Il “delitto di rivolta” del Governo, uno schiaffo allo Stato di diritto di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 12 settembre 2024 In materia di sicurezza il Governo va avanti per la sua strada, lastricata di violazioni allo Stato di diritto. E va avanti nonostante le dure e circostanziate obiezioni giunte da organismi internazionali come l’Osce. Il Ddl Sicurezza in discussione alla Camera è un vaso di Pandora che va scoperchiato. Tra le tante norme in esso presenti che criminalizzano il dissenso, colpiscono gli immigrati, puniscono i poveri ve ne è una che costituisce un attacco alla democrazia costituzionale. Si tratta del nuovo delitto di rivolta penitenziaria. Nonostante in Aula il Governo lo abbia riformulato resta intatto rimpianto illiberale, violento, antisociale. Sono puniti con pene elevatissime coloro che, in un carcere o in un Cpr, partecipano a una rivolta con violenza, minaccia o resistenza agli ordini impartiti. Non si definisce cosa è la rivolta ma si punisce chi vi partecipa, seppur passivamente. E si definisce la resistenza passiva come l’impedimento di ordini finalizzati a garantire l’ordine e la sicurezza, le due magiche parole che giustificherebbero la nuova ondata repressiva. Si tratta di una norma, così truce, alla quale neanche Rocco, giurista del regime fascista e autore del codice penale del 1930, aveva pensato. É una norma che in primo luogo difetta del principio di tassatività delle condotte materiali costituenti reato: non si capisce quali sono le azioni violente o nonviolente che determinano il meta-delitto di rivolta. Ogni atto di violenza o minaccia o di resistenza attiva è infatti già perseguito dal codice penale. Cosa li trasforma in rivolta? Non è dato sapersi. Ma è anche una norma che viola in modo plastico il principio di offensività, in base al quale si possono prevedere delitti solo se ledono beni o interessi costituzionalmente rilevanti. Non si capisce quale sia il bene offeso da una protesta nonviolenta. La punizione di chi in forma nonviolenta disobbedisce a un ordine qualsiasi di un agente, trasforma quest’ultimo in un despota da cui dipenderà la sorte del detenuto, che lo si vorrebbe trasformare in un uomo obbediente costretto a camminare a testa bassa, come nella Ronda dei Carcerati di Van Gogh o nelle immagini delle presunte torture del 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Trasformare chi protesta, finanche pacificamente, in un rivoltoso punibile sino a otto anni di galera significa violare la libertà di pensiero, il diritto di critica e subordinare il tutto a generiche esigenze di ordine e sicurezza. Non è stato neanche scritto che l’ordine debba essere legittimo. Di fronte alle tensioni che vi sono state nelle carceri in estate, come nella migliore tradizione, spunta l’arma della repressione e non della comprensione e dell’ascolto. I rischi che potrebbero derivare dalla nuova norma sono enormi. Provo ad esemplificare. Caso A: tre giovani ragazzi detenuti non escono dalla cella di fronte alla richiesta di essere portati in isolamento. Caso B: tre detenuti si rifiutano di mangiare o bere per uno sciopero della fame o della sete. Caso C: tre detenuti si rifiutano di smettere protestare con la battitura delle celle. Tre casi di ordinaria vita detentiva che da ora in poi sono trasformati da richieste di aiuto o ascolto in delitti. La norma si spera in un futuro non passerà le porte della legittimità costituzionale. Nel frattempo chiunque abbia a cuore lo Stato di diritto - giuristi, penalisti, costituzionalisti, politici liberali o progressisti - esprima la sua protesta e indignazione affinché il Governo torni sui suoi passi. Quelli finora solcati ci avvicinano alle democrazie illiberali e ci allontanano da chi ha dato la vita e la libertà per gli articoli 13 e 27 della Costituzione. *Presidente di Antigone Carcerazione di massa: il crimine diminuisce, aumentano i detenuti di Massimo Lensi thedotcultura.it, 12 settembre 2024 In Italia, i detenuti ristretti negli istituti penali sono circa 62mila, di cui il 15% in attesa del primo giudizio, per un totale di 47.000 posti letto (meglio, brandina) disponibili - cifra variabile. 132mila sono invece i soggetti in carico agli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) di cui 84mila sottoposti a misure penali di comunità. L’area penale generale per gli adulti raggiunge la ragguardevole cifra di 194mila unità, cui vanno aggiunti almeno altri duemila minori tra IPM e comunità e 700 internati in Rems, di cui il 46% con misure di sicurezza provvisoria. Nell’Unione europea, compresa l’Italia, sono più o meno 600mila i detenuti, definitivi o in attesa di giudizio. Di questi, circa 131.000 sono in attesa di giudizio. Per l’Ue non sono reperibili i dati complessivi dell’area penale esterna. Negli Stati Uniti la popolazione carceraria, che ammontava a 200mila individui negli anni Settanta, ha raggiunto ormai la cifra di due milioni e 300mila unità detentive, ai quali bisogna aggiungere quattro milioni e 700mila persone sotto le varie forme dell’area penale esterna. Durante gli anni Duemila, il numero dei reclusi, in crescita costante dalla fine della seconda guerra mondiale, è aumentato del 108% in America (escludendo gli Stati Uniti), del 29% in Asia, del 15% in Africa, del 59% in Oceania. In Brasile l’aumento è del 115% e in Turchia del 145%. Tutti i dati che ho qui riportato, presi dai vari rapporti sulla carcerazione di organizzazioni internazionali e istituzioni come Eurostat, sono in aumento. Il fenomeno della carcerazione di massa è ormai globale. Ci vuole veramente poco per entrare, anche inconsapevolmente, nell’area penale generale. Si stima che nel mondo vi siano oggi dieci/undici milioni di persone carcerate (condannate con giudizio definitivo o in attesa di sentenza). La metà di questi si trovano negli Stati Uniti, in Cina e in Russia. Per questo è sbagliata l’idea secondo cui ampliare il ventaglio delle sanzioni alternative comporti per forza la riduzione di persone recluse. Aumentano i dati di applicazione delle misure extra moenia e parallelamente quelli di esecuzione intra moenia. E non ci si lasci ingannare dalle misure di Paesi come l’Inghilterra dove per risolvere i gravi tassi di affollamento carcerario è stato programmato (dal dire al fare…) di sviluppare nuove forme alternative alla detenzione in istituto o l’introduzione di improbabili “numerus clausus” negli istituti penali. In quel Paese si sta sviluppando una forte attenzione alla carcerazione privata, per altro già attiva in settori marginali dell’esecuzione penale, e a modelli di utilizzo della forza lavoro detentiva in chiave di sfruttamento economico. Il detenuto è sempre un bel business. Basta averne tanti a disposizione. Tanti e disciplinati. Torniamo in Italia. Il 51,7% degli italiani teme di rimanere vittima di reati, ma nell’ultimo decennio il numero delle denunce è diminuito del 25,4%. È quanto emerge dal 56° Rapporto Censis. Nel 2012 in Italia erano stati denunciati 2.818.834 reati, nel 2021 sono stati 2.104.114, con una differenza di 714.720 delitti. Anche altre analisi concordano con questo dato: il crimine in Italia è in diminuzione. Aumentano soltanto i reati informatici e le estorsioni, un fenomeno tipico delle organizzazioni criminali congiunto alla forte crisi economica. Però la carcerazione, sia intra moenia, sia in esecuzione esterna, e la concessione di misure alternative sono in aumento. Strano, no? No, non è strano. Il fenomeno della carcerazione di massa, introdotto negli Usa negli anni Ottanta del secolo scorso attraverso precisi meccanismi tecnico-giuridici, annulla la detenzione minima e contemporaneamente innalza i periodi di carcerazione. L’innalzamento delle pene, l’introduzione ipertrofica di nuovi reati e la maggiore applicazione di misure alternative sostitutive della carcerazione, contribuiscono a imprimere un forte stress da sovraccarico alla penalità generale. Il sovraffollamento carcerario, però, è funzionale all’introduzione di settori di esecuzione penale privata. Perfino la maggiore applicazione di misure alternative surrogate della carcerazione, per esempio gli arresti domiciliari, rappresenta bene questa dimensione di saturazione penale che stiamo vivendo rendendo l’incarcerazione coestensiva alla vita libera. In sintesi: in Italia il crimine diminuisce, ma i detenuti, nelle varie forme di esecuzione, aumentano. Questa evidente constatazione, solo apparentemente contraddittoria, porta con sé il rifiuto evidente ad adottare provvedimenti deflattivi, come la liberazione anticipata speciale, l’amnistia e l’indulto. Le ragioni sono politiche, economiche e disciplinari. L’invenzione di una delinquenza con contorni definiti di natura etnica (i migranti), sociale (la marginalità urbana), e di allarme generazionale (i reati legati alla legislazione sulle tossicodipendenze; la recente ipotesi di messa al bando della Cannabis light) ha dato vita e sostanza a una massa detentiva funzionale. Una massa detentiva perfetta per realizzare forme alternative alla detenzione di natura economica e privata: le comunità educanti, le dimore sociali, i nuovi istituti “moderni” da costruire e via dicendo. Lo stesso fenomeno dei suicidi in carcere è considerato ormai accettabile: sia dal punto di vista etico-collettivo, per l’opinione pubblica è applicazione della regola “Chi vuole il proprio mal pianga sé stesso”, sia da quello istituzionale, “Un fenomeno inevitabile” sostiene il ministro Nordio. Se qualcuno non se ne fosse accorto, è necessario ricordare che, passato il vuoto agostano, ormai dei suicidi penitenziari non si parla più. La detenzione intra moenia è dunque destinata a crescere nei prossimi anni. Quello che dobbiamo domandarci oggi, semmai, è se le “alternative” alla prigione siano la diffusione o la decrescita del controllo sociale dello Stato. La soluzione, però, non è “nel” carcere, che fa soltanto il suo lavoro. Michel Foucault osservò: “Il problema non è scegliere tra prigione modello e abolire le prigioni. Attualmente nel nostro sistema (Ndr: Francia anni Settanta) l’emarginazione è creata dalla prigione. Questa emarginazione non scomparirà automaticamente abolendo la prigione. La società instaurerebbe semplicemente un altro mezzo. Il problema è il seguente: offrire una critica del sistema che spieghi il processo attraverso il quale la società attuale emargina una parte della popolazione. Tutto qua” (in La società disciplinare, 2010, Mimesis. p. 34). Tutto qua. La situazione penitenziaria italiana: sfide, diritti e prospettive di Paolo Dell’Oca arche.it, 12 settembre 2024 Abbiamo intervistato il magistrato Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano e componente dell’Osservatorio per il diritto allo studio in carcere dell’Università Statale di Milano, per avere uno sguardo autorevole e appassionato sulla situazione delle persone detenute in Italia. Dottor Maisto, come valuta la situazione carceraria in Italia e quali sono i principali problemi affrontati dalle istituzioni penitenziarie? La situazione carceraria in Italia è grave. Il Presidente della Repubblica ha descritto la situazione come “eccezionale”, richiedendo interventi urgenti. I principali problemi includono il sovraffollamento, con 61.758 detenuti rispetto a una capienza regolamentare di 50.911 posti e una capienza effettiva di 47.247 posti. Questo sovraffollamento porta a condizioni di vita inaccettabili, con un tasso di affollamento del 130%, che può superare il 140% in alcune carceri. Da gennaio 2024 ci sono stati 70 suicidi tra i detenuti. Inoltre Quest’anno anche 7 agenti di polizia penitenziaria si son tolti la vita. Questi numeri indicano sofferenza, e in questa situazione il rapporto tra popolazione detenuta e operatori penitenziari è diventato un rapporto, tranne casi rari, di inimicizia. Le carceri sono gravate da carenze di risorse e personale di ogni professionalità, il che peggiora ulteriormente le condizioni di vita dei detenuti e la loro salute mentale. Con l’ultimo cambio di Governo è stata data esecuzione ad una circolare che prevede che, tranne le ore d’aria o le attività ricreative, sportive e culturali, le persone restano chiuse in cella. Tra questa limitazione notevolissima alla locomozione, il sovraffollamento e i numerosi casi di tortura accertati dalla magistratura, di violenza e di violenza aggravata nei confronti dei detenuti, ci stiamo avviando verso la situazione per cui l’Italia nel 2013 fu condannata dalla Corte Europea dei diritti umani con la sentenza Torreggiani. Conseguenze di quella sentenza furono il beneficio della liberazione anticipata speciale e la cosiddetta sorveglianza dinamica che permetteva di non lasciare i detenuti chiusi in cella per buona parte della giornata. Oggi però siamo anche in una situazione di carenza di giurisdizione perché il fatto che ci siano pendenti, solo a Milano e soltanto dall’inizio del 2024, 500 ricorsi di detenuti che lamentano la violazione dell’articolo 3 della carta convenzionale europea dei diritti dell’uomo (quello che proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante) è una cosa che non si era mai vista. Diciamo che anche la magistratura di sorveglianza è in una situazione bloccata, è come se non esistesse più tutela giudiziaria. Quali sono i diritti dei detenuti spesso trascurati e quali sfide affrontano specificamente le donne e i bambini detenuti? I principali diritti trascurati includono il diritto alla salute, alla dignità e a condizioni di vita umane. Le donne detenute affrontano una situazione ancora più difficile in quanto il sistema carcerario è prevalentemente maschile, non solo per la maggioranza di detenuti uomini, ma anche per la prevalenza di personale e servizi pensati per uomini. Le donne spesso non hanno accesso a servizi ginecologici adeguati e, nonostante la presenza di reparti femminili, le condizioni di detenzione non tengono conto delle loro specifiche esigenze. Da tempo abbiamo avanzato la richiesta che ci sia un ufficio dedicato alle donne presso l’amministrazione centrale ma non è mai stato concesso. Per quanto riguarda i bambini, l’esperienza degli ICAM (Istituti di Custodia Attenuata per Madri) a Milano rappresenta un’eccezione positiva: non c’è il muro di cinta, non c’è la sentinella armata, ci sono occasioni per portare i bambini fuori all’asilo, c’è il collegamento con la parrocchia locale per alcune attività, offrendo un ambiente più umano per le madri detenute e i loro figli. Ma questa realtà non è uniformemente replicata in tutto il paese dove, se il detenuto è considerato uno scarto, le donne sono più “scarte” degli scarti all’interno del sistema penitenziario. E poi c’è il gran numero di detenuti migranti, ma non perché in rapporto agli italiani delinquono di più, ma perché ci troviamo di fronte a un sistema penitenziario razzista: la seconda settimana di maggio una delegazione dell’ONU ha fatto delle ispezioni a Milano ed ha indicato il nostro sistema come altamente selettivo e razzista. Non è difficile capire perché: gli stranieri, gli emarginati, i vagabondi, facilmente riconoscibili per la strada sono le persone che più facilmente si prestano ad essere oggetti di arresto e di attenzione da parte delle varie forze di polizia. Qual è il ruolo delle organizzazioni non profit nel supportare le persone detenute? Io dico che se non ci fosse il volontariato il nostro sistema penitenziario non reggerebbe, perché continuerebbe questa situazione di “attrito” tra il mondo dei detenuti e il mondo della custodia, e perché le organizzazioni non profit svolgono un ruolo cruciale sia all’interno che all’esterno delle carceri: procurare vestiti, cercare attività lavorative possibili, tenere i collegamenti, aiutare attraverso parole rigeneratrici, che diano speranza, perché qui proprio l’orizzonte della speranza non si vede. Quali sono i bisogni e le sfide legate alla salute mentale e alle tossicodipendenze tra i detenuti? Con oltre il 40% dei detenuti che sono tossicodipendenti e molti che soffrono di disturbi mentali, è essenziale portare i tossicodipendenti nelle comunità di recupero e migliorare l’accesso a servizi di salute mentale. Questi servizi devono essere adeguatamente finanziati e gestiti da personale qualificato, con l’obiettivo di offrire supporto terapeutico e riabilitativo. Quali sono le prospettive per il sistema penitenziario italiano nel prossimo decennio? Tutte le proposte richiedono tempi lunghi e denaro di cui non disponiamo, ma quali sarebbero? Aumentare gli istituti penitenziari con dei piani di edilizia penitenziaria, anche se la prima cosa da fare è ridurre il numero di detenuti applicando più misure alternative. Per ridurre i tentati suicidi bisogna incrementare i contatti dei detenuti con le famiglie: è stato promesso dai responsabili nazionali e non è stato realizzato, ma anche una telefonata in più permette di evitare che i tempi morti in cui sei in cella diventino tempi di morte. Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano e componente dell’Osservatorio per il diritto allo studio in carcere dell’Università Statale di Milano. Abbattere la recidiva con lavoro, formazione e sport di Maurizio Carucci Avvenire, 12 settembre 2024 Attualmente, solo il 33% dei detenuti in Italia è coinvolto in attività lavorative, di cui l’85% alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Anche lo sport può aiutare il reinserimento dei detenuti. Lavoro, formazione. E anche lo sport. Sono gli ingredienti per battere la recidiva nelle carceri. Attualmente, solo il 33% dei detenuti in Italia è coinvolto in attività lavorative, di cui l’85% alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, spesso in ruoli a basso valore aggiunto. È uno dei dati emersi dal paper Recidiva Zero. Istruzione, Formazione e Lavoro in Carcere: dalle esperienze progettuali alle azioni di sistema realizzato da Teha per conto del Cnel-Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. La promozione della reintegrazione sociale dei detenuti attraverso l’istruzione, la formazione e l’accesso al lavoro è quindi “più urgente che mai”. Secondo il paper, l’assenza di opportunità lavorative per i detenuti priva lo Stato di un possibile ritorno sul Pil fino a 480 milioni di euro. Stando alle proiezioni di Teha, in un primo scenario ipotetico, mantenendo invariato il numero di detenuti, se la percentuale di detenuti occupati in attività lavorative aumentasse al 60%, con l’85% di essi ancora impiegato presso l’amministrazione penitenziaria in attività a basso valore aggiunto, il ritorno sul Pil ammonterebbe a 288 milioni di euro. In un secondo scenario ipotetico, se la percentuale di detenuti occupati in attività lavorative aumentasse all’80%, con tutti gli extra-lavoratori impiegati presso imprese o cooperative in attività a maggior valore aggiunto, il ritorno sul Pil raggiungerebbe i 480 milioni di euro. Queste stime mettono in evidenza il potenziale impatto positivo sul Pil derivante dall’incremento delle opportunità lavorative per i detenuti, soprattutto se orientate verso settori ad alto valore aggiunto e promosse attraverso partnership pubblico-private. Secondo il rapporto, il tasso di affollamento reale nelle carceri italiane ha raggiunto il 119% nel 2023, con picchi che superano il 190% in istituti come quello di Lucca. Tale sovraffollamento non solo ostacola la gestione quotidiana delle strutture, ma riduce anche drasticamente le opportunità per i detenuti di partecipare a programmi di istruzione, formazione e lavoro, fondamentali per il loro reinserimento sociale. Il sovraffollamento comporta anche una maggiore incidenza di eventi critici, come violenze, aggressioni, autolesionismi e suicidi, che minano la sicurezza sia dei detenuti che del personale degli istituti penitenziari. In particolare, nel 2021 ci sono state 25 manifestazioni di protesta e 24 atti di auto-danno intenzionale ogni 100 detenuti. Secondo alcuni dati rilasciati dal Cnel assieme al ministero della Giustizia, sono oltre 60mila le persone detenute nelle carceri italiane, 60mila progetti di vita da raccogliere e ricostruire. Il 70% di loro cade nuovamente in errore, perdendo, dopo anni di reclusione, la possibilità di riscatto personale e di riabilitazione sociale. Sempre secondo le stime del Cnel il tasso di recidiva scende al 2% quando viene avviato un percorso formativo e lavorativo. La professionalizzazione dei detenuti porta, oltre alla riduzione del tasso di recidiva, anche a minori oneri per la comunità, contribuendo al reintegro sociale, a una minore saturazione delle carceri e a maggiore sicurezza del territorio. I detenuti nei cantieri della ricostruzione - Sono circa 1.200 i cantieri della ricostruzione post sisma, tra edifici pubblici ed edifici di culto, coinvolti nel protocollo d’intesa sottoscritto in Via Arenula dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, dal Commissario straordinario di governo per il sisma 2016, il senatore Guido Castelli, dal presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi, dal presidente facente funzioni dell’Anci Roberto Pella e dal presidente nazionale dell’Ance Federica Brancaccio. L’iniziativa ha lo scopo di rafforzare le opportunità lavorative in favore della popolazione detenuta delle regioni di Abruzzo, Lazio, Marche, Molise e Umbria, ma, più in generale, spiega il ministro Nordio, di perseguire “il fine rieducativo della pena e il reinserimento sociale dei detenuti”, “obiettivo primario del governo”. “Per noi - aggiunge - non si tratta soltanto di perseguire quello che è un dovere costituzionale sancito dall’articolo 27 della nostra Carta, ma è un impegno morale a cui lavoriamo ogni giorno attraverso una strategia di interventi quanto più ampia per favorire e incrementare le opportunità di lavoro in favore della popolazione detenuta”. Sulla stessa lunghezza d’onda, il presidente della Cei. “Questo protocollo - osserva Zuppi - ha una doppia valenza: da una parte dà la possibilità ai detenuti di lavorare, restituendo loro dignità e aprendo orizzonti di futuro. Ed è significativo che questa rinascita parta proprio dai cantieri della ricostruzione, in territori feriti ma desiderosi di ricominciare. Dall’altra parte, ricorda che il carcere è per la rieducazione e la riparazione, mai solo punitivo. In questo senso, le pene alternative aiutano a garantire umanità e a favorire il reinserimento nella società: questo Protocollo, investendo sul lavoro dei detenuti, è un passo concreto verso l’obiettivo ambizioso della recidiva zero”. Saranno 35 gli istituti penitenziari interessati dal progetto, tutti presenti nelle province di Fermo, Teramo, L’Aquila, Perugia, Spoleto, Ancona, Rieti, Ascoli Piceno, Macerata e Pescara. I cantieri coinvolti, diversi in località “simbolo” come Amatrice, Arquata e Castelluccio di Norcia, saranno pronti a partire dal 2025. Al momento non ci sono stime sul numero dei detenuti, anche donne, che effettivamente parteciperanno, dipenderà dalle autorizzazioni rilasciate dai magistrati di sorveglianza. Un call center in carcere - In carcere non si finisce… si ricomincia è il nome del progetto promosso dalla direzione della casa di reclusione di Vigevano, in provincia di Pavia, in collaborazione con le imprese sociali bee.4 altre menti e Divieto di Sosta per avviare una nuova filiera di attività lavorative all’interno dell’istituto di pena. Il nuovo call center - realizzato anche grazie alle aziende come la società di telecomunicazioni Eolo Spa, la società di produzione energetica Dolomiti Energia, la società Sielte Spa e la società TeamSystem - si colloca all’interno di un progetto più ampio che riguarda l’impatto delle attività lavorative in carcere: formare e offrire lavoro ai detenuti significa, tra l’altro, contribuire notevolmente all’abbattimento della recidiva. L’obiettivo del progetto, si legge in una nota, è offrire alle persone in carcere l’opportunità di qualificazione professionale, impegnando positivamente il tempo della pena in linea con la Costituzione. Le possibilità di impiego riguardano l’erogazione di servizi di assistenza clienti per le imprese partner che hanno sposato l’idea di un carcere moderno, capace di creare valore e occasioni di riscatto: si va dalla gestione reclami alle validazioni contrattuali, ai cambi del piano tariffario fino alle attività di back office. Attualmente, nove persone stanno lavorando con un regolare contratto a tempo pieno e altre nove hanno avviato un percorso formativo in vista di una possibile assunzione entro la fine settembre. Progetto d’impresa a Como - Prende avvio presso la casa circondariale di Como un nuovo progetto di impresa in carcere promosso da Intesa Sanpaolo. Un modello virtuoso di collaborazione tra soggetti privati e pubblici nell’ottica del bene comune e che coinvolge oltre al gruppo bancario, alla casa circondariale e al Provveditorato regionale, il gruppo MekTech, specializzato nella progettazione e costruzione di impianti e sistemi robotizzati, e la cooperativa Ozanam che favorisce l’inserimento nel mondo del lavoro di persone in difficoltà. Il programma consente a 11 detenuti di specializzarsi nella realizzazione di quadri elettrici complessi commissionati da MekTech, offrendo una formazione tecnica per il rilascio di un attestato di partecipazione al corso per tecnico cablatore elettricista e un lavoro, contribuendo al loro percorso di riabilitazione sociale e di reinserimento nella vita professionale. Si tratta di una attività professionalizzante che consentirà il potenziale inserimento al lavoro una volta che il detenuto ha finito di scontare la propria pena. La casa circondariale di Como ha coordinato le attività di ingaggio e di selezione dei detenuti che hanno l’opportunità di partecipare al progetto, oltre ad aver provveduto alla ristrutturazione e messa a norma, con fondi ministeriali, dei locali adibiti ad attività ricreative e sportive nonché del laboratorio che si estende su uno spazio di circa 180 metri quadrati all’interno del carcere. Al via il progetto “Squadra Dentro: sport e carcere” - Intesa Sanpaolo, coadiuvata nella scelta da Cesvi, ha deciso di sostenere il progetto Squadra Dentro: sport e carcere dell’Associazione Antigone attraverso il Programma Formula, dedicato a sostenibilità ambientale, inclusione sociale e accesso al mercato del lavoro per le persone in difficoltà. Il progetto permetterà di rafforzare la solidarietà e promuovere valori positivi tra i giovani dell’istituto penale minorile di Casal del Marmo a Roma grazie al calcio, sport di squadra capace di unire al di là delle difficoltà. Il progetto Squadra Dentro vuole infatti rafforzare le attività rieducative promosse nel carcere minorile di Casal Del Marmo a Roma e così creare una squadra di calcio formata dai giovani detenuti. Con il supporto di ASD Atletico Diritti, creata nel 2014 da Antigone e Progetto Diritti, tra i 20 e 25 detenuti, selezionati dalla direzione del carcere sulla base del programma personale di trattamento e reinserimento sociale di ciascun ragazzo, seguiti da un allenatore esterno dedicato, potranno frequentare due allenamenti settimanali. Per garantire la buona riuscita del programma, il campo da calcio del carcere necessita di manutenzione. Per questo, con il tuo supporto andremo a sostituire le porte, sistemare le panchine e le reti esterne e dotare la struttura di tutti i materiali utili per l’allenamento. Grazie al percorso, si auspica di far partecipare Squadra Dentro ad uno o più tornei cittadini nell’ambito di quelli promossi da associazioni quali Aics, Csen e Lega Calcio ad Otto, con l’accordo - già sperimentato da Atletico Diritti - di giocare in casa tutte le partite, così da offrire ai giovani adeguate opportunità per dimostrare il proprio talento in campo. Inoltre, in ottica di crescita e continuità progettuale, due detenuti, in base alle valutazioni dell’Istituto, saranno formati professionalmente per divenire a loro volta tecnici allenatori. Infine, si auspica di agganciare l’interesse di più detenuti, grazie alla passione condivisa verso il calcio, in questo programma. A tal fine, grazie sia ai giocatori titolari che non, con il supporto degli operatori penitenziari, verrà promosso uno sportello socio-legale di informazione e accompagnamento al rilascio. Ddl Sicurezza: detenute madri, resta la stretta. Sì al carcere per i blocchi stradali di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2024 Approvata la norma che punisce con la reclusione “chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata”. Dal “terrorismo di parola” ai blocchi stradali, fino all’”occupazione arbitraria di un immobile destinato a domicilio altrui”, la Camera ha approvato ieri molti dei nuovi reati introdotti dal disegno di legge Sicurezza, approvato dal Consiglio dei ministri a novembre dello scorso anno e approdato in Aula dopo un lungo iter nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia e aspre divisioni, anche nella maggioranza. Per chi blocca le strade con il corpo un mese di reclusione - Il sì dei deputati è arrivato fino all’articolo 14 del testo, tra i più contestati dei 38 totali: modificando il Dlgs 66/1948, sostituisce con la reclusione fino a un mese e una multa fino a 300 euro la sanzione amministrativa da 1.000 a 4mila euro prevista finora per “chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata (anche questa una novità, ndr), ostruendo la stessa con il proprio corpo”. Se il fatto è commesso da più persone riunite la pena è aumentata da sei mesi a due anni”. Scontati gli attacchi delle opposizioni. “Questo governo vuole tappare la bocca a chi protesta in modo pacifico, come fa Putin a Mosca”, ha sottolineato la dem Laura Boldrini. “Alle lavoratrici e ai lavoratori che scendono in piazza per difendere il loro lavoro, agli attivisti che protestano per la crisi climatica e non sono ascoltati, voi rispondete mandandoli in carcere. Una pena che, paradossalmente, non viene applicata se il blocco si fa con un cassonetto, con un’auto, con un trattore”. “Stiamo sfociando nella criminalizzazione indiscriminata dell’attivismo e delle legittime forme di protesta, ed è molto, molto grave”, ha commentato Sergio Costa (M5S), vicepresidente della Camera. Disco verde di Montecitorio anche alla nuova contravvenzione volta a prevenire il terrorismo e altri reati gravi diretta a chi viola gli obblighi di segnalazione dei contratti di noleggio dei veicoli, estesi ai dati identificativi della macchina (numero di targa e di telaio, intervenuti mutamenti della proprietà) e ai contratti di subnoleggio: si prevede l’arresto fino a tre mesi o l’ammenda fino a 206 euro. Sono passate anche le modifiche alla normativa antimafia, tra cui la novità - introdotta in commissione - che il prefetto, qualora ritenga sussistenti i presupposti per l’adozione dell’informazione interdittiva, “può escludere uno o più divieti e decadenze” nel caso in cui accerti che per effetto dell’interdittiva “verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento al titolare dell’impresa individuale e alla sua famiglia”. Cittadinanza, si allenta la revoca per i condannati - Via libera, inoltre, all’articolo 9 che modifica l’articolo 10-bis della legge 91/1992 in materia di revoca della cittadinanza prevedendo che, in caso di condanna definitiva per i reati di terrorismo ed eversione e altri gravi reati, “non si può procedere alla revoca ove l’interessato non possieda un’altra cittadinanza ovvero non ne possa acquisire altra” ed estendendo da tre a dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna il termine per poter adottare il provvedimento di revoca. Sono stati boccati tutti gli emendamenti presentati dalle opposizioni sulla possibilità di dare la cittadinanza ai bambini e ai ragazzi che hanno frequentato un ciclo scolastico di cinque anni, il cosiddetto “ius scholae”. Paolo Emilio Russo di Forza Italia, che con il vicepremier Antonio Tajani durante l’estate ha aperto il fronte a favore nella maggioranza, ha annunciato che sarà presentato un testo ad hoc “per riformare le norme che regolano la concessione della cittadinanza”. Fino a sette anni di carcere per chi occupa abusivamente le case - Molto dibattuto l’articolo, ma comunque approvato, l’articolo 10 sul nuovo reato (634 bis) che punisce con il carcere da due a sette anni “chiunque, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze, ovvero impedisce il rientro nel medesimo immobile del proprietario o di colui che lo detiene legittimamente, è punito con la reclusione da due a sette anni. Alla stessa pena soggiace chiunque si appropria di un immobile altrui o di sue pertinenze con artifizi o raggiri ovvero cede ad altri l’immobile occupato”. Si procede d’ufficio “se il fatto è commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità”. La norma dà anche la facoltà alle forze di polizia di liberare gli immobili in tempi rapidi. Sì all’aggravante per i reati compiuti nelle stazioni o sui treni - In materia di sicurezza urbana, oltre al Daspo per i semplici denunciati o condannati non in via definitiva per reati contro la persona o il patrimonio commessi nelle aree e nelle pertinenze dei trasporti pubblici, tra le aggravanti è stata approvata quella relativa all’”avere commesso il fatto all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri”. Decise anche su questo punto le proteste delle opposizioni, secondo cui si tratta di una norma “ideologica e priva di coerenza”, suscettibile di provocare disparità di trattamento. Detenute madri, resta il giro di vite - È passato, infine, l’articolo 15 che elimina l’obbligo di rinviare l’esecuzione della pena per le detenute incinte o le madri fino ai tre anni di vita dei figli. Forza Italia ha ritirato il suo emendamento che ripristinava l’obbligo per le mamme con bimbi fino a dodici mesi, ma ha dovuto cedere alle pressioni degli alleati Fdi e Lega. È stato dunque approvato soltanto un emendamento secondo cui “entro il 31 ottobre di ciascun anno il governo presenta al Parlamento una relazione sulla attuazione delle misure cautelari nei confronti delle donne incinte e delle madri di prole di età inferiore a tre anni”. Per Fi, si tratta comunque di un segnale per accendere un faro sulla questione dei bambini dietro le sbarre. I prossimi passaggi: tutele rafforzate per gli agenti e cannabis light illegale - Le votazioni proseguiranno domani, ma soltanto la prossima settimana si arriverà al varo e alla trasmissione del provvedimento al Senato per la seconda lettura. Al vaglio dei deputati giungeranno altre norme controverse, come quelle che rafforzano le tutele per le forze dell’ordine, che potranno detenere armi private senza licenza, utilizzare bodycam sulle divise e ottenere un’anticipazione fino a 10mila euro a copertura delle spese legali, o quella che vieta importazione, cessione e vendita di infiorescenze, resine e oli della canapa, anche quella a basso contenuto di Thc, per usi diversi da quelli industriali consentiti e punisce le violazioni con le sanzioni previste dal Testo unico sugli stupefacenti. Sulla cannabis nuovo alt del Tar del Lazio - Proprio ieri il Tar del Lazio ha sospeso il decreto del ministero della Salute che equipara il cannabidiolo, un estratto della cannabis, alle sostanze stupefacenti, vietandone di fatto la vendita in negozi, erboristerie e tabaccai. Il tribunale dovrà esprimersi nel merito il 16 dicembre, ma nel frattempo i coltivatori della canapa esultano, sostenendo che “con la sospensione del decreto che inseriva il Cbd tra le sostanze stupefacenti le premesse su cui si fondava la proposta di divieto nel disegno di legge Sicurezza “crollano definitivamente”. A replicare è stato il Dipartimento Antidroga della presidenza del Consiglio, secondo cui il decreto Salute “non ha alcuna connessione” con la norma del Ddl, inserita dal governo per