiale, “io chiacchiero e il suo apparecchio è qui dinanzi a noi. Come lei vede, consta di tre parti. Per ciascuna di queste parti si sono costituite nel corso del tempo denominazioni, per così dire, popolari. La parte inferiore si chiama letto, quella superiore disegnatore, e la parte centrale, questa che oscilla, si chiama erpice”. “Erpice?”, chiese l’esploratore. Non aveva ascoltato con molta attenzione, il sole irrompeva con troppa forza nella valle senz’ombra, era difficile raccogliere i pensieri. Tanto più ammirevole gli sembrava l’ufficiale, che, nell’attillata uniforme da parata, appesantita dalle spalline e coperta di cordoni, con tanto fervore esponeva la sua questione e in più, mentre parlava, si dava da fare con un cacciavite intorno a questa o a quella vite. In una condizione simile a quella del viaggiatore sembrava trovarsi il soldato. Si era avvolto attorno ai polsi la catena del condannato, si appoggiava con una mano al fucile, lasciava penzolare la testa e non si curava di nulla. L’esploratore non se ne stupì, perché l’ufficiale parlava francese e certamente né il soldato né il condannato capivano il francese. Tanto più colpiva dunque il fatto che il condannato si sforzasse tuttavia di seguire le spiegazioni dell’ufficiale. Con una sorta di sonnolenta perseveranza dirigeva lo sguardo sempre verso il punto indicato dall’ufficiale, e quando questi fu ora interrotto da una domanda dell’esploratore, si volse, come l’ufficiale, a guardare l’esploratore. “Sì, erpice”, disse l’ufficiale, “il nome è quello giusto. Gli aghi sono disposti alla maniera di un erpice, e inoltre il tutto ha il funzionamento di un erpice, anche se lavora su un solo punto e con una tecnica assai più perfetta. Ma capirà tra un attimo. Qui sul letto viene disteso il condannato. - Voglio infatti descrivere prima l’apparecchio, e solo dopo far eseguire la procedura stessa. Così potrà seguire meglio. In più c’è una ruota dentata nel disegnatore che è troppo consunta; stride molto, quando è in funzione; bisogna urlare per farsi sentire; i pezzi di ricambio, purtroppo, qui sono molto difficili da reperire. - Dunque questo è il letto, come dicevo. È interamente coperto da uno strato d’ovatta; lo scopo lo vedrà. Su questa ovatta il condannato viene disteso prono, naturalmente nudo; qui ci sono cinghie per tenerlo allacciato alle mani, ai piedi, al collo. Qui a capo del letto, dove l’uomo, come ho detto, giace dapprima a faccia in giù, c’è questo piccolo tampone di feltro, che può essere facilmente regolato per penetrargli esattamente in bocca. Ha lo scopo di impedire che il condannato urli e si morda la lingua. Naturalmente l’uomo è costretto ad accogliere il feltro in bocca, perché altrimenti la cinghia gli spezzerebbe l’osso del collo”. “Questa è ovatta?”, chiese l’esploratore sporgendosi in avanti. “Certo”, disse l’ufficiale sorridendo, “la tocchi lei stesso”. Afferrò la mano dell’esploratore e la fece passare sopra il letto. “È un’ovatta trattata con un procedimento speciale, per questo ha un aspetto così strano; tornerò a parlare del suo scopo”. L’apparecchio aveva già un poco conquistato l’esploratore; con la mano sopra gli occhi per ripararsi dal sole, egli guardava in su. Era una costruzione imponente. Il letto e il disegnatore avevano le stesse dimensioni e sembravano due grandi casse scure. Il disegnatore era fissato a circa due metri sopra il letto; le due parti erano collegate agli angoli da quattro sbarre d’ottone, che saettavano nel sole. Fra le due casse, a un nastro d’acciaio, era sospeso l’erpice. L’ufficiale non si era quasi curato della precedente in differenza dell’esploratore, ma ora seppe cogliere il risvegliarsi del suo interesse; interruppe dunque le sue spiegazioni, per dar tempo al viaggiatore di osservare indisturbato. Il condannato imitò l’esploratore; siccome non poteva ripararsi gli occhi con la mano, guardava in su sbattendo le palpebre. “Dunque l’uomo è disteso”, disse l’esploratore, si appoggiò allo schienale della sedia e accavallò le gambe. “Sì”, disse l’ufficiale, spinse un po’ indietro il berretto e si passò la mano sul volto accaldato, “ora ascolti! Sia il letto sia il disegnatore hanno una propria batteria elettrica; il letto la usa per sé, il disegnatore per l’erpice. Non appena l’uomo è legato con le cinghie, il letto viene messo in movimento. Vibra con minuscole, rapidissime scosse sia di lato che su e giù. Avrà visto macchine simili negli ospedali; solo che nel caso del nostro letto tutti i movimenti sono esattamente calcolati, perché debbono coincidere al millimetro con i movimenti dell’erpice. Ma la vera esecuzione del verdetto è affidata all’erpice”. “Ma cosa dice il verdetto?”, chiese l’esploratore. “Come, non sa neppure questo?”, disse l’ufficiale stupefatto mordendosi le labbra: “Perdoni se le mie spiegazioni sono forse disordinate; la prego di scusarmi. Prima infatti era il comandante che dava le spiegazioni; il nuovo comandante invece si è sottratto a quel dovere onorifico; ma che non metta a conoscenza un visitatore tanto illustre” - l’esploratore cercò di respingere l’onore con entrambe le mani, ma l’ufficiale insistette su quell’espressione - “un visitatore tanto illustre neppure della forma delle nostre sentenze, è un’altra innovazione che...”, aveva un’imprecazione sulle labbra, ma si dominò e disse soltanto: “Non ne sono stato informato, non ne ho colpa. Ma del resto sono più adatto di chiunque altro a spiegare come vengano eseguite le sentenze, perché porto qui” - e batté sulla tasca interna della giacca - “i relativi disegni a mano del vecchio comandante.” “Disegni a mano del comandante stesso?”, chiese l’esploratore. “Ma univa tutto in una sola persona? Era soldato, giudice, costruttore, chimico, disegnatore?” “Certamente”, disse l’ufficiale assentendo col capo, con lo sguardo fisso e assorto. Poi si guardò le mani con occhio indagatore; non gli parvero abbastanza pulite per toccare i disegni; andò quindi al secchio e se le lavò di nuovo. Poi trasse una piccola cartella di cuoio e disse: “Il nostro verdetto non è severo. Al condannato viene scritto sul corpo, con l’erpice, il comandamento che ha infranto. A questo condannato, per esempio” - l’ufficiale indicò l’uomo - “sarà scritto sul corpo: onora il tuo superiore!”. L’esploratore lanciò all’uomo un breve sguardo; quando l’ufficiale lo aveva indicato, teneva il capo abbassato e sembrava tendere tutte le facoltà dell’udito per apprendere qualcosa. Ma i movimenti delle sue labbra, serrate al punto di diventar tumide, indicavano palesemente che non riusciva a capire niente. L’esploratore avrebbe voluto chiedere diverse cose, ma alla vista dell’uomo chiese soltanto: “Lui conosce la sua condanna?”. “No”, disse l’ufficiale e si accinse a continuare le sue spiegazioni, ma l’esploratore lo interruppe: “Non conosce la sua condanna?” “No”, ripeté l’ufficiale, si arrestò un attimo come a esigere dall’esploratore una motivazione più precisa della sua domanda, e disse poi: “Sarebbe inutile rendergli la nota. Tanto la conoscerà sul suo corpo”. L’esploratore stava già per ammutolire, quando sentì che il condannato rivolgeva a lui lo sguardo; sembrava chiedergli se approvasse il modo di procedere che veniva illustrato. Per questo l’esploratore, che era già tornato ad appoggiarsi allo schienale, si chinò di nuovo in avanti e chiese ancora: “Ma che è stato condannato, almeno questo lo sa?”