Uno scatto culturale per le carceri di Mauro Magatti Corriere della Sera, 14 settembre 2024 Situazione drammatica nei penitenziari, serve una vera svolta. Come per altri comparti (istruzione, sanità, cura del territorio), anche per le carceri investire risorse nel modo corretto alla fine fa risparmiare soldi e crea consenso. La situazione delle carceri italiane rimane scandalosamente grave: per numero di suicidi (nel 2024 se ne contano già 69, ben oltre la media annuale di 55, già molto alta); casi di violenza (di qualche settimana fa la denuncia di tortura contro dei minorenni al Beccaria); abuso di psicofarmaci (per gestire il diffuso disagio psichico). Le diffuse rivolte degli ultimi mesi (Roma Biella, Velletri, Aosta, oltre che al già citato Beccaria) sono il sintomo di quanto sia esplosiva una situazione ormai invivibile sia per i detenuti che per gli agenti della Polizia carceraria (tra cui ci sono stati 7 suicidi da inizio anno). Le ragioni di questo degrado sono strutturali: carenze di personale, soprattutto di figure professionali specializzate; salari inadeguati; sovraffollamento, inadeguatezza delle strutture. Nei 189 istituti penitenziari italiani, al 30 giugno 2024, erano presenti 61.480 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare complessiva di 51.234 posti. Secondo l’associazione Antigone, se si detraggono i 4.000 posti che in realtà sono indisponibili, siamo al 130% della capienza prevista. In questa situazione, anche il decreto carceri definitivamente approvato dalla Camera 7 agosto scorso - che prevede oltre un maggiore stanziamento economico anche misure per velocizzare la libertà anticipata -, pur andando nella giusta direzione, non è sufficiente per colmare il ritardo accumulato negli anni. Il degrado carcerario riflette infatti un nodo culturale. La concezione della pena prevalente nell’opinione pubblica non solo è retributiva (la sanzione penale deve servire a punire il colpevole per il male provocato dalla sua azione illecita) ma addirittura punitiva: chi ha commesso un reato deve subire la perdita totale dei propri diritti e rimanere isolato dalla società il più a lungo possibile. Il carcere deve essere duro e non è un luogo su cui investire né in strutture né tanto meno in programmi rieducativi. Continua a essere diffusa l’idea che la severità delle pene sia direttamente proporzionale all’efficacia nel garantire la sicurezza: sanzioni rigide sono considerate essenziali per disincentivare la violazione della legge. Argomento che ha le sue buone ragioni, ma che confonde la certezza della pena con la sua severità. Anche perché rimane molto radicata l’idea che il carcerato, in quanto criminale, abbia scarse possibilità di riabilitarsi. La colpa non si cancella mai in modo definitivo. Un tale orientamento culturale è problematico da almeno due punti di vista. In primo luogo, perché costituisce un gravissimo vulnus del dettato Costituzionale. La cui logica, come richiamato dalla Corte costituzionale, è che “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, fosse anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento”. Ne deriva che il vero obiettivo di ogni azione penale dovrebbe mirare a ricostruire il legame sociale spezzato con il reato. In tutti i casi, la sanzione penale non può essere limitata - come invece purtroppo avviene - alla mera repressione. In secondo luogo, perché è irrazionale ed economicamente assai costoso. È la risocializzazione del condannato che permette di ottenere vantaggi significativi dal punto di vista sociale ed economico per l’intera società: condizioni di vita decenti, esperienze lavorative dentro il carcere, ricorso alle misure alternative per i reati più lievi, procedure di reinserimento graduale, accompagnamento psicologico riducono notevolmente le probabilità di recidiva (cioè là percentuale di detenuti che tornano a delinquere) e contribuiscono a una diminuzione dei costi legati alla detenzione. Come per altri comparti (istruzione, sanità, cura del territorio), anche per il tema carceri non si capisce che investire risorse nel modo corretto alla fine fa risparmiare soldi e crea consenso. Il fatto che negli ultimi decenni i progressi più significativi realizzati nell’ambito della pena in Italia siano scaturiti da pronunciamenti della Corte Europea dei diritti dell’uomo o dalle pronunce della Corte costituzionale conferma l’ignavia della politica italiana verso un tema delicato ma qualificante. Rimane tristemente vero l’aforisma attribuito a Voltaire, “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Il carcere deve mirare a rieducazione e reinserimento. E comunque i bambini non devono stare in una cella di Franco Mirabelli* Avvenire, 14 settembre 2024 Nella scorsa legislatura presentammo, a prima firma dell’onorevole Siani, un disegno di legge che impediva l’ingresso in carcere di figli minorenni di madri detenute. Quel testo prevedeva in concreto la custodia attenuata in strutture dedicate per le madri conia loro prole ed escludeva un regime detentivo normale. Quel disegno di legge fu approvato alla Camera ma non al Senato dove la Lega ci impedì di inserirlo tra le priorità da votare nell’ultimo scorcio di legislatura. Abbiamo ripresentato all’inizio di questa legislatura quel testo sia alla Camera sia, a mia prima firma, al Senato e, abbiamo, in questi due anni, più volte, proposto emendamenti, ai vari decreti, che introducevano quelle norme. Purtroppo, la destra ha impedito l’approvazione di un intervento di buon senso, una legge rispettosa di un elementare principio di umanità e di civiltà. Quello che dice che i bambini non devono e non possano stare in carcere. Un principio che Lega e FdI rifiutano perché mette in discussione la loro ideologia. Quella che vede nel carcere solo la punizione e la sofferenza, una sorta di vendetta sociale e che quindi si disinteressa delle persone e delle condizioni di detenzione. In questi giorni è in corso alla Camera la discussione sul disegno di legge “sicurezza” del Governo che, tra le altre cose, prevede una sorta di obbligo della detenzione in carcere delle donne in stato interessante che vengono arrestate. La norma è stata approvata giovedì. Un’altra scelta priva di umanità e di attenzione verso le condizioni di quelle madri che, in altri contesti, il centro destra dice di voler mettere al centro del proprio interesse. Il messaggio è sempre lo stesso: più carcere significa più sicurezza e la sicurezza è la priorità che viene prima delle condizioni di detenzione, dei suicidi e, ovviamente, dello stesso dettato costituzionale che parla di rieducazione e reinserimento. È l’idea di uno Stato che deve mostrare la faccia cattiva e crudele per dare sicurezza ai cittadini senza cedimenti neanche di fronte ai bambini. Figuriamoci di fronte al sovraffollamento e alle condizioni disumane di detenzione che, in fondo, questo è il sottinteso, si sono meritati. Si illudono le persone che questo porti più sicurezza, imbrogliandole, nascondendo che questa idea fa del carcere un generatore di violenza e di recidività di cui tutti rischiamo di pagare le conseguenze. Le condizioni degli istituti per i minori, a iniziare dal Beccaria sono lì a dimostrarlo. Con il decreto Caivano si è aumentato il numero di minori reclusi, si è creata sovrappopolazione mettendo in carcere ragazzi stranieri e ragazzi con problemi psichiatrici (problematiche che la carcerazione non affronta né risolve), creando un mix esplosivo che provoca disordini ed evasioni e impedisce quel lavoro essenziale di educazione e formazione che fino a poco tempo fa funzionava. Purtroppo, il tema dei “bambini dietro le sbarre” rischia di non trovare soluzione proprio perché il furore ideologico di chi è oggi al governo non lo consente. Noi continueremo a batterci per affermare un semplice principio di civiltà: i bambini non devono stare in carcere. *Vicepresidente dei senatori del Pd Il viceministro Sisto: “Il futuro del carcere è un po’ fuori dal carcere” ansa.it, 14 settembre 2024 “Il futuro del carcere è un po’ fuori dal carcere: misure alternative e percorso rieducativo per noi di FI sono un punto di arrivo assolutamente ineliminabile e fondamentale”. Lo ha detto il sottosegretario e viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto al termine oggi di una visita nei distretti giudiziari di Pordenone e Trieste. Sisto si è soffermato sul fatto che il “sovraffollamento è il problema di tutte le carceri italiane. Siamo convinti che smaltendo i tossico-dipendenti verso comunità terapeutiche ad hoc sia possibile avere un grande sollievo; snellendo, come il decreto carceri ha fatto, le procedure dei giudici di sorveglianza, anziché collegiali monocratici, bloccando la carcerazione automatica per gli ultrasettantenni e di coloro che sono a casa per motivi di salute, insomma meccanismi variegati, si possa avere un beneficio”. Invece, “siamo contrari ad automatismi come amnistia, indulto, liberazione anticipata indiscriminata perché se esco dal carcere perché non c’è posto, la recidiva è fatale, si ritorna a delinquere. Invece i percorsi rieducativi vanno ripristinati con particolare attenzione dando al giudice la responsabilità della misura alternativa e soprattutto dando una alternativa al detenuto. Il detenuto deve uscire dal carcere migliore o quantomeno non peggiore di quando è entrato”, ha spiegato. Video, colloqui e regole: il lavoro difficile dei Garanti delle carceri di Daniela De Robert* Il Domani, 14 settembre 2024 Occorre conoscere norme, regole e prassi dei diversi luoghi di detenzione. Le nostre visite potevano durare anche cinque giorni in uno stesso istituto. I luoghi di privazione della libertà sono dei luoghi intrinsecamente opachi e spesso bui. Contesti in cui difficilmente l’occhio esterno può entrare, osservare, frugare, analizzare. È per questo che il Consiglio d’Europa prima e le Nazioni unite poi hanno previsto degli organismi di vigilanza con il potere di entrare in essi in qualsiasi momento senza autorizzazione e avendo accesso a ogni ambiente, ad avere colloqui riservati - e quindi non ascoltati - con le persone ristrette o trattenute e ad accedere a tutta la documentazione relativa, sia quella scritta sia quella video, come le telecamere di sorveglianza. Tre poteri forti per garantire l’efficacia del controllo, per illuminare gli angoli bui, quelli più isolati e quindi maggiormente a rischio di possibili abusi. Tre poteri a cui si aggiunge un quarto: quello di formulare raccomandazioni alle istituzioni, che queste ultime sono tenute a ottemperare o a cui devono rispondere in maniera motivata. Ed è su questo modello che l’Italia ha istituito nel 2013 il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, divenuto operativo nel 2016 con la nomina del primo collegio a tre (un presidente e due componenti), organismo che l’Italia ha indicato anche quale Meccanismo nazionale di prevenzione, cioè quale espressione nazionale del Comitato contro la tortura delle Nazioni unite. Visitare, dunque, è il verbo attorno a cui si costruisce l’intera Authority. Visitare in maniera approfondita, sapendo cosa cercare, dove indirizzare lo sguardo, come verificare, mettendo a confronto la documentazione con le informazioni raccolte e con quanto osservato direttamente. Visitare non solo per vedere ciò che appare, ma per riuscire a intercettare possibili criticità a rischio di divenire un problema di sistema. Visitare per prevenire che gli eventuali abusi riscontrati si diffondano, alimentando una cultura non rispettosa dei diritti. Visitare al di là delle situazioni conclamate, illuminando luoghi troppo silenziosi. In questi giorni si stanno giustamente moltiplicano le visite in carcere da parte di parlamentari, associazioni professionali, realtà del Terzo settore, magistrati di sorveglianza. Visite certamente importanti per constatare le condizioni degli istituti, spesso di degrado, ma non funzionali a un’azione preventiva di vigilanza. Perché, per un organismo di vigilanza, visitare, per come è definito questo compito in ambito internazionale, vuol dire molto altro. Soprattutto non è un atto che si esaurisce in poche ore. È un processo, che inizia dalla individuazione dei luoghi da visitare, per proseguire con la ricognizione di dati e informazioni su di essi, che richiede una preparazione accurata e l’individuazione ragionata dei componenti la delegazione affinché siano presenti diverse competenze. Perché quando si entra occorre sapere cosa guardare, cosa cercare, conoscere i nodi in cui si possono annidare situazioni critiche, gli interstizi in cui l’illegittimità si nasconde. Occorre conoscere norme, regole e prassi dei diversi luoghi di privazione della libertà, dalle carceri, ai centri di permanenza per il rimpatrio, alle camere di sicurezza dei posti di polizia, alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ai Servizi psichiatrici di diagnosi e cura e altri ancora. Sapere cosa guardare - C’è poi la fase della visita vera e propria, che richiede tempi ampi per verificare, confrontare la documentazione con quanto rilevato dall’osservazione diretta e dai colloqui effettuati, per mettere insieme ciò che i diversi componenti la delegazione hanno riscontrato, per dialogare con il personale che vi lavora. Visitare un luogo vuol dire entrare nelle stanze, nelle celle, nelle camere di sicurezza, nei moduli dei centri di permanenza per il rimpatrio, vuol dire farsi aprire qualsiasi locale si ritenga utile all’esame complessivo di quel luogo, vuol dire osservarne i dettagli, le sale comuni, le docce, i bagni, il cibo, le possibili tracce di violenze, vuol dire analizzare i registri, la documentazione scritta e se necessario anche quella video e incrociarli tra loro. Vuol dire parlare con le persone ristrette senza fretta, ascoltandole, proteggendole dal rischio di ritorsione, entrando con rispetto nel luogo della loro vita anche se è una cella, superando diffidenze e paure, evitando ogni rischio di manipolazione, verificandone la congruità e la credibilità. Da Garante nazionale, le nostre visite potevano durare anche quattro/cinque giorni in uno stesso istituto, con delegazioni anche di dieci persone con specializzazioni diverse. Visite ripetute in un medesimo istituto per approfondire ciò che era ben nascosto. Visite non annunciate per osservare, in un contesto non preparato, la quotidianità delle criticità. Infine, la visita si sviluppa in un rapporto scritto. Perché senza rapporto le visite restano mute e non producono cambiamenti. È da esso, infatti, che si apre un dialogo con le istituzioni coinvolte, dialogo talvolta serrato e difficile, altre volte più lineare. È attraverso il rapporto che la società civile e chiunque sia interessato può conoscere attraverso gli occhi dell’organismo di vigilanza ciò che accade in tali luoghi, una volta che sia stato reso pubblico insieme alle eventuali osservazioni dell’amministrazione. Un organismo di garanzia quando visita non si limita solo a entrare in un luogo privativo della libertà e a vederne alcune parti, tanto meno accompagnato da chi gestisce la struttura. Non si accontenta di un’occhiata veloce. Non ha fretta di passare alla visita successiva. Colpisce, pertanto, che l’attuale Garante nazionale abbia comunicato (18 giugno) di aver effettuato, nei primi 145 giorni del mandato, 53 visite di cui 44 a istituti penitenziari, 5 a Cpr e 4 camere di sicurezza, cioè una quasi ogni tre giorni. Visite evidentemente brevi con delegazioni essenziali, quasi sempre il solo collegio, e ancora prive di un rapporto reso pubblico. Sul significato delle visite è, quindi, bene ragionare e confrontare le esperienze anche degli organismi analoghi di altri Paesi. Preparazione, approfondimento, con uno sguardo che vada oltre la legalità e la regolarità per evidenziare situazioni illegittime sotto il profilo dei diritti umani. Questo è il compito degli organismi di garanzia. Un lavoro complesso, indispensabile, fondato su indipendenza e competenza. *Già componente del Collegio del Garante nazionale dei detenuti Detenuti stranieri, perché è difficile rimandarli nel proprio Paese garantedetenutilazio.it, 14 settembre 2024 Oltre il 70 per cento è in attesa di giudizio o con condanne inferiori ai cinque anni. Tra le diverse misure che vengono ciclicamente ipotizzate per ridurre la popolazione detenuta del nostro Paese, vi sarebbe anche quella di far scontare la pena detentiva nel Paese d’origine degli stranieri ristretti, ma anche soltanto dall’analisi dei numeri, emergono evidenti problematiche di difficile soluzione. Innanzitutto, il gran numero di persone in attesa di giudizio e, in secondo luogo, la forte presenza di persone condannate per reati che comportano pene brevi sembrerebbero poco compatibili coi tempi delle eventuali procedure necessarie per il loro instradamento: nel complesso, tra imputati in attesa di giudizio e condannati a pene inferiori a cinque anni, si tratta del 75% dei 2.600 circa detenuti stranieri nel Lazio e del 70% degli oltre 19.500 presenti in Italia. Considerando che negli istituti penitenziari di tutta Italia i cittadini stranieri corrispondono al 31,5% dell’intera popolazione detenuta la possibilità di intervenire con misure che possano prevedere un loro trasferimento nei paesi d’origine potrebbe riguardare poco più del 10% dell’intera popolazione carceraria. Naturalmente, questa non è l’unica barriera. Vi sono altre significative problematiche di ordine giuridico e geopolitico che rendono davvero arduo considerare fattibile ed efficace una azione di questo genere, ma vediamo le dimensioni e alcune principali caratteristiche della popolazione detenuta straniera attraverso i numeri pubblicati periodicamente dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Alla data del 31 agosto 2024 i detenuti stranieri presenti negli istituti di pena in Italia hanno raggiunto la cifra di 19.507 unità, 1.097 in più rispetto alla stessa date dello scorso anno per un incremento del 5,9%, leggermente superiore alla variazione del 5,7% di tutta la popolazione detenuta. Chi sono gli stranieri nelle carceri del Lazio - Nel Lazio i detenuti stranieri presenti sono 2.609 corrispondenti al 37,9% della intera popolazione detenuta. Risultano in crescita rispetto a fine agosto 2023 di 285 unità e in proporzione decisamente superiore (+12,1%) a quanto si è verificato nell’insieme delle persone rinchiuse negli istituti di pena della regione (+9,2%). Nella nostra regione quindi l’incidenza dei detenuti stranieri si conferma stabilmente superiore alla media nazionale. Il Lazio, comunque, non figura tra le regioni con le maggiori incidenze di detenuti stranieri. Le concentrazioni più elevate si riscontrano in tutte le regioni nel Nord Italia in Trentino Alto Adige (61,2%), Valle d’Aosta (60,7%) Liguria (52,9%) Veneto (51,0%), Emilia Romagna (49,5%), Friuli Venezia Giulia (47,4%) e Lombardia (45,4%). Per quanto in particolare riguarda la nostra Regione sono piuttosto importanti i dati e le differenze che si verificano nei singoli istituti di pena. Infatti, le percentuali sono decisamente diverse e spiccano in maniera particolare le situazioni di Rieti, Regina Coeli e Civitavecchia dove i detenuti stranieri sono poco più o poco meno della metà di tutti i presenti. Un altro importante e aspetto, già sopra richiamato, riguarda la posizione giuridica e le pene da scontare degli stranieri in carcere. Attualmente nel Lazio i detenuti stranieri in attesa di giudizio sul totale sono più di uno su tre (35,1%)% a fronte di un’incidenza di italiani, che si trovano nella stessa condizione, del 27,5%. In tutta Italia le incidenze delle persone in attesa di giudizio sono rispettivamente del 29,3% per gli stranieri e del 23,7% per gli italiani. Oltre a presentare incidenze maggiori di detenuti in attesa di giudizio, anche i detenuti stranieri che devono scontare pene inferiori ai cinque anni sono in proporzione più elevata (nel Lazio 39% in tutta Italia 40%) rispetto agli italiani (nel Lazio 35% in tutta Italia 29%). Sono da considerare con attenzione anche le differenze di età: l’età media dei detenuti stranieri è significativamente inferiore rispetto a quella degli italiani (31,4 vs. 42,7 in tutta Italia, 39,9 vs. 45,3 nel Lazio. Bisogna anche sottolineare che i detenuti stranieri presenti con meno di 35 anni sono il 44% in Italia e il 39% nel Lazio. Il quadro che si viene a configurare è quello di un segmento di popolazione ristretta composto soprattutto da giovani in attesa di giudizio o con condanne relativamente lievi. Infine, guardando alle nazionalità e alle aree di provenienza, complessivamente nel Lazio sono presenti detenuti appartenenti a 108 nazionalità diverse, ma gli appartenenti alle prime dieci più numerose costituiscono il quasi due terzi: il 65%. In tutta Italia le nazionalità presenti sono 144 e i detenuti delle prime dieci sono il 72%. Nel Lazio i detenuti di nazionalità rumena costituiscono il 18,2% della popolazione detenuta sono invece l’11,3% a livello nazionale. Al secondo posto per numerosità i cittadini marocchini (sono il 9% sul totale nel Lazio e ma il 21,3% in tutta Italia e costituiscono la prima nazionalità per numero di presenti sull’intero insieme degli istituti penitenziari italiani). Al terzo posto i cittadini tunisini che fanno registrare una percentuale del 7,6%% nel Lazio mentre in Italia costituiscono il 10,8%. Quanto alle ripartizioni per macro area geografica di provenienza, nel Lazio i cittadini nord africani sono il 26%, mentre in Italia sono il 40%. Un altro dato interessante riguarda le percentuali di cittadini dell’Unione Europea che sommati a inglesi e nordamericani sono, nel Lazio, 618 e corrispondono al 24% degli stranieri presenti. In tutta Italia il loro numero è paria a 2.834 (il 15% degli stranieri detenuti). Ai boss niente interviste. Chi vuole censurarmi? di Massimiliano Iervolino L’Unità, 14 settembre 2024 Il Dap mi ha negato il permesso di sentire alcuni detenuti di Sulmona. No anche alla richiesta di intervistare dei collaboratori di giustizia. Perché, ministro Nordio? Autorizzazione negata. Questa è la risposta che mi è stata data (per ora solo a voce) dall’ufficio stampa del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) alla richiesta avanzata dal sottoscritto di intervistare una serie di persone detenute all’interno del carcere di Sulmona. Motivazioni del diniego? Zero. Nessun riscontro. È invece il silenzio che si cela attorno alla presentazione di una istanza con la quale ho chiesto l’autorizzazione per incontrare diversi collaboratori di giustizia. Infatti nonostante siano passati molti mesi e diverse sollecitazioni, la Commissione centrale - ex art 10 legge 82/1991, deputata a dare o meno il nulla osta - non ha mai risposto. Ancorché il Servizio Centrale di Protezione del Dipartimento della Pubblica Sicurezza abbia dato parere favorevole. Sia l’una che l’altra richiesta sono state avanzate al fine di poter compiere una indagine su come la criminalità organizzata sia cambiata dagli anni 70 con il traffico degli stupefacenti. Un passaggio importante nella storia d’Italia che nessuno ha mai approfondito. Eppure con l’avvento della droga i clan realizzarono un salto di qualità notevole giacché da quel momento in poi aumentarono esponenzialmente gli introiti e con essi il potere, la brutalità e i morti. Difatti tra la fine degli anni 70 e gli inizi degli anni 80 in Italia si contarono più di 1.000 omicidi. Un numero spaventoso. Vittime della seconda guerra di mafia e della prima di camorra. Quindi qualcosa di importante accadde in quegli anni, la mafia siciliana