Politiche penali o politiche sociali? Quando prevenire è meglio che curare di Edoardo Greblo e Luca Taddio Il Riformista, 13 settembre 2024 Le carceri scoppiano per l’uso demagogico del diritto penale che nasce da due convinzioni: che la sicurezza sia messa in pericolo dalla criminalità di strada, e che quel diritto sia in grado di prevenire i reati proporzionalmente all’entità delle condanne. In questi ultimi decenni, la “sicurezza dei cittadini” è diventata una priorità delle agende governative, alimentata da un clima di costante emergenza che finisce per assecondare il pregiudizio accusatorio quasi sempre prevalente nell’opinione pubblica. Non si tratta di una moda recente, ma con la destra di governo la tendenza agli inasprimenti punitivi è diventata la regola e la stessa parola “sicurezza” ha cambiato di senso. Non indica infatti più la sicurezza sociale determinata dalle garanzie dei diritti sociali, ma solo la “pubblica sicurezza”, intesa come “tolleranza zero” e difesa dell’ordine pubblico dai reati che generano allarme sociale come le rapine, i furti in appartamento, il piccolo spaccio e tutta la microcriminalità, a cominciare dalle cosiddette “baby gang”. Eppure, i dati parlano chiaro: il numero dei reati più gravi, a cominciare dagli omicidi, è in costante diminuzione da oltre un secolo e lo stesso vale anche per reati di minore gravità come, ad esempio, gli scippi, i furti d’auto, i sequestri di persona, le rapine. Ciò nonostante, le carceri scoppiano. Perché? La risposta va individuata nell’uso demagogico del diritto penale, basato su due presupposti indimostrabili, ma di sicura presa su un’opinione pubblica incline al sospetto e al pregiudizio colpevolista per effetto di campagne politico-mediatiche interessate unicamente a propagare notizie sensazionali. Il primo consiste nella convinzione, sostenuta da tutti i populismi, che la sicurezza dei cittadini sia messa in pericolo principalmente dalla criminalità di strada e che l’inasprimento punitivo nei confronti del genere di reati ad essa associati rappresenti la soluzione migliore e più efficace. Per smentire questa convinzione è sufficiente citare il “boom carcerario” degli ultimi anni, che non ha certo risolto il problema, ma ha rappresentato solo una fondamentale risorsa propagandistica e priva di effetti deterrenti. Il diritto penale ha una reale efficacia intimidatoria nel caso dei reati come l’omicidio e la violenza contro le persone oppure contro la criminalità organizzata, ma la sua efficacia viene meno proprio nel caso della microcriminalità, i cui protagonisti - spesso individui emarginati o esclusi - quasi sempre ignorano l’inasprimento delle pene destinato a colpirli. In casi come questi, l’intervento penale non può che avere un carattere sussidiario, mentre politiche sociali volte a eliminare i fattori di esposizione sociale alla delinquenza potrebbero essere, almeno in prospettiva, ben più efficaci. Il secondo presupposto si basa sull’idea che non solo il diritto penale sia in grado di prevenire i reati, ma che lo sia in misura direttamente proporzionale all’entità delle pene e alle procedure antigarantiste messe in atto. Dal 2021 a oggi in Italia il numero dei detenuti è cresciuto in modo costante. Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero della Giustizia, il 30 giugno del 2024 erano circa 10.200 le persone recluse in più rispetto alla capienza delle strutture. Eppure, nonostante l’aumento del numero dei detenuti e l’aggravamento delle loro condizioni di vita, si pensi solo alla tragica piaga dei suicidi in carcere, appare evidente che la “deriva punitiva” non funziona e non fa che alimentare il dispositivo, ci si perdoni il neologismo, “carcerogeno”, visto che l’allarme di larghe fasce della popolazione per le minacce vere o presunte portate alla “sicurezza” non accenna a diminuire. Quando i reati sono legati alla povertà, all’emarginazione e alla tossicodipendenza l’efficacia intimidatoria del diritto penale è pressoché nulla. Questo non significa che le risposte penali non siano necessarie, se non altro per evitare ritorsioni o vendette private. Ma pensare che siano l’unica soluzione è illusorio, e i dati relativi al sovraffollamento carcerario lo dimostrano. Sarebbe invece più umano e più efficace promuovere politiche sociali di inclusione e di integrazione piuttosto che politiche penali di esclusione e di repressione. Entrambi i presupposti si basano sul rilievo prioritario assegnato al diritto penale, ed entrambi servono a sgravare la politica dalle proprie responsabilità, facendo in modo che l’opinione pubblica perda di vista l’incapacità dei governi di affrontare i problemi alla radice, agendo sulle cause prima che sulle conseguenze. È per questo che risulta quanto mai essenziale contrastare la tendenza delle forze populiste a incoraggiare il tendenziale colpevolismo che circola nella pubblica opinione e promuovere una politica culturale impegnata a difendere i valori dell’uguaglianza e della legalità, nella prospettiva di una rifondazione dello Stato di diritto e di un diritto penale garantista e non giustizialista. Carceri, bollettino dall’inferno di Guido Ruotolo terzogiornale.it, 13 settembre 2024 Particolarmente penosa la condizione dei malati di mente reclusi. Poi ci sono tutti gli altri. Vivono all’inferno, nel buio dell’anima, condannati a non vedere mai un raggio di sole. Il loro orizzonte è una porta di ferro, o un muro. Dovrebbero essere presi in cura da anime gentili, assistiti da personale medico e sanitario, con terapie farmacologiche e psicologiche. È uno scandalo la congiura del silenzio, la vergogna repressa di chi porta la responsabilità di non gridare al mondo l’ingiustizia. Nelle carceri italiane sono detenuti, anzi fatti prigionieri, quattromila malati mentali. Sono i “pazzi”, i “matti”, i “fuori di testa”. Portano nelle celle il dolore, la solitudine e la disperazione delle loro famiglie. I drammi di una vita di sofferenze e di un mondo che li respinge, che li ha abbandonati. Povere e disperate le famiglie dei disabili mentali, costrette a denunciare le violenze dei loro cari e l’incapacità di uno Stato che, quarantasei anni dopo l’entrata in vigore della “180”, la legge Basaglia che chiuse i manicomi, deve dichiarare forfait. La cronaca di questi giorni dal mondo delle carceri ci racconta storie di evasioni, rivolte, suicidi, manifestazioni di autolesionismo. I numeri lasciano senza parole. Prendiamo solo il 2024. Dal primo gennaio, 8.285 episodi di autolesionismo, 1.767 casi di rifiuto del vitto e delle terapie, 4.874 adesioni allo sciopero della fame. È un inferno la vita quotidiana. Tra i 61.465 detenuti, si registrano - fino a oggi, nei primi otto mesi dell’anno - 416 ferimenti, 3.218 colluttazioni. E poi il gesto “estremo”, il suicidio, il tentato suicidio. Siamo già a 69 detenuti che si sono tolti la vita, 1.335 quelli che ci hanno provato. E un’altra decina sono le morti sospette sotto esame. E lo chiamiamo vivere civile? Uno Stato, che dovrebbe proteggere i suoi cittadini, dichiara fallimento. C’è una involuzione delle istituzioni che trasforma la giustizia in vendetta. Mentre si creano nuove squadre di agenti penitenziari in grado di reprimere le rivolte nelle carceri, il governo Meloni introduce nuovi reati che puniscono le fragilità, le forme di dissenso civile, la socialità (“deviata”) delle nuove generazioni. Dovrebbero pensare all’edilizia carceraria, per sanare il deficit di posti letto. Basterebbe ristrutturare le stanze del “pernottamento” e intere sezioni detentive chiuse per inagibilità. Oggi i detenuti sono 61.465, i posti letto 46.898, ma la capienza regolamentare scende a 51.282. Oltre 4.300 detenuti potrebbero occupare i letti nelle stanze inagibili. Che livello di civiltà ci possiamo aspettare nel carcere minorile “Beccaria” di Milano: quatto rivolte quest’anno, tre evasioni negli ultimi giorni, e tredici secondini arrestati per torture? Non può essere vero. Non è possibile. Se le carceri italiane sono sovraffollate e violente, il nostro ministro di Giustizia, Carlo Nordio, ha la faccia tosta di affermare che “il fine rieducativo della pena e il reinserimento sociale dei detenuti sono un obiettivo primario del governo” (Roma, 10 settembre 2024). Ma davvero crede che sia questo il programma del governo? Piuttosto abolizione di reati dei “colletti bianchi”, separazione delle carriere dei magistrati, umiliazione delle toghe e compressione dei diritti dei detenuti. Oggi ci sono 19 madri con 23 figli al seguito e 23.343 detenuti che devono scontare pene residue fino a tre anni. Quasi 20.000 di loro potrebbero usufruire pene alternative al carcere. Ma per il governo della destra sarebbe scandaloso rendere umana la pena e la vita nelle carceri. I numeri raccontano solo in parte l’inferno. Se diamo un nome e un cognome a questi numeri scopriamo che quasi un terzo dei detenuti, 17.000, sono tossicodipendenti. Sempre un terzo della popolazione carceraria (19.341, pari al 31,48%) è straniera. Solo in Lombardia più della metà dei detenuti sono stranieri. Il governo, nel suo carniere dei risultati, ha un misero numero, un centinaio di detenuti trasferiti a scontare le pene nelle carceri dei rispettivi Paesi. I detenuti stranieri e quel miraggio di far scontare la pena nei loro Paesi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 settembre 2024 Secondo gli ultimi dati aggiornati al 31 agosto, risultano reclusi 19.507 detenuti stranieri su un totale di 61.758 ristretti. Secondo il ministro della Giustizia, il sovraffollamento carcerario si risolverebbe facendo scontare loro la pena nei paesi d’origine. Apparentemente non fa una piega, peccato che non sia affatto così, soprattutto per due motivi principali. Il primo è che il sovraffollamento non si calcola solamente attraverso numeri assoluti, ma carcere per carcere. Pensiamo al carcere di Poggioreale: risultano 2.100 detenuti su una capienza regolamentare di 1.323 posti. Gli stranieri sono 333. Tolti quelli, il sovraffollamento rimane tale e quale. Il secondo motivo è che ovviamente non sarà mai possibile, e tentativi sono stati fatti durante le scorse legislature, far scontare magicamente la pena nella terra di origine a tutti e 19.507 i reclusi stranieri. Da anni si discute della possibilità di stipulare accordi con paesi terzi per consentire ai detenuti stranieri di scontare la pena nei loro paesi d’origine. Invece, come spesso accade con l’edilizia penitenziaria, questi progetti faticano a concretizzarsi. Come ha ben spiegato Antigone nel suo ultimo rapporto sulle carceri, il motivo principale è di natura economica: nessun paese è disposto a sostenere gli elevati costi associati al rimpatrio e alla detenzione di questi individui. Già ora l’Italia fatica a espellere i migranti irregolari per mancanza di collaborazione da parte dei paesi d’origine. Anche qualora si riuscissero a concludere accordi internazionali, come è avvenuto in passato, è probabile che restino lettera morta. Se ne parla sin dai tempi del ministro leghista Castelli, ma senza risultati concreti. Un altro ostacolo potrebbe essere la clausola di reciprocità: se applicata, l’Italia dovrebbe accogliere i circa 3.000 italiani detenuti all’estero. Inoltre, si porrebbe un problema di equità, poiché uno straniero riceverebbe un trattamento diverso rispetto a un italiano per lo stesso reato. Non si possono trascurare nemmeno gli aspetti familiari: molti detenuti stranieri hanno coniugi, figli o genitori in Italia, fattore che complica ulteriormente eventuali trasferimenti forzati. La questione dei diritti umani è un altro punto cruciale. L’Italia ha l’obbligo di garantire che i detenuti non subiscano torture o trattamenti inumani e degradanti, ma non può avere certezze sul rispetto di tali diritti in paesi terzi. Basti pensare al caso irrisolto di Giulio Regeni in Egitto. A tal proposito, la legge italiana contro la tortura del 2017 ha modificato l’articolo 19 del testo unico sull’immigrazione, vietando espulsioni, respingimenti ed estradizioni verso paesi in cui sussista il fondato rischio di tortura per la persona interessata. Il sovraffollamento si risolve attuando una riforma decarcerizzante come sta facendo attualmente l’Inghilterra. La tragedia degli istituti penali minorili, tra pene più severe e strutture insufficienti di Cinzia Raineri linkiesta.it, 13 settembre 2024 Negli ultimi anni è aumentata la tendenza a criminalizzare il disagio giovanile, invece di promuovere il reinserimento sociale dei giovani detenuti. Gli Istituti Penali Minorili (Ipm) appaiono spesso come bombe pronte a esplodere, ma la realtà è più complessa. Negli ultimi anni si è delineata una crescente tendenza a criminalizzare i giovani, concretizzata dal Decreto Caivano. Ma anziché favorire il reinserimento, finisce per stigmatizzare ulteriormente i ragazzi, trattandoli come bersagli di un sistema che, invece di rieducarli, li punisce. Le condizioni di reclusione, il confronto con le proprie colpe e il contesto sociale da cui provengono i giovani detenuti rendono il percorso di reinserimento nella società una sfida difficile. E, a volte, la fuga sembra l’unica via d’uscita. “Negli Ipm entrano ragazzi che ritengono di non aver nulla da perdere e che non pensano che quel contesto li possa aiutare - spiega Franco Prina, professore di Sociologia giuridica e della devianza dell’università di -. Il tentativo di fuga è un mezzo per uscire da quella situazione e per tornare a vivere nelle condizioni ritenute migliori, anche se oggettivamente non lo sono. Non è facile convincere gli adolescenti che alcune scelte sono sbagliate, soprattutto se non si gode della loro fiducia”. I detenuti negli Ipm hanno tra i quattordici e i venticinque anni, un dato non marginale. “Il gesto compiuto dagli adolescenti, pur qualificato come reato, va visto diversamente, ad esempio come una volontà di ritorno a casa. I ragazzi a volte fanno dei gesti sciocchi, che vanno interpretati. Si tratta pur sempre di adolescenti”, dice a Linkiesta Francesco Maisto, garante dei diritti delle persone limitate nella libertà personale della Città Metropolitana di Milano. Lo scorso otto settembre sono evasi tre detenuti dall’Ipm Cesare Beccaria di Milano: due fratelli di sedici e diciassette anni, che hanno scavalcato il muro della struttura, e un altro diciassettenne, fuggito successivamente. Per uno dei fratelli si trattava del secondo tentativo di fuga. È la sesta evasione registrata al Beccaria dall’inizio dell’anno. “La fuga è l’ultimo stadio di una non accettazione della privazione della libertà”, commenta Michele Miravalle, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sul carcere. “La voglia di evadere è naturale per chi è ristretto, ma non stiamo parlando di casi allarmanti. Le evasioni fanno parte della fisiologia del carcere, ma non rappresentano la quotidianità”. In Italia ci sono diciassette Ipm. Secondo i dati di Antigone, associazione che si occupa del sistema penitenziario italiano, alla fine di febbraio 2024, i ragazzi detenuti erano in tutto cinquecento trentadue (di cui trecentododici minorenni e duecento undici giovani adulti). Solo due mesi prima erano quattrocento novantasei. Questo aumento è significativo rispetto ai numeri degli ultimi dieci anni, durante i quali il totale dei detenuti non aveva mai superato le cinquecento unità. La colpa è da attribuire alla crescente criminalizzazione del disagio giovanile, legittimata anche dagli ultimi provvedimenti del Governo. “Il decreto Caivano, approvato a settembre del 2023, ha riaperto la strada a una criminalizzazione del disagio giovanile”, spiega Miravalle. “Il numero dei ragazzi ristretti negli Ipm è basso rispetto al panorama europeo. Ma quello che ci preoccupa è che, se prima i numeri erano stabili o in decrescita, adesso hanno cominciato ad aumentare”. Il decreto infatti ha ampliato la possibilità di ricorrere alla misura del carcere in fase cautelare per i minorenni. A crescere sono soprattutto gli ingressi alla libertà, cioè gli arresti “per strada” che portano a misure cautelari. “Le questioni che potrebbero essere trattate con politiche sociali, come quella delle droghe, vengono invece risolte dal diritto penale - continua Miravalle -. Questo avviene da alcuni anni. Il decreto Caivano ha confermato, da un punto di vista normativo, una tendenza che c’era anche prima e che, anche solo inconsciamente, un po’ influenza l’operato delle