Non serve moltiplicare prigioni e celle di Giorgio Paolucci Avvenire, 10 settembre 2024 La riforma del sistema carcerario è una sfida in cui si sono cimentati tanti governi con alterni risultati, e quello attuale non fa eccezione. Le ricette si sprecano, nessuna probabilmente è risolutiva, certo è che la soluzione non può venire dalla moltiplicazione dei penitenziari, come qualcuno continua a sostenere. Anche perché per molti proprio il periodo della detenzione diventa una scuola del crimine: anziché incontrare occasioni di rieducazione, come dice a chiare lettere l’articolo 27 della Costituzione italiana, si incontrano cattivi maestri e si esce peggiori di quando si è entrati, o si vive in condizioni tali da aumentare il senso di inimicizia nei confronti della società. Invece di aumentare le dimensioni del pianeta carcere si deve puntare a farlo dimagrire. Oltre che dibattere sui provvedimenti generali utili a raggiungere questo irrimandabile obiettivo - indulto, amnistia, depenalizzazione di certi reati - è necessario incrementare le esperienze che dimostrano di essere realmente alternative alla detenzione e che si muovono nella logica di una giustizia rieducativa e non vendicativa. Perché - con buona pace di quanti si lamentano per l’aumento della criminalità - la sicurezza della società è direttamente proporzionale alla possibilità di recupero di coloro che hanno sbagliato. Da più di vent’anni è attiva in Italia un’esperienza che si muove in questa direzione: si chiama Cec, acronimo di Comunità educante con i carcerati, nasce dal rigoglioso albero della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi. In questi giorni (fino al 13 settembre) Bologna ospita una mostra che presenta il modello delle Cec, presenti in Emilia-Romagna, Toscana, Abruzzo e Piemonte, e quella delle Apac (Associazione per la Protezione e Assistenza Carcerati), nata sessant’anni fa in Brasile, riconosciuta dall’Onu come eccellenza nel panorama mondiale e a cui la Cec per molti versi si ispira. Niente pietismo né assistenzialismo, certezza della pena e alte garanzie di recupero. È possibile uscire dal tunnel della delinquenza creando “case aperte”, luoghi di espiazione alternativi al carcere dove vivere in una dimensione familiare e comunitaria, affrontando un cammino educativo a cui si accede in accordo con la direzione carceraria e il magistrato preposto. Il percorso, accompagnato da operatori e volontari, comprende la presa di coscienza del male compiuto e dei danni causati alla società e a sé stessi, una proposta di fede offerta alla libertà degli ospiti, la valorizzazione delle relazioni umane, l’apprendimento di un lavoro, la costruzione di reti di collaborazione con il territorio e le imprese locali, l’acquisizione di una nuova consapevolezza della propria dignità da parte dei “recuperandi”, come vengono chiamati dai volontari della Papa Giovanni XXIII. Perché, come amava ripetere don Benzi, “l’uomo non è il suo errore”. E sono gli stessi “recuperandi” che in questi giorni raccontano ai visitatori le loro “ripartenze” umane, per dare pubblica testimonianza del cambiamento avvenuto e del contributo che da questo cambiamento deriva alla società tutta. Anche i numeri parlano chiaro: solo il 15 per cento di chi è stato ospite delle Cec torna a delinquere dopo avere scontato la pena, a fronte del 70 per cento di recidiva nella popolazione detenuta a livello nazionale. E mentre una persona detenuta in carcere costa mediamente allo Stato 200 euro al giorno, nelle Cec si scende a 50, a costo di grandi sacrifici e con il contributo di tanti donatori. In definitiva, per lo Stato è cosa conveniente sostenere la crescita di realtà come queste, sia sotto il profilo economico, sia per i risultati che si ottengono nel reinserimento sociale, sia per il guadagno che ne deriva alla convivenza in termini di sicurezza. Sarebbe un modo per realizzare quel principio di sussidiarietà tanto decantato quanto poco praticato, e un contributo al dimagrimento del pianeta carcere. Si può fare, e allora si aiuti - anche finanziariamente - chi lo fa. Scontare la condanna vivendo in queste comunità è l’occasione di una svolta radicale per le persone detenute, che incontrano luoghi dove la loro umanità può rifiorire, dove possono misurare la convenienza del bene e sentirsi guardati nella loro dignità di persone amate. Perché, come recita il titolo della mostra che documenta questi percorsi di rigenerazione, “dall’amore nessuno fugge”. Venti giorni senza Garante dei detenuti. E via Arenula pensa alla norma Costa che serve ai colletti bianchi di Liana Milella La Repubblica, 10 settembre 2024 Per ridurre il numero dei reclusi verrebbero esclusi, dalle regole della custodia cautelare, i casi di chi può commettere lo stesso reato. Che certo non vale per scippatori e ladri seriali. Settanta suicidi in cella. Evasioni e rivolte. Dall’inizio dell’anno. Un record. A partire dall’ultimo caso al Beccaria di Milano l’8 settembre. A Cassino era successo il 3; a Regina Coeli a Roma e ad Ancona il 30 agosto; al Marassi di Genova e a Reggio Calabria il 23; sempre a Regina Coeli il 18; gravissimi incidenti a Bari il 17; a Catanzaro il 10; al minorile di Torino giusto il primo di agosto; il 30 luglio ad Alessandria e a Cuneo; a Biella il 28; tensioni sempre il 28 a Regina Coeli e Velletri; il 26 le proteste a Rieti con 400 detenuti in autogestione; il 24 disordini a Venezia; il 22 un detenuto tenta l’evasione all’Aquila; il 21 tre minori evadono dal minorile di Casal del Marmo; il 19 un detenuto ne uccide un altro a Salerno; il 12 ecco le proteste a Trieste; il 10 disordini gravi a Viterbo; il 7 un recluso evade dall’ospedale Cardarelli di Napoli (ma viene ripreso); il 5 un’altra evasione a Trapani; il 4 fortissima protesta a Sollicciano. Giorno dopo giorno ne dà notizia il segretario della Uilpa Gennarino De Fazio, e il suo è un tragico bollettino di guerra che documenta l’incapacità del governo, ma anche la sua cinica indifferenza. All’inizio di luglio De Fazio ironizza sulla rivolta di Sollicciano, a secco di acqua, giusto “all’indomani del varo del decreto ‘carcere sicuro’ in consiglio dei ministri”. Alle contestazioni, in questi due mesi, si alternano i suicidi oppure le morti a seguito di un atto di ribellione, come quello del diciottenne egiziano che muore carbonizzato il 6 settembre a San Vittore perché aveva dato fuoco al materasso. Il 5 settembre il suicidio numero 69, un detenuto si impicca a Imperia. Il 2 un uomo di 62 anni si toglie la vita a Benevento. Il 30 agosto, 54 anni, suicida a Reggio Emilia. Il 7 si impicca un tunisino a Prato. Il giorno prima un albanese di 55 anni muore nello stesso modo a Biella. Il 5 agosto a 48 anni probabile suicidio nel tribunale di Salerno. Il 2 si uccide un poliziotto penitenziario all’Ucciardone. È il settimo nel 2024. Il 30 luglio un suicidio a Rieti. Il 28 un italiano di 27 anni si impicca a Prato. Il 26 suicidio a Rebibbia. Il 21, nel carcere di Bologna, 48 anni, si uccide un detenuto di origine albanese. Il 15 luglio, 37 anni, suicidio a Venezia. Il 13 nuovo suicidio a Monza. Il 12 un detenuto muore a Verona. L’8 luglio un ottantunenne, arrestato una settimana prima, si uccide nel carcere di Potenza. Il 7 luglio, 36 anni, il sesto agente della penitenziaria si toglie la vita. Il 4 luglio, a 44 anni, muore un detenuto a Livorno. E nello stesso giorno, a Pavia, si impicca un egiziano di vent’anni. A Paola, il primo luglio, a 21 anni un altro compie lo stesso gesto nella doccia. È la fotografia della catastrofica estate 2024 sul fronte delle carceri. L’estate del Guardasigilli Carlo Nordio e dei suoi tre sottosegretari, Sisto, Ostellari, Delmastro. Interrotta dal decreto “carceri sicure” d’inizio luglio convertito in tutta fretta un mese dopo solo perché, in sua assenza, Mattarella non avrebbe firmato la legge che cancella l’abuso d’ufficio approvata a ruota. Nel decreto carceri, imposto dal Colle, c’è la “pezza” del peculato per distrazione. Un’estate segnata anche dalla morte il 22 luglio, a seguito di un infarto mentre era in vacanza a Locri con la sua famiglia, del Garante dei detenuti Felice Maurizio d’Ettore in carica da gennaio. Una settimana dopo Repubblica scopre che il fratello Pasquale, detenuto per una condanna a cinque anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, non ha ottenuto il permesso per partecipare ai funerali del fratello. Inevitabile chiedersi perché non fosse di pubblico dominio lo stato detentivo di Pasquale D’Ettore. Il Garante Maurizio D’Ettore aveva informato il governo? Com’è possibile che una simile notizia, dopo l’inchiesta “Leone” del pool antimafia di Reggio Calabria, non fosse nota e non fosse trapelata? Eppure, giornalisticamente, sarebbe stata assai fruibile. Era nota al Guardasigilli, che ne aveva proposto il nome a Mattarella, la situazione giudiziaria di questo stretto congiunto? Non ne sarebbero stati neppure al corrente, a quanto affermano, gli altri due componenti dell’ufficio del Garante, il civilista palermitano Mario Serio, indicato da M5S, e l’avvocata romana Irma Conti, portata dalla Lega, mentre D’Ettore era sostenuto da Fratelli d’Italia cui aveva aderito dopo un passato parlamentare con Forza Italia e poi con Coraggio Italia. Maurizio D’Ettore non c’è più, la famiglia ha diritto alla sua privacy, ma chi lo ha scelto ha invece l’obbligo di chiarire i fatti. Nel frattempo, non risulta che ci sia stato alcun passo politico per indicare un nuovo Garante di cui invece c’è un estremo bisogno. Non basta visitare tre o quattro carceri in un solo giorno - e chissà poi come questo sia possibile e che effettivi controlli assicuri - ma serve una presenza costante laddove continuano a verificarsi agitazioni, rivolte, fughe e suicidi. Come ha detto e scritto l’ex Garante Mauro Palma non solo il caso D’Ettore va chiarito per non creare “ombre” sull’ufficio stesso, ma proprio in una situazione di grande instabilità esso va mantenuto al massimo livello perché rappresenta l’unica garanzia di controllo sullo stato delle prigioni. Lo è stata per più di sette anni con Palma, mentre con l’attuale governo la sua immagine si è appannata. Siamo a oggi. E c’è un’altra notizia. Pure il governo s’è accorto che il suo decreto non è neppure un pannicello caldo. Ma inquieta leggere che il sottosegretario Andrea Ostellari si faccia latore di una presunta soluzione contro il sovraffollamento. Ne parla in un’intervista alla Stampa dove testualmente propone: “Limitare l’applicazione della misura cautelare in cella per i casi più lievi in cui c’è il pericolo di reiterazione del reato. Ovviamente questo deve essere fatto con la massima attenzione. Bisogna escludere dalla nuova normativa i reati più gravi e pensare a misure diverse. Come gli arresti domiciliari”. Sarebbe questa la strada, per lui e per il ministro Nordio, “per diminuire i casi di carcerazione preventiva”. Ostellari non lo dice, ma questa è l’ultima creatura di Enrico Costa, che l’attuale responsabile Giustizia di Azione ha presentato ad agosto proprio nel decreto carceri “sicure”, con un ordine del giorno ovviamente approvato dal governo. Con il quale, parlando ancora una volta di presunzione d’innocenza, si smonta la possibilità di arrestare una persona se è lieve il pericolo che commetta di nuovo lo stesso reato. Scrive Costa: “Un sospetto basato su un sospetto: sospetto di reiterazione del reato nei confronti di chi è solo sospettato di aver commesso quel reato, ma non è stato ancora dichiarato colpevole, anzi è presunto innocente, né lo è stato in passato”. Una norma che l’opposizione ha già battezzato “norma Toti” e che certo non aiuterà a star fuori dalle galere scippatori, ladruncoli e spacciatori per i quali è fin troppo facile ipotizzare proprio la ripetizione dello stesso reato. E sono quelli che affollano le prigioni, non certo i Toti. Una norma su cui il governo è balzato sopra per proteggere i “presunti” colletti bianchi. Che, lo dimostrano le statistiche, certo non riempiono le patrie galere. E sarebbe questa - ma pensate un po’ - la via d’uscita dalla tragedia dei suicidi, delle rivolte, delle evasioni. Nelle celle è il caos, ma del Commissario per le carceri non c’è ancora traccia di Giulia Merlo Il Domani, 10 settembre 2024 Annunciato a metà luglio dal ministro Nordio e inserito nel decreto carceri, la nomina è “una priorità” secondo via Arenula ma la pausa estiva ha messo tutto in stand-by. Dopo l’ennesima evasione, questa volta dal carcere di Avellino, e il settantesimo detenuto suicida a Vicenza, l’emergenza che riguarda il sistema penitenziario è sempre più conclamata. A mancare, invece, sono contromisure efficaci. Come da timori estivi, il decreto carceri varato dal governo non ha prodotto alcun effetto concreto, e anche la nuova figura del commissario ad hoc per le carceri annunciata con enfasi dal ministro della Giustizia Carlo Nordio tra gli strumenti operativi per risolvere l’emergenza è ancora solo sulla carta. La previsione di questa nuova figura era stata anticipata dal guardasigilli in un question time ormai risalente al 17 luglio e poi introdotta nel decreto Carceri, ma, complice anche la pausa estiva (ma per i detenuti agosto è stato un normale mese di sovraffollamento), per ora non si sa ancora nulla di concreto. “È una priorità del ministro che sarà affrontata al più presto”, viene assicurato da via Arenula, ma i tempi rimangono nebulosi, come incerto è il profilo di chi potrebbe rivestire il ruolo. I compiti - “Il commissario straordinario avrà il compito di attuare in tempi brevissimi il piano nazionale di interventi per l’aumento di posti detentivi e per la realizzazione di nuovi alloggi destinati al personale della polizia penitenziaria. Questo programma edilizio sarà imponente e realizzato speditamente. È un piano a medio termine se non a lungo termine” erano state le parole del ministro. Eppure i tempi non appaiono certo “brevissimi”, e già si stanno erodendo i mesi a disposizione del futuro commissario, considerando che - secondo il decreto Carceri - rimarrà in carica fino