ne fu la protagonista assoluta, fiutando l’affare cambiò i suoi traffici passando da quello delle sigarette all’eroina: da quel momento in poi nulla sarà come prima. Mi sto occupando di questa metamorfosi. Un processo irreversibile favorito dalle politiche proibizioniste. Profitti elevatissimi tali da - nel caso di Totò Riina - disporre dei mezzi e della capacità di dichiarare guerra allo Stato. Una vera e propria follia terroristica nutrita dai miliardi del narcotraffico e messa in campo non a caso da coloro i quali, i corleonesi, venivano chiamati in modo dispregiativo “i peri incritati” (piedi sporchi di fango) vista la loro provenienza povera e rurale. Buscetta di tutto questo ne era a conoscenza e rivolgendosi a Falcone esclamò: “per sconfiggere la mafia deve sconfiggere il traffico di droga, se gli toglie quella Riina torna a fare o’ pastore.” Sono quelli gli anni centrali di questa metamorfosi del male. Il primo ad accorgersi di questo mutamento fu Boris Giuliano, il quale scoprì nella seconda metà degli anni 70 il traffico internazionale di stupefacenti dalla Sicilia a New York. La cosiddetta Pizza Connection: raffinerie di eroina in Provincia di Palermo e valigie a doppio fondo piene di soldi che arrivavano dagli Stati Uniti all’aeroporto di Punta Raisi. Indagine che costò la vita allo stesso Giuliano, ammazzato dai corleonesi il 21 luglio 1979 a Palermo. Gaspare Mutolo delineò i guadagni di un mafioso dell’epoca collegati ai due diversi traffici illeciti: “Con le sigarette ci doveva vivere tutta la mafia, guadagnavo 2 milioni di lire al mese, più c’era qualche estorsione e qualche rapina. Dopo invece quando si entrò nella droga uno poteva guadagnare 10, 20, 30, 40 o 50 milioni di lire al mese. Dal 1981 in poi, ho controllato uno dei traffici più importanti, grazie alla conoscenza che avevo fatto con Koh Bak Kin, da qual momento non potevo fare i conti, guadagnavo 100 milioni a settimana od ogni due giorni”. All’epoca i corleonesi inviavano negli Usa circa 500 kg di eroina per ogni carico, una spedizione costava intorno ai 6 milioni e mezzo di dollari, ne ricavavano circa 160. Un’enormità. Dei tanti libri, documentari e film che sono stati prodotti per raccontare quegli anni, nessuno a mio avviso ha dato centralità al traffico internazionale e nazionale degli stupefacenti. Eppure c’è un prima e un dopo. Basta contare i morti e gli arresti. Quando in Italia (ma non solo) scoppiò il boom dell’eroina tutto cambiò. In primis le mafie. Un punto di non ritorno. Per questo ho deciso di approfondire l’argomento. Una ricerca storica, appunto. Raccontare la metamorfosi del male attraverso l’aiuto di libri, sentenze, testimonianze processuali, relazioni della commissione antimafia e tanto altro. Ma anche tramite interviste con magistrati e giornalisti dell’epoca, uomini delle forze dell’ordine e politici nazionali che ai tempi dei fatti ricoprivano ruoli di primo piano. Tuttavia questa ricerca rimarrebbe monca senza poter ascoltare i veri protagonisti: i boss. Chi meglio di loro - ormai tutti ottantenni e senza nessun fatto ancora processualmente rilevante - può raccontare cosa era il crimine prima e dopo l’ingresso della droga nel loro core business? Chi meglio di loro può dire una parola chiara (e definitiva) sul proibizionismo e sull’antiproibizionismo? Sono stato segretario di Radicali italiani per diversi anni, sono stato consulente della commissione ecomafie per più di una legislatura, perché vietarmi il colloquio con questi detenuti e collaboratori di giustizia? Chi ha paura della verità? Magari qualche parlamentare può porre queste domande direttamente al ministro Nordio e al ministro Piantedosi. Perché no? Che orgoglio vedere la commissione d’esame commossa per le mie risposte corrette di Gioacchino Calabrò* L’Unità, 14 settembre 2024 Sono nato il 2 giugno 1946, proprio il giorno in cui è nata la Repubblica italiana, in un piccolo paese del profondo sud. Da bambino, quando frequentavo la scuola elementare, avevo un “problema” con un maestro, poiché sbagliavo i verbi e di conseguenza venivo bacchettato. Per ripicca, quando vedevo posteggiata la sua auto, gli bucavo le gomme. Alla fine, l’unica cosa che ho imparato sono state le ritorsioni nei suoi confronti. Allora, in Sicilia c’era una grande ignoranza e tanta miseria. Chi conosce Danilo Dolci sa di cosa parlo. Lo scrittore si è fermato a Trappeto, un luogo situato sulla costa nel golfo di Castellammare. Racconta di fame, violenza, povertà, mafia e degrado. A scuola andavo male anche perché quando tornavo a casa non avevo tempo per studiare. Andavo a lavorare per imparare il mestiere e all’età di 13 anni guadagnavo come un artigiano di 30. Dopo aver fatto il militare mi sono aperto un’attività tutta mia e la mia fidanzata, poi diventata mia moglie, stava in ufficio e teneva la contabilità. Andava tutto bene. Poi sono stato attratto dal canto ingannevole delle Sirene e sono stato arrestato all’età di 39 anni per i gravi reati commessi nell’ambito dell’associazione mafiosa. Cosicché ho rovinato la mia vita, quella dei miei cari e, ancora più grave, quella di molte vittime innocenti. Quando mi hanno arrestato avevo solo la quinta elementare. Per scrivere una lettera consumavo un intero block notes. All’inizio mi è stato applicato il regime dell’articolo 90, poi quello del 41 bis, dove sono rimasto per vent’anni. Senza avere la possibilità di frequentare la scuola, ho cercato in tutti i modi di migliorare la mia cultura leggendo tutto ciò che mi capitava e come antidoto alla pazzia scrivevo lettere a destinatari immaginari che poi strappavo. Dopo vent’anni di questo “tortuoso” regime, mi hanno declassificato e sono stato trasferito nel carcere di Biella. La prima cosa che ho chiesto alla direttrice è di andare a scuola. Qui nasce la mia seconda esperienza scolastica. Non c’era un corso di terza media, ma c’erano delle bravissime professoresse volontarie che mi hanno preso per mano. Pagina dopo pagina, ho apprezzato il fuoco e l’energia che sprigiona un libro. L’ho scoperto con la bontà, l’altruismo e la tenacia delle insegnanti che mi hanno istruito fino a superare, con ottimi voti, l’esame della terza media. Ero orgoglioso, non tanto per me, che ero un ergastolano ostativo, quindi col “fine pena mai”, ma per loro che piangevano di gioia per le risposte sensate che davo alla Commissione. È stato questo il primo passo che ha determinato un’apertura mentale. Avevo spezzato le mie catene. Poi sono stato trasferito nel carcere di Opera. Anche a Milano la prima cosa che ho chiesto era poter studiare. Prima che arrivasse questa possibilità, sono passati quattro anni. Comunque, anche qui ho scoperto un filone d’oro nello studio, perché apre le porte alla mente, è una luce che giorno dopo giorno illumina sempre più. I professori, oltre alle proprie discipline, hanno insegnato molto di più, mi hanno fatto capire cos’è il bene e il male, cos’è la vita e l’etica. Sono stati - e lo sono ancora - una fonte di sapere e di amore per il prossimo. Mi hanno trasformato in una persona consapevole. Oltre alla scuola, frequento il corso di lettura “fine pena ora” ogni giovedì. Raramente salto qualche incontro, perché oltre alla lettura ci ritrovo importanti insegnamenti di vita, di comportamenti, di armonia, di apertura mentale, di giustizia riparativa. Faccio anche teatro. Non avrei mai pensato di esibirmi davanti a un pubblico, eppure ho superato anche questo limite. Professori, tanti volontari, insieme agli educatori del carcere, mi hanno inculcato il diritto. Io sapevo che esiste una Costituzione, ma non avevo mai letto un articolo. La professoressa di diritto, Clementina Staiti, piano piano, mi ha fatto capire il grande lavoro dei nostri padri e madri della Costituzione, che si sono messi insieme con rispetto reciproco e lasciandosi alle spalle molti pregiudizi, per scrivere questa stupenda carta dove ogni parola è stata cesellata con un lavoro certosino. Dopo la maturità, nel 2013, i professori mi hanno voluto nel corso di amministrazione finanziaria e marketing. Pochi giorni fa ho ricevuto la pagella con quasi tutti dieci. Alla fine di questo percorso scolastico ho presentato un permesso di poche ore, dato che da 25 anni non faccio colloqui, perché i miei cari non se la sentono di entrare in carcere. Dopo due anni di istruttoria è stato dichiarato inammissibile, perché mancava la relazione del carcere. Poi ne ho presentato un altro e anche questa volta lo hanno dichiarato inammissibile. La sintesi era stata redatta dall’Istituto, però mancava il parere della criminologa. Chiedo a voi tutti, cari amici: la tortura è solo la fustigazione? Oppure, anche questo continuo rimpallo, può essere una forma di tortura? Alle domande innocenti di tanti studenti dei corsi che ho frequentato, per la prima volta, sono riuscito a rispondere assumendomi in toto le mie responsabilità, cosa che avevo negato ai giudici nei processi. Con i miei 36 anni di pena espiata più altri 5 di liberazione anticipata, poiché non ho mai preso un rapporto, supero i 40 anni di carcerazione. Oggi, ho quasi ottanta anni. Il rigetto di m piccolo permesso non riguarda più me, quello che sono oggi, ma quello che sono stato. *Ergastolano detenuto a Opera La nuova legge sulla sicurezza e l’impostura garantista di Forza Italia di Carmelo Palma linkiesta.it, 14 settembre 2024 Il partito di Tajani ha anticipato per tutta l’estate una svolta liberale e poi è capitolato, cedendo a un provvedimento manettaro. Nel teatrino dell’assurdo della politica italiana, la riscossa dei diritti annunciata da Forza Italia ha coinciso con la più completa capitolazione degli azzurri proprio sui temi per cui Tajani pareva aver lanciato il cuore oltre l’ostacolo della rendita securitaria: la galera, con l’approvazione muta di un decreto carceri senza verità e senza dignità, scritto sotto dettatura del generalissimo dei penitenziari italiani, il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove e lo ius scholae, con l’immediata rottamazione della proposta raccontata in lungo e in largo per tutta l’estate - cittadinanza dopo dieci anni di studio, con l’assolvimento dell’obbligo scolastico - appena si è trattato di votarla e non solo di chiacchierarne per rinfrescare il blasone liberale. Il percorso si è perfettamente compiuto questa settimana, con la disciplinatissima approvazione, articolo per articolo, da parte di Forza Italia di una legge sulla sicurezza retequattrista, che sembra distillata, per non dire percolata, dalle trasmissioni che negli ultimi anni hanno miscelato le più ignobili ideologie d’ordine e il più untuoso garantismo galantomista, per raccontare un’Italia a misura delle passioni tristi del pubblico, in cui la brava gente è sia vittima della giustizia che dei delinquenti e in cui quindi, ben più delle carriere dei magistrati, bisogna razzisticamente separare il diritto penale del nemico da quello dell’amico, quello per i cattivi da quello per i buoni, che è esattamente come dire quello per i neri da quello per i bianchi e non solo per metafora. Il pallottoliere di nuovi reati, aggravanti e aumenti di pena segna - li ha contati Ermes Antonucci su Il Foglio - il numero favoloso di ventiquattro e i destinatari degli strali di questo legislatore sussidiario di Mario Giordano e Paolo Del Debbio sono per lo più, ovviamente, i borseggiatori, gli squatters, gli zingari e soprattutto le zingare (anzi, direbbe Matteo Salvini, le “zingaracce”), gli abusivi, i No Tav e gli Ultima Generazione e ovviamente i detenuti, per i quali si è ritagliato il reato di rivolta passiva. Quando si dice: la fantasia al potere. A parte quest’ultimo, i nuovi reati introdotti dal provvedimento non sono però affatto nuovi, nel senso che riguardano condotte già illecite, per le quali la lamentata assenza di contrasto dipende da ragioni che non hanno nulla a che fare con una presunta negligenza o corrività buonista. In questo catalogo di scemenze e oscenità, che è l’ennesima legge sulla sicurezza, non domina tanto il tradizionale presupposto panpenalistico, per cui un diritto è tale solo se la sua garanzia è affidata a una fattispecie incriminatrice e lo è solo secondo la misura della pena stabilita per la corrispondente condotta illecita. Domina soprattutto una logica volgarmente pubblicitaria, a un tempo imbrogliona e sparagnina, che punta al massimo risultato di consenso con il minimo del costo organizzativo e della responsabilità politica rispetto ai risultati attesi. Il problema delle occupazioni abusive degli immobili, ad esempio, non trova alcuna soluzione nell’innalzamento del massimo edittale della pena a sette anni; la troverebbe, più concretamente, se si riuscisse a restituire il possesso dell’immobile occupato al legittimo proprietario o assegnatario nel giro di poco tempo, del tutto a prescindere dal tempo che, sulla carta, l’occupante abusivo sarebbe costretto a trascorrere in galera. Mentre però questa seconda strada impone una responsabilità di risultato - di cui il Governo potrebbe essere chiamato a rispondere - molto meglio imbrogliare la gente millantando la miracolosa forza deterrente di una pena esemplare. Allo stesso modo: che senso ha prevedere, come si è fatto, una ridicola aggravante ferroviaria, stabilita per i reati compiuti nelle stazioni e sui convogli? Solo quello di non rispondere dei problemi di vigilanza, promuovendo l’idea che la domanda di giustizia e di sicurezza si esaurisca nella pretesa di un risarcimento espiatorio e nel sacrificio del reprobo. Idea che ovviamente autorizza le fughe nella giustizia fai-da-te e nella trasformazione della legittima difesa da scriminante, cioè causa di giustificazione, a vero e proprio esercizio di giustizia. E in tutto questo, che ha fatto il ministro Carlo Nordio? Quello che fa di solito: niente. E Forza Italia? Ha rinnovato per l’ennesima volta l’impostura garantista degli azzeccagarbugli del taglione. Caporalato, presto nuove misure in Consiglio dei ministri di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2024 Melillo: “L’impresa criminale si sviluppa secondo gli stessi parametri di quella legale”. Il provvedimento era stato annunciato dopo la morte di Satnam Singh, il bracciante dell’Agro Pontino abbandonato con il braccio amputato e lasciato morire lì. Dopo tre mesi, il governo si prepara a presentare un nuovo pacchetto di interventi. Norme in via di perfezionamento, da portare in Consiglio dei Ministri forse già la settimana prossima. La prospettiva, soprattutto, il rafforzamento dell’opera di prevenzione. Parola d’ordine, sempre più, anche delle misure dell’autorità giudiziaria nel contrasto allo sfruttamento del lavoro. La lotta al caporalato e a “tutte quelle condizioni di irregolarità che impoveriscono il mercato del lavoro” è stato anche uno dei temi affrontati nella riunione ministeriale G7 a Cagliari, ha detto la ministra del Lavoro e delle Politiche sociali, Marina Calderone. Come per le mafie, da tempo in Italia “il caporalato non è più relegato nelle aree del Mezzogiorno”, denuncia la presidente della Commissione parlamentare antimafia, Chiara Colosimo. Nel messaggio inviato all’Università Statale di Milano - a conclusione della tre giorni di studio su “mafia e lavoro” promossi da Cross, Osservatorio sulla criminalità organizzata, coordinato dal professor Nando dalla Chiesa - ricorda che “eventi come il Giubileo o i giochi Milano-Cortina impongono uno straordinario impegno, per evitare le infiltrazioni criminali” e rivolge l’attenzione sul ruolo degli ispettori e sulla “crescente domanda di manodopera”. Un punto quest’ultimo cruciale, in un sistema di sempre maggiore esternalizzazione e di crescente domanda di flessibilità, con le mafie divenute operatori economici in grado di offrire servizi. È allora nella filiera dei subappalti e di cooperative dalla vita breve, “per riuscire a sfuggire alle verifiche, che più facilmente si innestano fenomeni di caporalato e di criminalità organizzata”, tratteggia Alessandra Dolci, coordinatrice della Direzione distrettuale antimafia. A Milano si sono succedute negli ultimi anni inchieste che hanno portato alla luce in più ambiti contesti di sfruttamento del lavoro, di vulnerabilità, come di minacce. “Ma le denunce sono aumentate”, riflette. Le risposte alle inchieste sono state però anche i protocolli per evitare che aziende tornate nella legalità - dopo l’intervento del Tribunale con l’amministrazione giudiziaria - si ritrovino poi poste ai margini del mercato. “Dopo quello sulla logistica con la creazione di una piattaforma, presto un nuovo protocollo sarà firmato in Prefettura anche per il settore della moda”, anticipa Dolci. Nel “mercato drogato” da dinamiche illecite e criminali “l’insolvenza e la bancarotta diventano allora fattori da monitorare”. A complicare ulteriormente la comprensione dei fenomeni, la consapevolezza, per dirla con il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Giovanni Melillo, che sempre più spesso “l’impresa criminale si sviluppa secondo gli stessi parametri di quella legale e a volte - ammette - il giudice annaspa coni vecchi strumenti”. Area criminale e area grigia sempre più contigue, in una realtà come quella di Milano, “che fa gola con i suoi investimenti”, premette il sindaco Beppe Sala, che sottolinea la necessità di “tenere alta la guardia” nei prossimi grandi eventi, come sui lavori agli scali ferroviari. Vallanzasca “disorientato” e “senza più legami con la criminalità”. Ecco le ragioni del sì all’uscita dal carcere di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 14 settembre 2024 Il bandito degli anni 70-80 sarà trasferito in Veneto, in una Rsa dedicata a pazienti con demenze. Il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha dato il via libera definitivo: “La sua pericolosità è attenuata”. “Il peggioramento della malattia neurovegetativa” di Renato Vallanzasca ormai “implica la sua mancanza di autonomia”, mentre la “pericolosità sociale risulta sostanzialmente attenuata in considerazione tanto delle attuali condizioni di salute debilitanti, quanto della risalenza nel tempo dei fatti e della regolare condotta tenuta nel corso dei permessi premio ultimamente usufruiti”. Per questo il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha disposto il differimento della pena, in regime di detenzione domiciliare una “Rsa-struttura residenziale per persone affette da Alzheimer/demenza”, per il bandito degli anni 70-80 in carcere da 52 dei suoi 74 anni per scontare quattro ergastoli per omicidi, rapimenti, rapine e evasioni. Negli scorsi giorni l’Ambulatorio di Psichiatria del servizio di Medicina penitenziaria dell’Asst San Paolo, in una relazione ai giudici, aveva rappresentato che “la condizione più adeguata alla situazione di salute del paziente” sarebbe stata quel tipo particolare di Rsa, perché il suo attuale stato “rende difficile la compatibilità con il regime carcerario, anche per la necessità di assistenza sempre più intensa e continuativa”. Tanto che anche il rappresentante della Procura Generale, Giuseppe De Benedetto, aveva concluso per l’accoglimento dell’istanza dei legali Corrado Limentani e Paolo Muzzi. I medici evidenziavano come a causa del progredire del decadimento cognitivo il detenuto avesse “perso completamente il controllo” della propria quotidianità, fosse “assolutamente non in grado di badare” a sé, “disorientato nel tempo e nello spazio”, “a tratti in sofferenza per non riuscire ad esprimere con il linguaggio quello che si produce nel suo pensiero”: al punto che ormai era “visibile lo stato di prostrazione” di quanti nel carcere di Bollate lo aiutano, “non formati e preparati per la gestione di un paziente con queste criticità”. Ora il Tribunale di Sorveglianza (collegio presieduto dalla giudice Carmen D’Elia con a latere Benedetta Rossi) constata che Vallanzasca, “in una logica di bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e alle esigenze di sicurezza della collettività”, da un lato “necessita di aiuto costante e continuo negli atti della vita quotidiana (mangiare, vestire, assunzione della terapia)” con “cure ed assistenza altamente specialistica non praticabili in ambito carcerario”; e dall’altro lato “la sua pericolosità sociale appare ridimensionata” per il tanto tempo passato dagli ultimi reati e l’assenza di legami con la criminalità. La misura diventerà operativa nei prossimi giorni, una volta risolte le questioni burocratiche legate al trasferimento di Vallanzasca (sinora detenuto nel carcere milanese di Bollate) sotto la competenza delle autorità sanitarie-penitenziarie del Veneto, dove si trova la Rsa che lo prenderà in cura. Quegli assurdi “no” alle mie continue richieste di semilibertà per Vallanzasca di Davide Steccanella* Il Dubbio, 14 settembre 2024 La difesa di Vallanzasca, durata per quasi tre anni, è stata la più cocente e avvilente delusione professionale della mia “modesta” carriera, al punto che ancora oggi, quando ci penso, mi provoca una grande tristezza e cerco vilmente di rimuoverla dal mio passato e mi fa fatica anche solo parlarne, ma credo che vada fatto, visto che tutti i media stanno seguendo l’ultima notizia, che ci dice che ormai, dopo più di mezzo secolo in gabbia, è un detenuto affetto da demenza senile tale da richiederne il ricovero in una struttura in grado di affrontare la conclamata patologia. L’ultima volta che l’ho visto eravamo nell’aula del Tribunale di Sorveglianza di Milano, era il 2020 in piena emergenza Covid, quel giorno lui era ancora (quasi) perfettamente lucido e io, al termine del mio intervento, dissi ai cinque giudici che, se avessero negato per l’ennesima volta a un ultrasettantenne, il cui ultimo delitto vero (non certo il tentato furto di un paio di mutande da 10 euro!) risaliva all’epoca in cui io manco andavo all’università, qualsiasi spiraglio a quella cella in cui aveva trascorso quasi l’intera esistenza, avrei dismesso il mandato, non solo perché a quel punto sarebbe stato del tutto inutile, ma anche perché non volevo più partecipare con il mio avallo di soggetto legittimato a quello che ritenevo fosse un vero e proprio scempio anche dello stesso dettato costituzionale. Speravo anche, ingenuamente, di sollevare con quel gesto un “problema” che sarebbe dovuto incombere su chi lo stava giudicando, ma invece arrivò il diniego in cui si leggeva persino della necessità di un “percorso graduale” (sic!), senza considerazione alcuna per le relazioni più che favorevoli degli esperti del carcere - in quotidiano contatto con lui da molto tempo - e per la disponibilità ad accoglierlo avanzata da due apprezzate comunità di recupero. Quattro anni fa sarebbe stato ancora in grado di apprezzare il fatto di poter dormire, dopo mezzo secolo, in un letto senza sbarre. Quella decisione mi sembrò a tal punto mortificante da spingermi a motivare la mia rinuncia anche al Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano - persona che stimo - attraverso una nota che riassumeva nel dettaglio tutto quanto accaduto e che avevo raccontato, con dolore, nel capitolo “Gli indifendibili” del libro “La giustizia degli uomini. Racconti di tribunale” (Mimesis Edizioni 2022). La prima richiesta di semilibertà l’avevo avanzata due anni prima sulla base dei risultati positivi di un importante lavoro di equipe degli operatori ed educatori del carcere di Bollate (tra cui il bravissimo dottor Roberto Bezzi), dalla procedura di mediazione facente capo al professor Ceretti e a due cooperative accreditate nell’attività di recupero sociale dei detenuti, “Il Gabbiano” e “Opera in fiore” disposte ad accoglierlo, grazie