I ragazzini non dovrebbero stare in carcere di Daria Bignardi vanityfair.it, 11 settembre 2024 La morte di Youssef Barsom a San Vittore, a soli 18 anni, ha addolorato la comunità che lo aveva accolto al suo arrivo in Italia. Ma come lui, sono tanti i giovanissimi che hanno bisogno di aiuto, non di reclusione. I sottili materassi delle celle, anzi, delle “camere di pernotto” come si chiamerebbero, dovrebbero essere ignifughi. Questi particolari materassi hanno una scadenza, invece quasi mai vengono rinnovati e, anche quando non si incendiano, se gli dai fuoco rilasciano un gran fumaccio nero che intossica chi lo respira. I detenuti che li bruciano per protesta lo sanno, infatti si coprono la testa con asciugamani bagnati cercando di stare lontani dai materassi; ma le celle sono piccole e quasi mai ci riescono. Quindi: o si intossicano o si ustionano o, addirittura, certe volte muoiono. Come è successo a Youssef Barsom, egiziano, 18 anni compiuti a febbraio, chiuso a San Vittore da luglio per aver rubato una collanina in stazione Centrale a Milano. Nell’impotenza e desolazione della notizia, ho pubblicato su Instagram una sua foto mandata da Cecco Bellosi della comunità Il Gabbiano, che lo aveva avuto tra i suoi ospiti. Youssef era arrivato in Italia dopo la trafila delle torture nelle carceri libiche subite quando era un ragazzino, ed era traumatizzato, con problemi psichiatrici. Cecco Bellosi e gli altri che lo hanno conosciuto dicono che hanno i telefoni pieni di sue foto, perché gli piaceva tantissimo farsi i selfie e che, nonostante i molti problemi, era un ragazzo che si faceva volere un gran bene. Spesso si ama di più chi è più complicato, soprattutto se è giovanissimo. I ragazzini non dovrebbero stare in carcere, né al minorile e tanto meno in quello dei grandi. I ragazzini fanno un sacco di sciocchezze: a volte sono autolesionisti, ingestibili, indisponenti e insopportabili. Hanno bisogno di aiuto, non di essere chiusi in prigione. Molti di noi hanno bisogno di aiuto e le risorse mancano per tutti, soprattutto per i malati, i disabili, gli anziani, i poveri. E i ragazzi migranti, traumatizzati, soli, problematici. Un’educatrice di Youssef Barsom, sotto la sua foto, ha scritto: “Oggi è un giorno nero, non solo per noi che gli abbiamo voluto bene, ma anche per l’Italia, un Paese che non sa dare una chance alle persone fragili”. Le carceri minorili non funzionano perché manca il valore educativo della pena di Anna Spena vita.it, 11 settembre 2024 Due ragazzi sono evasi dall’istituto penale per i minorenni di Milano Cesare Beccaria. “Gli istituti hanno una scarsa, se non scarsissima, efficacia”, dice l’educatore Franco Taverna, responsabile area adolescenza dalla Fondazione Exodus di don Mazzi e presidente dell’associazione Semi di Melo. “Il problema non riguarda il Beccaria ma è generale, il metodo non funziona quasi dappertutto. Dobbiamo superare le sbarre: la motivazione per una trasformazione positiva può nascere solo in un contesto sano di cura”. Domenica 8 settembre due ragazzi, fratelli, sono evasi dall’ istituto penale per i minorenni di Milano Cesare Beccaria. I due sarebbero riusciti a scavalcare il muro di cinta. I fratelli di nazionalità egiziana hanno 16 e 17 anni. “Uno dei due era già fuggito nel giugno scorso e rintracciato nel giro di qualche giorno. Non c’è pace evidentemente nelle carceri del Paese, che si guardi al circuito per minori, in cui permangono detenuti fino al 25esimo anno d’età, o a quello per adulti”, dice il segretario generale del sindacato della polizia penitenziaria Uil-pa Gennarino De Fazio. “Se l’Istituto Penale Minorile Beccaria fosse gestito da un ente del Terzo settore, visti i ripetuti e gravi episodi che si sono susseguiti in questi primi 7 mesi dell’anno 2024, un normale ente di vigilanza sarebbe presto intervenuto con un provvedimento di chiusura o perlomeno di sospensione della licenza”, dice Franco Taverna, responsabile area adolescenza dalla Fondazione Exodus di don Mazzi e presidente dell’associazione Semi di Melo. “Considerato il mandato, che è quello di far eseguire una condanna penale attraverso una misura rieducativa, il servizio di vigilanza sarebbe andato a controllare la correttezza della documentazione formale e l’efficacia del trattamento erogato e credo che, alla fine di questa valutazione, questo controllore si sarebbe trovato in una paradossale situazione: l’istituto possiede una formale correttezza nello svolgimento del suo compito ma ha una scarsa, se non scarsissima, efficacia. In altre parole, le carte vanno bene, ma il sistema non funziona”. Gli episodi gravi all’interno degli istituti per minorenni negli ultimi anni si sono ripetuti con una frequenza mai vista prima, quelli del Beccaria sono solo gli ultimi, appunto, ed è evidente la fatica degli operatori a trovare soluzioni accettabili che non si riducano esclusivamente all’inasprimento dei dispositivi repressivi e sanzionatori”. “Ora”, continua Taverna, “il punto veramente grave della vicenda degli istituti di pena per minorenni, è che il Beccaria non è un caso isolato. Il problema non riguarda il comandante o la Direzione o gli agenti di questo istituto. Il problema, mi pare, è generale, il metodo non funziona quasi dappertutto. Davanti a questa situazione ci possono essere due strade. La prima è quella di cancellare la ricca e avanzata storia della giustizia minorile italiana, esempio, mi spingo a dire, di civiltà, umanità e scienza per molti altri Paesi non solo del nostro continente, e applicare anche per i minorenni, addirittura sotto il 14 anni, i medesimi criteri utilizzati per gli adulti. Introducendo nuove fattispecie di reati, essendo inflessibili nelle condanne affinché siano da monito per il popolo, aumentando i dispositivi e il personale per il controllo. La seconda strada è quella di ripensare il sistema alla luce dei cambiamenti sociali che sono sopraggiunti”. Secondo Taverna “la prima strada”, dice, “se ho capito bene, è quella auspicata dagli attuali decisori dell’apparato della Giustizia in Italia. È una strada sbagliata alla radice perché i fatti hanno finora dimostrato che la carenza principale non sta nei mezzi che mancano ma nel metodo ormai superato. La seconda strada è certamente più difficile perché richiede capacità di analisi dei fenomeni e elaborazione di strategie aggiornate, mirate non solo alla sicurezza immediata ma ad una prospettiva di sicurezza nel lungo periodo. In questo senso il ripensamento più importante da fare non si solo riferisce allo spessore delle sbarre alle finestre ma piuttosto al valore educativo della pena, che deve essere presente ed efficace. Per un ragazzo che ha commesso un reato è importante la presa di coscienza dell’errore e la valutazione delle sue conseguenze ma solo in un ambiente sereno, orientato alla cura delle relazioni, animato da autorevolezza e insieme da una paziente cucitura delle dimensioni affettive può far intravedere un cambiamento possibile. La motivazione per una trasformazione positiva può nascere in un contesto sano di cura. Serve piuttosto un nuovo modello di formazione per gli adulti che hanno responsabilità con la presenza costante di figure educative”. Quattro anni fa la Fondazione Exodus di don Mazzi ha avviato una sperimentazione, con la collaborazione di alcuni Centri per la Giustizia Minorile, e l’ha chiamata “Progetto Pronti Via!”. L’iniziativa è sostenuta dall’Impresa Sociale Con i bambini, per offrire a minori che hanno commesso reati, forti esperienze educative. Il legale di Youssef: “Le Comunità per minori sono tutte piene, con lunghe liste di attesa” ansa.it, 11 settembre 2024 Rivolte, disordini, fughe. La situazione nelle carceri minorili è sempre più esplosiva ed è sfociata qualche giorno fa nell’evasione di tre ragazzi dall’Istituto Penale Minorile Beccaria di Milano. “Mancano posti in strutture adeguate” spiega il legale di un ragazzo egiziano giunto in Italia da solo, minorenne. È morto carbonizzato al San Vittore dove era detenuto dallo scorso luglio in attesa di giudizio per una rapina. Youssef aveva 15 anni quando finì in un centro di detenzione in Libia, esposto continuamente alla violenza. Era poi riuscito ad arrivare in Italia su un barcone in condizioni estreme. Aveva problemi psichiatrici ma per lui non c’è mai stata, in tre anni dal suo arrivo nel nostro paese, una struttura in grado di ospitarlo. E così, minorenne, accusato di rapina, era stato portato prima al carcere minorile Beccaria, poi al San Vittore. “Le comunità terapeutiche in Italia per minori sono tutte piene, tutte. Da nord a sud non ci sono posti. Sono tutte piene. Ci sono delle lunghe liste d’attesa. Non esistono sostanzialmente dei criteri applicabili che possano permettere un ingresso prioritario di alcune situazioni rispetto ad altre”. Le indagini sulla morte di Youssef sono tuttora in corso. Non si esclude al momento che il rogo divampato al San Vittore possa essere stato appiccato in un atto di protesta dei detenuti poi degenerato in tragedia. Protesta che chiede anche la fine dei tanti minori non accompagnati lasciati spesso allo sbando una volta giunti in Italia. “Evidentemente abbiamo due ordini di problema. Il primo è una carenza di strutture. Ma il secondo, che direi forse ben più grave, è che c’è un disagio minorile in questo momento storico nel nostro paese, un disagio adolescenziale, di tipo psicologico-psichiatrico, crescente”. E il problema naturalmente non riguarda solo istituti minorili ma anche le carceri per adulti sovraffollate che raccontano della profonda crisi in cui versa il sistema penitenziario. Da gennaio 70 sono stati i suicidi, 104 i decessi tra le persone detenute, 7 i suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria. “Abbiamo suggerito di intervenire anche più incisivamente sulla liberazione anticipata. Perché disegni di legge già esistenti, che alle persone meritevoli riconoscono questo beneficio, a nostro avviso è sicuramente un modo per riportare immediatamente sollievo”. Detenuti nei cantieri del sisma: così “ricostruiamo” persone di Igor Traboni Avvenire, 11 settembre 2024 Protocollo d’intesa per il rifacimento di edifici e luoghi di culto. Nordio: la certezza della pena non deve mai essere crudele. Zuppi: un buon esempio per riuscire a dare speranza. Speranza: è questo il termine risuonato più volte nella conferenza stampa che ha preceduto la firma del Protocollo per l’impiego di detenuti nella ricostruzione post sisma del 2016. “Un buon esempio per riuscire a dare speranza” ai detenuti e, più in generale, ad un sistema carcerario “che ci riguarda tutti. E tutti dobbiamo contribuire anche alla “ricostruzione” delle persone”, come ha rimarcato il presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi. Quella speranza che, per quanto riguarda il tassello della certezza della pena, “va coniugata anche con il senso etico e cristiano e mai deve essere crudele”, come ha sottolineato dal canto suo il ministro della Giustizia Carlo Nordio. E ancora, la “spem” contenuta anche nel motto della Polizia penitenziaria, come ha ricordato Lina Di Domenico, vice capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Una speranza che si traduce dunque in opportunità lavorativa e di reinserimento sociale per centinaia di detenuti (spetterà al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, in accordo con la magistratura di sorveglianza, individuare quelli in possesso dei requisiti di idoneità per lo svolgimento del lavoro all’esterno, sia uomini che donne ma non minori) ospiti di 35 carceri presenti nelle zone del terremoto 2016 tra Lazio, Abruzzo, Marche e Umbria. “L’esperienza ci dimostra che quando una persona apprende un lavoro in carcere, e poi viene liberata, la recidiva è minore”, ha detto il ministro Nordio, auspicando, come gli altri intervenuti, che si arrivi poi alla recidiva zero. “Il lavoro nell’espiazione della pena è uno degli elementi che deflaziona non solo il sovraffollamento, ma anche la tensione nel carcere ed è un elemento che stiamo fortemente perseguendo, insieme a quello dello sport. In questo caso, c’è il valore aggiunto che un detenuto possa contribuire a riedificare un luogo di culto. E la mia aspirazione è che queste persone possano poi a loro volta fare da guida ad altri detenuti”, ha concluso Nordio. Per il cardinale Matteo Zuppi “questo protocollo ha una doppia valenza: da una parte dà la possibilità ai detenuti di lavorare, restituendo loro dignità e aprendo orizzonti di futuro. È significativo che questa rinascita parta proprio dai cantieri della ricostruzione, in territori feriti ma desiderosi di ricominciare. Dall’altra parte, ricorda che il carcere è per la rieducazione e la riparazione, mai solo punitivo. In questo senso, le pene alternative aiutano a garantire umanità e a favorire il reinserimento nella società. Ed è commovente quando la ricostruzione porta a riparare dei luoghi, rendendoli anche più belli”. Quella della ricostruzione, ha evidenziato il commissario straordinario di Governo per il sisma 2015, Guido Castelli, “è un’opera complessa, che include anche una strategia di rilancio economico e sociale delle comunità dell’Appennino centrale. Dopo le prime “false partenze” finalmente siamo riusciti ad imprimere un cambio di passo. I cantieri privati fino ad oggi autorizzati sono stati oltre 20mila e, di questi, sono più della metà quelli già conclusi”. Castelli ha quindi elogiato, prendendo in prestito un termine ecclesiale molto d’attualità, la “sinodalità tra gli attori in campo” ed ha anticipato la previsione di aprire 1.200 cantieri nel 2025 “e se in ogni cantiere facessimo lavorare 1 o 2 detenuti, il conto è presto fatto”. La firma al Protocollo è stata apposta anche dal presidente facente funzioni dell’Anci, Roberto Pella (“è un passo decisivo per ricucire lo “strappo” tra le persone detenute e la società”) e dal presidente nazionale dell’Ance, Federica Brancaccio (“è anche un aiuto alle imprese a fronteggiare la carenza di manodopera”) presenti anche il vice ministro, Francesco Paolo Sisto e i sottosegretari alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove e Andrea Ostellari. Ddl Sicurezza alla Camera. Maggioranza spaccata, Governo senza pareri di Giuliano Santoro Il Manifesto, 11 settembre 2024 È cominciata tra le polemiche e il duello a colpi di regolamento la discussione generale sul Ddl sicurezza. La battaglia procedurale riguarda questioni politiche, i cavilli evocano contraddizioni che emergono alla prima seduta dopo la pausa estiva. Una volta che la maggioranza ha respinto le pregiudiziali di costituzionalità si sarebbe dovuto passare alla votazione sugli emendamenti, ma si è appreso che in molti casi il governo non si è espresso. Proteste dalle opposizioni, secondo le quali in questo caso non si poteva procedere con la votazione. Il vicepresidente di turno della Camera, Fabio Rampelli, ha deciso che l’esame degli emendamenti sarebbe proseguito sui testi su cui è arrivato il parere. A questo punto, il dem Federico Fornaro ha chiesto di sapere “se il governo ha un’idea di quando completerà i pareri”. La capogruppo del Pd Chiara Braga ha fatto notare che i pareri della commissione bilancio sono stati dati solo fino all’articolo 14, prima degli emendamenti all’articolo 15, cioè quelli sul carcere delle detenute madri su cui Forza Italia ha rotto le righe ha depositando una richiesta di modifica. Proprio la commissione bilancio ha tolto le castagne dal fuoco alla maggioranza sullo Ius scholae dando parere negativo agli emendamenti che riguardano la cittadinanza. “Il governo non è in grado di dare pareri agli emendamenti perché non ha ancora sciolto i tanti nodi politici che riguardano numerose norme contenute nel Ddl sicurezza - ha sostenuto Braga - Su molti temi la maggioranza è profondamente spaccata, a partire dalle norme sulle detenute madri”. Le opposizioni valutano anche di chiedere lo scrutinio segreto per alcuni emendamenti. Secondo il regolamento le votazioni “sono effettuate a scrutinio segreto le votazioni riguardanti le persone, nonché quelle che incidono sui principi e sui diritti di libertà, sui diritti della famiglia e sui diritti della persona umana”. “Il Ddl sicurezza è tra i peggiori testi legislativi scritti dalla destra, pretende di far votare la Camera senza i necessari pareri del governo e della commissione bilancio sui singoli emendamenti. Fanno solo ciò che conviene a loro, stravolgendo ogni regola”, aggiungono i capigruppo di Alleanza verdi sinistra nelle commissioni affari costituzionali e giustizia Filiberto Zaratti e Devis Dori. Proseguono anche le polemiche