al 31 dicembre 2025. Anche perché il percorso di nomina prevede alcuni passaggi: è necessario un decreto del presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro della Giustizia di concerto con il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti. Il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria potrà avvalersi di una struttura di supporto alle sue dirette dipendenze con un massimo di cinque esperti (a cui spetteranno compensi lordi “non superiori ai 60mila euro l’anno”, e per l’intera struttura commissariale è stanziata una spesa nel limite di 338.625 euro per l’anno 2024 e di 812.700 euro per l’anno 2025). Quanto ai compiti, il commissario dovrà rendere operativi i progetti già esistenti di edilizia penitenziaria per cui il ministero ha sbloccato 166 milioni di euro, per ristrutturare gli edifici in degradate e costruire nuovi padiglioni. Gli interventi previsti sono 21 e il principale è la costruzione del nuovo carcere di San Vito in Tagliamento, in Friuli-Venezia Giulia, con una capacità di 300 posti, per cui è previsto un costo di 41 milioni di euro, subito dopo ci sono la ristrutturazione del carcere di Brescia Verziano e la costruzione del carcere di Forlì, rispettivamente per 38,8 milioni e 27,8 milioni di euro. Uno riguarderà anche la ristrutturazione di Poggioreale, dove ieri è andato in visita l’eurodeputato del Pd, Sandro Ruotolo, che ha annunciato che “porteremo la questione delle carceri italiane al parlamento europeo. Chiederemo alla Commissione sulle libertà civili di venire a fare una missione nelle carceri italiane”. Del resto è chiaro che la nomina del commissario - quando avverrà - non produrrà alcun effetto a breve termine. Come calcolato da Antigone nel suo rapporto 2024, infatti, “i tempi medi di costruzione di un carcere, nella storia recente, sono stati circa di 8-10 anni”. Non certo una tempistica compatibile con l’emergenza del sovraffollamento certificata anche dal ministero della Giustizia. In memoria di Youssef, morto in carcere a 18 anni: “La tragedia della sua sofferenza riguarda tutti” di Cecco Bellosi* Corriere della Sera, 10 settembre 2024 Il ragazzo appena maggiorenne morto bruciato nella sua cella a San Vittore era stato ospite di comunità per minori in cui si era fatto amare da tutti. Nella notte tra giovedì 5 e venerdì 6 settembre è morto a 18 anni, bruciato in cella a San Vittore, Youssef Barsom, un “nostro” ragazzo. Dico “nostro” non solo perché è stato in comunità minori, ma anche perché abbiamo provato più volte a continuare ad accoglierlo anche quando se ne andava a Milano finendo nei guai che gli hanno fatto varcare la soglia di quell’inferno che è oggi San Vittore. Ci abbiamo provato ad accoglierlo anche a Tirano, dato che Youssef aveva dei problemi importanti di sofferenza psichica, ma la sua ansia di fuga appariva in certi momenti incontenibile. Una fuga nel mondo che è diventata fuga dal mondo. Era un ragazzo affettuoso e sensibile. Ricordo i suoi abbracci intensi, che chiedevano protezione e tenerezza. E il suo sguardo, pieno di un sorriso malinconico. La sua sofferenza era emotivamente comprensibile, razionalmente imperscrutabile. Youssef è stato uno dei ragazzi a cui abbiamo voluto più bene, un bene autentico, perché nel vederlo perdersi ci sentivamo persi anche noi. Ed è morto a 18 anni, in un carcere bolgia, sovraffollato e pieno di sofferenza mentale. Trascrivo qui la lettera di addio che idealmente gli ha voluto inviare una delle nostre operatrici: “Youssef ci ha fatto letteralmente impazzire. Eppure, gli abbiamo voluto bene, tanto bene, un bene autentico, viscerale. I nostri telefoni sono intasati di sue foto, perché amava farsi i selfi, questa che vi allego invece gliel’ho fatta io, un giorno nella sua Milano, la città che ha accolto la sua stranezza e la città che lo ha risucchiato fino alla morte. Quante volte ha sfidato la morte? Troppe... ma questa volta forse l’ha cercata perché si era arreso. Eppure, io lo voglio ricordare così come in questa foto, in tutta la sua vitalità, e nella sua esuberanza. Ciao Youssy. Alicia (come tu mi chiamavi)”. Il dolore che chi l’ha conosciuto sta provando è pari all’affetto che abbiamo provato e proviamo per lui, ma soprattutto all’affetto che lui ci ha donato. *Comunità “Il Gabbiano” Quei 21 bambini tenuti negli Icam e nelle carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 settembre 2024 Attualmente risultano 21 bambini che vivono in carcere con le loro 18 madri detenute. Gli infanti detenuti insieme alle loro madri sono ospitati in luoghi differenti, a volte molto diversi tra loro. Così come non mancano casi di detenute incinta che hanno perso il loro bambino. Tutto ciò mentre la maggioranza vuole modificare proprio quella legge che tende a tutelari le donne in gravidanza. Gli ambienti in cui vengono collocati i bambini di detenute possono essere suddivisi in tre principali categorie. La prima e più numerosa categoria è rappresentata dagli Istituti a Custodia Attenuata per Madri (Icam). Questi istituti sono stati pensati per accogliere donne incinte o con figli sotto i sei anni, quando il giudice valuta compatibile questa soluzione con le esigenze cautelari. Attualmente, in Italia sono operativi quattro Icam, ognuno con caratteristiche specifiche. L’Icam di Lauro (Avellino), il più grande e capiente, funziona come struttura autonoma pur essendo formalmente una sezione distaccata della Casa Circondariale di Avellino, con cui condivide la direzione. Al momento ospita 4 bambini. L’Icam di Milano, che accoglie 6 bambini, è situato in un edificio separato, lontano dal centro città, ma rimane sotto l’amministrazione della Casa circondariale di San Vittore. L’Icam di Torino, con i suoi 5 bambini, si trova all’interno del complesso penitenziario Le Vallette, ma in una palazzina indipendente. Infine, l’Icam di Venezia, che ospita 2 bambini, è collocato all’interno del carcere femminile, in una sezione separata dalle altre aree. Nonostante gli Icam siano progettati per offrire un ambiente il più confortevole possibile, è fondamentale sottolineare che rimangono strutture detentive. La seconda categoria di luoghi che ospitano donne detenute con figli a seguito non comprende istituti appositamente dedicati, bensì aree specifiche all’interno di istituti penitenziari ordinari. L’ordinamento penitenziario italiano prevede infatti che una madre detenuta possa decidere di tenere con sé il proprio bambino in carcere fino al compimento del terzo anno di età. Gli spazi adibiti a questo scopo sono le cosiddette “sezioni nido”, piccole aree detentive collocate all’interno dell’istituto e teoricamente progettate per offrire un ambiente più adatto alle esigenze dei bambini. Queste sezioni dovrebbero essere dotate di strutture e servizi specifici, come aree gioco, personale specializzato e assistenza pediatrica. Un esempio significativo è il nido della Casa Circondariale femminile di Rebibbia a Roma, dove attualmente sono presenti due bambini. Nonostante gli sforzi per creare un ambiente più adeguato, queste sezioni rimangono comunque parte integrante di un istituto penitenziario, con tutte le limitazioni che ciò comporta. La terza e ultima categoria è rappresentata da luoghi all’interno del carcere non originariamente pensati per i bambini, ma adattati in modo approssimativo per accoglierli. Si tratta di reparti femminili che non dispongono di vere e proprie sezioni nido, ma solo di alcuni ambienti (spesso limitati a una singola stanza) dove vengono collocate le donne con i figli a seguito. Questi spazi improvvisati mancano generalmente delle strutture e dei servizi necessari per garantire un’adeguata crescita e sviluppo dei bambini. Entrambi le categorie rimangono comunque strutture detentive, seppur attenuate. Una questione che potrebbe essere risolta velocemente, così come prevedeva la proposta di legge, affossata, dell’ex parlamentare del Partito democratico Paolo Siani e riproposta dalla deputata dem Debora Serracchiani. Basterebbe l’esclusivo utilizzo delle case famiglia protette, affidate ai servizi sociali e agli enti locali: ce ne sono soltanto due, una a Roma e l’altra a Milano. Ma tutto rischia di peggiorare con il “ddl sicurezza”, ossia il Disegno di legge n. 1660/ C recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”. Il ddl contiene l’emendamento della Lega volto a modificare la normativa attuale che prevede l’obbligo del rinvio della pena, anche per le madri incinte e che hanno un figlio di età inferiore a un anno. Nonostante la legge attuale (che la maggioranza intende modificare), si sono verificati casi di donne incinte detenute. Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, al 31 dicembre 2023 risultavano 12 detenute in stato di gravidanza. Tra questi casi, particolarmente drammatico è stato quello di una ventiseienne che all’inizio di marzo 2024 ha perso il proprio bambino nel carcere di Sollicciano a Firenze a causa di complicazioni della gravidanza. Purtroppo, non si tratta di un caso isolato. Eventi simili si sono verificati nel luglio 2022, quando una donna ha perso il bambino dopo essersi sentita male nell’istituto milanese di San Vittore, e nel marzo 2019 a Pozzuoli. A Rebibbia, nell’agosto 2021, una donna ha partorito improvvisamente nella propria cella con il solo aiuto della compagna di stanza. Nonostante ciò, la maggioranza, tramite il decreto sicurezza, vuole abolire il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne in gravidanza. Carceri e ospedali, Bonelli: “Nel caos salta il patto sociale” di Samuel Botti true-news.it, 10 settembre 2024 Tra evasioni e botte, suicidi e mancanze di personale per il leader di Alleanza Verdi e Sinistra è a rischio la tenuta del patto sociale nel Paese. Tra carceri e ospedali, le strutture pubbliche italiane stanno vivendo un momento drammatico. Pochi giorni fa un detenuto di 18 anni è morto carbonizzato nella sua cella alla Casa Circondariale di Milano San Vittore. Insieme al compagno di cella, avrebbero appiccato il fuoco per bruciare un materasso. Ora il sopravvissuto è indagato per omicidio colposo. Questa morte si aggiunge ai 70 suicidi di detenuti e 7 di guardie penitenziarie da inizio anno. Il sovraffollamento stimato nelle prigioni italiane è superiore al 130%, con circa 62mila detenuti e 46mila posti disponibili, la capienza regolamentare si aggira intorno ai 51mila posti: 4360 in meno del previsto. 50 persone hanno aggredito i medici all’ospedale di Foggia - Negli stessi giorni, al Policlinico Riuniti di Foggia una ragazza di 23 anni è morta sotto ai ferri dopo aver subito un incidente stradale. Dopo la constatazione del decesso, circa 50 persone, tra parenti e amici, si sono scagliati contro medici e personale sanitario, prendendoli a calci e pugni e costringendoli così a rifugiarsi in una stanza. Il personale ha poi postato un video che riprendeva il terrore di quei minuti, rinchiusi tutti insieme per evitare il linciaggio. Nei primi sei mesi del 2024, si sono registrate 6961 aggressioni al personale ospedaliero, superando la metà di tutti gli episodi segnalati nel 2022, pari a 11.508. Due vicende naturalmente molto diverse ma che mettono in evidenza due emergenze che vanno in parallelo, con teatro le strutture pubbliche italiane. E con il leit-motiv della incapacità da parte dello stesso Stato di garantire e tutelare la sicurezza dei cittadini. Siano essi persone che vi lavorano o che si trovano al loro interno. L’escalation di violenza e la scarsa tutela in queste strutture è in costante crescita. Ne abbiamo parlato con il leader di Avs Angelo Bonelli. “Situazioni fuori controllo, servono misure immediate”. Bonelli, un commento su quanto accaduto al 18enne nel carcere di San Vittore? Ripropone la condizione drammatica nelle carceri in Italia, totalmente dimenticata. Il decreto Nordio non solo non ha risolto la situazione, ma ad ammissione del ministro stesso, è totalmente inadeguato. Ciò pone un problema che riguarda le misure alternative alla pena. La situazione è fuori controllo e di grande emergenza. Così come le carceri, anche ospedali e pronto soccorso sono presidi dello Stato in cui viene a mancare la tutelare e la sicurezza di coloro che si trovano al loro interno, come successo a Foggia. Pur nelle differenze delle due realtà, si tratta di due emergenze che corrono in parallelo? Ogni situazione ha la sua genesi e le sue radici. Il tema delle carceri è un problema che riguarda il sovraffollamento, le carenze di strutture e quant’altro. Per quanto riguarda la vicenda più specifica dell’ospedale di Foggia, c’è stata una reazione violenta dei parenti nei confronti dei medici in conseguenza del decesso della giovane paziente. Purtroppo, troppe volte medici e personale sanitario sono sottoposti ad aggressioni di vario genere. C’è un problema nel Paese: è come se fosse saltato una sorta di patto sociale di regole di convivenza civile. Cosa intende? Deve essere avviata una riflessione ma anche un atteggiamento estremamente rigoroso nei confronti del rispetto, non solo della cosa pubblica ma anche di funzionari dello Stato, in questo caso medici, che non possono essere sottoposti ad aggressioni e violenze di vario titolo. Si tratta di un problema molto serio che riguarda il nostro paese. Questo patto sociale viene a mancare quando non c’è uno stato che riesce a far rispettare le regole, che significa anche garantire i diritti dei più deboli, e prevale la sopraffazione del diritto del più forte attraverso la violenza. E questo è inaccettabile. Ilaria Salis: “La detenzione in carcere dei minori sta diventando la normalità” tg.la7.it, 10 settembre 2024 “Chiudere tutte le carceri minorili, il recupero va fatto attraverso percorsi educativi più che detentivi”. Secondo la Salis il ricorso a misure alternative per i minori sta diminuendo, mentre la detenzione in carcere sta diventando la normalità. L’europarlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra aveva visitato il carcere di San Vittore e subito dopo aveva ipotizzato l’abolizione del carcere. Ora chiede anche la chiusura di tutte