. “Neanche questo”, disse l’ufficiale e sorrise all’esploratore, come se si attendesse da lui altre strane dichiarazioni. “No”, disse l’esploratore passandosi una mano sulla fronte, “dunque quest’uomo non sa neanche adesso come sia stata accolta la sua difesa?” “Non ha avuto occasione di difendersi”, disse l’ufficiale, e guardò altrove come se parlasse con se stesso e non volesse umiliare l’esploratore esponendogli cose per lui tanto ovvie. “Deve pur avere avuto l’occasione di difendersi”, disse l’esploratore alzandosi dalla sedia. L’ufficiale si rese conto che correva il rischio di essere interrotto per molto tempo nelle spiegazioni relative all’apparecchio; andò dunque verso l’esploratore, lo prese a braccetto, indicò con la mano il condannato, il quale, ora che l’attenzione era così palesemente concentrata su di lui, si mise dritto e rigido - oltre tutto il soldato l’aveva tirato per la catena -, e disse: “Le cose stanno nella maniera seguente. Qui nella colonia penale io ho le funzioni di giudice. Nonostante la mia giovane età. Perché ero a fianco del vecchio comandante anche in tutte le questioni penali e inoltre conosco l’apparecchio meglio di chiunque altro. Il principio in base al quale decido è: la colpa è sempre indubbia. Altri tribunali non possono seguire questo principio, perché sono formati da più persone e hanno sopra di sé tribunali superiori. Qui le cose stanno diversamente, o almeno stavano diversamente con il vecchio comandante. Il nuovo ha in effetti già dimostrato di aver voglia di immischiarsi nel mio tribunale, ma finora sono riuscito a tenerlo lontano, e ci riuscirò anche in futuro. - Lei voleva una spiegazione su questo caso; è semplice come tutti gli altri. Un capitano ha presentato questa mattina una denuncia, secondo cui quest’uomo, che gli è stato assegnato come attendente e che dorme alla sua porta, si è addormentato in servizio. Ha infatti il dovere di alzarsi al battere di ogni ora e di mettersi sull’attenti davanti alla porta del capitano. Un dovere certamente poco gravoso, e necessario, perché dev’essere sempre sveglio sia per far la guardia sia per servire. La notte scorsa il capitano ha voluto controllare se l’attendente facesse il suo dovere. Alle due in punto ha aperto la porta e lo ha trovato che dormiva tutto rannicchiato. Ha preso il frustino e lo ha colpito in viso. Ora, invece di alzarsi e di chiedere perdono, l’uomo ha afferrato il suo padrone per le gambe, lo ha scosso e gli ha detto: ‘Getta la frusta o ti mangio vivo’. - Questi sono i fatti. Il capitano è venuto da me un’ora fa, io ho annotato le sue dichiarazioni e ho scritto subito la sentenza. Poi ho fatto mettere l’uomo in catene. È stato tutto molto semplice. Se avessi prima fatto chiamare l’uomo per interrogarlo, ne sarebbe nata solo confusione. Avrebbe mentito, e se mi fosse riuscito di confutargli quelle menzogne ne avrebbe inventato altre, e così via. Ora invece ce l’ho e non lo lascio più. - Adesso è tutto chiaro? Ma il tempo passa, l’esecuzione sarebbe già dovuta iniziare e io non ho ancora finito di spiegare l’apparecchio”. I ragazzi con il coltello in tasca: dilagano i reati all’arma bianca di Giulia Merlo Il Domani, 16 settembre 2024 Dall’Inghilterra alla Svizzera fino in Germania, i crimini con armi da taglio sono un’emergenza sempre più diffusa. In Italia si inaspriscono le pene con il dl Caivano, ma manca un sistema di prevenzione, soprattutto per i giovani. Il primo giorno di scuola, in un istituto alberghiero di Pompei, un tredicenne ha accoltellato alla schiena un coetaneo per una ragazza. L’aggressione è avvenuta all’uscita e la vittima ha riportato lievi ferite da taglio, mentre l’autore è stato identificato e la sua posizione adesso è al vaglio della procura dei minori di Napoli. La percezione negli ultimi mesi è che il numero di reati commessi da giovanissimi e adulti con coltelli - le cosiddette “armi bianche” - sia in aumento. Risse finite con accoltellamenti, violenze domestiche e omicidi in cui l’arma del delitto è una lama: cronache di questo genere sono sempre più frequenti sui media, ma il fenomeno è difficilmente quantificabile nel dettaglio, visto che spesso i coltelli vengono utilizzati per commettere altri reati, per risolvere litigi o commettere rapine. Una fotografia disponibile, in particolare per quanto riguarda i giovani, è quella report 2024 sulla “Criminalità minorile e gang giovanili” del Dipartimento pubblica sicurezza e Direzione centrale della polizia criminale del ministero dell’Interno, che ha messo in luce un aumento del 2 per cento delle lesioni dolose per cui sono stati segnalati under 18 fra il 2022 e il 2023. All’estero - Se in Italia la questione si sta affacciando ora all’attenzione mediatica come in espansione, in altri paesi ha raggiunto una soglia più drammatica. In Svizzera, per esempio, i casi di lesioni gravi e omicidi tra i minori in cui vengono utilizzati i coltelli sono cresciuti in modo significativo per i dati locali: da 5 omicidi e 4 lesioni nel 2016 a 12 omicidi e 25 lesioni nel 2022. Per questo nel 2023 la Prevenzione Svizzera della Criminalità ha lanciato una campagna di sensibilizzazione destinata ai giovani, con l’obiettivo di invitare i giovani a non uscire la sera con il coltello in tasca. Lo slogan: “Tua madre non vuole venirti a trovare in prigione”. Anche in Germania la soglia di attenzione si è alzata soprattutto dopo l’attentato di fine agosto a Solingen rivendicato dall’Isis, dove un ventiseienne siriano è stato arrestato con l’accusa di essere l’attentatore che ha ferito otto persone e ne ha uccise tre con un coltello. In seguito ai fatti le autorità tedesche stanno ipotizzando di istituire zone “libere da coltelli” intorno alle stazioni ferroviarie e in altri luoghi dove gli accoltellamenti sono più frequenti, ma anche di inasprire le pene per l’uso improprio dei coltelli e di lanciare campagne di sensibilizzazione. Del resto, secondo un rapporto del ministero dell’Interno tedesco, nel 2023 ci sono stati 13844 crimini all’arma bianca, con una media di 38 al giorno un aumento del 15 per cento rispetto all’anno precedente. Se per l’Europa continentale il fenomeno appare esploso nell’ultimo anno, è invece ormai un’emergenza nazionale nel Regno Unito, dove il tema è al centro del dibattito sulla pubblica sicurezza. I reati all’arma bianca sono aumentati del 35 per cento dal 2011 e da aprile 2022 a marzo 2023 si sono registrati in Inghilterra e Galles 244 morti per accoltellamento (il 41 per cento sul totale degli omicidi). Nel 2023, addirittura, a Liverpool sono stati installati nel centro della città i primi sei “kit per la sopravvivenza da accoltellamento”: scatole rosse appese al muro in cui sono contenuti lacci emostatici, guanti, forbici e sigillanti per ferite al petto e possono essere aperti con un codice che viene fornito dall’operatore di emergenza una volta contattato. Altre 20 dovranno essere installate nel nord-ovest del paese e 1500 kit portatili sono stati distribuiti a pub, discoteche e scuole della regione. L’iniziativa è stata presa dalla ong KnifeSavers fondata da medici insieme alle vittime di ferimenti: “Dopo che è stata accoltellata, una persona può morire dissanguata in cinque minuti. Un’ambulanza, quando risponde velocemente, di solito ci mette sette minuti per arrivare sulla scena”, si legge sul sito di presentazione dell’iniziativa. “KnifeSavers vuole che tutti siano in grado di fermare il sanguinamento, mantenendo in vita il ferito abbastanza a lungo perché arrivi l’ambulanza”. L’insicurezza - La soglia di emergenza in Italia non ha raggiunto queste proporzioni, ma la sensazione è quella che sia in corso una sorta di normalizzazione dell’uso delle armi bianche tra i giovani. La ragione di un fenomeno ancora poco studiato è duplice: da una parte la facilità di procurarsi un coltello, dall’altra la percezione che portarlo in tasca per protezione non abbia conseguenze penali. Se ne è occupato in modo approfondito da Ciro Cascone, che per vent’anni è stato procuratore capo presso il tribunale dei minorenni di Milano e oggi è Avvocato Generale presso la Corte d’Appello di Bologna. “In generale, nel caso in cui un minorenne incensurato venga trovato con un coltello in tasca, la strada è quella di una rapida fuoriuscita processuale motivata dall’irrilevanza penale del fatto”, spiega Cascone, che a Milano ha invece deciso di cambiare questa prassi: “La mia scelta in questi casi è stata quella di mandare il ragazzo a processo, ma con l’obiettivo di sensibilizzare lui e soprattutto la famiglia al fatto che i coltelli fanno male e che possono essere il primo passo verso una strada pericolosa”. In effetti, fino al 2023, quando si veniva trovati con indosso coltelli o armi bianche al momento di una perquisizione scattava la contravvenzione prevista dall’articolo 4 della legge 110 del 1975, la cosiddetta “legge Armi”. Oggi, invece, il governo Meloni - attraverso l’ormai famigerato decreto Caivano per contenere la delinquenza giovanile - ha inasprito le conseguenze penali, prevedendo la reclusione da uno a