forze di polizia. In più, se a questo associamo l’incapacità di prevenzione di servizi sociali e scuole, è chiaro che quella parte di disagio che prima riusciva a essere intercettato oggi diventa invisibile”. Un altro fattore che contribuisce all’aumento degli ingressi in carcere è l’inasprimento delle misure alternative: “Spesso i ragazzi vanno in comunità. Poi, per varie ragioni, quella misura può fallire: la comunità non riesce a gestire il ragazzo, o magari la persona viola i regolamenti di comunità. Allora gli adolescenti finiscono in carcere”, prosegue Miravalle. Il sistema di giustizia minorile italiano ha sempre considerato il carcere come l’ultima risposta possibile. I programmi di messa alla prova sono ancora prevalenti, ma l’Italia deve affrontare la sfida di preservare questo approccio nonostante l’inasprimento delle normative e la carenza di strutture adeguate. Molti ragazzi che potrebbero accedere alle comunità e che hanno avuto il via libera dal giudice, si vedono negata questa opportunità perché non ci sono posti a sufficienza. Il Beccaria di Milano - L’Ipm di Milano è il più popoloso e spesso al centro dell’attenzione mediatica per episodi di evasione e proteste. Attualmente, l’istituto ospita una sessantina di persone. “L’ottantacinque per cento è costituito da minori stranieri non accompagnati. Sono ragazzi soli, a volte anche piccoli, intorno ai quindici-sedici anni, che arrivano principalmente per reati contro il patrimonio. Spesso non parlano bene l’italiano e non capiscono dove sono, quindi sono piuttosto intolleranti alle regole del carcere e diventano aggressivi”, dice a Linkiesta Don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria e fondatore della comunità Kayros di Vimodrone. Spesso sono ragazzi che arrivano dalla strada, che hanno problemi di dipendenze, e che già hanno girato in altri Paesi europei. “Il loro obiettivo principale è quello di aiutare le famiglie e di alimentare la loro situazione economica. Questo ovviamente, a differenza dell’ondata migratoria di qualche anno fa, prospetta una situazione non facile da affrontare. Non c’è la richiesta del lavoro o di una vita regolare in Italia. C’è il bisogno di soldi, ottenuti in qualsiasi modo”, racconta Burgio. L’ecosistema della struttura milanese, in realtà, non è diverso da quello degli altri Istituti. “Il Beccaria fa parte dell’arcipelago degli Ipm. Ma ha un’aggravante: a differenza di altri istituti, per decenni non ha avuto un direttore e un comandante stabile. Stiamo lavorando per fare in modo che la nuova impostazione, che riguarda educazione e sicurezza, possa essere innestata in una realtà che per decenni è stata impostata completamente sulla sicurezza - commenta Francesco Maisto, garante dei diritti delle persone limitate nella libertà personale della Città Metropolitana di Milano -. Il problema che attanaglia tutti gli Ipm è il fatto che non c’è stata sinergia energia tra le ultime leggi (che prevedono più possibilità di arrestare minorenni) e l’adeguatezza delle strutture rispetto alle leggi. Mi riferisco sia al numero di persone che possono essere ospitate negli Ipm, sia alla qualità, alla capienza e all’adeguatezza delle comunità per ragazzi. Gli adolescenti di oggi non sono quelli che venivano ospitati cinque-dieci anni fa”. Il Ferranti Aporti di Torino - Un altro “polo caldo”, per quanto riguarda la realtà carceraria italiana, è rappresentato dalla città di Torino. Al Ferranti Aporti non ci sono stati episodi di evasione, ma l’atmosfera all’interno rimane tesa. Lo scorso agosto, una protesta di una cinquantina di detenuti ha portato a un incendio che ha danneggiato parti della struttura e ha coinvolto molti agenti e ragazzi. Dieci agenti sono rimasti intossicati. Dodici ragazzi sono stati portati in ospedale. Oggi, l’istituto ospita circa quaranta ragazzi, a fronte di una capacità regolamentare di quarantasei posti (anche se la protesta ne ha resi inagibili alcuni). Lo scorso agosto, però, i ragazzi hanno dovuto affrontare una situazione di sovraffollamento, che ha senza dubbio contribuito ad aumentare la tensione all’interno dell’istituto. “Prima della protesta, i detenuti erano circa sessanta-racconta Monica Cristina Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà individuale della città di Torino -. Alcuni, dopo la protesta, sono stati trasferiti. Ma inizia di nuovo a esserci la tendenza a un leggero aumento. I minori stranieri non accompagnati costituiscono il numero più importante, ma sono in aumento anche giovani adulti e italiani, cosa che non si registrava da un po’”. All’interno del Ferranti Aporti, molti ragazzi provengono da contesti problematici: hanno difficoltà di adattamento, fanno uso di psicofarmaci o provengono da realtà esterne di consumo di sostanze stupefacenti. “Arrivano da percorsi e da viaggi molto complicati. Alcuni hanno alle spalle esperienze di detenzione nei campi in Libia. Lo so perché me lo raccontano. Sono ragazzi che con molte probabilità non riescono a trovare un’accoglienza adeguata e quindi entrano con facilità nei circuiti delinquenziali”, conclude Gallo. I minori in cella non perdano la speranza. Cambiamo il modo di fare rieducazione di Girolamo Monaco* Avvenire, 13 settembre 2024 Di fronte al disagio delle carceri minorili, le rivolte e le evasioni di questi giorni, io devo scrivere ancora, perché sembra “un tunnel senza fine”. Non si può fare rieducazione o trattamento di giustizia esecutiva, non esiste carcere umanizzato, non si può fare nulla di civile che legalmente riduce la libertà individuale senza avere il coraggio (il coraggioso lavoro di chi scommette nel futuro evolutivo di questa umanità) di attivare una pedagogia della speranza e della possibilità, elaborare cioè una prassi, dettagliata e individualizzata per ogni persona detenuta, del progetto e per il riscatto. Anche (e soprattutto) il carcere deve avere un progetto. E ci vuole speranza oggi per parlare di queste cose. Hai visto cosa è successo l’altro giorno al Beccaria? Ancora. Non solo Milano, in tutti gli Istituti penali minorili d’Italia: per quella volta che i giornali lo dicono (solo i sindacati di polizia parlano in queste occasioni), almeno per altre cinque volte sono accaduti eventi critici. Io sto male quando so di queste cose. Queste cose, le rivolte e le fughe, le fanno i disperati quando hanno perso ogni speranza. In carcere si perde la speranza. Io non permetterò mai che i giovani detenuti che incontro perdano la speranza di una vita migliore. Condivido con tutti i miei colleghi della Giustizia Minorile la volontà di praticare la speranza, e così applicare la Costituzione e le giuste Leggi dello Stato italiano. Mi guadagno il pane con il mestiere che ho scelto, per il quale sono pagato, nel contratto che ho firmato. Io sono obbediente e mai servile: così ripeto sempre ai miei superiori e ai miei subalterni. Ma forse non viviamo più in tempi in cui tali distinzioni hanno valore, per questo il mondo ci scoppia in mano, e quello che facciamo lo facciamo male. Il male del carcere non è solo un fatto di sovraffollamento, oppure di carenze di strutture, di norme e di personale. Ripeto: non è solo sovraffollamento e mancanza di uomini. Il male delle relazioni umane nel posto dove lavoro è tutto mio. Quale adolescenza riempie oggi le carceri minorili? Abbiamo riempito le carceri minorili di ladri di biciclette e rubagalline, soggetti psichiatrici, poveri diavoli che spacciano per vivere, barboni e sbandati senza fissa dimora. Noi non giudichiamo, altri giudicano per noi. Noi applichiamo la giustizia esecutiva. Ho capito in trent’anni di lavoro che eseguire una sentenza senza prevedere un progetto di vita diventa condanna alla follia. La pena è diventata solo una questione di separazione e allontanamento. La nostra giustizia esecutiva oggi non porta più speranza, perché misura la pena solo con una durata nel tempo. Le persone non si cambiano con le pene che durano nel tempo, fatte di sbarre, muri e corpi chiusi, ma con le pene che cambiano le idee, inquietano il reo, riparano il danno. Dobbiamo pensare pene che curano. Non ho molte parole per descrivere quello che dico: la pena non si paga con il tempo che dura, ma con il tempo che cambia. Lavoro a Treviso, il più piccolo delle carceri minorili, piccolo ma affollato che tiene il doppio dei detenuti che dovrebbe tenere. I giovani detenuti a Milano o a Torino non sono diversi da quelli detenuti a Treviso, Bologna o Roma, la struttura non è diversa, gli stessi poliziotti, gli stessi operatori, gli stessi cappellani e volontari. Siamo tutti dentro lo stesso sistema. Allora bisogna davvero cambiare il modo di fare rieducazione. Bisogna rileggere e ritornare a fare quello che il nostro cuore e la nostra coscienza hanno imparato sulla Giustizia Minorile tra il 1988 e il 2018, e confrontarsi con vecchi e nuovi comportamenti devianti, con vecchi e nuovi schemi culturali. Nei nostri Istituti penali minorili ogni detenuto ha il suo programma di trattamento? Ogni detenuto incontra con regolarità (almeno due volte a settimana) il suo educatore di riferimento? È possibile organizzare per tutti i detenuti un’attività quotidiana di socializzazione con operatori o volontari? Tutti i detenuti hanno la possibilità di fare colloqui in presenza o in videochiamata con i loro cari? Tutti, italiani e stranieri, hanno contatti con le loro famiglie di origine, sì da cogliere il senso della loro vita? È possibile pensare un carcere attivo, occasione per fermarsi e ripartire? Sì. Si fa questo negli istituti penali per i minorenni italiani. Questa è la pedagogia che rieduca e dà speranza. Io non dico proprio nulla di nuovo. Il detenuto che ha tutte queste cose non distrugge le suppellettili e non aggredisce le persone, neanche pensa alla fuga perché sa di preparare il suo futuro e la sua libertà. Egli cammina nel suo progetto, consapevole. forse, che il carcere gli ha salvato la vita. *Direttore Istituto penale minorile di Treviso Don Gino Rigoldi: “Senza la fiducia dei ragazzi non usciremo dal caos” di Maria Vazzana Il Giorno, 13 settembre 2024 Il cappellano storico dell’istituto di via dei Calchi Taeggi da sempre in prima linea: “Piccoli gruppi di lavoro per fare dell’istituto un centro con funzioni educative”. Tra i cambiamenti la creazione di una squadra per la “gestione condivisa”. Rivolte, incendi, evasioni. Una sequenza che è diventata tristemente routine al carcere minorile Beccaria, dove la pace si è ridotta a una parentesi tra un’emergenza e l’altra. “Sarebbe da sciocchi continuare ad assistere a questi avvenimenti senza cambiare nulla” riflette don Gino Rigoldi, 84 anni, il cappellano storico dell’istituto penitenziario di via Calchi Taeggi, da oltre mezzo secolo impegnato con i giovani detenuti. E non sono solo parole, le sue. “Perché il cambiamento è già in atto. Nel progetto che tutti insieme stiamo mettendo in campo si prevede la creazione di piccoli gruppi, da 10 ragazzi al massimo, che avranno sempre gli stessi adulti di riferimento”. Cambiamento anche a livello gestionale? “Sì, si partirà proprio da qui. In questi giorni ci stiamo confrontando con il responsabile del Dipartimento Giustizia minorile, Antonio Sangermano. Si è arrivati a definire una sorta di “direzione condivisa”. Intanto è arrivato il nuovo comandante, Raffaele Cristofaro. Nella squadra, a fianco del direttore Claudio Ferrari, ci sarà Teresa Mazzotta (a capo dell’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna di Milano), per molti anni vice direttrice di San Vittore. Supporto indispensabile sarà poi quello di Manuela Federico, già comandante degli agenti sempre a San Vittore”. Qual è il problema principale, con i ragazzi? Perché non si riescono a gestire? “La stragrande maggioranza è composta da minori stranieri non accompagnati (i detenuti sono in totale 54, di cui 17 italiani e gli altri stranieri non accompagnati, l’85%, su una capienza di 37 posti, ndr). Molti arrivano dalla strada e sono analfabeti. Venuti in Italia con l’obiettivo di lavorare per mandare i soldi alla famiglia, si sono ritrovati a delinquere. Faticano a stare in carcere, vedono noi adulti come i loro “nemici naturali” in questo contesto. Per questo abbiamo pensato di dividere il Beccaria a metà, sia a livello di spazi e sia di persone, e poi di creare piccoli gruppi di 8, 10 persone al massimo che avranno educatori, formatori e agenti fissi, sempre gli stessi anche nel cambio turno, in modo che sia più semplice instaurare un rapporto di fiducia con adulti che diventeranno punti di riferimento per i singoli e offriranno continuità. Ogni gruppo dovrà essere un’unità. L’obiettivo è che il Beccaria diventi sul serio un carcere minorile con funzioni educative. Ma, perché lo sia, occorre anche altro”. Cosa? “I ragazzi devono avere documenti di riconoscimento (mi sto interessando personalmente in Comune), altrimenti una volta fuori dal Beccaria saranno destinati alla clandestinità. Fondamentale è incentivare gli “articoli 21? (la legge sull’ordinamento penitenziario prevede, all’articolo 21, la possibilità di uscire dal carcere per svolgere un’attività lavorativa, su concessione del direttore dell’istituto di pena, ndr). Già diverse aziende hanno manifestato disponibilità. Pensiamo non solo al lavoro ma anche ai corsi di formazione da svolgere all’esterno. Mentre proseguono i progetti attivi da tempo: laboratori di cucina, di falegnameria, di progettazione di quadri elettrici industriali. Fondamentali lo sport e il teatro: continuiamo a puntare sulla cultura”. Inviterete anche ospiti? “Sì. Imam, personaggi dello sport e dello spettacolo, ma anche detenuti adulti affidabili che hanno deciso di cambiare vita e che potranno dare consigli ai ragazzi. Fondamentale capiscano, ad esempio, che l’evasione ha come conseguenza solo l’aggravamento della propria condizione: prima o poi si viene individuati e la pena diventa più dura, con tanto di trasferimento”. Il ddl Sicurezza voluto da Meloni è il trionfo del populismo penale di Ermes Antonucci Il Foglio, 13 settembre 2024 Il provvedimento in esame alla Camera introduce in un colpo solo 24 tra nuovi reati, aggravanti e inasprimenti di pene. neanche stessimo vivendo un’emergenza nazionale. Creare nuovi reati non costa niente e ha molta resa sul piano della propaganda. Pena, carcere, manette. Il ddl Sicurezza, tanto caro alla destra securitaria e in esame alla Camera in questi giorni, segna il trionfo del populismo penale. Leggendo con attenzione il testo del provvedimento si scopre che questo introduce 24 tra nuovi reati, aggravanti e inasprimenti di pene. Ventiquattro, in un colpo solo. Neanche stessimo vivendo una situazione di emergenza nazionale. Altro che panpenalismo. In fondo la premier Meloni lo aveva annunciato, intervistata una settimana fa su Rete 4: “La sicurezza sarà la mia priorità nei prossimi mesi”. Tanto non costa nulla. Basta inserire un breve inciso in qualche articolo del codice penale e il gioco è fatto. Il prodotto viene realizzato, a gratis, e può essere venduto all’opinione pubblica. Mercoledì diversi parlamentari di Fratelli d’Italia hanno postato su X, alla stessa ora, un’immagine che ritrae Meloni con lo sguardo fiero rivolto all’orizzonte e la scritta a caratteri cubitali: “Approvato alla Camera provvedimento contro i ladri di case. Reclusione da 2 a 7 anni per i responsabili e procedure rapide per la liberazione delle case occupate”. Lo stesso faceva la Lega, usando persino la foto di Ilaria Salis. Il ministro della Giustizia Nordio sui social non c’è. Ma è facile immaginare la sua reazione. Lui che persino dopo il giuramento al Quirinale ripeteva che il rilancio della giustizia deve passare attraverso “una forte depenalizzazione”. Ora tace, costretto a ingoiare l’ennesima riforma forcaiola. Il ddl Sicurezza introduce innanzitutto nuovi reati e inasprisce le pene nell’ambito della lotta al terrorismo. Ma è in materia di sicurezza urbana che il provvedimento si scatena. Introduce il nuovo reato di “occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui” (reclusione fino a sette anni), come se oggi l’occupazione delle case non fosse punibile. Prevede una stretta sui borseggiatori, con un’aggravante che punisce chi commette reati “a bordo treno o nelle aree interne delle stazioni ferroviarie e delle relative aree adiacenti”. Giusto per venire incontro ai tanti video indignati pubblicati sul web (potremmo ribattezzarla “norma Cicalone”). Il