sulla cannabis light: di fronte alle proteste di operatori del settore, associazioni di categoria, consumatori e giuristi, il Dipartimento politiche antidroga della presidenza del consiglio ha sentito il bisogno di specificare che la nuova norma perseguirebbe i “cannabis shop” (i negozi che vendono infiorescenze con bassissimo principio attivo) ma non colpirebbe direttamente la filiera agricola del prodotto. Intanto, i promotori della campagna “Liberi di Lottare: fermiamo il Ddl 1660” manifestavano a Napoli, in piazza del Plebiscio. “Il Ddl mette sullo stesso piano qualsiasi forma di resistenza anche passiva di fronte alla repressione”. Alla campagna hanno aderito, tra tanti, gli ecoattivisti di Ultima generazione, i lavoratori della logistica del SiCobas, diversi movimenti per il diritto alla casa e il movimento No Tav. L’esame a Montecitorio riprende questa mattina, ancora dagli emendamenti. “No ai bimbi in cella”, FI insiste. Lega e FdI: “Ritirate la modifica” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 settembre 2024 Ddl Sicurezza, il via libera slitta ancora. I deputati di Tajani pronti a convergere con le opposizioni. È iniziata ieri mattina, per poi proseguire nel pomeriggio, nell’Aula della Camera, la discussione sul ddl Sicurezza, preceduta dall’illustrazione dei 38 articoli da parte dei quattro relatori, due della commissione Affari costituzionali, due della commissione Giustizia. Come anticipato, la distanza tra maggioranza e opposizioni è siderale, ça va sans dire. Ma a non essere scontata è la linea che terrà Forza Italia sulla questione delle detenute-madri. Gli azzurri sia a luglio che due giorni fa avevano annunciato di voler presentare un emendamento, rispetto al testo arrivato nell’emiciclo, che ripristina il differimento obbligatorio della pena per le madri di neonati (almeno per quelli di età fino ai 12 mesi), “in modo che nessun bambino debba passare i primi mesi dietro le sbarre”. Lega e Fratelli d’Italia difendono invece l’attuale formulazione del testo, che rende facoltativo, per il giudice, il differimento della pena per le madri di bambini fino a 3 anni. Alla fine Forza Italia ha presentato il proprio emendamento. Ma ora gli alleati “intimano” di ritirarlo. L’iniziativa è stata difesa ieri in Aula da Tommaso Calderone, capogruppo azzurro in commissione Giustizia. La partita è nelle mani dei leader del centrodestra. A decidere non saranno solo i capigruppo a Montecitorio. L’ultima parola spetta a Tajani, Salvini e Meloni. Il partito di Berlusconi sarebbe intenzionato ad andare avanti, e almeno in astratto non esclude di votare la propria modifica “in solitudine”, dunque a costo di convergere con il centrosinistra. Gli azzurri potrebbero ripensarci qualora Lega e Fratelli d’Italia “minacciassero” una crisi di maggioranza. E per dirimere la matassa si potrebbe trovare un modo per far slittare il voto finale alla prossima settimana. Al momento Meloni sembra non aver ancora espresso un suo parere definitivo. Certo, sarebbe davvero incredibile se si arrivasse a mettere in pericolo la stabilità del governo per un problema riguardante il carcere, ma soprattutto per “punire” le donne rom. Vedremo cosa accadrà nelle prossime ore. C’è comunque da registrare che Forza Italia ieri è stata tirata più volte in ballo dalle opposizioni. Il provvedimento “è una sorta di autobus su cui il governo e la sua maggioranza hanno caricato molti elementi, taluni discutibili e altri, via via che l’iter referente si è sviluppato, decisamente pericolosi. Una serie di bestialità elettorali che dovrebbero far impallidire chi in quest’aula, tra i banchi della maggioranza, si definisce garantista”, ha il detto per esempio il deputato di + Europa Riccardo Magi, riferendosi chiaramente agli azzurri. Critiche analoghe da Roberto Giachetti, di Italia viva: “Adesso vedremo cosa accadrà con Forza Italia sul tema delle madri detenute. Ma sarei anche curioso di sapere, tanto per citare una norma, cosa farà la stessa FI, che per tutta l’estate ci ha spiegato quanto fosse importante lo Ius scholae e che, nella distinzione di un approccio liberale rispetto alla Lega, non voterà un emendamento sullo Ius scholae (presentato in primis da Azione, che recepisce la proposta ipotizzata dagli azzurri in vista di un provvedimento a parte, ndr) perché loro presenteranno un proposta ad hoc sul tema, che sarà discussa tra 56 anni”. Comunque ieri l’aula della Camera ha respinto le pregiudiziali di costituzionalità presentate dalle opposizioni. I voti contrari sono stati 186, i favorevoli 132. Poi le opposizioni hanno chiesto di rinviare il voto sugli emendamenti perché nel Comitato dei Nove era emerso che il governo aveva espresso il parere solo su quelli relativi agli articoli da 1 a 10, mentre la commissione Bilancio solo su quelli da 1 a 14. “Il governo non è in grado di dare pareri agli emendamenti perché non ha ancora sciolto i tanti nodi politici che riguardano numerose norme contenute nel ddl Sicurezza. Su molti temi la maggioranza è profondamente spaccata, a partire dalle detenute madri” ha dichiarato in Aula la capogruppo Pd Chiara Braga. La dem ha definito il provvedimento “pessimo: introduce norme liberticide che colpiscono le libertà individuali e collettive e attaccano il dissenso violentando il codice penale”. “Il ddl - ha invece detto il deputato M5S Federico Cafiero De Raho - ha un unico filo conduttore: la repressione del dissenso e del disagio. Ciò dimostra un’evidente incapacità del governo nel gestire problematiche di tipo sociale, anche a causa della mancanza di volontà di investire risorse per risolverle. Si introducono nuovi reati o si inaspriscono le pene verso quei comportamenti che si riscontrano, soprattutto, in ambienti di povertà, di disagio, di emarginazione, di degrado sociale. Ambienti che avrebbero bisogno di politiche di sostegno e di inclusione”. La discussione riprenderà stamattina alle 9.30: le opposizioni valutano la possibilità, prevista dal regolamento dalla Camera all’articolo 49, di richiedere una serie di voti segreti sul ddl, in particolare sugli emendamenti riguardanti le carceri, la cannabis e le detenute madri. Votare col centrosinistra non è più un tabù: la rivoluzione azzurra sui diritti sconvolge gli alleati di Errico Novi Il Dubbio, 11 settembre 2024 Nei primi due anni di legislatura, i berlusconiani hanno tenuto il punto su materie come le intercettazioni che non “scaldavano” Pd e 5S. Ma sui diritti cambia tutto. A uno sguardo sbrigativo, non sembra che sia cambiato molto. Nel corso della legislatura, a Forza Italia era già capitato di tirare dritto sul garantismo, anche a dispetto delle ritrosie di FdI e Lega. Valga per tutti il caso, sempre sottovalutato, delle intercettazioni: giusto un anno fa gli azzurri non si arresero, quando gli alleati, Carroccio in testa, li “invitarono” ad accantonare gli emendamenti “anti Bonafede” al decreto 105, il provvedimento nato per estendere le norme antimafia sugli “ascolti” ai reati commessi in ambito non associativo. Ecco, il drappello dei deputati-avvocati forzisti che presidia la commissione Giustizia di Montecitorio tenne il punto ed ebbe ragione su quasi tutta la linea, a cominciare dai limiti sulle intercettazioni a strascico. Cosa c’è di nuovo allora, sul piano politico, dietro la proposta azzurra sulle madri condannate ma con figli neonati? Che stavolta il campo d’azione non è semplicemente il garantismo di matrice processual- penalistica, prospettiva che alla Lega, oltre che ai meloniani, non è poi così estranea (basti pensare alla battaglia condotta due anni fa dal Carroccio, insieme col Partito radicale, per i referendum sulla giustizia). Adesso in gioco c’è la materia dei diritti universalmente intesi, dal carcere ai migranti. E su un terreno del genere gli equilibri sono completamente diversi. Non foss’altro perché mentre su intercettazioni e garanzie processuali il più delle volte non c’è alcuna reale convergenza tra azzurri e opposizione, quando si tratta di diritti delle minoranze o delle fasce marginali quella saldatura diventa possibile. Stavolta, nel caso delle madri detenute, o dello Ius scholae, si tratta di diritti delle minoranze. E a volte, di minoranze come i rom, che rischiano di essere lo specifico bersaglio di alcune norme del ddl Sicurezza. È così per l’articolo della legge in queste ore all’esame della Camera che cancella l’obbligo di differire la pena per le donne con figli piccoli, di 3 anni o meno. Come riferito in queste pagine, e anticipato già sul Dubbio di ieri, l’emendamento di Forza Italia ripristina l’obbligo, per il giudice, di evitare la detenzione almeno per le condannate che abbiano figli neonati fino a 12 mesi di età. Rettifica che riguarda certamente le donne senza precedenti, e che invece si limita a prescrivere una particolare valutazione del giudice se si tratta di “recidiva”. Persino per le madri che hanno già altre condanne alle spalle, però, la discrezionalità del magistrato, secondo Forza Italia, deve avere un limite: si dovrà valutare, riguardo al differimento della pena, se la condizione familiare sia così degradata che - nella prospettiva del supremo interesse del minore - la vita fuori dal carcere pregiudicherebbe “l’integrità psico-fisica” del piccolo ancor più della detenzione. Qualora prevalga, da parte del giudice, una così estrema considerazione, madre e figlio dovrebbero essere comunque destinati a un “istituto a custodia attenuata”. La modifica proposta dai deputati azzurri (in particolare da Paolo Emilio Russo, Annarita Patriarca e Rita Dalla Chiesa) non stravolge l’impostazione del ddl Sicurezza: la “addolcisce”. La tutela riguarda solo i bimbi piccolissimi. Già dopo il primo anno di età, la prospettiva di crescere reclusi con la mamma resterebbe. Resta il fatto che alla Lega e, seppur con un atteggiamento di minor chiusura, a FdI, la linea azzurra non piace. Ma come detto, il quadro è politicamente nuovo. Cambia l’oggetto, la materia. I diritti e non semplicemente il processo penale. Ma cambia pure il rapporto di forza. O meglio il punto di tenuta. In casi come la ricordata trattativa condotta un anno fa, dai berlusconiani, sulle intercettazioni, l’idea di tirare dritto e contare magari sui voti del centrosinistra era esclusa. Ora invece la si considera. Ecco perché il confronto è assai più teso. Forza Italia, Antonio Tajani in testa, si batte, anche al di fuori dell’emiciclo di Montecitorio, per convincere gli alleati a non porre veti assoluti sulle madri detenute. In astratto, la sfida in solitudine è una possibilità. Vorrebbe dire, per gli azzurri, votare l’emendamento insieme con il centrosinistra. Ipotesi remota ma non del tutto irrealistica. E intanto Forza Italia un risultato lo porta a casa: ha indirettamente costretto la Lega a tenere da parte, almeno per ora, l’emendamento ventilato dal sottosegretario all’Interno Nicola Molteni come “rilancio” contro l’idea degli azzurri sullo Ius scholae: la norma leghista revocherebbe immediatamente la cittadinanza italiana alle persone di origine straniera che commettono reati. Ma appunto, non è stata presentata come modifica al ddl Sicurezza, cosa che Molteni, fino a un paio di giorni fa, pure aveva “minacciato” di fare. Si deve aggiungere un ultimo aspetto. Scontato, ma fino a un certo punto. Nel primo anno e mezzo di legislatura, FI non ha avuto la forza politica di “minacciare” strappi. Al massimo poteva insistere su aspetti strettamente tecnico- giuridici. Ora quel potere contrattuale Tajani e i suoi lo hanno eccome: è assicurato dalla percentuale ottenuta alle Europee, dal sorpasso sulla Lega. È una condizione che consente agli azzurri di andare in mare aperto. Anche perché, dopo la morte di Silvio Berlusconi, la cassa del partito è nelle mani dei figli, di Marina e Piersilvio in particolare. Pronti a navigare lungo una rotta non sovrapponibile a quella del padre. E a sollecitare Forza Italia affinché interpreti il ruolo di partito moderato del centrodestra in una chiave più moderna, più laica, più autonoma. Non è cambiato semplicemente qualcosa: è cambiato moltissimo. È evidente. A non essere facilmente misurabile è lo sconquasso che una simile ridefinizione degli equilibri può provocare nel governo di Giorgia Meloni. Perché ogni bambino nasca in libertà, no al Ddl Sicurezza di Grazia Zuffa Il Manifesto, 11 settembre 2024 Lo scandalo dei “bambini dietro le sbarre” è argomento di dibattito almeno da un quarto di secolo. Quando nel 2001 fu approvata la legge Finocchiaro (“Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto fra detenute e figli minori”), i bambini in carcere con meno di tre anni erano 83, il picco più alto, e le madri detenute erano 79. Sebbene i numeri siano andati scemando, quella legge mirata non ha risolto del tutto il problema. E neppure ci è riuscita la successiva legge 62 del 2011, che si è limitata a introdurre istituti di detenzione specifici, gli Icam. Si potrebbe discutere se sia meglio insistere sulla via di leggi mirate, oppure se cambiare prospettiva e vedere i bambini imprigionati come la punta di iceberg di un altro scandalo, quello del carcere come discarica sociale, per trovare un’altra risposta. La detenzione delle donne - in larghissima maggioranza autrici di reati minori non violenti - è parte significativa della “detenzione sociale”: persone che non dovrebbero essere punite con la reclusione. La prigione delle donne potrebbe essere un volano di riforma, se si decidesse di partire da lì per svuotare il carcere verso misure alternative nella comunità territoriale, più congrue con un’idea di pena orientata alla reintegrazione sociale. Vedrebbe così la fine anche la vergogna dei bambini reclusi. Oggi, grazie alla destra di governo, lo scandalo rischia di aggravarsi: il Ddl “sicurezza”, che sarà votato dalla Camera in queste ore, rende possibile che i bambini nascano in carcere. Il provvedimento elimina il rinvio obbligatorio della pena per le donne incinte: la donna deve perciò richiederlo e la sua domanda potrà essere respinta laddove si ritenga che possa commettere ulteriori reati. In parole povere: le supposte colpe delle madri hanno a ricadere sui figli, che saranno defraudati del diritto - di tutti e tutte- a nascere in libertà. Siamo perfino oltre il codice Rocco: prova della furia ideologica punitiva contro le donne che hanno commesso reati, del disprezzo dei diritti fondamentali, della volontà di calpestare il principio di uguaglianza. Il sessismo bene si sposa col razzismo. In parlamento la maggioranza non si è fatta scrupolo di nascondere che la norma è stata ritagliata sulle donne Rom. Io stessa ho ascoltato una parlamentare sostenere che tenere le donne Rom in carcere serve a salvarle dagli abusi che subiscono nei campi. La filosofia del “salvare chi non vuole essere salvato/a a costo di rinchiuderlo/ a” è sinistramente ben nota: fa una certa impressione sentirla risuonare nelle aule delle istituzioni. Non è la prima volta che la destra si accanisce contro le madri detenute: nel 2023, nel corso di una discussione alla Camera finalizzata di nuovo ad eliminare il suddetto scandalo dei “bambini dietro le sbarre”, esponenti della maggioranza non trovarono di meglio che bloccare l’iniziativa, rilanciando la proposta di togliere la potestà genitoriale (da loro nominata “patria potestà”, con un significativo tuffo nel passato) alle donne condannate con sentenza definitiva. Oggi come ieri, dietro l’aggressione alle donne e ai loro diritti, si intravede il più vieto immaginario patriarcale. Nel 2023, vi fu una reazione forte di ribellione all’attacco, con la campagna Madri Fuori: dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini e bambine. Molte associazioni, volontarie/i del carcere, garanti dei detenuti, donne delle istituzioni aderirono alla campagna e visitarono le detenute, per portare loro solidarietà. Oggi, in vista della votazione alla Camera del Ddl sicurezza, Madri Fuori è di nuovo in campo con un appello: No al carcere per le donne incinte: ogni bambino e ogni bambina hanno il diritto di nascere in libertà. Più di un centinaio di firme di associazioni e di singole/i cittadini è stato raccolto in pochi giorni. Chiediamo che ancora molte/i firmino, per bloccare una norma incivile. L’appello è su www.societadellaragione.it. Inviare le adesioni a info@societadellaragione.it La voce delle spelonche di Michele Serra La Repubblica, 11 settembre 2024 Che la signora di Viareggio che schiaccia il borseggiatore con la sua macchina (non si uccidono così anche le lumache?) abbia i suoi fan in rete, non è una notizia. Ce li ha anche in Parlamento, dove siedono, eletti con milioni di voti, fautori della giustizia privata, più spiccia a risolutiva (non c’è appello). La giustizia sommaria, il “butta via la chiave”, le mute di linciatori che braccano il delinquente o il reietto come una preda, le folle che applaudono le esecuzioni: esistono da sempre. L’eliminazione fisica dei delinquenti fa parte da sempre del bouquet, fortunatamente vasto e vario, dei sentimenti popolari. Nei Promessi Sposi la folla inferocita, e istupidita dall’ignoranza, è una presenza tenebrosa ma inevitabile, una specie di malattia congenita dell’agire umano. I social, che sono la piazza più grande mai vista al mondo, non possono che riprodurre, anche per la legge dei grandi numeri, quel genere di ferinità a costo zero: strillare “ammazzalo!” nel coro, nel tumulto mosso dall’emotività, non rimette ciascuno alla propria coscienza, semmai la diluisce nella folla. Sbagliamo, forse, a registrare con eccessivo sgomento queste forme, antichissime, di ferocia sociale. Dovrebbero fare notizia, semmai, la pietà per il ladro ucciso così furiosamente, le parole di chi si richiama alla legge, al diritto, ai modi che la civilizzazione si è data per affrontare il crimine. Che siano pochi o tanti - io credo non così pochi - sono la parte di umanità che ha capito di essere uscita dalle spelonche, e conta di non farvi ritorno. La voce delle spelonche va considerata un problema importante (anch’essa da affrontare nel pacchetto: “lotta al crimine”). Ma non è il caso di amplificarla. Abuso d’ufficio, Nordio “boccia” l’assalto di Bibbiano: “Istanza inammissibile” di Simona Musco Il Dubbio, 11 settembre 2024 La pm del processo sui presunti affidi illeciti ha sollevato la questione di legittimità sull’abolizione del reato. La replica: “Come si fa a pensare che una norma che abolisce un reato sia incostituzionale?”