recepire la sentenza 30475/2019 della Cassazione che mantenendo la commercializzazione dei derivati da inflorescenze e resina, ossia marjuana e hashish, sottoposta alla disciplina del Dpr 309/1990, la esclude dalla legge 242/2016 che prevede la sola liceità della coltivazione della cannabis per altre finalità. Se ne riparlerà. Detenute madri, la ritirata di FI: vince il cinismo leghista, decisivo il no dei meloniani di Errico Novi e Valentina Stella Il Dubbio, 12 settembre 2024 Gli azzurri rinunciano all’emendamento che avrebbe evitato il carcere ai neonati. Si solo al “monitoraggio”. Slitta ancora il voto finale sul Ddl Sicurezza. È finita con un dietrofront. Che sa di mesta rassegnazione, e sul quale Roberto Giachetti, giustamente, maramaldeggia: “Forza Italia nel giro di poche ore è passata dallo Ius scholae allo ius carcere”. Battuta regolare, quindici zero, verrebbe da dire con una citazione vanziniana. Niente da fare per la proposta con cui gli azzurri hanno tenuto in sospeso il ddl Sicurezza (l’esame di Montecitorio proseguirà anche oggi) e hanno tentato di addolcire, almeno, la norma che cancella l’obbligo di differire la pena per le donne con figli fino a 3 anni d’età. Si rischiava un patatrac serissimo, nella maggioranza. Oltre alla netta contrarietà della Lega, in trincea sulla legge che ingloba di tutto, incluso il “reato di rivolta in carcere”, è emerso l’insuperabile niet di Fratelli d’Italia. Non c’è stato bisogno che intervenisse Giorgia Meloni: è bastato e avanzato il capogruppo Tommaso Foti, nettissimo nel dire ai forzisti che avevano una sola strada per far passare il loro emendamento, e cioè votarselo col centrosinistra. E dopo varie insistenze, né il presidente dei deputati azzurri Paolo Barelli né Antonio Tajani se la sono sentita di giocare d’azzardo. Già la giornata era stata appesantita, per i berlusconiani, dalla mossa di Carlo Calenda (della quale si riferisce con ampiezza in altro servizio del giornale, ndr), che ha messo ai voti l’emendamento, respinto dall’Aula, sullo Ius scholae, modellato perfettamente sull’ipotesi che Tajani e Barelli hanno congelato in vista di un accordo con gli alleati. Poi è arrivato il compromesso al ribasso, per Forza Italia, sulle detenute madri. In cambio del dietrofront sulla norma che ripristinava il differimento pena quanto meno per le donne con figli neonati (fino ai 12 mesi d’età), i berlusconiani hanno ottenuto che al famigerato articolo 15 del ddl Sicurezza si aggiungesse il seguente comma: “Entro il 31 ottobre di ciascun anno il governo presenta al Parlamento una relazione sulla attuazione delle misure cautelari nei confronti delle donne incinte e delle madri di prole di età inferiore a tre anni”. Testo inserito sotto forma di emendamento dei relatori. Il capogruppo di FI in commissione Affari costituzionali Paolo Emilio Russo, che ha seguito la partita nel Comitato dei Nove, guarda al bicchiere mezzo pieno: “La modifica va nella direzione di rafforzare la vigilanza e il controllo sul fenomeno delle madri detenute e, soprattutto, dei bambini che nascono e crescono in carcere”. Di fatto, la battaglia per scongiurare l’abominio dei piccoli dietro le sbarre è congelata e rinviata a successivi negoziati come l’intero dossier carcere. Non c’è da stupirsi, ma è anche la conferma che, sul tema della detenzione, la golden share del centrodestra resta saldamente nelle mani dei “securitari”, cioè di FdI e Lega, e non certo in quelle di Forza Italia, con il guardasigilli Carlo Nordio costretto a prendere atto di un rapporto di forza al momento immodificabile. L’esame del ddl Sicurezza era ripreso, ieri mattina, fra polemiche di carattere più procedurale, con le opposizioni che avevano contestato al governo di non aver espresso tutti i necessari pareri sugli emendamenti. Finché alle 15.30 si è riunito il Comitato dei Nove, nel quale è emerso che l’Esecutivo era in ritardo non per indolenza, ma per l’evidente impossibilità di indicare una posizione definitiva proprio sulle detenute madri, cioè sull’articolo 15. A proposito di procedure, va detto che la maggioranza, prima ancora di formalizzare il “compromesso” sulle detenute madri, aveva allontanato il rischio di una sfida al buio, con il no alla richiesta di voto segreto sugli emendamenti. Moltissimi i punti caldi della discussione. Tanti quanti sono i messaggi contenuti nel ddl Sicurezza, in parte modulati per dare risposte su questioni di facile impatto mediatico, ma difficilmente risolvibili con inasprimenti normativi. Si può citare la norma contenuta nell’articolo 10 che, secondo il deputato di FdI Mauro Malaguti, dovrebbe mettere fine al “calvario di tutte le persone anziane che, ricoverate per problemi di salute, al rientro si trovavano la casa occupata. Con il centrodestra finalmente vince la legalità”, secondo il parlamentare meloniano. Riccardo Magi di + Europa ha tentato inutilmente di scongiurare la stretta sulla cannabis light: “Il Tar del Lazio, confermando che il Cbd non ha nulla a che fare nemmeno lontanamente con le sostanze stupefacenti, smonta tutta la propaganda proibizionista del governo e incide profondamente anche su ciò che l’aula di Montecitorio discute in queste ore, ovvero sulla parte del ddl Sicurezza che di fatto cancella con un colpo di spugna l’intero settore della canapa industriale”. Magi ha avvertito che “governo e maggioranza, se non vogliono vedere questo provvedimento smontato dalle sentenze” dovrebbero “stralciare l’articolo 18”. Ma anche su questo il centrodestra ha tenuto la rotta del rigorismo a tutti i costi Ddl sicurezza, tensione sulle madri detenute. Forza Italia frena e si allinea alla maggioranza di Serena Riformato La Stampa, 12 settembre 2024 “L’estate dei diritti” di Forza Italia scolorisce alla prova dell’aula di Montecitorio. Sullo Ius scholae e le madri detenute, il partito di Antonio Tajani cede il passo alla linea imposta da Lega e FdI. Durante l’esame sul disegno di legge Sicurezza, i deputati azzurri votano contro tutti gli emendamenti delle opposizioni sulla cittadinanza. Compreso il testo di Azione per legare lo Ius scholae al compimento di un ciclo di studi di almeno dieci anni, come proposto dai forzisti. “Serve una riforma complessiva, ci stiamo lavorando”, promette il deputato di Forza Italia Paolo Emilio Russo. Ma non sarà l’unico dietrofront della giornata. Dopo ore di risposte evasive e trattative, Forza Italia rinuncia ad ammorbidire la norma sulle madri detenute. Il disegno di legge cancella il rinvio obbligatorio della pena per le donne incinte e con figli fino a un anno; un emendamento dei deputati azzurri Paolo Emilio Russo, Annarita Patriarca e Rita Dalla Chiesa chiedeva di ripristinarlo. Ma gli alleati hanno fatto muro, e hanno vinto. La proposta di modifica è stata ritirata e sostituita con un testo dei relatori: prevede che “entro il 31 ottobre di ciascun anno” il governo presenti “al parlamento una relazione” sulla condizione in carcere di donne incinte e madri con figli di meno di tre anni. “Ma quale relazione? Questa attività già esiste, la fa il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute”, nota il segretario di + Europa Riccardo Magi: “Dopo quello sullo Ius scholae, arriva il secondo bluff di giornata da parte di Forza Italia”. La critica delle opposizioni è corale. “Per tutta l’estate - attacca la responsabile Giustizia Pd Debora Serracchiani - Tajani ha detto che il partito si sarebbe impegnato per norme di civiltà come lo Ius scholae e l’abolizione del carcere per i bambini. Parole vuote: per Forza Italia la civiltà finisce sulla porta di Palazzo Chigi”. Davide Faraone, presidente dei deputati di Iv, punta il dito contro “l’ennesimo passo indietro” degli azzurri: “Ridicoli”. Avs parla di “voltafaccia” e “figuraccia” del partito di Antonio Tajani. L’esame del disegno di legge Sicurezza non è ancora concluso, ma gli articoli approvati finora infiammano il centrosinistra. In testa, la norma ribattezzata “anti-Gandhi”. Chi blocca un’infrastruttura - una strada o una ferrovia -rischia il carcere fino a un mese. Se è in gruppo, può andare incontro alla reclusione da sei mesi a due anni. È una fattispecie sartoriale per le proteste degli eco-attivisti. “Se un migliaio di studenti occupa una strada rischia di incorrere in un reato penale”, sottolinea il deputato Pd Gianni Cuperlo. “Il carcere per chi esprime il dissenso è liberticida e va contro la Costituzione”, commenta il vicepresidente M5S della Camera Sergio Costa, ex ministro dell’Ambiente. “L’articolo - aggiunge - è chiaramente mirato a vietare le manifestazioni dell’attivismo ambientale”. Il leader di Europa Verde Angelo Bonelli denuncia la “svolta illiberale” di un governo che “non è in grado di gestire il dissenso”. Passa con i voti della maggioranza anche l’aggravante per i reati compiuti nelle stazioni o sui treni e la stretta per chi occupa abusivamente gli immobili (il reato varrà fino a sette anni di carcere). Esulta il leader del Carroccio Matteo Salvini: “Grande vittoria per una battaglia storica della Lega, tolleranza zero!”. Quelle tre mosse contro i magistrati di Donatella Stasio La Stampa, 12 settembre 2024 “La campagna d’autunno dei giudici contro il governo è già cominciata” ci informa la propaganda di destra-centro. All’armi, all’armi, gridano dalle trincee e dal quartier generale di palazzo Chigi contro i giudici politicizzati che, in combutta con alcuni media, complotterebbero per sovvertire l’ordinamento democratico. A sentire Giorgia Meloni e il suo cerchio magico, il rischio di un golpe giudiziario incombe e la parola d’ordine è fermare e silenziare i presunti golpisti con ogni mezzo. Ma è proprio così? Michel Rocard, politico francese di insospettabile formazione democratica, diceva che “il governo dei giudici è un rischio permanente”, e tanto basterebbe a non sottovalutare alcun segnale, dalla ricerca del consenso (invece che della fiducia) alle ambizioni moralizzatrici, fino ai deliri di onnipotenza. Ma l’ex primo ministro ai tempi di Mitterrand aggiungeva anche che questo rischio “è infinitamente minore di quello di un governo senza giudici”, vale a dire senza istituzioni di garanzia “indipendenti” dal potere politico. Dunque, a maggior ragione, guai a sottovalutare i segnali: dalla delegittimazione battente all’imposizione di bavagli, dall’indebolimento dell’autogoverno ai tentativi di interferenza, dalla scarsità di risorse allo svuotamento degli strumenti di lavoro. E proprio questi segnali fanno pensare che, in Italia, il rischio di un “governo senza giudici” sia concreto. A parole, il governo difende l’indipendenza dei giudici ma, nei fatti, cerca di ridimensionarla perché non tollera “limiti” o “contrappesi” all’esercizio del potere politico. Ben vengano le istituzioni di garanzia (giudici, Corte costituzionale) purché, però, garantiscano il potere politico, più che i diritti delle minoranze. Un rovesciamento del paradigma costituzionale. “Stiamo facendo la storia”, sostiene Meloni, e c’è da crederle se, con la sua offensiva anti-giudici, riuscirà a riscrivere i rapporti tra politica e giustizia come neppure Berlusconi seppe fare e come hanno fatto governi di altri paesi. Senza scomodare Turchia, Russia, Iran, Egitto e così via, pensiamo a Polonia e Ungheria, ma anche all’America di Trump e allo Stato di Israele prima della guerra, con il tentativo di “catturare” le rispettive Corti supreme. Certo è che, al di là di derive autocratiche, l’offensiva di Meloni sta rendendo impossibile quella leale collaborazione che, pur nella reciproca indipendenza, deve animare i rapporti tra le istituzioni in una democrazia sana. Pensiamo all’ostruzionismo verso alcune sentenze della Consulta sul fine vita e sui diritti dei figli delle coppie gay. Ma sta anche ostacolando una seria riflessione su alcuni problemi dell’universo giudiziario come la burocratizzazione del giudice o il pieno recupero di un’etica della responsabilità in funzione di una maggiore consapevolezza del ruolo di garanzia a tutela di chi non ha potere. Finora, quest’offensiva anti-giudici si è sviluppata in tre mosse. La prima è il logoramento della fiducia dei cittadini nella giustizia indipendente. E qui, la propaganda gioca un ruolo cruciale. Ecco un piccolo campionario. C’è in giro troppa insicurezza? Le leggi severe ci sono ma non vengono applicate dai giudici. Le carceri sono sovraffollate? Sono i giudici, non il parlamento e il governo, a mandare in galera le persone e a tenercele anche se poi vengono assolte. La giustizia ha tempi biblici e non è giusta e affidabile? La colpa è dei giudici fannulloni, incapaci e anche un po’picchiatelli, tant’è che sono stati introdotti i test psicoattitudinali. I processi si chiudono con assoluzioni? È perché i giudici non sono in grado di trovare la verità, sbagliano e nemmeno pagano per i loro errori. I migranti entrano illegalmente nel nostro Paese? Dipende dai giudici che li lasciano liberi, disapplicando le leggi o interpretandole in modo creativo. Gli uffici giudiziari sono inefficienti? Colpa del Csm, di un “sistema” che gestisce le nomine con logiche correntizie, della scarsa severità disciplinare verso le toghe. C’è poi la comunicazione immaginifica, che evoca complotti antigovernativi dei giudici indipendenti. Ed è la seconda mossa. Anche qui, un piccolo campionario. In principio furono le ormai famose “fonti di palazzo Chigi” a scagliarsi, urbi et orbi, contro le iniziative giudiziarie sulla ministra Santanché e sul sottosegretario Delmastro, accusando le toghe di fare opposizione politica in vista del voto europeo. Poi arrivò - giusto a fine settembre dell’anno scorso - l’aggressione alla giudice di Catania Iolanda Apostolico, “rea” di aver disapplicato il decreto Cutro sul fermo dei richiedenti asilo per contrasto con il diritto europeo. La premier Meloni si incaricò, personalmente, di accusarla di voler sovvertire “il governo democraticamente eletto” e, solo dopo settimane di linciaggio politico e mediatico, il Viminale fece l’unica cosa consentita in una corretta dinamica istituzionale e processuale: presentare ricorso in Cassazione. Per inciso: quando le sezioni unite hanno poi investito della questione la Corte Ue, il governo ha fatto un passo indietro e il 12 luglio scorso ha rinunciato ai ricorsi, non prima di aver sostanzialmente modificato (con un decreto del 10 maggio 2024) proprio una delle disposizioni “galeotte”. A novembre 2023 il ministro della Difesa Guido Crosetto attacca “l’opposizione giudiziaria”, cioè le “toghe rosse”, che si comportano “da sempre come fazione antagonista” e che “hanno sempre affossato i governi di centrodestra”. Nei loro congressi, Area e Md hanno avuto l’ardire di interrogarsi e di discutere pubblicamente - visti i fatti di Catania - anche della “funzione contromaggioritaria” degli organi di garanzia, cioè di quella funzione naturale di “limite” al potere politico prevista dalla Costituzione ma considerata eversiva dal governo. Perciò, ecco che i due congressi diventano covi complottistici di una stagione di ostilità contro Meloni per condizionare il voto europeo. Ad agosto arriva un nuovo complotto, stavolta ai danni di Arianna Meloni, sorella di Giorgia, che secondo il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, sarebbe oggetto di attenzioni da parte di magistrati e giornalisti. Un complotto che definire presunto è persino eccessivo perché cammina sul nulla, se non su chiacchiere ritenute affidabili da chi le ha pubblicate ma rimaste anonime e perciò non riscontrabili. Eppure, la premier lo rilancia, alzando il tiro istituzionale contro i giudici eversivi. L’Anm si difende (anche perché i cittadini hanno il diritto di capire), ma nel mondo al contrario della destra “garantista” quella difesa diventa la “campagna dei giudici contro il governo”. Infine la terza mossa. Leggi e leggine che - sul presupposto di presunti abusi della magistratura - cancellano o ridimensionano reati contro i colletti bianchi (abuso d’ufficio e traffico di influenze) e indeboliscono gli strumenti di indagine (intercettazioni, custodia cautelare); nonché minacce di iniziative disciplinari e reprimende ministeriali contro decisioni sgradite al governo. Fino alla riforma simbolicamente più importante, la separazione delle carriere, che appare per ciò che realmente è nelle intenzioni del governo: la punizione contro i giudici che non sanno stare al loro posto. E quale sarebbe il posto giusto? Quello del giudice burocrate, bocca della legge, che garantisce le politiche del governo e ne incarna lo spirito, che non parla se non con le sentenze e che non dà fastidio al manovratore di turno. Ecco servito il “governo senza giudici”. Uomini violenti, raddoppiata la rete dei luoghi di cura di Chiara Daina Corriere della Sera, 12 settembre 2024 Mentre aumentano i casi di violenza sulle donne in Italia, ci sono 94 centri dove sono già stati seguiti oltre 4mila uomini maltrattanti. Dal 2019, il Codice Rosso prescrive per chi ottiene la sospensione della pena l’obbligo di seguire un percorso di recupero. Ma serve un numero verde e gli esperti sollecitano procedure uniformi. La violenza degli uomini sulle donne va affrontata anzitutto mettendo in sicurezza le vittime. Ma è anche importante offrire percorsi preventivi e riabilitativi ai tanti che arrivano ad alzare le mani contro la partner, che la offendono, la svalutano ed esercitano forme di controllo su di lei. Per contrastare questa emergenza sociale - sono 12,5 milioni le donne adulte che hanno riferito di aver subito molestie fisiche e verbali almeno una volta nella vita - servono dunque specifici centri riabilitativi distribuiti su tutto il territorio per chi commette abusi e maltrattamenti contro il genere femminile. In quali Regioni sono i Centri - A che punto siamo? Nell’ultima indagine nazionale del Cnr, riferita al 2022, sono stati mappati 94 centri per uomini autori di violenze, quasi il doppio