ddl inasprisce poi le pene per il delitto di danneggiamento in occasione di manifestazioni pubbliche. Trasforma in illecito penale “il blocco stradale o ferroviario attuato mediante ostruzione fatta col proprio corpo” (tanto per fare un esempio, i blocchi del traffico da parte degli attivisti di Ultima Generazione). Ciò che oggi è previsto come illecito amministrativo, con una multa fino a quattromila euro, si trasformerà in illecito penale con la reclusione fino a un mese o la multa fino a 300 euro. Ma non basta, perché se il fatto è commesso da più persone riunite si prevede la reclusione da sei mesi a due anni. Il provvedimento poi, fra le tante cose, introduce ben tre aggravanti ai delitti di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale. Introduce, inoltre, il nuovo reato di “lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle sue funzioni”, con reclusione fino a sedici anni. Ma è nell’ambito carcerario che l’ossessione securitaria raggiunge il suo apice. Il ddl Sicurezza introduce nel codice penale un nuovo articolo, il 415-bis, denominato “rivolta all’interno di un istituto penitenziario”, prevedendo come pena base la reclusione da due a otto anni. Ciò che più colpisce è che si specifica che può costituire il reato di rivolta la “resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti”. Insomma, se tre detenuti (tre è il numero minimo di soggetti previsto dalla norma) rifiuteranno di fare rientro in cella per protesta, fermandosi ad esempio in maniera passiva davanti alle sbarre, potranno essere accusati di rivolta. Una follia. Anche perché l’inosservanza degli ordini impartiti già oggi può comportare per i detenuti conseguenze sul piano disciplinare. Non si comprende perché debba essere trasformato in illecito penale e, in maniera ancora più incredibile, come possa configurare una rivolta. Il guaio sulle carceri si fa ancora più evidente se si considera che a inizio agosto il governo ha approvato un decreto legge assolutamente deludente, perché privo di misure capaci di alleviare nell’immediato l’emergenza del sovraffollamento e dei suicidi (che intanto sono arrivati a 70, già oltre il numero registrato lo scorso anno). Con la mano pesante prevista dal ddl Sicurezza, la maggioranza sembra volersi interessare soltanto ai disordini che l’emergenza (irrisolta) del sovraffollamento potrà produrre nei prossimi mesi negli istituti di pena. Un modo di operare che trova una logica soltanto nell’ottica securitaria dei due principali partiti della maggioranza. L’ennesimo boccone amaro da digerire per il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ricordando la sua cultura liberale ha più volte fatto capire di “subire”, anziché condividere, le proposte giustizialiste di FdI e Lega (Forza Italia intanto in Parlamento si è mostrata del tutto irrilevante). Ma se fosse veramente così, di fronte a un ddl che in un colpo solo introduce 24 tra reati, aggravanti e inasprimenti di pena, ci si chiede se prima o poi in Nordio non emergerà un sussulto morale sulla compatibilità fra le sue idee e la sua permanenza al governo. Niente più rinvio di pena per le donne in gravidanza o con figli piccoli di Luca Liverani Avvenire, 13 settembre 2024 Niente più rinvio di pena per le donne in gravidanza o con figli di meno di un anno. L’eventuale differimento della carcerazione - quando il ddl sarà approvato definitivamente anche al Senato - sarà esaminato caso per caso dai giudici. È successo ieri alla Camera, nel corso delle votazioni sul “ddl sicurezza”. L’aula ha approvato l’articolo 15 che rende facoltativo - e non più obbligatorio - il rinvio della pena per le neo-madri detenute. Forza Italia, che inizialmente si era detta contraria, stavolta invece ha votato con Fdi e Lega. Cambio di opinione degli azzurri anche sullo Ius scholae, su cui quest’estate Fi aveva assunto una posizione diversa dal centrodestra. Nel ddl giro di vite anche sulla coltivazione di cannabis light, manifestazioni contro le opere pubbliche, occupazioni abusive di case. Sulle neo-madri detenute dunque la maggioranza ha bocciato con voto segreto - chiesto da Avs e approvato - gli emendamenti delle opposizioni, approvando quello dei relatori che prevede una relazione annuale del governo sulla attuazione delle misure cautelari sulle detenute incinte o con figli di età inferiore a tre anni. A fronte di questo emendamento, Fi ha ritirato la sua proposta emendativa che puntava a ripristinare l’obbligo di differimento della pena. Proteste in aula per quella che le opposizioni hanno chiamato “la retromarcia di Forza Italia” su madri detenute e su Ius scholae. Al termine delle votazioni i deputati di Avs hanno alzato cartelli con su scritto “Fuori i bambini dalle sbarre”. “La relazione annuale è già prevista”, ha protestato Debora Serracchiani (Pd). “Una pesantissima regressione culturale sulla giustizia”, ha attaccato Ettore Rosato (Azione). “Siamo passati in poche ore dalla Ius scholae allo ius carcere”, il commento Riccardo Magi (+Europa). Proprio sullo Ius scholae la maggioranza, Fi compresa, ha respinto la richiesta di urgenza della proposta di legge di riforma della cittadinanza fatta da Vittoria Baldino per M5s. “Antonio Tajani ha fatto dello Ius scholae per tutta l’estate un cavallo di battaglia - ha detto Carlo Calenda - poi martedì abbiamo presentato un emendamento (identico alla proposta di legge del segretario di FI, ndr) e Forza Italia non l’ha votato”. “Sullo ius scholae non facciamo alcun passo indietro”, la replica di Tajani: “Abbiamo idee chiare, il tema va affrontato in modo serio. Stiamo lavorando ad un testo che riguardi complessivamente la concessione della cittadinanza” perché “non si può affrontare la questione con un emendamentino al ddl sicurezza. C’è una priorità che si chiama Manovra. Ius scholae e Fine vita non sono ora una priorità”. L’aula ha anche bocciato la richiesta di stralciare la stretta sulla cannabis light, chiesta da Avs. Per Marco Furfaro (Pd) “il governo Meloni ha appena distrutto un pezzo di filiera agroindustriale di eccellenza italiana nel campo della cosmesi, del florovivaismo, degli integratori alimentari, dell’erboristeria: 15mila persone, 3 mila imprese, 500 milioni di fatturato. Vogliono far credere al Paese che la cannabis light produca un effetto drogante”. Protesta anche il presidente di Cia, Cristiano Fini: “È inaccettabile e ingiusto bloccare in questo modo una delle filiere di eccellenza del Made in Italy agroindustriale, con un enorme potenziale produttivo tra cosmesi, erboristeria, bioedilizia, florovivaismo, tessile, tutti settori che non c’entrano nulla con il mercato delle sostanze stupefacenti”. Il Dipartimento politiche antidroga della presidenza del consiglio martedì però affermava che l’emendamento “non criminalizza” le attività “di chi ha investito nel settore” ma solo “l’illecita produzione per uso ricreativo”. La Camera ha infine approvato l’aggravante per punire la violenza o la minaccia a un pubblico ufficiale se connessa per impedire la realizzazione di un’opera pubblica”. La norma era stata bollata dalle opposizioni come “norma anti-Ponte e no Tav”. Nel ddl approvate anche norme contro l’occupazione abusiva di immobili. Mamme in carcere, ok della Camera. Passa pure la norma contro gli anti-Tav e gli anti-Ponte di Valentina Stella Il Dubbio, 13 settembre 2024 Opposizioni sulle barricate, il Pd accusa FI: “Siete ricattati dagli alleati”. L’azzurro Pittalis: “Ridicolo”. È ripreso ieri mattina nell’aula della Camera l’esame del ddl sicurezza. Le votazioni sono ripartite dagli emendamenti all’articolo 15, che modifica le norme penali sulle detenute madri. L’aula, a scrutinio segreto richiesto da Pd e Avs, ha respinto gli emendamenti soppressivi dell’articolo 15 che avrebbero eliminato l’obbligatorietà del differimento della pena. I voti a favore sono stati 119, i contrari alla soppressione 157. Dunque è passato l’articolo che rende facoltativo e non più obbligatorio il rinvio della pena per le donne in gravidanza e le madri con figli di età inferiore ad un anno. Risultato rivendicato a gran voce dalla Lega tramite il deputato Igor Iezzi: “Per la Lega è sempre stata una priorità fermare il fenomeno delle borseggiatrici che colpiscono cittadine e cittadini. Siamo soddisfatti che la nostra linea sia stata confermata. La maggioranza, ancora una volta, si è mostrata compatta”. “Votando contro l’emendamento che prevedeva di mantenere la sospensione della pena per le donne incinte e le detenute madri Forza Italia ha barattato l’interesse superiore dei minori, previsto dal diritto internazionale, con la tenuta del governo”, ha dichiarato invece la deputata del Partito democratico Michela Di Biase, che ha concluso: “In tre anni - parlando rivolta ai deputati di Forza Italia - siete passati dal votare a favore alla legge Siani, che prevedeva di sospendere la pena alle donne incinte e alle madri di bambini fino a tre anni, fino al voto di oggi. Cosa è cambiato? Temiamo che siano intervenuti i ricatti dei vostri alleati di governo, ed è preoccupante per il futuro”, ha evidenziato la deputata Pd. Forza Italia aveva presentato un emendamento, poi ritirato, che ripristinava l’obbligo di rinvio della pena in carcere per le detenute madri con figli fino a un anno. Da qui la polemica in cui si è inserita la replicata del forzista Pietro Pittalis: “È una polemica assurda, pretestuosa e mistificatoria della realtà da parte delle opposizioni che utilizzano il tema delle detenute madri per farne oggetto di un attacco senza senso, anzi, alterando la realtà e solo per uno scopo di campagna elettorale. Sul tema delle carceri, non prendiamo lezioni da nessuno, tanto meno da una sinistra che non ha mai fatto nulla sul fronte delle carceri, né per il personale, né tanto meno per i detenuti. Per noi il carcere rappresenta l’extrema ratio, soprattutto in riferimento alle donne incinte o con bambini inferiori ai tre anni. Mi dovete indicare con quale norma questa maggioranza manderebbe in carcere i bambini?”. Durante la seduta il gruppo Avs ha mostrato dei cartelli in aula con su scritto “Fuori i bambini dalle sbarre”. La Camera ha anche bocciato lo stralcio della stretta sulla cannabis light. La proposta di Avs è stata infatti respinta con 53 voti di differenza. Per Fabrizio Benzoni, deputato di Azione, “si sta bloccando un’intera filiera normata dalla Ue e finanziata dalla Pac e si sta mettendo a rischio il Paese con centinaia di ricorsi di tutti coloro che hanno fatto investimenti e che oggi compongono la filiera. L’effetto sarà ancora peggiore: i prodotti dei supermercati con cosmetici e creme saranno prodotti con canapa straniera. È come dire che il vino è pericoloso e per bloccarne l’uso si bloccano la piantagione delle viti e la raccolta dell’uva. È una grande assurdità”. Da segnalare infine che, con 146 voti favorevoli e 104 contrari, la maggioranza alla Camera ha approvato anche l’articolo 19, che introduce un’aggravante nel codice penale. Ribattezzata dalle opposizioni come “norma contro gli anti Tav o anti Ponte sullo stretto”, l’articolo prevede che l’aggravante scatti “se la violenza o minaccia è posta in essere per opporsi a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza mentre compie un atto di ufficio”. Non solo. L’aggravante vale anche “se la violenza o la minaccia è commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica”. Le opposizioni hanno nettamente criticato la norma, accusando maggioranza e governo di voler “impedire il dissenso legittimo”. Il Governo toglie l’alibi alle ladre: se rubi vai in cella anche se sei incinta di Christian Campigli Il Tempo, 13 settembre 2024 Approvato in Aula con 163 voti a favore e 116 contrari l’art. 15 del Ddl Sicurezza. Pittalis (FI): “Le opposizioni usano il tema per portare un attacco senza senso”. Mistificare la realtà, buttarla in caciara e cercare (senza, per altro, mai riuscirci) di creare zizzania tra i tre partiti che sostengono la maggioranza di centrodestra. E questa l’apocrifa trinità sulla quale si regge l’opposizione progressista. Salda come un castello di stuzzicadenti, pronto a crollare al primo soffio di vento. La polemica odierna si impernia sul ddl Sicurezza e, in particolar modo, sulla norma che cerca di mettere un freno a quelle ladre (in particolar modo le borseggiatrici della metro, spesso giovani donne di origine rom e sinti) che non potevano fino ad oggi essere fermate perché costantemente in stato interessante. Moderne Adeline Sbaratti, il personaggio reso immortale da Sofia Loren nel capolavoro di Vittorio De Sica, “Ieri, oggi e domani”. Nello specifico, la Camera ha approvato con 163 voti a favore e 116 contrari l’articolo 15 del ddl Sicurezza, che rende facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio dell’esecuzione della pena per le cosiddette “detenute madri”, ovvero donne incinte o con bambini di età inferiore a un anno. Con la nuova formulazione, sarà il giudice a valutare caso per caso se applicare o meno la detenzione, che avverrà nel caso negli Icam-Istituti a custodia attenuata per detenute madri. Inoltre, è previsto che l’esecuzione non sia rinviabile ove sussista il rischio di commissione di ulteriori delitti. L’articolo è stato uno dei più contestati dell’intero ddl da parte delle opposizioni, in particolare quelli di Alleanza Verdi Sinistra. che hanno anche mostrato cartelli di protesta con scritto “Fuori i bambini dalle sbarre”. Una legge fortemente voluta dalla Lega per limitare il fenomeno sociale delle “borseggiatrici incinte” e sulla quale la maggioranza ha trovato una quadra. Le opposizioni hanno puntato il dito contro Forza Italia, considerata la compagine più garantista della maggioranza e inizialmente non convinta dalla bontà della norma. “Le opposizioni utilizzano il tema delle detenute madri per fare un attacco senza senso, alternando i dati della realtà, per puntare il dito su un partito liberare e garantista come Forza Italia. Ma il giudizio lo danno i cittadini e Forza Italia sta ottenendo il consenso che merita - ha replicato in aula Pietro Pittalis, deputato di Fi - Sul tema delle carceri Forza Italia non prende lezioni da nessuno, tantomeno da una sinistra che non ha mai fatto nulla: per la prima volta questa maggioranza ha messo mano sul tema dei detenuti e sul corpo di polizia penitenziaria dimenticata da anni di malgoverno della sinistra”. Avs, che ormai pende dalle labbra di Ilaria Salis e vuole, evidentemente, seguire la sua agenda politica, ha rivendicato la propria idiosincrasia per il carcere, ma, soprattutto, per il concetto stesso di giustizia. Per Devis Dori cercare di arginare le borseggiatrici nelle metro è “una vergogna che dimostra il disprezzo per i diritti civili di questa destra al governo”. Grande soddisfazione per l’approvazione della legge è stata espressa, attraverso i social, da Matteo Salvini. “Finalmente il carcere per le borseggiatrici che rubano sfruttando bimbi piccoli o gravidanza: chi sbaglia paga, dalle parole ai fatti”. “Salva-ladri”, la destra lo rivota: senza denuncia, chi ruba rimarrà impunito di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 13 settembre 2024 La maggioranza boccia il testo 5S per eliminare l’improcedibilità d’ufficio voluta dalla legge Cartabia. Sicurezza, sicurezza invocano un giorno sì e un giorno pure il partito della premier Giorgia Meloni, FdI, e la Lega. Ma quando c’è da passare ai fatti è tutta un’altra storia. Mercoledì, con il parere contrario del governo, la Camera a maggioranza ha bocciato un emendamento targato M5S che chiedeva il ripristino della procedibilità d’ufficio per il furto aggravato, tra i reati retrocessi a procedibili solo con la querela della persona offesa in seguito alla riforma Cartabia. Chi meglio del governo “ordine e sicurezza” poteva sanare questa ingiustizia per le vittime? E, invece, l’emendamento a firma, tra gli altri, dei deputati Marianna Ricciardi, Federico Cafiero de Raho, Valentina D’Osso e Alfonso Colucci è stato bocciato. Secondo il tam tam a Montecitorio, la bocciatura non è stata per il merito quanto per il fatto che l’ordine di scuderia della maggioranza era di respingere tutto quanto provenisse dall’opposizione. “Il reato di furto aggravato, ha detto in aula Marianna Ricciardi, deve essere procedibile d’ufficio per due motivi: il primo perché si parla di un reato e di una fattispecie che rappresentano un grande allarme sociale; il secondo perché esso è di