. L’istanza della pm di Bibbiano contro l’abuso d’ufficio? “Inammissibile”, parola di Carlo Nordio. Il ministro della Giustizia ha replicato così al pubblico ministero Valentina Salvi e al procuratore di Reggio Emilia, Gaetano Paci, che lunedì hanno depositato una memoria sollevando la questione di legittimità sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio, chiedendo che la stessa venga valutata dalla Corte costituzionale. Una posizione subito contestata dalle difese, che hanno citato il codice penale e la Costituzione come base per opporsi a tale richiesta. Un’interpretazione che coincide con quella del ministro, il cui nome campeggia sul frontespizio del ddl che ha cancellato l’articolo 323 del codice penale. “Penso proprio che sarà dichiarata inammissibile”, ha dichiarato il guardasigilli a margine di una conferenza stampa a via Arenula. “Da modesto costituzionalista credo che sia una bella pensata - ha sottolineato -, perché come si fa a pensare che una norma che abolisce un reato sia incostituzionale? Se paradossalmente fosse eliminata questa norma, che cosa fai? Fai rivivere un reato che è stato abolito da una norma di legge? L’incostituzionalità di una norma che abolisce un reato è una contraddizione “in adiecto”, perché anche se paradossalmente fosse accolta dalla Corte, una volta eliminato il reato non può rivivere a seguito di una sentenza della Corte costituzionale. Sarebbe una retroattività della legge penale che è inammissibile dalla stessa Costituzione”. Insomma, la stessa linea tracciata in aula dagli avvocati Giovanni Tarquini, difensore dell’ex sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, e Oliviero Mazza, difensore, insieme a Rossella Ognibene, dell’ex responsabile del servizio sociale della Val d’Enza, Federica Anghinolfi. Carletti, in particolare, è a processo per un solo capo d’imputazione, un presunto abuso d’ufficio relativo all’affidamento del servizio di psicoterapia per i minori da parte dei Comuni della Val d’Enza alla onlus “Hansel & Gretel” di Claudio Foti, lo psicoterapeuta già assolto in abbreviato in via definitiva anche per questo reato. E sono quattro, in totale, i capi d’accusa sull’abuso d’ufficio, che ora potrebbero sparire dal processo. Durante l’udienza di lunedì, come raccontato dal Dubbio, la pm ha sollevato dubbi su un possibile contrasto dell’abrogazione dell’articolo 323 del codice penale con l’articolo 3 della Costituzione, che sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, con l’articolo 24, in quanto lascerebbe i cittadini privi di tutela di fronte alle condotte abusive dei pubblici ufficiali, e con l’articolo 117, secondo cui la potestà legislativa deve rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Il collegio si pronuncerà il 16 settembre, partendo innanzitutto dal valutare la rilevanza della questione nel “processo Bibbiano”. Rilevanza che, secondo le difese, è da escludere. Ciò, ha sottolineato Tarquini, sulla base degli articoli 2, comma 2 del codice penale, e 25, comma 2 della Costituzione. Il primo, infatti, in ragione della successione della legge penale nel tempo, stabilisce che se un fatto non è più previsto come reato, cessa l’esecuzione ed ogni effetto penale della condanna. Il secondo, invece, stabilisce che nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. “La Corte costituzionale non potrà mai adottare una sentenza di accoglimento della questione di legittimità che finirebbe per applicare retroattivamente una norma più sfavorevole, determinata dalla stessa Corte costituzionale”, ha spiegato in aula Mazza. L’unico precedente di reviviscenza di una norma abrogata è la sentenza numero 5 del 2014, che ha riportato in vita la fattispecie della “associazione paramilitare”. Ma quella sentenza non stabiliva un contrasto costituzionale in merito al contenuto della norma, ma sanciva un eccesso di delega che ha reso illegittima la cancellazione del reato. Ciononostante, la Corte di Cassazione, nel 2016, ha applicato proprio l’articolo 2, comma 2 del codice penale, “salvando” dunque gli effetti più favorevoli che nel frattempo erano scaturiti dall’abrogazione di quella norma. Un eventuale accoglimento da parte della Consulta, dunque, introdurrebbe una retroattività sfavorevole. Cosa che, sottolineano le difese, non è possibile: la Corte costituzionale, infatti, non avrebbe questo potere, essendo la materia coperta da riserva assoluta di legge; inoltre, qualora anche accadesse, la sentenza non potrebbe avere gli effetti tipici retroattivi, perché entrerebbe in contrasto con l’articolo 25, comma 2 della stessa Costituzione. Da qui la richiesta, da parte degli avvocati, di inammissibilità dell’istanza, in quanto la questione sarebbe irrilevante nel procedimento, nonché manifestamente infondata, in quanto la norma che abroga l’abuso non è incostituzionale. Ultima questione quella relativa all’articolo 117, sul quale Nordio ha già da tempo fornito rassicurazioni: dopo un confronto con il Consiglio Ue, infatti, si è raggiunto un compromesso con l’introduzione del peculato per distrazione. Una nuova norma che metterebbe l’Italia al riparo, almeno in linea di principio, da una ipotetica procedura d’infrazione. Sto con i direttori della Giustizia che protestano: abolirli sarebbe un altro grave errore di Andrea Viola* Il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2024 In Italia quando si parla di giustizia spesso si pensa solamente al ruolo dei magistrati e degli avvocati. Esiste, invece, un apparato fondamentale per il corretto funzionamento del sistema giudiziario, ossia i cosiddetti “direttori della Giustizia”. I Direttori hanno un ruolo fondamentale di coordinamento e direzione dell’attività di cancelleria e quindi di tutti coloro che operano negli uffici amministrativi all’interno dei tribunali e nella amministrazione centrale. Essi, dal punto di vista dell’inquadramento professionale, sono i quadri della amministrazione giudiziaria e svolgono, altresì, un importante e concreto ruolo di cerniera tra i magistrati e il personale di cancelleria. Spesso svolgono anche le funzioni vicarie dei vari dirigenti assenti o mancanti nei tribunali. In Italia i direttori sono circa 1670. Un numero di professionalità molto importante e fortemente preparato: sono la vera macchina operativa dei tribunali. E come sappiamo, per chi è del settore e per coloro che spesso hanno a che fare con i tribunali italiani, i problemi da risolvere nel settore Giustizia sono molti ma di certo non dovrebbero riguardare il taglio o l’eliminazione delle figure professionali fondamentali come i direttori di Giustizia. Ed invece, è notizia di questi giorni che il Ministero della Giustizia voglia mettere mano a questo fondamentale settore. Per tale motivo, in attesa che il Ministero della Giustizia voglia illustrare concretamente le sue eventuali nuove proposte nella trattativa per il rinnovo del contratto collettivo nazionale integrativo, i direttori non desistono dalla loro protesta ed anzi la rilanciano scendendo in piazza. Dando corpo al proclamato stato di agitazione, il Coordinamento Nazionale Direttori della Giustizia ha organizzato a Roma per martedì 10 settembre una manifestazione nazionale, in Piazza Cavour davanti al luogo più rappresentativo della giustizia italiana, la Corte di Cassazione. A tale manifestazione hanno già aderito e parteciperanno centinaia di direttori in servizio negli uffici giudiziari italiani. I direttori scenderanno in Piazza per chiedere il loro inquadramento nell’Area delle Elevate Professionalità, con la piena salvaguardia in ogni caso delle mansioni finora svolte, come delineate dal D.M. Giustizia del 9 novembre 2017. E’ stato anche promosso il tentativo di conciliazione presso il Ministero del Lavoro preliminare alla proclamazione dello sciopero della categoria. Il profilo professionale del direttore risponde già pienamente ai requisiti per l’inquadramento nell’Area delle Elevate Professionalità, come previsto dal Ccnl Comparto Funzioni Centrali. Tale area è stata creata appositamente per accogliere le figure di quadri, una categoria imprescindibile che funge da cerniera tra i dirigenti e il resto del personale. Il direttore, infatti, è l’unico profilo a cui il decreto ministeriale attribuisce funzioni di vicariato del dirigente, direzione, coordinamento, formazione del personale, studio e ricerca, attività ispettiva e didattica, e in generale, attività ad elevato contenuto specialistico. Il Coordinamento ha fatto, altresì, sapere che, in conformità con il Ccnl, l’accesso all’Area delle Elevate Professionalità richiede il possesso di una laurea magistrale, requisito che tutti i direttori attualmente in servizio possiedono, a differenza dell’Area Funzionari per la quale è sufficiente una laurea triennale. A quanto si è appreso in data odierna era previsto un incontro tra il Coordinamento e il Ministero ma è miseramente fallito. Insomma, ci risiamo. Si mette mano a pezzi importanti del sistema giudiziario italiano ma in maniera sbagliata ed errata. Le riforme non possono sempre riguardare tagli indiscriminati e senza senso. L’elevata professionalità e soprattutto il fondamentale ruolo del coordinamento delle cancellerie è indispensabile per l’efficienza dei tribunali. Come è fondamentale il ruolo di cerniera fra magistrati, cancellerie e anche avvocati. I direttori conoscono a pieno i problemi concreti e reali dei singoli Uffici di Giustizia in Italia. Voler eliminare tale figura sarebbe un altro grave errore che andrà a rallentare la funzionalità e operatività dei tribunali italiani. Occorre, invece, invertire la rotta e riconoscere loro il giusto inquadramento professionale. Bisogna investire sulla competenza e la professionalità soprattutto nel settore emblematico della giustizia. Una giustizia che funziona è indispensabile per uno Stato di Diritto. Per questo è doveroso sostenere la giusta protesta dei direttori di Giustizia. Una protesta nell’interesse collettivo e di un sistema forse poco conosciuto ma che riguarda tutti noi. Confidiamo che il ministro, già magistrato, voglia ascoltare la voce dei direttori e dare loro la giusta attenzione e merito. Diversamente sarebbe l’ennesima riforma che invece di aiutare i cittadini e gli utenti del sistema giustizia li danneggerebbe. *Italia Viva Sardegna, avvocato e Consigliere comunale “Renato Vallanzasca soffre di demenza, non percepisce il senso della pena” di Frank Cimini L’Unità, 11 settembre 2024 Dopo 52 anni di galera, chiesto il trasferimento in Rsa. Presto la decisione, ma il sì del tribunale appare scontato. Insomma, sarebbe proprio giunta l’ora di finire di torturare Renato Vallanzasca dopo 52 anni di carcere. Il segnale molto chiaro arriva dal sostituto procuratore generale di Milano, Giuseppe Di Benedetto, che, davanti al tribunale di Sorveglianza, ha sposato la tesi dei difensori dell’ex re della Comasina: “Vallanzasca è malato, basta carcere”. Ai giudici il Pg chiede, associandosi al parere di avvocati e medici, il differimento della pena. Vallanzasca era presente in udienza accompagnato dal suo “angelo custode”. Secondo il magistrato della procura generale risulta accertata “la condizione di demenza e la sua conclamata incompatibilità con il carcere”. Vallanzasca da tempo è aiutato da due compagni di cella che lo assistono perché non risulta autosufficiente. Vanno modificate le condizioni di detenzione con un trasferimento nella struttura veneta che ha dato disponibilità ad accoglierlo per il tempo che verrà indicato dai giudici. Da gennaio dell’anno scorso erano iniziati i segnali di decadimento cognitivo che hanno portato gli avvocati difensori, Corrado Limentani e Paolo Muzzi, a rinnovare la richiesta di differire la pena. Vallanzasca da solo riesce a fare quasi niente, neanche ad esprimere un ragionamento compiuto. Si tratta chiaramente di una condizione incompatibile con il carcere che non è attrezzato a occuparsi di persone in quello stato. “Vallanzasca non è più in grado di percepire neppure la finalità della reclusione”, ha spiegato il Pg. E neanche il senso della pena. Gli avvocati hanno ricordato gli sforzi straordinari sostenuti dal carcere per gestire l’ex bandito. È proprio la detenzione che ha rappresentato un fattore peggiorativo delle sue condizioni cliniche, secondo quanto è stato certificato da più medici. “Una spirale verso il basso” è la drammatica sintesi. Una decina di giorni fa la difesa ha avuto il sì all’accoglienza da parte di una struttura in provincia di Padova che si occupa di persone affette da Alzheimer e rassicurazioni dalla vicina caserma dei carabinieri che può effettuare controlli. Secondo gli avvocati quella prospettata è l’unica alternativa al carcere. Vallanzasca non può essere considerato pericoloso, ha già usufruito di permessi premio e non ha alcun collegamento con la criminalità esterna. Vallanzasca ha assistito all’udienza in silenzio. Un volontario gli teneva la mano sulla spalla. La decisione del tribunale di Sorveglianza arriverà nei prossimi giorni ma non ci dovrebbero essere dubbi sull’esito. Mantenerlo ancora in carcere sarebbe una ingiustizia feroce. Carcere, trattamento inumano l’armadietto appeso al muro troppo in basso di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2024 Anche il mobilio pensile deve rispettare un’altezza per non limitare la libertà di movimento in cella. Dalla superfice a disposizione dei detenuti nella cella va detratto lo spazio occupato dai mobili pensili, se sono posti a un’altezza tale da ostacolare la libertà di movimento. La Cassazione, con la sentenza 34150, accoglie il ricorso contro il no del Tribunale di sorveglianza al risarcimento chiesto da un detenuto per trattamento inumano e degradante, subìto in vari istituti di pena. Nell’elenco c’erano i topi, la possibilità della doccia tre volte a settimana e lo spazio calpestabile, inferiore ai tre metri quadrati, previsti dalla giurisprudenza di Strasburgo, in linea con l’articolo 3 della Convenzione sui trattamenti inumani e degradanti. Quanto ai topi i giudici di sorveglianza avevano dato un peso alle campagne di derattizzazione fatte nel carcere, per la doccia c’erano dei turni e venivano distribuiti saponi e prodotti per l’igiene personale, mentre gli armadietti pensili erano distanziati dal pavimento e dunque non invadevano lo spazio calpestabile dal detenuto. La discrezionalità sul trasferimento dei detenuti - Una risposta che non soddisfa la Suprema corte. I giudici di legittimità, misure alla mano, ricordano che non solo lo spazio dei letti e degli arredi a terra va detratto dai metri utili, ma anche quello occupato dai mobili “appesi”. Nello specifico, gli armadietti fissi erano posti a 40 centimetri da terra quello lungo, e a 150 centimetri i tre piccoli: un’altezza in grado di limitare la libertà di movimento dei carcerati. Sbaglia dunque il Tribunale a lasciare intendere “che lo spazio proiettato al suolo da questi arredi non sarebbe mai detraibile dal calcolo - si legge nella sentenza - e che non sia quindi necessario verificare in concreto se l’area sottostante è, o meno, fruibile per il libero movimento”. Con la sentenza 34156, la Cassazione è rimasta sul tema carceri, respingendo però questa volta il ricorso di un detenuto contro il suo trasferimento dal Pescara a Viterbo. Un provvedimento adottato, a suo dire, perchè si era lamentato di una lungaggine burocratica, e giustificato invece dall’amministrazione penitenziaria con ragioni di sicurezza, per un’aggressione che il detenuto tunisino aveva subìto, in realtà, mesi prima. La Suprema corte ricorda comunque che il trasferimento, solo perché sgradito, non configura una lesione di un diritto soggettivo, e rientra nel margine di discrezionalità dell’amministrazione, per ragioni di organizzazione o sicurezza, per mettere in atto trattamenti rieducativi comuni, come per evitare influenze negative reciproche. Senza poter tuttavia sconfinare nell’arbitrio. Il cambio di istituto deve essere fatto, tranne impedimenti da documentare, nel rispetto del criterio di territorialità che regola anche l’assegnazione iniziale, per dare modo al detenuto di stare vicino alla famiglia o, se individuabile, ad un nucleo sociale di riferimento. Anche il detenuto, ricordano gli ermellini, ha diritto di chiedere un trasferimento, per motivi affettivi, di studio ecc, che dovranno essere valutati. Reato di tortura al branco che abitualmente umilia un invalido postando l’azione in rete di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2024 La condizione di minorata difesa sussiste se si approfitta dello stato di disagio e di sottomissione psicologica di una persona con disabilità fisica o mentale. Scatta il reato di tortura quando le condotte reiterate di sopraffazione, anche solo psicologica, contro la vittima posta in condizione di minorata difesa, determinano l’annichilimento dell’autodeterminazione del soggetto preso di mira. La condotta può realizzarsi non solo tipicamente con violenze e minacce, ma anche sottoponendo la vittima a trattamenti inumani e degradanti. Lo hanno affermato i giudici della Quinta sezione della Cassazione con la sentenza n. 34207 depositata il 10 settembre. Il caso e il ricorso respinto - Come nel caso risolto dalla Cassazione penale dove gli imputati si sono visti confermare le condanne per il reato previsto dall’articolo 613 bis del codice penale avendo più volte sottoposto a vessazioni invalidi fisici o mentali. Invalidità di cui gli autori approfittavano per sottoporre i soggetti deboli presi di mira a denigrazioni e restrizioni fisiche umilianti ordite, filmate e poi diffuse su social network. Di fatto un vero e proprio branco che poneva le vittime in uno stato di soggezione derivato dal trauma di essere stati derisi, umiliati e esposti a pubblica attenzione mentre subivano costrizioni fisiche e/o psichiche. Anche la sola paura ingenerata costituisce elemento del delitto di tortura ai fini della sussistenza dello stato di minorata difesa della vittima. Mentre il trauma psichico “verificabile”, richiesto dalla norma penale, che può essere una delle conseguenze del reato - al pari delle acute sofferenze fisiche - non deve integrare una vera e propria malattia qualificata, ma deve essere solo dimostrato che si è verificato e che non sussisteva prima di aver subito il delitto. Tutti gli imputati che ponevano in condizioni di soggezione o di derisione le proprie vittime, affette da stati di disagio, avevano cercato di sminuire le proprie condotte a banali scherzi e contestavano che tali comportamenti avessero rilevanza di tortura. Sostenevano infatti, che la norma italiana avrebbe erroneamente trasposto il divieto di rilievo internazionale nella previsione del reato di tortura di recente conio. Infatti, la Convenzione europea sui diritti dell’Uomo scinde tale divieto dall’autonoma norma internazionale che punisce la tortura. In particolare la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 34207/2024 - ha ribadito che la rilevanza, ai fini della contestazione del reato previsto dall’articolo 613 bis del codice penale, anche dei trattamenti inumani e degradanti per la dignità umana è scelta pienamente legittima da parte del Legislatore italiano. E anche se nella Cedu si tratta di categoria che viene distinta dalla tortura, intesa come sopraffazione perpetrata con volontà sadica attraverso minacce e abusi. La norma penale, quindi, non viola alcun canone costituzionale per aver ricompreso nella fattispecie della tortura, introdotta nel nostro ordinamento nel 2017, anche le condotte che coincidono con trattamenti inumani e degradanti. Tra questi ben può rientrare anche l’attività successiva di postare in rete le sopraffazioni inflitte deridendo le vittime riprese nei filmati. Il reato di tortura - La norma punisce chi - con violenze, minacce gravi o agendo con crudeltà - provoca acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza. Ma il reato non scatta solo quando vi sia di fatto abuso di una relazione di “fiducia” ma è sufficiente anche che la parte lesa si trovi comunque in condizioni di minorata difesa. Il reato è poi punito più gravemente quando è commesso da un pubblico ufficiale, che abusi dei propri poteri, o quando è perpetrato con più condotte o viene inflitto con un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Ovviamente se è sufficiente l’annichilimento psichico a far emergere la condizione di “persona torturata” le pene sono inasprite in caso siano cagionate lesioni personali, che attingono anche l’integrità fisica della vittima. L’inasprimento sanzionatorio arriva a trenta anni di carcere quanto involontariamente il torturatore cagioni la morte della persona in condizione di minorata difesa. Mentre scatta l’ergastolo per l’evento morte voluto e realizzato. Puglia. “Suicidi detenuti conseguenza del sovraffollamento e della carenza di terapia psicologica” foggiatoday.it, 11 settembre 2024 Il commento del presidente dell’Ordine degli psicologi, Antonio Di Gioia, che appoggia il parere dell’avvocato Scarciglia, presidente di Antigone: “I suicidi sono l’espressione di un’emergenza”. “La presidente di Antigone, l’avvocato Maria Pia Scarciglia, ha perfettamente ragione, le carceri sono sovraffollate e le ore di terapia psicologica sono troppo poche. Facile, in questo contesto, che maturino i suicidi”. Lo afferma il presidente dell’Ordine degli Psicologi della Puglia, Antonio di Gioia, in relazione alla denuncia dell’associazione Antigone. “I suicidi”, prosegue Di Gioia, “sono la più drammatica espressione di un’emergenza, si sta sostituendo l’ascolto dei detenuti con l’abuso di psicofarmaci. Oggi circa 600 psicologi, impegnati negli istituti penitenziari italiani, hanno a disposizione 30 minuti all’anno per ciascun detenuto: troppo pochi. Ci sono 20mila detenuti in esubero rispetto alla capienza degli istituti di detenzione e nonostante la crescita esponenziale non è stata rafforzata l’assistenza psicologica, anzi è stato ridotto l’orario di lavoro degli specialisti del settore. Come fa, allora, il carcere ad essere considerato un’istituzione in grado di riabilitare l’individuo da un punto di vista sociale e affettivo?”. Per il presidente degli psicologi pugliesi “il sovrannumero non solo impedisce ma ostacola il recupero esistenziale dei detenuti, nei contesti sovradimensionati si realizzano strategie di competizione e di apatia, non certo di cooperazione. Bisogna partire dalla prevenzione, che dovrebbe attivarsi in una fase iniziale in cui si stabilisce il rischio del suicidio e nei casi critici una presa in carico del detenuto”. “L’articolo 27 comma 3, della Costituzione”, ricorda Di Gioia, “afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, non al suo abbandono. Nel caso specifico, l’osservazione ha lo scopo di monitorare il comportamento del detenuto a contatto con la realtà penitenziaria per poter formulare poi un trattamento rieducativo personalizzato. C’è bisogno di un maggior numero di risorse per poter prevenire i suicidi, anche attraverso una formazione rivolta agli agenti di polizia penitenziaria”. Umbria. Mozione di Fora (Patto civico) sulle carceri rinviata in Commissione ansa.it, 11 settembre 2024 Chiesti approfondimenti sull’atto sulla situazione sanitaria. L’Aula di Palazzo Cesaroni ha deciso di rinviare in commissione per ulteriori approfondimenti la mozione promossa dal consigliere Andrea Fora (Patto civico) concernente la situazione sanitaria nelle carceri umbre. I consiglieri della Lega Valerio Mancini e Manuela Puletti hanno infatti chiesto che su un tema così delicato si proceda a un approfondimento in commissione con l’assessore alla Sanità e i rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria. L’atto - spiega un comunicato della Regione - mira ad impegnare la Giunta regionale a “intervenire tempestivamente, tramite l’Assessorato alla Sanità, con un controllo immediato in collaborazione con le Asl territoriali e i direttori degli Istituti penitenziari umbri, al fine di ripristinare le condizioni minime di accesso ai servizi sanitari da parte della popolazione detenuta; istituire con effetto immediato un tavolo di lavoro tra Assessorato alla Sanità, Asl territoriali, Provveditorato Toscana-Umbria dell’Amministrazione penitenziaria e Garante dei detenuti al fine di programmare gli interventi strutturali e organizzativi da sottoporre al ministero di Grazia e Giustizia, volti a ripristinare dotazioni organiche e condizioni logistiche; sollecitare l’Amministrazione centrale penitenziaria affinché provveda ad integrare le dotazioni organiche delle unità di polizia penitenziaria, del personale amministrativo ed educativo, anche alla luce del recente incremento dei fondi statali destinati al potenziamento del personale; attivarsi presso il Governo affinché attui le direttive della Convenzione di Strasburgo siglata nel 1983 che prevede il trasferimento senza previo consenso dei detenuti affinché scontino la pena nel loro Paese di origine; sollecitare l’Amministrazione centrale penitenziaria, attraverso il ministero, affinché vengano contenute le carcerazioni negli istituti regionali, già di molto superiori alla reale capienza”. Illustrando l’atto, Fora ha ribadito che “l’art. 27 della Costituzione sancisce al terzo comma che ‘le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’. Lo stesso tutela il detenuto dalla tortura e da trattamenti inumani o degradanti. La Costituzione italiana, quindi, sottolinea il concetto di rieducazione e riforma come scopo della pena. I detenuti hanno il diritto di essere trattati con rispetto e devono essere fornite opportunità concrete di rieducazione durante la detenzione. Questo aspetto è essenziale non solo per il benessere dei detenuti, ma anche per la costruzione di una società che promuove il reinserimento e la riduzione della recidiva. L’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo stabilisce il divieto di tortura, trattamenti inumani o degradanti, sottolineando il principio irrinunciabile della dignità umana. La Corte europea dei diritti umani, con la sentenza Torreggiani ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani”. “In più occasioni - ha detto Fora - il Consiglio regionale ha evidenziato le problematiche legate agli istituti di pena nella nostra regione. In particolare si richiama la risoluzione proposta dalla Terza commissione: ‘Attuale situazione degli istituti penitenziari della regione - adozione di iniziative da parte della Giunta regionale’ approvata all’unanimità da questa Aula il 7 marzo 2023, all’interno della quale venivano evidenziate in particolare le forti problematiche di sottodimensionamento dell’organico delle unità di polizia penitenziaria nelle carceri umbre, l’aumento dei tassi di suicidio, fenomeno probabilmente correlato anche all’elevato numero di pazienti con problematiche psichiche non adeguatamente trattati dai servizi sanitari pubblici, il permanere di forti difficoltà di accesso ai medicinali prescritti a seguito di visite specialistiche e la diminuzione delle presenze settimanali degli operatori e medici dei Servizi Psichiatrici di diagnosi e cura delle Usl territoriali. Nella stessa risoluzione venivano evidenziate le complesse condizioni di salute e tutela della popolazione penitenziaria, come già evidenziato nella relazione del Garante dei detenuti, avvocato Giuseppe Caforio, del 2023, fortemente peggiorate nel 2024, permanendo forti difficoltà nelle prestazioni delle visite e nelle prestazioni diagnostiche e terapeutiche, con grandi ritardi nella effettuazione degli interventi sanitari e il forte aumento gli episodi di violenza e aggressione ai danni del personale di polizia penitenziaria, nonché atti di danneggiamento nei reparti delle strutture carcerarie”. “La stessa Unione delle Camere penali - ha ricordato - ha deliberato l’astensione dalle udienze e ‘da ogni attività giudiziaria’ nel settore penale per i giorni 10, 11 e 12 luglio con manifestazioni che si sono effettuate in tutta Italia, Perugia compresa, durante la quale i penalisti hanno denunciato pubblicamente la mancanza di un ‘programma di serie riforme strutturali’ e di ‘ripensamento dell’intera esecuzione penale’, oltre alla ‘irresponsabile indifferenza della politica di fronte al dramma del sovraffollamento ed alla tragedia dei fenomeni suicidari’. Il Garante dei Detenuti nei giorni scorsi ha denunciato pubblicamente la gravità della situazione umbra, ritenendo che ‘le attuali condizioni delle strutture sanitarie e dei servizi erogati confliggano con i diritti fondamentali previsti peraltro sia dalla convenzione dei diritti dell’uomo che dal nostro codice penale’ e annunciando il deposito presso la Procura della Repubblica di Perugia di un esposto per chiedere un accertamento giudiziale sulla situazione esposta. Tra le maggiori problematiche evidenziate emerge in particolare la gravosa situazione sanitaria, carente e inadeguata alle esigenze volte ad assicurare il diritto alla salute dei detenuti, in particolare presso la Casa Circondariale di Capanne, dove le stanze destinate alla degenza infermieristica sono chiuse e abbandonate con innumerevoli problemi a catena. La comunità delle case circondariali si regge su un delicato equilibrio e nel momento in cui questi equilibri vengono meno, si ha un effetto domino che porta da un lato alle rivolte a cui hai sempre più frequentemente assistiamo e dall’altro ai tanti episodi di autolesionismo che giungono fino ai suicidi”. Nel suo intervento, Thomas De Luca (capogruppo M5S) ha osservato che “su quanto accaduto nel contesto degli ultimi anni la Giunta regionale poteva intervenire. In Terza commissione si sono succedute audizioni con i vari direttori sanitari delle carceri e dove sono venute alla luce soluzioni e modelli già adottati da altre regioni, a partire dalla Toscana. Ma nei fatti tutto è stato disatteso. Nella mozione si intravedono impegni anche per il Governo di centrodestra che ha la possibilità di garantire la dignità minima delle persone e dell’individuo. Su questi temi continuo a vedere discussioni propagandistiche quando serve un approccio legato al rispetto della persona”. Per Valerio Mancini (capogruppo Lega) “si tratta di un tema complicato che esula dalle responsabilità di questo Consiglio e della Giunta. Da dieci anni si stanno affrontando le problematiche del mondo carcerario con grandi delusioni, costretti a rincorrere le emergenze in cui la Regione può soltanto aprire il portafoglio per situazioni normative che le vengono scaricate addosso. L’Umbria ha perso l’amministrazione penitenziaria anni fa, come accaduto per molti tribunali che Sindaci di ogni estrazioni stanno chiedendo di reintrodurre. La maggior parte dei detenuti sono stranieri che dovrebbero essere riaccompagnati nel loro paese di origine. Siamo costretti a ragionare su come pagare gli straordinari agli agenti della polizia penitenziaria. Noi dobbiamo soprattutto essere vicini ai poliziotti prima che ai detenuti ai quali paghiamo anche i corsi universitari. Credo che questo delicato e complesso argomento vada approfondito in Commissione con l’assessore Coletto e i rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria”. Manuela Puletti (Lega) ha affermato che “molte situazioni sono state già sottolineate dal collega Mancini, si tratta di battaglie che da diversi anni portiamo avanti. Come gruppo consiliare abbiamo fatto e