le carceri minorili. Comincia col carcere Beccaria di Milano. “L’istituto penitenziario per minori come tanti altri, è infatti un vero disastro, pieno di criticità che si ripetono da anni e che non possono più essere ignorate. Le problematiche sono molteplici, dalla carenza di mediatori culturali alle strutture fatiscenti, dalla mancanza di adeguati programmi di reinserimento alla violenza usata come strumento di gestione. Non possiamo dimenticare le immagini del brutale pestaggio di un detenuto 15enne da parte di più agenti di polizia penitenziaria, avvenuto lo scorso marzo. Le condizioni attuali sono inaccettabili e l’istituto non può continuare a operare in queste condizioni. Deve essere chiuso il prima possibile”. “Bisogna tornare al passato” - La proposta della Salis: abolire tutte le carceri minorili. Opta per un recupero attraverso percorsi educativi più che detentivi. “l’Italia, in passato, grazie alla capacità di rendere residuale la risposta carceraria per minori puntando su un approccio di tipo educativo, è stata un modello positivo di giustizia penale minorile in Europa e nel mondo. Questo modello, anziché essere protetto e ampliato, è stato progressivamente smantellato, e l’attuale governo sta completando l’opera”. “In Italia la detenzione dei minori è normalità” - “Le opportunità per percorsi alternativi alla detenzione stanno diminuendo drasticamente soprattutto per tutti quei ragazzi che già in partenza hanno meno possibilità. Di conseguenza, la detenzione, anziché essere intesa come extrema ratio, diventa la soluzione normale, una scelta peraltro incentivata dagli ultimi decreti governativi che hanno ampliato la possibilità di ricorso alla custodia cautelare in carcere. Anziché andare avanti, andiamo indietro. Invertiamo la rotta”. Il Ddl Sicurezza in aula: è battaglia su detenute madri e cannabis light di Angela Stella L’Unità, 10 settembre 2024 Via oggi alla discussione a Montecitorio. Insorgono le associazioni contro il carcere per donne incinte e con figli neonati, anche FI dice no. Produttori all’attacco del divieto di coltivare la canapa a basso contenuto di Thc. Inizia oggi nell’Aula della Camera la discussione generale sul ddl sicurezza. Tra i temi da affrontare l’articolo che rende facoltativo, e non più obbligatorio come è previsto adesso, il rinvio della pena per donne incinte o con prole fino ad un anno. La modifica era stata approvata durante l’iter nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia, tra aspre critiche dell’opposizione. Ricordiamo anche però che a luglio FI non partecipò al voto sull’emendamento in questione. Ora, gli azzurri confermano di voler lanciare un segnale alla maggioranza sulle carceri. Infatti hanno presentato un emendamento che ripristina il differimento obbligatorio della pena per le madri di bambini neonati (di età compresa tra gli zero e i 12 mesi), in modo che nessun bambino debba passare i primi mesi dietro le sbarre. Resta la discrezionalità del magistrato dagli zero ai tre anni. Ma la partita non la si vuole perdere anche fuori dal parlamento. Per questo la Società della Ragione ha rilanciato la campagna “Madri Fuori, dallo stigma e dal carcere, insieme ai loro bambini e bambine”. Il rinvio non solo diventa facoltativo, con tutti i problemi inevitabilmente legati anche alle tempistiche per ottenerlo, ma può essere rifiutato laddove si ritenga che la donna possa commettere ulteriori reati. “Tutti i bambini e tutte le bambine hanno il diritto di nascere in libertà” ha sottolineato Zuffa che ha proseguito: “chiediamo che il parlamento stralci la norma e che il Governo persegua l’unica soluzione che realmente tutela i diritti umani: far sì che i bambini e le bambine nascano fuori dalle prigioni e che si costruiscano finalmente le case famiglia per offrire a chi ne ha bisogno un domicilio sicuro e dignitoso, superando la reclusione delle madri e dei figli negli istituti a custodia attenuata (ICAM)”. Nell’appello, già sottoscritto da Michele Passione, Franco Corleone, Stefano Anastasia, Tamar Pitch, Valentina Calderone, Susanna Marietti, Ornella Favero, Redazione Ristretti Orizzonti, Antigone, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, si precisa che “con questa previsione, il governo riesce a peggiorare persino il codice Rocco, nonostante la Costituzione si esprima in maniera estremamente chiara a favore della tutela della maternità e dell’infanzia e nonostante i pronunciamenti nello stesso senso della Corte costituzionale e delle convenzioni internazionali. Con questa norma, non solo si punisce la donna per la ‘doppia colpa’ di aver tradito col reato la ‘missione’ materna, sulla scia dello stereotipo patriarcale; ma si permette che lo stigma ricada pesantemente sul/sulla di lei figlio/figlia”. Per i firmatari “nessun bambino e bambina dovrebbe stare in carcere, che il carcere non è luogo dove la relazione madre bambino possa essere serena, tantomeno può essere il luogo ove una donna possa portare avanti in condizioni di sicurezza e dignità la propria gravidanza e, infine, partorire. E neppure possono essere soluzioni congrue gli ICAM, istituti a custodia attenuata, che sono pur sempre struttine carcerarie. Né sarebbe sostenibile la soluzione di separare i neonati e le neonate dalle proprie madri, come ricordato sia dal CPT- Comitato Prevenzione Tortura che dalla Corte Europea dei Diritti Umani che cita la pertinente disposizione dell’OMS, secondo cui un neonato sano deve rimanere con la propria madre. Piuttosto, le case-famiglia potrebbero rappresentare una alternativa accettabile per le detenute partorienti e i loro bambini o bambine che non godono di un domicilio sicuro e dignitoso. Ma le case- famiglia, già previste per legge e parzialmente finanziate solo per alcuni anni, non sono state costruite”. Sempre in tema di ddl sicurezza ieri il deputato di +Europa Riccardo Magi ha organizzato una conferenza stampa sul divieto della coltivazione di canapa a basso contenuto di Thc. “La filiera ha visto negli ultimi anni una crescita esponenziale e ci sono innumerevoli applicazioni dei prodotti derivati da questa pianta. Un’enorme ricchezza che rischia di andare perduta per un approccio ciecamente ideologico che va contro il buon senso e la vita di tante imprese”, ha detto Magi. All’incontro hanno partecipato anche rappresentanti della filiera e deputati di opposizione, Matteo Mauri (Pd) e Andrea Quartini (M5S). Le associazioni che rappresentano i produttori di canapa in Italia hanno lanciato un appello al Parlamento perché respinga l’articolo 18 del provvedimento. La nonna, hanno spiegato, “rischia di distruggere l’intero comparto della canapa industriale italiana, direttamente e indirettamente”. Niente carcere per le madri con neonati, lo strappo di Forza Italia di Valentina Stella Il Dubbio, 10 settembre 2024 Il ddl Sicurezza approda alla Camera dopo la pausa estiva: pronto un emendamento degli azzurri che modifica la norma voluta da Fratelli D’Italia e Lega sul rinvio della pena per donne incinte o con figli fino a un anno. Domani i lavori parlamentari alla Camera riprenderanno con l’esame del ddl Sicurezza. Non sarà una discussione serena perché ci eravamo lasciati ad agosto con un durissimo braccio di ferro tra maggioranza e opposizioni sia sul merito del provvedimento che sul metodo di trattazione nelle commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia, con sedute notturne di dodici ore e meno di un minuto concesso a Pd, M5S, Avs per dibattere. Alla fine i partiti avevano trovato comunque un’intesa nella capigruppo della Camera dalla quale era emersa l’indicazione di far slittare dal 5 agosto a dopo la pausa estiva l’approdo in aula del Ddl sicurezza. A questo quadro si aggiunge il fatto che nonostante precedenti accordi con la maggioranza Forza Italia ha annunciato di aver presentato un emendamento, rispetto al testo che arriva nell’emiciclo, che ripristina il differimento obbligatorio della pena per le madri di bambini neonati (di età compresa tra gli zero e i 12 mesi), in modo che nessun bambino debba passare i primi mesi dietro le sbarre. Mentre Lega e Fratelli d’Italia puntano a rendere facoltativo il differimento per madri di bambini fino a 3 anni. “Vogliamo dare un segnale sul tema carceri”, fanno sapere più parlamentari azzurri. Questo emendamento era stato annunciato ad inizio luglio dal deputato della Commissione Affari Costituzionali Paolo Emilio Russo, molto vicino a Silvio Berlusconi, nel giorno in cui Forza Italia decise di non votare sugli emendamenti sulle detenuti madri: vogliamo “scongiurare che anche solo un bambino sia costretto a crescere dietro le sbarre per colpe della madre” disse allora. Dunque dopo lo ius scholae un nuovo strappo dei forzisti con la maggioranza. A dare battaglia sul tema sarà sicuramente il Pd. Nel pomeriggio ad intervenire in Aula sarà la dem Michela Di Biase, membro della Commissione giustizia che al Dubbio dice: “Con la norma sulle detenute madri contenuta all’art. 12 del ddl Sicurezza si mette in discussione lo stato di diritto liberale. L’abolizione di un principio sacrosanto come la sospensione della pena per le detenute madri con figli minori di un anno è inaccettabile, perché mette in discussione un diritto fondamentale e vìola l’interesse superiore del minore, così come riconosciuto dalla Convenzione Onu. Una norma che nasconde un chiaro obiettivo ideologico, perché siamo davanti al primo caso nella storia repubblicana di una legge pensata per colpire un’etnia”. Tutto, infatti, avrebbe avuto origine da un caso raccontato dal Gazzettino nel luglio 2023 e che trova il copia e incolla in molte vicende verificatesi anche nella capitale: “È la regina delle borseggiatrici di Venezia: origini rom, 27 anni, e una infinita sequela di colpi inanellati tra calli e imbarcaderi nella sua lunga carriera criminale. Fantasma imprendibile? Lupin in gonnella? Macchè. La maga che fa sparire i portafogli dei turisti è un volto notissimo, in particolare tra le forze dell’ordine: arrestata decine di volte e condannata altrettante in via definitiva. La giovane ladra, infatti, tra i vari cumuli di pena, deve scontare un totale di 30 anni di carcere. E perché quindi è ancora libera e soprattutto operativa sul campo? Perché è incinta per la nona volta. Di fatto la legge impedisce la carcerazione almeno fino al compimento del primo anno del bambino”. Tornando alla discussione politica la parlamentare dem ha ricordato come su questo punto “è emersa con evidenza la spaccatura tra Forza Italia e gli altri partiti di maggioranza, ci auguriamo che in Aula i parlamentari azzurri possano condividerne l’abrogazione”. Ormai la partita è aperta. Bisogna capire se FI non si tirerà indietro come già avvenuto con il ddl Giachetti. Sul punto conclude la Di Biase: “siamo davanti a una norma irragionevole, non ci sono altre parole. Il principio dovrebbe essere sacrosanto: non è il carcere il luogo in cui far crescere i minori. A nulla però sono valsi i nostri appelli, ripetuti anche in occasione di altri provvedimenti, per ribaltare la linea del Governo e lavorare per migliorare le misure alternative alla detenzione in carcere. Pensate alle esperienze positive delle case famiglia protette, progetti virtuosi che però il Ministro Nordio e l’esecutivo continuano ad ignorare”. Altro tema che ha raccolto la contrarietà dell’opposizione, concerne la resistenza passiva negli istituti di pena. “L’introduzione del delitto di rivolta penitenziaria sovverte i principi con cui è stato pensato e costruito il nostro ordinamento penitenziario” ci dice sempre la deputata di Biase. “Le norme contro la rivolta passiva nelle carceri e nei Cpr hanno lo scopo di costruire un modello delle condizioni di detenzione che getta il Paese indietro di cento anni. Questo provvedimento ci fa tornare al codice Rocco, durante il ventennio fascista, che imponeva l’obbligo di obbedienza per i detenuti. Ma la protesta pacifica, utilizzata negli anni per attirare l’attenzione su problematiche di diversa gravità, non può essere trattata alla stregua di quella violenta”. Così facendo alle persone detenute, conclude la dem, “rimarrà solo il proprio corpo come strumento per denunciare il proprio malessere e guardando ai numeri drammatici sull’aumento di gesti di autolesionismo e suicidi si comprende a quali drammatiche conseguenze potranno portare queste nuove norme”. Ddl Sicurezza in aula. Forza Italia dice no ai neonati in cella ma dribbla lo Ius scholae di Giuliano Santoro Il Manifesto, 10 settembre 2024 Comincia oggi alla Camera la discussione generale sul Ddl sicurezza, che fin dall’esame nelle commissioni affari costituzionali e giustizia è diventato un contenitore delle campagne panpenalistiche (vi sono tredici nuove fattispecie di reato e aggravanti) ed emergenziali della destra: dalla cannabis alle occupazioni abitative passando per gli allarmi sui migranti, il cosiddetto “decoro urbano”, la stretta (ennesima anche questa) contro chi si mobilita per fermare le grandi opere, fino al reato di rivolta in carcere. L’ordine di scuderia presso la maggioranza è di non intervenire ulteriormente. L’indicazione è stata sostanzialmente rispettata da Lega e Fratelli d’Italia, anche se il termine per la presentazione degli emendamenti scade quest’oggi. Sulle detenute madri, Forza Italia ha mantenuto il punto e ha depositato un emendamento che “corregge” quanto approvato in commissione da FdI e Lega. Forza Italia chiede sostanzialmente il ripristino del differimento obbligatorio della pena per le madri con figli fino a un anno pur introducendo una stretta sulle recidive. In pratica, sostiene il provvedimento, se si è in carcere per un ‘incidente’, madri e bambini restano fuori, se il bambino esce e vive in una condizione di illegalità e indigenza peggiore del carcere, allora vanno in un istituto per detenute madri. I salviniani, non contenti, starebbero pensando di infilare qualche altra perla. È inevitabile che la discussione (e le tensioni nella maggioranza) attorno alla cittadinanza si ripercuotano nel testo. Dunque, se sia Azione