interesse della collettività, non soltanto del singolo che subisce il furto. Pensiamo al turista che viene un paio di giorni qui a Roma e deve perdere una giornata per andare a denunciare: molto spesso non lo farà. Ma il cittadino, che prende la metropolitana, ha tutto l’interesse affinché vengano denunciati quanti più reati possibili, se si verificano”. Secondo la deputata M5S, la bocciatura dell’emendamento “dimostra che quella di Meloni e dei suoi alleati è solo propaganda: parlano tanto di sicurezza, ma di fronte a questi atti concreti la retorica del centrodestra si scioglie”. Per capire meglio l’occasione mancata dalla maggioranza alla Camera di sanare una norma che genera impunità, risaliamo al 2022, quando quella riforma ha “declassato” da procedibili d’ufficio a procedibili solo con la querela di parte reati come sequestro, lesioni, minacce, violazione di domicilio, furti, compreso, appunto, quelli aggravati. Stiamo parlando di furti commessi, per esempio, dai borseggiatori in metropolitana, sui bus, con il motorino, a casa. La normativa Cartabia ha subito una modifica con questa maggioranza ma solo in minima parte: il Consiglio dei ministri nel gennaio 2023 ha approvato un disegno di legge che rende procedibili d’ufficio i reati “declassati” solo se c’è l’aggravante di mafia e terrorismo. In tutti gli altri casi quei reati toccati dalla riforma del governo Draghi possono essere perseguiti solo con la querela di parte. Ed è ovvio che tante vittime di minacce, di lesioni, per paura non denunciano e così i colpevoli la fanno franca. Anche chi viene arrestato in flagranza per un furto, per esempio, se entro 48 ore la vittima non ha presentato denuncia, la scampa. Il ddl, che ha dato solo un piccolo colpo di bisturi alla norma Cartabia, ha seguito la linea minimal di FI che, in tema di giustizia detta la linea. FdI avrebbe voluto far tornare la procedibilità d’ufficio per tutti i reati, cioè avrebbe voluto cancellare la norma Cartabia. In particolare il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, d’accordo con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Mantovano, avevaspinto in quella direzione, ma la realpolitik ha prevalso. Pubblicamente Delmastro aveva parlato di norma “a scapito della sicurezza dei cittadini”. Solo che ebbe la meglio Silvio Berlusconi, che sulla riforma Cartabia disse: “Ci sono poche cose su cui intervenire, magari chirurgicamente”. Dunque intervento minimo e solo dopo che a Palermo c’era stata una richiesta obbligata di scarcerazione per tre uomini del clan Pagliarelli, dato che le vittime di lesioni non li avevano denunciati. A quel punto il governo Meloni ha ripristinato la procedibilità d’ufficio, ma solo per l’aggravante di mafia e terrorismo. Per il resto, tutto sulle spalle delle vittime o tana libera tutti. Intercettazioni, l’idea del forzista Calderone: “Ora meno potere alla polizia giudiziaria di Simona Musco Il Dubbio, 13 settembre 2024 Meno potere alla polizia giudiziaria in fatto di intercettazioni, più responsabilità per il pm. Mira a questo la proposta di legge depositata martedì dal deputato di Forza Italia Tommaso Calderone, che prevede modifiche all’articolo 268 del codice di procedura penale in materia di trascrizione di contenuti di intercettazioni non rilevanti. La proposta, finalizzata “a riportare il procedimento penale nell’alveo degli irrinunciabili principi costituzionali che lo presidiano e lo governano”, prevede un controllo del magistrato titolare delle indagini sulle cosiddette intercettazioni non rilevanti: “La polizia giudiziaria - spiega infatti Calderone al Dubbio - ha potere di vita e di morte, allo stato attuale. Spetta a loro stabilire quali intercettazioni sono rilevanti e quali no, con la conseguenza che queste ultime sfuggono al controllo del pm. Ma quelle intercettazioni possono essere rilevanti per la difesa, che solo dopo ore e ore di ascolti potrà poi individuarle. E magari, grazie a quelle intercettazioni, si potrebbe evitare una misura cautelare”. L’idea è quella di obbligare la polizia giudiziaria a comunicare al pm non solo il contenuto delle intercettazioni rilevanti, ma quello di tutte le captazioni. Sarà poi il titolare delle indagini a stabilire se quelle conversazioni sono utili o meno, con una verifica in tempo reale che rafforza il diritto di difesa. “Come noto - afferma Calderone nella relazione che accompagna la proposta -, l’intervento del pubblico ministero è attualmente limitato a fornire indicazioni e a vigilare affinché siano rispettate le prescrizioni del comma 2 dell’articolo 268 del codice di rito: ovvero che nei verbali siano trascritti soltanto il contenuto rilevante ai fini delle indagini, anche a favore della persona sottoposta ad indagine, e che il contenuto di quelle non rilevanti non sia trascritto neppure sommariamente”. L’intervento incrementerebbe lo scambio tra polizia giudiziaria e pubblico ministero, consentendogli “di intervenire nella gestione delle intercettazioni ed evitare possibili travisamenti e, quindi, inutilizzabilità del materiale captato nell’ambito del processo”. Una funzione di controllo sull’operato della polizia giudiziaria “sino ad oggi sconosciuta al nostro ordinamento” , specie a seguito della riforma Bonafede. “Le esigenze di speditezza delle operazioni non possono in alcun modo esser ritenute prevalenti sul rispetto dei fondamentali diritti dell’indagato - continua Calderone -, le regole e i principi che sono in gioco sono quelli fondanti lo Stato di diritto che Forza Italia non cesserà mai di difendere” . Prima di chiedere la proroga delle intercettazioni e, comunque, al termine del periodo di captazione, la polizia giudiziaria è dunque chiamata a redigere una specifica informativa sul contenuto delle conversazioni ritenute non rilevanti, l’oggetto specifico degli argomenti e l’identità dei soggetti captati. Il pm, una volta verificato il materiale, dispone l’acquisizione delle intercettazioni ritenute rilevanti, disponendo, per il resto, la restituzione della informativa, da custodire negli archivi ed estraibile “solo per comprovate ragioni indicate dalla difesa e su autorizzazione del giudice per le indagini preliminari”. La difesa, allo stato attuale, può accedere alle conversazioni ritenute non rilevanti, nella stragrande maggioranza dei casi, quando le indagini sono già chiuse e magari è stato già emesso provvedimento restrittivo. Così, “anche lo stesso pubblico ministero rimane ignaro e deve effettuare le sue valutazioni esclusivamente sul materiale probatorio portato a conoscenza dalla polizia giudiziaria”, prosegue il deputato azzurro. La ratio, dunque, è quella di coniugare “esigenze probatorie, diritto di difesa e tutela della riservatezza”, prevedendo anche la facoltà, per la difesa, una volta presa contezza del materiale, di indicare le intercettazioni ritenute rilevanti, “con conseguente dovere del giudice di provvedere in conformità”. La proposta prevede anche che il giudice possa disporre l’acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche aventi ad oggetto conversazioni di natura privata o familiare, “soltanto nei casi in cui il difensore le abbia indicate come rilevanti ai fini delle indagini, indicandone le motivazioni”. “Giudici e pm, separare anche i concorsi: solo così il processo sarà ad armi pari” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 settembre 2024 Il presidente del Cnf, Francesco Greco, audito in commissione Affari costituzionali alla Camera sulle riforme che sanciscono il “divorzio” fra le due magistrature: “Il Csm non sia più l’organo di autogoverno delle correnti”. “È necessario considerare l’opportunità di avere due concorsi separati per la magistratura requirente e per i giudicanti. Questo rappresenta un punto saliente per realizzare davvero due carriere distinte, garantendo un giusto processo con tre soggetti che siano realmente estranei tra loro: il giudice, il pubblico ministero e l’avvocato. La semplice separazione post-concorsuale non è sufficiente a raggiungere tale obiettivo”: così oggi il presidente del Consiglio nazionale forense, Francesco Greco, audito dalla commissione Affari costituzionali della Camera sui quattro progetti di legge e sul ddl costituzionale del governo relativi alla separazione delle carriere (e, nel caso del testo dell’Esecutivo, al sorteggio dei consiglieri dei due futuri Csm e all’Alta Corte disciplinare). Ha proseguito il vertice della massima istituzione forense: “In merito all’ipotesi del sorteggio per il Consiglio superiore della magistratura, pur riconoscendo che potrebbe non essere la soluzione migliore in assoluto, ritengo sia l’unica strada praticabile per contrastare efficacemente il fenomeno del ‘correntismo’ nella magistratura. Tutti noi addetti ai lavori siamo consapevoli di come le correnti spesso assegnino i ruoli apicali. Il Csm non deve essere l’organo di autogoverno delle correnti, ma deve rappresentare l’intera magistratura. L’obiezione secondo cui il sorteggio dei togati potrebbe portare al Csm magistrati non adeguatamente capaci di giudicare i loro colleghi stride con l’idea che questi stessi magistrati poi giudichino i cittadini. Una soluzione possibile potrebbe essere quella del sorteggio temperato tra coloro che hanno espresso la disponibilità ad essere designati”. Inoltre, Greco ricorda che “il disegno di legge del governo tende a dare una prevalenza, nei due Csm e nell’Alta Corte, alla componente togata: ma quest’ultima non può essere prevalente rispetto a quella scelta dal Parlamento. Occorre un opportuno equilibrio”. Ha concluso il presidente del Cnf: “Condivido appieno l’idea dell’istituzione di un’Alta Corte disciplinare, considerando i molti casi, in questi anni, di procedimenti disciplinari a carico di magistrati che, per la maggior parte, si sono definiti con sanzioni enormemente irrisorie rispetto alle contestazioni che il magistrato aveva subìto. Infine sottolineo l’importanza, per la nostra democrazia, di mantenere l’obbligatorietà dell’azione penale”. Davanti ai deputati sono intervenuti anche Francesco Petrelli e Rinaldo Romanelli, rispettivamente presidente e segretario dell’Unione Camere penali. I quali hanno riproposto “il reclutamento laterale, ossia la necessità di formare il corpo della magistratura in modo più aperto, prevedendo anche posti riservati ad avvocati con un certo numero di anni di esperienza professionale, al fine accrescere complessivamente la qualità della giurisdizione e dunque l’affidabilità e l’autorevolezza della decisione giudiziaria, che è un valore fondamentale per ogni democrazia consolidata. Al contempo un significativo reclutamento di avvocati, ed eventualmente di altre figure professionali idonee, sulla base del modello già da anni vigente in Francia, da attuarsi sempre per concorso, consentirebbe di contenere la deriva corporativa e autoreferenziale che ormai connota fortemente il corpo della magistratura”. Un punto che ha spinto il presidente della commissione, il forzista Nazario Pagano, a chiedere esplicitamente ai vertici Ucpi di presentare un emendamento è la questione che riguarda le auto-attribuzioni dei poteri da parte di Palazzo Bachelet: “Ferma l’opportunità di attribuire a un organo diverso dal Csm i poteri disciplinari, resta comunque il tema che l’organo di governo autonomo della magistratura si sia visto attribuire, ma anche in parte sia auto-attribuito nel tempo, sulla base della teoria dei “poteri impliciti del Csm”, una quantità di competenze che non vede eguali in altri analoghi organi di governo della magistratura esistenti in Paesi europei. La proposta delle Camere penali, per ricondurre la natura e le funzioni del Csm alle previsioni del costituente, aveva ipotizzato di modificare l’articolo 105 della Carta con l’aggiunta del seguente comma: “Altre competenze possono essere attribuite solo con legge costituzionale”. Sono quindi intervenuti, per l’Ocf, il coordinatore Mario Scialla e il tesoriere Antonino La Lumia. “In questi ultimi mesi - ha detto il primo - ho notato che, all’interno della magistratura, sono uscite sempre più voci favorevoli al sorteggio (per le nomine nel Csm, ndr), anche durante i convegni, e questo ci convince della bontà del sistema”. Ha poi sottolineato che “nessuno di noi vuole perdere un pm libero, sereno, indipendente, addirittura coraggioso e non condizionato dall’Esecutivo: è chiaro che noi, di una questione tecnica di diritto in fase di indagini preliminari, vogliamo parlare col pm e non con la polizia giudiziaria. In questo senso, il ddl Nordio non può suscitare alcun allarme: del resto rimane immodificato l’articolo 109 della Costituzione sui rapporti tra polizia giudiziaria e pubblico ministero, che trova poi corrispondenza nel 327 del codice di procedura penale, con il quale la direzione delle indagini è attribuita al pm”. Da questo punto di vista, ha aggiunto poi La Lumia, “non possiamo condividere i toni politicamente belligeranti adottati dall’Anm, che in più occasioni ha voluto adombrare un complessivo disegno di indebolimento della magistratura, prefigurando un’involuzione della figura del pubblico ministero e parlando addirittura di “cavallo di Troia” volto ad assoggettare tutti i magistrati al potere politico, con l’effetto di ridurre le garanzie e i diritti di libertà dei cittadini”. Contro la riforma costituzionale si sono espressi invece Domenico Airoma, procuratore della Repubblica presso il tribunale di Avellino, Maurizio Fumo, già presidente titolare di Sezione della Corte di Cassazione, Domenico Gallo, già presidente di Sezione della Corte di Cassazione per i quali nessuna statistica dimostra che i giudici sono appiattiti sui pm, che ottenuto il sorteggio per depotenziare le correnti allora la funzione disciplinare non dovrebbe essere portata fuori dal Csm, e infine che non tutti i magistrati sarebbero idonei per sedere a Palazzo Bachelet. Si è distinta la posizione di Roberto Rossi, procuratore generale della Corte d’Appello di Ancona: “Non vedo come una riforma del genere possa modificare la figura del pm posto che i poteri e i doveri del pm stabiliti dalle norme processuali rimangono gli stessi”. Inoltre coloro che, ossia la magistratura nella quasi totalità, “sostengono che con la riforma il pm sarebbe assoggettato all’Esecutivo stanno facendo un processo alle intenzioni”. “Intercettazioni abusive, ora basta”, ordina la Cedu di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 settembre 2024 Definitiva la sentenza con cui Strasburgo condanna l’Italia per aver spiato Contrada: il governo non presenta ricorso. Con un gesto che potrebbe segnare una svolta epocale nella politica giudiziaria italiana, il governo ha scelto di non opporsi alla recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) riguardante l’abuso delle intercettazioni nei confronti di Bruno Contrada, rendendola così definitiva. A fine agosto, una lettera inviata da Strasburgo all’avvocato Stefano Giordano, difensore di Contrada, ha segnato, silenziosamente, un cambio di prospettiva decisivo nel panorama giudiziario del nostro Paese. La missiva, datata 30 agosto, comunicava che la sentenza della CEDU sulla vicenda dell’ex “007” era diventata definitiva. Il governo italiano, non opponendosi, ha di fatto accettato una condanna che mette a nudo le falle del nostro sistema giudiziario. Ma facciamo un passo indietro. Chi è Bruno Contrada e perché il suo caso è così importante? Ex funzionario dei Servizi segreti italiani, Contrada si è trovato al centro di un vortice giudiziario che ha messo in luce pratiche investigative a dir poco discutibili. Nel 2017, la Procura generale di Palermo, guidata dall’allora pg Roberto Scarpinato (oggi senatore del Movimento 5 Stelle e componente della commissione parlamentare Antimafia), insieme ai sostituti Domenico Gozzo e Umberto De Giglio, ha disposto l’intercettazione di ben cinque linee telefoniche utilizzate da Contrada. Il motivo? Indagini sull’omicidio di Antonino Agostino, agente di polizia in servizio presso il commissariato, avvenuto nel lontano 1989. Il dettaglio cruciale? Contrada non era né indagato né imputato in quel procedimento. Come se non bastasse, nel 2018 la stessa Procura ha eseguito perquisizioni presso l’abitazione di Contrada e altri due immobili da lui utilizzati. La giustificazione ufficiale? “Esiste fondato motivo di ritenere, sempre sulla base di elementi acquisiti in questo procedimento, che Contrada abbia