quattro anni per “chiunque porti fuori dalla propria abitazione, o appartenenze di essa, un’arma per cui non è necessaria la licenza”, con un aggravamento da un terzo alla metà se il fatto avviene vicino a scuole, banche, uffici postali, stazioni ferroviarie e giardini pubblici, o da persone mascherate. Parlando con i ragazzi imputati, Cascone racconta che “molti dicono che girano col coltello per difendersi, perché in loro è cresciuta la sensazione di insicurezza, soprattutto in alcune zone di Milano. Ma il coltello in mano a un ragazzino è un pericolo: se ce l’hai in tasca, rischi di tirarlo fuori e usarlo. Per questo ho scelto di adottare la linea della tolleranza zero”. Cascone, tuttavia, ha ben chiaro un dato: la risposta al problema non è penale. “La giustizia interviene dopo per quello che può, ma è necessario intervenire con politiche di prevenzione giovanile, con la sensibilizzazione delle famiglie e con il recupero dei minori. Molti si possono riagganciare prima e, se si fa prevenzione, si è poi anche più sereni nell’attuare la repressione penale nei casi in cui è necessaria”. Per questo, in merito al decreto Caivano, sottolinea come “l’inasprimento della pena può essere utile solo se inserito in un pacchetto più ampio, ma da solo non risolve nulla. Aumenta solo la popolazione carceraria minorile, che infatti è stata la diretta conseguenza del decreto Caivano. Ora gli istituti scoppiano e non servono allo scopo per cui sono pensati: sono il risultato di anni di mancati investimenti”. Racconta infatti che a Milano capitava spesso di chiedere per un minore una misura cautelare in comunità, ma spesso si aspettava anche cinque mesi per eseguirla e magari l’unica struttura disponibile era in Puglia, “Ma come si fa a spedire un ragazzo a mille chilometri dalla famiglia?”. Il problema dei reati commessi con coltelli, tuttavia, racconta di un tipo di criminalità non strutturata, che cresce in un sottobosco di violenza ed è figlia di un disagio dalle molte cause, ma principalmente di natura culturale. Nel Regno Unito, dove da anni si studia il fenomeno, gli accademici hanno messo in relazione l’aumento di questi reati con la riduzione drastica del welfare per i minori negli ultimi quindici anni (422 milioni di sterline in meno in servizi per i giovani, 600 centri giovanili chiusi e 130 mila posti in meno nei centri giovani). Ad oggi, tuttavia, la risposta del governo è stata principalmente securitaria, rafforzando i poteri di polizia. Secondo i criminologi Jo Deaking e Laura Bui dell’Università di Manchester, tuttavia, questa risposta è fallace, perché si basa sul fraintendimento di poter prevenire la violenza identificando e punendo i soggetti a rischio. Ma “stigmatizzando i giovani come a rischio crea in loro un conflitto con l’autorità”, diminuendo la fiducia nelle forze dell’ordine e aumentando il loro senso di insicurezza. Lo stesso che provoca l’istinto di girare armati. Non si può educare i ragazzi alla nonviolenza se si normalizza la guerra di Pasquale Pugliese* Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2024 Oltre agli insopportabili omicidi di bambini nelle troppe guerre del pianeta, a cominciare dalla mattanza di Gaza, ci sono state recentemente due stragi in cui gli adolescenti sono stati carnefici, oltre che vittime, che è necessario non dimenticare. La prima strage è avvenuta in Italia, a Paderno Dugnano, nella quale un 17enne ha ucciso entrambi i genitori e il fratello dodicenne con un coltello da cucina. Di questa terribile vicenda è passato sostanzialmente sotto silenzio un particolare significativo emerso dai colloqui del ragazzo con gli inquirenti, ossia le sue dichiarazioni di pensare spesso alla guerra e che avrebbe voluto andare a combattere in Ucraina. Senza voler fare facili equazioni, non c’è dubbio che due anni e mezzo di vera e propria propaganda di guerra sui media, volta a promuovere la violenza delle armi per gestire il conflitto tra Russia e Ucraina, anziché la tessitura dei negoziati, ha generato anche nel nostro paese una implicita pedagogia bellicista che comincia a dare, sui soggetti più fragili, i suoi frutti avvelenati. Qualche giorno dopo è arrivata la notizia dell’ennesima strage all’interno di una scuola Usa, nella contea di Winder in Georgia, che colpisce per la giovane età dell’esecutore 14enne che, con un fucile regalato dal padre per Natale, ha ucciso due compagni e due insegnanti, ferendo altre trenta persone. Questa nuova strage annunciata, al di là dei moventi specifici, discende da un modello di relazioni umane che partono da lontano. Gli Usa spendono da soli in armamenti quasi la metà delle spese militari globali, dividono il mondo in “amici” e “nemici” e contro i nemici non cercano soluzioni alternative al fare la guerra, risultando in stato di guerra permanente; le loro politiche strategiche vengono decise dal complesso militare-industriale e solitamente diventano presidenti coloro che, di volta in volta, forniscono maggiori garanzie alla lobby delle armi. Le stragi nelle scuole non sono dunque una “epidemia”, come definite da Kamala Harris, ma esito di una “educazione civica” assorbita fin dalla culla: l’educazione alla guerra porta le guerre anche in casa, alimentata dall’industria delle armi. Queste due stragi dimostrano le connessioni tra globale e locale: l’impossibilità di educare efficacemente a relazioni interpersonali nonviolente se la normalizzazione della guerra diffonde la “etificazione della violenza” (Butler) nelle relazioni internazionali. È una contraddizione pedagogica che genera cortocircuiti, non solo quando si è comandati ad attivare i “meccanismi del disimpegno morale” (Bandura) qualora si venga chiamati ad andare direttamente a combattere, apprendendo ad uccidere, come accade ai giovani dei paesi in guerra, ma anche quando si richiede agli adolescenti, in fase di formazione, di imparare a gestire i conflitti personali in modalità pacifiche, con il divieto di accedere mimeticamente a quella violenza con la quale invece gli adulti tentano di risolvere ancora i conflitti internazionali. Come sanno gli educatori di pace, formatori di gestione nonviolenta dei conflitti su tutte le scale, i messaggi degli adulti contraddetti dal loro agire non hanno alcuna credibilità. Essere educatori dentro alla violenza culturale del bellicismo diffuso richiede invece coerenza tra i diversi piani. Lo scriveva Aldo Capitini già nella prima ricerca sull’educazione civica nella scuola italiana (1964): “La scuola è connessa con ciò che è in atto, oltreché un elemento di apertura e di educazione alla pace nella conoscenza dei problemi di tutti i popoli”. Serve “impostare i rapporti con tutti in modo orizzontale, con rispetto e reciprocità”, per la costruzione di un internazionalismo nonviolento dal basso. Una distanza infinta dalle “Nuove Linee guida” per l’educazione civica del ministro Valditara, che veicolano valori di educazione finanziaria e crescita economica al servizio del modello liberista fondato sul successo individuale, seppur dentro ad una logica nazionalista volta a preparare le nuove generazioni alla “guerra di civiltà”, la nuova guerra fredda che diventa ogni giorno più calda. Quali siano, invece, i compiti dell’educare oggi lo ha ricordato il filosofo Mauro Ceruti nell’introduzione al Festival Con_vivere di Carrara: “Hiroshima ci ha consegnato la possibilità di autodistruzione dell’umanità e questo ci obbliga alla cultura della responsabilità” - recupero dalle mie note, ma si può approfondire su Il tempo della complessità, Mauro Ceruti, 2018. “Ciò richiede un cambio di paradigma nel rapporto tra i popoli: ripudiare i giochi a somma zero, in cui uno vince e l’altro perde. Ormai è un paradigma disastroso nel quale perdono tutti, genera solo vinti. L’umanità si trova oggi obbligata ad uscire dall’età della guerra per costruire il paradigma dei giochi a somma positiva, nel quale vincono tutti. È l’unica possibilità per la sopravvivenza dell’umanità”. Si tratta dunque, nella scuola che si apre, di educare le nuove generazioni al pensiero della complessità e all’etica delle responsabilità, su tutte le dimensioni. Senza cortocircuiti. *Filosofo, autore su pace e nonviolenza Davvero possiamo trasformarci tutti in assassini? I casi di cronaca interrogano di Luciano Casolari* Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2024 I delitti commessi da persone affette da psicosi, se pur rari, ci sono sempre stati e, presumibilmente, ci saranno sempre, se queste persone non verranno curate. Allora perché questo allarme sociale? Emerge l’ipotesi inquietante che ci sia la volontà di occuparsi di alcuni delitti per incutere timore nella gente. Un popolo pieno di paure è pronto ad accettare leggi draconiane, a fornire al potente di turno libertà di comando assoluto. In questo clima, la morte di decine di migranti non turba le nostre coscienze, in quanto la paura del diverso, della persona con altra cultura, religione o colore della pelle si è impossessata di noi. Non so perché l’ho fatto! Non ero consapevole, volevo solo togliermi di dosso la tensione che avvertivo. Queste frasi e l’efferatezza degli omicidi di una donna incontrata per caso (delitto Sharon Verzeni) e di tre familiari (delitto di Paderno) ci lasciano sconcertati. Alcuni pazienti in questi giorni mi hanno chiesto: “Dottore, potrebbe capitare anche a me? Potrei commettere un atto terribile senza rendermene conto?”