all’impegno di Cecco Bellosi. Nella loro relazione, a cui aveva dato ampio risalto anche la stampa, si parlava di un “cambiamento profondo, non solo anagrafico, ma intellettuale ed emotivo e frutto di sofferenza che sa emergere in modo autentico e non sovrastruturato e che appare di un livello tale (tenuto conto della persona, della sua storia e del contesto) che non potrebbe progredire con altra detenzione, che potrebbe, di fatto, al contrario sollecitare una nuova chiusura dello stesso”. Quella prima richiesta fu valutata in una prima udienza attraverso una relazione, particolarmente approfondita, del presidente, il quale, dopo aver posto alcune domande al detenuto presente, aveva sostenuto la necessità di acquisire un rapporto disciplinare rispetto a un fatto riportato dai media, disponendo il rinvio a un’udienza successiva. Il rapporto così acquisito attestava che Vallanzasca era stato vittima del sopruso di una guardia, ma, all’udienza seguente, il collegio era completamente mutato. Non si fece più riferimento a quel documento e l’istanza venne rigettata per mancato decorso del termine di cinque anni per la semilibertà (dalle mutande) e perché fu considerato “non certo” il ravvedimento per la liberazione condizionale. E tutto questo sulla base delle dichiarazioni autoassolutorie rese da Vallanzasca, nel corso del processo, in merito al tentato furto delle mutande, sebbene questo fatto - come si poteva leggere nella stessa sentenza di condanna per le mutande - fosse stato definito “di modestissima entità, routinario e del tutto paragonabile agli altri casi di sottrazioni merci che si verificano ogni giorno nei supermercati”. Attesi a questo punto il decorso del tempo utile e l’anno dopo depositai una nuova istanza, arricchita da ulteriori relazioni favorevoli del carcere. Prima dell’udienza fissata terminò però la relazione sentimentale, che durava da oltre dieci anni, tra il mio assistito e la propria compagna, e così, non riuscendo a trovare immediatamente un alloggio alternativo, chiesi al giudice assegnatario un breve rinvio così da reperirne uno. Il rinvio mi fu concesso e, prima della nuova udienza, depositai il documento in cui si garantiva la disponibilità della cooperativa “Il Gabbiano” ad accoglierlo in entrambi i regimi alternativamente richiesti, presso la propria sede, poiché, si leggeva: “Già in passato la nostra cooperativa ha conosciuto il sig. Renato Vallanzasca per la presenza come volontario presso le nostre comunità di Pieve Fissiraga (Lo) e di Calolziocorte (Lc) durante la sospensione pena e nel periodo di semilibertà”. Si precisava inoltre che: “Lo stesso detenuto potrebbe svolgere un’attività a supporto dell’orto biologico che viene coltivato dalla comunità”. A sostegno della richiesta, allegai anche lo specifico programma della “Cooperativa Opera in fiore”. All’udienza, però, nuovo cambio del collegio e, come relatore, un giudice applicato di fuori Milano, il quale ritenne necessario acquisire copia di due sentenze relative a delitti commessi circa quarant’anni prima e rinviata al mese successivo dove ci fu un altro cambio di collegio, la comunicazione della mancata acquisizione delle sentenze richieste e nuovo rinvio al mese successivo. All’ennesima udienza di rinvio, ennesimo cambio di collegio e relatore - dove ci fu chiesto se acconsentissimo alla rinuncia all’acquisizione di una delle due sentenze chieste dal precedente giudice, poiché ritenute, da chi gli era subentrato, non più necessarie. Alla fine, venne letta un’ennesima nuova relazione in cui si diceva che non era sufficiente quanto attestato dalle plurime relazioni positive del carcere, la parola passò al sostituto procuratore generale di udienza, il quale iniziò la sua - per altro brevissima - richiesta di duplice rigetto “sulla base di quanto ho sentito dalla relazione”. Profondamente avvilito per quel faticoso lavoro di anni sottoposto alla continua rotazione di giudici sempre diversi e alle loro difformi valutazioni, presi dunque la parola per dire che era incompatibile con le ragioni che mi avevano spinto a fare l’avvocato tenere in carcere per tentato furto di mutande, dopo cinquant’anni, un settantenne, e che, pertanto, quello sarebbe stato l’ultimo atto che avrei compiuto nell’interesse del mio assistito, anche perché non sarei stato più in grado di spiegargli ciò che neppure io riuscivo a comprendere, e così, quel giorno stesso, rinunciai al mandato inviando una nota riepilogativa al presidente. Bravissimi i due colleghi che al mio posto si sono presi a carico la cosa impegnandosi per i successivi quattro anni, fino ad arrivare ad oggi, quando, come temevo purtroppo sarebbe accaduto quattro anni fa, non occorre più spiegargli nulla, perché Renato Vallanzasca, il simbolo del male universale, non è più in grado di capire nulla. Complimenti allo Stato italiano e all’amministrazione della sua (in)giustizia. *Avvocato del Foro di Milano “Ben undici periti hanno certificato i disturbi psichici di Benno. Perché ignorarli?” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 settembre 2024 I difensori parlano dopo l’ergastolo per il ragazzo che ha ucciso i genitori. L’ergastolo per Benno Neumair è ora definitivo: la Cassazione ha infatti confermato due giorni fa la condanna alla massima pena per il 33enne bolzanino per il duplice omicidio e l’occultamento dei cadaveri dei genitori Laura Perselli e Peter Neumair. Il delitto avvenne il 4 gennaio del 2021, quando il giovane uccise i genitori per poi gettarli nel fiume Isarco. Neumair era stato condannato con lo stesso verdetto sia in primo grado, nel novembre 2022, che in appello nell’ottobre 2023. Le sentenze di merito avevano escluso il riconoscimento della seminfermità previa esclusione dell’aggravante della premeditazione per l’omicidio della madre. “La Corte di Cassazione ha confermato pienamente la bontà dell’impianto motivazionale delle sentenze di merito”, ha affermato l’avvocato Carlo Bertacchi, legale di parte civile che assiste Madè Neumair, sorella di Benno. L’avvocato ha comunicato la sentenza alla sua assistita che, commossa, si è detta sollevata per la fine del processo. Mentre solo con il Dubbio ha voluto parlare Flavio Moccia, che assiste Benno insieme al collega Angelo Polo. Essendo stata la vicenda molto attenzionata dalla stampa in chiave colpevolista, abbiamo chiesto al legale se questo abbia potuto influire sui giudici di Piazza Cavour: “Per la Cassazione - ci ha risposto - è da escludere che possa aver inciso l’impatto mediatico della vicenda. Questo era un processo molto particolare e devo ammettere che la Cassazione ha dato tutto lo spazio che ha potuto al caso, tant’è vero che hanno fissato un’udienza ad hoc solo per il nostro assistito e questo è fondamentale perché di solito a Piazza Cavour un collegio fa anche decine di processi in un giorno”. Il problema, spiega Moccia, “è che la Cassazione ha limiti di sindacabilità, gli ermellini devono valutare soltanto se la motivazione dei giudici di merito è stata congrua o meno e se ci sono delle forti illogicità o contraddittorietà emergenti dal testo motivazionale. Le statistiche ci dicono che l’accoglimento dei ricorsi in Cassazione è bassissimo, si aggira intorno al 3 per cento”. Invece la difesa puntava “sia sulla questione del giudizio abbreviato, sia sulla questione di costituzionalità dell’aggravante dell’omicidio ai danni degli ascendenti. Inoltre a nostro giudizio la premeditazione non c’era assolutamente. Tuttavia il punto fondamentale è che non si possono non concedere le attenuanti generiche ad un imputato che presenta un “mosaico di disturbi della personalità” come stabilito da ben undici periti, del tribunale, dell’accusa, della difesa e delle parti civili”. Il legale sostiene che la “vera ingiustizia è proprio questa: sulla base dell’anamnesi e di tutta la storia clinica e reale vissuta da Benno, questo è quello che ci ha più colpito e devastato”. Ora il ragazzo dovrà scontare un ergastolo, quando forse sarebbe stato meglio privarlo della libertà personale all’interno di una Rems, se fosse stata riconosciuta la incapacità di intendere e volere: “Questa è la questione più delicata, non possiamo adagiarci sulla presenza di strutture psicologiche all’interno delle carceri. Ci sono pochi specialisti per migliaia di detenuti. Vengono trattati tutti alla stessa maniera sul piano psicologico, mentre un soggetto malato come Benno avrebbe bisogno di una terapia specifica”. Poi, aggiunge Moccia, “anche se non hanno riconosciuto la semi-infermità o l’incapacità parziale di intendere di volere, nelle decisioni dei giudici avrebbe dovuto incidere fortemente il fattore “malattia” nella determinazione della pena: ad un malato non si può comminare l’ergastolo, questo è un principio quasi di natura costituzionale”. Abbiamo raccolto anche il parere dello psichiatra di fama mondiale Pietro Pietrini, ordinario presso la Scuola Imt Alti studi Lucca, consulente della difesa insieme al professor Giuseppe Sartori e alla dottoressa Cristina Carpazza. “Abbiamo ritenuto che il disturbo di personalità presentato da Benno Neumair fosse di indubbia e comprovata gravità e pertanto assolutamente idoneo a integrare il concetto di vizio di mente secondo la sentenza a Sezioni Unite della Cassazione Raso 9163/ 2005. Secondo questa sentenza, i disturbi di personalità rilevano per l’imputabilità solamente se sono gravi. Secondo la letteratura scientifica peer-reviewed, un disturbo di personalità si definisce grave se nello stesso soggetto sono presenti più disturbi di personalità in comorbidità. A nostro giudizio, questo criterio era perfettamente soddisfatto nel caso di Benno Neumair, i cui disturbi di personalità narcisistico e antisociale erano presenti in comorbidità”. Essi, secondo lo scienziato, “hanno innescato l’evento omicidiario. E non era necessaria la ricerca di “quid pluris” rispetto al disturbo di personalità, ovvero un fattore scatenante per portare al riconoscimento dell’incapacità di intendere. Un paziente del genere non ne ha bisogno per scompensarsi”. In pratica, senza la patologia il litigio con il padre non avrebbe portato alla tragica conseguenza. “Non c’è un ambito di vita di Benno - famiglia, rapporti amorosi, contesto lavorativo - dove abbia mostrato un funzionamento nella norma”, ha aggiunto il professore. Quindi il carcere non è la sede adatta per scontare la pena? “Se vogliamo pienamente attuare l’articolo 27 della Costituzione - conclude Pietrini. Benno deve essere curato. In inglese c’è la distinzione tra bad or mad, cattivi per scelta o perché malati. Non vi è dubbio che Benno è un mad, è un malato che come tale dovrebbe essere trattato. In una Rems una persona del genere viene curata come in ospedale e affronta un serio percorso di riabilitazione; dal carcere ad un certo punto esce e casomai ha visto uno psichiatra una volta ogni tre mesi. E che succede al rientro in società?”. Produrre materiale pedopornografico è reato anche se non c’è rischio di diffusione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2024 L’orientamento delle sezioni Unite ha affermato che il pericolo della circolazione verso terzi se è insussistente non scrimina la condotta di chi riprende le parti intime di minori anche inconsapevoli. La ripresa video di un minore nudo inconsapevole comporta che egli sia stato utilizzato nel realizzare quello che è materiale pedopornografico facendo scattare l’imputazione per il reato previsto dall’articolo 600 ter, comma 1, n. 1, del Codice penale. L’inconsapevolezza del minore di venir ripreso non esclude quindi che egli sia stato “usato” dall’adulto che lo riprende al fine di soddisfare un bisogno sessuale o stimolarlo. Infatti, il reato di pornografia minorile commesso da chi produce materiale pedopornografico - non destinato alla diffusione a terzi - non si concretizza solo nel caso in cui il minore non sia rappresentato nelle immagini realizzate o quando vi sia coinvolto un soggetto consenziente che abbia già raggiunto l’età per esprimere il consenso sessuale. La Corte di cassazione - con la sentenza n. 34588/2024 - ha respinto il ricorso dell’uomo condannato per aver ripreso di nascosto la figlia della propria compagna mentre si faceva la doccia. In particolare il ricorso sottolineava che in relazione al materiale video realizzato non sussisteva il pericolo di diffusione dello stesso, in quanto dalle circostanze rilevate era chiaro che fosse destinato all’uso personale da parte del ricorrente. Sul punto la Suprema Corte fa rilevare l’intervento nomofilattico delle sezioni Unite penali secondo cui la fattispecie di reato non richiede che sia destinato alla diffusione il materiale pedopornografico realizzato. Inoltre, la giurisprudenza ha già espresso un orientamento sensibile al fatto che tale rischio di cessione o diffusione a terzi sia insito nei mezzi di comunicazione a disposizione di tutta la società. Il ricorrente sosteneva di non aver avuto alcuna finalità pedofila nel riprendere la bambina, ma solo quella di verificare le modalità della sua igiene personale e intima in quanto era tempo che la piccola emanava cattivi odori. Finalità e condotta che però di fatto non aveva condiviso con la mamma della bambina, che anzi aveva temuto per la piccola al punto di sottoporla a visita ginecologica. Toscana. “Carceri, manca un percorso di reinserimento” di Roberto Bertoncini toscanaoggi.it, 14 settembre 2024 Le principali criticità secondo il Garante dei detenuti della Toscana, Giuseppe Fanfani. Un’organizzazione strutturata e professionale per il reinserimento in società delle persone e una miglior qualità della detenzione che, a eccezione delle piccole realtà, manca di dimensione umana. Sono queste le principali criticità che il garante dei detenuti della Toscana, Giuseppe Fanfani, individua all’interno delle carceri regionali. Un sistema detentivo non dissimile da quello nazionale, ma con almeno una variante positiva. “In Toscana non esistono carceri con oltre mille persone - spiega - In un carcere piccolo è possibile avere un rapporto positivo con i detenuti, puoi conoscerli meglio, capire i loro problemi e quindi anche gestirli meglio. Nelle strutture più grandi sei solo un numero ed è un dramma spaventoso: Prato è la struttura più grande con oltre 500 persone, segue Sollicciano con poco meno e poi ci sono San Gimignano, Pisa e Livorno”. Ma chiariamo bene un punto: nelle carceri piccole si sta un po’ meglio, ma nessuna delle strutture è tendenzialmente vocata a un processo di reinserimento. “Siamo ancora lontani da questo discorso, ma ce ne sono alcuni che hanno delle positività ecco - prosegue Fanfani - La Gorgona è un carcere particolarissimo, insulare, dove le persone stanno libere da quando aprono le celle alla mattina fino alla sera e trascorrono il tempo facendo agricoltura, lavorano nelle vigne, imparano a curare giardini e orti e quando escono qualcuno se li può prendere a lavorare. Un carcere che ha potenzialità diverse è quello di Massa, dove quasi tutti i detenuti lavorano alla tessitoria dell’amministrazione penitenziaria italiana. È un aspetto estremamente positivo: fanno lenzuoli, coperte, cuscini, guadagnano qualcosa e riescono a dare una dimensione positiva alla loro permanenza dietro le sbarre. C’è un ambiente diverso, ecco, a Massa la gente non s’ammazza, per capirsi. Infine citerei per terzo quello di Volterra, che ha una dimensione culturale tramite l’associazione teatrale della Compagnia della Fortezza, fondata da Armando Punzo. Una realtà che permette di far capire ai detenuti che c’è possibilità di una realizzazione anche fuori dal carcere”. Il reinserimento in società di un detenuto rimane però ancora oggi uno scoglio. “Diciamo pure che è un miraggio, tutti ne parlano ma nessuno ha intenzione di affrontare il discorso seriamente - dichiara Fanfani - Un detenuto, anche se bravo a fare qualcosa, quando esce dal carcere non se lo vuole nessuno. Il reinserimento dei detenuti dovrebbe essere un lavoro, seguito da un manager che si occupa solo di questo. Una figura che allaccia rapporti con il territorio e le sue aziende. Non basta però la formazione, bisogna prima partire dal mercato del lavoro e dalle necessità delle attività di zona: così imprenditori e professionisti si avvicinano al carcere, insegnano ai detenuti un mestiere e poi, quando si crea un rapporto di fiducia, saranno loro stessi a proporre a queste persone di lavorare. Su questo sarebbe utile anche una modifica della legge Smuraglia, che prevede consistenti agevolazioni contributive per chi assume lavoratori carcerari”. Se i piccoli carceri vedono una dimensione più umana, questo aspetto viene decisamente meno nelle realtà più grosse dove sovraffollamento, condizioni sanitarie precarie e, purtroppo, anche i suicidi, sono temi all’ordine del giorno. “Dobbiamo fare chiarezza sul sovraffollamento: l’affollamento ordinario, ovvero quello consentito, è una definizione che porta con sé un’ipocrisia di fondo rappresentata dai 3 metri quadrati a detenuto. Lordi. Spazi previsti dalla legge e confermati dalla Cassazione. Ora immaginiamo con questo caldo di dividere una cella di 15 metri quadri con cinque persone, senza aria condizionata, cinque letti e un piccolo bagno e in questo ambiente ci devi anche mangiare, è difficile pensare di vivere così. Pensiamo a cosa possa significare una situazione di sovraffollamento, dunque al di fuori dell’ordinarietà, senza servizi accessori, pochissimi educatori e senza assistenza psichiatrica. Rischi di diventare un disgraziato, non mi meraviglia affatto il suicidio”. In questo quadro per fortuna almeno la sanità carceraria toscana funziona benino, gestita direttamente dalla Regione, sebbene risenta come tutto il comparto della mancanza di professionisti e risorse. “Ritengo che i problemi principali riguardino proprio la qualità della detenzione, la dimensione umana del carcere la mancanza di un’assistenza psicologica profonda per i detenuti, oltre che ovviamente il discorso di un percorso di reinserimento strutturato” ribadisce Fanfani. Rimane da chiedersi cos’è possibile fare per migliorare certe dinamiche, o almeno provarci. “Parlare di detenuti non porta voti e non dimentichiamoci che ci vorrebbero anche tanti soldi - conclude il garante - San Paolo diceva che per realizzare degli obiettivi servono la luce per vedere il percorso, il coraggio per seguirlo e la pazienza per sopportare le conseguenze di quello che si fa. Ecco, la nostra classe politica difficilmente ha tutte queste caratteristiche insieme”. Torino. “Amnistia e indulto, la scelta lungimirante per il caso carceri” di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 14 settembre 2024 L’insediamento del nuovo Pg: massima attenzione a mafia e anarchici. Il tailleur color Tiffany che spunta tra le pieghe della toga racconta che Lucia Musti non ha paura di osare. E non teme di andare controcorrente e raccogliere le sfide, anche le più difficili. Come quella di assumere la guida della Procura generale di Torino, a capo di un distretto che getta lo sguardo su un territorio che comprende il Piemonte e la Valle d’aosta. Lei stessa lo ammette, quando chiarisce che avrebbe potuto rimanere nella comfort zone di Bologna. Ma Torino per lei “è la raccolta di una sfida”, “l’occasione per misurarsi con un’altra Italia”. Il tailleur color Tiffany che spunta tra le pieghe della toga racconta che Lucia Musti non ha paura di osare. E non teme di andare controcorrente e raccogliere le sfide, anche le più difficili. Come quella di assumere la guida della Procura generale di Torino, a capo di un distretto che getta lo sguardo su un territorio che comprende il Piemonte e la Valle d’aosta. Lei stessa lo ammette, quando chiarisce che avrebbe potuto rimanere nella comfort zone di Bologna - la propria “sede naturale e fisiologica” - che l’ha vista giudice, pm, procuratore capo (di Modena, per la precisione) e per 20 mesi reggente della Procura generale. Ma Torino per lei “è la raccolta di una sfida”, “l’occasione per misurarsi con un’altra Italia, diversa da quella che si conosce”. Il discorso pronunciato in occasione dell’insediamento è studiato per far emergere le linee guida del proprio mandato. Non è solo questione di semantica, come quando spiega che vuole che ci si rivolga a lei con l’appellativo “procuratore” e non “procuratrice”, “certa di non mancare di rispetto alla storia del femminismo italiano”; ma pure quando sottolinea che a condurla in terra sabauda è “l’amore per il mio Paese, intendo la Repubblica italiana e la Patria, senza timore di essere etichettata per l’utilizzo di questo o quel termine e nell’assoluta libertà di manifestazione del pensiero”. Insomma, Lucia Musti è da oggi il nuovo procuratore generale - succede a Francesco Saluzzo e prima ancora a Gian Carlo Caselli e Marcello Maddalena e, come lei ricorda, lavorerà negli stessi luoghi di Graziana Calcagno e Giulia De Marco -, un ruolo che interpreta con la consapevolezza di dirigere un distretto “trascurato”, al quale “non viene data la giusta importanza”. Un riferimento, neanche tanto sottile, alle croniche carenze di organico del personale amministrativo con cui convivono da anni alcune Procure, a cominciare da quella di Ivrea, la “cenerentola” degli uffici piemontesi. Davanti a una nutrita platea di invitati - dal presidente della Regione Alberto Cirio al sindaco Stefano Lo Russo, dal presidente dell’ordine degli avvocati Simona Grabbi ai vertici delle forze dell’ordine, fino a don Ciotti - il pg Musti entra nel merito di alcuni punti chiave della politica giudiziaria. Dice no “alla separazione delle carriere” e parla del sovraffollamento nelle carceri, “madre di tutti i mali perché produce morte, illegalità e disapplicazione della carta costituzionale”. E insiste - è il messaggio al governo - che è tempo di fare una “scelta lungimirante, apparentemente di abdicazione del potere punitivo: indulto e amnistia”. Il neo procuratore ha chiara l’agenda e non la spaventa “l’inferno” evocato dall’ex pg Saluzzo nel ricordare che “dietro a questa facciata di perbenismo”, in Piemonte “in troppi sono interessati a fare affari con i clan”. “Massima attenzione sarà riservata ai processi di criminalità mafiosa e ai processi riferibili a gruppi della federazione anarchica e informale e all’antagonismo - chiosa -. Il primo fenomeno è a me ampiamente noto in quanto provengo da una realtà distrettuale che vede gli insediamenti mafiosi ormai consolidati ed inseriti nella società e nell’economia locale. Il secondo, meno noto, mi vedrà parimenti impegnata anche per gli effetti del sovvertimento dell’ordine democratico che ne possono derivare”. Torino. Detenute in sciopero della fame a staffetta contro il sovraffollamento di Alice Dominese Il Domani, 14 settembre 2024 “In queste strutture fatiscenti e insalubri si fa fatica a gestire un’esistenza” scrivono le detenute. Il loro intento è quello di richiamare l’attenzione pubblica su una situazione definita di “emergenza totale nelle carceri”. “Affinché - si legge nella lettera inviata alla direttrice dell’istituto e al presidente Mattarella - venga concessa qualsiasi misura che riduca il sovraffollamento e/o la liberazione anticipata speciale di 75 giorni”. “Io ho fatto 5 giorni e perso quasi 5 kg, oggi ho staccato, Paola inizia giovedì fino a domenica, poi inizio io. Siamo una quindicina per gruppo, attacchiamo e stacchiamo a rotazione, tot 57 donne” questo il messaggio di una delle detenute del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, in sciopero della fame dal 5 settembre. Una protesta condivisa con il