di quelli rilevati nel 2017 (54), con un numero di utenti che è passato da 1214 a 4174, e un totale di 141 punti di accesso rispetto ai 69 di cinque anni prima. La concentrazione più alta di sedi si trova in Emilia Romagna (14), Piemonte (14), Lombardia (9) e Veneto (8). Il Sud resta più penalizzato. “Bisognerebbe raddoppiare l’offerta di centri - sostiene Alessandra Pauncz, psicologa e fondatrice del primo centro in Italia per uomini maltrattanti, il Cam di Firenze, oltre che presidente della Rete nazionale dei centri (Relive) e direttrice del network europeo (Wwp-En) - soprattutto dopo che il Codice rosso nel 2019 ha introdotto l’obbligo per chi ottiene la sospensione della pena di partecipare a percorsi di recupero, facendo lievitare gli accessi. Ma i finanziamenti - sottolinea - sono insufficienti: alcuni centri sono praticamente fermi per l’impossibilità di assumere personale qualificato e in circa una sede su dieci gli interventi sono affidati esclusivamente a volontari”. Il ruolo del volontariato - Ben il 45% delle strutture inoltre ricorre al volontariato in supporto agli operatori retribuiti. E Pauncz aggiunge che ci sono altri due nodi: “Uno è la mancanza di un numero verde nazionale per le richieste di aiuto degli uomini che hanno commesso o hanno paura di commettere violenza; l’altro è l’assenza di procedure chiare e uniformi con cui gli Uffici di esecuzione penale esterna, che hanno in carico i casi con pena sospesa, attivano i trattamenti riabilitativi all’interno dei centri”. Il percorso prevede colloqui psicologici individuali e di gruppo almeno bisettimanali, durante i quali, spiega l’esperta, “si insegna agli uomini a riconoscere e a non usare più la violenza fisica, a eliminare o quantomeno ridurre le offese verbali e le forme di controllo sulla partner e a gestire i conflitti e la frustrazione con strumenti non aggressivi”. Da dove arrivano - La maggioranza degli utenti viene inviata dall’avvocato (30%), dai servizi sociali (20%) e dall’autorità giudiziaria (20%) mentre l’incidenza di accessi spontanei è diminuita (dal 40 al 10%). “Va fatta informazione nella comunità sulla possibilità di ricevere aiuto e formazione degli operatori sociali e sanitari, che spesso non sanno come individuare e approcciare gli uomini con problemi di violenza”, incalza Pauncz. La violenza nei maschi ha radici familiari, individuali, sociali e culturali. “Gli stereotipi di genere nuocciono anche agli uomini, nel senso che - chiarisce - il sesso maschile è caricato dalla società di una serie di aspettative e, per esempio, il non guadagnare abbastanza può diventare una fonte di stress enorme. Questo non significa giustificare i gesti violenti ma capire che per affrontare la violenza gli uomini devono partire dai disagi e dalla sofferenza che vivono e in cui possono rispecchiarsi”. In gravidanza - Prioritario e fondamentale investire sulla prevenzione. “Nelle scuole e in tutte le fasi critiche della vita, come l’arrivo di un figlio. Durante i corsi preparto gli uomini, al posto di aggiustare i cuscini alla compagna, andrebbero coinvolti in incontri per riflettere sui desideri e le paure che hanno. La gravidanza e la nascita di un nuovo figlio, per il sovraccarico di responsabilità che genera, sono un fattore di rischio per la violenza”, evidenzia la psicologa. Più della metà degli uomini in carico ai centri nel 2022 aveva un lavoro stabile. “La violenza è trasversale a tutte le classi sociali. Cambiare è possibile se si riesce ad ammette il problema e a riconoscere la responsabilità delle proprie azioni. Chi non chiede aiuto - ricorda Monica Dotti, coordinatrice del Centro per uomini maltrattanti dell’Ausl di Modena - rischia di più di reiterare gli abusi fisici e psicologici. A tutte le donne in gravidanza somministriamo uno screening per violenze domestiche per intercettare le vittime. Un anno fa abbiamo organizzato un corso di accompagnamento alla condivisione della genitorialità rivolto ai futuri padri che vogliamo riproporre”. Proprio perché è un problema che riguarda la salute pubblica la Regione Emilia-Romagna ha istituito in ogni azienda sanitaria un centro per uomini autori di violenza. Violenza sessuale, no all’ascolto anticipato della vittima che non è vulnerabile di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2024 Non è abnorme il diniego del Gip alla richiesta del Pm di incidente probatorio quando la parte offesa maggiorenne non mostra rischi di vittimizzazione secondaria all’acquisizione dibattimentale della prova. È legittimo il no del Gip alla richiesta del pubblico ministero di incidente probatorio in ordine all’ascolto anticipato della vittima di violenza sessuale per la quale l’ordinanza di diniego escluda lo stato di vulnerabilità. Non scatta alcuna abnormità - come lamentava il ricorso della Procura - per il provvedimento che di fatto decide di non anticipare la raccolta della prova, lasciandola riservata alla naturale sede dibattimentale. Infatti, come spiega la Cassazione, una siffata decisione non determina alcuna stasi strutturale del processo. Ma soprattutto i giudici di legittimità chiariscono che il Gip investito della richiesta di incidente probatorio detiene una piena discrezionalità sull’applicazione o meno della norma che consente di assumere la testimonianza anticipata della parte offesa al fine di evitare fenomeni di vittimizzazione secondaria. Ancor di più se, come nel caso deciso, il Gip ha negato l’incidente probatorio relativamente a una vittima maggiorenne e di cui, con adeguata motivazione, ha escluso la sussistenza di uno stato di vulnerabilità della stessa. La Suprema Corte - con la sentenza 34234/2024 - ha chiarito la portata della norma del comma 1 bis dell’articolo 392 del Codice di procedura penale che prevede appunto il particolare caso di assunzione della prova in sede predibattimentale: non sussiste alcun obbligo del giudice di accogliere la richiesta di incidente probatorio della vittima di violenza sessuale minorenne o maggiorenne se ne viene esclusa la vulnerabilità. Infatti, essa non è presupposta né dal dato dell’aver subito violenza e nemmeno dal dato anagrafico dell’essere il soggetto un minorenne. È, quindi, un accertamento demandato al Gip cui è richiesto l’incidente probatorio quello di verificare la vulnerabilità della parte offesa che non costituisce presunzione assoluta. Estratti di cannabis, il Tar Lazio sospende il Dm Salute che li inseriva nella tabella stupefacenti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2024 I giudici amministrativi hanno così accolto il ricorso dell’Ici, Imprenditori Canapa Italia, fissando l’udienza di merito per il prossimo 16 dicembre. Il Tar del Lazio, ordinanza n. 4234 pubblicata oggi, ha sospeso il decreto del ministero della Salute che inseriva le composizioni orali contenenti cannabidiolo (Cbd) nella tabella delle sostanze stupefacenti. I giudici amministrativi hanno così accolto il ricorso dell’Ici, Imprenditori Canapa Italia, fissando un’udienza di merito il prossimo 16 dicembre. In particolare, con motivi aggiunti presentati il 28 agosto scorso, Ici aveva chiesto anche l’annullamento previa sospensione dell’efficacia del decreto del Ministero della Salute del 27 giugno 2024 (in GU n. 157 del 6.07.2024) avente ad oggetto “Aggiornamento delle tabelle contenenti l’indicazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope, di cui al Dpr 9 ottobre 1990, n. 309. Inserimento nella tabella dei medicinali, sezione B, delle composizioni per somministrazione ad uso orale di cannabidiolo ottenuto da estratti di cannabis”; e di tutti i suoi atti preparatori, presupposti, connessi e consequenziali. Il provvedimento, in sintesi, inseriva l’estratto della cannabis nella tabella degli stupefacenti, vietandone dunque la vendita nei negozi, nelle erboristerie e nei tabaccai, e rendendolo disponibile solo nelle farmacie con ricetta medica non ripetibile. Sospensione analoga era arrivata ad ottobre 2023. Il Collegio, considerato che il pregiudizio lamentato da parte ricorrente “appare caratterizzato da profili non meramente economici e patrimoniali, afferendo altresì alla riorganizzazione ed al riassetto di un intero settore, onde non incorrere in responsabilità, tra cui in particolare quella penale, degli operatori”, considerata la fissazione a breve dell’udienza di merito, ha ritenuto doversi dare “prevalenza alle esigenze di mantenimento della res adhuc integra fino alla pronuncia con piena cognizione, come la complessità della questione posta richiede”. “Il collegio dei Giudici - commenta l’Ici - ha riconosciuto la validità delle nostre argomentazioni, rilevando il grave pericolo economico e sociale che l’applicazione del decreto avrebbe comportato, e ha deciso di sospenderne l’efficacia in attesa del giudizio di merito”. “Questa decisione - continua la nota - rappresenta un’importante vittoria per il settore della canapa industriale, che rischiava di subire gravi danni economici. I giudici hanno ritenuto che l’applicazione del decreto avrebbe potuto arrecare conseguenze significative agli imprenditori e agli agricoltori del settore, già fortemente impegnati in investimenti legati alla canapa”. “Resto basita - commenta invece la viceministra del Lavoro e delle Politiche sociali, Maria Teresa Bellucci -; l’azione di Governo è tesa alla massima tutela della salute e della sicurezza delle persone oltre a contrastare la normalizzazione dell’uso di cannabis a cui abbiamo assistito in questi troppi anni, soprattutto a danno dei più giovani”. “Difenderemo sempre la coltivazione e produzione per uso industriale e tessile della cannabis, ma altrettanto convintamente ci continueremo a battere contro l’assunzione orale di prodotti contenenti cannabis, come quelli venduti nei cannabis-shop pericolosi per la salute individuale e pubblica, come sancito dal Consiglio superiore della Sanità”, conclude la viceministra. Milano. Chiudere il Beccaria di Mirko Mazzali* milanoinmovimento.com, 12 settembre 2024 Una frase diventata famosa dice “non ci hanno visti arrivare”, parafrasandola si può dire che il governo non ha visto arrivare i suicidi nelle carceri, non ha visto arrivare le inchieste giudiziarie su quello che avviene nelle prigioni, non ha visto arrivare la situazione degli istituti penali minorili. Non hanno visto arrivare nulla perché di carceri non si sono mai occupati… per fortuna viene da dire! Non si sono quindi accorti che i provvedimenti legislativi che hanno via via approvato avevano come risultato di aumentare a dismisura le persone ristrette e il sovraffollamento, vedasi il decreto Caivano. Se poi pensi di “intimorire” i detenuti prevedendo un aumento di pena per i reati commessi all’interno degli istituti penitenziari e intervieni non con un indulto o una amnistia, ma depenalizzando l’abuso di ufficio, dimostri di non capire il problema, ammesso e non concesso che il fatto non sia intenzionale… La riforma Cartabia con le sanzioni sostitutive aveva fatto un piccolo passo nella direzione di uscire dal meccanismo perverso della detenzione di massa, prevedendo lavori socialmente utili, detenzione domiciliare e altre forme alternative al carcere. Era la ricetta giusta per andare in direzione del “diritto penale minimo” e di immaginare che in carcere ci devono essere e andare solo le persone pericolose, non quelle che “non si sa dove mettere”. Spendere soldi per costruire un Cpr in Albania, invece che investire nella prevenzione e nel recupero dei soggetti, è quanto di più sbagliato si possa fare. L’istituto della messa alla prova, che ha avuto un effetto benefico sul funzionamento della giustizia penale, zoppica perché l’Uepe che se ne occupa è fortemente sottodimensionato. La ricetta non è quella di costruire nuove carceri o di dare, qualsiasi cosa avviene all’interno delle prigioni, la colpa al sovraffollamento, ma di investire affinché le persone commettano meno reati, curando colore che hanno problemi psicologici, aiutando i giovani in difficolta, integrando le persone straniere che arrivano da noi dopo percorsi di sofferenza e dolore. Un giovane in un carcere è una sconfitta per la società, gli istituti di pena per minori vanno chiusi, ripensando nuove strutture dove il tentativo di educare e di integrare prevalga su quello punitivo. Se no a forza di non vedere e di sbagliare continueranno ad aumentare i morti e le situazioni di tensione. Se lo stato di una nazione si misura dallo stato delle carceri non siamo messi molto bene. *Consigliere comunale a Milano e avvocato Perugia. L’arcivescovo Maffeis: “Subito le Rems per i detenuti con problemi psichiatrici” perugiatomorrow.it, 12 settembre 2024 Lo scrive nella lettera intitolata “Sentieri di speranza”, verrà pubblicata oggi, giovedì 12 settembre, in occasione della festa della Madonna delle Grazie e dell’inizio del nuovo anno pastorale. Nella nuova lettera pastorale, l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, Ivan Maffeis, evidenzia la necessità di una struttura in Umbria per il disagio psichico dei detenuti e l’importanza di investire sulla famiglia. Maffeis apre la sua riflessione ascoltando i giovani, sottolineando il loro bisogno di punti di riferimento. L’arcivescovo si interroga su come trasmettere efficacemente la “perenne novità del Vangelo” a una generazione in cerca di risposte. Nella seconda parte della lettera, vengono illustrati gli ambiti in cui seminare speranza, come famiglia, giovani, anziani, ammalati, poveri, migranti e detenuti. Tra i temi centrali, l’arcivescovo richiama l’urgenza di individuare in Umbria una struttura dedicata al trattamento del disagio psichico dei detenuti. Scrive Maffeis: “In cella, questo disagio è destinato soltanto ad aumentare, rivelandosi devastante anche per gli altri detenuti e per gli agenti di polizia penitenziaria”. L’arcivescovo sottolinea come la comunità cristiana sia pronta a contribuire alla costruzione di una rete sociale che possa dare vita a “proposte concrete” per affrontare questo problema. Un altro punto focale della lettera è il ruolo centrale della famiglia. Maffeis critica una cultura che tende a relegare la famiglia nella sfera del privato, considerandola una questione legata esclusivamente alle scelte individuali. “Ai nostri amministratori chiediamo di proseguire l’impegno per riconoscerle piena cittadinanza”, scrive, facendo appello per servizi di qualità, politiche fiscali che non penalizzino le famiglie con figli e misure che agevolino la conciliazione tra vita lavorativa e familiare. “Investire sulla famiglia significa sostenere secondo giustizia le coppie con figli, i giovani alle prese col mutuo della prima casa, i portatori di handicap e gli anziani”, ribadisce Maffeis. L’arcivescovo invita inoltre a superare le posizioni ideologiche e promuovere un’alleanza sociale tra visioni laiche e cristiane, che convergano per il bene comune. La lettera si distingue anche per un tono di confidenza e riconoscenza, in particolare verso coloro che affrontano quotidianamente la fragilità umana. Maffeis esprime “gratitudine agli operatori sanitari che si fanno carico delle fragilità fisiche e psichiche”, sottolineando l’importanza di riconoscere il loro valore professionale e umano all’interno della comunità. In conclusione, l’arcivescovo invita la comunità diocesana a “prepararsi a vivere l’anno pastorale”, caratterizzato dal Giubileo che sarà inaugurato a Natale da papa Francesco. Tra le iniziative annunciate da Maffeis, vi sono incontri tra diaconi e parroci, nonché l’Assemblea diocesana prevista per il 23 novembre, con l’obiettivo di costruire una Chiesa fraterna, dove carismi e ministeri possano trovare il loro posto. Roma. Giubileo, ai detenuti la pulizia delle strade di Gianluca Carini Il Messaggero, 12 settembre 2024 Consentire ai detenuti di prendere parte progetti di volontariato durante il Giubileo per favorirne il reinserimento sociale. È questo l’obiettivo del protocollo firmato ieri in occasione della cabina di regia sul Giubileo di Palazzo Chigi tra il sindaco Roberto Gualtieri (nelle vesti di commissario per il Giubileo) il ministero della Giustizia e la Santa Sede. Le persone coinvolte si occuperanno di pulire e tenere in ordine per esempio ville e parchi della Capitale. Altri invece saranno inseriti nel circuito dei musei e delle biblioteche oppure aiuteranno ad assistere i pellegrini in arrivo insieme alla protezione civile. L’accordo, spiegano fonti del governo, “manifesta la comune intenzione, per il Giubileo della Speranza, di dare seguito alle esperienze del Giubileo Straordinario del 2015 e alla sensibilità dimostrata dal Santo Padre, al punto da prevedere l’apertura di una Porta Santa in un carcere”. Mentre per quanto riguarda l’accoglienza dei fragili (soprattutto persone senza fissa dimora), è stata individuata in piazza di Porta San Lorenzo un’alternativa alla realizzazione della tensostruttura prevista nell’area della Stazione Termini: per realizzarla sarà creato di un punto di accoglienza con moduli prefabbricati. Uscendo dalla cabina di regia, Gualtieri ha dichiarato che “per quanto riguarda gli interventi essenziali e indifferibili del primo Dpcm (pubblicato nel 2022, mentre l’ultimo è di giugno, ndr) siamo ormai al 98% dell’investimento tra quelli in corso e terminati, siamo al 99,9% se consideriamo quelli che partono a breve”. Mentre “a parte poche situazioni che conosciamo come il lungotevere Castello, si contano sulle dita di una mano i problemi registrati. Il resto ormai è tutto avviato e procede secondo i crono-programmi”. In particolare, alla data di ieri risultavano quattro interventi giubilari conclusi, 137 invece in corso (corrispondenti a loro volta a circa 155 cantieri). Mentre 27 nuovi lavori partiranno o sono già cominciati a settembre: tra questi il restauro delle edicole votive del centro storico (investimento da un milione) e i cantieri su alcuni ospedali capitolini. Così come la