ancora la disponibilità di documenti”. Una caccia al tesoro giudiziaria che, prevedibilmente, si è rivelata infruttuosa. L’aspetto più inquietante di questa vicenda è emerso quando Contrada, casualmente, ha scoperto di essere stato intercettato leggendo il decreto di perquisizione. Un’invasione della privacy condotta in modo occulto, senza alcuna notifica preventiva o possibilità di difesa. L’avvocato Stefano Giordano, insieme alla compianta avvocata Marina Silvia Mori, ha portato il caso di Contrada a Strasburgo. La sentenza, emessa il 23 maggio 2024, ha inflitto un duro colpo al sistema giudiziario italiano. La Corte ha infatti riscontrato una violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei Diritti umani, relativo al diritto al rispetto della vita privata e familiare. Ma la condanna va ben oltre il caso specifico di Contrada, evidenziando un problema sistemico: la legge italiana non offre sufficienti garanzie contro gli abusi nelle intercettazioni a carico di soggetti non direttamente coinvolti in un procedimento penale. In pratica, chiunque potrebbe essere oggetto di sorveglianza senza esserne a conoscenza e senza alcun mezzo di difesa. L’avvocato Stefano Giordano, contattato dal Dubbio, ha espresso grande soddisfazione per la sentenza dei giudici di Strasburgo: “La Corte ha unanimemente riscontrato una grave lacuna nella legislazione italiana in materia di intercettazioni. Il ministro Carlo Nordio ha accolto positivamente questa decisione, e lo Stato italiano, non opponendosi, ha implicitamente riconosciuto l’esistenza del problema. La palla passa ora alla politica, che dovrà promuovere una riforma liberale dell’intera materia”. Giordano ha sottolineato come la legge italiana consenta di intercettare “qualsiasi cittadino ritenuto di interesse investigativo”, anche in assenza di un’indagine a suo carico. Un punto cruciale, secondo l’avvocato, è la disparità di trattamento tra indagati e non indagati: “Chi non è indagato è meno tutelato rispetto a chi lo è”. Infatti, mentre un indagato può contestare la legittimità delle intercettazioni, un semplice cittadino non ha questa possibilità. L’avvocato ha infine sottolineato l’urgenza di una riforma del sistema, enfatizzando la necessità di trovare un “equilibrio tra la tutela del diritto del difensore a valutare l’utilizzabilità delle intercettazioni e le esigenze repressive dello Stato”. Il caso Contrada è emblematico di un problema più ampio. In breve tempo, l’ex agente segreto è stato sottoposto a ben tre perquisizioni. L’ultima, avvenuta il 29 giugno 2018, ha portato al sequestro di materiale del tutto innocuo: un album fotografico, atti processuali pubblici e appunti per una lettera al magistrato Nino Di Matteo. Un risultato che solleva più interrogativi che risposte sulla metodologia di alcune indagini condotte da talune Procure, fortunatamente sempre meno diffuse, in virtù del progressivo ricambio generazionale. La Corte di Strasburgo ha chiaramente evidenziato come la legislazione italiana non offra sufficienti garanzie contro gli abusi nelle intercettazioni. In particolare, manca una norma che consenta ai cittadini, oggetto di tali misure, di rivolgersi alla magistratura per verificarne la legittimità e ottenere un adeguato risarcimento in caso di violazioni. La sentenza della CEDU apre ora nuovi scenari. Il mancato ricorso del governo italiano ha implicitamente riconosciuto la necessità di una profonda riforma del sistema, volto a prevenire abusi e a garantire il pieno rispetto dei diritti fondamentali. Campania. Ciambriello: “Emergenza salute mentale nelle carceri” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 13 settembre 2024 Il Garante: “Faccio un appello al presidente della giunta regionale De Luca e al Dap”. Il detenuto del carcere di Poggioreale, originario del Mali, affetto da grave sofferenza psichica, è divenuto noto ai fatti di cronaca dopo aver staccato il dito ad un altro ristretto. Il suo Magistrato di riferimento, della Procura di Torre Annunziata, da giorni ha emesso un provvedimento di misura alternativa al carcere, al fine di applicare una misura di sicurezza provvisoria presso un Spdc (Servizio psichiatrico di Diagnosi e Cura), oppure presso altra struttura psichiatrica adeguata. “In questi giorni, in qualità di Garante campano dei detenuti, durante una mia visita a Poggioreale, ho trovato il detenuto ancora in carcere, steso a terra in una cella. La misura alternativa predisposta dal magistrato non è stata ancora applicata. Non si trovano Spdc con posti disponibili? Non ci sono posti in strutture psichiatriche adeguate o all’interno delle Rems? Il problema c’è, lo sto sollevando da anni, ma c’è chi o per battaglie ideologiche o per altre questioni a me poco note, non introduce l’aumento almeno di una Rems in Campania (attualmente sono presenti soltanto due, una a Calvi Risorta e una a San Nicola Baronia). Come il detenuto, ci sono tante altre persone che risultano essere incompatibili con l’ambiente carcerario, ma continuano ad essere ristretti. Chi deve intervenire? Lancio un appello al presidente della giunta regionale Vincenzo De Luca e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, affinché si trovi una risposta ai problemi per le decine e decine di detenuti che si trovano in carcere con disturbi psicotici. Il consiglio regionale della Campania, discutendo sul tema delle carceri, il 3 maggio 2022, ha invitato la giunta regionale a mettere in atto per questi detenuti con sofferenza psichica, misure alternative al carcere, predisporre la creazione di una nuova Rems tra Napoli e provincia. Ancora oggi, non riesco a comprendere le motivazioni per cui sia stata chiusa temporaneamente l’articolazione per la tutela della salute mentale (Atsm nel carcere di Benevento, con sei posti disponibili, e quella del carcere di Sant’Angelo dei Lombardi avente dieci posti. C’è un’emergenza che non trova risposta né da parte dell’amministrazione penitenziaria né da parte della sanità pubblica per la messa in atto di misure alternative”, così ha dichiarato il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello. Napoli. Il Garante regionale ai funerali del detenuto suicida a Benevento ilcaudino.it, 13 settembre 2024 Ieri si sono svolti a Napoli i funerali di Salvatore Borrelli, suicidatosi nel carcere di Benevento il 2 settembre. Ai funerali ha partecipato anche il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello che si è stretto al dolore dei familiari presenti. Il garante Ciambriello riferisce: “in questi giorni ho parlato diverse volte con la figlia e i familiari di Salvatore e ho potuto constatare, attraverso la documentazione che mi hanno fatto vedere, che il signor Borrelli soffriva di un disturbo della personalità di tipo borderline, inoltre, la sua vita era stata caratterizzata da uso di sostanze. Nel carcere di Benevento già a maggio aveva commesso il primo tentativo di suicidio, ripetutosi anche il mese seguente, sempre con le stesse modalità. Nonostante effettuasse visite periodiche con lo psichiatra e assumeva una terapia psicofarmacologica, il suo malessere esistenziale permaneva. Salvatore sapeva di avere un problema e voleva solo essere curato e trasferito”. Il garante Samuele Ciambriello continua la sua amara riflessione dicendo: “Salvatore è il sessantottesimo detenuto che si suicida nelle carceri italiane, mi chiedo come sia possibile che i tanti protocolli anti-suicidio che vengono attivati in carcere possono portare comunque le persone, come Salvatore, a sfuggire al controllo delle autorità competenti commettendo gesti estremi”. Torino. Suicida in cella a 25 anni: la psichiatra a processo, accusata di omicidio colposo di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 13 settembre 2024 Era il 3 agosto 2022 quando Alessandro Gaffoglio, 25 anni, venne arrestato per due rapine in altrettanti supermercati di San Salvario. Venne portato al carcere Lorusso e Cutugno e tredici giorni dopo si tolse la vita, soffocandosi con un sacchetto di plastica. Ora la morte di questo giovane, affetto da disturbi psichici, è al centro di un processo che ha come imputata una psichiatra in servizio in carcere. Il prossimo 24 settembre si aprirà l’udienza preliminare. La professionista (difesa dall’avvocato Gian Maria Nicastro) è accusata di omicidio colposo: per la Procura, la dottoressa non avrebbe seguito le linee guida e i protocolli che dettano le misure necessarie per la prevenzione dei suicidi in carcere. Stando agli atti dell’inchiesta sarebbe stata la psichiatra a valutare il regime di sorveglianza del 25enne, stabilendo che fosse sufficiente il “lieve”. Non solo, la professionista non avrebbe integrato “gli antidepressivi prescritti” con altri farmaci specifici “così come indicato in letteratura per la prima fase di latenza del trattamento”. Gaffoglio - è la valutazione degli esperti della Procura - avrebbe dovuto essere inserito in un programma di sorveglianza “media” e la terapia farmacologica avrebbe dovuto essere integrata. Da qui l’accusa di omicidio colposo rivolta alla psichiatra, che avrebbe agito con “negligenza” e “imperizia”. L’inchiesta era partita dopo un esposto dei genitori del ragazzo - assistiti dalle avvocatesse Laura Spadaro e Maria Rosaria Scicchitano -, che dopo il suicidio avevano scoperto che il figlio aveva già tentato di togliersi la vita ed era stato salvato. Un campanello d’allarme che per la famiglia sarebbe stato ignorato. Teramo. Patrick morto in carcere a 20 anni. Nuovo esposto: “Vogliamo la verità” di Francesco Marcozzi Il Messaggero, 13 settembre 2024 Adele Di Rocco, coordinatrice di “Codice rosso”, è pronta a presentare, con la famiglia del ragazzo, una denuncia in procura, a Teramo, frutto del lavoro di quattro avvocati, Taormina, Di Nanna, Di Marcello e Trisciuoglio. “Noi - dice - siamo convinti che non si sia suicidato come frettolosamente si è voluto chiudere il caso. Non avanziamo nessuna ipotesi, vogliamo sapere cosa sia accaduto in quanto risulta che il ragazzo è stato trovato con l’ottava costola rotta, con qualche ematoma e poi ci devono spiegare come mai a un detenuto in isolamento, come si fa solitamente, non sono stati tolti i lacci delle scarpe. Con la nostra protesta abbiamo contribuito a far rimuovere la direttrice di Castrogno. Suicidi in quel carcere ce ne sono stati come quello di Giuseppe Santoleri, che stava per essere trasferito in una struttura speciale ad Atessa e che per un ritardo di ordine burocratico è rimasto ancora a Castrogno, dove non ce la faceva più a stare e si è ucciso”. E Patrik aveva delle patologie. “Certamente - aggiunge Di Rocco - Patrik era un ragazzo di vent’anni autistico e non doveva stare in carcere, eppure lo hanno messo lì dentro e lì è morto. Vogliamo conoscere la verità e speriamo che la procura voglia fare piena luce, definitiva, sulla vicenda che vede interessati numerosi esponenti politici anche a livello nazionale e altresì l’assessore regionale Santangelo con il quale abbiamo avuto un colloquio molto proficuo”. Patrick Guarnieri, 20 anni, era di Giulianova e venne trovato morto alle 5.45 del mattino del 15 marzo, soffocato dal lenzuolo appeso alle inferriate della finestra della sua cella. Monza. Detenuto in sciopero della fame pestato. L’ex direttrice: “La verità è nel filmato, l’hanno picchiato” di Stefania Totaro Il Giorno, 13 settembre 2024 Umberto Manfredi sarebbe stato tenuto fermo e schiaffeggiato in carcere. Maria Pitaniello: “Non fu contenimento, così ho inviato gli atti in Procura”. La presunta tortura dietro le sbarre: “Pestato a sangue, ho avuto paura”. “Quello che ho visto nel filmato va oltre un’azione di contenimento, ho visto il detenuto bloccato e raggiunto da diversi colpi”. A parlare l’ex direttrice del carcere di Monza Maria Pitaniello, sentita ieri come testimone al processo al Tribunale di Monza che vede quattro uomini e una donna della Polizia penitenziaria accusati di lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, abuso d’ufficio e omessa denuncia per avere picchiato nell’agosto 2019 Umberto Manfredi, 52enne, collaboratore di giustizia nel processo ai Casalesi in Veneto, mentre si trovava nella casa circondariale monzese. Il detenuto si è costituito parte civile insieme all’associazione Antigone. Secondo l’accusa il detenuto è stato colpito a pugni e schiaffi da un agente, mentre altri lo tenevano fermo. Per poi farlo cadere dalla barella una volta arrivati in cella, dove è stato lasciato dolorante, con gli occhi lividi, il volto tumefatto e un dente rotto. C’è un video che mostra l’agente che schiaffeggia il detenuto ma, secondo la difesa degli imputati, le telecamere non hanno ripreso, per un cono d’ombra, il momento precedente in cui il detenuto avrebbe sferrato un calcio al volto di un agente. A dire degli imputati le lesioni non sono state causate da una violenta aggressione da parte degli agenti, che sostengono di avere soltanto ‘contenuto’ il detenuto dopo che ha opposto resistenza, ma dalla caduta dopo il trasferimento in cella e da un’azione di successivo autolesionismo. Martedì l’allora direttrice di via Sanquirico ha raccontato la sua versione della vicenda. “Ero in servizio quel giorno e mi trovavo in un altro reparto, quando ho sentito gridare. Quando sono intervenuta c’era la comandante del reparto che mi ha detto che stava gestendo lei la situazione e di non avvicinarmi perché il detenuto era nudo. Si trattava di un caso impegnativo e complesso da gestire perché Umberto Manfredi aveva chiesto più volte di andare via da Monza e stava facendo lo sciopero della fame e della sete. Dalla ricostruzione del fatto contenuta negli atti risulta che il detenuto doveva essere trasferito nella sezione a monitoraggio sanitario per un calo di peso importante e durante il trasporto il personale era intervenuto per bloccarlo perché aveva avuto un comportamento aggressivo e un agente aveva riportato delle lesioni”. La direttrice aveva avviato un procedimento disciplinare a carico del detenuto, denunciato anche per resistenza a pubblico ufficiale. Poi arrivò una segnalazione del Garante nazionale per i diritti dei detenuti che chiedeva chiarimenti sul fatto dopo che un fratello di Manfredi si era rivolto all’associazione Antigone. “Allora ho visto il video della telecamera interna, confermo le zone d’ombra che ci sono in ogni istituto e ho visto altro rispetto a quello che mi era stato riportato sui colpi al detenuto che avevo collegato alla contingenza del momento e alla dinamica della difesa da parte degli agenti - ha continuato Maria Pitaniello - L’attività di bloccaggio presuppone che la persona venga bloccata fisicamente per non provocare lesioni a sé e al personale, mentre ho visto il detenuto bloccato e colpito diverse volte. Allora ho fatto sospendere il procedimento disciplinare nei confronti di Manfredi e inviato gli atti alla Procura di Monza. Ho parlato con il personale nel corso di riunioni dal clima pesante, dove hanno riportato le difficoltà nella gestione del detenuto. Manfredi mi aveva detto di essere caduto a terra a causa di una crisi epilettica”. Modena. “Situazione particolarmente critica nel carcere Sant’Anna” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 settembre 2024 Approvata in Consiglio comunale la mozione del Pd. Una mozione urgente sulla situazione della Casa circondariale Sant’Anna di Modena è stata approvata lunedì scorso dal Consiglio Comunale, con il solo voto contrario degli esponenti di Fratelli d’Italia, tanto da provocare lo sdegno da parte della Camera Penale locale. Il documento, presentato dal consigliere Luca Barbari del Pd e sottoscritto da numerosi altri consiglieri, ha portato all’attenzione dell’assemblea le gravi condizioni del sistema carcerario, non solo a livello locale, ma in tutta Italia. In seguito a questa approvazione e dopo aver consultato il direttore della Casa circondariale Sant’Anna, è stata programmata una visita ufficiale per l’11 ottobre del Consiglio Comunale, del sindaco e della Giunta comunale. La mozione approvata si apre citando un appello congiunto di prestigiose associazioni giuridiche italiane, tra cui l’Associazione italiana dei professori di Diritto penale, che esprimono “profonda preoccupazione per il progressivo, esorbitante aumento di suicidi all’interno della comunità carceraria”. Questo grido d’allarme è stato ribadito anche dalla delibera della Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane, che