comitato Mamme in piazza per la libertà di dissenso. La protesta pacifica delle donne recluse nelle sezioni 1, 2 e 3 dell’istituto, che si alternano in staffetta e a oltranza, è stata indetta tramite una lettera indirizzata alla direttrice del carcere e rivolta a parlamentari, ministri e al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per chiedere di intervenire contro il sovraffollamento nelle celle. Nicoletta, una delle attiviste del comitato Mamme in piazza per la libertà, tra i gruppi della società civile che sostengono lo sciopero, è tra coloro che riescono ad avere notizie dalle donne recluse. “Ci teniamo in contatto con loro con difficoltà - dice - Ci chiedono di essere informate su chi si sta attivando all’esterno per dare voce alla loro protesta, perché per loro è molto difficile tenere su il morale e portare avanti lo sciopero. Sono organizzate a gruppi da 15 persone e si danno il cambio periodicamente”. Emergenza sovraffollamento - Solo nel 2023, nel carcere di Torino, si sono verificati quattro suicidi e 57 tentativi di suicidio, 135 atti di aggressione, 159 di autolesionismo, 255 atti di protesta individuale tramite sciopero della fame, sete o rifiuto delle terapie e 15 proteste collettive. “In queste strutture fatiscenti e insalubri si fa fatica a gestire un’esistenza” scrivono nella lettera le 57 detenute che aderiscono allo sciopero. Il loro intento è quello di richiamare l’attenzione pubblica su una situazione definita di “emergenza totale nelle carceri”. “Affinché - si legge ancora nella lettera - venga concessa qualsiasi misura che riduca il sovraffollamento e/o la liberazione anticipata speciale di 75 giorni”. Nel rapporto annuale della garante torinese dei diritti delle persone private della libertà, Monica Cristina Gallo, si legge che la percentuale di sovraffollamento nelle celle del Lorusso e Cutugno varia, a seconda delle sezioni, dal 156 al 191 per cento. La presenza media è di circa 1.200 persone, a fronte dei 990 posti totali previsti per uomini, donne e donne con bambini all’interno della struttura. Circa il 52 per cento dei detenuti e delle detenute, inoltre, sta attualmente scontando una pena residua minore di tre anni e quindi potrebbe richiedere misure alternative attivate presso il proprio domicilio. Personale sotto organico - I problemi riguardano anche il personale sotto organico. Secondo il rapporto della garante, mancano i vicedirettori, necessari per garantire le numerose attività nella struttura, e gli agenti, almeno il 20 per cento di loro. Questo obbliga chi lavora a turni stressanti in condizioni di continua emergenza. Ma a mancare sono anche gli educatori, gli psicologi e gli psichiatri. Sono solo due i mediatori culturali, a fronte di una popolazione straniera di circa 600 persone di 40 diverse nazionalità. A Torino è gravemente sottodimensionato anche il personale degli uffici del tribunale di sorveglianza e degli uffici di esecuzione penale esterna, responsabili di decidere i permessi, le uscite e gli sconti di pena, che in questo modo vengono concessi dopo mesi, in alcuni casi addirittura anni, oppure non vengono concessi affatto. Alice Ravinale è una delle consigliere regionali del gruppo Alleanza Verdi Sinistra che, da quando è iniziata la protesta, ha fatto un sopralluogo all’interno del carcere, incontrando le donne recluse. “Ciò che colpisce è la dimensione comunitaria del loro sciopero: non stanno lamentando una situazione di alcune di loro, ma denunciano la situazione carceraria allo sbando nel suo complesso, comprese le condizioni in cui lavora il personale penitenziario, e la mancanza assoluta di provvedimenti per garantire la tutela dei diritti dei detenuti” dice Ravinale. Tra loro ci sono donne che hanno subito interventi chirurgici in attesa, da tempo, delle cure necessarie, persone con gravi problemi psicologici abbandonate a sé stesse, altre sottoposte a terapie inadeguate e all’abuso di psicofarmaci. Accanto a donne che restano in queste condizioni per anni, ce ne sono altre che entrano in carcere per reati minori e affrontano tutto questo anche per poche settimane. “Una delle detenute che ho incontrato sta facendo tre mesi di carcere per un furto e ha perso il suo lavoro di badante” racconta Ravinale. Un anno fa il ministro della Giustizia, Carlo Nordio ha visitato il carcere torinese, ma da allora la situazione è rimasta invariata. “Il decreto carceri di inizio agosto che avrebbe dovuto affrontare il problema del sovraffollamento a oggi è rimasto del tutto inapplicato e le detenute chiedono di approvare il progetto di legge Giachetti, per la liberazione anticipata speciale” prosegue Ravinale. Una misura, quella della liberazione anticipata speciale sotto i 75 giorni di reclusione, che è già stata introdotta tra 2010 e 2015, quando l’Italia è stata sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo perché il sovraffollamento carcerario era diventato ancora una volta insostenibile. Palermo. Digiuno a staffetta per chiedere l’amnistia: “Lottiamo per la dignità dei detenuti” di Giusi Spica La Repubblica, 14 settembre 2024 Iniziativa nazionale promossa nel capoluogo dal comitato “Esistono i diritti”. Tra i nomi in campo padre Notari, Micciché, Cuffaro, Valentina Chinnici. E tanti altri rappresentati della cultura e della società civile. Da più di un mese digiunano a turno, dalle 8 alle 24, per chiedere l’amnistia per i reati minori. E dare così ossigeno alle carceri dove ormai la situazione è esplosiva. Trentacinque fra attivisti, consiglieri comunali e deputati regionali di vario colore politico, giornalisti, attori e rappresentanti della società civile palermitana iscritti al comitato “Esistono i diritti” hanno lanciato lo sciopero della fame a staffetta, promosso a livello nazionale dal gruppo “Bellezza radicale” e dall’associazione “Nessuno tocchi Caino”. “Satyagraha Amnistia” è un’iniziativa trasversale che ha trovato la condivisione del sacerdote gesuita Gianni Notari. “Con la testimonianza non violenta lanciamo l’allarme sul sistema penitenziario italiano. Sono intollerabili le inumane e degradanti condizioni di detenzione. La politica abbia il coraggio di fare scelte che tutelino la dignità della persona”, è il suo appello. Basta leggere le cronache dei giornali, dove ogni giorno vengono riportate notizie di suicidi, rivolte, detenuti in stato di salute precario non curati adeguatamente in cella. Anche in Sicilia. “Lottiamo per ridare dignità alle persone e ristabilire un senso di giustizia nel nostro Paese”, spiega Gaetano D’Amico, presidente del comitato. Il digiuno è già alla sua quarta e ultima settimana. Ad aderire sono stati, oltre a Notari e D’Amico, il garante comunale per i diritti dei detenuti Pino Apprendi, i deputati regionali Gianfranco Micciché (Mpa) e Valentina Chinnici (Pd), il leader della Dc nuova Totò Cuffaro, i consiglieri comunali Alberto Mangano, Rosario Arcoleo, Paolo Caracausi, Franco Miceli, e ancora Giorgio Bisagna, l’avvocato Francesco Leone, Marco Marchese, l’attivista Dc Eleonora Gazziano, Gianluca Inzerillo, Massimo Giaconia, i radicali Rossana Tessitore e Palmira Mancuso ed Enrico Scaletta, Massimo Accolla, Biagio Cigno, Vincenzo La Franca, Martina Rao, la scrittrice Floriana D’amico, il segretario provinciale del Pd Antonio Ferrante, Nino Sirchia, il professore Marcello Longo, l’attore Alessandro Ienzi. Tutti pronti ad andare fino in fondo nella battaglia per la depenalizzazione dei reati minori, nonostante il governo Meloni stia premendo l’acceleratore sull’inasprimento delle pene, introducendo nuovi reati nel decreto “Sicurezza”. Torino. Ferrante Aporti: il ritratto drammatico del carcere minorile torinese di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 14 settembre 2024 Istituto Penale Minorile “Ferrante Aporti”. Un nome che potrebbe evocare rieducazione e speranza, ma che oggi suona come sinonimo di degrado e abbandono. È il luogo che, tra l’1 e il 2 agosto, ha assistito a una rivolta notturna, l’ennesima, che ha lasciato dietro di sé devastazione, indagini, e il solito, noto, scenario di fallimento. Una struttura messa in ginocchio, 18 detenuti sotto accusa, di cui 15 minori, bambini che la società ha già condannato, non solo per i crimini che si dice abbiano commesso, ma per l’indifferenza che li avvolge. Oggi, settimane dopo quella notte, nulla è cambiato. O meglio, qualcosa è cambiato: la struttura non è più quella. Le sue mura sono state violate non solo dalle mani dei detenuti, ma dall’incuria di chi dovrebbe proteggerle, curarle, renderle luoghi di recupero. I lavori di ripristino proseguono, ma l’istituto resta un monumento al fallimento di un sistema che non sa più nemmeno come salvare i suoi figli più giovani. Questa mattina, una delegazione del Partito Radicale ha visitato il Ferrante Aporti, osservando con occhi critici ma disincantati ciò che ormai è evidente: le solite criticità, le solite storie di sovraffollamento, stanze inagibili, deficit di personale. I numeri parlano da soli. Oltre il 90% dei detenuti è di origine magrebina, ragazzi senza scolarizzazione, senza futuro, e forse, senza speranza. Come si può pensare che le carceri minorili, che non sono altro che repliche in miniatura di un sistema penitenziario allo sbando, possano offrire una risposta? Gli esponenti radicali Giovanni Oteri e Silvja Manzi non si trattengono: “Le criticità sono le solite. Servono percorsi alternativi. Servono Comunità, non prigioni.” Comunità, dicono, che oggi scarseggiano. Forse perché non c’è volontà politica. Forse perché, alla fine, la soluzione più semplice resta quella di nascondere questi ragazzi dietro le sbarre, lontani dagli occhi, lontani dai cuori. Ma poi, quanto lontano possiamo davvero portarli prima di doverci confrontare con le nostre mancanze? A Milano, dicono, c’è stata una luce, un’iniziativa che sembra quasi un’utopia in un panorama come questo: i giovani del carcere Beccaria hanno avuto la possibilità di lavorare per la comunità, di responsabilizzarsi. Un piccolo, timido passo verso la redenzione, forse. Ma Torino, oggi, è ancora immersa nel buio. E mentre si discute delle carceri minorili, una notizia accende un’altra miccia in un altro angolo d’Italia. A Biella, in una casa circondariale per adulti, un incendio, l’ennesimo atto di disperazione, si propaga tra i corridoi. Un detenuto ha dato fuoco a un materasso. Tre agenti intossicati. Raffaele Tuttolomondo, segretario del Sinappe, lancia un grido che non è più solo una denuncia, ma un’implorazione: “La situazione è insostenibile. Gli agenti sono allo stremo, costretti a subire quotidianamente insulti, aggressioni, e adesso anche incendi”. Ma è davvero questo lo stato delle nostre carceri? Un campo di battaglia dove gli agenti, spesso giovani e inesperti, combattono una guerra che nessuno vuole riconoscere? Se lo chiedono tutti. Se lo chiedono i familiari, gli amici, e perfino chi di quel sistema non ne vuol più sapere. Oteri e Manzi, alla fine della loro visita, si rivolgono alla RAI, la televisione pubblica. Non è una richiesta, è una preghiera: “Vogliamo uno speciale carceri. Gli italiani devono conoscere questa realtà. Solo così la politica potrà finalmente agire.” Ma chi ascolta queste parole? Forse resteranno, come sempre, intrappolate tra le mura spesse dei penitenziari, come i ragazzi, i detenuti, e le storie che ci ostiniamo a non vedere. L’Italia delle carceri continua a morire lentamente, pezzo dopo pezzo. E noi, ancora una volta, assistiamo. Reggio Calabria. Carceri, l’ispezione di Cannizzaro: “La situazione è complicata ma migliorata” reggiotoday.it, 14 settembre 2024 Il parlamentare di Forza Italia dopo un primo sopralluogo nel carcere di Arghillà si è recato, ieri mattina, presso la casa circondariale Panzera. “Ieri mi sono recato in visita istituzionale presso la Casa Circondariale Panzera di Reggio Calabria. Qualche mese fa, invece, lo feci presso l’altro istituto reggino, quello di Arghillà. Due strutture molto differenti tra loro e con criticità diverse. La mia visita oggi qui in veste ufficiale, così come quella realizzata in passato ad Arghillà, è stata finalizzata a verificare le reali condizioni delle persone private della libertà qui ospitate, confrontandomi con i dirigenti, gli operatori, il personale di Polizia penitenziaria. È un’attività fortemente voluta sui territori dal vice premier e segretario nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani. A tal fine redigerò nelle prossime ore un report dettagliato da inviare al nostro dipartimento giustizia, in particolare all’attenzione del vice ministro, Francesco Paolo Sisto.” A dirlo è l’onorevole Francesco Cannizzaro, vice capogruppo di Forza Italia alla Camera e coordinatore regionale della Calabria, a margine dell’ispezione parlamentare eseguita presso lo storico carcere di Reggio Calabria, nell’ambito delle iniziative volute dal dipartimento giustizia di Forza Italia, da sempre attenta alla cultura della umanizzazione della pena. “Ho trovato, anzitutto, un istituto in ordine, con buoni standard igienici, nonostante una popolazione carceraria superiore alla capienza. Su questo tema, rispetto ad altri periodi, il livello di sovraffollamento dei detenuti si è abbassato, arrivando ad una situazione gestibile, a differenza di Arghillà per esempio, dove il contesto è decisamente critico. Il deficit principale che ho riscontrato è legato al personale penitenziario, di gran lunga sotto organico rispetto ai compiti da svolgere in un carcere del genere. Un altro aspetto su cui dover necessariamente intervenire al più presto è quello sanitario, sia in termini di organico che di spazi e strumenti. Ho già accennato la questione ai vertici della competente Asp, con cui presto approfondirò le dinamiche e le possibili soluzioni alle difficoltà riscontrate. Sul piano della re-inclusione, sicuramente si potrebbe intervenire incrementando le attività, creandone di nuove. In generale, ho trovato un edificio con tanti anni sulle spalle ed una realtà abbastanza ben organizzata, che sicuramente sarà rivitalizzato dal recente cambio al vertice della direzione, che porterà - stando a quanto dettomi dal nuovo Direttore - nuove iniziative. A tal proposito, ci tengo a ringraziare il dott. Rosario Tortorella, per avermi personalmente accompagnato nella lunga ispezione, rispondendo con prontezza e dovizia di particolari ad ogni mia domanda. I miei complimenti a lui ed a tutti i suoi collaboratori per il lavoro sin qui svolto, parallelamente all’instancabile apporto del personale penitenziario.” Napoli. Carcere di Nisida, creare per rinascere La Repubblica, 14 settembre 2024 Il marchio Richmond promuove un’iniziativa in collaborazione con le associazioni Nesis e Il Meglio di Te per la riabilitazione dei detenuti che imparano così a dipingere sulla ceramica e realizzare gioielli. Da gennaio a settembre di quest’anno, 70 detenuti si sono suicidati nel nostro Paese. Un numero che fa riflettere. Spesso si tratta di persone che vivono in condizioni vergognose in un sistema che sembra sempre più inadeguato a garantire dignità e speranza. Di dignità e speranza parla invece il progetto presentato da John Richmond, il brand di punta del gruppo Arav. Si tratta di una nuova iniziativa per promuovere la solidarietà e la riabilitazione sociale tra i giovani detenuti dell’Istituto penitenziario minorile di Nisida. Sì, proprio il carcere diventato famoso grazie alla serie tv Mare fuori, che al di là della finzione ha le sue storie drammatiche di sofferenza inferta agli altri e a se stessi. L’iniziativa è importante perché coinvolge dei ragazzi che, proprio per la giovane età, possono essere recuperati e reinseriti un domani nella società con un mestiere, e intanto trovare un senso a una vita che scorre lenta nella detenzione. In collaborazione con le associazioni Nesis e Il Meglio di Te sono stati immaginati due progetti, Nisidarte e N’Ciarmato a Nisida (coinvolto a Nisida) per rivelare il talento di ciascuno e imparare ad esprimersi attraverso l’arte che spesso riesce a cambiare le prospettive. In due diversi atelier si insegnano a dipingere delle piastrelle in ceramica o a creare dei gioielli con un ciondolo che simbolicamente, come l’immagine delle piastrelle, è un cuore spezzato. Un cuore spezzato come quello di chi è detenuto, della madre e del padre che lo piangono o di una ragazza che magari lo sta aspettando. Senza dimenticare le vittima con i loro famigliari a cui si è fatto del male. “I ragazzi del carcere si sono macchiati di crimini anche efferati, ma non sono dei mostri”, dice Giulio Guida, direttore del penitenziario di Nisida, “messi nelle condizioni giuste possono essere utili per la collettività ma soprattutto rappresentare elementi di crescita per la nostra collettività”. Milano. Un percorso verso la non-violenza con i laboratori di Nessuno tocchi Caino L’Unità, 14 settembre 2024 I laboratori Spes contra Spem di Nessuno tocchi Caino sono una miniera di valori preziosi. In otto anni di “lavoro” collettivo e cooperativo tra detenuti e detenenti, tra liberi e semiliberi, tra persone al di qua e al di là delle sbarre, il “fatturato” in termini di umanità nuova, cambiamento interiore ed elevazione della coscienza, è inestimabile, e incomparabile rispetto a ogni altra impresa umana. Soprattutto il Laboratorio di Opera, il primo a essere istituito, ogni mese regala storie come quelle di Antonio e Gioacchino che qui proponiamo. Storie che testimoniano che il cambiamento è possibile anche tra i condannati che per la legge del “fine pena mai” sono gli immutabili dell’universo carcerario, gli irredimibili per sempre. La lettera di Antonio Aparo* Caro Sergio, non è facile raccontarmi al di fuori dei nostri laboratori, quel prendere la parola ogni volta, la paura di non riuscire a parlare, troppi anni nei quali non ho avuto la possibilità di parlare, racchiuso nel mio mutismo di persona ristretta al 41 bis. La condanna è una pena, ma se questa lunga pena non ti porta, a te che la sconti, a poter riflettere se avrai o meno un futuro, allora, ecco che la maturazione non avviene ma si manifesta nella sua terribile regressione. Io conosco poche parole, la mia cultura è disorganizzata, ma grazie ai laboratori e soprattutto a Nessuno tocchi Caino, sto ampliando il mio vocabolario. Dopo aver frequentato per cinque anni un corso di agraria senza poter conseguire il diploma, sono dovuto arrivare a Opera. Dopo 29 anni di carcere espiato, mi sono iscritto al V. Benini e, in quattro anni, ho conseguito l’agognato diploma di ragioneria con 81 centesimi. Oggi sono una matricola universitaria alla Statale di Milano. Dopo aver riflettuto a lungo con il mio tutor, ho scelto il corso di Storia. Lo scorso 20 giugno ho sostenuto il primo esame universitario: Età moderna, 1454, pace di Lodi; Napoleone e il blocco continentale, 1805-1810, patto rotto dalla Russia. Mi sono preparato a lungo per questo esame. Era il primo e ci tenevo tantissimo a fare una bella figura. Non sentivo salire l’arrivo, e non capivo se fosse normale. A un certo punto ho detto a me stesso: Antò, vai avanti, perché non stai facendo nulla di male. Confesso che ho scelto l’aula nella quale esibire la mia straordinaria oratoria. D’altra parte giocavo in casa, perché era l’aula dove ho trascorso gli ultimi quattro anni, più di 800 giorni, a studiare, 3.200 ore. Da circa un mese, nell’area pedagogica, hanno realizzato un pollaio nel quale sono internati due galli che cantano giorno e notte. Il rituale della presentazione inizia con la discussione a bassa voce. Ad alzare il volume ci pensano i galli che si trovano all’esterno dell’aula. Una situazione surreale nella quale spesso perdevo la concentrazione; eppure sono stato un pastore, ho sempre avuto a che fare con gli animali, ma mai avevo sentito cantare dei galli ininterrottamente. Dopo alcune esitazioni si rompe il ghiaccio. La prima domanda: 7 ottobre 1571. Risposta: Battaglia di Lepanto. Comandante Don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V, fratellastro di Filippo II di Spagna, a sua volta fratello di Margherita d’Austria, anch’essa figlia naturale di Carlo V. È stato un susseguirsi di date e risposte, lunghe, troppo lunghe, tanto che, alla fine, per il mio solito divagare, ho perso la lode. Le mie risposte sono state un po’ prolisse, ma ricche di particolari. Parliamo dell’infanta Caterina Micaela d’Asburgo, figlia di Filippo II, moglie di Carlo Emanuele I di Savoia. La domanda: chi è la Cantona? La risposta è molto semplice, per me che sono un ricamatore. La Cantona è una ricamatrice di Milano, VI secolo, che esegue i suoi lavori con il “punto raso” di cui l’infanta aveva regalato alcune stole fatte con le sue mani alla chiesa di Mondovì. Tecnicamente il punto raso viene eseguito con una fila di punti lanciati lunghi e corti alternati, per poi eseguire la fila successiva al contrario. Dopo quasi 100 minuti, 6.000 secondi, terminate tutte le domande, alle 16, la professoressa si è alzata dicendo: va bene 30? Non le do la lode perché lei ha divagato. Naturalmente ho accettato il voto promettendo a me stesso di imparare dagli errori. D’altronde ho deciso di studiare per imparare. Non ho altri obiettivi, amico mio, che la conoscenza fine a sé stessa. *Ergastolano detenuto a Opera La lettera di Gioacchino Calabrò* Sono nato il 2 giugno 1946, proprio il giorno in cui è nata la Repubblica Italiana, in un piccolo paese del profondo sud. Da bambino, quando frequentavo la scuola elementare, avevo un “problema” con un maestro, poiché sbagliavo i verbi e di conseguenza venivo bacchettato. Per ripicca, quando vedevo posteggiata la sua auto, gli bucavo le gomme. Alla fine, l’unica cosa che ho imparato sono state le ritorsioni nei suoi confronti. Allora, in Sicilia c’era una grande ignoranza e tanta miseria. Chi conosce Danilo Dolci sa di cosa parlo. Lo scrittore si è fermato a Trappeto, un luogo situato sulla costa nel Golfo di Castellammare. Racconta di fame, violenza, povertà, mafia e degrado. A scuola andavo male anche perché quando tornavo a casa non avevo tempo per studiare. Andavo a lavorare per imparare il mestiere e all’età di 13 anni guadagnavo come un artigiano di 30. Dopo aver fatto il militare mi sono aperto un’attività tutta mia e la mia fidanzata, poi diventata mia mogl ie, stava in ufficio e teneva la contabilità. Andava tutto bene. Poi sono stato attratto dal canto ingannevole delle Sirene e sono stato arrestato all’età di 39 anni per i gravi reati commessi nell’ambito dell’associazione mafiosa. Cosicché ho rovinato la mia vita, quella dei miei cari e, ancora più grave, quella di molte vittime innocenti. Quando mi hanno arrestato avevo solo la quinta elementare. Per scrivere una lettera consumavo un intero block-notes. All’inizio mi è stato applicato il regime dell’articolo 90, poi quello del 41 bis dove ci sono rimasto per vent’anni. Senza avere la possibilità di frequentare la scuola, ho cercato in tutti i modi di migliorare la mia cultura leggendo tutto ciò che mi capitava e come antidoto alla pazzia scrivevo lettere a destinatari immaginari che poi strappavo. Dopo vent’anni di questo “tortuoso” regime mi hanno declassificato e sono stato trasferito nel carcere di Biella. La prima cosa che ho chiesto alla direttrice è di andare a scuola. Qui nasce la mia seconda esperienza scolastica. Non c’era un corso di terza media, ma c’erano delle bravissime professoresse volontarie che mi hanno preso per mano. Pagina dopo pagina, ho apprezzato il fuoco e l’energia che sprigionano un libro. L’ho scoperto con la bontà, l’altruismo e la tenacia delle insegnanti che mi