realizzazione di una caserma per i Carabinieri a Fonte Nuova (per 4,2 milioni) e il rifacimento della stazione Roma Tuscolana (3,5 milioni). E ancora, 32 interventi sono nella fase di gara, mentre 102 (69 dei quali giudicati essenziali) sono in corso di progettazione (tre di questi hanno visto la gara aggiudicata). Con la pedonalizzazione di piazza Pia la capacità di accoglienza nella zona di Piazza San Pietro “sale a 150 mila persone e quindi di sta andando verso uno spostamento” nel calendario giubilare “di alcuni grandi eventi proprio a San Pietro”, ha dichiarato ieri Gualtieri. Il sindaco poi ha ricordato che “la Rai ha presentato un piano molto significativo e positivo” per la copertura degli eventi. Proprio a piazza Pia, lo stato di avanzamento dell’attività è al 76% si prevede di concludere i lavori entro l’apertura della Porta Santa del 24 dicembre, che darà il via al Giubileo. Siracusa. Nuove attrezzature per gli ambulatori delle carceri di Luigi Solarino Quotidiano di Sicilia, 12 settembre 2024 Più medici specialisti e apparecchiature per gli Istituti penitenziari del Siracusano. Il programma vede una spesa complessiva di oltre 120 mila euro e l’incremento delle ore per l’assistenza. Entro il prossimo mese di ottobre gli Istituti penitenziari della provincia di Siracusa avranno più medici specialisti incaricati per le branche maggiormente richieste e gli ambulatori saranno dotati di nuovi arredi, attrezzature e presìdi sanitari. Infatti il direttore generale dell’Asp di Siracusa, Alessandro Caltagirone, ha disposto, attraverso gli Uffici competenti, l’effettuazione di una attenta ricognizione di tutti gli ambulatori sanitari degli Istituti penitenziari della provincia di Siracusa per verificarne le condizioni dei locali, il personale sanitario, servizi e apparecchiature in dotazione e ha dato mandato al Provveditorato di predisporre un programma di acquisti, secondo le esigenze riscontrate, le cui gare sono già alla fase dell’aggiudicazione. Potenziamento dell’offerta sanitaria specialistica in tutti gli Istituti penitenziari - “Con il direttore dell’Unità operativa Cure primarie Lorenzo Spina - ha affermato il direttore generale Alessandro Caltagirone - ho definito, per una più adeguata e soddisfacente assistenza specialistica della popolazione carceraria, la pubblicazione nel terzo trimestre di ulteriori ore, a integrazione di quanto effettuato nei mesi scorsi, finalizzate al potenziamento dell’offerta sanitaria specialistica in tutti gli Istituti penitenziari, che tenga conto delle branche più richieste e maggiormente carenti”. Il programma degli acquisti è stato predisposto per una spesa complessiva di oltre 120 mila euro, per dotare gli Istituti penitenziari di nuove apparecchiature per l’Oftalmologia, per la Dermatologia e per l’Odontoiatria, che si aggiungeranno alla poltrona odontoiatrica già installata e collaudata nei giorni scorsi nel Carcere di Cavadonna, apparecchiature generiche di primo intervento, ausili medici generici, materiale generico e arredi per un completo restyling degli ambulatori. Incremento delle ore di specialistica - Per quanto riguarda le ore di specialistica ambulatoriale, per una migliore e più adeguata assistenza sanitaria ai detenuti, dopo il conferimento degli incarichi avvenuto lo scorso mese di marzo a 13 medici che avevano risposto al bando per l’assistenza sanitaria dedicata e alle ore di specialistica assegnate nel secondo trimestre di quest’anno, il direttore generale ha disposto la programmazione dell’incremento delle ore di specialistica attraverso la creazione di un pacchetto complessivo assistenziale che tenesse conto di tutti gli Istituti penitenziari di Siracusa, Augusta e Noto e non delle singole strutture, composto da 10 ore di Malattie infettive, 4 di Dermatologia, 6 ore di Cardiologia, 7 di Odontoiatria, 6 di Urologia, 6 di Oculistica, 6 di Diabetologia. Si è così disposto il passaggio dalle attuali 17 ore complessive, ridotte rispetto al passato a causa di diverse rinunce da parte di medici incaricati, a 45 ore di assistenza specialistica, con l’introduzione della branca di Dermatologia. “Con questo nuovo metodo dell’assegnazione degli incarichi senza distinzione di destinazione - ha affermato il direttore generale - anziché affidare ore di specialistica specificatamente per ogni struttura, ho voluto prevedere per la medicina penitenziaria un pacchetto di assegnazioni complessivo, per consentire ai medici specialisti incaricati di potere svolgere la propria attività di assistenza ambulatoriale indifferentemente in tutti gli Istituti penitenziari della provincia, laddove si presenti maggiormente l’esigenza”. Napoli. Le ceramiche d’arte per il riscatto dei ragazzi di Nisida di Paola Cacace Corriere del Mezzogiorno, 12 settembre 2024 Prende avvio nell’Istituto penale minorile il progetto “Broken Heart”. Con lo sguardo a un futuro lavorativo. Ripartire da un cuore spezzato e dalla creatività. È stato presentato il progetto “Broken Heart” con cui John Richmond, brand di spicco del Gruppo Arav, vuole promuovere la solidarietà e la riabilitazione sociale tra i giovani detenuti presso l’Istituto penitenziario minorile di Nisida, a Napoli. Il progetto vede la collaborazione tra il noto brand di moda e due realtà che operano già all’interno dell’istituto: la Fondazione onlus “Il meglio di te” che con il progetto Nisidarte gestisce e finanzia il laboratorio di metalli con corsi formativi e l’esperienza di un’attività produttiva che possa arricchire le conoscenze dei giovani detenuti; e la cooperativa sociale “Nesis” che gestisce e finanzia le attività del laboratorio di ceramica facendo realizzare dai ragazzi i manufatti firmati ‘Nciarmato” a Nisida. Progetti che sono finalizzati sia alle condizioni economiche e, possibilmente, a coltivare il talento dei giovani detenuti che imparano metodi che potrebbero essergli utili in un possibile futuro lavorativo nel campo dell’artigianato. Laboratori che prendono la realizzazione in ceramica e metallo dell’immagine del cuore spezzato (broken heart, per l’appunto) come metafora di un intenso dolore emotivo, magari causato da una perdita, una delusione o un qualsiasi altro evento. Da una rottura di legami emotivi e dalla sensazione di vuoto. Eppure, allo stesso tempo quella riprodotta nei gioielli e nelle ceramiche prodotte dai ragazzi evoca l’immagine di ferita che può essere rimarginata, possibilmente proprio grazie alla formazione. Una formazione che si pone come possibile trampolino di un futuro migliore per questi ragazzi che spesso provengono da situazioni disagiate. Una creatività che potrebbe aprire loro le porte verso la riabilitazione e il reinserimento sociali. “Crediamo fermamente nell’importanza di offrire - spiega Mena Marano, ceo del gruppo Arav - opportunità di riscatto e reinserimento per coloro che hanno attraversato momenti difficili nella loro vita. Il nostro obiettivo è fornire ai giovani detenuti di Nisida una via per esprimere la propria creatività, sviluppare competenze e sentirsi valorizzati attraverso l’arte e la moda. Sono fermamente convinta che ogni individuo abbia il potenziale per trasformare la propria vita e contribuire positivamente alla società”. “Sono profondamente lusingata per la partecipazione di un’azienda così importante, quale John Richmond - commenta dice Fulvia Russo, presidente della Fondazione “Il meglio di te” Onlus e della Cooperativa Sociale “Nesis” - e mi auguro che questa collaborazione con le nostre realtà perduri nel tempo e possa essere un valido esempio per la nostra società”. Per Gianluca Guida, direttore dell’Ipm di Nisida sottolineando come i progetti promossi dalla Fondazione “Il meglio di te” e la Cooperativa Nesis, “in un Paese come l’Italia, famoso per i suoi prodotti di qualità, e dove la disoccupazione giovanile è altissima imparare a saper fare bene, non sembra una cattiva idea. Infine - conclude - riteniamo che con coraggio l’azienda Richmond investendo sui nostri ragazzi, testimonia la volontà di un Paese del fare, l’Italia, che sa bene che la sua più grande risorsa per il futuro è proprio scommettere sui giovani sottraendoli alla logica dell’appartenenza criminale per coinvolgerli nell’appartenenza a una società giusta e solidale”. Milano. Perché il carcere ci riguarda tutti. Il panel “Fine pena ora”, nell’ambito del Tempo delle Donne. di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 12 settembre 2024 Quello della detenzione non è solo un problema legato alla criminalità. Dietro le sbarre ci sono anche tanti innocenti anche se magari si scoprirà solo più tardi, visto che un terzo dei detenuti è in attesa di giudizio. A confronto Bignardi, Albinati e due specialisti della reclusione. Il carcere, a prima vista, è qualcosa che non ci riguarda. Che coinvolge solo i criminali, le persone che infrangono la legge. Eppure, se ci soffermiamo un attimo di più, capiamo che i problemi degli istituti penitenziari nel nostro Paese riguardano tutti. Perché in carcere ci sono anche innocenti, anche se magari si scoprirà solo più tardi, visto che un terzo dei detenuti è in attesa di giudizio. Perché tutti noi possiamo sbagliare: sentirsi dalla parte del bene è rassicurante ma non corrisponde sempre al vero. E perché il modo in cui queste persone saranno trattate in carcere influirà sulla recidiva, quindi sul tasso di ricaduta nel crimine, una volta usciti. Per questo quando si parla di sovraffollamento, di condizioni igieniche disastrose, di mancanza di lavoro e attività sociali, di suicidi, si parla anche di noi, che magari in un carcere non abbiamo mai messo piede. Per ragionare di questo, il 13 settembre alle 16, alla Triennale di Milano si terrà il panel “Fine pena ora”, nell’ambito del Tempo delle Donne: ci saranno alcune persone che hanno lavorato per una vita negli istituti, come magistrati e direttori ma anche chi ha scelto di dedicare anni al volontariato e all’insegnamento, proprio per favorire quel reinserimento sociale di cui parla la Costituzione e che spesso finisce per essere rimosso, sull’onda della perenne emergenza. Daria Bignardi è un volto noto, una giornalista che per anni ha frequentato il carcere di San Vittore come volontaria, senza sbandierarlo troppo. Ora ha scritto per Mondadori un libro - “Ogni prigione è un’isola” - che parla con leggerezza e profondità della sua esperienza personale. Bignardi ci racconterà quello che ha visto e vede da 3o anni: “Il carcere come una giungla amazzonica, come un Paese in guerra, un’isola remota, un luogo estremo dove la sopravvivenza è una priorità”. Sul palco ci sarà anche Luigi Pagano, che per molti anni ha diretto San Vittore e che ora dice: “È un carcere che andrebbe chiuso: non ci possono stare mille persone in quelle condizioni”. “Il direttore”, come ha chiamato il suo libro, è considerato da Bignardi “un gigante di autorevolezza e levatura morale”. È un uomo di legge, che però si è sempre preso a cuore la sorte dei detenuti. Non per una sorta di buonismo fuori luogo, ma perché è giusto e necessario trattare i detenuti come persone, non come numeri: “Siamo ancora all’occhio per occhio, ma ci dimentichiamo sempre che Dio non uccise Caino”. Ragioneremo anche di suicidi in carcere, quest’anno in numero impressionante. Ne parleremo con Bignardi e Pagano ma anche con una magistrata di sorveglianza, Roberta Cossia, e con un altro scrittore che per 30 anni ha insegnato nelle carceri e che nel 2018 ha tratto da quest’esperienza un diario formidabile, “Maggio selvaggio”: Edoardo Albinati. Nel suo ultimo libro, “Uscire dal mondo”, il primo racconto è ispirato proprio a un carcerato. Il carcere negli ultimi anni è diventato una discarica sociale. Non serve tanto per trattenere e punire criminali incalliti, ma come risposta al disagio sociale e psichico, alla tossicodipendenza, alla povertà, all’emarginazione. La creazione di strutture esterne, la riduzione del sovraffollamento, la fine della centralità delle prigioni, il potenziamento dei servizi sociali, delle misure alternative e delle attività di sostegno sono l’unica strada possibile perché le detenzioni non si trasformino in suicidi. Trento. Daria Bignardi racconta la vita nello specchio del carcere per l’Agosto Degasperiano ufficiostampa.provincia.tn.it, 12 settembre 2024 Sabato 14 settembre alle 18 si conclude la rassegna “Agosto Degasperiano - Amare il nostro tempo” con l’incontro “Ogni prigione è un’isola”. Nell’Anfiteatro del Parco delle Terme di Levico Terme, la giornalista e scrittrice Daria Bignardi dimostrerà che puntare lo sguardo all’affollata solitudine del carcere significa, in fondo, andare al cuore della nostra società. “Il carcere è una giungla amazzonica, come un paese in guerra, un’isola remota, un luogo estremo dove la sopravvivenza è la priorità e i sentimenti primari sono nitidi”. Nella vita delle persone, lo spazio ha un ruolo fondamentale nella costruzione della propria identità. La cameretta, la casa, le aule di scuola, gli uffici: ognuno con le proprie regole e libertà, è in questi luoghi che si formano i codici sociali e le convivenze tra diversità necessari a condurre una vita civile. Ci sono luoghi, invece, che vogliamo dimenticare, perché ci auguriamo di non averci mai a che fare o perché ci ricordano i lati più oscuri della nostra esistenza, che scongiuriamo in tutti i modi. Guardare alle carceri vuol dire fare i conti con i propri pregiudizi, con le differenti concezioni di libertà e di giustizia, con il male che abita in tutti noi, con la possibilità del perdono. In altre parole, è un viaggio dentro noi stessi e nel cuore della società, pieno di ferite. Nell’incontro Ogni prigione è un’isola di sabato 14 settembre alle 18, nell’Anfiteatro del Parco delle Terme di Levico Terme, la giornalista e scrittrice Daria Bignardi ci inviterà a superare i nostri pregiudizi e titubanze. Un’attenzione, quella per le carceri, nata trent’anni fa, dalle lettere scritte a Scotty, un detenuto americano condannato a morte in Texas, per poi ripresentarsi in varie forme nella sua biografia: dai suoi figli che andavano a trovare il nonno, il giornalista Adriano Sofri, in carcere, al volontariato a San Vittore, ai programmi tv dedicati a chi vive la prigione quotidianamente. Daria Bignardi vede lì dentro un’umanità sperduta, “illuminata a giorno”, dove le sensazioni, positive e negative, sono amplificate. Non un fatto di cronaca, ma un faro puntato per dare voce a chi soffre di brutta opinione, ai colpevoli, agli innocenti, alle donne carcerate che vivono in uno spazio costruito per gli uomini. A questo riguardo scrive: “così come il carcere è distillato e persino avamposto della vita per quanto riguarda sentimenti e cambiamenti sociali, allo stesso modo lo è per la condizione delle donne. Proprio come succede fuori, anche dentro stanno peggio degli uomini”. Il carcere come un’isola, lontana e incomprensibile, ma vicina se solo abbiamo il coraggio di raccontarlo e di considerarlo, nonostante tutto, parte di noi. Torino. A Palazzo Barolo conferenza sul tema “Il volontariato in carcere” vocetempo.it, 12 settembre 2024 Quarto appuntamento venerdì 20 settembre 15 marzo, alle 17 a Palazzo Barolo (via delle Orfane 7/a Torino) del ciclo di conferenze sulle tematiche carcerarie promosso dall’Opera Barolo, in collaborazione con il settimanale diocesano La Voce e Il Tempo, nell’ambito del 160° dalla morte della venerabile marchesa Giulia Falletti di Barolo. Tema dell’incontro “Il volontariato in carcere”. Dopo l’introduzione di Sonia Schellino, membro del Consiglio di Amministrazione dell’Opera Barolo, intervengono Wally Falchi, responsabile del Centro di Ascolto della Caritas Diocesana “Le Due Tuniche”; Adriano Moraglio, presidente dell’associazione “La Goccia di Lube”; Pier Giuseppe Rossi, direttore degli “Asili notturni Umberto I”; Michele Burzio, diacono al carcere “Lorusso e Cutugno” e presidente dell’associazione “Volontari di San Martino”; Silvia Orsi, presidente dell’associazione “Carlo Tancredi e Giulia di Barolo”; Luca Pidello, presidente della Commissione consiliare della città di Torino “Legalità e diritti delle persone private della libertà personale” e Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti della Città di Torino. Modera Mauro Gentile, giornalista e collaboratore de “La Voce e Il Tempo”. Novara. Teatro-carcere: detenuti sul palco con “Amleto principe dei palazzi” primanovara.it, 12 settembre 2024 Con “Le notti di Cabiria” venerdì 13 settembre a Novara lo spettacolo nella Casa circondariale e il 14 una speciale replica alla Rizzottaglia. La rassegna “Le Notti di Cabiria” ancora protagonista nella Casa Circondariale di Novara. Ma dopo l’esperienza dello scorso anno, con lo spettacolo di Mauro Pescio “Io ero il milanese”, questa volta cinque detenuti saliranno sul palco come interpreti: venerdì 13 settembre alle 17.30 appuntamento con “Amleto Principe dei Palazzi” (evento già sold out). Novara: detenuti sul palco con “Amleto” - La pièce firmata da Cabiria Teatro (il debutto nel 2023 all’interno del festival NU Arts and Community) verrà replicata sabato 14 settembre alle 21 alla Corte degli Speziali, nel complesso Tetti Verdi sempre a Novara (biglietto intero a 12 euro e ridotto a 10 su vivaticket.com). A Palazzo Natta la conferenza stampa di presentazione. “La loro partecipazione, - hanno detto Mariano Arenella ed Elena Ferrari, direttori artistici di Cabiria Teatro in occasione della presentazione - secondaria ma non marginale rispetto agli attori professionisti, acquisisce un’importanza fondamentale nello spettacolo che parla di povertà, emarginazione e possibilità di riscatto, rendendo questi termini pregni di significati concreti”. Il progetto è realizzato grazie alla collaborazione della nuova direttrice della Casa Circondariale Anna Maria Dello Preite, del personale di Polizia Penitenziaria e dei detenuti. “Una nuova esperienza per me, un’occasione reale e concreta