invoca un intervento urgente per “interrompere questa ininterrotta scia di morte, la cui responsabilità ricade inesorabilmente su uno Stato incapace di garantire il rispetto della dignità umana alle persone private della libertà personale”. La situazione del carcere Sant’Anna è particolarmente critica. Secondo quanto riportato dalla Camera Penale Carl’Alberto Perroux di Modena, l’istituto ospita attualmente 550 detenuti, ben oltre i 372 posti regolamentari disponibili. Questo dato allarmante è stato confermato durante la maratona oratoria “Non c’è più tempo. Fermare i suicidi in carcere”, organizzata dalla Camera Penale di Modena lo scorso 21 giugno. La mozione richiama alla memoria i tragici eventi del 2020- 2021, quando una rivolta carceraria scosse l’istituto modenese, culminando con la morte di nove persone. Da quei fatti è nata la “Rete Studio Carcere”, un’iniziativa spontanea di cittadini e associazioni impegnata a mantenere alta l’attenzione sulle problematiche del sistema carcerario. Il Consiglio comunale di Modena non è rimasto indifferente. Nel 2023, ha istituito la figura del Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, nominando la professoressa Giovanna Laura De Fazio. Questa nomina rappresenta un passo significativo verso un monitoraggio più attento e una tutela più efficace dei diritti dei detenuti. La mozione sottolinea anche l’importanza del Terzo Settore nel fornire servizi e supporto, sia all’interno che all’esterno delle carceri. Citando la ricerca “Al di là dei Muri” delle Acli, il documento evidenzia come le organizzazioni non profit siano fondamentali per l’accoglienza dei detenuti e l’implementazione di misure alternative alla detenzione. Inoltre, evidenzia il ruolo del Comune nel coordinamento del Clepa (Comitato locale per l’area dell’esecuzione penale adulti), che potrebbe mettere in rete i diversi attori che operano in ambito carcerario. Il consigliere Barbari ha evidenziato la necessità di “un cambio di paradigma nell’esecuzione penale. I dati del Dap mostrano che il 97% dei fondi è destinato al mantenimento delle strutture carcerarie, con risultati discutibili in termini di riduzione della recidiva. Si invita pertanto a investire maggiormente nelle misure di comunità e nell’esecuzione penale esterna, strategie che potrebbero rivelarsi più efficaci nel lungo termine”. La mozione impegna l’amministrazione comunale a visitare la Casa circondariale Sant’Anna, coinvolgendo le figure chiave; convocare una commissione per ascoltare esperti e associazioni; e dedicare un’intera seduta consiliare alla condizione carceraria. La mozione di Barbari non è solo un documento politico, ma un vero e proprio appello alla città di Modena affinché si faccia carico collettivamente di una situazione che non può più essere ignorata. È un invito a guardare oltre le mura del carcere, considerando i detenuti come parte integrante della comunità, meritevoli di dignità e di concrete opportunità di reinserimento. Torino. La denuncia del sindacato: “All’Ipm detenuti dormono in brandine da spiaggia” di Annissa Defilippi torinotoday.it, 13 settembre 2024 La dura lettera dell’Organizzazione sindacale autonoma Polizia penitenziaria. “La situazione al carcere minorile Ferrante Aporti di Torino è drammatica. A fronte di una capienza di 46 minori sono presenti oggi 56 minori: non vi è posto per dormire. La soluzione: dormi per terra su una brandina di resina da spiaggia in mezzo ad una stanza dove sono già presenti quatto/cinque detenuti”. La denuncia arriva dall’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria. “La situazione è ulteriormente accentuata dal fatto che sono distaccati da anni circa 20 unità di personale di polizia penitenziaria in ogni dove - aggiunge in una nota l’Osapp - L’esiguo personale presente svolge mensilmente dalle 40 alle 50 ore di straordinario, sottoposto ad uno stress psicofisico mai registrato prima d’ora nel silenzio più assordante del Dipartimento della giustizia minorile che, pur essendo stato informato della grave situazione di Torino sembrerebbe non interessi. Al personale viene tolto quasi sistematicamente il riposo. L’Istituto per minorenni di Torino è diventato oramai il ricettacolo di detenuti facinorosi”. Il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneducci, chiede al sottosegretario Ostellari d’intervenire con “la massima urgenza per accertare la situazione dei distacchi a sedi anche non istituzionali del personale con grave impoverimento delle strutture maggiormente a rischio, nonché dell’immotivato sovraffollamento nel carcere minorile di Torino, poiché l’esiguo personale di Polizia penitenziara presente è davvero stanco e stressato per gli eccessivi rischi e i massicci carichi di lavoro. Vogliamo augurarci che all’istituto penale per minorenni di Torino non accadano eventi gravi e irreparabili”. Milano. Giovani reclusi al lavoro. “Occasioni di riscatto per chi sbaglia” di Giovanna Sciacchitano Avvenire, 13 settembre 2024 Milano farà da apripista per lavori di pubblica utilità in alcune direzioni del Comune destinati ai minorenni autori di reato. Un passo importante che ha visto ieri la firma della convenzione fra il Comune e il Tribunale per i Minorenni di Milano alla presenza degli assessori Alessia Cappello (Sviluppo economico e Politiche del lavoro), Lamberto Bertolè (Welfare e Salute) e della presidente del Tribunale per i Minorenni Maria Carla Gatto. “Con questo protocollo - ha dichiarato l’assessora Cappello - il Comune di Milano si impegna a collaborare con il Tribunale per i Minorenni per offrire ai giovani che hanno commesso reati nuove e concrete opportunità di lavoro di pubblica utilità, come alternativa alla detenzione”. Nato da una proposta dei consiglieri Alessandro Giungi e Daniele Nahum, il progetto sarà realizzato in alcune sedi in cinque direzioni (Giovani e Sport, Cultura, Servizi Civici, Ambiente e Verde e Welfare e Salute). Al momento le posizioni prevedono l’inserimento di sette minori, ma in futuro il numero potrebbe crescere. Ci sarà un educatore professionale accanto ai ragazzi e alle ragazze che svolgeranno attività di supporto al lavoro del personale comunale. Tra le sedi dei lavori ci sono alcuni centri diurni per disabili, dove i ragazzi e le ragazze in corso di recupero saranno di supporto agli operatori per attività di intrattenimento, piccola manutenzione e logistica. Saranno impegnati anche al Museo di Storia Naturale, all’interno del quale si occuperanno dell’inventario e catalogazione, oltre che di lavori di manutenzione e botanica; nel Laboratorio Agrozootecnico Rinnovata Pizzigoni potranno mettersi alla prova nel supporto alla cura degli animali e delle piante. Al Museo Botanico di Villa Lonati e di Comunemente Verde, dove hanno sede le serre comunali, i ragazzi si avvicineranno alle prime operazioni di pulizia. Infine, al Cimitero Monumentale si occuperanno della manutenzione ordinaria e del supporto nell’organizzazione dei servizi. “In tutte le carceri minorili italiane sono detenute 580 persone - ha aggiunto l’assessore a Welfare e salute - erano 380 un paio di anni fa. Quindi il numero è in aumento e i minori denunciati in Italia sono circa 20mila. La messa alla prova diventa cruciale perché mette al centro il minore che ha commesso il reato e la sua responsabilizzazione. Fino a che non riusciremo a superare il paradigma che vede nel carcere l’unica modalità di scontare la pena non riusciremo a dare risposte di qualità al tema dell’obiettivo rieducativo. Il sovraffollamento si risolve facendo funzionare una giustizia di comunità e le attività di riparazione sono molto importanti”. Per la presidente del Tribunale dei minorenni, Gatto, il progetto sottoscritto ieri dà concretezza alla funzione rieducativa della pena. “Questa sperimentazione dà grandi opportunità - ha commentato. La convenzione deve consentire al giovane di acquisire consapevolezza del disvalore sociale dell’attività illecita che ha commesso e valorizzare la funzione riparativa della pena offrendo formazione e quindi un’attività lavorativa. A Milano abbiamo già firmato una convenzione con il Coni e il Centro sportivo italiano. Un ragazzo inserito ha concluso bene il suo percorso di 240 ore e ora intraprenderà un’attività lavorativa”. Un seme di speranza che potrà essere replicato. Trieste. Pena e carcere, l’iniziativa del Coa sul tema sovraffollamento di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 13 settembre 2024 L’Unione Triveneta dei Consigli dell’Ordine degli avvocati e l’Ordine degli avvocati di Trieste, in co- organizzazione con il Comune di Trieste, hanno organizzato un convegno dedicato alla pena e alla realtà carceraria. Appuntamento oggi pomeriggio, a partire dalle 15, a Trieste, nell’Auditorium Museo Revoltella (via Diaz n. 27). Il sovraffollamento delle carceri e le condizioni di vita negli istituti penitenziari hanno fatto scattare da tempo l’allarme. L’avvocatura è consapevole del momento delicato e chiede alle istituzioni di intervenire con pragmatismo e senza tentennamenti. Il convegno di oggi sarà anche l’occasione per riflettere su quanto accade nelle carceri del Nordest. I saluti e l’introduzione sono affidati a Roberto Dipiazza (sindaco di Trieste), Massimiliano Fedriga, (presidente Regione Friuli- Venezia Giulia), Andrea Pasqualin (presidente Unione Triveneta), Alessandro Cuccagna (presidente del Coa di Trieste). Interverrà anche il senatore Francesco Paolo Sisto (viceministro e Sottosegretario di Stato alla Giustizia). Il focus sulla pena e sul carcere verrà affrontato da Elisabetta Burla (Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste), Massimo Tommassini (magistrato dell’Ufficio Gip- Gup del Tribunale di Trieste), Andrea de Bertolini (avvocato del Foro di Trento), Giovanni Maria Pavarin (già Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Trieste), Enrico Sbriglia (presidente dell’Osservatorio regionale antimafia del Friuli Venezia- Giulia, già direttore della Casa Circondariale di Trieste) e Antonio Cerasa (Università degli Studi Magna Grecia, Ph. D., direttore f.f. Istituto di Bioimmagini e Sistemi Biologici Complessi IBSBC- Cnr, presidente dell’Area territoriale di Ricerca di Milano 4). Per la partecipazione all’intero evento verranno riconosciuti 2 crediti formativi in materia penale e 2 crediti in deontologia. Domani, sempre nel capoluogo friulano, si svolgerà anche l’assemblea dei legali del Nordest dell’Unione Triveneta degli avvocati. Il presidente degli avvocati triestini e vicepresidente dell’Unione Triveneta, Alessandro Cuccagna, porterà all’attenzione la situazione delle carceri nel territorio del Nordest, della professione forense e degli uffici giudiziari triestini. L’Unione Triveneta, inoltre, esprime preoccupazione sulle condizioni di lavoro degli uffici del Giudice di Pace e sul boom di istanze di ammissione al patrocinio a spese dello Stato pervenute all’Ordine triestino in materia di protezione internazionale. “I numeri evidenzia Cuccagna - sono enormi, basti pensare che dal 1 gennaio 2024 ad oggi sono 2168 le istanze pervenute al Consiglio in materia di protezione internazionale: 1619 provenienti da rifugiati, 195 relative a minori e 354 generiche. Se si escludono il sabato e la domenica, si parla di 12 istanze al giorno”. Due destini, dolore e riscatto. Il libro d’esordio di Rita Ragonese di Francesca Visentin Corriere del Veneto, 13 settembre 2024 È ambientato a Venezia il romanzo di esordio di Rita Ragonese “La vita contro” (Fazi, 282 pagine, 18 euro), che viene presentato a PordenoneLegge venerdì 20, al Teatro Verdi, Ridotto (ore 17). Un uomo e una donna ai margini si incontrano, lui alcolista, lei appena uscita dal carcere La Giudecca di Venezia, un passato comune di dolore, la voglia di ripartire e quel riconoscimento che crea una sorta di alleanza, per proteggersi a vicenda. Una storia di riscatto, ispirata all’esperienza decennale dell’autrice Rita Ragonese, che vive a Oderzo, come assistente sociale nel Veneto. Il libro nasce nell’ambito del laboratorio di scrittura Bottega di narrazione di Giulio Mozzi, accompagnato e sostenuto da due scrittrici padovane di lungo corso come Emanuele Canepa e Claudia Grendene. Umberto e Angela, i protagonisti, incrociano per caso le loro esistenze, lui alla soglia della pensione, cresciuto nel Cep, esperimento di aggregato popolare affacciato sulla laguna di Venezia, una tragedia ha interrotto la sua vita: vent’anni prima ha ucciso involontariamente la propria figlia adolescente, investendola mentre rientrava ubriaco, dopo una serata all’osteria. Lei, ventenne, di famiglia mestrina ottusamente cattolica, appena uscita dal carcere della Giudecca, stagista nella macelleria dove lavora Umberto, grazie al progetto di recupero proposto dai servizi sociali, ha l’unico obiettivo di riavere Martin, il figlio di sette anni, che durante il carcere è stato affidato ai nonni. Angela e Umberto si aiuteranno. “Nessuno si salva da solo”, ruota intorno a questa consapevolezza la vicenda. Entrambi, messi ai margini dalla vita, hanno voglia di essere ancora felici. Una scrittura limpida, dialoghi serrati che scolpiscono i personaggi, ritmo narrativo coinvolgente e capacità di fare riflettere su destino e conseguenze. Una prova narrativa d’esordio efficace, che non si dimentica. “Vai e cresci, questo le ha detto in sostanza la madre senza aggiungere istruzioni, e lei si è ritrovata spinta nel bosco della città, come una miserevole Gretel senza nemmeno il conforto della fratellanza, alla ricerca di obiettivi da conquistare per poter sopravvivere, ma ancora prima alla ricerca di indizi per poter orientare la ricerca nel deserto della possibilità. Per poi forse tornare vincente da chi continua a respingerti, o forse non tornare mai più, risucchiata dalla vacuità del proprio essere”. Rita Ragonese con il suo libro sarà anche a Mestre alla Feltrinelli il 26 settembre (ore 18) e a Oderzo a Cantiere Misto il 29 (ore 18). Il Pnrr “taglia” il Terzo settore di Paolo Foschini Corriere della Sera, 13 settembre 2024 Diminuiscono i fondi e anche il coinvolgimento. Più di 1.300 progetti legati al Terzo settore stralciati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza nella sua versione attuale. Due intere sezioni eliminate del tutto. Diciassette scadenze cui adempiere entro la fine di quest’anno, sei sarebbero anche nuove ma non è dato sapere il loro stato di avanzamento. Più di 1.300 progetti legati al Terzo settore stralciati dal Pnrr nella sua versione attuale. Due intere sezioni (tecnicamente “misure”) di intervento - tra cui quella sui beni sequestrati alle mafie, con dentro 254 progetti - eliminate del tutto. Altre diciotto ridotte o modificate. D’accordo, ci sono anche voci non tagliate. Ma volendo fare una sintesi sul dare-avere che il Pnrr di oggi ha comportato per il Terzo settore rispetto al testo originale c’è poco da girarci intorno e i punti chiave sono tre. Primo: nonostante i fondi totali per l’Italia siano addirittura cresciuti (da 191,5 a 194,4 miliardi) la fetta legata a materie “di interesse” per il non profit è calata. Secondo: nonostante l’aspettativa di un coinvolgimento del Terzo settore in progettazioni e programmazioni condivise, alla fine non se n’è vista traccia. Terzo: poco o niente anche sulla “trasparenza” in cui il Terzo settore sperava, e pure a prendere per buone le promesse del governo secondo cui i progetti sfilati oggi dal Pnrr saranno “realizzati ugualmente attingendo ad altre fonti” la sola cosa certa è che finora non è stato spiegato quali e quando. Sono solo alcuni degli elementi contenuti nel report “Pnrr e Terzo settore, cosa cambia e perché”, realizzato dal Forum Terzo Settore con Fondazione Openpolis e presentato ieri a Roma. “Verificare lo stato di avanzamento del Pnrr in corso d’opera - ha sottolineato Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum, partendo proprio dal tema trasparenza - è stato molto difficile”. Per carità: ci sarebbe una piattaforma online fatta apposta, si chiama Regis, ma il rapporto precisa che dentro c’è poca roba e comunque “non è ancora accessibile per la società civile”. Accanto alla portavoce - oltre a tanti rappresentanti del Terzo settore di tutta Italia - l’analista Luca Dal Poggetto di Openpolis con il compito di riassumere i risultati del lavoro. La premessa, vale la pena ricordarlo, è che il governo di Giorgia Meloni aveva manifestato l’intenzione di