continuiamo a fare sopralluoghi nelle carceri umbre portando poi atti di indirizzo in quest’Aula. Questa maggioranza, come pure il Governo sono vicini alle esigenze della polizia penitenziaria, ne è la dimostrazione l’arrivo di 42 agenti. Paghiamo le conseguenze della scellerata ‘legge Madia’. La presidente sta lottando per riportare in Umbria l’amministrazione penitenziaria, importante per non essere succubi della Toscana che decide quanti e quali detenuti mandare nella nostra regione. Questa mozione - ha detto ancora - necessita di approfondimenti, per questo è importante approfondire il contenuto in commissione”. Paola (Cs). Morto in carcere a 21 anni, i familiari invocano chiarezza di Matteo Cava Quotidiano del Sud, 11 settembre 2024 Il caso di Giuseppe Spolzino trovato morto in cella a Paola il 20 giugno, deceduto in carcere, i familiari invocano chiarezza sulle cause. I dubbi sul decesso nel carcere di Paola di Giuseppe Spolzino, 21 anni, originario di Sala Consilina in provincia di Salerno, si affollano nella mente dei familiari. Vorrebbero sapere, vorrebbero avere certezze, perché non sono convinti che il giovane salese avesse preso quella decisione definitiva sulla sua vita. Aveva davanti a sé 3 anni e 6 mesi di reclusione da scontare dopo una sentenza in abbreviato del Tribunale di Lagonegro. Ma era in attesa di presentare con i suoi legali un ricorso alla Corte d’Appello di Potenza. Nel frattempo seguiva anche un corso di giustizia riparativa. Giuseppe Spolzino, come si ricorderà, è deceduto nella serata di domenica 30 giugno, intorno alle 22.00. Per i familiari potrebbe non trattarsi di un suicidio. Anche per questo hanno chiesto ed ottenuto l’apertura di una indagine da parte della procura di Paola, con un fascicolo contro ignoti. I familiari fanno sapere, innanzitutto, che a tutt’oggi i genitori del povero e compianto Giuseppe Spolzino sono ancora in attesa che vengano chiariti alcuni particolari “da parte della direzione della casa circondariale di Paola e dalla magistratura inquirente”. Spiegano per esempio che: “Il ragazzo era recluso in una cella singola (forse del tipo ad isolamento). Al suo interno vi erano evidenti difformità nelle divisioni interne (cosiddette insidie), che hanno facilitato il ricorso ad un possibile gesto estremo (sia che si tratti di omicidio o di suicidio)”. Inoltre sempre i familiari, nella lettera inviata ritengono che il 21enne “Non sia stato sorvegliato costantemente e in maniera adeguata dal personale di polizia penitenziaria. Una sorveglianza più attenta e scrupolosa o l’utilizzo di una cella senza insidie - affermano - avrebbero sicuramente impedito di spezzare la vita di questo giovane, lasciando i genitori in un dolore immenso e senza rimedio”. Vengono rivelati altri particolari per sostenere la tesi della mancanza di chiarezza sul caso. Chiarezza che invece chiedono a gran voce dalla famiglia Spolzino. “C’è da aggiungere, inoltre, che Giuseppe - si legge - era stato già visitato in più occasioni da medici specialisti durante il periodo di detenzione a Napoli Poggioreale. Il suo stato di salute era stato dichiarato incompatibile con il regime carcerario. Pertanto, gli organi dell’autorità giudiziaria, che avevano la responsabilità della sua custodia, avrebbero dovuto preoccuparsi di assegnarlo ad una struttura o comunità terapeutica o in mancanza agli arresti domiciliari per farlo curare, invece di farlo rinchiudere in un carcere inadeguato come quello di Paola”. Giuseppe Spolzino era prima associato al carcere di Poggioreale, a Napoli, e successivamente agli arresti domiciliari a Scalea. In quanto ritenuto incompatibile con il regime carcerario, poi in seguito ad un ulteriore problema era stato traferito alla casa circondariale di Paola. In riferimento al decesso, dalla famiglia, nella lettera, scrivono che: “i genitori sono stati avvisati su quanto accaduto il giorno successivo. Dopo 12 ore circa, quando le notizie erano state già diffuse da alcune testate giornalistiche sul web. Ci sono quindi tante responsabilità da accertare a diversi livelli. Speriamo che la magistratura lo faccia al più presto per assicurare alla giustizia i colpevoli. Ciò - commentano - non potrà far tornare in vita Giuseppe, né estinguere il grandissimo dolore che accompagnerà per sempre i genitori. Ma potrà almeno essere un esempio per ricordare questo giovane pieno di gioia, evitando che si facciano errori simili in futuro”. Torino. Le detenute in sciopero della fame per la legge Giachetti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 settembre 2024 Dal 5 settembre 57 detenute del carcere di Torino hanno intrapreso uno sciopero della fame a staffetta e a oltranza, con l’obiettivo di sollecitare l’approvazione della proposta di legge Giachetti sulla “liberazione anticipata speciale”. Questa misura prevede l’aumento dei giorni di sconto pena per buona condotta, da 45 a 60 per ogni semestre scontato, e successivamente da 60 a 75 giorni nei due anni seguenti l’entrata in vigore della legge. Nonostante la necessità di ridurre il sovraffollamento nelle carceri, la discussione in Parlamento è stata ripetutamente rinviata, esasperando ulteriormente la situazione. “Non c’è più tempo, né spazio”. Così inizia la drammatica lettera che accompagna la protesta, un grido disperato che non può più essere ignorato. Oltre le mura del carcere “Lorusso e Cutugno”, questo appello accorato si rivolge direttamente alle istituzioni e all’opinione pubblica, richiedendo interventi urgenti per affrontare la crisi nelle carceri italiane. Guidate da Marina e Paola, le “ragazze di Torino” descrivono una realtà sconvolgente: celle sovraffollate, condizioni disumane e l’ombra del suicidio che incombe su un sistema penitenziario allo stremo. “Magazzini di corpi che stanno per esplodere”, è così che definiscono il padiglione femminile, dove il numero di detenute ha superato ogni limite di sostenibilità. La loro protesta pacifica, con lo sciopero della fame a staffetta, è l’unico mezzo rimasto per farsi ascoltare e denunciare quella che definiscono una vera e propria emergenza umanitaria. Le detenute si rivolgono direttamente ai parlamentari, ai ministri e al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, chiedendo il ripristino del “senso utile della pena” e soluzioni concrete per ridurre il numero dei reclusi, nel rispetto della Costituzione e dei diritti umani fondamentali. “L’unico crimine che vediamo è l’indifferenza”, dichiarano con forza le firmatarie della lettera. Tra loro ci sono Manuela, Fabiola, Tessa, Elisa, Stefania, Corina, Sabrina, Roxana e Angela: nomi che emergono come simboli di una lotta per la dignità. Chiedono che comitati e politici visitino il carcere per testimoniare con i propri occhi la gravità della situazione. A sostegno della protesta, a partire da oggi, mercoledì 11 settembre, anche Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino aderisce allo sciopero della fame per incoraggiarle. La mobilitazione ruota attorno alla richiesta urgente di approvare la proposta di legge Giachetti, ritenuta una delle poche soluzioni percorribili per ridurre il sovraffollamento e migliorare le condizioni di vita nelle carceri italiane. Lo sciopero della fame a staffetta delle detenute non è una scelta casuale. Arriva al culmine di un’estate segnata da episodi drammatici, come suicidi, incendi e ferimenti all’interno delle carceri. Uno degli eventi più tragici è stata la morte di Joussef Moktar Lota Baron, un giovane di 18 anni morto carbonizzato nella sua cella nel carcere di San Vittore. Era stato arrestato mesi fa per una rapina e si trovava in attesa di giudizio, dopo aver affrontato un lungo e doloroso viaggio dall’Africa, passando per i campi di detenzione in Libia. L’azione nonviolenta delle detenute di Torino è una richiesta di giustizia, di dignità e di riforma. Monza. Garante comunale dei detenuti: candidature aperte fino al 22 settembre quindicinews.it, 11 settembre 2024 Fino al 22 settembre è possibile presentare la candidatura per il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Grazie all’accordo di collaborazione tra il Comune di Monza, la Provincia di Monza e della Brianza e la Casa Circondariale di Monza, fino al 22 settembre è possibile presentare la candidatura per il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. La domanda, completa di tutta la documentazione, dovrà essere inviata solo via PEC all’indirizzo monza@pec.comune.monza.it. Il Garante sarà nominato dal Sindaco, in base ad una selezione fra persone di prestigio e fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani e delle attività sociali. Resterà in carica dalla data della nomina fino alla scadenza del mandato del Sindaco. La Provincia metterà a disposizione, a proprie spese, un ufficio presso la sede di via Tommaso Grossi 9. Info e bando: https://bit.ly/4cPRYTK. Bari. Nel carcere minorile i detenuti producono ottimi biscotti e cracker con prodotti locali di Vivian Petrini baritoday.it, 11 settembre 2024 Si chiamano “Scappatelle” e sono biscotti vegani e biologici fatti con solo 4 ingredienti locali. Un progetto nato nel 2017 all’interno del carcere minorile di Bari, parte dell’iniziativa Made in Carcere, volto alla riabilitazione lavorativa e sociale. “Made in Carcere” è un’iniziativa che coinvolge diverse carceri italiane nata nel 2007 grazie a Luciana Delle Donne, con l’obiettivo di offrire una seconda possibilità sia ai materiali di scarto, come tessuti provenienti da grandi maison, sia alle persone recluse. Luciana ha abbandonando la sua carriera in banca per dedicarsi interamente a questo progetto, credendo nel potere della riabilitazione attraverso il lavoro. “Made in Carcere cerca di contaminare la società economica e civile, attraverso la promozione e la diffusione del nostro modello di economia rigenerativa”. Nel 2017, Made in Carcere ha avviato un nuovo progetto di reinserimento lavorativo e sociale nell’Istituto penale minorile Fornelli di Bari. Fornelli infatti, unico nel suo genere all’interno dell’iniziativa, è dedicato al settore alimentare. Un laboratorio artigianale in cui i giovani detenuti partecipano alla produzione di biscotti e cracker biologici, acquisendo competenze lavorative e imparando un mestiere utile per quando usciranno. Il progetto va oltre l’insegnamento di tecniche professionali: “mira a far riscoprire ai ragazzi la fiducia in sé stessi, un aspetto cruciale per il loro reinserimento nella società”, spiega Mario Bolivar, responsabile del progetto insieme a Lidia Longo. Il prodotto di punta del laboratorio sono le Scappa-telle, “biscotti fatti per una nuova vita” come li definiscono, a forma di cuore vegani e biologici che incarnano i sapori del territorio pugliese. Si tratta di un biscotto rustico che ricorda il tradizionale tarallo pugliese, che nel 2018 ottiene anche la certificazione bio. La qualità dei prodotti è garantita non solo dal processo artigianale, ma anche dalla scelta delle materie prime: farina di grano Senatore Cappelli, zucchero di canna chiaro, vino Primitivo di Manduria e olio extravergine d’oliva. Luciana Delle Donne, vegana e salutista, è particolarmente attenta a selezionare fornitori locali che garantiscono ingredienti biologici e di alta qualità. Le aziende coinvolte nella fornitura di farine, olio d’oliva e vino sono piccole realtà pugliesi che condividono i valori di sostenibilità e attenzione per il territorio, contribuendo così a creare un ciclo virtuoso tra il mondo agricolo e quello della riabilitazione sociale. Dal nome al packaging richiama con un po’ d’ironia il carcere con grafiche che alludono alle sbarre, riflettendo il percorso di rinascita dei detenuti. Il biscotto è già presente in alcuni circuiti della grande distribuzione e ha trovato sostenitori prestigiosi come la famiglia Versace. Accanto alle Scappatelle, il laboratorio produce anche cracker salati. La grande novità è che a partire da quest’anno realizzeranno anche dolci delle feste. Il progetto Made in Carcere non si limita a insegnare un mestiere, ma si impegna a ridurre il tasso di recidiva tra i detenuti. I dati sono chiari: oltre il 90% di chi partecipa a questa iniziativa non torna a commettere reati una volta uscito. Questo risultato testimonia il successo dell’approccio che unisce formazione professionale e supporto psicologico. Come sottolineano gli organizzatori del progetto, una pena punitiva fine a sé stessa non fa altro che aumentare la probabilità di recidiva, mentre offrire una reale opportunità di riscatto permette di evitare che i detenuti ricadano negli stessi errori. Inoltre, la cooperativa sociale Officina Creativa - che racchiude i vari progetti - riesce a garantire ai detenuti anche un riscontro economico: 8€ all’ora che vengono direttamente inviati alle famiglie. La produzione all’interno del carcere minorile di Bari è cresciuta rapidamente, grazie anche alla collaborazione con importanti aziende e all’acquisizione di macchinari. “All’inizio facevamo tutto a mano, adesso la tecnologia ci aiuta ma tuteliamo i passaggi fondamentali e gli ingredienti di assoluta qualità”, ricorda Mario. Tuttavia, gestire il laboratorio non è semplice: uno degli ostacoli principali è la gestione dei detenuti, che spesso affrontano difficoltà personali e familiari rendendo complessa la loro partecipazione costante al progetto. Inoltre, la natura transitoria della popolazione carceraria - con frequenti scarcerazioni e trasferimenti devono fare continua formazione - rappresenta una sfida per mantenere stabile la forza lavoro e garantire la continuità della produzione. “Prossimamente inizieremo anche delle importanti collaborazioni con delle grandi aziende, sarà un’ulteriore sfida”. Un esempio virtuoso di come l’imprenditorialità sociale possa trasformare vite e creare opportunità laddove sembra non esserci speranza. Grazie alla dedizione di Luciana Delle Donne e del suo team, giovani detenuti hanno la possibilità di imparare un mestiere, riscattarsi e guardare al futuro con fiducia. “Quando qualcuno riesce a uscire dai brutti giri, si rimette in moto, fa ammenda per i propri errori e mette in pratica ciò che ha imparato con noi, non potremmo essere più felici e orgogliosi. Ci sono tante storie di successo: persone che, una volta fuori, si sono reinventate nel mondo del food. C’è chi ha aperto una pizzeria, chi lavora in un pastificio, chi ha avviato una pasticceria. È la volontà di riscatto che fa la differenza”. “AttraversaMenti”: storia e storie dal carcere e dall’ex Opg di Barcellona Pozzo di Gotto messinatoday.it, 11 settembre 2024 Il testo fa riferimento ai contributi presentati al convegno di dicembre 2022 dal titolo “AttraversaMenti: dall’Ospedale psichiatrico giudiziario al Penitenziario” dove studiosi ed esperti si sono incontrati a Barcellona Pozzo di Gotto (Me) per discutere, con sguardi e punti di vista diversi, la complessità della storia dell’Istituto barcellonese, la questione dei manicomi criminali, degli ex OPG e il ruolo della biblioteca in carcere come strumento di trattamento e recupero dei soggetti reclusi. Il volume ripercorre la storia dei manicomi criminali e degli ex ospedali psichiatrici giudiziari italiani fino ai giorni nostri, prendendo come caso di studio l’Istituto “Vittorio Madìa” di Barcellona Pozzo di Gotto a Messina. Raccontare quasi un secolo di storia attraverso l’esperienza esemplare dell’Istituto di Barcellona Pozzo di Gotto, significa tracciare un quadro politico, storico e antropologico e attraversare la storia della salute mentale, della costrizione, della storia locale e legislativa di un Istituto così unico nel panorama nazionale. Un’indagine che si propone di mettere in luce i punti di forza e di fragilità di un’importante struttura che, alla luce dell’attualità, intende rintracciare, sviluppare e valorizzare il suo mandato sociale. Il testo è rivolto a studiosi del settore, a tutti gli operatori coinvolti che quotidianamente permangono nei territori penitenziari con mansioni diverse, ma soprattutto a tutti coloro che, non conoscendo il carcere e la malattia mentale, possano dal testo, trarre riflessioni in grado di ampliare il proprio orizzonte culturale e accogliere la sfida della formazione in ambito penitenziario. Un’attenzione sempre rivolta agli ultimi, alle persone dimenticate siano essi detenuti o operatori che abitano - seppur in modo diverso - il carcere. Previsti gli interventi delle curatrici Caterina Benelli, Giovanna Costanzo e Roberta Pandolfino e i contributi di Giusy Furnari, Romina Taiani, Nunziante Rosania, Mario Bolognari, Elena Zizioli. Partner dell’incontro Posto