per far conoscere alla comunità esterna il carcere, spesso rappresentato con toni esasperati e non fedeli alla realtà - così Dello Preite -. Sono convinta che l’attività teatrale possa avere ricadute sociali importanti tra gli ospiti, mettendo in luce la loro umanità e ricordandoci che ci troviamo di fronte a delle persone”. Presente Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti: “Occorre fare sintesi e sinergia tra le diverse esperienze di teatro in carcere: un elemento forte, innovativo e scatenante forze positive. In autunno a Torino al Consiglio Regionale proporrò una riunione tra i vari operatori con l’obiettivo di garantire stabilità a tutte queste esperienze”. Nathalie Pisano, garante del Comune di Novara: “Il teatro è uno dei modi per aprire la realtà carceraria alla città e al mondo esterno. La pratica teatrale permette ai detenuti di esprimere i loro sentimenti e di migliorare l’autostima”. Per Teresa Armienti, assessore alle Politiche sociali, “il teatro favorisce l’incontro tra comunità e realtà carceraria affinché non ci siano più pregiudizi e paura nei confronti di questo luogo”. Replica “interattiva” alla Rizzottaglia - Sabato 14 settembre alle 21 si replica nel quartiere della Rizzottaglia dove lo spettacolo è nato lo scorso anno in seguito a una serie di interviste fatte agli abitanti e realizzate con la collaborazione di Territorio e Cultura Odv, in particolare di Giacomo Balduzzi e Davide Servetti. È necessario portare con sé il proprio smartphone con cuffie perché l’interazione tra Amleto e il pubblico avverrà tramite un sito creato appositamente per la pièce e gli spettatori saranno “accompagnati” in giro per il quartiere pur rimanendo seduti comodamente in platea. Potranno guardare quello che succede nelle strade della città e anche dovranno decidere, commentare e votare ogni mossa di Amleto. Per questa replica, realizzata all’interno del progetto “(F)atti di Quartiere”, sempre in collaborazione con Territorio e Cultura Odv e sostenuta da Fondazione Cariplo, gli abitanti della Rizzottaglia saranno coinvolti direttamente in alcune scene. Al centro, le parole di Arenella, “il rapporto con il potere di chi sta ai margini, di chi è sempre stato escluso dalle decisioni dei piani alti, relegato in zone periferiche, di chi viene allontanato dalla comunità come qualcosa di vergognoso che non si deve vedere perché povero e che, molto probabilmente, crescerà e morirà povero, come i suoi genitori”. Padova. Festa di nozze con l’anteprima: gli invitati pranzano in carcere di Rebecca Luisetto Corriere del veneto, 12 settembre 2024 Ospiti al Due Palazzi. Gli sposini: “Niente regali, volevamo smuovere gli animi”. Non erano previsti sacchettini di confetti o bomboniere convenzionali al matrimonio di Chiara Bontorin e Jacopo Bonato, la coppia che il 24 agosto ha pronunciato il fatidico “sì” nella chiesetta Torre di San Giacomo di Romano d’Ezzelino, nel Vicentino. Per i loro invitati hanno pensato a un’esperienza che potesse avere un significato profondo, che venisse ricordata nel tempo. Gli sposi hanno così organizzato una visita all’interno del carcere Due Palazzi di Padova grazie all’aiuto di don Marco Pozza, parroco della casa di reclusione, e l’incontro con tre detenuti che stanno scontando pene particolarmente gravi (tra loro c’è anche chi è condannato all’ergastolo). E l’iniziativa è stata tenuta nascosta fino all’ultimo, l’unico indizio che gli amici e i parenti della coppia avevano ricevuto era stato un messaggio inviato loro dai promessi sposi qualche settimana prima del 7 giugno, giorno dell’incontro: “Portate la vostra carta d’identità, presentatevi a questo indirizzo e preparatevi per rimanere alcune ore senza telefono ed effetti personali”, c’era scritto. L’indirizzo era quello di via Due Palazzi e alcuni degli invitati hanno pensato che potesse essere un semplice punto di ritrovo o che in quell’occasione avrebbero collaborato con una delle associazioni che lavorano con i detenuti, ma nessuno di loro aveva lontanamente immaginato che sarebbero entrati all’interno del carcere. Nonostante la segretezza, gli invitati si sono presentati, quasi tutti. “Non ci aspettavamo che venissero in così tanti - ha detto Jacopo Bonato, lo sposo - e invece erano addirittura in 70. Tra loro c’era chi ha spostato le ferie pur di esserci e chi è tornato prima da un viaggio di lavoro. Per noi è stato spiazzante e bellissimo, un’emozione molto forte”. Ma come è nata un’idea come questa? “Lo scorso anno io e Chiara abbiamo partecipato ad alcuni inno contri con don Marco con cui si è creato un rapporto di amicizia - ha continuato lo sposo - e una volta che abbiamo deciso di sposarci lo abbiamo coinvolto. Abbiamo già creato la nostra famiglia, abbiamo due bambini, una casa di proprietà e non abbiamo problemi economici. Non volevamo che i nostri invitati ci lasciassero buste o regali e nemmeche facessero un’offerta sterile per un’onlus. Volevamo fare qualcosa per gli altri, lasciare un segno”. “Le reazioni sono state molto differenti tra loro - ha concluso Bontorin, che nella vita gestisce un’azienda nel Vicentino - ma sono usciti tutti trasfigurati, abbiamo smosso gli animi. Per noi è stato come regalare un momento di educazione civica, far conoscere una realtà di cui abbiamo coscienza solo attraverso i media che ne danno una visione distorta. Chi si trova dietro le sbarre non è un mostro, è una persona che ha commesso un reato o un delitto”. Tra gli invitati, c’era anche Simone Bontorin, amico dei coniugi e sindaco di Romano d’Ezzelino che ha sposato la coppia. “Un’esperienza molto significativa e profonda - ha spiegato -. Quando gli sposi ci hanno detto di trovarci a quell’indirizzo non pensavamo di fare un incontro del genere. Il mio primo pensiero è stato quello che saremmo andati a realizzare le bomboniere insieme nel laboratorio di pasticceria del carcere, ma non avrei mai pensato di trascorrere una giornata all’interno della casa circondariale”. Due dei detenuti incontrati sono poi riusciti ad essere presenti anche al matrimonio della coppia, dove per gli invitati c’è stata la possibilità di fare un’offerta libera per uno dei progetti del Due Palazzi selezionato da Chiara e Jacopo. Giovani, allarme salute mentale di Matteo Castagnoli Corriere della Sera, 12 settembre 2024 “Uno su tre ansioso, depresso o con difficoltà di relazioni, le ragazze le più colpite”. Lo studio dell’università Iulm e della fondazione “Villa Santa Maria”: l’indice del benessere under 25 per la prima volta sotto la soglia di guardia. Un terzo dei giovani milanesi si trova in uno stato di malessere psicologico. Ed è la prima volta che accade. Ansia, depressione, difficoltà socio-relazionali in crescita dopo la pandemia e il “rifugio” nei social, ora evidenti anche nei dati. Una discesa al di sotto della soglia di guardia - almeno secondo uno dei questionari più accreditati a livello mondiale per intercettare questo disagio, il Pgwbi (psycological general well-being index) - che allarma gli esperti e che richiama gli ultimi casi di cronaca (la strage familiare di Paderno Dugnano, pensando al Milanese). Così “lo scenario di fronte a cui ci troviamo - spiega Enzo Grossi, direttore scientifico del centro multiservizi di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza “Villa Santa Maria”, nel Comasco - è quello di giovani stressati, soprattutto se femmine. Incidono in negativo la vita in città e il non essere laureati”. Lo spaccato arriva da uno studio, realizzato dall’università Iulm e dalla fondazione “Villa Santa Maria”, per il volume “La città che cambia: vita quotidiana e attrattività turistica” pubblicato di recente. L’ultima analisi è riferita all’anno scorso e prende in esame 15 mila ragazzi tra i 19 e 25 anni tra lavoratori, studenti e pendolari. Il confronto dei dati raccolti, e analizzati secondo i parametri Pgwbi, a partire dal 2008 ha restituito un’immagine granitica nella sua crudeltà. Segnali evidenti di una sofferenza sempre più diffusa che a partire da quindici anni fa ha visto ridursi il benessere psicologico individuale, arrivando nel 2023 per la prima volta nell’area cosiddetta di malessere. Di questa progressiva diminuzione del proprio stato di salute “sono testimonianza i fenomeni che sempre più spesso si registrano nella vita quotidiana e vedono i giovani quale categoria più colpita, fino alle azioni di violenza tra pari e rivolte ad altri individui”, scrivono il professor Grossi e il docente Giorgio Tavano Blessi nel dossier. L’indice utilizzato per l’analisi attribuisce a ogni campione di intervistati un valore da 0 a 110, a seconda del punteggio indicato per ogni domanda. In questo caso, ai ragazzi n’erano state sottoposte sei, tra cui: “Nelle ultime quattro settimane, è stato infastidito da stati di tensione o perché aveva i nervi a fiori di pelle?”. Risposte da “Per nulla” a “Enormemente”. E ancora: “Quanta energia o vitalità ha avuto o ha sentito di avere?”. Incrociando i risultati con quelli del 2008 e del 2018, l’andamento è stato sempre in calo: dai 77,7, passando dai 75,7, s’è arrivati ai 68,5 dello scorso anno. Legenda: la soglia critica, lo stato di malessere, è fissato al di sotto dei 70 punti, mentre tra 70 e 90 si parla di “area di normalità”. A Milano, dagli anni Duemila, la media s’è mantenuta intorno a quota 78. Analizziamo alcune variabili considerate nello studio: gender gap, titolo di studio e luogo di residenza. Come anticipato, le femmine “registrano un benessere psicologico inferiore rispetto ai maschi”, specie in età adolescenziale. Occhio poi al titolo di studio. La salute dei laureati supera quella dei diplomati. Sempre secondo l’indice utilizzato, negli anni pre pandemia, ci si attestava sugli 80 punti contro i 70 degli altri gradi di istruzione. Ad incidere sul benessere dei giovani è anche la scelta di vivere in città o in campagna. Perché se la prima offre più servizi, redditi maggiori e welfare, è la frammentazione sociale a condizionare lo sviluppo individuale. Esito: stress e disagio mentale, acuiti (come raccontano i dati) sempre post Covid. Dai quasi 75 punti del 2018 per le città ai 64 del 2023, contro i 77 prima e i 65 dopo per le aree rurali. E allora, come intervenire per far risalire la curva dello stato? “Abbiamo visto che quante più occasioni di contatto con la bellezza, con le arti e con la cultura riusciamo a creare, tante più si attenuano certi disagi - conclude il professor Grossi -. La bellezza ha un effetto mitigante. Dovremmo incentivare per esempio la frequentazione di mostre e musei”. No allo “Ius scholae”, alla Camera Forza Italia boccia anche la sua stessa proposta di Daniela Preziosi Il Domani, 12 settembre 2024 A Montecitorio le opposizioni presentano emendamenti al ddl Sicurezza per allargare i diritti degli alunni e delle alunne figli di straniere. Ma gli azzurri votano no. Promettono una riforma ad hoc, ma le minoranze attaccano: le proposte estive di Tajani erano “un bluff”, “una farsa”. Alla Camera si vota per lo Ius Scholae e Forza Italia vota no. Vota no a tutti gli emendamenti proposti dalle opposizioni al ddl Sicurezza all’esame dell’aula. Finisce così, in un “grande bluff”, come lo definisce Riccardo Magi, relatore di minoranza alla legge, e cioè la campagna balneare del vicepresidente del consiglio Antonio Tajani, che ha passato l’estate a sostenere che il suo partito era favorevole all’ampiamento della possibilità di avere la cittadinanza italiana ai figli di stranieri che frequentano le scuole nel nostro paese. Sono più di un milione, in attesa di un diritto che oggi è un terno al lotto. La riforma è un giro di vite - A fine giornata Tajani prova a giustificarsi: “La riforma sulla cittadinanza non è un giochetto da risolvere con con astuzie parlamentari. Non ci prestiamo a giochi di basso livello. Noi siamo il centrodestra e presenteremo una nostra proposta sulla cittadinanza. Nessun passo indietro”. Il passo indietro invece c’è: non solo perché Forza Italia si è rimangiata le sue posizioni, ma perché la “proposta” in cottura è persino restrittiva rispetto alle attuali norme. Lo ha rivelato Maurizio Gasparri: servirà un ciclo di studi di dieci anni, la verifica del livello di conoscenza della lingua e dei principi fondamentali del diritto, quindi, ha ammesso con finto candore, “la nostra posizione è perfino più rigida della legge vigente. E il criterio delle origini “deve essere più selettivo”. Insomma da due mesi promettono un avanzamento e preparano una stretta. Dall’opposizione è un fuoco di fila. Parlano i rappresentanti di tutti i partiti. Tutti votano gli emendamenti di tutti. Tutti si rivolgono ai forzisti. Matteo Richetti, Azione: “La finiamo di rivendicare la presenza in maggioranza come puntello di principi liberali se poi al voto questo puntello viene sempre smentito?”. Marco Grimaldi, Avs: “Sono fratelli e sorelle d’Italia, sono i compagni e le compagne di banco dei nostri figli e ormai dei nipoti. Noi siamo per lo ius soli, ma ci saremo, voteremo sì a ogni proposta che renda un po’ più giuste le leggi che discriminano i nostri bambini”. Davide Faraone, Italia Viva: “Ci sarà un momento in cui dalla chiacchiere passerete ai fatti?” . Ma gli olimpici stranieri vanno bene - Mauro Berruto, Pd: “Siamo aperti a qualsiasi ragionamento, oggi in questo parlamento possiamo fare succedere qualcosa, ma deve succedere qui, non sulle agenzie, sui giornali o nei talk”. E qui va aperta una parentesi: Berruto è stato un grande pallavolista, poi per cinque anni CT della Nazionale italiana di pallavolo, medaglia di bronzo alle Olimpiadi del 2012 di Londra. “Un’immagine conta più di mille parole e l’immagine della prima vittoria della nostra Nazionale di pallavolo femminile alle Olimpiadi, accompagnata a tanti altri podi e gare olimpiche e paraolimpiche, è la rappresentazione di un’Italia migliore, aperta dove non ci sono differenze. Questa Italia è anche in ogni settore giovanile sportivo e nelle scuole dove ragazzi e ragazze hanno colore della pelle, religione, provenienza geografica differenti. Perché questi ragazzi che vivono e studiano in Italia non sono italiani?”. “Lo Ius scholae è una promessa di speranza, una risposta ai ragazzi al loro desiderio di appartenere, la possibilità di essere riconosciuti per quello che in realtà già sono: italiani nella mente, nel cuore e nella cultura”: spingete quel tasto, chiede ancora una volta ai colleghi di Forza Italia. La riforma immaginaria - Niente da fare. No anche alla richiesta di voto segreto avanzata dai rossoverdi. Dai berlusconiani arriva un solo intervento: quello di Paolo Emilio Russo, che si arrampica sugli specchi per annunciare il no del suo partito. È vero che “è stata proprio Forza Italia a promuovere quest’estate il dibattito sulla cittadinanza”, ma questi emendamenti non li possono votare perché “stiamo lavorando a un testo per riformare le norme sulla cittadinanza italiana”. Approvare un emendamento, sostiene, sarebbe troppo poco, serve “una riforma complessiva”, il tema “merita più considerazione di un emendamento inserito all’ultimo in un provvedimento che si occupa di altro, di sicurezza”. Forza Italia “metterà a disposizione un testo su cui trovare ampia convergenza”. Ma quando non lo dice. E neanche quale convergenza, visto che Fratelli d’Italia e Lega non ne vogliono sentire parlare. Forza Italia si vota no - Ma il capolavoro azzurro della giornata è il no alla propria proposta che Azione aveva raccolto dalle parole di Tajani e presentato al voto. Carlo Calenda promette che ci riproverà: stavolta non sarà un emendamento, sarà una proposta di legge identica. “Questo racconta la storia della politica. Forza Italia non può far finta un giorno di essere un partito liberale e un altro giorno di essere la ruota di scorta della Meloni. Votare contro la sua stessa proposta è una follia”, aggiunge. C’è il referendum - “Forza Italia ha detto che non è il momento di discutere di Ius scholae, una riforma minima ma che comunque sarebbe stato un passo avanti: allora dobbiamo dire chiaramente che il dibattito di questa estate è stato una farsa”, conclude Magi. Che è anche uno dei promotori della raccolta di firme su un referendum che riduce da dieci anni a cinque anni il periodo di tempo di legale soggiorno per avanzare la richiesta di cittadinanza. Su “Ius scholae” e “Ius culturae” un nulla di fatto annunciato di Danilo Paolini Avvenire, 12 settembre 2024 La Camera boccia tutti gli emendamenti delle opposizioni per la modifica della legge sulla cittadinanza. Così il Parlamento rinuncia al suo ruolo costituzionale. La riforma che non c’è. La Camera ha bocciato tutti gli emendamenti delle opposizioni sulla modifica della legge sulla cittadinanza, compreso quello di Azione che proponeva lo ius scholae, ovvero l’acquisizione della cittadinanza per i minori figli di immigrati dopo un ciclo scolastico di 10 anni. I no sono stati 169, 126 i sì e 3 gli astenuti. Anche Forza Italia ha votato contro. Gli azzurri hanno ribadito, con un intervento di Paolo Emilio Russo, che sono al lavoro su una proposta di legge in materia. “Si tratta - ha detto Russo - di un tema che merita più attenzione di un emendamento infilato all’ultimo un un provvedimento che parla di sicurezza”. Il voto è stato a scrutinio palese dopo il no alla richiesta delle opposizioni di voto segreto. Tra gli emendamenti dell’opposizione bocciati, quelli del Pd sullo ius soli temperato e sullo ius scholae a 5 anni e quello di +Europa che riproponeva il referendum sulla cittadinanza. Pd e Avs hanno votato anche tutti gli emendamenti degli altri gruppi in materia. In casi come il siluramento degli emendamenti su Ius scholae e Ius culturae, andato in scena ieri alla Camera, la parafrasi letteraria è scontata ma ci sta tutta. Anche più d’una, in questa occasione: è stata infatti la cronaca di un nulla di fatto annunciato, è stato molto rumore per nulla, ma è stata soprattutto