che Pd hanno depositato emendamenti sullo ius scholae, il capogruppo azzurro alla Camera Paolo Barelli afferma che Forza Italia non li voterà perché “sarebbe strumentale e provocatorio riguardo un tema così serio che tratta la cittadinanza”. Antonio Tajani in persona, assicura, “sta elaborando un testo completo che sarà oggetto di confronto con gli altri partiti della maggioranza”. Dal canto loro, i leghisti stanno valutando l’opportunità di inserirne uno sulla sospensione delle procedure per l’acquisizione della cittadinanza in caso di “reati gravi”. Gli emendamenti arrivano a stragrande maggioranza dall’opposizione che contesta il provvedimento su tutta la linea in quanto “illiberale, repressivo e foriero di insicurezza”: si dovrebbe arrivare a 400 totali. Tra le altre, una novantina di richieste sono arrivate dal Pd, quasi 200 dal Movimento 5 Stelle, 30 da Alleanza Verdi Sinistra e circa 20 da +Europa. Si proverà a fermare anche l’articolo 8, che modifica il codice penale in forme preoccupanti che disegnano un accanimento contro chi si mobilita per il diritto alla casa o si organizza per fermare sfratti e sgomberi, secondo uno schema già denunciato oltre che dai sindacati degli inquilini, dai movimenti e da diversi giuristi, anche dal relatore delle Nazioni unite che si occupa di diritto all’abitare. Ieri Riccardo Magi ha rilanciato la voce dei produttori di cannabis light contro l’articolo 18 del Ddl, che andrebbe a modificare le norme sulla vendita sulla marijuana senza principio attivo. Il segretario di +Europa sottolinea “l’approccio ideologico” del governo: “Sarebbe la prima volta in assoluto che un governo si muove direttamente per tagliare le gambe ad un intero comparto con circa 30 mila lavoratori” soltanto per via dello “stigma sulle parole ‘canapa’ e ‘cannabis’, che risvegliano i peggiori impulsi di carattere ideologico che arrivano direttamente da Palazzo Chigi”. Magi punta il dito sul sottosegretario alla presidenza del consiglio Alfredo Mantovano “che da tempo ha promesso una guerra santa contro il settore”. Magi tuttavia assicura: “Il testo è destinato a schiantarsi nei tribunali, essendo contraddittorio sia con la legge italiana che con la normativa europea”. Informazione più asciutta sulle ordinanze cautelari: si tratta di garanzie, non di bavagli di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 10 settembre 2024 Il Consiglio dei ministri ha dato semaforo verde al decreto modificativo dell’articolo 114 del codice di procedura penale. Dopo il prima via libera arrivato a inizio anno dal Parlamento, la “norma Costa” entra nell’ordinamento penale: viene introdotto il divieto, per chi si occupa d’informazione, di divulgare il testo delle ordinanze di custodia cautelare, sia integrali che per estratto, in cui in genere possono figurare intercettazioni, interrogatori e materiale probatorio per natura delicato. In sostanza, sarà possibile pubblicare testualmente solo il capo d’imputazione. Del contenuto dell’atto, il cronista potrà proporre un riassunto, potrà cioè continuare a riportare le notizie sulle indagini e sulle ipotesi dell’accusa, ma non potrà offrire al lettore stralci più o meno intriganti, e virgolettati, del testo firmato dal giudice. Le ordinanze non potranno essere pubblicate dai media fino a quando non saranno concluse le indagini preliminari o comunque fino al termine dell’udienza preliminare, cioè fino all’inizio del processo. Si è fatta subito sentire la Federazione nazionale stampa italiana, dichiarando che “chi vuole mettere il bavaglio alla stampa è riuscito a completare l’opera”. Non si sono fatte attendere neppure le critiche delle opposizioni: il M5S accusa il governo di condurre a tappe forzate una lenta eutanasia della nostra democrazia, “dopo avere privato i cittadini di ogni tutela contro abusi e prevaricazioni da parte di pubblici amministratori”. Nei mesi passati la norma era stata più volte ribattezzata “legge bavaglio”, ma, come già ampiamente disquisito da chi scrive proprio su queste pagine, non si tratta di un attacco liberticida, ma anzi di un tentativo, soprattutto culturale, di riportare un equilibrio di garanzie, in particolare nelle fasi primigenie di un procedimento penale (come noto, le più sensibili) che sia degno dello Stato di diritto in cui viviamo. Anche qui il collega avvocato Enrico Costa ha centrato l’obiettivo di chiedere più prudenza e più tutela del soggetto sottoposto a indagini, avendo vissuto - da avvocato per l’appunto - lo svilimento degli assistiti di trovarsi “in pasto” alla gogna mediatica. In questi anni la prassi giudiziaria ha testimoniato l’enorme abuso in fase cautelare, tanto da parte delle Procure quanto talvolta da parte dei Gip, del ricorso ai brani intercettati come (unico, talvolta) contenuto della parte motiva vuoi delle richieste di misure cautelari vuoi delle ordinanze applicative, entrambe destinate, poi, alla successiva pubblicazione integrale da parte della stampa. È noto a tutti come già il Legislatore degli ultimi anni, preso atto del dilagante fenomeno distorsivo dell’impiego dello strumento cautelare come una forma autosufficiente di “consumazione” ed esaurimento del giudizio di primo grado - formata dalla richiesta di misura cautelare, che suona come una richiesta di rinvio a giudizio, e dall’ordinanza applicativa della stessa, che si vorrebbe dotare della medesima autorevolezza di una sentenza di condanna anticipatoria dell’esito di un processo - ha tentato quanto più possibile di stroncare questa prassi, apponendo dei limiti in materia di pubblicabilità sui giornali del contenuto integrale delle ordinanze cautelari; in particolare, di quel contenuto costituito dai brani delle conversazioni intercettate. Ecco che l’emendamento Costa non vieta, in realtà, in alcun modo alla stampa la possibilità di informare l’opinione pubblica circa l’avvenuta applicazione di una misura cautelare nei confronti di un soggetto, né di renderne note le ragioni a sostegno e gli elementi di prova addotti: si richiede, tuttavia, d’ora in avanti un maggior sforzo argomentativo agli organi di informazione, a tutela delle garanzie del singolo che, in ultima istanza, non sono altro che le garanzie della collettività. *Avvocato, Direttore Ispeg Urgenza riformista: separare le carriere dei magistrati di Luigi Trisolino Il Riformista, 10 settembre 2024 Sono maturi i tempi affinché i giudici e i P.M. siano istituzionalmente riferibili a organi diversi, che ne garantiscano autonomia e indipendenza in modo utile alla sana vita liberaldemocratica dello Stato di diritto garantista. Occorre che gli spazi legali ed istituzionali dove promuovere le carriere dei giudici e dei P.M. siano distinti e differenti, divisi; non è più possibile una (magari) inconscia ed irriflessa, biunivoca influenzabilità di funzioni, tra il settore giudicante e quello inquirente-requirente della magistratura italiana. Il ddl costituzionale (“Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”), presentato alla Camera dei deputati il 13 giugno 2024, attribuisce la materia disciplinare per i magistrati ordinari ad un’Alta Corte, composta di quindici giudici. Nove di tali quindici giudici saranno magistrati estratti a sorte - sei giudicanti e tre requirenti - che svolgono, o hanno svolto in passato, funzioni di legittimità; e i restanti sei giudici, invece, saranno professori ordinari di università o avvocati nominati, nel numero di tre, dal Presidente della Repubblica e sorteggiati in pari numero dal Parlamento con criteri analoghi a quelli previsti per i due neoistituendi CSM. Il fatto che nel settore disciplinare voluto dai riformatori di governo i giudici e i P.M. ritornino insieme all’interno di un’Alta Corte composta da diverse anime - fatto che il 31 agosto nella kermesse La Piazza a Ceglie Messapica è stato criticato come contraddittorio rispetto allo spirito separatista dal presidente dell’ANM Santalucia, nel suo confronto pubblico con il viceministro Sisto - attiene ad un profilo diverso. È stato infatti ritenuto opportuno far tornare uniti giudici e P.M. soltanto negli affari eventualmente patologici di un percorso funzionale dove ordinariamente saranno separati; ma nella gestione delle nomine o degli avanzamenti di carriera, i soggetti istituzionali devono necessariamente rimanere distinti e diversi, sempre separati. E così sarà. A prescindere, il potere giudiziario organizzato meta-sindacalisticamente non è contrario solo alla composita Alta Corte disciplinare, bensì al concetto stesso di separabilità delle carriere della magistratura ordinaria: e questo è un fatto imprescindibile nella dialettica che in questa estate - anzi, da sempre - si agita tra i vari poteri dello Stato italiano. Occorre separare le carriere, per garantire ex ante, durante ed ex post ai procedimenti d’indagine e ai processi la giusta, inalienabile serenità sulla terzietà del giudice, per chi da presunto innocente viene sottoposto a iter pubblici d’accertamento sui fatti. Se ad accertare i fatti, sullo scranno della pubblica accusa e su quello del giudicante, continueranno ad esservi persone appartenenti ad un unico ordine giudiziario con un CSM monolitico, la giustizia continuerà ad esser posta quotidianamente alla mercè ordinamentale di un rischio umano più elevato. Il rischio che presenta l’attuale CSM monolitico, pur nella bravura dei tantissimi magistrati, è un rischio connaturato nonché intrinseco alla medesimezza della fonte produttrice degli agglomerati correntizi, sottesi alle carriere personalizzabili dell’attuale magistratura ordinaria. Se l’ANM ritiene che non esista questo rischio, nessun problema: l’ordinamento costituzionale garantista con la separazione delle carriere si doterebbe di una garanzia in più per tutti-tutti (nessuno escluso). A voler aulicizzare per un momento i toni in modo ironico, cito un filone culturale non in sintonia con il mio razionalismo empirico. Spero sia gradito nel recare un sorriso a tutti-tutti, nel bel mezzo del campo di confronto. Solitamente scomodo Voltaire e Montesquieu. Ma stavolta, ironicamente, scomodo Blaise Pascal. Si faccia un po’ come la scommessa pascaliana: voi scommettete, se Dio esiste ben venga, avete vinto la scommessa al termine della vita, altrimenti se Dio non esiste avete comunque vissuto - e lasciato vivere - meglio le persone. Se il rischio di commistione nella unicità delle carriere dei magistrati ordinari esiste, scommettete bene sulla separazione delle carriere nella buona fede d’intenti dei cittadini; se il rischio dovesse non-esistere, avrete comunque dato più sicurezza ai cittadini quanto alla giustizia giusta da esercitare in nome del popolo italiano nelle vite concrete, in carne ed ossa e spirito degli individui, presunti innocenti fino all’ultimo grado di giudizio. In tema di garanzie vive dello Stato di diritto, meglio una garanzia in più che una in meno, soprattutto se quella garanzia è connaturata alla natura stessa dei soggetti che dovrebbero applicare la legge. Separiamo le carriere, nella buona fede comune di tutti. Si tratta di un’urgenza? Sì, un’urgenza riformista. Separiamo le carriere, subito. Trattamento sanitario obbligatorio, alla Consulta la mancata informazione del “paziente” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2024 Violato il diritto di difesa . Per la Prima sezione civile, ordinanza n. 24124 depositata oggi, non è manifestamente infondata la questione di legittimità degli articoli 33, 34 e 35 della legge 833/1978. La mancata notifica all’interessato del provvedimento con il quale il sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio, in condizioni di degenza ospedaliera, costituisce “un ultimo residuo di quella logica manicomiale che la legge Basaglia ha avversato, e di quella convinzione, contrastata dal diritto vivente, che la persona affetta da patologia psichiatrica, disabilità, immaturità, non debba partecipare, nella misura in cui le circostanze glielo consentono, alle decisioni che la riguardano”. Così con una bella e lunga ordinanza (n.24124) la Corte di cassazione ha rinviato alla Corte costituzionale gli articoli articoli 33, 34 e 35 della legge 23 dicembre 1978 n. 833 che, insieme alla Legge Basaglia, ha comunque rappresentato un enorme progresso rispetto alla precedente cultura giuridica incentrata sui manicomi e sulla presunta “pericolosità” dei cd. “malati di mente”. L’attuale sistema normativo in materia di Tso, si legge nella decisione, disegnato dagli articoli 33,34 e 35 della legge n. 833/1978 non è conforme agli articoli 2, 3,13,24, 32 e 111 della Costituzione, nonché all’articolo 117 della Costituzione in relazione agli articoli 6 e 13 CEDU, nella parte in cui non prevedono che il provvedimento motivato con il quale il sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera sia tempestivamente notificato all’interessato, o al suo eventuale legale rappresentante, con l’avviso che il provvedimento sarà sottoposto a convalida del giudice tutelare entro le 48 ore successive e con l’avviso che l’interessato ha diritto di comunicare con chiunque ritenga opportuno e di chiedere la revoca del suddetto provvedimento, nonché di essere sentito personalmente dal giudice tutelare prima della convalida; nonché - continua -nella parte in cui non prevedono che la ordinanza motivata di convalida del giudice tutelare sia tempestivamente notificata all’interessato, o al suo eventuale legale rappresentante, con l’avviso che può presentare ricorso ai sensi dell’ articolo 35 della legge 833/1978. Ricordiamo che attualmente si può intervenire con un Tso, a prescindere dal consenso del paziente, se sono contemporaneamente presenti tre condizioni: a) l’esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; b) la mancata accettazione da parte dell’infermo degli interventi terapeutici proposti; c) l’esistenza di condizioni e circostanze che non consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extra-ospedaliere. Il caso parte dal ricorso di una donna sottoposta a 9 giorni di degenza coatta per un “grave scompenso psichico e un comportamento