rivedere l’impianto originale del Pnrr fin dal suo insediamento. Poi, in più tappe, ha tradotto l’intenzione in realtà. L’ultima versione è stata approvata dal Consiglio d’Europa l’8 dicembre 2023. Oggi lo stato del Pnrr si compone in totale, quanto all’Italia, di 265 misure tra investimenti e riforme. Rispetto alla versione iniziale dieci sono state eliminate e altre ventisei ridotte. Cinquantaquattro quelle “di interesse” per il Terzo settore rimaste in elenco. Ora, è vero che in ambito sociale ci sono stati anche obiettivi rivisti al rialzo: per esempio ora c’è un miliardo in più per le politiche attive del lavoro, mezzo in più per la telemedicina, un extra di 250 milioni per l’assistenza domiciliare. E diciamo che sul fronte sociale anche il “nuovo” Pnrr salva comunque 35mila opere in ballo per un importo totale di 30 miliardi. Ma altri dati completano il quadro: oltre alla eliminazione della misura sui beni sequestrati sono saltati 803 progetti contenuti in quella per le infrastrutture sociali di comunità (servizi di istruzione, salute e mobilità). E ancora: -1,6 miliardi per le periferie; -1,3 miliardi per la rigenerazione urbana; -1,4 miliardi per asili nido e scuole dell’infanzia. La conclusione del rapporto è piuttosto esplicita: “Importanti investimenti-cardine del Piano, per i quali il “vecchio” Pnrr aveva evocato la partecipazione degli Enti di terzo settore, sono stati oggetto di una revisione in peius pur interessando temi di estrema rilevanza per i cittadini”. La legge sulla cittadinanza non è immutabile: è il momento di sostenere il referendum di Antonella Soldo Il Domani, 13 settembre 2024 La conseguenza della modificata introdotta nel 1992 dall’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato ce l’abbiamo ancora sotto agli occhi: quella di un paese che non dà alcun riconoscimento a centinaia di migliaia di italiani e italiane di fatto che qui vivono, studiano, lavorano, pagano le tasse e rispettano le leggi. Come spesso accade le cose che appaiono immutabili e delle quali si difende la loro immutabilità, non sono sempre state così. E questo è vero soprattutto quando si parla di quelle leggi che, nel tempo, si sono adattate ai cambiamenti sociali, economici e demografici. La legge sulla cittadinanza, per esempio. Quadro normativo - Fu il codice civile del 1865 a sancire il principio dello ius sanguinis e che cittadino è “il figlio di padre cittadino”. Il sangue cui si faceva riferimento era quello del padre, e il diritto si perdeva nel caso di acquisizione della cittadinanza di un altro paese. L’Italia nel frattempo si trasformò in un paese di massiccia emigrazione, soprattutto verso il continente americano, dove i coloni avevano stabilito un altro principio: quello dello ius soli, per il quale diventava cittadino chi nasceva nel territorio di quei paesi. Nel 1912 gli italiani che espatriarono furono circa 712mila, e di questi 400mila verso il continente americano: l’Italia non poteva perdere così tanti cittadini, perciò venne apportata una modifica alla legge per consentire ai figli di connazionali nati in paesi con ius soli di non perdere la cittadinanza italiana. Anche qui, il sangue che trasmetteva la cittadinanza restava quello del padre. La derivazione della cittadinanza per linea materna diventa possibile con l’entrata in vigore della Costituzione, il 1º gennaio 1948, e diventa legge solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975. E la cittadinanza agli stranieri? Su questo il codice civile sin dal 1865 prevedeva la possibilità di acquisire questo diritto dopo 5 anni di legale residenza. Un parametro rimasto tale fino al 1992, quando le cose cambiano. L’Italia da paese di partenza diventa paese di approdo, ci sono i grandi sbarchi degli albanesi sulle coste della Puglia, il dibattito sull’immigrazione si accende, e si fa più preoccupato. Su quelle spinte il governo Amato decide di raddoppiare gli anni di legale residenza in Italia necessari per avere la cittadinanza da 5 a 10. Fu un errore cui lo stesso Giuliano Amato da ministro degli Interni, nel 2006, provò a porre rimedio con un disegno di legge che riportava quel termine a 5 anni. Senza successo. Troppe cose erano accadute nel mezzo: la paura e la propaganda insieme a una narrazione delle sofferenze della passata emigrazione italiana ebbero la meglio. Su quest’onda fu approvata la legge sul voto degli italiani all’estero, voluta nel 2001 dal ministro degli Italiani nel mondo Mirko Tremaglia, dirigente storico del Movimento sociale italiano e poi di Alleanza nazionale. Si scelse, così, di rafforzare uno sguardo al passato invece di regolare i cambiamenti avvenuti nel frattempo. La conseguenza ce l’abbiamo ancora sotto agli occhi: quella di un paese che non dà alcun riconoscimento a centinaia di migliaia di italiani e italiane di fatto che qui vivono, studiano, lavorano, pagano le tasse e rispettano le leggi. Senza la cittadinanza queste persone non possono votare, partecipare a concorsi pubblici, studiare e viaggiare liberamente all’estero e nemmeno rappresentare l’Italia nelle competizioni sportive. E arriviamo alla cronaca. Per tutta l’estate pareva essersi riaperto un dibattito su ius soli e ius scholae, con una presa di posizione addirittura di Antonio Tajani. Dibattito che ha svelato tutta la sua ipocrisia proprio ieri quando Forza Italia alla Camera ha bocciato persino il suo stesso emendamento. Ma un modo concreto per fare qualcosa sul tema della cittadinanza c’è: sostenere il referendum promosso dai giovani italiani senza cittadinanza insieme a una robusta rete di associazioni e partiti. Il quesito è semplice: ridurre a 5 (invece dei 10 oggi richiesti) gli anni di legale residenza necessari per richiedere la cittadinanza. Questo allineerebbe l’Italia al resto d’Europa e riconoscerebbe un diritto fondamentale a tante persone che finora la politica col suo cinismo ha solo illuso. Si firma online con spid su www.referendumcittadinanza.it. C’è tempo fino al 30 settembre. Migranti. Maysoon Majidi e le altre nella trappola del reato di “favoreggiamento” di Giansandro Merli Il Manifesto, 13 settembre 2024 Marjam Jamali, anche lei iraniana, ai domiciliari dopo sette mesi lontana dal figlio. “Il problema è una legge ingiusta: nessuno dovrebbe stare in carcere per aver attraversato un confine o aver aiutato qualcun altro a farlo”, dice Richard Braude, Arci Porco Rosso. Non solo Maysoon Majdi. Sono migliaia i procedimenti per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina aperti in Italia “ex articolo 12” del testo unico, quello che tiene dentro tutto: dalle condotte solidali allo scopo di lucro. Secondo i dati ottenuti da Altreconomia tra il 2004 e il 2021 sono state denunciate per questo reato 37.600 persone, ma solo in un caso su sei è stato contestato il fine economico. In mezzo sono finiti italiani e stranieri, tanti uomini e qualche donna. Come Marjam Jamali, anche lei iraniana, anche lei arrestata allo sbarco con l’accusa di scafismo. Non un’attivista politica, come Majdi. Semplicemnte una persona in fuga dal regime insieme al figlio di otto anni. Il 26 ottobre scorso il caicco su cui era partita tre giorni prima dalla Turchia è stato intercettato al largo di Roccella Jonica da una motovedetta della guardia costiera. Poteva essere la fine dell’incubo, ne è iniziato un altro. Degli uomini che hanno tentato di molestarla durante la traversata, dirà lei più tardi, le puntano il dito contro. Finisce in prigione, separata dal figlio. Riesce a incontrare un mediatore che parla la sua lingua solo dopo diversi giorni. Dietro le sbarre resta sette mesi: il 31 maggio il tribunale del riesame di Reggio Calabria la manda ai domiciliari. Pesano le preoccupazioni per il bambino. L’8 luglio scorso è iniziato il processo, continuerà il 28 ottobre. “Sono emerse alcune discrepanze che meritano approfondimento. Ci sono aspetti che evidenziano una gestione sommaria delle indagini”, ha denunciato in quell’occasione l’avvocato Giancarlo Liberati, che di accusati di scafismo ne ha seguiti oltre 150. Problemi di traduzione, mediatori poco affidabili, testimoni irreperibili, impianti accusatori traballanti sono elementi comuni in questi procedimenti, che solo negli ultimi anni hanno guadagnato l’attenzione pubblica. Le donne incriminate, comunque, sono diverse e di varia provenienza. Una ucraina è stata arrestata nel 2011 a Crotone. Una sua connazionale e una libica sono finite in cella nel 2016 in Puglia e Calabria. Altre due sono state fermate, processate, condannate e recluse nelle carceri siciliane: E. e T., tre anni e tre e mezzo. Sono state seguite da Arci Porco Rosso, l’associazione palermitana che per prima ha avviato un lavoro sistematico su queste vicende e lo ha reso pubblico con il report Dal mare al carcere uscito nel 2021 e poi di volta in volto aggiornato. Il caso di un’altra donna - una signora congolese arrestata nel 2019 a Bologna mentre provava a superare i controlli di frontiera con figlia, nipote e passaporto falso - è finito davanti alla Corte di giustizia Ue. I giudici del Lussemburgo dovranno esprimersi sulla legittimità del facilitators package, il combinato di una direttiva e di una decisione quadro cui si conforma l’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione italiano, secondo il quale la scriminante umanitaria è facoltativa, mentre il fine di lucro è un aggravante ma non un elemento costitutivo del reato. Questa sentenza, attesa nei prossimi mesi, potrebbe cambiare la storia dei “reati di solidarietà” in ambito migratorio. Intanto, però, i processi continuano. “In quelli contro Majdi e Jamali sono coinvolti anche un uomo iraniano e uno turco, non vanno dimenticati - dice Richard Braude, di Arci Porco Rosso - Il problema è una legge ingiusta: nessuno dovrebbe stare in carcere per aver attraversato un confine o aver aiutato qualcun altro a farlo”. Migranti. Mia figlia Maysoon Majidi, artista e attivista. Accuse assurde contro di lei di Ismael Majidi Il Manifesto, 13 settembre 2024 Mia figlia Maysoon Majidi, attivista per i diritti umani e per i diritti delle donne in particolare, si trova dall’inizio dell’anno reclusa in un carcere italiano sulla base di accuse inconsistenti, dopo essere sbarcata in Italia per chiedere asilo. Io aspetto notizie dagli avvocati che seguono il caso e una convocazione dei giudici per dimostrare che mia figlia non è una trafficante, come appare nell’atto di accusa. Mia figlia è fuggita dall’Iran rifugiandosi nella regione del Kurdistan iracheno insieme a mio figlio Rajan. In Iraq Maysoon si è impegnata e ha lavorato come giornalista. Poi, in seguito alle minacce ricevute dall’Iran, i due fratelli hanno cercato di andare in Turchia. Purtroppo però lì hanno subito un furto da parte di trafficanti; per permettere loro di raggiungere l’Europa, la nostra famiglia ha dovuto raccogliere nuovamente dei soldi per pagare il viaggio. Questa volta sono riusciti a imbarcarsi e ad arrivare in Italia, dove hanno chiesto asilo. Però, per la mancanza di un interprete che potesse tradurre le parole di mia figlia, lei non è riuscita a difendersi e a ribattere all’accusa di essere una scafista. Perciò da allora è in carcere. All’Università si è impegnata in politica per la difesa dei diritti umani. Le guardie l’hanno picchiata e torturata molte volte, causandole un ricovero in ospedale. Faccio appello a tutte le associazioni e organizzazioni che si impegnano nella difesa dei diritti delle persone perché si occupino del caso di mia figlia: la mia è la richiesta di un padre disperato che, tra l’altro, ha già subito due ictus. La madre di Maysoon è morta quando lei aveva tredici anni. Maysoon fin da piccola ha dimostrato capacità artistiche: si è espressa con le matite colorate ancor prima di andare a scuola, sempre incoraggiata da noi di famiglia. Nella classe che corrisponde alla quarta elementare ha cominciato a scrivere poesie, alla scuola media è diventata redattrice della rivista della scuola e nell’ultimo anno ha vinto il primo premio tra gli studenti narratori in Iran. Appassionata d’arte, come dicevo, si è iscritta all’Università per studiare teatro e regia teatrale (mi ha inviato esempi dei suoi lavori). Si è poi impegnata in politica e nell’attivismo per la difesa dei diritti umani. Questo ha causato interventi pesanti da parte delle guardie dell’Università, che l’hanno picchiata e torturata molte volte, causandole un ricovero in ospedale a Sanaa. Tale è stata la situazione in cui si è trovata, che Maysoon ha perfino pensato di donare i suoi organi nel caso le torture le avessero causato la morte. Ribadisco che le accuse fattele sono prive di fondamento e chiedo perciò giustizia. Migranti. Mansour Doghmosh, attivista palestinese detenuto in Italia per conto di Israele di Monica Cillerai L’Indipendente, 13 settembre 2024 Sei mesi di carcere, poi l’udienza del Riesame: il giudice ordina la scarcerazione immediata ma invece di riacquistare la libertà viene trasferito in un Cpr (Centro di Permanenza e Rimpatrio), dove potrebbe rimanere detenuto per un altro anno. È la storia di Mansour Doghmosh, uno dei tre palestinesi arrestati a marzo con l’accusa di associazione con finalità di terrorismo internazionale (270bis) dalla polizia all’Aquila. Accusati di pianificare atti di terrorismo contro Israele in Cisgiordania, Ali Irar e Mansour Doghmosh si erano già visti annullare la richiesta del mandato di cattura a luglio. La Cassazione aveva però rimandato l’ultima decisione per la loro liberazione allo stesso Tribunale del Riesame dell’Aquila, che si è espresso dopo altri due mesi di prigionia ordinandone l’immediata scarcerazione. Mansour tuttavia non viene lasciato in libertà: dopo l’udienza, viene trasferito nel CPR di Ponte Galeria, la prigione per stranieri senza documenti alle porte di Roma dove a febbraio è stato trovato morto Ousmane Sylla. Per Anaan Yanesh, invece, è stata confermata la misura della detenzione in carcere. “Per il momento non si parla di rimpatrio” dice a L’Indipendente l’avvocato nominato per la detenzione al CPR di Mansour, che preferisce mantenere l’anonimato. “Si tratta di una detenzione amministrativa, che non è preordinata al rimpatrio. L’obbiettivo dell’amministrazione è dichiaratamente quello di rifiutargli la protezione internazionale, e quindi renderlo anche espellibile, ma in questo momento ancora non stiamo parlando di questo”. Il passaggio diretto da carcere a CPR non è una novità procedurale: succede spesso che, scontata la pena, i neo ex-detenuti immigrati vengano spediti ancora qualche mese dietro le mura di un centro per i rimpatri, a volte per essere espulsi verso il Paese di origine, ma più spesso per scontare quella che sembra essere una sorta di seconda pena. La vicenda di Mansour non è molto diversa. Anzi. Mansour Doghmosh era stato accusato dal GIP, insieme ad Anan Yaeesh e Ali Irar, di aver instaurato una collaborazione con il gruppo di risposta rapida Brigate Tulkarem, parte delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa, organizzazione che l’UE riconosce come terroristica. In seguito a una sentenza del tribunale di riesame dell’Aquila, i tre si sono salvati dall’estradizione per i concreti rischi di “trattamenti disumani” a cui sarebbero andati incontro in Israele, ma allo stesso tempo sono state confermate loro le misure cautelari promosse dal GIP - revocate ad Ali Irar e Mansour Doghmosh lo scorso 9 settembre. “Questo caso è particolarmente eclatante, perché la persona viene scarcerata proprio perché non ci sono i presupposti per la detenzione”, continua l’avvocato. “È quindi sorprendente che per un giudice penale questa persona non debba essere incarcerata e neanche sottoposta ad altra misura di controllo, ma per la polizia invece la sua libertà debba essere limitata. Purtroppo la legge lo prevede, almeno in astratto”. La detenzione cautelare in carcere e la detenzione amministrativa in un CPR appartengono infatti a sfere di potere diverse: il carcere viene disposto da un giudice penale, il CPR è uno dei tasselli della detenzione amministrativa, che fa riferimento al ministero degli Interni. Il trasferimento in un CPR di Mansour è stato dunque disposto dalla questura, non da un rappresentante del potere giuridico. “Il trattenimento nei CPR è previsto sia per le persone che devono essere rimpatriate, sia per i richiedenti asilo, che quindi non possono essere rimpatriati ma, per motivi di controllo - perché si