. Le scoperte psicoanalitiche ci hanno appalesato che una parte consistente della nostra vita psichica è inconscia. Si tratta di emozioni, sentimenti, sensazioni e ragionamenti che non riusciamo a controllare completamente con la nostra vita cosciente. Quello che noi pensiamo, quindi, è solo una parte del nostro mondo psichico. Queste componenti inconsce emergono nella nostra realtà solo occasionalmente, tramite sogni, lapsus, atti mancati, ossessioni, paure, sintomi d’ansia e momenti depressivi. Si tratta di situazioni sempre controllabili e delimitabili da parte della nostra parte cosciente. Fortunatamente solo in un numero limitato di casi (si calcola circa lo 0,5 per cento della popolazione) si struttura una malattia chiamata psicosi, in cui il mondo inconscio irrompe nella realtà dell’individuo. La psicosi può caratterizzarsi come una vera e propria patologia strutturata che dura negli anni (ad esempio schizofrenia e paranoia) oppure come momenti psicotici legati a particolari fasi di stress acuto (episodi deliranti o allucinatori acuti, depressioni maggiori deliranti). La risposta alla domanda dei miei pazienti quindi è: “No, un evento così assurdo e illogico, se non si è affetti da un disturbo psicotico, non capiterà. Questo non significa che non si possano commettere atti gravi come anche un omicidio. Ma una razionalità negli eventi, nella loro concatenazione, nei moventi, ci sarà (se non si è affetti da psicosi)”. Occorre distinguere fra un episodio di rabbia, legato a situazioni particolari che può capitare a chiunque, rispetto a episodi in cui il delirio irrompe nella vita di una persona, affetta da psicosi. Nella fase delirante la persona malata avvertirà una forte tensione emotiva, spesso penserà in modo fallace che tutti ce l’abbiano con lui, che ci sia una cospirazione nei suoi confronti e avvertirà la necessità di mettere in atto delle violenze per allentare e scaricare il malessere che prova. I delitti commessi da persone affette da psicosi, se pur rari, ci sono sempre stati e, presumibilmente, ci saranno sempre, se queste persone non verranno curate. Allora perché questo allarme sociale? Le statistiche ci confortano, riportando che negli ultimi vent’ anni gli omicidi sono calati parecchio. Dovremmo essere più tranquilli e, invece, emerge una paura diffusa. I mezzi di comunicazione di massa insistono nello sviscerare un fatto delittuoso per intere settimane, parlandone in tutte le salse mentre, colpevolmente, a mio avviso, dimenticano i morti per incidenti stradali (che sono innumerevolmente superiori) o per comportamenti inadeguati come il fumo, l’alcolismo e la droga. Purtroppo emerge l’ipotesi inquietante che ci sia la volontà di occuparsi di alcuni delitti per incutere timore nella gente. Un popolo pieno di paure è pronto ad accettare leggi draconiane, a fornire al potente di turno libertà di comando assoluto. In questo clima, la morte di decine di migranti non turba le nostre coscienze, in quanto la paura del diverso, della persona con altra cultura, religione o colore della pelle si è impossessata di noi. Anche la repulsione verso le guerre in Ucraina e Palestina vengono derubricate perché la paura, stimolata dai mezzi di informazione che usano molte scene cruente per incuterla, è troppo vicina a noi e allontana tutte le altre preoccupazioni. Non sono un complottista ma questo uniformarsi dell’informazione verso la supervalutazione di eventi che sono sempre esistiti e purtroppo sempre ci saranno (tutte le malattie se non si trova una cura si ripetono) mi lascia perplesso. *Medico psicoanalista Il referendum per la cittadinanza. Una firma che cambia il Paese di Luigi Manconi La Repubblica, 16 settembre 2024 Secondo un antico aforisma, per andare avanti è necessario fare qualche passo indietro. Tradotto nel linguaggio politico contemporaneo si può dire che il destino dei progressisti dei giorni nostri passi attraverso la capacità di rivisitare il passato: e recuperare diritti e acquisizioni che, nel tempo, non si sa bene come e perché sono stati smarriti. Di conseguenza, per essere alla pari con il progresso, si deve essere un po’ - almeno un po’ - conservatori. È questo che viene in mente quando si ragiona sulla proposta di un nuovo referendum in materia di cittadinanza che, appunto, chiede di tornare alla normativa precedente il 1992: quando per poter diventare italiani servivano 5 anni di legale soggiorno in questo Paese. Un tempo ragionevole perché una persona che arrivi in Italia ne apprenda la lingua, trovi un alloggio e un impiego, e non rappresenti un pericolo per la sicurezza pubblica. Nel 1992 la legge n. 91 introdusse il termine di 10 anni di residenza per i cittadini stranieri provenienti da paesi esterni all’Unione europea. Penalizzando in modo ingiustificato queste persone e rendendo molto più difficile recepire e gestire i cambiamenti sociali e culturali avvenuti negli ultimi decenni. Si pensi solo al fatto che nei primi anni 90, gli stranieri presenti in Italia erano 3-400.000 mentre oggi quelli regolari superano i 5 milioni. Così arriviamo all’attuale congiuntura. E alla scommessa coraggiosa di un referendum che deve portare a casa 500mila firme in 24 giorni. E che chiede di rendere concreto il dibattito che in un’estate priva di particolari avvenimenti politici si è svolto tra i sostenitori di ius soli e ius scholae e gli strenui difensori dello ius sanguinis. Un dibattito teorico e fumoso che i promotori del quesito vogliono riportare alla carne viva e al vissuto reale dei nuovi italiani. La proposta è semplice: riportare a 5 anni di residenza ininterrotta il termine per poter avanzare la richiesta di cittadinanza, e per poterla trasmettere ai propri figli minori ed eventualmente al proprio coniuge. Fermo restando che oltre alla residenza continuativa bisogna che lo straniero dimostri la conoscenza della lingua, che abbia un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale, che disponga di un’abitazione e che non abbia carichi pendenti. Secondo l’Istat le persone che già oggi si trovano in questa situazione sono circa 2,5 milioni tra beneficiari diretti e indiretti (figli minori e coniugi). È un numero più alto di quello delle persone che verrebbero interessate da Ius soli (circa 500mila) e ius scholae (circa 135 mila all’anno) e la misura avrebbe un effetto immediato sulle vite di quelli che in Italia, non solo nascono e crescono, ma da anni vi abitano, lavorano e contribuiscono al benessere collettivo. E proprio i rappresentanti delle associazioni di Italiani senza cittadinanza erano in prima fila martedì scorso a depositare presso la Corte di Cassazione un quesito che permetterebbe loro cose semplici e importanti. Come partecipare agevolmente a percorsi di studio all’estero, rappresentare l’Italia nelle competizioni sportive senza restrizioni, poter votare e partecipare a concorsi pubblici come tutti gli altri cittadini italiani. Diritti oggi negati a quelli che, come dice lo slogan della campagna referendaria, sono figlie e figli d’Italia. Una firma, in questo