oppositivo alle cure”, a seguito di asserite “idee suicidarie” ed alla assunzione di “eccessive dosi di uno psicofarmaco (Tavor)”. La donna ha lamentato di non aver ricevuto il provvedimento del sindaco e neppure la notifica della ordinanza di convalida, del resto non prevista dalla legge vigente, per cui non ha potuto opporsi se non dopo la scadenza del trattamento. La Corte ricorda infatti che il provvedimento del sindaco con cui viene disposto il Tso in condizioni di degenza ospedaliera, da emanarsi entro quarantotto ore dalla convalida del secondo medico, è notificato al giudice tutelare (entro quarantotto ore dal ricovero), che provvede (nelle successive quarantotto ore) a convalidare o meno il provvedimento, comunicandolo al sindaco (articolo 35, comma 2). La legislazione italiana non prevede dunque che il provvedimento del sindaco e l’ordinanza che lo convalida siano notificati alla parte personalmente, e non prevede come obbligatoria la audizione personale dell’interessato da parte del giudice tutelare prima della convalida della misura, o comunque in un momento successivo, ma anteriore alla scadenza del trattamento. E’ rimesso quindi alla discrezionalità del giudice tutelare se procedere o meno alla audizione dell’interessato e se compiere accertamenti, e quali informazioni assumere; in particolare non è previsto alcun controllo specifico sugli adempimenti precedenti e coevi al ricovero, come la ricerca della cosiddetta alleanza terapeutica. Il sindaco ed il giudice tutelare comunicano -obbligatoriamente - tra di loro, ma nessuno di due comunica con il paziente, il quale può solo impugnare il provvedimento finale di convalida del Tribunale, emesso dopo che la proposta del sanitario è convalidata da un medico di una struttura pubblica, e poi dal sindaco (articoli 33-35 l. n. 833/1978). Per i giudici di legittimità, però, è irragionevole che il diritto all’ascolto venga assicurato nella fase medica e non anche nella fase giurisdizionale, “dove, in verità dovrebbe concretarsi in un ben più incisivo diritto al contraddittorio e alla difesa”. L’esigenza di tutelare la salute, anche in via d’urgenza, proseguono, non dovrebbe essere di ostacolo al contraddittorio e al diritto dell’interessato di partecipare, nella misura in cui glielo consentono le sue condizioni, alle decisioni sul suo percorso di salute. E allora, continua retoricamente l’ordinanza, ci si deve chiedere se effettivamente meriti la qualifica di controllo giurisdizionale quello che non avviene nel contraddittorio delle parti e che si limita ad un controllo formale sulla procedura e sul rispetto dei termini, senza ascoltare le ragioni di chi a quell’intervento terapeutico si è opposto e ciononostante subisce una limitazione della sua libertà materiale e della autodeterminazione; e ancora se meriti la qualifica di controllo giurisdizionale quello che non verifica se la persona interessata, che due medici attestano essere in stato di alterazione psichica, è o meno in uno stato di capacità di intendere e di volere, così da poter organizzare una lucida difesa dei propri interessi, ovvero necessiti della nomina di un legale rappresentante eventualmente anche ad hoc e a tempo determinato. Del resto, anche un eventuale stato di incapacità della persona “non potrebbe mai incidere sulla titolarità dei diritti, eliminandoli o ponendoli in stato di temporanea quiescenza, ma solo sulle modalità del loro esercizio”. Così, prosegue la Corte, se il sistema normativo disegnato dalla legge Basaglia e dalla legge n. 833/1978 si occupa della dignità e del rispetto del paziente, “non si occupa però di quell’aspetto della dignità umana che si sostanzia nel diritto a essere informati e a contraddire nel procedimento che conduce ad una decisione restrittiva al tempo stesso della libertà personale e del diritto di autodeterminarsi, e nel diritto di difendersi tempestivamente, prima cioè che venga adottato il provvedimento di convalida e comunque nella sua immediatezza, prima della scadenza del termine del trattamento”. È vero infatti che la persona può chiedere al sindaco la revoca del provvedimento e che lo stesso paziente o anche altro soggetto a lui vicino può presentare ricorso: “ma di fatto l’assenza del diritto ad essere tempestivamente informati della decisione, delle ragioni su cui si fonda e della procedura attraverso la quale si perviene alla convalida giurisdizionale, nonché sulle modalità della opposizione, costituiscono un ostacolo rilevante all’esercizio del diritto ad un ricorso effettivo, alla difesa, ed in ultima analisi ad un giusto processo”. Del resto, come può una persona che si trovi da un lato in stato di alterazione psichica, dall’altro in stato di soggezione fisica all’altrui potere, “tempestivamente opporsi se non viene informata del suo status giuridico e delle ragioni per le quali, ex abrupto, le si parano dinnanzi i vigli urbani per prenderla e portarla in ospedale, in esecuzione di una ordinanza sindacale di cui la persona, o eventualmente il suo legale rappresentante, non ha contezza”. E come può reagire, “prima di avere recuperato la sua libertà e la collocazione nella società, se della esistenza di un giudice che convalida il provvedimento sindacale non ha notizia, posto che neppure l’ordinanza del giudice tutelare le viene notificata”. Infine, la Cassazione ricorda che la procedura in tema di TSO è da molti anni oggetto di critica da parte del comitato per la prevenzione della tortura (in acronimo CPT) operante in seno al Consiglio di Europa, in quanto il giudice tutelare non incontra mai i pazienti di persona e i pazienti restano disinformati sul loro status legale. E ciò pone un problema di compatibilità con l’articolo 13 della Costituzione italiana. Anche la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, infine, ha sottolineato l’importanza della audizione diretta, da parte del giudice tutelare, del soggetto sottoposto al trattamento sanitario obbligatorio (Corte EDU 8/10/2013 pronunciata sul ricorso n. 25367/11). La pena patteggiata per violenza di genere giustifica il licenziamento del dipendente di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2024 Il patteggiamento è comunque un’ammissione di responsabilità e può costituire elemento riprovevole che escluda la fiducia del datore nella corretta esecuzione di prestazioni in rapporto alla pubblica utenza. Legittimo il licenziamento disciplinare del dipendente del servizio di trasporto pubblico, con rapporti diretti con gli utenti, se ha patteggiato la pena per un reato connotato da violenza di genere. Si tratta di condotte penalmente rilevanti che se compiutamente accertate sono tali da inficiare la fiducia del datore di lavoro sulla garanzia di un’idonea e adeguata prestazione di lavoro. La Cassazione conferma - con la sentenza n. 24140/2024 - il licenziamento disciplinare del ricorrente respingendo di fatto la tesi portata all’attenzione dei giudici di legittimità, secondo cui il patteggiamento non equivalendo a una condanna non può costituire elemento ostativo al mantenimento del posto di lavoro, attraverso l’applicazione di una più blanda sanzione disciplinare di natura conservativa del rapporto. Nel caso concreto il datore pubblico di lavoro aveva sanzionato con immediata sospensione sine die l’autista di automezzi del trasporto pubblico, a seguito della presa d’atto che il dipendente era stato condannato per atti connotati da violenza di genere e stalking verso l’ex moglie separata. Condanna che faceva emergere come inadeguata la personalità del lavoratore a intrattenere i doverosi rapporti con gli utenti dei mezzi pubblici, connessi naturalmente allo svolgimento della propria prestazione lavorativa. Inoltre, in sede di sorveglianza al lavoratore era stato imposto anche il divieto di avvicinamento alla donna vittima dei reati sanzionati. In primis, la Cassazione spiega che in un caso come quello all’esame non si possono ritenere applicabili i commi 4 e 5 dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come ammodernato dalla legge 92/2012, per assenza di giustificato motivo al fine della conservazione del posto di lavoro. Infatti, secondo i giudici di merito come confermato ora dalla Cassazione, il caso rientra nei punti 6 e 7 del Regio decreto 148/1931, che giustificano la destituzione di “chi, per azioni disonorevoli od immorali, ancorché non costituiscano reato o trattisi di cosa estranea al servizio si renda indegno della pubblica stima” o di “chi sia incorso in condanna penale, sia pure condizionale, per delitti, anche mancati o solo tentati, o abbia altrimenti riportata la pena della interdizione dai pubblici”. Nell’arco temporale del rapporto di lavoro nel servizio di trasporto pubblico il ricorrente aveva patteggiato la pena per reati che, seppur commessi al di fuori del luogo della prestazione lavorativa, avevano avuto una precipua rilevanza negativa sulla fiducia che il datore può accordare a chi era stato “condannato” per stalking, minacce e molestie contro il coniuge separato. Il motivo è stato nella sostanza riconosciuto dai giudicati come giustificato ai fini della rescissione del rapporto per il licenziamento disciplinare del conducente di mezzi pubblici. Rilevanza del patteggiamento - Sulla rilevanza “disciplinare” della sentenza di patteggiamento il ricorrente sosteneva che questa non equivale a una “condanna”. Ma la Cassazione, pur non arrivando ad affermare tale equivalenza, ha però precisato che la sentenza penale di applicazione della pena ex articolo 444 del Codice di procedura penale pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone comunque un’ammissione di colpevolezza, sicché esonera la controparte dall’onere della prova e costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito. In conclusione la Suprema Corte conferma la visione dei giudici di merito che il caso non rientrasse in nessuna nessuna delle infrazioni disciplinari, punite dagli articoli 41 e 42 del Regio Decreto n. 148/1931 con sanzione conservativa. E che, invece fosse riferibile al ricorrente, quella condotta penalmente sanzionata da ascrivere alle ipotesi previste dai punti 6 e 7 dell’articolo 45, integrando motivo sufficiente per l’applicazione della più grave sanzione disciplinare, stante la forte riprovazione sociale nei confronti della cosiddetta “violenza di genere” sicuramente ravvisabile in un atteggiamento persecutorio, violento e minaccioso tenuto dal lavoratore nei confronti dell’ex coniuge. Lazio. Prevenzione dei suicidi in carcere: al via i lavori per il Piano regionale garantedetenutilazio.it, 10 settembre 2024 L’assessore Regimenti: “Strumento fondamentale per garantire la tutela della salute, la qualità della vita e la dignità della pena”. Si è riunito oggi per la prima volta, nella Sala Velino della Regione Lazio, il tavolo interistituzionale per l’elaborazione di un Piano regionale per la prevenzione dei suicidi in carcere convocato dall’assessore al Personale, alla sicurezza urbana, alla polizia locale e agli enti locali della Regione Lazio, Luisa Regimenti. “Il Piano è uno strumento fondamentale per garantire la tutela della salute, la qualità della vita e la dignità della pena - sottolinea l’assessore Regimenti - la lunga e tragica catena di suicidi nelle carceri può essere interrotta solo se le istituzioni fanno rete lavorando insieme su salute, lavoro e affettività per restituire dignità e offrire una prospettiva di speranza ai detenuti. Il Lazio è già dotato di un Piano per la salute mentale risalente al 2022 ma è emersa la necessità di un quadro di riferimento univoco, come già avviene in altre Regioni, considerata la difformità nei protocolli locali”. “L’obiettivo è quello di sostenere il lavoro dell’Osservatorio regionale sulla sanità penitenziaria per offrire una prospettiva più ampia, con una fattiva collaborazione tra sorveglianza e area sanitaria, identificando le categorie di soggetti più a rischio e ampliando le opportunità di lavoro dei detenuti, considerando che il lavoro cruciale sta nella ridefinizione di una nuova identità del detenuto. La privazione della libertà non deve essere, come troppo spesso avviene, la mortificazione e l’offesa alla dignità del detenuto. Le carceri devono tornare ad essere un luogo di speranza dove poter iniziare una nuova vita”, conclude. Al tavolo hanno partecipato Stefano Anastasìa, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Marina Finiti, presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, Antonia Tarantino, direzione regionale Salute, sanità, integrazione-socio sanitaria, referente della sanità penitenziaria e Rems della direzione regionale Salute e integrazione sociosanitaria, Claudio Marchiandi, direttore dell’ufficio detenuti e del trattamento Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, Walter Tosches, psicologo in funzione presso la Casa circondariale di Viterbo, Daniele Tasca, dirigente dell’Area politiche degli enti locali, polizia locale e lotta all’usura. Milano. La precarietà del “Beccaria” non si risolve sostituendo i comandanti di Franco Insardà Il Dubbio, 10 settembre 2024 Il “Beccaria” di Milano è solo la punta più avanzata del malessere che attraversa le carceri e gli Istituti penali per minorenni. Nell’istituto milanese, considerato per decenni un modello, da quasi due anni si susseguono le proteste e i tentativi di evasione. A Natale del 2022 sette ragazzi, approfittando dei lavori in corso, lasciarono l’istituto, ma furono rintracciati quasi subito. L’anno successivo c’è stato un incendio doloso nell’infermeria. Domenica sono evasi tre ragazzi, scavalcando il muro di cinta: due sono fratelli e sono stati tra i promotori delle proteste nei mesi scorsi, per uno si tratta della terza volta che tenta di scappare dal penitenziario. Episodi che si ripetono ormai con cadenza quasi mensile. Da oltre 16 anni i lavori di ristrutturazione in corso hanno precarizzato le condizioni sia dei ragazzi detenuti che del personale, contribuendo a creare un ambiente instabile e insicuro. Ad aprile scorso è salito agli onori della cronaca il