hanno istruito fino a superare, con ottimi voti, l’esame della terza media. Ero orgoglioso, non tanto per me, che ero un ergastolano ostativo, quindi col “fine pena mai”, ma per loro che piangevano di gioia per le risposte sensate che davo alla Commissione. È stato questo il primo passo che ha determinato un’apertura mentale. Avevo spezzato le mie catene. Poi sono stato trasferito nel carcere di Opera. Anche a Milano la prima cosa che ho chiesto era poter studiare. Prima che arrivasse questa possibilità, sono passati quattro anni. Comunque, anche qui ho scoperto un filone d’oro nello studio, perché apre le porte alla mente, è una luce che giorno dopo giorno illumina sempre più. I professori, oltre alle proprie discipline, hanno insegnato molto di più, mi hanno fatto capire cos’è il bene e il male, cos’è la vita e l’etica. Sono stati e lo sono ancora una fonte di sapere e di amore per il prossimo. Mi hanno trasformato in una persona consapevole. Oltre alla scuola, frequento il corso di lettura “fine pena ora” ogni giovedì. Raramente salto qualche incontro, perché oltre alla lettura ci ritrovo importanti insegnamenti di vita, di comportamenti, di armonia, di apertura mentale, di giustizia riparativa. Faccio anche teatro. Non avrei mai pensato di esibirmi davanti a un pubblico, eppure ho superato anche questo limite. Professori, tanti volontari, insieme agli educatori del carcere, mi hanno inculcato il diritto. Io sapevo che esiste una Costituzione, ma non avevo mai letto un articolo. La professoressa di diritto, Clementina Staiti, piano piano, mi ha fatto capire il grande lavoro dei nostri padri e madri della Costituzione che si sono messi insieme con rispetto reciproco e lasciandosi alle spalle molti pregiudizi per scrivere questa stupenda carta dove ogni parola è stata cesellata con un lavoro certosino. Dopo la maturità, nel 2013, i professori mi hanno voluto nel corso di amministrazione finanziaria e marketing. Pochi giorni fa ho ricevuto la pagella con quasi tutti dieci. Alla fine di questo percorso scolastico ho presentato un permesso di poche ore, dato che da 25 anni non faccio colloqui, perché i miei cari non se la sentono di entrare in carcere. Dopo due anni di istruttoria è stato dichiarato inammissibile, perché mancava la relazione del carcere. Poi ne ho presentato un altro e anche questa volta lo hanno dichiarato inammissibile. La sintesi era stata redatta dall’Istituto, però mancava il parere della criminologa. Chiedo a voi tutti, cari amici: la tortura è solo la fustigazione? Oppure, anche questo continuo rimpallo, può essere una forma di tortura? Alle domande innocenti di tanti studenti dei corsi che ho frequentato, per la prima volta, sono riuscito a rispondere assumendomi in toto le mie responsabilità, cosa che avevo negato ai giudici nei processi. Con i miei 36 anni di pena espiata più altri 5 di liberazione anticipata, poiché non ho mai preso un rapporto, supero i 40 anni di carcerazione. Oggi, ho quasi ottanta anni. Il rigetto di un piccolo permesso non riguarda più me, quello che sono oggi, ma quello che sono stato. *Ergastolano detenuto a Opera Bari. Intesa Sanpaolo e San Patrignano per la prevenzione contro le droghe in carcere La Stampa, 14 settembre 2024 Un incontro con i giovani detenuti del carcere minorile di Bari “Fornelli”. Si è tenuto ieri presso l’istituto penitenziario minorile di Bari l’iniziativa pilota per la prevenzione delle tossicodipendenze “WeFree Dentro: prevenzione e legalità per costruire un futuro”. La giornata si è aperta con un convegno sul tema delle devianze minorili e delle dipendenze in rapporto a legalità e prevenzione con il contributo di istituzioni pubbliche, soggetti privati profit e non profit, esponenti del mondo accademico e scientifico, seguito da un incontro e scambio di esperienze fra i giovani detenuti e gli educatori professionisti di San Patrignano, con la testimonianza di giovani che hanno già superato positivamente le dipendenze. Nel suo intervento Paolo Bonassi, Chief Social Impact Officer di Intesa Sanpaolo, ha commentato: “Wefree Dentro si inserisce nel filone dei progetti che Intesa Sanpaolo realizza e sostiene per il mondo del carcere e per la prevenzione dalle dipendenze insieme alle più importanti realtà italiane del Terzo Settore. Grazie alla collaborazione con la Fondazione San Patrignano l’iniziativa offre un momento diverso ai giovani detenuti portandoli a concentrarsi sulle proprie potenzialità e sull’importanza delle scelte di ogni giorno. Dall’incontro di oggi potranno trarre spunti utili a migliorare la propria situazione e ad avere maggiore fiducia nel ‘dopo’”. Una giornata particolarmente interessante anche dal punto di vista educativo, come spiega Antonio Boschini, responsabile terapeutico di San Patrignano: “L’obiettivo è sperimentare un nuovo approccio a supporto dei minori per offrire loro strumenti utili a riscoprire le proprie potenzialità, a superare le fragilità e a uscire dalle dipendenze, che sempre più fra i giovani e a volte nell’ambito degli istituti carcerari si esprimono a volte in dipendenze da psicofarmaci. “WeFree Dentro” si rivolge a una fra le categorie più fragili del nostro Paese, per costruire percorsi di possibile uscita dall’emarginazione e dall’esclusione sociale”. Al 31 dicembre 2023 le persone detenute tossicodipendenti in Italia erano 26.268, il 29% del totale, a cui si aggiungevano 3.901 persone in carico all’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) per misure alternative alla detenzione. Nel 2023, inoltre, si è registrato un aumento del 10% di minorenni denunciati all’Autorità giudiziaria per reati penali droga-correlati. Secondo l’ultima Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia 2024, sono quattro su dieci i giovani tra i 15 e i 19 anni che, nel 2023, hanno fatto almeno una volta uso di sostanze stupefacenti. Si tratta di 960mila giovani tra i 15 e i 19 anni che hanno consumato sostanze psicoattive nel 2023, il 39% della popolazione studentesca, che riferisce di aver consumato una sostanza illegale almeno una volta nella vita, oltre 680mila (28%) nel corso dell’ultimo anno. Bologna. “Dall’amore nessuno fugge”: il reinserimento dei detenuti promosso con una mostra di Luca Luccitelli interris.it, 14 settembre 2024 Il convegno “L’uomo non è il suo errore. Percorsi di rinascita”, organizzato dall’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna a corredo della mostra “Dall’amore nessuno fugge” allestita a Bologna. “Per la prima volta abbiamo istituito un albo per le comunità, strutture che siano in grado di dare accoglienza ai detenuti che non hanno un domicilio. Oggi, secondo le stime che abbiamo fatto, ci sono 7mila detenuti che potrebbero usufruirne ed alleggerire il peso sulle carceri”. A parlare è Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, intervenuto al convegno “L’uomo non è il suo errore. Percorsi di rinascita”, organizzato dall’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna a corredo della mostra “Dall’amore nessuno fugge” allestita a Bologna. “L’albo sarà disposizione della magistratura - ha continuato Ostellari - ed indica le strutture che devono garantire alla Stato e alle persone detenute un percorso rieducativo, quel percorso di amore che è fondamentale in una persona”. L’intervento del sottosegretario Ostellari - Il riferimento è alla novità introdotta nel decreto carceri e che troverà spazio nei prossimi decreti attuativi che saranno adottati dal Governo. “Siamo arrivati al governo nel 2022 che è stato l’anno record dei suicidi in carcere. Fare sconti sulle pene, fare indulti è prendere in giro i detenuti perché sappiamo che la maggior parte dei carcerati tornano in carcere e quando vi rientrano hanno l’aggravante della recidiva. I dati dicono che il 70% delle presone che escono dall’esecuzione penale poi tornano a delinquere, quindi rientrano in carcere con un titolo di reato aggravato per forza di cose dalla recidiva. In questo modo si fa del male al detenuto stesso. I detenuti non hanno bisogno di illusioni ma di realtà e verità. Per questo abbiamo adottato misure per favorire la dignità della pena e la rieducazione del detenuto. Ed è solo grazie alla disponibilità di strutture come quella della Papa Giovanni allora ci sarà la possibilità di dare una possibilità di riscatto alle persone detenute” ha concluso il sottosegretario. Gli interventi al convegno - Al convegno, oltre al sottosegretario Ostellari, sono intervenuti Emma Petitti, presidente dell’Assemblea, Debora Serracchiani, componente della commissione Giustizia della Camera, Federico Amico, presidente commissione Parità, Roberto Cavalieri, garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Giulia Segatta, magistrata di sorveglianza a Trento, Giorgio Pieri e Matteo Fadda della Comunità Papa Giovanni XXIII. Contrari alla cultura dello scarto - “Siamo contrari alla cultura dello scarto, - ha dichiarato Matteo Fadda, responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII - vogliamo potenziare il modello della casa comunità perché abbiamo visto che funziona. Fra i nostri obiettivi c’è quello di ricostruire relazioni sociali per le persone accolte perché noi vediamo la persona come soggetto da recuperare e non per il danno che hanno fatto”. L’associazione di don Benzi gestisce 10 Comunità educanti con i carcerati (Cec), strutture per l’accoglienza di carcerati che scontano la pena, dove i detenuti sono rieducati attraverso esperienze di servizio ai più deboli nelle cooperative dell’associazione. La prima casa è stata aperta nel 2004. Ad oggi sono presenti 280 tra detenuti ed ex detenuti. Negli ultimi 10 anni sono state accolte 4mila persone. Le Comunità educanti con i carcerati (Cec) hanno un tasso di ricaduta nel reato pari al 12% a fronte del 70% di chi vive la detenzione tradizionale. Educazione e lavoro per la rieducazione - Giorgio Pieri, coordinatore delle Comunità educanti con i carcerati (Cec), è entrato nello specifico. “Nelle nostre comunità cerchiamo di realizzare quanto enunciato nell’art. 27 della Costituzione. Ma per la rieducazione il lavoro da solo non basta ma deve essere inserito in un contesto educativo. La comunità è questo contesto educativo perché è il luogo della relazione che guarisce. Non lo diciamo a parole ma lo facciamo sperimentare ai recuperandi, coloro che stanno espiando la pena. Le nostre comunità sono luoghi di espiazione della pena alternativi al carcere che offrono percorsi educativi personalizzati da svolgere in un circuito comunitario protetto, garantendo sicurezza ai cittadini, rispetto alle vittime, riscatto al reo. È importante avere un riconoscimento istituzionale e amministrativo, dato che lo Stato ancora non le finanzia”. Ancona. Primo concerto live in carcere con Musicultura per i detenuti ansa.it, 14 settembre 2024 La musica dal vivo entra nel carcere di Barcaglione ad Ancona. Un evento unico tenuto nel pomeriggio per i detenuti nella struttura, grazie a un concerto degli otto finalisti di Musicultura, il festival della canzone popolare e d’autore che si tiene d’estate a Macerata, arrivato alla 35/a edizione. All’esibizione ha assistito una cinquantina di detenuti, sui cento presenti nell’istituto, in veste di pubblico per i cantautori che hanno potuto conoscere dal vivo: una dozzina di detenuti avevano già ascoltato le canzoni e le avevano votate da remoto, come giuria speciale, grazie ad un progetto voluto dal Garante Marche dei diritti per la persona Giancarlo Giulianelli, con l’istituzione di laboratori musicali. In carcere sono entrati strumenti musicali e spartiti per due ore di concerto live, con brani propri e non solo, dei cantanti Anna Castiglia di Catania, vincitrice di Musicultura 2024, Nico Rezzo (Modica), De Stradis (Milano), Bianca Frau (Sassari), Helle (Bologna), Eugenio Sournia (Livorno), The Snookers (Morbegno). Con il progetto sono stati istituiti laboratori musicali in carcere, dove sono andati gli esperti che portano avanti da anni il festival di Musicultura. I detenuti che hanno aderito, una dozzina, hanno potuto sviluppare competenze musicali per assegnare per la prima volta un premio speciale del festival, chiamato “La casa in riva al mare” (come il brano di una canzone di Lucio Dalla che parla di un detenuto), ad uno degli otto finalisti di Musicultura. Il premio è andato alla cantante Helle. Il progetto prevedeva che la vincitrice del premio si sarebbe esibita dal vivo in carcere: l’idea però si è presto estesa agli altri sette finalisti che hanno voluto conoscere i detenuti che avevano analizzato e votato i loro brani. “Il primo live di questo tipo - ha osservato la direttrice del carcere Manuela Ceresani - sarà catalogato dal dipartimento. È importante far sì che ciò che si fa fuori poi si possa replicare anche all’interno”. Tra i cantanti e i detenuti è nata una amicizia. “Perché la musica in carcere? Per unire - ha detto Giulianelli - e far conoscere la loro realtà. Il prossimo anno spero di avere i permessi per i detenuti a vedere dal vivo Musicultura”. I cantanti sono stati tutti d’accordo nel sottolineare come “è stato un onore per noi esibirci, non abbiamo nulla da insegnare loro, la musica può essere anche terapia e non solo intrattenimento”. Il direttore artistico di Musicultura, Ezio Nannipieri ha parlato della “bellezza di condividere persone che non conosciamo e che sono consapevoli che sono in carcere per qualcosa che non dovevano fare però rimangono sempre esseri umani”. Daria Bignardi: “Chiudere le carceri? Sì, come sono ora fanno solo del male” di Federico Oselini ildolomiti.it, 14 settembre 2024 “Il carcere oggi è un luogo di dolore e sofferenza dal quale, nella maggioranza dei casi, si esce peggiori”. “Tutti i libri che ho scritto hanno un loro momento: sono loro che chiamano”. E così è stato anche per “Ogni prigione è un’isola”, ultima “fatica” della giornalista, conduttrice e scrittrice Daria Bignardi che sarà protagonista dell’appuntamento conclusivo dell’Agosto Degasperiano 2024, organizzato dalla Fondazione Trentina Alcide De Gasperi e in programma sabato 14 settembre (ore 18) all’anfiteatro del parco delle terme di Levico. L’incontro rappresenterà un viaggio “nell’affollata solitudine” del carcere, mondo che Daria Bignardi sceglie di raccontare penna alla mano, dopo quasi trent’anni di frequentazione. E lo fa, con rispetto e sensibilità, attraverso un incrocio di incontri, storie e vite di chi questo ambiente lo ha vissuto e lo vive - detenuti ma anche magistrati, direttori di carcere e agenti - con l’intenzione di “portare all’esterno” un mondo molto discusso ma ai più sconosciuto, anche perché spesso spaventa dal momento che, nell’immaginario comune, “lì dentro ci sono i cattivi”. Un mondo tragicamente sotto le luci della ribalta per temi quali il sovraffollamento delle strutture e per l’elevatissimo numero di suicidi e che, nell’intervista rilasciata a il Dolomiti, la giornalista definisce “un luogo di dolore e sofferenza e dal quale, nella maggior parte dei casi, si esce peggiori di prima”. Daria Bignardi, partiamo dall’inizio: come è iniziata la sua frequentazione, quasi trentennale, con il mondo del carcere? Al tempo scrivevo e conducevo un programma che si chiamava “Tempi Moderni”, era il 1997 o 1998: in quell’occasione pensai di portare in televisione anche la voce di un gruppo di detenuti del carcere di San Vittore. Ed è da quel momento che non ho più smesso di frequentare quel mondo. Prima di entrare negli anfratti del libro, una curiosità: parte dell’opera ha visto la luce nella solitudine dell’isola di Linosa. Perché questa scelta? Per immedesimarmi il più possibile nella solitudine e nell’isolamento, ho scelto un’isola piccolissima e remota. Nonostante Linosa sia bellissima e le carceri bruttissime, ci sono diversi aspetti comuni nei luoghi isolati e fortemente identitari: sono luoghi che apparentemente proteggono ma che spesso escludono, respingono e cristallizzano. Di pagina in pagina, si percepisce chiara l’intenzione di portare all’esterno il mondo del carcere, attraverso gli sguardi di chi lo vive: non solo detenuti ma anche agenti di polizia penitenziaria, direttori di strutture e magistrati... Questo perché volevo condividere gli incontri che ho fatto in tutti questi anni: il tutto senza senza retorica e senza pregiudizi, ma semplicemente raccontando e prendendo per mano, e portando con me, chi in carcere non è mai entrato. E si evince che chi non c’è mai entrato percepisce quel mondo come “spaventoso”, qualcosa che si preferisce non conoscere, quasi fosse una dimensione “a parte”... È normale che il carcere faccia paura: chi non lo conosce, infatti, immagina che lì dentro siano rinchiusi i cattivi e che questo serva alla nostra sicurezza, ma le cose sono ben più complesse di così. Complessità che negli anni ha potuto osservare, così come l’evoluzione del sistema carcerario. Qual è il suo giudizio sull’attuale situazione in Italia, condannata più volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo... Non credevo fosse possibile che andasse sempre peggio ma purtroppo sta andando così. La società “fuori” è sempre più squilibrata tra troppo poveri e troppo ricchi. E molti dei troppo poveri, dei più fragili per via di malattie psichiche o tossicodipendenze, affollano carceri già sovraffollate. Un terzo dei detenuti sono poi migranti stranieri, un terzo sono in attesa di giudizio, e tantissimi sono i malati. Ad emergere dalle sue parole è come il carcere riesca nell’ “impresa” di dividere ulteriormente la società…. Come dicevo, in carcere sono rinchiusi soprattutto gli ultimi: persone povere o malate o provenienti da ambienti svantaggiati. I grandi boss o i grandi criminali sono poche centinaia di persone, mentre la popolazione carceraria è ormai di 62 mila persone: una città come Olbia o Viareggio. Lei ha posto la lente di ingrandimento sul tema della condizione femminile in carcere, e a tal proposito ha dichiarato che questo “non è un posto per nessuno, in particolare per le donne”... Una condizione disperata: le donne sono poche, il 4 per cento della popolazione ristretta, e i progetti di formazione per loro sono pochi e retorici: cucina, sartoria, pulizie. Inoltre soffrono ancora di più degli uomini la lontananza dai figli e dalla famiglia e sono molto più “abbandonate”. “Inutile”, questo l’aggettivo con cui nel libro viene definito il carcere. E stupisce che a ritenerlo tale non siano tanto i detenuti, quanto ad esempio un direttore come Luigi Pagano o un ispettore di polizia penitenziaria che lo definisce “la cosa più stupida che esista”... Inutile è il carcere come è oggi: un luogo di dolore e sofferenza dal quale, nella maggioranza dei casi, si esce peggiori. Per parlare di cosa potrebbe migliorarlo serverebbe un libro intero e non scritto da me, ma da persone esperte come appunto Luigi Manconi, la provveditrice Lucia Castellano o l’ex direttore Luigi Pagano. Un tema che poi lei ha affrontato più volte è quello delle rivolte in carcere. Da San Vittore nel 2020 fino alle ultime evasioni dal carcere minorile “Beccaria”, che impatto hanno certi episodi sull’opinione pubblica?L’impatto non è certo positivo, in pochi, del tutto comprensibilmente, si chiedono il motivo delle rivolte e cosa ci sia dietro, e quel che arriva è solo la violenza e la ribellione. Un’ultima battuta, con uno sguardo al futuro. Come si immagina, se è possibile, un “carcere ideale” del domani? Non credo esista un carcere ideale. Forse potrebbe esserci un modo totalmente diverso di pensarlo, come è successo con la Legge Basaglia per i manicomi. La fioritura di referendum: il segno di una passione (e di una crisi) democratica di Giorgia Serughetti* Il Domani, 14 settembre 2024 Di fronte alle tendenze autoritarie nella cultura della destra di governo, quelle iniziative capaci di costruire e valorizzare la pluralità di interessi sono da salutare come manifestazioni di passione democratica resistente e vitale. Ma rappresentano pure un campanello di allarme. Alla riapertura dei giochi parlamentari, le chiacchiere estive sul diritto di cittadinanza ai figli di stranieri nati e cresciuti in Italia si sono rivelate per quello che erano: chiacchiere. Il no di Forza Italia alle proposte delle opposizioni sullo Ius Scholae, che Antonio Tajani fino a pochi giorni fa definiva un “diritto sacrosanto”, ha palesato la menzogna dietro l’apparente incrinatura nel fronte reazionario. Ragioni di alleanze, convenienze, strategie. Che marcano ancora una volta la distanza tra una politica che arranca, cammina sul posto o procede all’indietro sul terreno dei diritti, e le grandi questioni di giustizia a cui parti del paese chiedono risposte. Quando la strada è bloccata, spesso non resta che aggirare l’ostacolo. Ed è quello che la società civile si appresta a fare, ancora una volta, con il referendum promosso dai giovani italiani senza cittadinanza insieme a una rete di associazioni e partiti di opposizione, che mira (almeno) a ridurre a 5 - dai 10 oggi richiesti - gli anni di legale residenza necessari per essere riconosciuti come cittadini e cittadine. Ancora una volta, davanti alla sordità e alla chiusura autoreferenziale delle forze di governo, alla debolezza di un Parlamento esautorato delle sue funzioni, alla fragilità degli strumenti di intermediazione tra cittadini ed istituzioni, è al principale istituto di democrazia diretta previsto dalla nostra Costituzione che si affida la speranza. Quelli che abbiamo alle spalle sono stati mesi di fioritura di iniziative e raccolte di firme: contro l’autonomia differenziata che spacca il paese; contro il Jobs Act e le norme che generano precarietà e lavoro povero; contro il Rosatellum per una legge elettorale che garantisca il pluralismo e la scelta dei rappresentanti. Un segnale chiaro del desiderio di partecipazione che vive nel paese, nonostante il restringimento degli spazi democratici e di partecipazione. E che risalta nel contrasto con un governo che muove in direzione contraria: per ridurre, con il progetto del “premierato”, il pluralismo politico e l’autonomia del legislativo. Si tratta di due esiti contrapposti generati dalla stessa crisi della democrazia rappresentativa. Da una parte, una classe politica che - a più riprese negli ultimi decenni, e in modo pronunciato con l’attuale tentativo di riforma costituzionale - indica come unica risposta alla debolezza delle istituzioni il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo e del capo del governo, marginalizzando il ruolo delle opposizioni e del dissenso organizzato. Dall’altra, la rinnovata fortuna degli strumenti di democrazia diretta, in un contesto di crescente sfiducia nei partiti e nelle istituzioni. I non rappresentati - È ciò che accade, spiega la filosofa Valentina Pazé, quando cresce il popolo dei “non rappresentati”: la “popolazione eccedente” che la politica rimuove e dimentica (“I non rappresentati”, edizioni Gruppo Abele). Non rappresentati sono gli stranieri, “novelli meteci privi di cittadinanza”, ma anche le minoranze politiche sacrificate sull’altare di leggi elettorali orientate dal solo obiettivo della “governabilità”. E poi “gli arrabbiati, i delusi, i disillusi, che hanno smesso di partecipare perché dalla democrazia non si attendono più nulla” - in particolare, dagli strumenti della rappresentanza democratica. Per gli “esclusi di diritto”, gli “esclusi di fatto”, gli “autoesclusi”, gli strumenti di partecipazione diretta aprono orizzonti di possibilità e offrono occasioni di partecipazione. La straordinaria rapidità con cui alcuni quesiti hanno raggiunto le firme necessarie