caso, può aiutare a dare del nostro paese un’immagine meno arcigna e meno ostile. E’ interesse di tutti. Per chi voglia contribuire a questa battaglia di civiltà è possibile firmare gratuitamente sul sito www.referendumcittadinanza.it. Al comitato promotore hanno aderito finora Italiani senza cittadinanza, CoNNGI, Idem Network, Libera, Gruppo Abele, Società della Ragione, A Buon Diritto, ARCI, ActionAid, Oxfam Italia, Cittadinanza Attiva, Recosol, Dalla Parte giusta della storia, InOltre Alternativa progressista, InMenteltaca, Forum diseguaglianze e diversità. +Europa, Possibile, Partito socialista italiano, Radicali italiani, Rifondazione comunista. Suicidio assistito, così la Destra affossa la legge di Maria Novella De Luca La Repubblca, 16 settembre 2024 Valanga di audizioni perché non arrivi in Aula: ignorati gli appelli della Consulta. Il Pd: “Siamo all’ostruzionismo, la battaglia slitta ancora. Chiamate sigle improbabili solo per perdere tempo”. E sempre più malati per il diritto a morire prendono la via della Svizzera. La sofferenza può attendere, la Politica ha altro da fare. Si apre con una nuova sconfitta sul fronte della legge sul suicidio assistito questo autunno 2024, segnato ormai da decine e decine di malati terminali e persone con gravissime disabilità che si mettono in viaggio verso la Svizzera per essere aiutati a morire, in un infinito pellegrinaggio del dolore. O scelgono di restare e combattere - a volte per anni - nei tribunali di tutta Italia per ottenere la libertà di scelta sul fine vita. Un nuovo fallimento in totale disprezzo verso le richieste della Corte Costituzionale, che fin dal 2019, con la sentenza sul caso Dj Fabo che ha definito con chiarezza possibilità e limiti del suicidio assistito rendendolo legale anche in Italia, chiede al Parlamento di varare una legge. Richiesta ribadita dalla Consulta con una nuova sentenza il 18 luglio scorso. Tutto da rifare, si torna in commissione - Niente da fare. Il testo incardinato in commissione al Senato, il disegno di legge del Pd Alfredo Bazoli, avrebbe dovuto essere discusso in aula il prossimo 17 settembre, come prevede il regolamento di Palazzo Madama per i provvedimenti che hanno le firme di un terzo dei senatori. Ma l’arrivo in aula sarà poco più che un atto formale. Le due commissioni deputate, Sanità e Giustizia, in sette mesi non hanno quasi mai esaminato il testo, quindi si deve ripartire dall’inizio. “Pur di evitare che si giunga alla discussione - denuncia il senatore Bazoli - la Destra ha chiesto ben novanta audizioni di soggetti anche del tutto estranei all’argomento, con un intento puramente dilatorio. A parole, dal presidente del Senato Ignazio la Russa, alla presidente della Commissione Giustizia Giulia Bongiorno, ci danno tutti ragione dicendo che è un tema importante e che va affrontato. Nei fatti invece stanno impantanando tutto cercando di allungare i tempi all’infinito. La verità è che non vogliono affrontare la discussione di un tema così difficile e sul quale la Consulta ha dato indicazioni precise”. Valanga di audizioni di sigle cattoliche - “Noi abbiamo chiesto 13 audizioni e tutte di merito - incalza anche la capogruppo del Pd in Commissione Affari sociali Sandra Zampa - mentre il centrodestra ha proposto nomi e associazioni davvero improbabili, soltanto per allungare i tempi. È evidente - aggiunge - che così facendo stiano prendendo in giro non solo noi, ma anche la Cei che sul punto è stata molto chiara e la Corte costituzionale che si è espressa con diverse sentenze”. Basta scorrere infatti l’elenco delle associazioni chiamate per essere “audite”, il 90 per cento di area cattolico-integralista, per capire il colpo di mano della maggioranza per affossare la legge. Accanto alle necessarie sigle della medicina palliativa, degli ordini dei medici, del mondo giuridico, dei componenti del Comitato di Bioetica e di realtà laiche come l’Associazione Luca Coscioni, troviamo una valanga di organismi di impostazione confessionale. Family Day, Movimento per la Vita, Psicologi cattolici, Associazione di pastorale sanitaria, Network Ditelo sui Tetti (punto fondante riconoscere i diritto del concepito contro la 194). Ma anche l’Associazione umanitaria Padania, Giuristi per la vita, Associazione San Tommaso Moro, Scienza e Vita, Accademia Pontificia per la Vita, compresa suor Roberta Vinerba, teologa, voce e volto di Tv2000, esperta di giovani e di adolescenza, ma non certo di bioetica. Ignorata la Consulta - Novanta audizioni in tempi diluiti per arrivare alla legge di Bilancio quando, naturalmente, l’economia avrà la precedenza. Insomma, denunciano i senatori Pd, “un vero e proprio ostruzionismo”. Del resto che Lega e Fratelli d’Italia sulla linea dei Pro Life, tenacemente contrari a ogni apertura sulle scelte di fine vita, vogliano rinviare sine die un tema così spinoso è stato chiaro fin da subito. (Ma anche Forza Italia, per diretta ammissione di Antonio Tajani, ha affermato che prima del fine vita “dobbiamo pensare alla legge di bilancio). Appunto: la sofferenza (degli altri) può attendere. La questione è ancora più complessa: se si arrivasse alla discussione del testo Bazoli, che recepisce in modo abbastanza fedele la sentenza della Consulta, gli avversari della legge dovrebbero smentire, di fatto, quanto affermato dalla Corte Costituzionale. La cui sentenza del 2019, in assenza di una legge, oggi permette già il suicidio assistito in Italia, con il supporto del servizio sanitario nazionale. Anna, Gloria e Sibilla - Peccato che come dimostrano le eroiche storie di Federico Carboni “Mario”, di “Anna” e di “Gloria”, tutti assistiti dall’Associazione Luca Coscioni, per arrivare ad ottenere il diritto di una morta assistita ci siano voluti anni di battaglie legali. Diritto negato invece, tragicamente, a Sibilla Barbieri, 58 anni, paziente oncologica, cui la Asl di appartenenza, a Roma, negò nel 2023 l’accesso al suicidio assistito perché non sarebbe stato presente il requisito del trattamento di sostegno vitale. Sibilla è morta in Svizzera il 6 novembre dello scorso anno, accompagnata dal figlio Vittorio Parpaglioni e da Marco Perduca dell’Associazione Coscioni. Così come dovrà forse partire per Zurigo anche Martina Oppelli, 49 anni di Trieste, tetraplegica, affetta da sclerosi multipla, cui l’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina continua a negare l’accesso al suicidio assistito, sostenendo anche in questo caso che Martina Oppelli non sarebbe in vita perché legata a trattamenti di sostegno vitale, uno dei requisiti fondamentali indicati dalla Consulta nel 2019 per accedere al suicidio assistito. Migliaia di richieste sul fine vita - Requisiti che di fatto escludono un’infinità di malati dall’accesso alla morte assistita, a cominciare dai malati oncologici. Intanto migliaia di persone che vivono indicibili sofferenze chiedono giustizia. “Negli ultimi dodici mesi - si legge sul sito dell’Associazione Coscioni, mesi sono arrivate 15.559 richieste di informazioni sul fine vita. Si tratta di una media di 43 richieste al giorno con un aumento del 28% rispetto al 2022. Nel dettaglio: 3.302 scambi di informazioni su eutanasia e suicidio medicalmente assistito, 9 richieste al giorno, +43% rispetto all’anno precedente, e 823 scambi rispetto all’interruzione delle terapie e la sedazione palliativa profonda, circa 2 richieste al giorno, +27% rispetto l’anno precedente. Con azioni di disobbedienza civile molti malati vengono accompagnati in Svizzera dai volontari di “Soccorso civile” dell’Associazione Coscioni che al rientro in Italia si autodenunciano. Disobbedienza civile - Nell’assenza di una legge - il disegno di legge Bazoli è stato criticato da più parti e dall’Associazione Coscioni perché restrittivo nei confronti della sentenza della Consulta del 2019 - non restano appunto che le strade giudiziarie o l’emigrare per morire con dignità. “Noi continueremo a batterci nei tribunali per aiutare chi vuole ottenere il suicidio assistito in Italia e ad accompagnare in Svizzera chi non riuscirà a ottenere questo diritto in Italia. La vera agenda politica sull’eutanasia e fine vita - ha spiegato Marco Cappato nei giorni scorsi - la stiamo facendo noi con le disobbedienze civili e nelle