caso di abusi e torture, con 13 agenti sottoposti a misure cautelari e altri 8 sospesi dal servizio pubblico, con accuse che vanno dall’abuso di potere al maltrattamento di minori, con episodi di violenza e torture aggravate dalla vulnerabilità dei giovani detenuti. Ieri nell’Ipm “Beccaria” c’è stata la visita del capo del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità, Antonio Sangermano, per accogliere il nuovo comandante della Polizia penitenziaria, con il quale entreranno in servizio altri sette sotto ufficiali. “È chiaro - ha detto Sangermano - che se ci sono delle evasioni c’è qualcosa che non va all’interno dell’istituto. L’evasione segnala una forte criticità e non è un fatto indolore. I ragazzi debbono stare all’interno dell’Ipm con tutte le garanzie e i diritti. Con questi ragazzi dobbiamo dialogare, sono spesso poliassuntori di sostanze stupefacenti, a volte traumatizzati da eventi tragici, che presentano specificità che richiedono un impegno con educatori, etnopsichiatri, etnopsicologi. Ma non esistono diritti senza doveri”. L’avvicendamento del comandante è stato molto criticato dai sindacati. Gennarino De Fazio, segretario generale UilPa, ha dichiarato: “Per quanto a nostra conoscenza non era affatto programmato, il Dipartimento della giustizia minorile e di comunità, lungi dall’affrontare compiutamente i problemi, per tentare goffamente di salvare la faccia, percorre la via più semplice e breve e trova un capro espiatorio. Noi lo ripetiamo, servono interventi tangibili e immediati del governo e la riorganizzazione del sistema, altrimenti, anche i Comandanti “finiranno”, ma sarà esaurito soprattutto quel poco che rimane della credibilità dell’istituzione”. Ilaria Salis, europarlamentare di AVS, a margine della conferenza stampa alla sede della Stampa Estera a Milano, ha ribadito il suo pensiero: “Il “Beccaria” deve essere chiuso e devono essere abolite le carceri per minori”. Per Riccardo De Corato, deputato di Fratelli d’Italia, vice Presidente della Commissione Affari Costituzionali della Camera, sarebbe “una vera e propria follia. Non si può chiedere la chiusura del “Beccaria” senza dare una valida alternativa”. Ma il problema non è limitato al “Beccaria”. L’aumento esponenziale del numero di detenuti negli Istituti penali per minorenni, passato da 835 nel 2021 a 1143 nel 2023, è sintomatico di una crisi sistemica che va oltre le singole istituzioni. L’aumento degli ingressi negli Ipm nell’ultimo anno è stato principalmente causato dall’impennata di misure cautelari, favorita dal decreto Caivano. Va anche sottolineato come il tasso di recidive sia direttamente proporzionale all’ingresso dei giovani negli istituti penali, specialmente quando, raggiunta la maggiore età, vengono trasferiti in quelli per adulti. Questo interrompe di fatto ogni percorso rieducativo precedentemente intrapreso. Prima dell’entrata in vigore del decreto Caivano, infatti, i minori che commettevano un reato potevano rimanere negli Ipm fino ai 25 anni, consentendo un percorso di reinserimento più lungo e mirato. Intanto Tiziana Guacci, segretaria regionale del Sappe, ha dato notizia della cattura del detenuto evaso domenica sera dal carcere di Avellino. Milano. Polemica sul nuovo comandante al Beccaria. “Vicino a FdI e Lega: è incompatibile” di Sandro De Riccardis La Repubblica, 10 settembre 2024 Per le associazioni il rischio è che ora si vada verso una stretta repressiva. Dopo i mesi di caos al Beccaria, a gettare altra benzina sul fuoco è la nomina del nuovo comandante della Polizia penitenziaria, Raffaele Cristofaro. Una sostituzione lampo (celebrata ieri alla presenza del capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, Antonio Sangermano), visto che il predecessore di Cristofaro, Daniele Alborghetti, si era insediato meno di cinque mesi fa. Un avvicendamento “non previsto”, denunciano anche i sindacati. La crisi sempre più profonda nella gestione dell’ex carcere modello viene così usata dal governo per occupare un’altra casella nell’organigramma dell’amministrazione della giustizia. Raffaele Cristofaro, ex comandante della Penitenziaria a Brescia, è un sindacalista del Sinappe (Sindacato nazionale autonomo di Polizia penitenziaria), di destra, vicino sia a Fratelli d’Italia che alla Lega. La nomina di Cristofaro è stata criticata ieri da diversi sindacati non solo perché considerata un provvedimento inutile, ma anche per il fatto che il nuovo comandante del Beccaria non avrebbe la qualifica per occupare quel ruolo. “Viene scelto un appartenente al ruolo dei commissari di polizia penitenziaria che non dispone della qualifica per svolgere tale incarico - denuncia Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp - e che riveste persino un incarico sindacale, normalmente ritenuto incompatibile con tale funzione, tanto da ingenerare il sospetto di una qualche “interferenza” con i vertici dell’Amministrazione della giustizia minorile”. La nota che ha annunciato due giorni fa il siluramento di Alborghetti è “un intervento a gamba tesa, che ha portato anche alla delegittimazione del comandante mentre operava - ribadisce anche Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa. Il comandante deve avere la qualifica e quello nominato non ce l’ha perché, per quanto noi sappiamo, non appartiene alla carriera dei funzionari, non è dirigente di Polizia penitenziaria. Invece per il Beccaria è previsto un dirigente aggiunto”. Milano. Il Sindaco Sala sulle carceri: “Pochi posti, il Beccaria è un disastro” di Massimiliano Melley milanotoday.it, 10 settembre 2024 Le dichiarazioni del sindaco di Milano sul tema delle carceri. Chiudere le carceri minorili? Per il sindaco di Milano Beppe Sala “la cosa sbagliata è dividersi ideologicamente tra carceri sì e carceri no. Il tema è chiudere o fare più prigioni?”. Lo ha detto durante la presentazione di un libro dell’ex ministro Giovanni Maria Flick a Milano. “Il questore - ha aggiunto il primo cittadino meneghino - mi dice: ogni 10 che arresto, uno fa una notte in prigione perché non c’è spazio”. E in effetti la Lombardia è la seconda regione italiana per sovraffollamento delle carceri, e San Vittore è l’istituto più sovraffollato d’Italia. “Quando sento parlare di abbassamento dell’età e di punibilità, mi viene in mente il Beccaria, che ora è un disastro, ma è stato 15-20 anni senza direttore”, ha poi argomentato Sala: “È l’unico carcere a Milano, minorile, dove lo spazio è per 40 ragazzi solo maschi”. Insomma, sia nelle carceri per adulti sia all’istituto minorile, per il sindaco di Milano, ci sarebbe troppo poco posto. Il caos al Beccaria - Della chiusura del Beccaria (e delle carceri minorili in generale) ha parlato, nei giorni scorsi, la deputata europea Ilaria Salis (Alleanza Verdi-Sinistra), invocando il ritorno a un approccio educativo. Il Beccaria è, ultimamente, una specie di “polveriera”. Qualche giorno fa, tre ragazzi sono evasi (uno è stato rintracciato poco dopo). Negli ultimi tempi, le rivolte dei detenuti sono state frequenti. Lunedì 9 settembre si è insediato un nuovo comandante di polizia penitenziaria, Raffaele Cristofaro, ed è stata inviata un’ulteriore “unità di sostegno”. Un cambio della guardia che sarà accompagnato da “interventi infrastrutturali da effettuarsi con la massima urgenza”, ha fatto sapere il dipartimento per la giustizia minorile. Milano. Caos Beccaria, la giudice: “Gli agenti non bastano. Servono anche educatori” di Andrea Gianni Il Giorno, 10 settembre 2024 Dopo le rivolte e le evasioni, da ieri un nuovo comandante della Penitenziaria. Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano: “Aumentare i posti nelle comunità e una formazione mirata del personale”. Le difficoltà nella gestione dei minori stranieri non accompagnati si sommano all’aumento degli adolescenti con problemi legati a tossicodipendenza e disagio psichico. “A bisogni diversi bisogna dare risposte diverse e individualizzate - osserva Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano - da attuare attraverso una solida cabina di regia a livello nazionale e locale”. Mancano posti nelle comunità, mentre il carcere minorile Beccaria è da mesi al centro di rivolte, disordini e danneggiamenti. Una situazione esplosiva, sfociata nell’evasione di domenica. Quali soluzioni si potrebbero attuare nel breve periodo? “Quello che sta succedendo al Beccaria è preoccupante ed è necessario intervenire al più presto per restituire credibilità al sistema giudiziario minorile, e realizzare l’importante bilanciamento che lo caratterizza tra funzione sanzionatoria ed educativa che coesistono in uno spazio responsabilizzante. Ci sono temi diversi che si incrociano, e una prima svolta positiva potrebbe arrivare grazie al bando della Regione Lombardia per garantire 36 posti letto in comunità sociosanitarie ad alta integrazione per giovani tra i 14 e i 21 anni con disagio psichico o disturbi legati all’uso di sostanze in carico ai servizi della giustizia minorile”. È necessario ridurre ulteriormente la pressione sul Beccaria? “Il numero di detenuti è già stato ridotto e non penso si possa fare di più: è importante portare a conclusione il prima possibile i lavori per il ripristino delle circa venti celle che sono state gravemente danneggiate. Servono sicuramente più posti nelle comunità, offrendo non soluzioni generiche, ma percorsi disegnati sulla singola persona. Per questo bisogna lavorare sulla formazione e sulla specializzazione del personale, fare di più in questo ambito, con risorse per interventi mirati e di ampio respiro coordinati tra di loro, in grado di agire sul breve e sul lungo periodo”. Come si potrebbe operare, in questo momento, all’interno del carcere? “La popolazione carceraria è portatrice di vissuti diversi, con disagi e problemi che spesso si intersecano. Volendo delineare tre direttrici, ci sono detenuti con problemi di dipendenza, altri presentano un disagio psichico e poi vi è la realtà dei minori stranieri non accompagnati. Bisognerebbe, per questo, pensare a tre tipologie differenti di intervento, con risposte coerenti ai bisogni”. Il comandante della Polizia penitenziaria è stato sostituito, tra le polemiche dei sindacati che hanno parlato di un “capro espiatorio”... “Su questo non mi esprimo, sono valutazioni che spettano all’amministrazione. Penso solo che non sia sufficiente un aumento, pur necessario, del numero di agenti. È importante dedicare attenzione alla loro formazione e assicurare una stabilità degli organici. Servono inoltre più educatori, psicologi e mediatori culturali. Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, sta seguendo con grande attenzione le complesse vicende che riguardano il Beccaria”. Lo scorso aprile l’inchiesta della Procura di Milano ha portato alla luce presunti abusi da parte di agenti della polizia penitenziaria al Beccaria, ad agosto è stata sequestrata droga che un operatore avrebbe spacciato ai detenuti. Episodi che, con contorni diversi, delineano uno scenario preoccupante... “Auspichiamo, in entrambi i casi, che le indagini vengano chiuse al più presto, per poter ripartire con serenità. E attendiamo, inoltre, gli effetti degli interventi per riprendere in mano in tempi brevi le redini della struttura”. Napoli. “Nel carcere di Poggioreale 10 detenuti in celle da 3”: blitz del Partito Democratico di Peppe Pace fanpage.it, 10 settembre 2024 Una delegazione del Partito Democratico è entrata nel carcere di Poggioreale e ha denunciato sovraffollamento e situazioni igienico sanitarie critiche. L’europarlamentare Sandro Ruotolo e i deputati Arturo Scotto, Marco Sarracino, Toni Ricciardi e Stefano Graziano, accompagnati dal garante dei detenuti Samuele Ciambriello, hanno fatto visita al carcere di Poggioreale per monitorare le condizioni dei detenuti: “Abbiamo visto una situazione latino-americana, celle destinate a 3 persone con dentro 8, 9, 10 detenuti e un solo ventilatore - denuncia l’europarlamentare Sandro Ruotolo - abbiamo visto un vecchietto di 80 anni, pazienti oncologici tra i reparti, siamo in una situazione di emergenza democratica, porteremo la questione al Parlamento Europeo”. Dello stesso avviso Scotto e Graziano, che hanno invitato il governo a cercare soluzioni alternative alla costruzione di nuovi istituti penitenziari, una soluzione a lungo termine che non terrebbe conto delle eventuali misure alternative al carcere proprie di ogni stato di diritto. Una situazione di sovraffollamento tale da non garantire né la funzione rieducativa, né, come ha sottolineato Toni Ricciardi, la prospettiva di un futuro dopo lo sconto della pena. Marco Sarracino ha posto l’attenzione sull’ultimo episodio eclatante, che ha visto un giovane del Mali staccare a morsi il dito al compagno di cella: “Viveva in condizioni estreme, senza nemmeno un letto nella cella”. In riferimento all’emergenza psichiatrica, è intervenuto anche il garante dei detenuti Samuele Ciambriello: “Ci sono 200 pazienti psicotici e solamente 2 psichiatri, abbiamo fatto bene a chiudere i manicomi (gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ndr.) tra il 2015 e il 2016 perché in quei luoghi c’erano situazioni inumane, ma non è che da allora in Italia non c’è più la malattia psichica. Servirebbero unità fisse di medici, psichiatri e infermieri preparati, anche nell’autodifesa, perché molti si rifiutano di assistere pazienti malati di mente per paura di essere aggrediti”. Torino. Le detenute del Lorusso-Cutugno indicono uno sciopero della fame “a staffetta” di Stefano Baudino L’Indipendente, 10 settembre 2024 Tra suicidi, rivolte, evasioni e tassi di sovraffollamento sempre più alti, la situazione dei centri di detenzione italiani continua a ribollire. Le criticità coinvolgono anche la sezione femminile del carcere Lorusso-Cutugno di Torino, dove la scorsa settimana è stata lanciata una mobilitazione collettiva per denunciare all’esterno le cattive condizioni di detenzione nella casa circondariale. 