è nei fatti un segnale in controtendenza rispetto alla rappresentazione di apatia del corpo sociale che l’astensionismo crescente tende a suggerire. In modo specifico, di fronte alle tendenze autoritarie che allignano nella cultura della destra di governo, iniziative capaci di costruire forme di opposizione nella società e di valorizzare la pluralità di interessi, bisogni e voci sacrificata nelle dinamiche dei giochi parlamentari sono da salutare come manifestazioni di una passione democratica resistente e vitale. Altrettanto, però, rappresentano un campanello di allarme a cui partiti, benché impegnati a loro volta nella raccolta firme, sono tenuti a prestare attenzione. Perché, se la democrazia rappresentativa non può fare a meno dei corpi intermedi, la resistenza non può attestarsi sull’appello alla mobilitazione popolare in via diretta. Ai partiti e al lavoro dei rappresentanti resta il compito di ridurre la distanza tra corpo politico e corpo sociale. *Filosofa “Rapporto malato partiti-cittadini. E queste riforme non sono la ricetta” di Angelo Picariello Avvenire, 14 settembre 2024 Parla il professor Pizzolato, dell’università di Padova, relatore alla Settimana di Trieste: contro il verticismo ripartire dal radicamento territoriale. Il premierato? Apre la strada agli avventurieri. “La scrittura della Costituzione è avvenuta in un contesto di grandi divisioni ideologiche che avevano però un forte e comune radicamento popolare che diventava, spesso, stimolo di dialogo e addirittura anticipazione di mediazioni. I partiti esprimevano differenze che non albergavano solo nelle sedi del potere, ma che avevano profonde radici sociali e popolari. Ora, con la fine delle ideologie, i partiti non cercano neppure più un’intesa, ma galleggiano sulla società e l’interazione degrada a battaglia (o spartizione) di rendite”. Nel confronto tra la stagione costituente e il presente della politica ci sono tutte le preoccupazioni di Filippo Pizzolato, professore di Istituzioni di Diritto pubblico all’Università di Padova e di Dottrina dello Stato alla Cattolica di Milano, apprezzato relatore alla recente Settimana Sociale di Trieste. Professore, lei a Trieste ha parlato di rapporto malato fra cittadini e politica. Che cosa intendeva dire? Malato è il rapporto tra partiti e cittadini. I partiti devono garantire il collegamento tra la sfera sociale e quella politica, ma hanno disertato questo ruolo, assumendone uno, opposto e disfunzionale, di forze di occupazione di gangli sociali. Più che un’integrazione con la società, i partiti tentano spesso l’appropriazione strumentale e la “targatura” di iniziative civiche o di successi sociali, economici o sportivi; o mirano alla cooptazione di candidati-simbolo, usati come spot, anziché espressione di un legame vero con mondi vitali; o, in modo ancora più perverso, spargono germi di divisione sociale. In crisi dunque, più di tutto, sono i partiti malati di “leaderismo”. Nella Costituente Moro e Mortati proposero di inserire l’obbligo di democraticità interna, ma i comunisti si opposero per difendere il loro “centralismo democratico” e non passò. Fu un errore? Ragioni tattiche e storiche impedirono l’esplicitazione in Costituzione del criterio dell’ordinamento interno democratico dei partiti. Possiamo dire che fu un errore. Ma che non giustifica alcunché della latitanza di oggi, perché l’interpretazione sistematica della Costituzione consente di fondare l’esigenza della organizzazione interna democratica dei partiti, che è un passaggio regolativo indispensabile perché i partiti tornino al ruolo di raccordo tra tessuto sociale e istituzioni. In questo contesto il premierato potrebbe ridare forza ai cittadini, come sostengono le forze di governo? No. Anche a non voler cedere ad allarmi di svolta autoritaria, le modifiche proposte accreditano un modello istituzionale improntato alla delega verso il potere, a vantaggio di un’autorità monocratica, il/la premier, eletto direttamente. L’investitura del leader appare slegata perfino da partiti di riferimento, che degradano a liste (di) serventi, beneficiarie di un premio di maggioranza. Per sfiducia nei partiti, che però non vengono mai riformati, si apre la strada a possibili avventurieri, imposti comunicativamente, che magari faranno il lavoro “sporco” per altri che restano nell’ombra… Mancano adeguati contrappesi istituzionali, non solo rispetto al presidente della Repubblica, ma soprattutto rispetto al Parlamento. E si modifica la seconda parte della Costituzione senza curarsi della coerenza con la prima. Eppure la Costituzione, nei principi, esprime con il fondamento sul lavoro e con la valorizzazione dell’autonomia istanze antitetiche rispetto a queste riforme. Con il fondamento sul lavoro, la Costituzione valorizza la partecipazione feriale e plurale dei cittadini e al contempo promuove l’aspirazione a una democrazia retta sulla corresponsabilità nella costruzione della Repubblica. Il premierato procede nella direzione opposta della delega al potere e accredita l’idea, contraria a Costituzione, che il volere popolare possa essere unificato sotto la volontà singolare di un potere direttamente elettivo. L’autonomia è un principio costituzionale caro a Sturzo e De Gasperi. Perché questa autonomia differenziata non va bene? Perché è poco credibile un progetto di autonomia che è associato - con quale coerenza che non sia la tenuta della maggioranza? - a un meccanismo di verticalizzazione centralistica come il premierato, che smentisce la logica autonomistica che si regge invece sulla valorizzazione del pluralismo, della differenza e della partecipazione sociale. E poi perché l’autonomia di cui si parla non muove dai Comuni, grandi assenti di questo processo, e dalle concrete funzioni amministrative, ma assomiglia a una resa dei conti di potere (e di risorse) tra espressioni della classe politica nazionale e regionale, con il rischio concreto che si compiano in leggerezza scelte difficilmente reversibili. Da dove ripartire? Da una nuova legge elettorale? Prioritario è il radicamento democratico dei partiti. In assenza di questo, i partiti hanno dimostrato di saper imprimere una torsione su qualsiasi formula elettorale. Queste formule devono uscire dal cono d’ombra del governo e diventare luogo di condivisione-mediazione, in tempi lontani dalle scadenze elettorali. E più che alla riforma della Costituzione, bisogna guardare ai piani bassi: alle nuove forme di vitalità e di partecipazione civica, anche dei giovani. E all’Europa... Trieste che prospettiva apre per i cattolici impegnati nel sociale e in politica? Quella della serietà dell’impegno politico. E della serietà, non della retorica, costituzionale. Occorre fare attenzione al rischio di cedere alle lusinghe del potere. E interrogarsi sulle forme istituzionali che promuovano le forme di impegno civico e di responsabilità sociale. Inutile proclamare la sussidiarietà e l’autonomia, se poi non se ne sanno leggere i risvolti istituzionali. Cittadinanza. Allo “ius scholae” serve l’aula. In tutti i sensi di Paolo Borgna Avvenire, 14 settembre 2024 Le schermaglie parlamentari che sono iniziate sullo ius scholae possono lasciare perplessi. Ma non stupiscono perché appartengono al clima politico di questi anni. Un partito di minoranza (Azione) propone, con un emendamento al decreto sicurezza, di introdurre lo ius scholae negli esatti termini annunciati da Forza Italia in agosto: cittadinanza a chi è nato in Italia e ha 16 anni avendo compiuto la scuola obbligatoria. Ma Forza Italia vota contro, per sottrarsi al “giochino provocatorio” di spaccare la maggioranza, proponendo invece di affrontare il tema, a breve, in una legge organica che rivisiti tutta la normativa risalente al 1992. L’opposizione risponde che la decisione di Forza Italia “è lo specchio dell’ipocrisia di questa maggioranza” (parole di Marco Furfaro). Noi pensiamo che Antonio Tajani sia sincero quando definisce lo ius scholae “un diritto sacrosanto”. Ma è anche vero che, come ha scritto Danilo Paolini su queste colonne (12 settembre), proprio perché lo ius scholae “non è nel programma di governo”, si è persa un’occasione per difendere le prerogative del Parlamento, come luogo in cui posizioni anche diverse si confrontano alla ricerca dell’accordo migliore per il bene comune. Un sogno? Forse. Ma a noi piace ancora coltivarlo. E ci fa piacere leggere che Marco Furfaro assicura che, quando Forza Italia presenterà il suo progetto, il Partito democratico lo voterà, anche se non del tutto coincidente alla sua proposta, perché “quando si parla della vita delle persone ogni centimetro di miglioramento è benvenuto”. Speriamo davvero che ciò avvenga e che non prevalgano ancora una volta i tatticismi di partito, magari motivati dalla logica del “più uno”. Lo ius scholae (o ius culturae, la sostanza non cambia) è uno di quei temi che riguardano le regole generali di convivenza, che in quanto tali dovrebbero essere ampiamente discusse e condivise, oltre le logiche di schieramento. Ci sia consentito un modesto suggerimento: accingendosi alla discussione, i nostri rappresentanti in Parlamento, rileggano certi resoconti dei lavori della Costituente. Ad esempio, gli interventi di Aldo Moro, Lelio Basso, Amintore Fanfani, Palmiro Togliatti, Roberto Lucifero, sulla discussione dei principi generali. E si vedrà che anche quando (come nel caso del monarchico Lucifero sul secondo comma dell’art. 3) le opinioni non concordavano, questi dissensi erano espressi con profondità e rispetto e sempre nell’ottica di non voler rinunciare, a priori, alla ricerca di un accordo. Un esempio per tutti: la discussione che precedette la proclamazione dell’Italia come “Repubblica democratica fondata sul lavoro” e il convergere quasi unanime su questa formulazione genialmente proposta da Fanfani. Questo è il cuore della Costituzione che ci è tanto cara. Quanto al presente e al futuro, Avvenire da anni sta combattendo per il riconoscimento dello ius scholae (o ius culturae). Per capire quanto sia giusta, necessaria e utile questa riforma basti ascoltare la voce degli insegnanti di qualunque grado di scuola, che da sempre ci raccontano, con la lingua della esperienza di vita, quanto sia pericolosa (e incomprensibile per i compagni di scuola) la creazione di un doppio status tra giovani con eguale radicamento, cultura ed educazione. Gli insegnanti sono i più attenti conoscitori dei ragazzi. E dunque i più capaci ad immaginare il futuro. Un buon motivo per seguire il loro consiglio. Migranti. Centri in Albania, Piantedosi accelera. Un caso le Sim card tolte ai profughi di Daniela Fassini Avvenire, 14 settembre 2024 Intanto va avanti la stretta del governo sui migranti irregolari: l’ultimo anello di una lunga catena riguarda il cellulare vietato (in realtà la Sim card) per chi non è regolare in Italia. Si tratta di un articolo del provvedimento inserito durante la discussione in commissione, che va a modificare il codice delle comunicazioni elettriche del 2003. “Se il cliente è cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea, deve essere acquisita copia del titolo di soggiorno di cui è in possesso”. Recita così la norma inserita nel ddl sicurezza, all’esame dell’Aula della Camera. L’articolo 32 in questione nega la possibilità ai cittadini extra Ue di acquistare una scheda Sim per la telefonia mobile in assenza di regolare permesso di soggiorno. La pena, per il commerciante, è di vedersi chiudere il negozio. Mentre per il cittadino straniero si prevede lo stop a poter stipulare un contratto telefonico fino a due anni. Una disposizione che mira a evitare che si firmi un contratto di telefonia mobile per contro di altri (un possessore di regolare permesso al posto di chi il permesso non lo possiede). Immediata la reazione dell’opposizione: “L’articolo 32 del disegno di legge sicurezza è un concentrato di ipocrisia e razzismo - sottolinea Filiberto Zaratti, capogruppo di Avs nella commissione Affari costituzionali della Camera - Gli immigrati irregolari vengono sfruttati nei nostri campi, nelle nostre aziende ma il governo Meloni vuole togliergli il diritto ad avere una Sim telefonica. Prevedendo ritorsioni anche sull’eventuale rivenditore. Quell’articolo espone l’Italia alla vergogna internazionale, ritiratelo”. Per Riccardo Magi (Più Europa) una “disposizione incostituzionale” che colpisce “i migranti in attesa di permesso di soggiorno che non ha alcuna giustificazione legata alla sicurezza”. Anche per Laura Boldrini (Pd) “si tratta dell’ennesima discriminazione dopo la norma che manda in carcere le donne incinte o con figli neonati, scritta espressamente per punire le donne Rom, e quella che punisce con la detenzione fino a due anni chi manifestando fa un blocco stradale”. Si avvicina intanto la data “X” per l’apertura dei due centri di prima accoglienza in Albania. Dopo l’ultimo rinvio che fissava al primo agosto la data dell’avvio ufficiale, il 22-23 settembre dovrebbero essere operativi i primi 400 posti - spiega una fonte di governo - avviando così, seppur a capacità ridotte, i due centri di Shengjin a Gjader. L’uso del condizionale è d’obbligo: “è un dossier complicato, ogni giorno ha la sua pena”, confida chi lavora alla mission fortemente voluta dalla premier Giorgia Meloni, volata in Albania a giugno scorso per visionare con i suoi occhi l’andamento dei lavori. Dalla riunione di giovedì presieduta dal sottosegretario Alfredo Mantovano - al tavolo, oltre ai ministri interessati dal dossier, anche il prefetto di Roma Lamberto Giannini - sarebbe emerso più di un problema per arrivare al via libera del Genio militare italiano. Non ultimo, viene riferito, le piogge incessanti che hanno rallentato l’azienda albanese che doveva posare l’asfalto sull’area destinata all’hotspot sulle colline di Gjader. Le piogge che stanno rallentando i lavori sono tuttavia solo l’ultima grana di una lunga serie. Tanto che c’è chi non nasconde il timore che i tempi possano allungarsi ulteriormente, facendo slittare addirittura a novembre l’apertura dei due hotspot. Anche se sulla tempistica, il titolare del Viminale conferma: “Stiamo completando gli ultimi lavori, non voglio dare una data precisa, ma credo che siamo veramente agli sgoccioli” ha detto il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. “Nel giro di pochi giorni o poche settimane potremo iniziare a portare le prime persone lì” ha concluso. Ma anche su questi due centri non si fermano le polemiche. “L’esperimento albanese potrebbe morire sul nascere” ne è certo Gianfranco Schiavone (Asgi). “Il protocollo tra Italia ed Albania esclude del tutto l’esistenza di misure alternative al trattenimento delle persone che saranno portate in Albania e rinchiuse nei centri per l’esame delle loro domande di asilo - spiega dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione - vengono rovesciati completamente i fondamenti del diritto dell’Unione che prevede che i richiedenti possono essere trattenuti soltanto in circostanze eccezionali. Ritengo pertanto che la magistratura chiamata a valutare i provvedimenti di trattenimento nei due centri albanese prenderà atto di un radicale contrasto con il diritto europeo e quindi non potrà convalidare i trattenimenti nei centri”. Il Governo vuole togliere ai migranti anche il telefono di Marco Pasi Il Manifesto, 14 settembre 2024 La stretta contenuta nel ddl sicurezza: “Senza permesso di soggiorno niente scheda Sim”. Niente più Sim telefonica per chi non è in possesso di un permesso di soggiorno. Tra gli articoli del decreto sicurezza in discussione alla Camera in questi giorni, il governo guidato da Giorgia Meloni ne presenta uno che si prospetta “una vera e propria mostruosità” per chi arriva in Italia. Approderà in aula martedì e prevede una modifica al codice delle telecomunicazioni per cui, per le persone extracomunitarie, non sarà più sufficiente il solo documento di identità per acquistare una Sim telefonica: servirà presentare anche il permesso di soggiorno. L’articolo del provvedimento è il numero 32, modifica il codice delle Telecomunicazioni ed è stato inserito durante la discussione in commissione. Un tentativo del governo di produrre quello che loro stessi hanno definito “effetto deterrenza”, ed è chiaro che con questa mossa si punti a rendere impossibile la vita dei migranti, arrivando addirittura a impedire loro di comunicare con chiunque. L’obbligo di presentare anche il permesso di soggiorno per avere la possibilità di intestarsi una scheda telefonica ha quindi tutto il sapore di una presa in giro, visto che solo per fissare un appuntamento possono volerci mesi, se non un anno intero. Anche per coloro che hanno tutti i requisiti, l’attesa per completare la procedura è interminabile, lasciando molti migranti in una condizione di limbo, legalmente parlando. L’articolo vieta anche la possibilità di sottoscrivere un nuovo contratto, per un periodo di tempo che va dai sei mesi fino a due anni, a chi, in passato o in flagranza, è incriminato di scambio di persona. Sono previste poi sanzioni per i rivenditori che rilasceranno schede Sim senza richiedere tutti i documenti necessari al momento della vendita, tra cui la chiusura temporanea del negozio. “Rischia di essere una vergogna internazionale” sostiene il capogruppo di Avs nella commissione Affari costituzionali della Camera, Filiberto Zarattí: “sarebbe il capitolo più brutto fino ad oggi, dopo i già pessimi provvedimenti di questo decreto sicurezza. È un concentrato di ipocrisia e razzismo. Quell’articolo espone l’Italia alla vergogna internazionale, ritiratelo”. Prosegue Zaratti: “è facile scandalizzarsi quando accadono le tragedie. Nel nostro paese è tollerato sfruttare la forza lavoro dei migranti, ma poi non gli concediamo neanche la possibilità di avere un numero di telefono. È una vera e propria mostruosità e noi di Avs continueremo a dare battaglia perché non sia approvato”. Anche se le possibilità che venga respinto sono quasi nulle, “essendo parte integrante dell’articolo 32 e non un semplice emendamento, il rischio che a breve sia effettivo è reale”, conclude il deputato. Dello stesso avviso il segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo. “Anche comunicare, a proprie spese peraltro, diventa un reato - sostiene -. Si tratta dell’ennesimo esempio di come questo governo consideri le persone non ancora regolari, come criminali a prescindere, buoni per essere sfruttati nei campi, in edilizia o nel lavoro di cura, ma che non debbono avere neanche il diritto di poter comunicare”. Secondo il segretario di +Europa Riccardo Magi, invece, si tratta di una norma incostituzionale e contraria alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: “si tratta di una disposizione incostituzionale perché è evidente l’intento discriminatorio, e in palese contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, visto che lede la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera”. Questa nuova trovata del governo sembra davvero puntare ad aumentare il più possibile le difficoltà e il senso di isolamento dei migranti chi arrivano in Italia. Ne è convinto Magi: “L’ennesimo obbrobrio del ddl sicurezza è servito, una modifica al codice delle telecomunicazioni che rende di fatto impossibile ai cittadini extracomunitari di acquistare una scheda Sim. Una norma per colpire i migranti in attesa di permesso di soggiorno che non ha alcuna giustificazione legata alla sicurezza ma che invece, come molte altre norme contenute in questo disegno di legge, rischia di essere abbattuta nei tribunali dai ricorsi”. Migranti. Maysoon non è una scafista: da 9 mesi in cella innocente di Angela Nocioni L’Unità, 14 settembre 2024 Ci sono prove chiarissime della sua innocenza e anche prove lampanti che chi doveva indagare per dimostrare la sua colpevolezza non l’ha fatto. Ma Maysoon Majidi, 27 anni, curdo-iraniana, è ancora in cella a Reggio Calabria con l’accusa di essere una scafista. Mercoledì a Crotone è fissata l’udienza per il suo processo che continua ad ignorare una informazione fondamentale: sono i suoi stessi accusatori a scagionarla dicendo di non aver mai detto quello che viene loro attribuito. Maysoon, con seri problemi di salute, magrissima e depressa, su pressioni della famiglia e del suo avvocato Giancarlo Liberati ha desistito ieri dal continuare il suo secondo sciopero della fame per chiedere di essere scarcerata. Il Tribunale della libertà dovrà pronunciarsi il 17 ottobre, tre richieste di scarcerazione sono state già respinte. Lei è in carcere da Capodanno. È una nota attivista per i diritti umani. Non capisce perché è ancora in carcere 4 mesi dopo la fila di elementi che dimostrano la sua innocenza e dopo esser riuscita, solo a maggio, a farsi interrogare dalla pm: 10 ore di interrogatorio. Ad accusarla di aver collaborato a bordo con gli scafisti erano le dichiarazioni di due migranti che hanno viaggiato nella stessa barca a vela incagliatasi il 31 dicembre. I due che hanno firmato l’atto d’accusa la scagionano completamente. Hasan Hosenzadi, uno dei due, che vive a Berlino è stato dichiarato irreperibile dalla Guardia di finanza delegata dal tribunale di cercarlo. Ma non è vero che era irreperibile, bastava telefonargli. L’ha fatto il difensore, Giancarlo Liberati, appena uscito dall’udienza in cui il tribunale comunicava che l’accusatore purtroppo era irreperibile. Ha risposto subito: era dal dentista. Il 10 maggio, l’abbiamo chiamato dall’Unità, ha risposto immediatamente. Ha detto: “Sono disposto a giurare che quella ragazza non ha niente a che fare con chi gestiva la barca, non ha fatto niente, viaggiava come me”. E ancora: “Ho detto che questa ragazza era una come noi, del tutto estranea, mi hanno fatto firmare alcuni documenti, non so esattamente cosa fossero. La polizia ha detto che questa ragazza era una degli scafisti. Ha insistito che avrei dovuto dire che era una scafista”. Lo ha ripetuto la settimana dopo a un inviato de Le Iene, con altri dettagli. Anche l’altro accusatore, Alì Dara Dana, la scagiona completamente. All’avvocato di fiducia Maysoon ha detto di aver pensato che la giustizia iraniana fosse una delle peggiori del mondo, ma che avendo provato sulla sua pelle quella italiana inizia a ricredersi. Tre istanze di scarcerazione sono state finora respinte. Mercoledì saranno interrogati i testimoni della polizia giudiziaria, il primo ottobre gli interpreti (che hanno mostrato finora, quantomeno, di aver capito fischi per fiaschi), il 22 per la difesa saranno sentite due persone arrivate in Italia nella stessa barca di Maysoon il 31 dicembre e suo fratello che viaggiava con lei. La sentenza di primo grado è attesa per il 5 novembre. Mysoon rischia una condanna a 16 anni di carcere. Drogate sono le leggi: ecco i dati del Governo sbugiardato dal Tar d Marco Perduca L’Unità, 14 settembre 2024 Per la seconda volta il Tribunale amministrativo ha sospeso il decreto Schillaci che voleva inserire i prodotti con Cbd tra gli stupefacenti. L’Ass. Coscioni ha potuto leggere le ragioni del ministero. Eccole. Più che l’effetto drogante della cannabis c’è il modo drogato con cui se ne parla e legifera. Da anni si leggono studi, pareri, leggi e politiche basate su disinformazione voluta mista a ignoranza cronica. Questo inquadramento del problema, propinato con bollini istituzionali, complica cose di per sé semplici e su cui da anni la comunità internazionale e scientifica agiscono in modo diametralmente opposto. Il 10 settembre scorso il TAR del Lazio ha sospeso per la seconda volta l’entrata in vigore del decreto del Ministro