la fine di un sogno di mezza estate. In particolare, del sogno di un Parlamento che finalmente si riappropriasse pienamente delle sue prerogative costituzionali di sede in cui si confrontano le diversità di vedute e, quando si può, si trova un punto d’incontro per il bene comune, che è sempre superiore a quello delle parti. Un Parlamento in cui maggioranza e opposizione, o soltanto parti di esse, possano convergere su provvedimenti ritenuti utili al Paese. FdI e Lega, ai quali l’apertura di Forza Italia sulla riforma della cittadinanza non andava a genio, hanno obiettato che il tema “non è nel programma di governo” e perciò non andava affrontato. Al contrario: proprio perché non è nel programma di governo, i gruppi parlamentari avrebbero potuto agire e votare liberi da vincoli di maggioranza. Altrimenti si nega la natura stessa del Parlamento, per altro da anni compresso nel ruolo di luogo dove si convertono in legge i decreti del governo di turno e dove si votano ddl di iniziativa governativa blindati dalla questione di fiducia. È stato detto che l’emendamento presentato da Azione, che ricalcava in tutto la proposta spiegata dal segretario azzurro Antonio Tajani nelle scorse settimane, era una “provocazione” per dividere gli alleati di centrodestra. Però era sicuramente un’occasione per dare a centinaia di migliaia di “già italiani” il giusto riconoscimento della loro cittadinanza. Proprio il leader di Azione, Carlo Calenda, ha ricordato un pensiero di Luigi Einaudi: “L’obiettivo dell’opposizione è quello di vedere approvato almeno un emendamento”. Ieri poteva succedere. Forza Italia non lo ha consentito, ma ha annunciato che tornerà sul tema presentando un proprio testo. In attesa di vedere se davvero accadrà (e se sarà in questa legislatura), non resta che auspicare che, nel caso, le attuali forze di opposizioni trovino il coraggio di sfuggire alla tentazione di rendere pan per focaccia. Per rispetto di quelle centinaia di migliaia di “già italiani”. “Ius scholae” o altre vie, purché si archivi una delle leggi più arretrate d’Europa di Corrado Giustiniani Avvenire, 12 settembre 2024 Trentadue anni non sono bastati a sbarazzarci di una delle leggi più retrive d’Europa, che impone ai nati in Italia da genitori stranieri di trascorrere 18 anni ininterrotti nel nostro Paese, prima di poter presentare domanda di cittadinanza. Un potente dispositivo per l’emarginazione di bambini e adolescenti (sono 915mila gli “stranieri” nelle nostre scuole, uno studente ogni nove, ormai) che avvertono la condanna della diversità e della disparità di diritti. L’improvviso ripescaggio dello “Ius Scholae” avrà un seguito politico concreto, o è una velleità estiva, nata sullo slancio di alcune vittorie olimpiche e paralimpiche di ragazze e ragazzi con la maglia azzurra ma la pelle di diverso colore? Ed è lo “Ius Scholae” l’unica soluzione possibile? La proposta, lanciata nelle scorse settimane dal ministro degli Esteri Antonio Taja - ni per Forza Italia, deve ancora iniziare la sua fase di studio. Ma sui tavoli della precedente legislatura c’è un testo approvato a fine giugno del 2022 dalla Commissione Affari Costituzionali presieduta dall’on. Giuseppe Brescia (5 Stelle) e poi accantonato con lo scioglimento delle Camere. Principio base: non esiste più la differenza fra nati e non nati in Italia da genitori stranieri. La cittadinanza si sarebbe conquistata frequentando regolarmente “per almeno cinque anni” uno o più cicli scolastici e/o di formazione professionale. I non nati avrebbero dovuto però far ingresso nel nostro Paese “entro il compimento del dodicesimo anno”. Tajani ha preannunciato che gli anni di studio debbono essere dieci e non “almeno cinque”. Sicuramente non sarà dunque di 12 anni l’età massima dell’ingresso in Italia, ma probabilmente ridotta a 6, per poter percorrere tutti i dieci anni dell’obbligo scolastico e ricevere la cittadinanza a 16 anni, come del resto su queste colonne ha proposto il professor Ennio Codini, giurista della Cattolica con incarichi nella Fondazione Ismu. Resta il fatto che lo “Ius Scholae” è un’innovazione italiana, sconosciuta nei principali Paesi con i quali ci confrontiamo, e ciò suggerisce precisione e cautela. La Germania, prima considerata una roccaforte dello “ius sanguinis”, approvò nel 2000 una legge per garantire la cittadinanza ai bimbi nati da genitori non Ue, residenti sul suolo tedesco con permesso dilungo soggiorno. Nel corso di un seminario organizzato alla Camera, il professor Helmut Reiner, dell’Università di Monaco, elencò i vantaggi che la legge aveva prodotto in circa vent’anni di applicazione: le frequenze all’asilo dei bimbi aumentate del 40 per cento, ridotta l’età delle iscrizioni alla scuola primaria, salite del 40 per cento le iscrizioni dei figli degli immigrati alle superiori, che poi aprono le porte all’Università. Se calcoliamo che in Italia gli stranieri con permesso di lungo soggiorno, da chiedere dopo cinque anni di residenza legale, sono circa 2 milioni e 400mila, possiamo immaginare gli effetti miracolosi che tali norme avrebbero avuto da noi. Ma le forze politiche, Pd incluso, non si batterono per questa riforma. C’è una terza possibilità di intervento sulla cittadinanza: ridurre dagli attuali 10 (a cui si aggiungono 36 mesi concessi all’amministrazione per lavorare la pratica) a cinque, gli anni di residenza che debbono trascorrere prima di chiedere la naturalizza - zione. Cinque sono gli anni che vigono nel Regno Unito, in Francia e da giugno anche in Germania: con la crisi demografica è importante favorire le naturalizzazioni. Ed è questo l’obiettivo di una proposta di referendum appena depositata in Cassazione da un cartello di associazioni e di personaggi politici, da Emma Bonino a don Ciotti, da Riccardo Magi a Luigi Manconi, dall’Arci a Gianfranco Schiavone. I naturalizzati, in tempi più veloci, farebbero così diventare italiani anche i loro figli. Ma sembra un sogno. Mentre sullo “Ius Scholae” è già palese lino di Lega e Fratelli d’Italia, si attende, su tutta la linea, un impegno del Pd che finora è mancato. Migranti. L’Italia complice del respingimento illegale di Amal in Libia di Angela Gennaro Il Domani, 12 settembre 2024 La decisione del Tribunale civile di Roma: “Il Governo deve dargli il visto”. Una decisione che ancora una volta smantella l’impalcatura fondata sull’esternalizzazione delle frontiere. I migranti hanno diritto di stare in un paese sicuro, e Tripoli non lo è. Viene dal Darfur, in Sudan, e Amal non è il suo vero nome. Ha 30 anni e da sei è bloccato in Libia: l’ultima volta che ha provato ad attraversare il mare è stato riportato a Tripoli da un mercantile italiano, l’Asso 29. Un respingimento collettivo per cui a giugno il tribunale civile di Roma ha giudicato colpevoli i ministeri di Difesa e Trasporti, la presidenza del Consiglio, il capitano e l’armatore della nave della Augusta Offshore. Ora un’altra sentenza del tribunale di Roma ordina al governo di rilasciare un visto ad Amal. Deve arrivare “immediatamente” in Italia, per poter chiedere la protezione internazionale. Una decisione che ancora una volta smantella l’impalcatura che ha permesso nel tempo all’Italia (e all’Europa) di impedire l’arrivo delle persone migranti da un paese che per il diritto internazionale (e per i tribunali italiani) non è un luogo sicuro. Oggi Amal, in fuga da quasi dieci anni, vive nascosto: la probabilità di finire di nuovo in un centro di detenzione libico è altissima. Allo scoppio della guerra in Sudan viene evacuato in un campo profughi con la sua famiglia. Vuole arrivare in Europa, in Libia arriva nel 2016: ad accoglierlo, venduto dai trafficanti, ci sono i “trattamenti inumani e degradanti” più volte denunciati dalle organizzazioni internazionali e dalle Nazioni Unite. Prova ad arrivare in Italia ma viene catturato: riesce a liberarsi dalla prigione e dalle torture dopo circa tre mesi, pagando un riscatto. In Sudan nel frattempo la sua famiglia continua a spostarsi, nell’insicurezza e nella povertà più estrema, sfollata. L’odissea di Amal - Amal deve arrivare in Italia anche per loro. Ci riprova allora ad attraversare il Mediterraneo centrale. È una delle oltre 150 persone a bordo di un gommone che parte dalle coste di Al Khums la notte del 30 giugno 2018. L’imbarcazione affonda, interviene una motovedetta libica, la Zuwarah, che salva 18 persone, c’è anche Amal. La motovedetta prosegue con quelle che nella sentenza vengono definite “ulteriori operazioni Sar”, di soccorso in mare. Prende a bordo altre persone, forse troppe. E va in panne. È il mercantile Asso 29, coordinato dalla nave militare italiana Caio Duilio, a intervenire il 2 luglio in soccorso dei libici. La nave italiana è appena salpata, in navigazione verso la piattaforma petrolifera Bouri: sotto il coordinamento italiano e libico raggiunge la Zuwarah, prende a bordo 150 persone e le riporta a Tripoli. L’incubo di Amal ricomincia nel centro di detenzione di Tariq al Matar: violenze, abusi e lavori forzati. Riesce a scappare, viene registrato dall’Unhcr come “person of concern”, ma vive “nascosto nei dintorni di Tripoli nella costante paura di essere arrestato”: neanche chi è in possesso di un tesserino Unhcr è al sicuro. La sentenza di merito del Tribunale civile di Roma “stabilisce il diritto di Amal di entrare in Italia con un regolare visto di ingresso, a fronte della violazione degli obblighi di non-refoulement in capo all’Italia, per il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale”, spiega Loredana Leo, avvocata Asgi che insieme alle colleghe Cristina Laura Cecchini e Giulia Crescini ha seguito il caso. Secondo la giudice Silvia Albano “le autorità italiane che hanno prestato ausilio e il comandante della nave commerciale italiana inviata sul posto avrebbero dovuto comunque garantire che i naufraghi venissero sbarcati in un luogo sicuro, a prescindere dalla presenza di un ufficiale libico sulla nave e dal fatto che la richiesta di soccorso fosse venuta dalle autorità libiche”. Diritti calpestati - I naufraghi sono saliti a bordo di una nave battente bandiera italiana in acque internazionali e “le autorità hanno violato l’obbligo di adottare misure per prevenire atti di tortura e trattamenti inumani”. L’Italia “avrebbe dovuto non offrire ausilio alla guardia costiera libica per sbarcare i naufraghi in Libia, ma assicurare il loro trasporto in un luogo sicuro, nel momento in cui erano su una nave sottoposta alla sua giurisdizione”. Ora l’ambasciata italiana a Tripoli dovrà rilasciare ad Amal un visto che gli permetta di fare ingresso in Italia e richiedere protezione internazionale. “Immediatamente”, si legge. “Ci aspettiamo che il governo faccia ricorso, e in ogni caso i tempi saranno ancora lunghi”, spiega il team di legali, “ma è una sentenza importante: qualifica una volta di più come illegittime le condotte delle autorità italiane nei respingimenti verso la Libia dove, ad oggi, si trovano ancora molte persone respinte presenti sulla Asso 29. In grave pericolo”. Migranti. Un disegno oscuro dietro il patto Italia-Albania di Gianfranco Schiavone L’Unità, 12 settembre 2024 Dalla detenzione illegittima alle espulsioni illegali, il Protocollo ribalta i principi del diritto europeo. Il vero obiettivo è sperimentare una gestione dei migranti fondata sul confinamento e sull’indebolimento radicale delle garanzie, in cui le regole vengono neutralizzate. Un piano che va archiviato al più presto, tra le pagine buie del nostro Paese. Con probabilità entro fine settembre, con la conclusione dei lavori al centro di Gjader, il protocollo tra Italia e Albania ratificato con L. 21.02.24 n. 14 prenderà avvio dopo innumerevoli rinvii nella sua attuazione. Nelle due strutture di Shengjin e Gjader “possono essere condotte esclusivamente persone su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri stati membri dell’UE, anche a seguito di operazioni di soccorso” (art.3 c.2). Le strutture per le procedure di ingresso “sono equiparate a quelle previste dall’art. 10ter comma 1 del TU immigrazione” [gli hotspot] mentre la struttura per il rimpatrio “è equiparata ai centri [i CPR] previsti dall’art. 14 comma 1 del citato testo unico” (art.3 c.4). Il Protocollo è chiaro nel delimitare l’ingresso e la permanenza nel territorio albanese degli stranieri “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea e per il tempo strettamente necessario alle stesse. Nel caso venga meno, per qualsiasi causa, il titolo della permanenza nelle strutture, la Parte italiana trasferisce immediatamente i migranti fuori dal territorio albanese”. Il presupposto di fondo su cui si basa la L.24/14 è l’asserita possibilità di applicare nelle aree soggette alla giurisdizione italiana ma ubicate nel territorio albanese, il diritto italiano e quello dell’Unione Europea sull’ingresso e il soggiorno degli stranieri “in quanto compatibili” (art. 4 c.1). Il presupposto invocato è però quanto mai dubbio sia per ciò che attiene al diritto UE sull’asilo, sia per ciò che attiene al diritto UE in materia di rimpatri. Il diritto europeo sull’asilo trova infatti applicazione nel territorio degli Stati membri, nelle acque territoriali, nelle zone di transito e alle frontiere degli Stati membri. Nessuno dei testi normativi vigenti e neppure i nuovi regolamenti sull’asilo approvati dall’Unione a maggio, e in particolare il Regolamento (UE) 2024/1348 (che si applicherà da giugno 2026) sembrano consentire un’applicazione del diritto UE al di fuori del territorio degli Stati membri. Non deve trarre in inganno la cosiddetta “finzione giuridica di non ingresso”, ovvero il fatto che il richiedente asilo sottoposto alla procedura di frontiera non è autorizzato al soggiorno nel territorio mentre è pendente la procedura stessa, in quanto le strutture in cui i richiedenti sono collocati, sia che siano ubicati alla frontiera che altrove, si trovano comunque a tutti gli effetti nel territorio dello Stato. Per poter esercitare il diritto d’asilo previsto dall’art. 10 della nostra Costituzione non è necessario che la persona sia già sul territorio o alla frontiera, e una norma ben potrebbe disciplinare le modalità per ricevere ed esaminare la domanda presentata da uno straniero che si trova al di fuori del territorio dello Stato. Tale possibilità non può tuttavia essere confusa con quanto previsto dal Protocollo con l’Albania, in quanto gli stranieri che vi saranno coinvolti non si trovano all’estero ma, recuperati in operazioni di soccorso in acque internazionali, verranno forzatamente portati non in Italia bensì in un altro Stato ad opera dalle stesse autorità italiane. Si verrà così a creare una irragionevole disparità di trattamento tra i richiedenti asilo salvati e portati in Italia e i richiedenti asilo salvati e portati in Albania. Ritengo si configuri così una discriminazione basata sulla condizione personale, vietata dall’art. 3 Cost, che sorge allorquando la legge “senza un ragionevole motivo” preveda un trattamento diverso tra coloro che si trovano in “eguali situazioni” (vedi già Sentenza Corte costituzionale n. 15 del 1960). Potrebbero (forse) non esserci irragionevoli discriminazioni nel solo caso in cui l’intero sistema delle garanzie previste dal sistema europeo di asilo venga rispettato nei centri collocati in Albania. Così non è però; l’equiparazione della condizione tra chi si trova in Italia e chi si troverà in Albania è del tutto fittizia: chi verrà detenuto in Albania non potrà infatti esercitare in modo effettivo dei diritti tutelati dalle norme europee come il diritto di comunicare con organizzazioni che prestino assistenza legale, il diritto di consultare e nominare a sua scelta un avvocato o altro consulente legale. Tra i diritti che verranno compressi vi è anche l’impossibilità di sostenere l’audizione di persona con un giudice (essa è prevista solo in videoconferenza, opzione prevista in Italia soltanto in casi del tutto speciali o straordinari) indebolendo l’effettivo accesso al diritto alla difesa garantito dall’art. 24 Cost. e al giusto processo garantito dall’art. 111 Cost. Il primo e più importante diritto del richiedente asilo che subisce una generalizzata compressione nella previsione della L. 14/24 è la libertà personale. Le disposizioni sono chiare sul punto: tutte le persone inviate in Albania e sottoposte alla procedura di frontiera dovranno essere rinchiuse durante tutto il tempo della procedura fino al termine massimo di quattro settimane previsto dalla legge. Non è prevista in alcun modo e in alcun caso l’applicazione di misure alternative alla detenzione. Ciò appare in radicale contrasto con il diritto dell’Unione sull’asilo che dispone che “i richiedenti possono essere trattenuti soltanto in circostanze eccezionali definite molto chiaramente nella presente direttiva e in base ai principi di necessità e proporzionalità per quanto riguarda sia le modalità che le finalità di tale trattenimento” (direttiva 2013/33/UE considerando n. 15). Il trattenimento infatti può essere adottato “sulla base di una valutazione caso per caso” (art. 8) e “solo dopo che tutte le misure non detentive alternative al trattenimento sono state debitamente prese in considerazione” (considerando n. 20). La norma europea esclude qualsiasi automatismo e prevede che l’amministrazione motivi in concreto, caso per caso, quali siano le ragioni per applicare nel caso concreto il trattenimento nonostante si tratti di una misura eccezionale, nel rispetto del principio di proporzionalità. È proprio in ragione della “assenza della dovuta motivazione sulla necessità del trattenimento, sulla sua proporzionalità e sull’impossibilità di fare ricorso alle altre misure alternative, di tipo coercitivo” (Trib. di Palermo 27.08.24 giudice Marino) che la gran parte dei provvedimenti questurili di trattenimento negli hotspot finora emanati correttamente non sono stati convalidati. Il