aule di giustizia. Il Parlamento non ha fatto nulla in questi anni, i capi dei partiti preferiscono non affrontare questo tema, noi saremo i primi a salutare non una legge purché sia ma una buona legge che garantisca a tutti il diritto a scegliere liberamente il proprio fine vita”. Cannabis light, stretta (quasi) al traguardo e coltivatori sul baratro di Paolo Dimalio Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2024 Ecco perché le rassicurazioni del governo non stanno in piedi. La filiera della canapa è a un passo dal baratro, dopo il sì della Camera dei deputati all’articolo 18 del disegno di legge Sicurezza. Manca solo il timbro del Senato, per cancellare un comparto economico con 13 mila lavoratori e 3 mila aziende. Gli imprenditori sono scesi in trincea, perfino Coldiretti è sul piede di guerra. Il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida tace, le uniche parole memorabili furono di scherno: “Cannabis light? Meglio il thc”. Intanto, il governo tira dritto bollando gli allarmi come infondati. Con la nota del 10 settembre, il dipartimento antidroga di palazzo Chigi ha rispedito le critiche al mittente rassicurando gli agricoltori della canapa: “Il provvedimento non incide sulla coltivazione e sulla filiera agroindustriale (…) consentendo la prosecuzione delle attività di chi ha investito nel settore”. Dice il governo: stop al commercio delle infiorescenze per vietare il mercato della cannabis light; via libera ai semi della canapa, al fusto e ai rami per favorire l’industria tessile, edile, alimentare, la cosmesi e gli altri business. Dunque gli agricoltori possono coltivare i terreni e dormire tra due guanciali, suggerisce il governo, basta scartare il fiore. Peccato che la pianta, prima della fioritura, agli agricoltori non serva quasi a nulla. Eppure la nota di palazzo Chigi parla chiaro: “le fibre per impiego tessile vengono ricavate dalla lavorazione del fusto e dei rami della pianta”, mica dalle infiorescenze. Una mezza verità che sfiora la menzogna, “perché serve lo stelo lungo della canapa, all’industria dei tessuti e all’edilizia, dunque bisogna attendere il fiore con la maturazione della pianta”, racconta Jacopo Paolini. Coltiva 15 ettari in Abruzzo, con la sua azienda Enecta. Paolini fa parte della Federazione Nazionale Bioeconomia in Confagricoltura, ed è vicepresidente del comparto Canapa e Lino del Copa-Cogeca, l’associazione dei coltivatori europei che raccoglie le organizzazioni nazionali. Parte da un principio: l’articolo 18 del ddl sicurezza vieta la “lavorazione” del fiore. “Ma il fiore - dice Paolini - è sullo stelo, da cui si estrae il canapulo per il settore edile e si ‘sfilaccia’ la fibra per il tessile: per ottenere fibra e canapulo, dunque, l’agricoltore commetterebbe un reato”. Obiezione: il coltivatore potrebbe raccogliere gli steli prima della fioritura, per restare nel recinto della legge? “Sarebbe antieconomico, senza il fiore il canapulo è poco e la miglior fibra (cosiddetta lunga) si ottiene con la pianta matura. C’è una ragione, se la canapa si raccoglie in tutto il mondo durante la fioritura di settembre”. Secondo Paolini, il governo sbanda quando nella nota suggerisce: “gli alimenti, le bevande e i cosmetici possono essere prodotti solo dalla lavorazione dei semi della Cannabis Sativa Linnaeus”. Un paradosso: “per fare il seme bisogna lavorare il fiore, vietato dalla legge”, dice l’imprenditore. Ma anche la cosmesi sarebbe azzerata, perché nel fiore alberga il cannabidiolo (Cbd), un principio attivo richiestissimo. La Commissione Ue l’ha inserito nella lista dei cosmetici, il CosIng (Cosmetic Ingredients database), nel 2021. Due giorni fa, la nota dell’antidroga lo classificava tra gli stupefacenti. La smentita è firmata dal Tar, appena 24 ore dopo la pubblicazione del comunicato governativo. I giudici amministrativi hanno sospeso il decreto del ministero della Salute (datato 27 giugno 2024) che inserisce il Cbd nella tabella dei medicinali stupefacenti. Decisiva, per il verdetto, la perizia tecnica del professor Costantino Ciallella (già Direttore dell’istituto di medicina legale dell’Università La Sapienza di Roma): secondo il docente, il Cbd non determina dipendenza psicofisica e non possiede effetti psicoattivi. La sentenza del Tar, a ben vedere, fa tabula rasa delle ragioni del governo: il divieto della cannabis light, ufficialmente, è per ragioni di sicurezza stradale, minata dallo “stato psicofisico” (così recita la nota) di chi fuma cannabis light o assume i derivati del fiore, ricco di Cbd. Ma se il cannabidiolo non è stupefacente, perché affossare migliaia di imprese e lavoratori? Del resto, la commercializzazione del principio attivo è legale in tutta Europa: nel Vecchio continente, le associazioni della filiera della canapa si preparano alla battaglia legale. La canapa industriale certificata è classificata come prodotto agricolo dal Trattato sul funzionamento dell’Ue (Tfue), il massimo livello del diritto comunitario. Tanto che la pianta intera, senza distinzioni tra le sue parti, consente di accedere ai fondi europei PAC. Impedirne la vendita e l’importazione, violerebbe le regole sulla libera circolazione delle merci nel mercato comune. “Già due sentenze della Corte di Giustizia europea hanno bocciato le limitazioni imposte dagli Stati Membri alla produzione e circolazione di canapa, perché il CBD, che si ottiene da fiori e foglie, non è stupefacente, dunque il commercio di tali prodotti è lecito”, avvisa l’avvocato Giacomo Bulleri. La terza sentenza potrebbe riguardare l’Italia. Se l’articolo 18 del ddl sicurezza andasse in porto, il piano delle associazioni prevede un ricorso giudiziale per portare la questione alla Corte Ue. Non è neppure esclusa una procedura d’infrazione, da parte della Commissione. La speranza è che la maggioranza rinsavisca e stralci la norma nel dibattito in Senato. L’Europa incompiuta di Spinelli si realizza attraverso un carro armato di domenico quirico La Stampa, 16 settembre 2024 Si intravedono gli “Stati uniti del tank”, tenuti insieme dalla volontà di costruire armi e da una difesa “necessaria”. Il paradosso è che quello che unirà veramente il Continente non saranno pace e diritti, ma l’industria militare. Sì, è vero, ci siamo sbagliati. Spieghiamoci lealmente: perché probabilmente non si è chiuso un capitolo, si è chiusa una Storia. Son troppe le cose che si intravedono in filigrana rispetto a quelle che si vedono di acchito. Guerre e crisi rovesciano sempre le gerarchie delle evidenze e anche delle utopie. L’Europa, ahimè!, perennemente incompiuta di Spinelli e Schumann si realizzerà dunque attraverso il carro armato, il missile, il caccia intercettatore, il drone? Si intravedono gli Stati uniti del tank! Costruire insieme armi sbaraglierà le barricate dei pestiferi egoismi e sovranismi? Il business comunitario della Difesa, astuta metafora, sembra essere la nuova frontiera che non conosce ostacoli, solo cifre, risultati e incassi. Si levano gli esegeti: la storia è cambiata, l’odio lussureggia, nel continente cozzano e si impattano furori, spedizioni punitive, aggressioni. Siamo al corpo a corpo abituale, bisogna difendersi. Se poi questo arrotonda i conti capitalistici, rilancia l’economia meglio ancora. Vi sono periodi in cui gli uomini vivono in una sorta di sicurezza istintiva, come se avessero una certezza che ha una influenza diretta sulle loro vite personali. Fino allo sciagurato 24 febbraio del 2022, all’attacco russo all’Ucraina, in questo continente il “momento storico” sembrava consolidato: il nostro destino non sarebbe più cambiato. La crudeltà sembrava non appartenerci più dal 1945 in poi. L’abbiamo riadottata. Cosa era questa forza che ci permetteva di ascoltare il rombo dei cannoni nella notte del resto del mondo con una sorta di compiaciuta soddisfazione? Armamenti implacabili irraggiungibili per i nemici? Trabordante superiorità tecnologica e industriale? Raffinatezza diplomatica capace di metter nel sacco i nemici più rozzi? Era la constatazione orgogliosa che unendoci, sopprimendo memorie di sangue avevamo sconfitto la guerra, eternizzato la pace tra di noi. La lotta senza pietà, generazione dopo generazione tra francesi e tedeschi che aveva