Occupato e Soroptimist International - Club Spadafora Gallo Niceto e Club Messina. “Il mio film su Eduardo e quel teatro che salvò tanti ragazzi del carcere minorile di Nisida” di Ilaria Urbani La Repubblica, 11 settembre 2024 Repubblica racconta in esclusiva i ciak di “Figli di una stella” opera prima da regista dell’attore napoletano Massimiliano Gallo. Nel cast Casagrande, Imparato e Rigillo. “Con Eduardo, che portò il teatro nel carcere di Nisida racconto al cinema i sentimenti, la solitudine e la voglia di rinascita dei ragazzi. Se arriverà anche l’uno per cento di quello che mi hanno donato da spettatore leggende come Sergio Leone in “C’era una volta in America”, ne sarà valsa la pena”. Gli occhi azzurri di Massimiliano Gallo si riempiono di gioia. Sul set, che Repubblica vi racconta in esclusiva, all’ex Base Nato di Bagnoli (periferia ovest di Napoli), gli attori che ha scelto per la sua opera prima da regista, “Figli di una stella” arrivano alla spicciolata. Questa volta, dietro la macchina da presa, c’è lui, l’attore napoletano, 56 anni, per la seconda volta papà della piccola Artemisia avuta dalla moglie Shalana Santana, in tv amato per i ruoli dell’ispettore Luigi Palma de “I bastardi di Pizzofalcone”, dell’avvocato Malinconico e di Pietro, marito del sostituto procuratore della tv Imma Tataranni. Gallo sta girando in questi giorni tra gli edifici abbandonati dell’ex quartier generale militare Usa. Repubblica visita in anteprima le stanze dove in maniera molto realistica sono ricostruite le celle del carcere di Nisida, in attesa di diventare distretto audiovisivo regionale. “Figli di una stella” è il suo primo film da regista, del quale è anche co-sceneggiatore e co-produttore, e dove interpreta pure un cameo. Tra un camper e un altro, spunta Mariano Rigillo con sguardo complice nel ruolo di Eduardo De Filippo, Maurizio Casagrande è Carlo Croccolo, dalla chioma fulva. L’attore e comico fu spedito nel carcere minorile di Nisida da Eduardo, allora senatore a vita, con Rosalia Maggio (sorella di Pupella), interpretata da Luisa Esposito, per fondare una scuola di scenotecnica e recitazione. Il direttore dell’istituto penale minorile ha il volto di Gianfelice Imparato. Corre l’anno 1983, a causa del bradisismo a Pozzuoli un gruppo di detenute del carcere femminile viene trasferito nel carcere di Nisida. Tra finzione e realtà Massimiliano Gallo, che vedremo inoltre a Natale su Rai 1 per la terza volta nella commedia di Eduardo, “Questi fantasmi”, scritta nel 1945, regia di Alessandro Gassmann, intesse una storia di ricatto e speranza. Massimiliano Gallo, Eduardo torna spesso nella sua vita: lo ha interpretato nei film tv “Napoli Milionaria” e “Filumena Marturano”, ora “Questi fantasmi”. In passato a teatro, suo padre, il celebre cantante Nunzio Gallo fu diretto dal maestro in “Bene mio e core mio”, nel 1984 pochi mesi prima della sua scomparsa. Lei gli dà il volto del grande Mariano Rigillo, la somiglianza è impressionante, l’attore ha quasi la stessa età che Eduardo aveva allora, 84 anni. “Eduardo provò a invertire il paradigma, parlò ai senatori a Palazzo Madama, fece capire l’importanza di dare una seconda chance ai ragazzi di Nisida e del Filangieri e che non siamo noi a dover giudicare i detenuti, ma dovrebbero farlo loro e dirci: “Dove ci avete portato?” A ben guardare lo stato delle carceri oggi, dopo quarant’anni, purtroppo le sue parole sono ancora attuali, in molti casi si esce solo peggiorati dal carcere. È un onore dirigere Mariano Rigillo: dimostrerà quanto Eduardo fu battagliero e determinato per realizzare la scuola. Mariano dice che si affida a me, e io mi affido a lui. Siamo affiatati, è così con tutti gli altri attori, dai più noti ai volti emergenti, bellissimi e talentuosi” Lo sfondo è la Napoli anni 80, infuria la camorra e lo scontro tra la Nco di Cutolo e la Nuova famiglia, il teatro arriva a Nisida con le donne di Pozzuoli, due eventi davvero accaduti. Come nasce il film? “Ho conosciuto ragazzi ormai adulti salvati dal teatro, esistono ancora bravissimi scenotecnici formati dalla scuola di Eduardo a Nisida. Ho scelto una narrazione fatta di emozioni, non mi interessano le risse e la violenza. Quando Riccardo Brun mi ha proposto questa storia, l’ho sentita talmente mia che ho scelto di scriverla con lui. Siamo alla decima stesura della sceneggiatura. È la dimostrazione che se ai giovani dai una “stella”, forse il destino può cambiare. Certo la devi saper cogliere. È anche un po’ la fotografia di Napoli: se alla città dai una vera possibilità, brilla. Prova ne è anche il boom cinema e serie tv”. L’arte come terapia. Molti correranno con la mente a “Mare Fuori”, la serie di successo, soprattutto tra gli adolescenti, come sarà invece il cuore e l’estetica del suo film? “È banale dire che la bellezza salverà il mondo, ma è quella la strada per il cambiamento. Il direttore del carcere minorile, Gianluca Guida, un illuminato, persona straordinaria, quando gli chiedono se Nisida può diventare un albergo a cinque stelle, ricorda invece che molti ragazzi la bellezza non l’hanno mai vista. Se vivi in un basso, non hai i genitori e non ti danno una formazione vera, come fai a sognare? La bellezza che si vede da Nisida ti toglie il fiato. Ed è la stessa cosa dell’arte: può toccare corde incredibili”. Gallo, come arriva la voglia di passare dietro la macchina da presa, è stato diretto da registi come Beppe M. Gaudino, Mario Martone e Paolo Sorrentino. Lei che regista si considera? “Ho girato anche tre film e una serie in un anno, ho rubato molto dai registi con cui ha lavorato. Le storie che mi hanno proposto finora non mi colpivano, ho scelto di dirigere questa perché mette al centro sentimenti e salvezza. Lavorando su tanti set, so come agevolare gli operatori, la luce, mi piacciono i movimenti di macchina lunghi. Abbiamo già fatto un piano sequenza di 2 minuti e 40. Non mi interessano campo e controcampo, quella è fiction, voglio fare cinema. Abbiamo scritto le biografie di ogni personaggio, anche di quelli che dicono poche battute, e le musiche originali scritte dal maestro Enzo Avitabile sono vere e proprie preghiere, diventate tutt’uno col film”. Eduardo fece mettere in scena ai giovani di Nisida “Annella di Portacapuana”, nel suo film i ragazzi di Nisida faranno un varietà, toni drammatici, shakespeariani e qualche sorriso... “Tra dramma e commedia, fatti realmente accaduti e romanzati, vengono fuori amore, vendetta, speranza, l’interiorità di questi ragazzi. La zia del protagonista Emanuele, interpretato da un bravissimo Alfredo Cossu, nella vita anche grande pallanuotista, al parlatorio gli comunica di aver detto al giudice che lui una casa ce l’ha, la sua, che gli metterà una brandina ai piedi del letto, gli farà pagare poco e prenderà il suo posto all’ospedale come inserviente delle pulizie. Giovani destinati a vite tragiche in cerca di riscatto. L’epoca mi aiuta, sono stato adolescente negli anni ‘80: era un periodo nel quale però ancora si sognava, anche se vivevi in un contesto disagiato. Oggi abbiamo ammazzato i sogni della nuova generazione. Diciamo ai nostri figli che niente vale: se vai a votare non cambia nulla, se c’è impegno non vale, non esiste la meritocrazia. E poi ci lamentiamo che non hanno interessi. Gli stiamo consegnando un mondo che non esiste, disperato”. Riparte il tour di “Parole Liberate”, il progetto nato dai testi scritti nelle carceri italiane musicoff.com, 11 settembre 2024 I prossimi concerti si terranno il 29 settembre, in occasione di Cremona Musica, e il 10 ottobre al Teatro Nazionale di Genova - Teatro Modena. I detenuti sono diventati parolieri in un progetto che coinvolge alcuni importanti artisti della scena musicale italiana e internazionale: Viadellironia, Andrea Chimenti & Giorgio Baldi, Bandabardò, NuovoNormale, Magicaboola Brass Band & Fabrizio Pocci, Max Bianchi, The Mastelottos, Morgan, Synaesthesia, Flavio Giurato - Featuring Nicola Distaso, Pivio, Marco Machera e Tony Levin, Pase & Alessandra Donati. Nomi molto noti ed emergenti, hanno trovato un denominatore comune nell’impegno per la sensibilizzazione del pubblico sulle condizioni di vita nelle carceri italiane. Come afferma l’articolo 27 della nostra costituzione “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il carcere non è una discarica sociale. L’iniziativa è partita da un bando - voluto dall’associazione “Parole Liberate; oltre il Muro del Carcere” ed emanato dal Ministero della Giustizia - che ha proposto a detenute e detenuti delle carceri italiane di scrivere un testo, destinato a diventare canzone grazie al contributo di importanti artisti della scena musicale italiana e internazionale. In questa edizione - che segue al successo ottenuto nel 2022 - sono stati selezionati testi arrivati dalle carceri di Sollicciano (Firenze), Arezzo, Pisa, Perugia, Teramo, Reggio Emilia, Parma e Bari. L’album collettivo “Parole Liberate volume 2” nato in questa occasione, pubblicato in Cd da Baracca e Burattini e distribuito in digitale da The Orchard, è stato finalista al Premio Tenco 2024 nella cinquina dedicata ai progetti speciali. Ma l’iniziativa è andata al di là dell’ambito discografico, per continuare con dieci concerti gratuiti in tutta Italia tra giugno e ottobre. Le performance degli artisti coinvolti sono introdotte da Riccardo Monopoli e inserite in un contesto volto a alla sensibilizzazione del pubblico sulle condizioni di vita delle persone detenute. I prossimi concerti si terranno il 29 settembre, in occasione di Cremona Musica, e il 10 ottobre al Teatro Nazionale di Genova - Teatro Modena. Parole liberate volume 2: l’album è disponibile in versione digitale e in formato fisico CD. “Anche se non è disponibile una versione in vinile” - dichiara Paolo Bedini, direttore artistico dell’operazione - abbiamo voluto caratterizzare l’album con un lato A e un lato B che identificano due diverse facciate di questa proposta musicale”. Il lato A inizia con la band femminile Viadellironia con un brano prodotto da Cesareo, chitarrista di Elio e le Storie Tese. Si prosegue con un inedito duo composto da Andrea Chimenti e Giorgio Baldi in “Cantami” - testo vincitore dell’ultima edizione del bando - e la Bandabardò, i NuovoNormale, la street band “Magicaboola Brass Band” (insieme a Fabrizio Pocci) e Max Bianchi. Chiude il lato A “Sbagliato”, canzone dei NuovoNormale già pubblicata nel volume 1, riadattata da The Mastelottos. Si tratta di una band composta da Pat Mastelotto (batterista dei King Crimson) e dalla moglie Deborah Carter, con un brano curiosamente eseguito in italiano come era in uso decenni fa nelle partecipazioni sanremesi di artisti internazionali. Il lato B si apre con Morgan seguito dai Synaesthesia, gruppo livornese formato da musicisti poco più che maggiorenni. Chi invece è maggiorenne da molti anni è Flavio Giurato, un artista di culto che ha musicato e interpretato insieme a Nicola Distaso un testo proveniente dal carcere minorile di Bari. Si prosegue con Pivio, autore di oltre 200 colonne sonore, e con Marco Machera e Tony Levin (Peter Gabriel, Pink Floyd, John Lennon e molti altri). Infine, i PASE e Alessandra Donati concludono l’album con lo stesso testo con cui era iniziato il lato A ma con una diversa parte musicale. A questi artisti si affiancano diversi musicisti che hanno collaborato alle registrazioni registrazioni quali Xabier Iriondo (Afterhours) con i Synaesthesia, Eugene con The Mastelottos e Marco Machera oltre ad Annie Whitehead (Penguin Cafe Orchestra e Robert Wyatt) nel brano di Machera. Ci sono anche alcuni intrecci e collaborazioni; Pat Mastelotto suona nella canzone di Marco Machera e Tony Levin mentre lo stesso Machera e Andrea Imberciadori (NuovoNormale) partecipano al brano di The Mastelottos. Ius scholae, i Cinquestelle sfidano Forza Italia: “Capiremo se è stato tutto un bluff” di Eleonora Camilli La Stampa, 11 settembre 2024 I Cinquestelle hanno infatti inviato al presidente della Camera la richiesta per l’esame urgente della proposta di legge a firma Vittoria Baldino, mentre Pd e Azione presentano emendamenti per il ddl sicurezza. Dopo il lungo dibattito estivo, si passi ora ai fatti. È la sfida lanciata dal Movimento cinque stelle a Forza Italia e alle altre forze politiche che, a parole, si dicono favorevoli alla riforma della legge 91/92 sull’acquisizione della cittadinanza. I Cinquestelle hanno infatti inviato al presidente della Camera, Lorenzo Fontana, la richiesta per l’esame urgente della proposta di legge a firma Vittoria Baldino sullo ius scholae. Una stretta per “vedere chi è realmente pronto a questo passo di civiltà di cui il Paese ha bisogno” spiegano. Ancora più diretta è la deputata pentastellata: “A questo punto capiremo se è stato tutto un bluff. Noi chiediamo solo di dare seguito a quanto detto anche sulla fantomatica proposta di Forza Italia sullo ius scholae - aggiunge Baldino -. Se le intenzioni erano reali è questo il momento di dimostrarlo, aprendo un dibattito nella sede opportuna, quella legislativa”. La proposta dei Cinquestelle prevede un ciclo di cinque anni di studio per gli stranieri nati o arrivati in Italia entro il dodicesimo anno di età. Da Forza Italia, però, è Maurizio Gasparri a frenare e a chiarire la posizione del partito spiegando l’idea è quella di un ciclo di studi di dieci anni e di “una verifica del livello di conoscenza della lingua e dei principi fondamentali del diritto - afferma in un’intervista ad Agorà su Rai3 -. Fino ad oggi se a 18 anni si presenta la domanda, nessuno verifica se hai frequentato la scuola, se ti sei integrato o sei un bravo cittadino. Quindi la nostra posizione è perfino più rigida della legge vigente. E stiamo verificando anche un altro criterio: quello delle origini, che deve essere più selettivo”. Intanto gli altri partiti dell’opposizione provano a forzare sul tema sfruttando l’esame alla Camera del ddl sicurezza. Il Partito democratico ha presentato due emendamenti al decreto: il primo prevede la possibilità di chiedere la cittadinanza dopo un percorso scolastico quinquennale. Il secondo, invece, riprende l’idea dello ius soli temperato per chi è nato in Italia e ha almeno un genitore regolarmente soggiornante da un anno. I dem fanno sapere di essere al lavoro anche su una propria proposta di legge che sarà depositata a breve. E che non si considera il ddl sicurezza “il contenitore più indicato per questo tema”. Il decreto contiene infatti anche la discussa norma bandiera della Lega sulla possibilità di revoca della cittadinanza a chi commette reati. Anche Carlo Calenda presenterà oggi un emendamento sullo ius scholae. Mentre da Alleanza Verdi e Sinistra, Nicola Fratoianni sottolinea che lo “ius soli è la strada giusta”, ma che il partito è “pronto a tutto per far guadagnare diritti alle persone”. Anche Avs presenterà diversi emendamenti, l’obiettivo - spiegano- è “migliorare la vita concreta delle persone in carne ed ossa”. I migranti e le strade possibili di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 11 settembre 2024 L’Europa soffre ancora oggi di antichi errori legati a due trattati fondamentali: Schengen e Dublino. Le migrazioni tornano a incendiare la politica europea e, sia pure in scala minore, quella di casa nostra. Siamo assai lontani, certo, dalla crisi che nel 2015-16 scatenò la prima fiammata sovranista, fece da propellente alla Brexit e da moltiplicatore di voti per i leader xenofobi di allora. Tuttavia, antiche paure e consuete strategie di consenso sono di nuovo fra noi. Sicché il neopremier francese Barnier si copre a destra dialogando con Marine Le Pen. E, soprattutto, il debole cancelliere tedesco Scholz, dopo l’attacco islamista a Solingen, blinda per sei mesi il suo Paese con controlli ferrei alle frontiere e riapre il dossier sui respingimenti dei “dublinanti” che coinvolge direttamente gli Stati di primo approdo come il nostro. Cos’è accaduto? Semplice. Nell’ultimo decennio s’è assottigliato di nuovo un margine decisivo: fattori di instabilità quali la guerra di Putin, la crisi energetica con annessa inflazione e l’impoverimento crescente delle classi lavoratrici hanno ristretto di molto la riserva di tolleranza degli autoctoni verso gli ultimi arrivati, specie in quei quartieri, in quelle città o in quei territori dove la precarietà economica è più diffusa: tra i dimenticati. Iconico “Wir schaffen das”, ce la faremo, scandito l’estate di nove anni fa da Angela Merkel di fronte al subitaneo apparire di un milione di profughi alle frontiere tedesche, è stato un generoso manifesto ma anche una previsione