protocollo tra Italia ed Albania esclude del tutto l’esistenza di misure alternative al trattenimento. Non è infatti possibile che la procedura accelerata di frontiera venga realizzata in Albania senza il trattenimento che ne è parte inscindibile, così rovesciando completamente i fondamenti del diritto dell’Unione sulla materia. Faccia attenzione il lettore a ben comprendere il punto: non si tratta di evitare il trattenimento nelle situazioni che per legge vanno escluse, come i casi vulnerabili e i minori non accompagnati, bensì di rispettare il principio di diritto in base al quale va sempre effettuata una valutazione caso per caso sulla possibilità di applicare il trattenimento o altra misura meno coercitiva nei confronti dei richiedenti per i quali il trattenimento può, come ultima istanza, essere applicato. Ritengo che il giudice chiamato a convalidare il trattenimento nei centri di cui al Protocollo tra Italia ed Albania non possa che prendere atto della impossibilità di dare un’interpretazione della legge interna che eviti il contrasto con la norma europea e riscontri dunque l’esistenza di una insanabile non conformità delle specifiche previsioni contenute nella L. 21.02.24 n. 14 con il diritto europeo, ed in particolare con le disposizioni sul trattenimento dei richiedenti asilo di cui alla Direttiva 2013/33/UE. Esaminando brevemente un altro aspetto di massima importanza, ovvero l’utilizzo delle strutture in Albania per un trattenimento finalizzato alla espulsione dei cittadini stranieri la cui domanda di asilo è stata definitivamente rigettata (una parte del futuro centro di Gjader), emergono, oltre ai già evidenziati problemi sull’applicazione extraterritoriale del diritto UE, altre problematiche di legittimità non meno rilevanti. La Direttiva 115/2009/ CE sui rimpatri prevede infatti che le misure di espulsione dal territorio di uno Stato membro devono sempre essere progressive e deve essere privilegiata la misura del rientro volontario. Nessuna proporzionalità delle misure, e ovviamente nessuna possibilità di accedere a forme di rientro volontario, è invece prevista nel funzionamento del centro per le espulsioni in Albania. Anche sotto questo profilo emerge dunque un chiaro contrasto con il diritto dell’Unione sui rimpatri e in particolare con la richiamata Direttiva. Si delinea con chiarezza quale sia dunque il reale scopo di voler portare coattivamente in Albania oggi (e domani forse in altri paesi compiacenti) un certo numero di naufraghi. Nulla che abbia a che fare con la gestione del sistema di asilo e di accoglienza i cui problemi rimarranno invariati o forse accresciuti dall’enorme sperpero di risorse pubbliche che la costruzione e la gestione dei centri in Albania comporta. L’obiettivo reale è quello di sperimentare una gestione dei migranti connotata dall’indebolimento radicale delle garanzie e dal loro confinamento assoluto. La creazione quindi di un “altrove” dove le regole sono, sulla carta, le stesse di quelle previste nel territorio italiano, ma nella realtà sono del tutto sterilizzate. Oggi per i migranti, domani forse per altri. Un disegno che va al più presto archiviato tra le molteplici pagine oscure di questo Paese. Migranti. Il caso di Mansour: liberato dal carcere, rinchiuso in un Cpr di Chiara Cruciati Il Manifesto, 12 settembre 2024 Dalla cella di un carcere a quella di un Cpr: non è mai stata riconquistata la libertà per Mansour Doghmosh, palestinese indagato dal tribunale dell’Aquila insieme ad Ali Irar e Anan Yaeesh per associazione con finalità di terrorismo internazionale. Lunedì era stato ordinato l’immediato rilascio per Doghmosh (detenuto da marzo a Rossano Calabro) e Irar (detenuto a Ferrara), ma il primo è stato caricato su una camionetta e condotto nel centro di Ponte Galeria. Il motivo: una decisione del questore di Cosenza che lo ritiene soggetto socialmente pericoloso, seppure un tribunale ne abbia appena disposto la scarcerazione. Domani è prevista l’udienza per l’eventuale convalida. Facciamo un passo indietro: lo scorso marzo, nonostante il rigetto da parte della Corte d’Appello dell’Aquila della richiesta di Israele di estradare Anan Yaeesh per il fondato timore di torture e abusi, il cittadino palestinese originario di Tulkarem restava nel carcere di Terni, dove era stato condotto un mese prima, a causa di un’indagine della Dda per presunti atti di terrorismo in Cisgiordania pianificati dall’Italia. Nello specifico un attacco a una colonia israeliana. Con Yaeesh erano stati arrestati anche Irar e Doghmosh. Lunedì scorso il tribunale del riesame del capoluogo abruzzese ha disposto la scarcerazione dei due perché non sussiste, secondo la corte, la gravità giudiziaria tale per tenerli dentro. Va stabilito, spiega il loro legale Flavio Rossi Albertini, se la presunta azione rientri negli atti legittimi di resistenza a un’occupazione o se si siano superati i limiti previsti dal diritto internazionale. Una decisione, quella di lunedì, frutto della sentenza della Cassazione che a luglio aveva annullato il mandato di cattura per i due giovani. A piede libero, mentre l’indagine prosegue. Ma non per Mansour, richiedente asilo finito in un Cpr: il trattenimento, secondo gli atti consegnati ieri ai suoi legali, si fonda sull’articolo 6 del decreto legislativo 142/2015 secondo cui il richiedente asilo può essere condotto in un Cpr non a fini di espulsione (dove? In Cisgiordania?) ma perché considerato un “pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica”, valutazione in capo al questore e che ora richiede la convalida del tribunale. Doghmosh può essere trattenuto per 30 giorni, rinnovabili di 60 fino a un massimo di 12 mesi. “È probabile che le ragioni poste a fondamento del trattenimento sia l’indagine tuttora in corso per terrorismo - ci spiega Rossi Albertini - In ogni caso non lo possono espellere, è escluso”. A prevalere è il diritto internazionale e il divieto assoluto di espulsione verso territori in cui il soggetto può essere sottoposto a torture e atti disumani e degradanti, possibilità più che concreta per un palestinese nella Cisgiordania occupata dalle forze israeliane. Tanto concreta per la magistratura italiana da rigettare, appena pochi mesi fa, l’estradizione di Yaeesh. Che invece rimane in una cella del carcere di Terni. Il decreto contro la Cannabis Light è illegale. Il sequestro delle navi delle ONG è illegale di Leonardo Fiorentini* L’Unità, 12 settembre 2024 Il Tar ha bocciato il decreto del governo che proibiva la vendita della Cannabis Light. Batosta per Meloni e la corrente giustizialista della maggioranza. Il tribunale di Salerno ha bocciato il sequestro della “Geo Barents”, una delle più importanti navi delle Ong che salvano i naufraghi nel Mediterraneo. Colpo al cuore per Meloni e soprattutto per Piantedosi che hanno sempre fatto della lotta alle Ong e ai salvataggi la loro bandiera ideologica e l’ascia per combattere gli sbarchi, utilizzando i naufragi e le morti come disincentivo. Beh, è una bella giornata. Qualcuno potrà dire: voi che fate sempre i garantisti e i nemici dei magistrati, oggi esultate perché i magistrati bloccano il governo? Innanzitutto noi da sempre facciamo muro contro le sopraffazioni delle Procure, raramente ci schieriamo contro i tribunali. Abbiamo sempre pensato che il cuore della sopraffazione giudiziaria stia nella corporazione dei Pm. E poi, come in tutte le cose della vita, può succedere sempre che chi in genere ha torto, per una volta abbia ragione. Ennesimo colpo della Giustizia amministrativa alla crociata del governo contro la canapa a basso contenuto di Thc. Dopo l’annullamento nel 2023 del divieto d’uso di infiorescenze e foglie contenuto nel Decreto ministeriale sulle piante officinali, il Tar del Lazio ieri ha sospeso - di nuovo - il decreto che inseriva le preparazioni ad uso orale contenenti cannabidiolo (Cbd) nella tabella dei medicinali del Testo unico sugli stupefacenti. Non è servito dunque il gioco di prestigio del ministro Schillaci, che giusto tre mesi prima del giudizio di merito sul primo decreto, previsto per metà settembre, ne ha emanato un altro, identico, anche se stavolta corredato dai pareri “aggiornati” di Consiglio superiore della Sanità e Istituto superiore della Sanità. Pareri che, secondo la relazione tecnica depositata da Canapa sativa Italia e dagli altri ricorrenti “non forniscono una risposta chiara e diretta” rispetto ai rischi del Cbd. Si tratta di “affermazioni generiche” e “raccomandazioni per ulteriori studi” che fanno tornare alla mente la sentenza della Corte di Giustizia europea che nel 2020 ha deciso che il divieto di commercializzazione del Cbd potrà essere conforme alla normativa comunitaria solo se “l’asserito rischio reale per la salute non risulti fondato su considerazioni puramente ipotetiche”. Per provare ad attutire il colpo, il Dipartimento antidroga (Dpa) ha subito precisato che la decisione del Tar “non ha alcuna connessione con l’emendamento sulla cannabis all’art. 18 del ddl Sicurezza”. Associando poi infiorescenze e derivati della cannabis light a marijuana e hashish, in un’iperbole lessicale utile solo a costruire allarme dove non c’è. Curioso che fosse stato lo stesso Dpa, giusto il giorno prima, ad avere concluso una nota a difesa dell’emendamento, citando come ulteriore giustificazione proprio l’inserimento del Cbd nella Tabella dei medicinali del Dpr 309/90. Il Governo si arrampica sugli specchi. Si scrive di “prodotti che favoriscano alterazioni dello stato psicofisico” quando sono fiori di piante a basso contenuto - massimo lo 0,2% - di Thc, il principio attivo psicotropo della cannabis. Queste certo contengono altri cannabinoidi non psicoattivi a più alte concentrazioni, principalmente il Cbd. Provengono da sementi registrate dall’Unione europea, la cui coltivazione è consentita dalle Convenzioni internazionali, dai Regolamenti Ue e dallo stesso Testo unico sulle droghe italiano. Sulla pericolosità del Cbd si è espressa l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) per la quale “non è psicoattivo e non vi è evidenza di dipendenza o abuso”. L’Oms aveva persino raccomandato alla Commissione droghe dell’Onu di esplicitare che le “preparazioni farmaceutiche che contengono meno dello 0,2% di Thc non devono essere sotto il regime di controllo delle convenzioni Onu”. Per recuperare consenso si evoca poi la sicurezza stradale: ma di fronte al crescente processo di regolamentazione legale della cannabis, la comunità scientifica è stata più volte sollecitata sulla questione della guida dopo aver assunto cannabis (ad alto contenuto di Thc). I risultati sono variegati, ma tali da convincere la Germania a fissare un limite di Thc nel sangue di 3.5 ng/mL. Valore che sarebbe davvero irrealistico superare con la cannabis light. Viene poi citata la decisione della Corte di Cassazione sull’illiceità del commercio delle infiorescenze di cannabis light (Su 30475/2019) omettendo di considerare che quella stessa sentenza si conclude con la formula “salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”. Principio che, insieme a quelli della proporzionalità, tipicità e ragionevolezza, sarebbero evidentemente compromessi dall’assoggettare un prodotto non stupefacente alla normativa sugli stupefacenti. Si crea così un loop normativo e giurisprudenziale: si rinviano le condotte legate alla cannabis light al Testo unico sulle droghe che però esplicitamente consente la coltivazione delle piante da cui derivano (art.26), mentre la giurisprudenza tossicologica ritiene ormai unanimemente non stupefacente - e quindi non penalmente rilevante - la sostanza contenente meno dello 0,5% di Thc. Nascondendosi dietro la foglia di fico del “voler chiudere solo i cannabis shop”, il governo con la norma del Ddl Sicurezza toglie a tutti la possibilità di utilizzare le infiorescenze e i loro derivati anche per usi alimentari, cosmetici, o come integratori. Limitando così la redditività della coltivazione alle sole parti meno pregiate, mettendo quindi a rischio l’intero settore della canapa in Italia. Incurante della scienza, delle indicazioni dell’Oms, delle Convenzioni internazionali, dello stesso Testo unico sulle droghe e della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, della Corte suprema di Cassazione e della Giustizia amministrativa il governo Meloni, alla ricerca continua di un nemico, crea un non senso giuridico. Vuole vietare la vendita di fiori che non hanno nulla di stupefacente, ostacolare la filiera della canapa e l’uso dei suoi derivati non psicoattivi esclusivamente per motivazioni ideologiche. Ma non ha nemmeno il coraggio di dirlo. *Forum Droghe La Cpi sospettata di connivenza verso Maduro di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 12 settembre 2024 La Corte penale internazionale ha assicurato massimo impegno per individuare e perseguire i responsabili di crimini contro l’umanità commessi a partire dal 2014 fino ai giorni scorsi, quando numerosi oppositori politici (si veda anche Il Dubbio del 10 settembre) sono stati incarcerati o costretti all’esilio per aver contestato l’esito delle elezioni presidenziali del 28 luglio. “Rispettate lo Stato di diritto”: è questo l’invito fatto direttamente dal procuratore della Cpi, Karim Khan, che ha affidato ad una nota alcune considerazioni in merito alla delicata situazione venezuelana. “È chiaro fin dall’inizio che il nostro lavoro non ritarderà gli sforzi per accertare le responsabilità riguardo alla situazione in Venezuela, sia attraverso nostre indagini sia attraverso altri sforzi genuini e reali”, si legge nel documento dell’Ufficio del procuratore. Dall’Aia Khan non fa nessun nome, ma il riferimento anche al candidato alle presidenziali del 28 luglio scorso, Edmundo González Urrutia, giunto in Spagna tre giorni fa grazie ad un salvacondotto, è chiaro. “Tutte le persone - ha aggiunto il procuratore della Cpi - devono essere protette contro le violazioni che possono costituire crimini ai sensi dello Statuto di Roma”. La presa di posizione del procuratore della Corte penale internazionale, seppur alquanto asettica, è giunta - con ogni probabilità - non a caso. Karim Khan si è ritrovato nel vortice delle polemiche negli ultimi giorni, dopo che il Washington Post ha pubblicato un articolo che indica alcuni possibili conflitti di interessi del procuratore dell’Aja. Sua cognata, la penalista Venkateswari Alagendra, ha fatto parte del team legale che ha difeso il governo di Maduro con la presentazione di un ricorso, poi respinto, davanti alla Corte penale internazionale per interrompere le indagini a carico del Venezuela su presunti crimini contro l’umanità. Khan assicura trasparenza e imparzialità. Il codice di condotta dell’Ufficio del procuratore impone ai suoi componenti di astenersi da qualsiasi conflitto che possa sorgere, soprattutto in caso “interessi personali, compresi un rapporto coniugale, genitoriale o altro stretto rapporto familiare, personale o professionale con una qualsiasi delle parti”. La Corte penale internazionale ha affermato che sta “monitorando attentamente” gli sviluppi della situazione in Venezuela e sta analizzando “in modo indipendente e imparziale” i presunti crimini anche perché, come ha rilevato il Washington Post, fino ad ora non sono state sollevate obiezioni e non sono stati consumati passaggi formali rispetto ad una ricusazione della cognata di Khan. L’associazione “Abogados Venezuela” (conta circa 350 avvocati) auspica che sulla vicenda si faccia chiarezza e che le questioni personali non offuschino il principale obiettivo: assicurare alla giustizia i responsabili delle repressioni ai danni degli oppositori politici e dei dissidenti. Nelle scorse settimane il rieletto presidente del Venezuela, Nicolás Maduro, si è vantato dell’arresto di oltre 2000 persone, per lo più oppositori politici e manifestanti pacifici accusati di terrorismo. Le forze di sicurezza hanno addirittura fermato giovani minorenni (pure alcuni ragazzini di tredici anni), come ha rilevato l’associazione per i diritti umani “Foro Penal”. Molti dissidenti sono reclusi nel famigerato Helicoide. Tra questi l’avvocato Perkins Rocha, consigliere giuridico della leader dell’opposizione, Maria Corina Machado. Ieri, durante il question time alla Camera, il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, si è soffermato sulla crisi in Venezuela. Nel Paese sudamericano attualmente sono detenuti otto cittadini italo- venezuelani, mentre una cittadina italiana è sottoposta alla misura cautelare del divieto di espatrio, dopo essere stata arrestata e poi rilasciata in attesa di giudizio. Il responsabile della Farnesina ha ricordato che è stata istituita una task force permanente che “monitora la situazione nel Paese” e in cui “vengono seguiti i temi legati all’emergenza e vagliate iniziative a tutela dei cittadini”. È stato pure evidenziato l’impegno dell’ambasciata italiana, del consolato generale a Caracas e del consolato a Maracaibo, che “lavorano senza sosta per informare e assistere in tempo reale i cittadini nel Paese, soprattutto quelli soggetti a procedimenti limitativi della libertà personale”. Le autorità hanno effettuato sei visite consolari a una cittadina italo- venezuelana, attualmente detenuta dalle forze di polizia nella città di Maracay. “C’è forte preoccupazione - dice Tajani - per la limitazione dei loro diritti alla difesa. Per questo, ho sollecitato l’incaricata d’affari del Venezuela, convocata alla Farnesina, a garantire visite consolari”. L’ambasciata italiana a Caracas ha aderito alla richiesta europea di fare pressioni per la liberazione di tutti i prigionieri politici europei. Il ministro degli Esteri e vicepremier ha, inoltre, detto che intende recarsi presto in Argentina e Brasile, “due Paesi chiave del continente, anche nell’ottica della crisi venezuelana, che sarà al centro dei miei colloqui politici”.