insanguinato in due guerre mondiali la storia del mondo era finita. Sul Reno era l’era della pace. Siamo tutti europei! Una sfida, un modello di redenzione dai fili spinati delle prepotenze armate, quella che doveva diventare una sacrosanta sobillazione per tutti. Anche i popoli non solo gli individui sono dunque disposti al rimorso. Il ruolo dell’Unione europea non era quello di appartenere al tempo salvandosene, non rinunciando a mutarne la parte che ti compete, gridare che si può reggere alle raffiche del vento storico senza picche e cannoni con la diplomazia, i diritti, la ragione? Non pavidi e imbelli certo, ma depositari scomodi e tenaci di un irreversibile convincimento fraterno. Sniffiamo dal 1945 gli effluvi della nostra diminuita potenza di fronte ai nuovi imperialismi americani, sovietici e putiniani, cinesi, ormai contiamo solo per la rapidità con cui mettiamo mano al portafoglio comunitario, l’unione resta in molti campi decisivi più forma che sostanza, ognuno conservando con arcigna avarizia le sue differenze i suoi egoismi. La lingua franca è quella di un Paese che dall’Europa è uscita con gran vanto e fracasso... Ma... Ma c’era quella parola istitutiva, fondante, pace, dopo aver incendiato il mondo con vele e cannoni; e i suoi seguiti pratici, la fine della coscrizione obbligatoria in tutti i Paesi, l’industria delle armi che certo continuava lucrosi affari ma almeno nascondendosi tra ipocrisie e slogan rassegnati: se non li vendiamo noi le vedono altri. Siamo al paradosso, l’unguento miracoloso che unirà finalmente davvero l’Europa non saranno i diritti, le lezioni dei padri fondatori, vincoli fiscali legali educativi: sarà l’integrazione del complesso militar-industriale, nemico fuori portata di tutti i volenterosi pacifismi. Si marcia a tutto vapore, via via che la vittoria su Putin si rimanda, si fa più incerta. Commissari europei hanno fatto da battistrada fustigando il ritardo nella costruzione di una “economia di guerra”; poi gli economisti, i manager, i sacerdoti del profitto orfani della globalizzazione hanno fornito cifre progetti pianificazione. La spazio che il piano Draghi per salvare l’Europa dedica alla creazione della gigantesca industria militare comune ne è la consacrazione concettuale, quasi teologica. Poche settimane è la parola d’ordine: armiamoci “made in Europe” è diventata citazione aristotelica al don Ferrante. Non insorgono onde di obiezione civile, nessuno sembra invaso dall’acre disagio di questa eventualità. Le destre si affannano a non restar indietro rispetto alle sinistre nel vecchio dilemma tra burro e cannoni. Ma non bastava difendere l’Ucraina? Non eravamo impegnati a spada tratta semmai a difendere il Pianeta moribondo? Non si allude, si constata in modo asciutto: in bombe in spendiamo poco e soprattutto spendiamo male. Ognuno corre dietro al suo carro armato, ci facciamo concorrenza, mentre i grandi, Usa Russia Cina, pianificano standardizzano e vendono. Eccola la greve paroletta che spunta nel discorso del presidente di una eccellenza italiana nel campo: si deve efficientare! Altro che due per cento del bilancio a cui molti tra cui l’Italia con ottusa avarizia recalcitra: almeno il tre per cento è cosa fatta, indispensabile. Colpisce che la minaccia russa sfumi sullo sfondo di un discorso tutto economico, suvvia nessuno crede davvero che Putin che avanza come una lumaca da più di due anni contro gli ucraini abbia davvero la possibilità di lanciare le sue divisioni peste e sgangherate verso Berlino, Parigi... La vera garanzia per l’Europa resta sempre quella, l’arsenale dei megatoni americani, la reciproca possibilità dell’inverno nucleare come ai tempi di Kennedy e Kruscev. È tutta una faccenda di soldi, di arraffare un gigantesco affare. Mentre si chiudono le catene di montaggio delle automobili e si raddoppiano quelle dei Leopard corrazzati, e i politici provvedono a ridisegnare le carte delle nuove frontiere dove i buoni si dividono dai cattivi, il manager sintetizza siccitoso: “Ce ne sarà abbastanza per tutti”. Medio Oriente. In Cisgiordania ora è assedio totale di Francesca Mannocchi La Stampa, 16 settembre 2024 West Bank in declino allarmante tra violenze dei coloni e distruzione delle infrastrutture. L’Onu: “Economia palestinese in ginocchio dopo undici mesi di guerra. Gaza è in rovina”. L’economia palestinese è in ginocchio dopo 11 mesi di offensiva militare israeliana a Gaza. È quanto affermano le Nazioni Unite in un lungo, dettagliato rapporto pubblicato pochi giorni fa. Pedro Manuel Moreno, vicesegretario dell’Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, ha usato parole dure e allarmate: l’intera economia palestinese è in caduta libera, e quella di Gaza, in particolare, è “in rovina”. Il rapporto mette in luce la portata della devastazione economica che supera di molto l’impatto di tutte le offensive su Gaza precedenti, nel 2008, 2012, 2014 e 2021. A Gaza, si legge “i processi di produzione sono stati interrotti o decimati, le fonti di reddito sono scomparse, la povertà si è intensificata e ampliata, interi quartieri sono stati sradicati e le comunità sono distrutte”, un quadro accompagnato da numeri, che non giungono nuovi. Già lo scorso gennaio l’Unctad aveva diffuso i dati sull’ultimo trimestre del 2023: nei primi novanta giorni dell’offensiva, il prodotto interno lordo di Gaza era già crollato dell’80%. A oggi quasi tutte le attività commerciali di Gaza sono state danneggiate o distrutte e il 96% delle risorse agricole, tra cui fattorie, frutteti, sistemi di irrigazione, macchinari e strutture di stoccaggio, sono state “decimate”. Significa che la capacità di produzione e sussistenza è ormai paralizzata, in un territorio che già prima del 7 ottobre dipendeva dagli aiuti umanitari. Non va meglio in Cisgiordania. Con l’attenzione mondiale giustamente focalizzata sull’offensiva a Gaza, un’altra crisi sta fermentando nella Cisgiordania occupata, una crisi che potrebbe avere gravi implicazioni per la stabilità dell’area intera. Dice il rapporto UN: la Cisgiordania vive un “rapido e allarmante declino economico”, le cause sono sotto gli occhi di tutti, nelle quotidiane cronache di violenza: l’espansione degli insediamenti, la confisca delle terre palestinesi e i conseguenti sfollamenti forzati di intere comunità, la demolizione delle infrastrutture necessarie alla sopravvivenza e l’aumento della violenza dei coloni hanno avuto un impatto senza precedenti sulle attività economiche. A erodere la capacità dei palestinesi di lavorare convergono diversi fattori, l’impossibilità di movimento da un lato - basti pensare che il numero dei posti di blocco è aumentato da 550 a 700 in sei mesi - e la revoca dei permessi di lavoro. Fino al 7 ottobre i palestinesi costituivano una spina dorsale dell’economia israeliana. Ogni giorno 150 mila palestinesi si spostavano dai territori occupati verso Israele, con l’inizio della guerra i permessi sono stati immediatamente sospesi. Secondo Unctad il 96% - cioè la quasi totalità - delle aziende in Cisgiordania ha ridotto la propria attività, la metà ha dovuto licenziare i dipendenti. In termini assoluti sono andati persi più di trecentomila posti di lavoro, facendo sì che in pochi mesi il tasso di disoccupazione della Cisgiordania occupata passasse dal 13% al più del 30%. Vuol dire che una persona su tre non lavora, che un capofamiglia su tre non sa più come provvedere alla sussistenza quotidiana. La minaccia economica - Israele ha un’influenza finanziaria da decenni sull’Autorità Nazionale Palestinese. In base agli accordi di pace raggiunti negli anni ‘90, infatti, il ministero delle finanze israeliano riscuote le tasse per conto dei palestinesi ed effettua trasferimenti mensili all’Autorità Palestinese. Ma dopo l’inizio dell’offensiva su Gaza, Israele ha smesso di effettuare i trasferimenti, trattenendo fondi pari al 70% del bilancio pubblico palestinese. Da ottobre 2023, le detrazioni fiscali e le ritenute fiscali da parte di Israele sono aumentate costantemente portando la somma di soldi trattenuti tra il 2019 e il 2024 a un totale di quasi un miliardo e mezzo di dollari, cioè l’8% del PIL palestinese. Tradotto nella vita quotidiana significa che l’AP non è in grado di pagare