sbagliata. La campana della Turingia e della Sassonia suona adesso per tutte le democrazie dell’Unione. La sola idea che un partito dalla semantica nazista possa puntare al governo di un pezzo di Germania, sognando addirittura la presa di Berlino, mette i brividi. Ma noi non siamo quel pezzo di Germania. Non ci trasciniamo dietro la tara di una dittatura comunista che per mezzo secolo ha annichilito nei tedeschi dell’Est senso religioso, corpi intermedi indipendenti, cultura della libertà e dell’impresa. E non siamo la Francia delle banlieue, con la sua carica di rancore derivata da un passato coloniale mai metabolizzato. Proprio per questo è fuori luogo l’uso fazioso di eventi di cronaca che hanno sconvolto l’opinione pubblica nazionale. Sovrapporre l’immagine dell’assassino della giovane Sharon Verzeni, uno squilibrato italiano di seconda generazione con ascendenze maliane, alla grande questione di una riforma della legge sulla cittadinanza, per screditare così i progetti di ius scholae sgorgati (nuovamente) dal dibattito estivo, è una forzatura. Vale qualche like su qualche brutto post, non certo la seria posizione politica di un partito al governo del Paese. E soprattutto non rende giustizia a quel milione di bambini e ragazzi nati o cresciuti qui, compagni di banco dei nostri figli, emozionati dall’inno e dal tricolore proprio come lo straripante romano di famiglia srilankese “Rigi” Ganeshamoorthy, medaglia d’oro alle Paralimpiadi e nuovo beniamino social. Bene ha fatto Giorgia Meloni a distanziarsi in tv dalle speculazioni sulle origini familiari dell’assassino di Sharon, trasmettendo un messaggio di razionalità. È ai tanti “Rigi” fra noi e non alla solitaria devianza patologica di Moussa Sangare che è sensato guardare. La questione migratoria va affrontata con cuore caldo e testa fredda, coniugando solidarietà e sicurezza. È di tutta evidenza che la nostra Europa soffre ancora oggi di antichi errori legati a due trattati fondamentali. Con Schengen è stata creata un’immensa area di libera circolazione senza provvedere alla difesa comune dei confini esterni e con Dublino è stata minata alla radice la solidarietà nella gestione dei flussi in arrivo. Ovvio che un Paese come il nostro, proiettato nel Mediterraneo, ne sconti il prezzo maggiore. Ma è altrettanto ovvio che una politica insieme accorta e visionaria può tramutare questo prezzo in un vantaggio. A fine agosto uno studio della Cgia di Mestre ha evidenziato come nel nostro Mezzogiorno si paghino più pensioni che stipendi, aggiungendo che presto il sorpasso sarà compiuto anche nel resto d’Italia. Il dato, coniugato con la crisi demografica, rende evidenti due conseguenze: la prima è l’impossibilità di anticipare i pensionamenti e la vacuità di slogan quali l’eliminazione della legge Fornero; la seconda è la necessità di un’immigrazione funzionale all’Italia. La revisione della nostra vecchia legge sulla cittadinanza del 1992 (ancora basata sullo ius sanguinis e dunque tutta tarata sul Paese di emigranti che fummo) viene ora proposta anche in via referendaria da un largo comitato di sigle. Può essere un passaggio sul quale la destra sbaglierebbe ad arroccarsi, specie dopo avere riconosciuto la necessità di integrare gli stranieri con un decreto flussi record da quasi mezzo milione di ingressi in tre anni. Le seconde generazioni che, ricordiamolo, non sono composte da immigrati ma da ragazzi già inseriti tra noi, possono essere un ponte prezioso tra culture. Ma un compito serio grava anche sull’opposizione e, nello specifico, sulla sinistra: riconoscere che la sicurezza non è un valore oscuramente fascistoide ma una funzione democratica di garanzia per i cittadini più deboli. Contro il delirio della “remigrazione” teorizzata da Alternative für Deutschland non serve strillare ma agire nelle nostre periferie urbane ed esistenziali. Distinguere tra rifugiato e migrante. Tra tolleranza e lassismo. Se a pochi metri dalla stazione Termini di Roma, lungo le Mura Aureliane, nasce una tendopoli di richiedenti asilo e fuggiaschi dei centri d’accoglienza, far finta di nulla è sbagliato. Il distinguo non sta nel colore della pelle: ma tra chi ha e chi non ha, tra un tetto e una canadese, tra chi ha paura e chi ne incute. Enfatizzare i disagi senza avere soluzioni è la ricetta del peggiore populismo. Ma l’antidoto non è voltarsi dall’altra parte. “Poche navi per salvare i migranti”. Ecco il rapporto di Frontex contro i decreti di Meloni di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 11 settembre 2024 La rotta del mediterraneo si conferma la più letale per chi fugge da guerre e fame. Un report dell’Agenzia europea punta il dito contro le misure del governo contro le ong e la mancanza di assetti navali per i salvataggi. La guerra politica e legislativa alle ong intrapresa dal governo Meloni negli ultimi due anni sta mettendo sempre di più in pericolo la vita dei migranti che attraversano il Mediterraneo. A dirlo è anche un rapporto di Frontex, l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere, non certo un’organizzazione a favore dell’accoglienza diffusa. “Nel 2023, la rotta del Mediterraneo centrale è rimasta la più letale di tutte le aree coperte dalle operazioni congiunte Frontex via terra e via mare”, si legge nel rapporto sulle attività dell’Agenzia nel 2023 redatto dal Fro, l’ufficio interno che si occupa di monitorare il rispetto dei diritti umani da parte dell’organizzazione. Viste le morti record segnalate lo scorso anno nel Mediterraneo - 3.155 secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) - a preoccupare i funzionari di Frontex è la mancanza di assetti navali per le operazioni di ricerca e soccorso in acque aperte. Il Fro, si legge, “continua a sottolineare l’importanza di garantire l’impiego di ulteriori risorse per aumentare le capacità Sar (attività di ricerca e soccorso in mare) nell’area operativa che copre la zona Sar italiana. Ciò è particolarmente importante a seguito dell’adozione da parte del legislatore italiano nel 2023, di misure che inaspriscono la gestione dei flussi migratori (anche da parte di imbarcazioni private/ong) e potrebbe portare a una diminuzione delle risorse e delle capacità Sar nel Mediterraneo”. I funzionari dell’Agenzia europea si riferiscono all’adozione del decreto Piantedosi, che limita fortemente la presenza in mare delle navi delle ong di ricerca e soccorso. Il provvedimento introduce il fermo amministrativo per una serie di casi: se le navi non rientrano nel porto assegnato dalle autorità italiane (non importa quanto questo sia lontano dall’area di salvataggio), se queste effettuano più di un salvataggio durante la loro missione senza autorizzazione e se non rispettano i diktat della violenta guardia costiera libica. In poche parole l’Agenzia, che segnala le imbarcazioni in difficoltà alle autorità marittime dei vari stati membri, scrive nero su bianco che i provvedimenti adottati dal governo hanno di fatto diminuito la presenza in mare delle ong. Ma specifica anche che questo vuoto deve essere colmato in altra maniera per evitare stragi nel Mediterraneo. Ma c’è di più, i dipendenti di Frontex stanno anche di fatto contraddicendo il concetto, buono soprattutto per la propaganda, rilanciato spesso dalla premier Giorgia Meloni, secondo cui le ong che operano nel Mediterraneo agirebbero da pull-factor ovvero da fattori che favoriscono la partenze dei migranti. Ma questo è stato ampiamente smentito da studi e ricerche. Le raccomandazioni - Quest’anno, secondo i numeri aggiornati ai primi di settembre, sono 1.405 i migranti morti o scoparsi in mare. Numeri bassi perché gli arrivi sono diminuiti di quasi il 60 per cento a causa degli accordi economici firmati dal governo e dall’Ue con i regimi del Nord Africa. Gli ultimi due naufragi si sono verificati a largo delle coste libiche e italiane. Nel primo caso la Mezzaluna rossa ha annunciato lo scorso 4 settembre che un’imbarcazione con 32 migranti a bordo è affondata al largo di Tobruk, nella zona orientale, registrando un morto e 23 dispersi. Nel secondo caso, un barchino con 28 persone salpate sempre dalle coste del paese nord africano si è rovesciato. Solo sette i superstiti salvate dalle autorità italiane. Sul caso, la nave della ong Sea Watch - che nel frattempo è bloccata al porto di Civitavecchia fino al 24 settembre per via di un fermo amministrativo - ha annunciato di avere già segnalato tre giorni prima del naufragio un’imbarcazione simile a quella naufragata. “Nessuno è intervenuto”, dicono dall’organizzazione. In mare non c’era nessuno. E in questi giorni ci sono almeno due navi in meno, che si trovano in attesa nei porti (anche la Geo Barents di Medici senza frontiere è stata fermata dalle autorità). Vista l’attuale situazione in mare, i funzionari del Frontex chiedono una serie di raccomandazioni all’Agenzia. “Frontex dovrebbe prendere in considerazione l’aumento del numero di mezzi marittimi nel Mediterraneo nell’ambito del Jo Themis/Jo Italia”, scrivono, “con il compito di pattugliare e sostenere le attività di ricerca e soccorso nell’area Sar italiana, anche quando tali attività possono essere supportate da velivoli di sorveglianza di Frontex che operano nell’ambito dei servizi di sorveglianza aerea multiuso”. Migranti. “L’Italia ferma le Ong per non avere testimoni. L’operazione Albania in stile coloniale” di Niccolò Zancan La Stampa, 11 settembre 2024 Il presidente internazionale di Medici senza frontiere è in Italia. Christos Christou, 53 anni, greco della zona delle Meteore, è arrivato a Salerno per testimoniare la sua rabbia e la sua frustrazione: “Mi sento come un medico con le mani legate in un pronto soccorso affollato. Tutti, sulla Geo Barents, ci sentiamo così”. La nave dei soccorsi umanitari Geo Barents è inchiodata alla banchina del porto dal 27 agosto. Non può salpare. Non può salvare. È sottoposta a fermo amministrativo per aver violato il decreto Piantedosi, quello che regola l’attività delle Ong alla voce: “Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori”. È il terzo blocco in due anni, al prossimo rischia il sequestro. A bordo ci sono venti marinai perduti. Come tutti i marinai costretti in porto troppo a lungo. Però adesso è arrivato il presidente, di mestiere chirurgo, la massima carica di Msf. È arrivato per dare solidarietà e sostegno nella battaglia legale. Christos Christou, perché si sente come un medico con le mani legate? “Perché mentre noi siamo qui. Fermi qui. Ad aspettare qui. Sappiamo che altre persone stanno lottando per la vita in mezzo al Mediterraneo. Fa male”. Le autorità libiche vi accusano di scorrettezze. Cioè di aver chiesto ai migranti di tuffarsi in acqua per farsi soccorrere da voi invece che da loro. Come sono andate le cose la notte del 23 agosto? “Potrei parlare per ore della Libia e della sua guardia costiera. Abbiamo lavorato a lungo a Tripoli. Continuiamo ad ascoltare persone che arrivano da là e ci descrivono quello che succede con le immagini più orribili: la Libia è un inferno. Ho ascoltato persone che dicono di essere state accolte da uomini in uniforme, che però erano in contatto con i trafficanti e gli scafisti. Questo per dire che non credo che la guardia costiera libica oggi sia il migliore dei partner”. Avete chiesto ai migranti di tuffarsi? “Le persone si sono buttate. Forse sono state anche spinte a farlo, ma non da Msf. Abbiamo prove schiaccianti, anche un video. Tutto ciò che serve per dimostrare che le accuse nei nostri confronti sono infondate. Più volte abbiamo cercato di coordinarci con la guardia costiera libica, ma loro non rispondevano. Quando ci siamo resi conto che le persone lottavano nel mare, siamo intervenuti. Cos’altro avremmo dovuto fare?”. Secondo le carte intestate al ministero dell’Interno è “evidente un coordinamento fra la vostra Ong e i trafficanti di esseri umani”. Cosa risponde? “È un’accusa vergognosa. È la solita retorica contro le Ong. Pensavo che questa discussione fosse finita dopo l’inchiesta di Trapani. È triste vedere che siamo di nuovo allo stesso punto. Eppure le Ong non sono arrivate per prime nel Mediterraneo. Le Ong sono arrivate quando hanno visto che la gente moriva in mare e che l’Unione europea e le autorità italiane non erano in grado di salvare le vite umane”. I decreti firmati dal governo Meloni in materia di immigrazione sono famosi per una scelta particolare: assegnare alle Ong porti di attracco lontanissimi dal punto del soccorso. Come definirebbe questo tipo di decisione? “È un modo per ostacolare i salvataggi. Non siamo sorpresi da queste pratiche italiane: vogliono scoraggiarci. Siamo testimoni sgraditi. Le Ong non devono vedere quello che succede nel Mediterraneo”. Perché? “Perché le loro politiche stanno fallendo. Sono in un vicolo cieco”. Quando lei era in missione su Geo Barents di fronte alla Libia che porto di attracco vi hanno assegnato? “Genova. Se si considerano i giorni di quest’anno, fra fermi e viaggi inutili, la metà del tempo lo abbiamo sprecato senza fare nulla. È uno spreco di energia, costa vite umane. Ma è la legge Italiana, e anche se la contestiamo, la rispettiamo”. Il governo sta per aprire un centro di detenzione per migranti in Albania. Secondo lei, cosa succederà a quel punto? “Nessuno lo sa. Non si capisce. Ma l’Albania è un altro pezzo dello stesso puzzle. L’obiettivo è esternalizzare il confine. Il che è una macroscopica violazione dei diritti umani. L’Inghilterra ci ha provato con il Ruanda, e adesso la gente ci ride su. L’Italia prova a farlo con l’Albania: vediamo cosa succederà. Ma non basta monitorare la situazione, dobbiamo contestare un’operazione del genere perché è una evidente violazione dei diritti fondamentali. È un progetto zeppo di problemi. Mette in discussione le relazioni internazionali. Sembra che la missione italiana sia gestita in modo coloniale: noi siamo i ricchi, vi diamo i soldi e voi vi occupate delle persone che non vogliamo”. Voi sarete là? “Di sicuro non andremo a legittimare un’operazione del genere, siamo fortemente contrari. Ci auguriamo che le persone deportate siano sostenute dalle autorità italiane. Ci auguriamo che possano avere almeno il rispetto che meritano. Se non dovesse accadere, allora dovremo intervenire”. Qual è il paradosso della frontiera? “Più si mette un ostacolo di fronte alle persone disperate, più troveranno un’altra strada”. Msf opera in tutto il mondo. Quali sono i tre posti dove si concentra la maggiore sofferenza? “Uno dei luoghi più trascurati è Haiti, dove regna il caos politico più totale. Non c’è alcun rispetto per la vita umana. Poi dico il Sudan, dove da più di 500 giorni si compiono massacri, soprattutto da parte di gruppi militari. Più di 7 milioni di sudanesi sono sfollati. La gente vive nei campi. I bambini muoiono di fame. Ma la gente non parla molto del Sudan, questo si sa. E poi c’è Gaza”. Cosa vedete a Gaza? “Oggi un collega mi ha scritto che tutto quello che vediamo a Gaza finirà presto perché non c’è altro da distruggere. Gaza è in una situazione orribile. È qualcosa di unico, anche per chi ha visto le peggiori atrocità. La sproporzione nella risposta di Israele. L’attacco indiscriminato contro i civili. Le decine di migliaia di bambini che sono morti, o sono stati mutilati, o sono sopravvissuti ma rimangono senza famiglia. È scioccante. Non so se nelle generazioni che seguiranno riusciremo mai a curare un simile trauma. E questo riguarda anche la Cisgiordania”. È stato recentemente in Cisgiordania? “Sì. Stanno bloccando tutto. Non lasciano entrare le ambulanze e nemmeno uscire le persone. Impediscono persino l’accesso negli ospedali. Mi preoccupa molto quello che sta succedendo, non solo per i palestinesi che vivono in quelle zone. Ma anche per la comunità internazionale. Mi preoccupa questa totale mancanza di rispetto. L’irresponsabilità”. L’Europa si vede da là? “Per niente. L’Unione Europea non ha mostrato alcuna leadership. Come cittadino mi aspetterei che sfidassimo questo indirizzo politico, per tornare ai valori fondanti. Viviamo in una parte del mondo privilegiata e continuiamo a perseguire un’agenda di securizzazione che non funzionerà. Nella storia non ha mai funzionato. I muri non funzionano. Per questo bisogna cambiare paradigma. Dobbiamo rimettere gli esseri umani in cima all’agenda. Dobbiamo ripartire dall’umanità”. La guerra globale agli ambientalisti: ucciso un attivista ogni due giorni di Lucia Capuzzi Avvenire, 11 settembre 2024 La denuncia di Global Witness: 196 le vittime nel 2023. In gioco interessi miliardari. Record alla Colombia con 79 vittime. Doccia fredda per