57 detenute hanno infatti iniziato uno sciopero della fame e hanno inoltrato a L’Indipendente una lettera spedita al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in cui spiegano le ragioni della loro protesta, chiedendo alla politica azioni concrete per restituire dignità ai luoghi di detenzione e misure concrete contro il sovraffollamento. “Non c’è più tempo, né spazio. In queste strutture fatiscenti ed insalubri si fa fatica a gestire “un’esistenza”, si legge all’interno della missiva sottoscritta dalle detenute, in cui si rende noto che, “dopo il susseguirsi di suicidi, eventi critici, roghi, detenuti ed agenti feriti e la costante crescita del sovraffollamento, al termine di un’estate “rovente” non solo per il clima, dal 5/9/24, 57 donne ristrette nel carcere di Torino, hanno deciso di portare avanti lo sciopero della fame ad oltranza e a staffetta”. Nella lettera, le detenute parlano dell’iniziativa come di una “scelta pacifica” che si pone l’obiettivo di “richiamare l’attenzione pubblica, del Parlamento e delle istituzioni sulla situazione d’emergenza totale delle carceri ed affinché venga concessa qualsiasi misura che riduca il sovraffollamento e/o la Liberazione Anticipata Speciale di 75 giorni”. Infatti, si legge, “a causa del sovraffollamento questi magazzini di corpi stanno per esplodere”. Nelle ultime righe del testo trova posto un accorato appello diretto dalle firmatarie al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, in quanto “garante del rispetto della Costituzione”, il quale viene sollecitato a “convincere coloro che insediandosi al governo hanno giurato proprio sulla Costituzione a ridurre il numero dei reclusi rispondendo con soluzioni logiche ed umane”. Nel frattempo, è arrivato a 70 unità il numero dei suicidi di detenuti avvenuti nel corso del 2024 all’interno delle case circondariali, cui si sommano quelli di 7 agenti penitenziari. La stessa organizzazione sindacale della polizia penitenziaria UILPA parla di una situazione che ha da tempo superato il punto di non ritorno, con “15mila ristretti oltre i posti disponibili, 18mila unità mancanti alla Polizia penitenziaria, omicidi, stupri, traffici di sostanze e oggetti non consentiti e violenze di ogni genere”, criticando aspramente l’immobilismo del ministero della giustizia e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e chiedendo “interventi tangibili e a effetto immediato”. Nel frattempo, i casi di cronaca fotografano giorno dopo giorno una situazione sempre più tragica e fuori controllo: l’ultimo, in ordine di tempo, è quello della morte del detenuto 18enne Youssef Mokhtar Loka Barsom, arso vivo a causa di un incendio divampato all’interno della sua cella di San Vittore. Il giovane era stato rinchiuso a luglio nel carcere lombardo - attualmente il più sovraffollato dello Stivale - e soffriva di conclamati problemi psichiatrici e tendenze autolesioniste. Udine. Consiglieri di Forza Italia in visita al carcere: “Doppio dei detenuti rispetto alla capienza” di Hubert Londero telefriuli.it, 10 settembre 2024 Più della metà della popolazione carceraria è composta da stranieri. Uno su due è in attesa di giudizio definitivo. É il sovraffollamento il problema principale anche del carcere di Udine. A fronte di una capienza regolamentare di 95 posti, sono 177 i detenuti, di cui 16 in semilibertà. Di questi, 105 sono stranieri (59%,) soprattutto nordafricani e pachistani, mentre il 46% della popolazione carceraria è in attesa della condanna definitiva. Ancora, 48 sono i tossicodipendenti. Sono alcuni dei numeri emersi dalla visita alla casa circondariale di via Spalato a Udine effettuata questa mattina dai Consiglieri regionali di Forza Italia Andrea Cabibbo e Roberto Novelli, assieme al capogruppo a Udine Giovanni Barillari, accompagnati dalla direttrice Tiziana Paolini, nell’ambito dell’iniziativa promossa dal partito a livello nazionale e coordinata in regione dal referente per la Giustizia e già senatore della Repubblica, avvocato Franco Dal Mas. Come si legge in una nota, secondo Cabibbo “a differenza della situazione fortemente critica di Trieste, la casa circondariale di Udine, ristrutturata integralmente nel 2003, permette delle condizioni di vita più dignitose per i carcerati. A titolo esemplificativo, ogni cella è dotata di bagno e doccia autonomi”. A questo proposito, Novelli rimarca come “siano stati attivati altri lavori propedeutici allo svolgimento di attività formative e ludiche. Sono stati altresì attivati molti corsi professionali finanziati dalla Regione, soprattutto per idraulici, elettricisti, tappezzieri, ma anche mosaicisti”. Cabibbo e Novelli aggiungono che “tuttavia, rimangono alcune criticità, a partire dal sovraffollamento. A questo proposito, l’organico degli agenti è in evidente deficit numerico, visto che gli effettivi sono solo 80 su 115 previsti in organico e calcolati sulla capienza teorica (95) e non reale (177). Questo è un punto chiave: la campagna sulla giustizia di Forza Italia mette al centro anche le condizioni dei lavoratori, che devono operare in una condizione di serenità e sicurezza”. I consiglieri di Forza Italia chiudono: “Allo stato, manca circa il 30% di effettivi all’organico degli agenti. Secondo Forza Italia sollevare certi temi non significa essere blasfemi: chi viene privato delle libertà non deve perdere anche la dignità. Il detenuto che esce dal carcere deve avere gli strumenti per reinserirsi nel tessuto sociale ed economico e deve seguire percorsi formativi ad hoc durante la fase di detenzione. Troppo spesso, quasi nel 70% dei casi, chi esce dal carcere cade nella tentazione di delinquere ancora: dobbiamo puntare alla recidiva zero e serve un impegno di tutti, dai detenuti alle istituzioni”. Barillari conclude: “Sono rimasto molto favorevolmente impressionato per come la direttrice e il personale tutto si stiano adoperando, andando ben oltre il loro dovere istituzionale, per rendere il carcere un luogo quanto più adatto e adeguato, nel rispetto dei diritti anche alla rieducazione e al recupero dei detenuti. Mi ha colpito il fatto che almeno la metà delle persone che si trovano in carcere siano lì per problemi legati agli stupefacenti (circa 40 per spaccio, altri 48 sono tossicodipendenti che hanno commesso reati anche per procurarsi sostanze, cui vanno aggiunti i non pochi detenuti con problematiche di tipo psichiatrico, spesso conseguenza di abuso di sostanze che sortiscono danni cerebrali: praticamente tutte le droghe). Alla luce di ciò, mi chiedo e chiederò in commissione quali siano le politiche e le azioni concreta ente messe in pratica dal Comune di Udine per la prevenzione e il contrasto alle droghe”. Ravenna. La visita di +Europa al carcere: “Grave problema di sovraffollamento” ravennatoday.it, 10 settembre 2024 La referente De Lorenzo afferma che i detenuti del carcere “variano tra i 78 e gli 80 mentre la disponibilità regolamentare sarebbe di 49 persone”. Una delegazione di +Europa è entrata a Port’Aurea per un dialogo con il direttore Stefano di Lena. Il carcere di Ravenna ha una disponibilità di 49 posti ma i detenuti sono stabilmente 78-80, la polizia penitenziaria è sottorganico (cinque in meno secondo i dati del ministero) ma i funzionari giuridico-pedagogici sono aumentati recentemente. Sono dati forniti da Più Europa che nei giorni scorsi ha inviato una delegazione formata da Maria De Lorenzo e Nicoletta Zampriolo in visita nella casa circondariale di via Port’Aurea incontrando il direttore Stefano di Lena ed altri operatori penitenziari. “Abbiamo trattato per primo l’argomento del sovraffollamento - racconta De Lorenzo, componente dell’assemblea nazionale di Più Europa -. La dirigenza cerca di ovviare al problema con un’ampia apertura delle celle, 8/10 h per il regime aperto, 5 h per il regime chiuso. Naturalmente con numeri diversi sarebbe più semplice svolgere meglio tutte le attività. Anche perché gli spazi del carcere sono stati adattati e parzialmente ristrutturati nel corso degli anni ma occorrono ancora diversi interventi”. Con le temperature dei mesi estivi, il problema del caldo nelle celle è stato particolarmente opprimente: “Sono stati acquistati, dai detenuti o dal carcere, ventilatori e c’è stato un monitoraggio dell’Ausl. Certamente sugli spazi servirebbero però interventi strutturali più efficaci”. Più Europa afferma di aver avuto rassicurazioni sul rispetto senza ghettizzazioni delle diverse religioni (cibi, orari preghiere) e sui diritti Lgbt. “La nostra delegazione - afferma Zampriolo di Più Europa Ravenna - ha potuto verificare che ci sono anche molti richiedenti asilo ex minori non accompagnati che, quando diventano maggiorenni; rischiano di essere abbandonati dallo Stato, non esistendo una rete territoriale di sicurezza e finiscono quindi per tornare a delinquere. Anche per reati che prevederebbero i domiciliari vengono mandati in carcere perché non hanno un posto dove alloggiare. Complessivamente abbiamo verificato che esiste una buona collaborazione tra polizia penitenziaria e i funzionari giuridico pedagogici. Gli operatori in questi anni sono riusciti ad intercettare molti finanziamenti che hanno potuto utilizzare per potenziare le attività artigianali, sportive e di formazione professionale. Nonostante questo, a noi è risultato evidente anche la necessità di maggiori investimenti per adattare al meglio questa struttura storica che ha certamente bisogno di ulteriori interventi”. Il disegno di legge sulle carceri, secondo Più Europa, non conteneva alcuna misura efficace sul sovraffollamento: liberazione anticipata speciale, provvedimento sul numero chiuso o misure alternative. “In Italia ogni mese entrano più di 400 persone in carcere, peggiorando la situazione. Questo governo, inoltre, sistematicamente ricorre al Codice penale per regolare qualsiasi fenomeno sociale, l’approccio ossessivo al tema di ogni sostanza stupefacente persino per i reati di lieve entità, il carcere come unica risposta all’immigrazione, la repressione verso i giovani e il giustizialismo urlato che non risolve i problemi esistenti nelle comunità”. Più Europa ha depositato una proposta di legge affinché chi ha meno di un anno di pena da scontare possa farlo nelle case di reinserimento sociale, strutture volte alla formazione lavorativa e alla formazione professionale. “Inoltre, chiediamo sia rispettata la sentenza della Corte Costituzionale sull’affettività in carcere: i detenuti devono poter godere di questo diritto quando questo non costituisce elemento di pericolosità”. Pistoia. “Carcere modello, detenuti sereni. L’imprenditoria apra loro le porte” di Patrizio Ceccarelli La Nazione, 10 settembre 2024 Erica Mazzetti dopo aver visitate le Case circondariali di Firenze e Prato, ieri è arrivata anche a Pistoia “Una bella realtà da valorizzare con iniziative all’interno. E il mondo del lavoro provi a dare opportunità”. “Dopo aver visitato Prato e Firenze posso dire con certezza che questa è un’isola felice, sia per le dimensioni del carcere e numero dei detenuti, sia per l’organizzazione. Ho trovato persone molto competenti, disponibili anche a confrontarsi con i detenuti in modo tranquillo e sereno: quello che ci vorrebbe in tutte le carceri”. Così Erica Mazzetti, parlamentare di Forza Italia e responsabile nazionale per il suo partito del dipartimento lavori pubblici, al termine della visita di ieri al carcere pistoiese di Santa Caterina in Brana, una visita che arriva dopo aver toccato situazioni complesse come quelle di Firenze e Prato. “Certo qui è molto più semplice - ha ammesso la parlamentare - perché ci sono circa 70 detenuti, la guardia penitenziaria è in numero non completo, perché l’organico sarebbe di 60, ma sono 51 che comunque è un numero sufficiente. Ho visto anche a livello logistico e organizzativo un sistema che funziona. Finalmente, dopo aver visto due carceri in condizioni pessime, non per volontà di chi ci lavora, ma per una situazione logistica e infrastrutturale, qui ho trovato finalmente una realtà positiva, dove le cose basilari sono gestite molto bene, sia l’organizzazione, i servizi, le collaborazioni esterne con le varie cooperative per fare occupare i detenuti, sia per le condizioni igienico-sanitarie che ho trovato ben messe. Una bella realtà del nostro territorio, che voglio anche valorizzare facendovi iniziative all’interno, per le quali ho dato la mia disponibilità, anche insieme ai colleghi del coordinamento provinciale di Pistoia”. Insieme a Mazzetti alcuni membri del coordinamento locale di Forza Italia: Anna Bruna Geri, Daniela Troccoletti e Paola Fortunati. Mazzetti ha anche indicato alcune cose da migliorare, pur ribadendo di non aver riscontrato criticità all’interno di Santa Caterina. Tra queste ha indicato una maggiore integrazione con il sistema scolastico e lavorativo locale. “Credo sia indispensabile, come ho visto in altre carceri - ha sottolineato la parlamentare - avviare un’ulteriore collaborazione con l’esterno, soprattutto con gli imprenditori locali, dato che la normativa lo prevede, per poter prendere più persone a lavorare, visto che qui ho trovato tutti detenuti sereni. L’obiettivo è integrarli meglio nel mondo lavorativo. Penso anche ad esempio a volontari del polo universitario, oltre che ad insegnanti, disposti a venire qui a fare dei corsi universitari. Ritengo questo sia molto importante in vista del reinserimento nella società per i detenuti che hanno scontato la pena e questo dovrebbe essere incentivato di più, proprio anche con l’aiuto delle categorie economiche pistoiesi”. Macerata. I detenuti lavoreranno nei cantieri post-sisma: oggi la firma del protocollo d’intesa di Monia Orazi Corriere Adriatico, 10 settembre 2024 Detenuti al lavoro nei cantieri per la ricostruzione post terremoto, presto sarà realtà. Sarà firmato questa mattina a Roma presso il ministero della Giustizia un protocollo d’intesa per l’impiego dei detenuti nei cantieri della ricostruzione, tra il ministro Carlo Nordio e il commissario alla ricostruzione Guido Castelli. Alcune imprese hanno già accettato di aderire all’iniziativa ed avranno tra le loro maestranze alcuni detenuti. L’obiettivo del protocollo è quello di