ritiene vi sia rischio di fuga o che rappresentino un pericolo per la sicurezza dello Stato - possono essere trattenute. Questo lo prevede la legge e la questura ha disposto il trattenimento di Mansour affermando che questa persona possa essere pericolosa perché è sottoposta a un procedimento penale ancora in corso”. Dopo sei mesi di prigione preventiva, ora il giovane palestinese, padre di tre figli, rischia fino a un anno di CPR, tempo massimo di detenzione in questi centri per i soggetti ritenuti “pericolosi”. Questo nonostante i CPR siano da tempo finiti al centro dell’attenzione di istituzioni e organizzazioni per la tutela dei diritti umani, alla luce delle numerose inchieste che hanno mostrato i soprusi che avvengono all’interno, l’impiego coercitivo di farmaci e le torture cui vengono sottoposti i migranti rinchiusi in questi centri. “Probabilmente venerdì si terrà l’udienza in Tribunale, dove la difesa potrà esprimersi contro la richiesta della questura. Questo è il prossimo passo” riferisce l’avvocato. Intanto, comitati per la Palestina stanno iniziando a mobilitarsi per chiedere la libertà immediata di Mansour. Il tutto mentre Anaan Yaeesh, il 37enne palestinese originario di Tulkarem che il governo italiano avrebbe lasciato estradare in Israele, si trova ancora detenuto nel carcere di massima sicurezza di Terni. Migranti. Hotspot in Albania, tre settimane all’apertura: la corsa degli agenti per un posto di Francesco Grignetti La Stampa, 13 settembre 2024 Un Centro aprirà al porto di Shengjin per gestire l’arrivo delle navi con i migranti, l’altro a Gjader, tra le montagne, dove i migranti resteranno in attesa di un eventuale rimpatrio accelerato. Due, tre settimane al massimo e i centri per migranti in Albania saranno pronti. Non sono i tempi che il governo si augurava, ma alla fine palazzo Chigi è comunque soddisfatto. Si è tenuta una riunione operativa per fare il punto, presieduta dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Presenti tra gli altri anche i ministri Matteo Piantedosi e Guido Crosetto, più il prefetto di Roma Lamberto Giannini che sarà il responsabile amministrativo finale, così come il questore di Roma ne sarà il responsabile tecnico per la sicurezza, e il tribunale di Roma per le procedure giudiziarie. L’apertura dei due centri, uno al porto di Shengjin per gestire l’arrivo delle navi con i migranti, e l’altro a Gjader, tra le montagne, dove i migranti saranno rinchiusi in attesa di un eventuale rimpatrio accelerato, arriva con quatto mesi di ritardo sul programma. Si sono moltiplicati i problemi tecnici del cantiere, ma ormai i tempi sarebbero maturi. A giorni dovrebbe quindi arrivare l’annuncio che il Genio militare ha completato il suo incarico e che il ministero dell’Interno entrerà in possesso della struttura. A quel punto, se il collaudo filerà liscio, inizieranno le procedure come previsto dal Protocollo Italia-Albania della primavera scorsa. L’organigramma è pronto: i servizi saranno diretti da un Dirigente Superiore della polizia, due Primi Dirigenti e dall’Ufficiale di collegamento con l’Albania. Come il ministero dell’Interno ha illustrato ai sindacati di polizia, il dispositivo di vigilanza e gestione dell’ordine pubblico interno agli stabili “sarà gestito da un contingente interforze di 300 unità”. Sono previste forze provenienti dai reparti mobili, polizia scientifica, immigrazione e polizia giudiziaria, così ripartito: 176 della polizia, 77 carabinieri e 47 della Guardia di Finanza. La polizia distaccherà in Albania anche 4 direttivi e 2 Sostituti Commissari. Oltre a ciò, ci saranno anche operatori della Polizia Penitenziaria per la gestione di eventuali detenuti. Ribadisce il Viminale che nelle strutture di Shengjjn e Gjader vigerà l’extraterritorialità. All’interno delle strutture si applicherà la legislazione italiana. Tutte le incombenze all’esterno degli hotspot - fughe, risse o eventuali reati commessi dai cittadini extracomunitari - sarà demandata alla polizia albanese. La polizia albanese avrà anche la responsabilità di vigilare sull’hotel dove verrà alloggiato il personale italiano, a cui spetterà una indennità di trasferta all’estero di 100 euro al giorno più vitto e alloggio a spese dell’amministrazione. Il servizio in Albania è talmente ambito, vista l’integrazione sullo stipendio, che il sindacato Siap ha già chiesto la “rotazione tra tutti i reparti mobili e tutti gli altri uffici per le incombenze diverse dall’ordine pubblico”. La cannabis light equiparata alla droga. “Agricoltori onesti trattati da narcos” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 13 settembre 2024 Il voto segreto non ha fatto il miracolo. È finita come ci si aspettava che finisse, con la maggioranza di centrodestra che, alla Camera, ministri tutti sui banchi del governo per evitare che mancassero voti, dichiara fuori legge la cannabis light affossando un settore da 500 milioni di euro e le opposizioni che, per l’ennesima volta, insorgono. “Ma vi pare possibile - attacca Riccardo Magi - che agricoltori che pensavano di avere magazzini pieni di tonnellate di una sostanza perfettamente legale, per la quale hanno ricevuto sovvenzioni nazionali ed europee, si ritrovino ad essere considerati dei narcos?”. Così sarà se la norma che ieri è passata alla Camera con 157 sì, 109 no e due astenuti, verrà approvata anche al Senato. Dunque, un ulteriore passo avanti verso la messa al bando della coltivazione della canapa light “al fine di evitare che l’assunzione di prodotti costituiti da infiorescenze di canapa possa favorire, attraverso alterazioni dello stato psicofisico del soggetto assuntore, comportamenti che espongano a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica ovvero la sicurezza stradale”. Così recita l’articolo approvato ieri, uno dei più contestati del disegno di legge sicurezza Piantedosi-Nordio che tra martedì e mercoledì passerà al voto definitivo della Camera. Un articolo che porta l’imprinting del governo, passato grazie a un emendamento curato dal sottosegretario alla Presidenza del consiglio Alfredo Mantovano. Invano le associazioni di categoria hanno chiesto al governo di ascoltare le loro ragioni e fare marcia indietro ma non sono state neanche ricevute. E parte accesa la polemica tra opposizioni e maggioranza di governo con Matteo Mauri del Pd che mette nel mirino il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida: “Una scelta di una gravità assoluta certificata dalla scomparsa del ministro Lollobrigida, che invece di difendere gli interessi del settore agricolo si è adeguato alla volontà della presidente Meloni”. E il capogruppo di Fratelli d’Italia Foti richiama le “regole della democrazia. A partire da quelle che consentono al governo di presentare emendamenti a un disegno di legge dallo stesso promosso e al Parlamento di approvarli odi respingerli”. “Foti non sa di cosa parla. Il ddl sicurezza è di iniziativa governativa e l’emendamento sulla canapa lo ha promosso direttamente Palazzo Chigi”, la replica. Gli agricoltori non si rassegnano e lanciano un Sos al governo: non chiudeteci. “La coltivazione della canapa ha visto un numero crescente di agricoltori sotto i 40 anni investire ingenti risorse in questo settore. A livello nazionale il 65% di queste aziende agricole è gestito da giovani agricoltori, con una percentuale significativa di donne. Inutile dire cosa accadrebbe se l’emendamento venisse confermato dal governo”, l’appello di Davide Venturi, presidente di Confagricoltura Bologna. Quale sarà l’effetto concreto del provvedimento lo spiega Fabrizio Benzoni di Azione: “I prodotti dei supermercati con cosmetici e creme saranno prodotti con canapa straniera, con gravi danni al sistema produttivo e agricolo italiano”. Voto compatto della maggioranza anche per l’altro contestatissimo provvedimento che cancella il divieto di reclusione per donne con figli di età inferiore ad un anno, destinato a far aumentare il numero di bimbi piccoli dietro le sbarre insieme alle madri, attualmente ben ventuno. “La priorità è fermare il fenomeno delle borseggiatrici che colpiscono cittadine e cittadini”, esulta il leghista Igor lezzi, cui replica duramente Laura Boldrini del Pd. “Il ddl sicurezza è un viaggio nella galleria degli orrori. Dopo aver vietato a lavoratrici e lavoratori di protestare perché se fanno un blocco stradale vanno in galera da sei mesi a due anni, oggi tocca a una norma da brividi, che mette in carcere le donne incinte o con figli neonati. E lo ritengono giusto perché fatto contro le donne rom”. Se Mattarella invoca umanità di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 13 settembre 2024 Ancora una volta il presidente Mattarella mette in chiaro, con forza e chiarezza, i termini di problemi gravi e dei doveri che ne discendono. Anche questa volta - nel suo messaggio all’Istituto internazionale di diritto umanitario di Sanremo - il contesto dell’intervento del presidente sembra occasionale come può essere un incontro di studio. E invece cade nel pieno di vicende drammatiche, come sono gli accadimenti a Gaza e in Ucraina, oltre che in luoghi seguiti con minor continuità dai media, Yemen, Sudan, Siria, Haiti. Si tratta delle modalità con cui vengono condotti conflitti armati che, da tutte le parti coinvolte, dovrebbero osservare le regole delle convenzioni internazionali relative alla guerra. Il diritto internazionale umanitario ha una lunga storia, fatta di successi e di molte e gravi disfatte. I civili in particolare dovrebbero essere protetti, secondo il principio di proporzione dei danni ad essi procurati, quando siano inevitabile conseguenza della distruzione delle installazioni militari nemiche. I belligeranti sono obbligati ad agire limitando al massimo il coinvolgimento delle popolazioni e invece, come ha ricordato il presidente contestualizzando il suo testo e riferendosi a Gaza, si riceve “un bollettino quotidiano di uccisioni, distruzioni di infrastrutture, tra cui anche scuole, ospedali e campi profughi, attacchi contro operatori umanitari, personale medico, giornalisti, con lo spostamento forzato di centinaia di migliaia di persone. A ciò si aggiunge il sequestro e l’uccisione di ostaggi israeliani inermi, che ha raggiunto nei giorni scorsi nuovi livelli di orrore”. Il presidente Mattarella, rivolgendosi a studiosi e operatori del diritto internazionale umanitario, ma evidentemente parlando a tutti i responsabili politici e militari, ha richiamato l’importanza della dimensione internazionale dei limiti posti ai conflitti armati, nelle varie forme che oggi assumono. Il richiamo in ogni suo passaggio mostra come gli obblighi che i governi hanno assunto siano tutti violati, quasi ostentatamente. E non solo da milizie non statali o addirittura terroristiche, ma anche da eserciti belligeranti. In forma di appello, l’intervento del presidente è in realtà una denuncia, se appena si legge il suo testo confrontandolo con ciò che ogni giorno giornali e televisioni mostrano agli occhi di tutti. Il diritto internazionale umanitario è un settore di quello più ampio dei diritti umani. Prima di quest’ultimo il diritto umanitario è stato assunto al livello internazionale. Ma a partire dal dopoguerra, con la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, tutto il diritto dei diritti e delle libertà fondamentali ha acquisito una dimensione internazionale. E specialmente nei tempi più recenti sono state istituite Corti internazionali che sottolineano la responsabilità che ha assunto la Comunità internazionale accanto e oltre quella dei singoli Stati. Con tutte le precauzioni imposte dalla sovranità degli Stati, è però avvenuto il trasferimento al livello internazionale della protezione dei diritti umani e, più in generale, dell’osservanza da parte degli Stati delle obbligazioni che essi assumono con i trattati. Esemplari a questo proposito sono stati il dibattito e poi l’approvazione del trattato istitutivo della Corte penale internazionale, con l’elenco dei crimini di genocidio, contro l’umanità e di guerra a giudicare i quali essa è competente. Per perseguire alcuni di questi crimini la Corte ha emesso ordini di arresto per il presidente russo e per una funzionaria governativa; il procuratore della Corte ha chiesto che la Corte ordini l’arresto del capo del governo israeliano e del suo ministro della difesa, nonché di un responsabile di Hamas. La Corte internazionale di giustizia, organo giudiziario delle Nazioni Unite, ha recentemente statuito che l’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele viola il diritto internazionale. Non per la prima volta, ma mai in tanto drammatiche circostanze, si dovrebbero vedere ed apprezzare così la preminenza del diritto sulla violenza e l’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni giudiziarie che gli Stati hanno creato a tale scopo. E invece viene impunemente violato l’art. 2 della Carta delle Nazioni Unite (“I membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”) addirittura ad opera di un membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, un membro permanente dotato di potere di veto come la Russia. Il Consiglio di sicurezza è paralizzato. Un ordine di arresto emesso dalla Corte penale internazionale viene ignorato e, nel silenzio della generalità degli altri Stati, non viene eseguito dalla Mongolia che ha ratificato lo Statuto della Corte e riceve la visita di Putin. La sentenza della Corte internazionale di giustizia sulla illegalità dell’occupazione israeliana della Cisgiordania è ignorata e irrisa. L’intervento del presidente Mattarella merita di essere letto nel quadro drammatico della retrocessione di un movimento di internazionalizzazione della protezione dei diritti umani e sanzione dei crimini di guerra e contro l’umanità, che, dopo le tragedie delle guerre mondiali, intendeva sottoporre individui e Stati a norme cogenti atte ad assicurare ai popoli e alle persone che la proclamazione dei diritti umani fondamentali non risulti solo una inutile, ipocrita ostentazione di buoni sentimenti. Tunisia. Sonia Dahmani condannata a otto mesi in appello di Roberto Giovene di Girasole Il Dubbio, 13 settembre 2024 Sentenza emessa senza alcun contraddittorio per le parti nel procedimento contro la legale e attivista arrestata in diretta tv per le sue idee. Otto mesi di reclusione. È la condanna emessa nel processo di appello contro l’avvocata ed attivista tunisina Sonia Dahmani, al termine dell’udienza tenutasi il 10 settembre scorso. Come riportato dagli osservatori dell’Oiad (Osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo), di cui il Consiglio Nazionale Forense è cofondatore, e di altre organizzazioni internazionali che hanno assistito all’udienza, tra le quali il Consiglio degli ordini forensi europei (CCBE) la condanna è stata emessa dopo che la Corte si è ritirata in camera di consiglio per deliberare esclusivamente sulla domanda di ricusazione del collegio proposta dalla difesa di Sonia Dahmani. La sentenza, quindi, è stata emessa senza alcun contraddittorio tra le parti, senza la requisitoria dell’accusa e le arringhe difensive degli avvocati. La precedente udienza, tenutasi il 20 agosto, era stata rinviata a seguito delle proteste degli avvocati per la mancata traduzione in aula dal carcere dell’imputata. A luglio di quest’anno Sonia Dahmani era stata condannata a un anno di reclusione per “diffusione di notizie false” dalla giustizia tunisina per via di alcune affermazioni fatte nel corso della sua partecipazione ad una trasmissione televisiva avente ad oggetto la situazione politica e sociale della Tunisia, con riferimento all’arrivo di migranti dall’Africa subsahariana. Le modalità del suo arresto, eseguito il 9 maggio 2024 all’interno della sede dell’Ordine Nazionale degli avvocati della Tunisia (ONAT), da persone che si sono introdotte nell’edificio con la forza, in abiti civili e con il volto coperto da passamontagna, sono state oggetto di un comunicato di condanna del Cnf emesso il 12 maggio scorso. In un comunicato congiunto l’Oiad, il Ccbe e le altre rappresentanze dell’avvocatura che hanno assistito all’udienza denunciano le gravi violazioni del diritto di difesa e delle più elementari regole del giusto processo ed esortano le autorità tunisine “a prendere tutte le misure necessarie affinché si ponga fine a questa situazione che rasenta la negazione più assoluta dei diritti fondamentali della persona umana”.