Schillaci che voleva inserire nella tabella degli stupefacenti i preparati con Cannabidiolo (CBD) per via orale. Dopo uno stop dell’ottobre 2023, a giugno il Ministro aveva forzato la mano e firmato un nuovo decreto entrato in vigore il 6 agosto. Con un accesso agli atti l’Associazione Luca Coscioni ha ottenuto la Relazione del Ministero e quella dell’Istituto Superiore di Sanità preparate per giustificare la decisione. Quando il TAR aveva accolto la richiesta di sospensione presentata l’anno scorso da Imprenditori Canapa Italia, aveva stigmatizzato il decreto di Schillaci perché deficitario nella parte sulla pericolosità del CBD. “La motivazione” recitava la decisione “appariva priva della richiesta integrazione istruttoria da parte del Consiglio Superiore di Sanità (CSS) e non sufficientemente chiara in ordine al dirimente profilo degli ‘accertati concreti pericoli di induzione di dipendenza fisica o psichica’ di cui ai criteri indicati all’art. 14, co.1, lett. f) punto 1) del D.P.R. 390/1990”. A una attenta lettura delle relazioni tecniche i problemi evidenziati dal TAR restano tutti. L’istruttoria contiene una bibliografia di “soli” 52 studi a fronte delle centinaia disponibili. Si ammette che i necessari “pericoli di induzione alla dipendenza fisica o psichica” non sono stati “accertati” nella loro concretezza. Il parere del CSS (organo di nomina ministeriale) non accenna minimamente agli approfondimenti dell’OMS che solo quattro anni fa ha raccomandato alla Commissione Droghe dell’Onu di cancellare la cannabis dalla IV tabella della Convenzione del 1961- cosa in effetti accaduta. Il motivo? facilitarne l’impiego terapeutico. Per “dimostrare” i rischi del CBD si fanno esempi di uso orale in concomitanza con quello di altri farmaci e/o molecole. La cosa che più “sorprende” sono le conclusioni dell’ISS (organo indipendente), ricordando che dal monitoraggio semestrale di eventuali effetti avversi di sua competenza non emergono segnali di allarme per preparazioni con CBD. L’analisi dei dati riguarda le segnalazioni che riportano prodotti con sospetta presenza di CBD. Visto che le preparazioni galeniche magistrali a base di cannabis contengono principalmente il THC, queste sono state escluse dalle analisi perché non sarebbe stato possibile attribuire esclusivamente al CBD le reazioni avverse segnalate. Il monitoraggio dice che dal 2015 al 28 febbraio 2024 sono pervenute al sistema di fitosorveglianza due segnalazioni di sospette reazioni avverse attribuibili all’assunzione di preparati con CBD! In entrambe le segnalazioni su 201 totali era indicata l’assunzione di prodotti contenenti olio di CBD al 5%. Poco meno dell’1% delle segnalazioni relative a preparazioni galeniche a base di cannabis peraltro contenenti varie concentrazioni di THC e di CBD. L’udienza di merito sul CBD del TAR fissata per dicembre ci dirà se si tratta di ignoranza o ideologia. Si accettano scommesse. Il braccio violento della Tunisia di Carlo Bonini, Leonardo Martinelli e Matteo Garavoglia* La Repubblica, 14 settembre 2024 Detenuti morti in carcere, ragazzi picchiati senza motivo dalla polizia, dissidenti e attivisti repressi. Sotto Kais Saied il Paese maghrebino ha detto definitivamente addio ai tempi della rivoluzione dei gelsomini. Ed è diventato uno Stato di polizia. Anche con i soldi dell’Ue. Era una sera di primavera: mite, all’apparenza. Aziz Ben Khmis, 26 anni, filava via col suo motorino su una traversa di Avenue Bourguiba, l’arteria principale di Tunisi. Era l’anno scorso, lui lavorava come corriere per le farmacie della capitale: un impiego stressante e pagato una miseria, ma pur sempre un lavoro, in Tunisia se ne trova sempre meno. Con il suo pacco di farmaci, procedeva a rilento su quel reticolo di strade della “città europea”. I bianchi palazzi coloniali di epoca francese soffrono l’inesorabile declino del tempo, mentre le strade si riempiono di passanti affannati, incuria e auto impazienti. “Andavo di fretta e non si avanzava: ho preso una via contromano. All’improvviso due poliziotti in civile hanno fatto cenno di fermarmi. Mi hanno controllato i documenti e, senza dirmi niente, uno di loro mi ha tirato un pugno in pieno volto e mi ha rotto il naso”. Aziz non ha reagito, neppure quando il motorino è stato sequestrato e neanche nelle settimane successive, quando nessuno voleva prendere in carico la sua denuncia al commissariato. Originario di Boudria, un quartiere popolare nella periferia ovest di Tunisi, sa bene come funziona: “Fanno sempre così quando capiscono che vieni dalla periferia”. Liquidato quell’”incidente”, Aziz non ha potuto farci niente. Capelli corti e barba ben curata, quando oggi ne parla, spezza le frasi con sorrisi improvvisi, quasi a nascondere l’incredulità e il nervosismo che prova nel raccontare quanto è accaduto. “La Repubblica” ha raccolto una serie di testimonianze, come quella di Aziz, di uno “Stato di polizia” di ritorno nel paese che, nel 2011, con la Rivoluzione dei gelsomini, mise fine alla dittatura. Prima, sotto Zine El Abidine Ben Ali, il dittatore, Avenue Bourguiba e dintorni erano puliti e ordinati, ma la repressione delle forze di sicurezza spudorata e feroce. Poi, con l’arrivo della democrazia, si ridusse, ma sopravvisse nascosta e sottile. Intanto la transizione democratica (2011-21) ha coinciso con il deteriorarsi della situazione socio-economica del paese, mentre il cuore di Tunisi diventava sempre più sporco. Oggi la repressione ha cambiato volto: è quella di Kais Saied, presidente dal 2019 e che il 25 luglio 2021 sciolse il Parlamento, imponendo una nuova Costituzione iperpresidenzialista: ha azzerato la magistratura e compiuto una sterzata autoritaria. In parallelo, ha accettato di stringere i controlli sulle partenze dei migranti dalle sue coste, guadagnandosi il sostegno dell’Europa e soprattutto della sua amica Giorgia Meloni: “La collaborazione con la Tunisia è per l’Italia una priorità assoluta da molti punti di vista ed è anche un tassello del lavoro che l’Italia sta portando avanti con il Piano Mattei, per costruire con le nazioni del continente africano una cooperazione su base paritaria e che sia finalmente vantaggiosa per tutti”, ha detto la premier nell’aprile scorso. Il 6 ottobre prossimo sono fissate le elezioni presidenziali. Saied, in previsione, ha incarcerato decine di giornalisti, attivisti e avversari politici (mentre Meloni e gli altri leader europei guardavano da un’altra parte). Lui vuole essere rieletto, a tutti i costi. Ma ritorniamo su avenue Bourguiba. È l’ombelico di un paese, il suo termometro. È la strada dove rivendicazioni politiche e contestazioni hanno sempre preso forma. Su questo viale alberato, dove i bar abbondano e il vociare continuo dei passanti si perde tra i clacson delle macchine, oggi si protesta in solidarietà con Gaza contro “l’entità sionista”, come i media pubblici chiamano qui Israele: è una battaglia talvolta cavalcata opportunisticamente da Saied, che ben conosce l’affetto del suo popolo per la causa palestinese. Su avenue Bourguiba si riversano pure i piccoli-grandi eroi che ancora osano ribellarsi al potere. All’epoca della rivoluzione, decine di migliaia di persone presero d’assalto il ministero degli Interni, un palazzo massiccio, squadrato e misterioso, che si trova agli inizi del viale. Aziz è stato aggredito dalla polizia proprio lì dietro, dieci anni dopo. Da quello scatolone di cemento scuro si manovravano i fili dello “Stato di polizia” ai tempi di Ben Ali. Quei tempi sembrano ritornati. E in più con una situazione economica degradata. La sfera politica - Asrar Ben Jouira non si è mai tirata indietro: pure lei, da quando è stato possibile, dopo il 2011, è andata sempre su Avenue Bourguiba a esprimere il proprio malcontento. 32 anni, attivista e femminista di lunga data, è una delle testimoni più affidabili di cosa voglia dire scendere in piazza per i propri diritti in Tunisia. Tuttavia, dal 25 luglio 2021, le speranze e anche le frustrazioni per un futuro migliore hanno lasciato spazio a un senso di rassegnazione: “Oggi non esiste più l’attivismo - ammette -, è cambiato tutto da quando c’è Kais Saied”. Asrar ha l’aria rassicurante, non è esattamente il ritratto della violenza. In passato le sue battaglie erano state per cambiare leggi dubbie, come un discusso decreto che ha dato ancora più potere alle forze di polizia. Poi, però, c’è stato un punto di non ritorno. “Era qualche giorno prima del referendum costituzionale del 2022 - ricorda -. Protestavamo su Avenue Bourguiba in maniera pacifica. A seguito di quella manifestazione mi sono ritrovata con otto capi d’accusa, tra cui un’aggressione alle forze di polizia. In totale rischio fino a dieci anni di prigione. Sono sicura: è tutto legato alle denunce delle forze dell’ordine, che avevo fatto negli anni passati”. Oltre a vivere da allora con l’angoscia di vedersi condannare a lunghe pene di carcere per accuse che ritiene infondate - una sorta di pretesto per neutralizzarla - proprio a causa del suo militantismo, Asrar assicura di aver subito una violenza di tipo sessuale da parte dei poliziotti durante una manifestazione e diverse campagne d’odio sui social. “Prima le aggressioni erano mirate - conclude - e riguardavano singoli individui. Oggi, invece, può capitare a chiunque”. Tra chi, negli ultimi decenni, ancora prima del 2011, ha difeso i diritti umani in Tunisia e lottato per migliorare il Paese, c’è Sihem Bensedrine. Dal 2014 al 2018 aveva presieduto l’Istanza per la Verità e la Dignità (Ivd), una commissione costituzionale per fare luce sui crimini compiuti durante la dittatura e nelle settimane della rivoluzione del 2011. Anni che poterono aprire uno squarcio sulla recente storia tunisina, ma non sono serviti a far cessare le violenze, che emanano dalle istituzioni. A sorpresa, dopo così tanti anni, a inizio agosto Bensedrine è stata incarcerata per aver falsificato il rapporto dell’Ivd: un’accusa che la società civile tunisina ha subito respinto al mittente, ribadendo che questa mossa nasconde un interesse politico per zittire l’opposizione. “La Repubblica” ha potuto incontrare Bensedrine qualche settimana prima dell’accaduto e le sue parole pesano come macigni sulle spalle di Kais Saied e dei suoi partner europei: “Dal 2021 tutto si è accelerato. Il vecchio apparato è tornato in piena forza, senza freni e senza limiti. Gli europei sono complici. Sostengono Kais Saied e il suo regime, legittimando così le sue politiche repressive. Continuano a supportare le forze di sicurezza, che ricevono nuove auto per la polizia e grandi attrezzature: fanno quello che vogliono, mentre lo Stato è in bancarotta”. Lo Stato di diritto che non c’è - Era una tranquilla giornata primaverile del 2022 quando Mohamed (ndr, è un nome di fantasia) venne svegliato da alcuni agenti di polizia, mentre dormiva per strada a Tunisi, di fronte alla sede nazionale della Garde nationale, la gendarmeria, alle dipendenze del ministero degli Interni. Siamo sulla tangenziale che corre verso la Marsa: si tratta di una delle strade principali della città, è molto trafficata e collega il centro alla periferia nord, residenziale e benestante. Da lì Mohamed è stato posto sotto la custodia dello Stato e le forze di sicurezza lo hanno trascinato alla prigione di Mornaguia, a decine di chilometri di distanza, nei sobborghi ovest della capitale. È sempre lì da due anni e ancora oggi nessuno sa il perché. Non è chiaro neppure per l’Organizzazione contro la tortura di Tunisi (Omct), che ha seguito il caso fin dal principio. Non lo è neanche per sua madre, la quale preferisce non rivelare l’identità di suo figlio, per la vergogna e per paura che i vicini e gli altri familiari possano venire a conoscenza della sua malattia mentale. La mancanza di tutele giuridiche e di sicurezza è qualcosa di ricorrente in Tunisia, nonostante nel corso degli anni il piccolo paese nordafricano abbia cercato più volte di riformare il suo sistema giudiziario e di rafforzare lo stato di diritto. In particolare, l’Unione europea è stata una delle istituzioni che ha fornito un importante aiuto economico per adeguare il sistema tunisino agli standard internazionali e per formare gli agenti di polizia, chiamati a risolvere emergenze di questo tipo. Fin dalla rivoluzione del 2011, Bruxelles ha concesso alla Tunisia più di 570 milioni di euro per ristrutturare i tribunali e le prigioni, per informatizzare le procedure penali e civili e per fornire equipaggiamenti tecnici al ministero degli Interni. Soldi che hanno permesso anche di intervenire, per renderlo più moderno, sul carcere di Mornaguia, dove si trova Mohamed. Oggi il ragazzo ha 26 anni e, secondo sua madre, si trova in una posizione di assoluta vulnerabilità. “Lo vado a trovare ogni settimana, ma non sta bene - racconta -. Una volta mi sono preoccupata tantissimo, perché sono andata e lui non c’era. Mi hanno detto soltanto che era in punizione in una cella d’isolamento. Un’altra volta la sua mano era di un colore strano e aveva diversi lividi sul corpo. Gli ho chiesto se lo avessero picchiato e, prima di rispondermi, si è girato verso i poliziotti, negando. Sono preoccupata per mio figlio. I medici del carcere mi hanno detto che soffre di schizofrenia e depressione: non dovrebbe stare lì”. Il giorno che Mohamed è stato ritrovato in uno stato confusionale di fronte alla caserma della Garde nationale, nel suo zaino aveva una copia del corano e un coltello. Quanto basta per accusarlo di sospetto terrorismo, anche se i dettagli del suo fascicolo giudiziario non sono mai stati resi noti. A due anni da quest’episodio, la vita del giovane e quella dei familiari è stata stravolta per sempre. Come diversi suoi coetanei, nel 2021, dopo la laurea d’ingegneria, Mohamed aveva deciso di lasciare la Tunisia per cercare fortuna all’estero. Aveva trovato uno stage in un’impresa informatica in Costa d’Avorio. Dopo qualche mese, aveva cominciato a soffrire di disturbi mentali. Una volta rientrato in Tunisia, il suo stato di salute aveva continuato a peggiorare, fino a ritrovarsi in prigione. Oggi questo ragazzo è in carcere senza poter conoscere le accuse che gli sono rivolte, ma, soprattutto, senza tutele giuridiche e mediche per poter sperare in un futuro migliore: “A volte mi parla in maniera strana - sospira la mamma - e non capisco quello che dice. Ho capito, però, che ha l’intenzione di suicidarsi, una volta uscito dalla prigione”. L’azzeramento dei diritti civili - Il presidente Saied è un uomo di poche parole. Preferisce parlare in arabo classico alle folle, anche a coloro che non lo capiscono, nei quartieri più periferici della capitale. Le sue prese di posizione sono essenziali, ma molto chiare. Oltre a “ridare dignità al popolo tunisino”, molto spesso i suoi discorsi sono rivolti contro le organizzazioni internazionali che difendono i diritti civili, accusate in più occasioni di voler destabilizzare il Paese con valori sbagliati rispetto alla cultura tunisina. La comunità lgbtiqi+ è una delle più esposte alla violenza dei suoi discorsi. Che spesso si traduce nella repressione da parte della polizia. Saif Ayadi è il direttore esecutivo di Damj, l’associazione per la giustizia e l’uguaglianza. Sorriso accogliente, a un primo sguardo potrebbe addirittura sembrare timido. Eppure, non ha mai mancato una manifestazione per chiedere maggiori diritti civili, per le persone Lgbtiqi+ e non solo, e da anni è uno dei volti più noti delle proteste: in prima linea, è sempre pronto a fare da scudo alle compagne e ai compagni: “Ma le aggressioni dirette e fisiche non sono niente rispetto a quelle psicologiche”, racconta, scoppiando in una delle sue risate, che sdrammatizzano tutto. Siamo nella sede dell’organizzazione, appena dietro l’ambasciata di Francia e ancora a breve distanza dal ministero degli Interni, il tetro palazzone. Ayadi ha cominciato il suo attivismo a Gabès, da dove proviene, nel Sud-Est del paese, da anni al centro di una battaglia ambientalista contro un enorme polo chimico, che scarica i suoi veleni in mare. “La prima volta che mi hanno arrestato - ricorda - avevo 16 anni. Era dopo la rivoluzione. Facevo parte di un movimento contro il reintegro delle personalità legate al regime di Ben Ali ed ero colpevole di aver fatto dei murales su alcuni edifici pubblici. Sono stato liberato dopo due giorni, ma nel frattempo sono stato picchiato e mi hanno tenuto in una stanza al buio, dove la puzza era insopportabile”. Per lui, è stata solo la prima di una lunga serie di brutte esperienze. Nel corso degli anni Ayadi, militante anche della Lega tunisina dei diritti dell’uomo, ha subito aggressioni in tutti i luoghi in cui ha vissuto, dalla città di Sfax, la seconda della Tunisia, alla capitale: “Dal 2018 mi sono mobilitato contro un progetto di legge, che prevedeva la diminuzione delle pene per i poliziotti colpevoli di aggressioni - racconta -. Il 6 ottobre 2020 davanti al Parlamento eravamo 300 persone e i sindacati di polizia ci hanno picchiato e arrestato. A me hanno rotto il braccio. Dopo che mi hanno liberato, ho fatto una denuncia per tortura e maltrattamenti, perché ho subito delle violenze anche nella loro macchina: ci sono video e testimoni, ma non ho più saputo nulla. I poliziotti hanno fatto lo stesso: la loro denuncia, invece, ha avuto un decorso in tribunale”. È in attesa di un processo. Le violenze, tuttavia, non si sono fermate qui. Saif assicura che, oltre a subire le ripercussioni psicologiche di quello che ha vissuto, è stato costretto a cambiare più volte casa per i continui abusi portati avanti dalle forze di polizia, che hanno fatto più volte irruzione nell’abitazione. Nella sede di Damj, la sua associazione, ci sono un distributore di preservativi gratuiti e lubrificanti forniti da un programma delle Nazioni Unite e una serie di volantini di prevenzione sanitaria. I militanti raccontano che nelle app di incontri si infiltrano le forze di sicurezza, che danno finti appuntamenti per poi aggredire e incriminare le persone lgbtqi+. Secondo Nejia Mansour, attivista anche lei di Damj, “chi appartiene a questa comunità è esposto più di altri alla repressione degli organi di sicurezza. L’articolo 230 del Codice penale criminalizza l’omosessualità. Anche i luoghi di detenzione non sono affatto sicuri, soprattutto per le persone trans e le donne in particolare. Abbiamo documentato lì diversi casi di violenza sessuale e stupri. E nel momento in cui vogliono denunciare un’aggressione da parte della famiglia o di persone per strada, nei commissariati queste denunce non sono prese in considerazione”. Nei regimi che derivano verso l’autoritarismo, oltre all’aumento delle violenze, della repressione politica e dell’accentramento dei poteri in una sola persona, c’è un altro elemento che incide sul deterioramento della libertà di parola e dei diritti civili e sociali. Oggi in Tunisia per la società civile, sbocciata dopo la rivoluzione del 2011 e l’arrivo della democrazia, è quasi impossibile fare pressioni per cercare di difendere i propri interessi: “Prima del 25 luglio 2021 e della stretta di Saied - conclude Ayadi -, esisteva una cintura associativa, che poteva fare pressione a difesa della propria comunità e cambiare la politica di Stato. Nel nostro caso erano le persone Lgbtiqi+, ma tutte le associazioni intervenivano contro l’impunità e sul sistema giudiziario tunisino. Dopo il 25 luglio, nel Parlamento (ndr, oggi soggiogato completamente al presidente e privo di poteri effettivi) non abbiamo più interlocutori: siamo rimasti soli. A oggi siamo vittime di una campagna digitale omofoba e siamo senza via di uscita. Saied non si è dimostrato solidale con noi ma in generale non lo è tutto il sistema. Oggi mi sento come se non esistesse neanche l’un per cento di giustizia: ogni volta che vai in strada a manifestare non sai come finirà. Il presidente è riuscito a distruggere anche il sentimento di solidarietà”. Alla ricerca della verità - Sfax, grosso e fumante centro industriale, è la capitale economica della Tunisia. È anche il porto principale del paese. Il cuore della città è di un’architettura modernista, a tratti all’avanguardia: retaggio di un’epoca di aspirazioni e miraggi, dopo l’indipendenza del 1956. Subito fuori da quel reticolo di strade, è scoppiata una città disordinata, fatta di polverosi scatoloni di cemento e di strade affollate di motorini, che sfilano via in contro senso. Tanto araba Sfax, rispetto all’”europea” Tunisi. Anche un po’ Blade Runner Sfax, quando il buio cala giù all’improvviso: in città vagano sagome ritagliate dalle luci opache dei lampioni. Molti di loro sono migranti subsahariani, arrivati qui per imbarcarsi verso Lampedusa. Ma è il sogno anche dei tunisini, in una città dove il lavoro c’è, ma sottopagato e precario. Radhia Dhouib prova a sopravvivere in una casa ancora in costruzione, alla periferia. Da quando ha perso il marito, qui il tempo si è fermato. Nelle due stanze dove vive, conserva ancora tutti i beni di Anis, il marito, compresi i vestiti e alcune foto di famiglia: “Fu arrestato il 17 luglio 2019 per spaccio di stupefacenti - racconta la donna -. Dopo neanche due settimane l’ho trovato morto in ospedale coi denti spaccati e pieno di lividi. Sono convinta che lo abbiano ammazzato e oggi chiedo verità e giustizia”. Il caso di Anis Werghemmi è pieno di lacune. Lavoratore precario nei mercati di frutta e verdura di Sfax, dopo essere stato arrestato in circostanze mai chiarite, intraprese uno sciopero della fame per protestare contro un arresto, che riteneva ingiusto. La mattina del 29 luglio il suo corpo venne trasportato in ospedale privo di vita. Radhia scoprì della morte appena prima di entrare in carcere per la visita settimanale: “Mi dissero che era morto per l’effetto aggressivo dello sciopero della fame: secondo me, è impossibile. Finora non ho ancora ricevuto i risultati dell’autopsia. Del processo non so nulla. Sono convinta che i poliziotti siano coperti dal tribunale e dai medici dell’ospedale”. Lo stipendio che la donna riceve dal Comune per pulire le strade non basta per sfamare i tre figli, che sono rimasti con lei a vivere, il nipote e la mamma di Anis. Il figlio più piccolo, ancora minorenne, ha già provato a partire clandestinamente, senza riuscirci: “Dice che in questo Paese hanno ucciso suo padre e non ha trovato la verità, vuole andare in Italia per costruire il proprio futuro. Ha smesso di studiare alla terza elementare, sa solo scrivere il suo nome in arabo”. Il caso di Radhia Dhouib non è il solo. Seguita dall’Organizzazione mondiale contro la tortura in Tunisia (Omct) insieme a più di 900 persone, a cui viene offerta assistenza legale e psicologica, in quasi la totalità dei casi i poliziotti non vengono mai sottoposti a indagine e arrivare a un verdetto è quasi impossibile. Tra quelle 900 persone c’è anche Taher Guezmi. Originario di Tunisi, oggi ha 62 anni, ma ne dimostra di più. Un po’ per il suo passato lavorativo da muratore. Un po’ per i traumi psicologici che ha subito dopo la morte di suo figlio Sofiene. Oggi di quel ragazzo restano solo due piccole fototessere, che `Taher custodisce gelosamente nel taschino della camicia. Il 4 maggio 2022 Sofiene venne arrestato per un caso di furto sospetto di una stampante e trasferito nel carcere di Mornaguia. Passano tre mesi e il 15 agosto Taher Guezmi si reca all’istituto penitenziario. Ma di suo figlio non c’è traccia: le forze di sicurezza gli riferiscono che si trova in punizione per una lite con altri detenuti. Deve tornare la settimana dopo. È esattamente quello che fa, ma allora