Bogotà che ospiterà il vertice Onu sulla biodiversità. Adagiata sull’altipiano della Sierra Nevada del Cocuy, la cittadina di Tame appartiene “all’altra Colombia”: la sterminata nazione rurale, a incommensurabile distanza geografica ma soprattutto sociale dal resto del Paese, fatto di metropoli moderne e popolose e località-cartolina affollate di turisti internazionali. Là si è consumato l’ultimo omicidio di un attivista ambientale nel 2023. La mattina del 31 dicembre, prima dell’inizio dei festeggiamenti di Capodanno, è stato assassinato Luis Parra Toroca, 39 anni, governatore indigeno della comunità di La Esperanza. Due mesi prima, le Nazioni Unite avevano emesso un’allerta sulla minaccia di gruppi armati illegali decisi a conquistare la zona. Per le bande, i leader locali come Luis Parra Toroca erano un ostacolo da eliminare. Il rappresentante nativo è la vittima numero 79 nel macabro bilancio degli ambientalisti assassinati l’anno anno, in Colombia. La nazione più letale di sempre per chi combatte per i diritti della terra e, di conseguenza, di quanti la abitano. “Non solo conta il 40 per cento degli ecologisti assassinati nel 2023. Questo dato rappresenta il più alto mai registrato in un singolo Stato. Con 461 vittime da quando abbiamo cominciato a censirle, dodici anni fa, la Colombia detiene anche il primato storico”, afferma Laura Furones, che ha guidato l’équipe di ricercatori autrice dell’ultimo rapporto di Global Witness, appena pubblicato. Una doccia fredda per la nazione che, dal 21 ottobre, ospiterà la Conferenza Onu sulla biodiversità (Cop 16). E che, dall’inizio della presidenza del progressista Gustavo Petro, cerca di accreditarsi come avanguardia dell’impegno ambientale nel Sud del pianeta mediante scelte di rottura, come l’annuncio dell’intenzione di congelare i nuovi progetti petroliferi. Per quanto grave, lo scenario colombiano è in linea con quello globale. “Il 2023 è stato particolarmente cruento, con 197 uccisi nel mondo, in media uno ogni due giorni - sottolinea l’esperta spagnola -. Non si tratta, purtroppo, però, di un caso isolato. Da un anno all’altro le cifre degli omicidi fluttuano di qualche decina. Anche quando c’è un calo, questo non è significativo e il numero complessivo resta tragicamente alto”, prosegue Laura Furones. Una conseguenza della gravità assunta dall’emergenza ambientale. Di fronte all’emergenza climatica, cresce la domanda sociale di politiche sostenibili che si scontra con interessi miliardari. Non sorprende, dunque, che la violenza si concentri nel Sud del mondo, serbatoio di materie prime per il mercato internazionale. Estrattivismo si dice in termini tecnici. L’ansia di accaparrarsi le risorse spinge a “sorvolare” sulla protezione della natura. “Due sono gli attori chiave per contrastare la violenza sugli attivisti ambientali. I governi e le istituzioni, innanzitutto, che hanno il compito di adottare politiche per prevenirla. Nonché di creare regole efficaci per disciplinare il comportamento delle imprese, nazionali o internazionali, impegnate nello sfruttamento delle materie prime. Queste ultime, da parte loro, devono rispettarle. Uno stimolo importante possono essere quelle normative internazionale che esigano trasparenza nella filiera produttiva in modo da garantire il rispetto dei diritti umani e della natura”. Uno dei punti più spinosi è, poi, l’applicazione delle leggi su territori spesso remoti. La Colombia ne è l’emblema. “Petro ha messo la questione ambientale al centro dell’agenda politica. Un passo importante e un segnale di forte discontinuità con il passato. Il Paese, però, deve fare i conti con le difficoltà ereditate da oltre mezzo secolo di guerra e un processo di pace ancora all’inizio”. Lo scoglio principale è la presenza di potenti organizzazioni criminali - eredi della guerriglia o, soprattutto, dei vecchi paramilitari d’ultradestra - che hanno trasformato il traffico di risorse in uno dei business principali. Per la medesima ragione, dunque, al terzo posto della classifica di Global Witness troviamo Messico e Honduras, entrambe con diciotto attivisti uccisi. La mappa degli omicidi coincide, nelle due nazioni centramericane, con quella del radicamento dei narcos sul territorio. I cartelli della droga, ormai, abbinano al commercio di cocaina, quello di legname, minerali, perfino specie rare. E non si fanno scrupolo di eliminare sistematicamente quanti si oppongono non solo ammazzandoli ma anche facendoli scomparire. Il ricorso crescente alla “desaparición forzada” dei custodi del pianeta è una delle tendenze più preoccupanti evidenziate dall’Ong. Precede i due Paesi centroamericani nella classifica, il Brasile - 25 vittime - dove gli intenti del governo di Luiz Inácio Lula da Silva di tutelare la natura, in particolare la regione amazzonica, si scontra con un Congresso e delle amministrazioni locali controllate da politici vicini agli interessi dei latifondisti. “L’85 per cento degli omicidi del 2023 è avvenuto in America Latina, da sempre il Continente con il maggior numero di attivisti uccisi. Questo è dovuto senza dubbio al grado elevato di organizzazione della società civile che la espone al rischio di repressione. Dall’altra, però, per quanto riguarda l’Asia e, soprattutto, l’Africa c’è il problema di trovare le informazioni. Dato il forte controllo esercitato dai regimi, spesso, la gran parte dei delitti resta invisibile. Non vuol dire, però, che non accadano”. Vi è, infine, un ulteriore ragione di allarme. La violenza perpetrata nel Sud del mondo sta facendo scuola. E viene replicata, in forma differente, nel Nord man mano che cresce la consapevolezza ambientale. In Usa, in Europa e in Gran Bretagna le aggressioni fisiche sono sostituite da un’offensiva legale volta a criminalizzare la legittima mobilitazione nonviolenta per la casa comune. Libia. L’Asi deve rispondere delle morti in custodia, delle sparizioni e delle detenzioni arbitrarie amnesty.it, 11 settembre 2024 Amnesty International ha dichiarato oggi che l’impunità radicata per le morti in custodia e altre gravi violazioni dei diritti umani da parte dei gruppi armati sotto il comando delle autoproclamate Forze armate arabe libiche (Faal), ha permesso all’Agenzia per la sicurezza interna (Asi) di intensificare, negli ultimi mesi, la sua repressione nei confronti di critici e oppositori politici, tra cui attivisti, scrittori e blogger. Dall’inizio del 2024 agenti dell’Asi pesantemente armati hanno arrestato, senza mandato, decine di persone tra cui donne e uomini con più di settant’anni, prelevandole dalle loro abitazioni, dalle strade o da altri luoghi pubblici nelle aree della Libia orientale e meridionale sotto il controllo delle Faal. Le persone arrestate sono state poi trasferite in strutture controllate dall’Asi, dove sono rimaste in detenzione arbitraria per mesi, senza la possibilità di contattare le loro famiglie o gli avvocati; alcune sono state vittime di sparizioni forzate per periodi fino a dieci mesi. Nessuna di loro è stata portata davanti alle autorità giudiziarie, né ha avuto modo di contestare la legalità della propria detenzione o è stata formalmente accusata di alcun reato. Tra aprile e luglio due persone sono morte in custodia in circostanze sospette mentre si trovavano in centri di detenzione controllati dall’Asi a Bengasi e Ajdabiya. Non sono state avviate indagini penali indipendenti e imparziali sui loro decessi e nessuno è stato ritenuto responsabile. “L’aumento, negli ultimi mesi, delle detenzioni arbitrarie e delle morti in custodia evidenzia come la cultura dell’impunità abbia incentivato i gruppi armati a violare il diritto alla vita dei detenuti senza temere conseguenze. Questi decessi in custodia si aggiungono al terribile catalogo di orrori commessi dall’Asi contro coloro che osano esprimere opinioni critiche verso le Faal”, ha affermato Bassam Al Kantar, ricercatore di Amnesty International per la Libia. “In qualità di autorità di fatto nelle regioni orientali e meridionali della Libia, sia il Governo di unità nazionale con sede a Tripoli che le Faal devono garantire l’immediata scarcerazione di tutti coloro che sono detenuti arbitrariamente soltanto per aver esercitato il loro diritto alla libertà di espressione. Le Faal devono inoltre sospendere dalle posizioni di potere i comandanti e i membri dell’Asi ragionevolmente sospettati di crimini di diritto internazionale e di gravi violazioni dei diritti umani. Tale provvedimento deve rimanere in vigore in attesa di indagini penali indipendenti e imparziali, comprese quelle relative alle cause e alle circostanze delle morti in custodia. Laddove vi siano prove sufficienti, tali individui devono essere sottoposti a processi equi davanti a tribunali civili”, ha aggiunto Bassam Al Kantar. Amnesty International ha intervistato un ex detenuto, le famiglie di sette detenuti, tra cui i due uomini morti in custodia, così come avvocati, difensori dei diritti umani e attivisti politici. “Nostro figlio ci è stato restituito come un cadavere” - Il 13 luglio 2024 Ahmed Abdel Moneim Al-Zawi, 44 anni, è morto mentre si trovava in un centro di detenzione dell’Asi ad Ajdabiya, nella Libia nord-orientale. Era stato arrestato arbitrariamente il 10 luglio mentre era in visita, presso lo stesso centro di detenzione, di suo fratello Abdrabo Abdel Moneim Al-Zawi, in carcere per aver criticato l’Asi. Secondo fonti informate, l’Asi ha dichiarato che Ahmed Abdel Moneim Al-Zawi si era suicidato impiccandosi, ma alcuni testimoni hanno riferito di aver visto un livido sulla nuca del detenuto, che sembrava essere stato causato da un forte colpo. Il 16 luglio Sheikh Al-Sanussi Al-Haliq Al-Zawi, vicepresidente del Consiglio supremo degli anziani e dei notabili della Libia e capo della tribù di Ahmed Abdel Moneim Al-Zawi, è comparso in un video dicendo: “Nostro figlio (Ahmed) è entrato lì con le sue gambe ed è tornato da noi come un cadavere”. Meno di 24 ore dopo è comparso un altro video, in cui Sheikh Al-Sanussi Al-Haliq Al-Zawi elogiava l’Asi, riferendo che era stata istituita una commissione per indagare sulla morte di Ahmed Abdel Moneim Al-Zawi. Amnesty International ha motivo di credere che Sheikh Al-Sanussi Al-Haliq Al-Zawi sia stato costretto a scagionare pubblicamente l’Asi, in linea con un modello già documentato in cui l’agenzia stessa minaccia i sopravvissuti e le famiglie delle vittime se osano esprimersi contro di loro. Secondo fonti informate, un procuratore di Bengasi ha archiviato il caso senza avviare alcuna indagine e nel rapporto forense non viene menzionata alcuna lesione alla testa. Siraj Dughman, analista politico libico, è morto il 19 aprile 2024 mentre si trovava sotto custodia dell’Asi. Le Faal non hanno mai risposto alle richieste della comunità internazionale e della società civile libica di avviare un’indagine sulle circostanze della sua morte. Il giorno dopo il decesso l’Asi ha dichiarato che l’uomo era caduto durante un tentativo di fuga. Alla famiglia non è stato permesso di vedere il corpo e non è stato condiviso alcun resoconto sull’autopsia. Amnesty International ha appreso che il certificato di morte riportava come causa del decesso “una caduta da un luogo elevato”. Arresti arbitrari con accuse pretestuose - Il 1° ottobre 2023 l’Asi ha arrestato Siraj Dughman e Fathi al-Baaja, segretario generale del partito “Libia per tutti” ed ex membro del Consiglio nazionale di transizione del 2011, insieme a un altro attivista politico, con l’accusa di pianificazione di un colpo di stato contro le Faal. Gli arresti sono avvenuti dopo che il Centro libico per gli studi strategici e futuri, guidato dallo stesso Siraj Dughman, aveva tenuto una riunione interna per discutere del disastroso crollo della diga di Derna. Nello stesso mese, l’Asi ha arrestato altri due attivisti politici, accusandoli di appartenere allo stesso gruppo di Siraj Dughman e di complottare contro le Faal. I quattro sono stati poi liberati il 25 agosto, dopo oltre 10 mesi di detenzione arbitraria senza accuse formali né processo. L’attivista e blogger arbitrariamente detenuta Maryam Mansour Al-Warfalli, conosciuta come “Nakhla Fezzan”, è stata arrestata dall’Asi a Sabha il 13 gennaio 2024, dopo aver criticato il modo in cui le Faal avevano supervisionato la distribuzione del gas da cucina nel sud della Libia. Maryam Mansour Al-Warfalli è stata per anni una voce critica nei confronti della cattiva gestione del sud del paese. Secondo un parente, da quando è stata imprigionata nella sede dell’Asi a Bengasi, a Maryam Mansour Al-Warfalli è stato negato qualsiasi contatto con la famiglia. È stata visitata da uno psichiatra, che il 2 maggio ha richiesto il suo ricovero all’ospedale di Bengasi, dove è rimasta solo per pochi giorni prima di essere riportata in prigione. Il 4 febbraio 2024 alcuni gruppi armati alleati delle Faal hanno arrestato e fatto sparire forzatamente Sufi Sheikh Muftah Al-Amin Al-Biju, 78 anni, dopo un’irruzione di circa 20 uomini nella sua casa a Bengasi. Secondo un parente, è stato preso di mira solo per aver esercitato il suo diritto alla libertà di religione e credo, nel contesto della persecuzione da parte dell’Asi nei confronti dei sufi, che non aderiscono all’ideologia salafita madkhalita, a cui l’Asi stessa si ispira. Lo stesso parente ha saputo da fonti non ufficiali che la salute di Sufi Sheikh Muftah Al-Amin Al-Biju nel carcere di Qarnada, controllato in parte dall’Asi, sta peggiorando. Soffre, infatti, di diabete e il suo sistema immunitario è indebolito dalle cure per il cancro. Nessuno dei gruppi armati vicini alle Faal ha permesso alla famiglia di fargli visita e di ottenere informazioni circa il luogo della sua detenzione. Ulteriori informazioni - L’Asi opera sotto l’autorità de facto delle Faal ed è guidata da Ousama Al-Dressi. I membri dell’Asi hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani per mettere a tacere critici e oppositori. Una somma di 179 miliardi di dinari libici (circa 34 miliardi di euro), approvata nel luglio 2024 dal parlamento della Libia per il Governo libico con sede a est e alleato delle Faal, prevede il finanziamento di gruppi armati, tra cui l’Asi, noti per precedenti violazioni dei diritti umani. Le Faal controllano e gestiscono attività di governo a Bengasi, la seconda città più grande della Libia, e in ampie zone della Libia orientale e meridionale. I luoghi in cui le autorità de facto, come le Faal, esercitano il controllo territoriale e delle attività governative, sono vincolati dal diritto internazionale sui diritti umani. Un’entità separata, anch’essa chiamata Asi, opera nella Libia occidentale ed è guidata da Lotfi al-Harari, sotto l’autorità del Governo di unità nazionale con sede a Tripoli. Gran Bretagna. Carceri sovraffollate: rissa Tory-Labour sulle colpe, il governo libera 1.700 detenuti ansa.it, 11 settembre 2024 È scattato oggi il piano annunciato fin da luglio dal governo laburista di Keir Starmer per affrontare l’emergenza del sovraffollamento nelle prigioni britanniche - suggellata dal record storico della popolazione carceraria nel Regno registrato ad agosto - attraverso il rilascio anticipato di migliaia di reclusi. Il piano, delineato dalla Ministra della Giustizia, Shabana Mahmood, prevede un taglio dal 50 al 40% del totale della pena minima da scontare per poter ottenere il beneficio della libertà condizionata. Un provvedimento esteso a tutti i detenuti non condannati per reati di omicidio, violazione della legge sul terrorismo o violenze sessuali e domestiche. E che per ora porterà alla scarcerazione immediata di 1.700 detenuti. La questione ha scatenato una rovente polemica con l’opposizione conservatrice, che ha accusato il governo Starmer di mettere a rischio la sicurezza dei britannici. Il premier e i suoi ministri hanno replicato denunciando l’eredità ricevuta dal potere Tory, al potere fino a poco più di due mesi fa, e additando i mancati interventi sulle infrastrutture carcerarie come “il peggiore scandalo” dei governi precedenti Le autorità penitenziarie evocano da parte loro un sistema sull’orlo del collasso, con un’occupazione delle celle “prossima al 100%”. Mentre alcuni ministri citati dai media parlano delle scarcerazioni come di “una decisione difficile”, rivendicando tuttavia la necessità di prendere in considerazione qualunque soluzione realistica: inclusa, stando ad anticipazioni rimbalzate sulla stampa, quella di negoziati avviati con Paesi alleati che dispongono di spazi carcerari liberi come la piccola Estonia, dove potrebbe essere trasferita a pagamento una quota di detenuti britannici in esubero.