gli stipendi, pagare i debiti, né di mantenere i servizi pubblici essenziali: scuola, strade, ospedali. A gestire i rapporti finanziari tra Israele e Palestina, oggi, c’è il ministro dell’estrema destra sionista Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze del governo Netanyahu. Lo scorso maggio, mentre la Banca Mondiale parlava di un “rischio di un potenziale collasso sistemico” per l’economia della Cisgiordania, Smotrich ha annunciato che avrebbe dedotto 60 milioni di dollari dalle entrate fiscali dell’Autorità Nazionale Palestinese. Era la sua risposta politica (sarebbe meglio dire ritorsione) al riconoscimento da parte di Irlanda, Norvegia e Spagna dello Stato Palestinese e alla richiesta della Corte Internazionale di Giustizia dei mandati di arresto per Netanyahu e Gallant. La sua reazione era stata immediata: “I palestinesi stanno operando contro Israele con il terrorismo politico e quindi non dovremmo continuare a trasferire loro denaro... Se questo causa il crollo dell’Autorità Nazionale Palestinese, la lasceremo crollare”. Smotrich ha chiarito che un crollo dell’Autorità Palestinese faccia parte del suo progetto politico e d’altronde non ci sono voci nel governo israeliano che si oppongano a questa visione. Il ricatto finanziario di Smotrich - Per capire il senso profondo di queste decisioni, è fondamentale allargare il campo di osservazione. Smotrich, oltre a ricoprire il ruolo di ministro delle Finanze, ha anche una delega al ministero della Difesa che lo rende responsabile dell’amministrazione civile e degli insediamenti in Cisgiordania. È grazie a questa delega che può promuovere la costruzione di nuovi insediamenti, il riconoscimento di quelli vecchi, in sintesi: aumentare il controllo israeliano sulla vita dei palestinesi. Tutto coerente con le posizioni del suo partito, ovvero che non esista la possibilità della costituzione di uno Stato palestinese e che la migliore strategia per impedirlo è ampliare le colonie. Recentemente ha annunciato che, in virtù delle sue deleghe, avrebbe concesso permessi per istituire un nuovo insediamento per ogni Paese che avesse riconosciuto la Palestina come Stato. Ecco, dunque, che il crollo dell’Autorità Palestinese è coerente con la politica di governo, con l’ampliamento della sovranità ebraica, è un altro passo verso la realizzazione della visione politica, religiosa, nazionalista dei partiti che hanno in mano ministeri cruciali e in estrema sintesi la sopravvivenza politica di Netanyahu. Lo scorso 28 giugno, Smotrich ha annunciato che avrebbe finalmente scongelato tre mesi di entrate fiscali e avrebbe esteso una deroga che consente la cooperazione tra banche israeliane e palestinesi. Una mossa che è parsa una mossa a sorpresa, e che però aveva una doppia faccia. Questo avverrà, ha detto, in cambio dell’approvazione retroattiva di cinque avamposti in Cisgiordania, illegali anche per la legge israeliana, ma già costruiti e in attesa di capire se in procinto di legalizzazione o smantellamento. Come a dire: vi diamo i soldi che vi spettano se non ostacolate l’espansione degli insediamenti. O, ancora meglio: vi diamo i soldi che vi spettano, se ve ne andate senza fare troppo rumore. La realizzazione ultima del “Piano decisivo” che scrisse nel 2017, ormai sette anni fa, in cui chiariva che Israele avrebbe dovuto fare di tutto per “facilitare l’emigrazione volontaria” dei palestinesi. Sequestrare il loro denaro, per esempio. “Dopo due anni dalla morte di Mahsa Amini l’Iran non è più uguale, l’Onu sia attento a noi” di Narges Mohammadi* Corriere della Sera, 16 settembre 2024 In esclusiva, a due anni da quel giorno, pubblichiamo la lettera che l’attivista e premio Nobel per la pace Narges Mohammadi ci ha mandato da Evin, il carcere più famigerato in Iran. È il 16 settembre 2022 quando Mahsa Zhina Amini, una ragazza curda di 22 anni, muore in un ospedale a Teheran dopo 72 ore di coma. L’hanno ridotta così i calci e i pugni della polizia morale del regime per una ciocca di capelli che le esce dal velo. Da quel giorno, migliaia di ragazze e ragazzi, e poi donne e uomini, scendono per le strade per chiedere la fine del regime. Nei mesi successivi la dittatura uccide oltre 600 manifestanti e incarcera più di ventimila attivisti. Le proteste diminuiscono, le strade si svuotano. Il regime impicca, ricatta, punisce, ma non riesce a fermare la nascita e l’espansione - fuori e dentro il Paese - del movimento Donna, Vita, Libertà: una rivoluzione sociale nel nome di Mahsa Amini e di tutte le donne iraniane senza diritti, che spaventa gli ayatollah. In esclusiva, a due anni da quel giorno, pubblichiamo la lettera che l’attivista e premio Nobel per la pace Narges Mohammadi ci ha mandato da Evin, il carcere più famigerato in Iran. Mohammadi fa il punto di questo tempo incerto e di cambiamento mentre annuncia uno sciopero della fame per il secondo anniversario del movimento “Donna, Vita, Libertà” e dell’uccisione di Mahsa (Zhina) Amini. Con lei, 34 compagne di cella. ---------------- Sono passati due anni dall’uccisione di Mahsa Zhina Amini e dalla fondazione del movimento “Donna, Vita, Libertà” - nato sulla scia di altri movimenti sociali d’Iran - che, grazie al suo forte potenziale, ha accelerato la richiesta del popolo iraniano di democrazia, libertà e uguaglianza. Analizzando “Donna, Vita, Libertà” attraverso tre grandi variabili - le sue dinamiche strutturali, gli elementi ideologici e i risultati - concludiamo che è un movimento democratico, radicato nella coscienza collettiva, nell’azione collettiva e nell’esperienza su scala globale, e ha già avuto impatti a breve e a lungo termine sulla società iraniana. Nulla dopo la nascita di questo movimento è più come prima. La trasformazione più significativa si è verificata nelle prospettive del futuro e nella coscienza del popolo sui diritti delle donne. Il passo verso questo cambiamento, rispetto ad altre riforme che hanno a che fare con la sfera politica, sociale e culturale, è stato notevole. L’hijab obbligatorio, uno degli ultimi e più importanti simboli dell’ideologia del regime religioso, è ora condannato, rifiutato o, perlomeno messo in discussione, da intellettuali e gruppi politici e sociali laici, ma anche da segmenti religiosi della società. L’opinione pubblica non lo vede più come un obbligo religioso ma come uno strumento di dominio e oppressione sulle donne. La lotta contro questo fenomeno non è solo per rivendicare il diritto delle donne di vestirsi come vogliono, ma anche per contrastare la dominazione e la tirannia della dittatura teocratica. La democrazia non esiste senza i diritti delle donne. Se vogliamo raggiungere la democrazia in Iran - uno dei paesi chiave nel caotico e devastato Medio Oriente - allora dobbiamo considerare i requisiti necessari per arrivare a questo obiettivo. Affrontare l’oppressione e la discriminazione contro le donne è una questione essenziale e innegabile. Ignorarla non solo priverà metà della popolazione del Paese dei propri diritti, ma ritarderà anche la realizzazione della democrazia, della libertà, dell’uguaglianza e dello sviluppo sostenibile per tutti. Per questo motivo, credo che la criminalizzazione dell’apartheid di genere, di cui sono vittime le donne in Iran e Afghanistan, dovrebbe essere una priorità per la comunità globale, guidata dalle Nazioni Unite e dai Paesi democratici e sviluppati che fanno parte di questa organizzazione. Inoltre, l’esistenza di organizzazioni indipendenti deve essere uno degli obiettivi principali di chi sostiene la democrazia che può esistere solo con una società civile forte. Nella società iraniana, il ruolo delle istituzioni, delle organizzazioni e reti civili come spina dorsale strutturale del movimento è decisivo. È evidente che la volontà del popolo iraniano di passare da una dittatura religiosa e autoritaria a un governo democratico, della libertà e dell’uguaglianza richiede la cooperazione e il sostegno dei movimenti democratici, delle istituzioni internazionali per i diritti umani e l’attenzione delle Nazioni Unite. Il primo passo verso la criminalizzazione dell’apartheid di genere trasformerà questa aspettativa in una speranza nazionale e globale. *Dalla prigione di Evin - Tehran, 29 agosto 2024