Sofiene non si materializza nell’aula dedicata ai colloqui. Stavolta la spiegazione delle autorità è leggermente diversa: il ragazzo si trova in ospedale per una ferita alla nuca e da lì a poco avrebbe dovuto subire una delicata operazione chirurgica. Dopo quindici giorni, durante i quali il medico riferisce a Taher che suo figlio rischiava di rimanere paralizzato, Sofiene muore. Da allora le comunicazioni cessano: il certificato medico riporta che il ragazzo è morto di arresto cardiocircolatorio. Basta così, niente da aggiungere. Un responso che questo padre di famiglia non può accettare: “Sono venuto a sapere che mio figlio, prima di essere stato ricoverato, era stato picchiato da alcuni agenti penitenziari, dopo aver litigato con il responsabile della sua cella. Nessuno è mai stato incriminato per questo: quello che mi resta di lui sono solo due foto”. Quello che resta di Sofiene è anche quello che faceva prima di venire arrestato. Veniva da un quartiere popolare di Tunisi, dove il lavoro scarseggia e in molti vogliono partire per l’Italia. Nonostante le umili condizioni in cui era costretta a vivere la famiglia Guezmi, Sofiene si accontentava di poco: “A lui piaceva vivere con me e la nonna e mi ripeteva sempre che non voleva partire - confida Taher -. Si accontentava di quel poco che guadagnava come muratore o idraulico. Ora però è tutto inutile, è morto e io voglio solo sapere la verità”. In un quadro istituzionale già molto frammentato prima del 25 luglio 2021, oggi l’indipendenza dei giudici è ancora più a rischio, dopo che nel febbraio 2022 Kais Saied ha sciolto il Consiglio superiore della magistratura. Insieme alla sicurezza, la giustizia è stato uno dei settori che l’Unione europea ha finanziato in maniera corposa, dal 2011 per un totale di 100 milioni di euro. Oltre a dotare la magistratura di un sistema di informatizzazione delle procedure penali, Bruxelles ha investito in programmi per ristrutturare i tribunali e le carceri: sono anche gli edifici che il marito di Radhia e il figlio di Taher hanno frequentato, prima di morire in circostanze sospette. Grava sulla Tunisia una mancanza di verità diffusa, ma che non sembra intaccare la volontà dell’Unione europea di continuare ad aiutare, malgrado tutto, il piccolo Stato nordafricano: “L’Ue sostiene le riforme della giustizia e della sicurezza in Tunisia dal 2011 e continuerà a fornire assistenza nella preparazione e nell’attuazione di importanti riforme nel campo dello Stato di diritto”, è il commento di un portavoce dell’Unione europea. Secondo quanto ricostruito da “La Repubblica”, dal 2011 a oggi Bruxelles e i singoli Stati Ue hanno finanziato con 570 milioni di euro proprio i settori della sicurezza e della giustizia. Una parte, più di 100 milioni, è stata dedicata ai programmi di riforma, come dotare le forze di polizia di un codice di deontologia, che rispettasse il diritto internazionale, inaugurare commissariati di prossimità per ridurre le barriere tra cittadini e poliziotti, ristrutturare le carceri e informatizzare i procedimenti giudiziari. Oggi di quei programmi non c’è più traccia. Quello che resta è l’appoggio tecnico fornito alle forze di sicurezza di Tunisi da parte dei partner europei in quanto a sistemi di sorveglianza, equipaggiamenti tecnici e veicoli. “Il programma della riforma della sicurezza da parte dell’Unione europea - spiega Audrey Pluta, una delle massime esperte del settore in Tunisia - riflette comunque gli interessi di Bruxelles che sono la lotta all’immigrazione e al terrorismo. Sui 23 milioni di euro per la riforma della sicurezza, ad esempio, solo un milione è stato previsto per promuovere un effettivo cambiamento”. Si tratta di un dato che trova ancora più forza quando entra in gioco la migrazione. A oggi l’Unione europea ha all’attivo programmi per più di 140 milioni di euro in materia di rafforzamento delle frontiere tunisine: un impegno finanziario che nei prossimi anni è destinato ad aumentare sensibilmente, soprattutto dopo la firma del Memorandum d’intesa il 16 luglio del 2023 con la Commissione europea. Era presente quel giorno la premier Giorgia Meloni, l’amica di Saied. Per quanto riguarda la sponda nord del Mediterraneo, la Tunisia “serve” a frenare l’arrivo dei migranti e deve essere attrezzata allo scopo. Le preoccupazioni europee, invece, si sciolgono di fronte a quello che avviene al suo interno, lasciando spazio a ogni tipo di abusi. La “lotta al terrorismo” - Ancora prima dei migranti, le attenzioni di Bruxelles sul paese si erano concentrate sul terrorismo. Un’emergenza particolarmente sentita quasi dieci anni fa, quando gli attacchi al cuore dell’Europa fecero tremare le istituzioni e non solo. La Tunisia non venne risparmiata e nel 2015 subì due attentati, nella capitale, all’interno del complesso del museo del Bardo, e a Sousse, una delle località più gettonate dal turismo internazionale. Il governo locale venne colto impreparato, nonostante da anni fosse impegnato ad attuare delle contromisure con l’appoggio europeo. Il paese all’epoca era uno dei principali di provenienza per coloro che sceglievano di arruolarsi nello Stato islamico (Isis), attivo soprattutto in Siria e Iraq. Nel tentativo di ridurre le partenze e sventare possibili attentati interni, la Tunisia attuò la cosiddetta procedura S17, per controllare tutti coloro che potessero avere qualunque tipo di connessione con movimenti legati al terrorismo. Un dispositivo molto stringente che di fatto permette alle forze di sicurezza di monitorare le vite dei sospettati. Due anni prima degli attacchi terroristici del 2015, a Sfax Chamseddine Baazaoui svolgeva una vita tranquilla. All’epoca aveva 21 anni ed era soddisfatto del suo lavoro: riparava cellulari. Un giorno, all’improvviso, tutto venne stravolto: “Vivo nella costante paura della polizia - confida oggi - e non esco quasi mai dal mio quartiere”. Di statura minuta e un carattere particolarmente timido, Chamseddine non è proprio il ritratto stereotipato di un terrorista. È da più di dieci anni che si sente “un uomo morto”, dopo essere stato inserito nella lista dei terroristi sospetti a seguito dell’esplosione di una bomba nel suo quartiere. “All’epoca avevo prestato il motorino a un vicino di casa. Non sapevo che facesse parte di un gruppo terroristico, che stava preparando un attentato. Dopo che la bomba è esplosa, la polizia è venuta ad arrestarmi, in seguito ai controlli sulla moto. Io non c’entravo nulla, ma sono dieci anni che la mia vita non ha più senso”, è la versione di Baazaoui. Anni in cui afferma di avere vissuto sotto il totale controllo della polizia, senza poter dimostrare la propria innocenza in un processo considerato farsa dalle Ong. Chamseddine afferma ormai di sentirsi impotente di fronte alle autorità. Malato da tempo, quando parla, mostra le lastre per dimostrare il suo stato di salute, estremamente precario anche a causa di quello che è stato costretto a vivere. “Sono ancora in Tunisia - conclude -, perché mia madre è anziana e ha bisogno di cure e di qualcuno che le stia accanto, altrimenti sarei già partito clandestinamente”. Il suo quotidiano è fatto di convocazioni al commissariato di Sfax e di disoccupazione, per l’impossibilità di trovare un lavoro a causa del suo status giuridico. Se da un lato il terrorismo e la migrazione sono le due facce più evidenti delle debolezze istituzionali della Tunisia, dall’altro rappresentano gli strumenti più utili per fare pressioni sulla sponda nord del Mediterraneo e stringere accordi di cooperazione, che possano rafforzare il sistema securitario del Paese (con lo strascico dei generosi di fondi che comportano). Nel mezzo ci sono decine di casi di persone che affermano di avere subìto soprusi di ogni tipo: “Gli agenti di polizia sono mal pagati e impopolari, non godono di alcun prestigio, sono animati da risentimento e voglia di vendetta nei confronti della società. L’apparato di sicurezza è intoccabile: qualsiasi cosa accada all’esterno, ne prende atto e fa quello che vuole”, è il commento dell’Omct. La violenza quotidiana - Terrorismo. Migrazione. Politica. Diritti mancati. La lista dei motivi per cui oggi in Tunisia esiste una repressione così dura da farla ritenere a tanti osservatori uno “stato di polizia” è molto lunga. Tuttavia, a volte, la violenza delle forze dell’ordine può essere anche e semplicemente brutale e gratuita. Sayda Yahyaoui ha 46 anni e nel maggio 2018 era seduta sul sedile posteriore della moto di un suo amico. Stavano facendo un giro nel centro di Tunisi, poco lontano dalla strada dove Aziz Ben Khmis è stato aggredito poco più di un anno fa. Una strana coincidenza che lascia trasparire qualcosa di più del semplice caso. Mentre si stavano dirigendo verso la Medina, la parte antica e araba della città - un labirinto disordinato di stradine stracolme di venditori, turisti e confusione - si sono imbattuti in un posto di blocco. L’amico, spaventato dal fatto che non avesse con sé i documenti, decise di tirare dritto. In una frazione di secondo un poliziotto tirò un calcio al motorino provocando la caduta dei passeggeri. Un gesto che è costato la perdita di un occhio a Sayda e diverse ferite sul corpo: “Mi ricordo ancora bene del colpo e dell’incidente fino all’ultimo secondo. Soprattutto non posso dimenticare cos’ha detto poi il poliziotto dopo averci speronato, “tu non hai voluto fermarti e ora ti fermi”“, è il racconto della donna. Oggi, come altre vittime della violenza della polizia, Sayda afferma di avere difficoltà a trovare un lavoro. Una vita spezzata nel giro di pochi secondi, al contrario degli agenti di sicurezza, che non sono mai stati incriminati: “La Tunisia è così. I poliziotti non hanno subito nessuna pena, vige l’impunità e io non potrò mai far valere i miei diritti. Oggi vivo ancora con la mia famiglia e riesco solo a lavorare come addetta alle pulizie una o due volte alla settimana”, sospira Sayda. Quest’ultimo caso racconta di un Paese dove la violenza può nascondersi dappertutto e dove nessuno può sentirsi davvero al sicuro. “Gli agenti di polizia non vengono quasi mai perseguiti e ancor più raramente condannati - è l’analisi dell’Organizzazione mondiale contro la tortura. Se un tribunale condanna un agente di polizia a una dura pena detentiva, la sentenza non viene mai applicata”. Sullo sfondo di questa repressione diffusa, ci sono le vite dei singoli individui, che ancora oggi non riescono a darsi spiegazioni per ciò che hanno vissuto o che stanno vivendo. Aziz Ben Khmis, dopo essere guarito dalla frattura al naso causata dal pugno di un poliziotto, ancora oggi non ha trovato un nuovo lavoro e passa gran parte del suo tempo a Boudria, il quartiere di origine, isolato ed emarginato, una prigione per i giovani che non riescono a inventarsi a Tunisi un futuro. Mentre Sihem Bensedrine attende di conoscere il suo destino e l’eventualità di passare gli ultimi anni della sua vita in prigione, Asrar Ben Jouira non avrebbe mai immaginato di pensare un futuro lontano dal suo paese natale: oggi questo pensiero si fa sempre più reale di fronte all’eventualità di una condanna a dieci anni di carcere per le sue idee politiche. La mamma di Mohamed deve fare i conti con i pensieri suicidi di un figlio, costretto a vivere in un istituto penitenziario dove non dovrebbe trovarsi. Saif Ayadi, nonostante il suo inguaribile ottimismo, è conscio che per la comunità lgbtiqi+ i prossimi anni saranno ancora più duri. Radhia Dhouib e Taher Guezmi parlano con lo sguardo spento tipico di chi deve affrontare un lutto familiare gravissimo, senza poter accedere alla verità: senza poter avere giustizia. Se per Chamseddine Baazaoui uno dei pochi sogni rimasti è quello di tornare a fare il bagno in mare senza la paura di essere fermato dalla polizia, per Sayda Yahyaoui la gioia più grande è di essere sopravvissuta all’incidente stradale causato dalla polizia e di potere raccontare cosa le è successo. Sono storie che raccontano uno spaccato della Tunisia lungo anni. Ma dall’estate del 2021, quando il presidente mandò i carri armati davanti al Parlamento, per bloccarne le attività, le cose sono peggiorate ulteriormente: per tutti, non solo gli oppositori politici, anche per l’uomo della strada: “Oggi - spiega Romdhane Ben Amor, portavoce del Forum tunisino per i diritti economici e sociali - c’è uno Stato di diritto secondo la visione di Kais Saied. Dopo il 25 luglio 2021 e nonostante le promesse di non minacciare i diritti di libertà, è stata la prima cosa che ha toccato. Per lui la libertà di espressione, il diritto delle organizzazioni non governative a lavorare in Tunisia e la società civile rappresentano un problema”. Se nel 2011 l’arrivo della Rivoluzione dei gelsomini aveva portato un senso di speranza per un futuro migliore e a elezioni libere nel 2014 e nel 2019, quelle previste a inizio ottobre sembrano rappresentare un’incognita, accompagnata da dense nubi nere sullo sfondo, proprio per uno stato di diritto sempre più debole. Kais Saied è convinto di essere rieletto in maniera trionfale il prossimo 6 ottobre. Ma in ogni caso il presidente dovrà poi rendere i conti a una Tunisia disillusa, alle prese con una grave crisi economica e con diverse sfide da affrontare, come il controllo dei flussi migratori. La sua speranza è il sostegno dell’Unione europea e i suoi soldi. E l’appoggio dell’alleata più fedele, Giorgia Meloni. *Questo articolo è stato realizzato con il sostegno di Journalismfund Europe Medio Oriente. Intervista a Edith Bruck: “La pace è impossibile” di luca monticelli La Stampa, 14 settembre 2024 Nell’ultima opera della scrittrice gli echi della guerra: “La riconciliazione è un sogno, ormai la coltivo solo nei libri”. “Sono una lottatrice per la pace. Per tutta la mia vita ho tentato di riconciliare le persone, sono tornata dai campi di concentramento senza sentimenti di odio e vendetta. Oggi però non credo più alla pace in Medio Oriente, la convivenza tra israeliani e palestinesi è un sogno impossibile”. La voce combattiva da intellettuale impegnata di Edith Bruck si affievolisce quando parla della guerra. Scrittrice, sopravvissuta ai lager nazisti, Edith Bruck è nata in un piccolo villaggio di contadini in Ungheria nel 1931. All’età di 13 anni viene strappata dalla sua casa e deportata in un ghetto al confine con la Slovacchia con il padre, la madre e altri familiari. Da lì ad Auschwitz e poi a Dachau e a Bergen Belsen fino al 15 aprile del ‘45, quando il campo di sterminio è liberato dall’esercito britannico. Finita la guerra raggiunge la sorella a Budapest e comincia il suo lungo viaggio: prima nell’allora Palestina, poi di nuovo in Europa, ad Atene, a Zurigo, a Napoli e a Roma, dove vive dal 1954. Il sogno di pace tra ebrei e palestinesi lo coltiva nei libri, “nel mini mondo di una famiglia”. Il sogno rapito è il suo ultimo libro, un romanzo che racconta di Sara, una donna ebrea sposata con Matteo, uomo cattolico che la tradisce facendo una figlia con una ragazza palestinese di nome Layla. Sara però, cresciuta da una madre sopravvissuta alla Shoah, vuole che questa bambina nasca senza odi, nella religione dell’amore universale, una speranza che viene frustrata dagli echi di guerra in Medio Oriente. Perché è tornata al romanzo? “Questa è una storia scritta più di dieci anni fa, ha fatto bene La nave di Teseo a ripubblicarla perché purtroppo è sempre attuale. Solo io invecchio, i libri non invecchiano, è un romanzo che avrei potuto scrivere ieri o anche domani. Non c’è alcuna differenza tra dieci anni fa e oggi, la situazione in Medio Oriente è la stessa, nulla è cambiato, una via d’uscita non c’è”. Non crede più alla pace tra israeliani e palestinesi? “È impossibile, resta un sogno, anzi un sogno rapito come scrivo nel libro perché la pace non si crea neanche all’interno di un microcosmo familiare. Io sogno sempre una convivenza pacifica, lo faccio da sessant’anni con la mia testimonianza. Però non c’è speranza, questo mondo gioca con le armi, è una cosa pazzesca e desolante che va avanti senza fine”. Sara, la protagonista del romanzo, è una donna ebrea pacifista figlia di una sopravvissuta alla Shoah. C’è qualcosa di autobiografico in entrambe queste figure? “La madre di Sara cresce la figlia senza instillare in lei alcuna goccia di odio, come me che non odio nessuno al mondo e non ammazzerei nemmeno una mosca. Ma non è un libro autobiografico, assolutamente. La figlia porta il peso della madre e ripudia la vendetta, che è la cosa peggiore”. La rivalità di Sara e Layla per lo stesso uomo rappresenta la contesa per la terra in Medio Oriente? “Non è così, volevo mettere insieme le tre religioni come faccio spesso nei miei libri. È una storia che cerca di “riparare” in qualche maniera questo mini mondo familiare”. Lei è religiosa? “No, il mio credo è la pace e il rispetto fra gli umani. Sono tornata dai campi di concentramento senza l’odio verso alcun essere umano. Sono libera dall’odio, questa è la cosa più importante per me”. Però si sente di appartenere al popolo ebraico. “Certamente, sarà per sempre così, ma questo non vuol dire che debbo andare in sinagoga a pregare. Sono religiosa a modo mio, con il mio lavoro, con quello che scrivo. La religione non è solo pregare. Se osserviamo la storia, nel mondo sono state uccise milioni di persone nel nome di Dio, questa non è religione, è una bestemmia”. Papa Francesco l’ha sentito ultimamente? “Mi ha chiamato prima dell’estate per il mio compleanno, è stato molto carino, spero di rivederlo presto. Lui si spende tanto per la pace, ma il mondo non lo ascolta”. Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è in prima fila per sostenere la pace e la convivenza tra i popoli. “Mattarella è la persona più giusta che abbiamo in Italia, gli sono molto legata, come presidente e come uomo”. E nonostante l’esempio di Papa Francesco e del presidente Mattarella perché dice che non crede alla pace tra Israele e Palestina? “Il problema è la terra. Hamas vuole distruggere Israele, che deve lottare per sopravvivere. L’unica soluzione sono i due Stati, ma siamo sempre fermi al punto di partenza. Dopo il 7 ottobre si è innescato un circolo vizioso di odio e vendetta. Non è vero che il popolo israeliano non protesta, stanno scendendo in piazza continuamente contro Netanyahu, ma lui non molla il potere né fa una politica diversa”. La senatrice Segre ha detto che ormai non ci si vergogna più dell’antisemitismo. Ci sono ambiguità sia a destra sia a sinistra? “L’antisemitismo non finirà, mai sarà sradicato, è una cosa tragica. Adesso è scoppiato un antisemitismo enorme a sinistra, tutti improvvisamene hanno scoperto i palestinesi. La realtà è che l’Europa ha rimosso quello che ha fatto agli ebrei, tranne la Germania gli altri Paesi non hanno fatto i conti con il passato”. Il Messico in piazza contro una riforma della giustizia che preoccupa un po’ tutti di Francesco Stati Il Foglio, 14 settembre 2024 A un mese dall’insediamento del nuovo governo il paese è spaccato. Studenti, operatori giudiziari e sindacati protestano contro una legge di cui è autore il presidente uscente e che cambia radicalmente il funzionamento della Corte suprema. In Messico, a un mese dall’insediamento del nuovo governo, c’è già forte contestazione. Non tanto nei confronti della vincitrice delle elezioni, Claudia Sheinbaum, prima donna a guidare un paese dove sessismo e femminicidi sono endemici. A spaccare lo stato centramericano è la riforma del sistema giudiziario, una legge costituzionale che preoccupa non soltanto addetti ai lavori e società civile, ma anche i suoi partner commerciali. Il 10 settembre, durante le fasi finali di voto, i manifestanti hanno fatto irruzione nella sede del Senato messicano per cercare di impedire la votazione. Ciononostante, il testo è stato approvato. La riforma è uno degli ultimi atti del presidente uscente Andrés Manuel López Obrador (detto Amlo) e prevede l’elezione diretta da parte dei cittadini dei membri della Corte suprema e di altri giudici federali senza necessità di conferma da parte del Consiglio della magistratura. Inoltre, riduce il numero dei giudici della Corte suprema a nove, i loro mandati da 15 a 12 anni, abolisce l’età minima di 35 anni e dimezza a cinque anni il tempo minimo richiesto di esercizio della professione per essere eleggibili. Secondo Amlo, sono cambiamenti necessari per estirpare la corruzione dal sistema giudiziario, a suo dire controllato dagli interessi delle élite. Quello del complotto delle élite è un suo leitmotiv: già a febbraio scorso aveva provato ad abolire l’Ine, istituzione indipendente che controlla la legittimità delle elezioni in Messico, accusandola di corruzione e scatenando vaste sommosse popolari. I critici ritengono che l’elezione dei giudici da parte dei cittadini possa comprometterne l’indipendenza, rendendoli vulnerabili a pressioni esterne. Il tutto in un paese dove criminalità organizzata e narcotraffico esercitano grande pressione su cittadini e istituzioni. A manifestare sono soprattutto studenti di giurisprudenza, operatori giudiziari e sindacati del settore. Temono che questa riforma possa minare la democrazia, consentendo all’esecutivo di influenzare la giustizia con il rischio di ridurre l’indipendenza dei giudici e di politicizzarli. Le manifestazioni si sono aggravate man mano che la proposta avanzava dalla Camera dei deputati al Senato. I sindacati dei lavoratori giudiziari hanno indetto uno sciopero nazionale, lamentando un grave impatto diretto sui diritti lavorativi del settore. La riforma ha sollevato preoccupazioni anche a livello internazionale. Gli Stati Uniti e il Canada, partner commerciali del Messico soprattutto per mezzo dell’Accordo Stati Uniti-Messico-Canada (Usmca), hanno espresso timori per la fragilità che questi cambiamenti potrebbero portare al paese. Il Messico è la latina, pur avendo un basso pil pro capite. È inoltre membro del Brics, organizzazione che raggruppa i paesi emergenti più influenti. Gli ambasciatori statunitense e canadese hanno criticato la riforma sostenendo che renderà il sistema legale messicano meno attrattivo per imprese e investimenti. Questo ha causato un temporaneo raffreddamento nei rapporti diplomatici tra i tre paesi. Il passaggio di consegne da Amlo a Sheinbaum è un elemento cruciale di questo quadro. In Messico il presidente viene eletto per sei anni senza possibilità di rielezione. López Obrador, il cui mandato è agli sgoccioli, ha approvato questa legge anche grazie al sostegno della sua erede, eletta il 6 giugno, fedelissima del suo partito, Morena. Sheinbaum ha difeso la riforma, sottolineando che renderà la giustizia più trasparente e accessibile, ma tale sostegno non è scevro da problematicità. Le critiche maggiori sono state mosse da alcuni analisti rispetto al potenziale effetto distorsivo a favore del partito di governo, lo stesso per entrambi. Se le elezioni politiche avvenissero in concomitanza con quelle giudiziarie, si potrebbe verificare un’identità di orientamento tra voto popolare per governo e giudici, fattispecie che metterebbe a rischio l’indipendenza della magistratura?. Inoltre, nonostante Sheinbaum abbia sostenuto il progetto, fonti interne alla sua coalizione hanno dichiarato che non sarebbe stata una priorità, non fosse stato per la spinta di Amlo. Anche i mercati finanziari hanno reagito con preoccupazione: la valuta messicana, il peso, ha subìto un calo significativo a causa delle incertezze legate alla riforma?. La prima donna presidente, forse, avrebbe desiderato una transizione ordinata. A giudicare dalle premesse, non la avrà.