favorire il reinserimento sociale di chi sconta in carcere pene detentive. L’iniziativa è già stata sperimentata con successo nell’autunno del 2022, con la firma di analogo protocollo che ha previsto l’impiego di alcuni detenuti nella ricostruzione delle chiese. Sempre sul fronte della ricostruzione post sisma, in vista dell’approvazione della prossima legge finanziaria l’associazione dei terremotati “La terra trema noi no” lancia un appello al governo, con la richiesta di aumentare il costo parametrico, per evitare rischi di accolli ai proprietari delle abitazioni, a causa della scadenza del Superbonus prevista il 31 dicembre 2025. Chi non è coperto dal 110 per cento perché deve ancora presentare il progetto o deve veder terminati i lavori il rischio è di dover pagare di tasca propria. “Chiediamo al governo di aumentare il costo parametrico per la ricostruzione secondo il progetto presentato dal commissario Castelli - spiega Camillozzi - o in alternativa di prorogare il Superbonus 110 per cento, in scadenza il 31 dicembre 2025. Sono stati presentati solo i progetti con scadenza al 30 giugno scorso, per il resto i tecnici non presentano i progetti, senza il 110 per cento i proprietari delle abitazioni rischiano un accollo del 15, 20 per cento dell’importo totale. Rischiano soprattutto coloro che devono presentare il progetto o stanno per avviare i lavori, visto che la scadenza è vicina. Si rischia di rallentare enormemente la ricostruzione, con numerosi proprietari che non riusciranno a far fronte di tasca propria ai costi dei lavori. Nei contratti poi non è prevista nessuna clausola a tutela dei committenti, in merito ad eventuali ritardi nei lavori o alla copertura dei costi del Superbonus, per cui invitiamo chi deve firmare a fare molta attenzione. Il Superbonus per i terremotati del cratere non è un capriccio, ma è necessario per coprire gli alti costi della ricostruzione”. Livorno. Visita all’isola-carcere di Gorgona, dove la sofferenza non è fine a sé stessa di Tommaso Giani Corriere Fiorentino, 10 settembre 2024 Porto di Livorno, sabato mattina di fine estate. Parte un battello per l’isola di Gorgona, e a bordo ci siamo anche io e Giulia, una mia ex studentessa ora diplomata che due anni fa aveva partecipato insieme a me e ad altri ragazzi a una serie di incontri con alcuni detenuti del carcere di Pisa. Di tutti quei compagni di classe speciali che parteciparono con noi agli incontri nella casa circondariale, ce n’era uno (di nome Filippo) che si coinvolse e si affezionò a noi della scuola di Fucecchio in modo particolare. Anche quando gli incontri in carcere sono finiti, il rapporto con Filippo è continuato. In un paio di lettere il nostro ex compagno della “Classe Pirata” ci ha aggiornato sul proseguimento del suo percorso riabilitativo, e in particolare del suo trasferimento dalla casa circondariale di Pisa a una delle carceri più particolari d’Italia: l’isola di Gorgona. Prima della lettera di Filippo ne ero a conoscenza a malapena: un puntino nell’arcipelago toscano adibito completamente a centro detentivo. Ora quel puntino diventava la casa di un amico, un posto dove andare per riabbracciarlo e per passare di nuovo un pochino di tempo insieme. E oggi finalmente è arrivata l’occasione. Una quindicina fra i circa novanta detenuti di Gorgona ha realizzato uno spettacolo teatrale aperto al pubblico. Filippo non lo sa, ma in quel pubblico ci siamo anche io e Giulia. Lo spettacolo è un riadattamento de La Tempesta di Shakespeare: una rappresentazione itinerante, che inizia e si conclude sulla spiaggetta porticciolo dell’ isola penitenziario, e che nella parte centrale viene inscenato su un prato nel cuore del piccolo centro abitato. Filippo appena ci riconosce in mezzo al pubblico si scoglie in un sorriso da bambino. Anche io e Giulia siamo emozionati nel vederlo all’opera in questo palcoscenico naturale. A Filippo è affidata la parte più comica dello spettacolo, e lui, da buon napoletano espressivo e guascone, riesce a interpretarla molto bene. Eppure il momento più bello della giornata, sia per Filippo che per noi, arriva non durante lo spettacolo ma subito dopo. I detenutiattori, infatti, restano con noi in giro per l’isola anche a pranzo e dopo pranzo, per scambiare opinioni e riflessioni sul teatro, sulla giustizia penale, sulle nostre vite. Sembra un sogno. Ma dove si ritrova un carcere così bello? Con questo mare, questi paesaggi, queste casette color pastello. Con i detenuti che girano per l’isola nelle mansioni più disparate e per di più mescolati agli agenti, e dove le sbarre quasi non esistono. Al bar del paesino che ci offre il pranzo sono operativi al bancone due agenti della polizia penitenziaria e un detenuto, e tutti e tre lavorano alla pari. Il direttore del carcere intervenendo alla fine dello spettacolo per salutarci e per ricordare un ex detenuto che ha perso la vita dopo essere tornato in libertà sottolinea: “È ancora nei nostri cuori, era uno di noi”. “Hai sentito come lo ha chiamato?”, ci fa notare Filippo: “Non ha detto: uno dei detenuti. Ha detto: uno di noi. Grande direttore”. Le chiacchiere fra sconosciuti nascono spontanee, anche grazie ai telefoni cellulari sequestrati e all’assenza di traffico di autoveicoli e altri rumori molesti; e nel frattempo Filippo e gli altri detenuti ci raccontano delle visite dei familiari una volta al mese durante le quali si può mangiare, giocare a pallone e fare il bagno insieme. “La pena da scontare è faticosa anche qui, che vi credete - tiene a precisare Filippo - la lontananza dalla famiglia e dal resto della società che sta dall’altra parte del mare è tanta e fa soffrire. Però qui la sofferenza non è fine a se stessa. Qui insieme alla sofferenza c’è la bellezza: la bellezza del paesaggio, del silenzio, del lavoro, dell’incontro all’aria aperta con parenti e visitatori. Purtroppo nella maggior parte delle carceri italiane si produce alienazione e disagio psichico. In un carcere come questo, invece, il testo dell’articolo 27 della Costituzione non viene tradito. Per recuperare davvero noi detenuti servirebbero altre cento Gorgona, anche sulla terraferma”. Cuneo. Bilancio positivo per la seconda edizione di “Art. 27-Expo. Fatti in carcere” cuneodice.it, 10 settembre 2024 Trenta realtà provenienti da tutt’Italia si sono confrontate nella tre-giorni dedicata all’economia carceraria. Grande soddisfazione da parte degli organizzatori della seconda edizione di “Art. 27-Expo. Fatti in carcere”, appena conclusa a Cuneo. Davide Danni - presidente della coop Glievitati (che vanta tre laboratori di panificazione all’interno delle carceri, con un’attività che dà lavoro a 15 detenuti e che ha la paternità di questo evento) parla di “un risultato inimmaginabile dopo l’edizione 2023. Un successo che è stato frutto di un intenso lavoro di progettazione e di relazione durato tutto l’anno”. Trenta realtà provenienti da tutt’Italia si sono confrontate in questa “verticale” centrata sull’economia carceraria “grazie alla volontà e all’entusiasmo di chi ci ha raggiunto da ogni parte d’Italia e ai 18 espositori che ci hanno portato prodotti di altissima qualità”, prosegue Danni, che ricorda in particolare l’efficacia della partnership con Intesa Sanpaolo - Impact Bank, da anni impegnata nel supporto al lavoro e alle imprese che operano in ambito penitenziale e che è stata parte attiva nel coinvolgimento degli ospiti. “Ma un enorme grazie va a Cuneo, all’amministrazione comunale che ha supportato e patrocinato Art.27 per il secondo anno e soprattutto alla cittadinanza che ci ha accolto con un abbraccio che ricambiamo emozionati”, sottolineando così il successo in termini di partecipazione agli eventi e di vendite degli stand. I lavori della manifestazione sono iniziati giovedì 5 con la tavola interna alla casa circondariale di Cuneo. Un appuntamento che le associazioni di categoria e le forze sociali si sono date già l’anno scorso per varare concretamente progetti per la formazione e l’occupazione delle persone detenute, per confrontarsi e rispondere ai bisogni reciproci. Al tavolo si sono succeduti Davide Danni presidente coop Glievitati, Domenico Minervini direttore della Casa Circondariale, Bruno Mellano garante regionale delle persone detenute, Alessandro Durando vicepresidente della Camera di Commercio, Giuliana Cirio di Confindustria, Marco Manfrinato di Confcommercio, Luca Facta di Confcooperative, Joseph Meineri di Confartigianato, Patrizia Dalmasso del CNA, Alessandro Ferrero presidente Ordine Avvocati di Cuneo, Giulia Marro consigliere regionale, l’onorevole Monica Ciaburro e l’onorevole Chiara Gribaudo. Venerdì 6, il villaggio espositivo in via Roma è stato inaugurato dalla sindaca Patrizia Manassero con gli interventi del Prefetto di Cuneo Mariano Savastano alla sua prima uscita pubblica, del senatore Giorgio Bergesio, di Giulia Marro consigliera regionale e di Domenico Minervini Direttore della Casa Circondariale di Cuneo. Il villaggio, durante tutte le giornate dell’evento, ha ospitato diversi stand di prodotti realizzati nelle carceri dai detenuti. Dopo la performance teatrale di Guglielmo, ex detenuto di Saluzzo, il programma è proseguito col “tavolo delle buone politiche” moderato da Massimo Mathis (La Stampa) che ha dialogato con Bruno Mellano Garante Detenuti Piemonte, Emilio Minunzio del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), Andrea Lecce Responsabile Direzione Impact Intesa Sanpaolo, Marzia Sica della Compagnia di Sanpaolo, Claudia Ducange referente Area Penale Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, Claudio Cazzanelli di Confcooperative Federsolidarietà e Fabiana Dadone Ambassador di ART.27-EXPO. Nel primo pomeriggio di Venerdì Giulia Poetto (La Stampa) ha intervistato Marco Malinki riguardo “Parole evase”, il podcast che sta realizzando per “Non è la radio” e la produzione di Panaté, in cui si possono ascoltare le voci dei detenuti. Hanno chiuso la giornata espositiva Pippo Bessone e Luca Occelli con lo spettacolo “Nui Dui”. Sabato la giornata espositiva è stata caratterizzata da un talk molto partecipato, aperto dalla performance teatrale “solo andata” con i detenuti del carcere di Fossano. Hanno portato il loro contributo Marina Maruzzi (Oltre i muri-Volontari a Bancali ODV), Claudia Calcagnile (Mosaico di Palermo), Matteo Marchetto (Pasticceria Giotto di Padova), Carla Chiappini (Verso Itaca di Piacenza), Alessia Bordo (O’Press e Teatro Necessario di Genova), Deborah Calderaro (Attavante Firenze), Giulia Gucci (Altro Diritto Firenze), Roberta Bugno (Il Cerchio Venezia), Chiara Sacchelli (Casa di Carità Arti e Mestieri di Torino), Liri Longo (Malefatte - Meraviglie di Venezia), Vincenzo Buonasera e Vincenzo Sapienza (UISP Sicilia), Emanuela Musso (Sc’Art Genova), Michele De Lucia (Parole Liberate) e Giulia Marro (Collettivo Zaratan - ARCI Cuneo-Asti). La serata di sabato si è chiusa con il commovente spettacolo teatrale al Toselli “La favola bella”, della compagnia Voci Erranti, regia di Grazia Isoardi, messo in scena da detenuti della Casa Circondariale di Saluzzo. Domenica, sotto la pioggia, si è conclusa la quattro giorni con “il pranzo più buono del mondo”, realizzato coi prodotti dell’economia carceraria, preparati e serviti dai detenuti. “E ora si riparte con l’organizzazione dell’edizione 2025”, chiude Danni, “perché vogliamo far diventare questa manifestazione il luogo di confronto tra gli operatori dell’economia carceraria italiana. Ovvero, definire questo ambito economico come un vero e proprio settore caratterizzato da bisogni e caratteristiche specifiche che necessitano di essere rappresentate. L’obiettivo è quello di mettere in dialogo, nel giusto modo, la società civile, i decisori politici e le amministrazioni penitenziarie per supportare il sistema Italia e per realizzare i contenuti dell’art. 27 della nostra Costituzione”. Felice per l’esito anche la Ambassador Fabiana Dadone: “L’evento è stato fondamentale per veicolare il messaggio che l’inclusione sociale non rappresenta solo un elemento di valore dal punto di vista umano, non è questione di mera bellezza d’animo, ma un concreto e saggio investimento in competitività per le aziende che guardano all’Agenda ONU e ai suoi criteri ESG (Environmental, Social, Governance) come un orizzonte sempre più vicino. Nella dimensione “Social” che include aspetti quali le condizioni di lavoro, la diversità e l’inclusione, i diritti umani e le pratiche etiche, rientra a pieno titolo l’inclusione lavorativa di soggetti in stato di detenzione che subiscono una condizione di marginalità che molto spesso li conduce verso l’unica scelta possibile, ossia tornare a delinquere. I dati sulla recidiva ne sono un evidente segnale. Mostrare che c’è un’altra possibilità, che col lavoro la recidiva praticamente si azzera e che la competitività di un’azienda aumenta per il valore che il prodotto che fa coi detenuti ha di intrinseco, è un modello vincente. Vincono tutti! Di questo e di molto altro si è discusso oltre le barriere del carcere, quelle del pregiudizio e del preconcetto. Non posso che esprimere tutto il mio ringraziamento a tutti coloro che hanno partecipato e al calore mostrato dalla cittadinanza cuneese che ha saputo ricambiare il coraggio di chi ha esposto e si è esposto”. Orvieto (Pg). Le storie raccontate dalla voce del padre: sostegno alla genitorialità per i detenuti orvietosi.it, 10 settembre 2024 Grande emozione per l’evento finale del progetto di sostegno alla genitorialità per i detenuti del carcere. “Quando tornava mio padre sentivo le voci, dimenticavo i miei giochi e correvo lì”. Anche per i New Trolls - i versi sono di “Quella carezza della sera” - è la voce del padre quella che resta scolpita negli abissi dell’anima e che, metaforicamente, accompagna i figli all’incontro con il mondo. Proprio la voce del padre è stata al centro della proposta di sostegno alla genitorialità che la Cooperativa Sociale “Il Quadrifoglio”, il SerD e il Servizio di Prossimità, in occasione de “Il maggio dei Libri”, hanno rivolto ai cittadini detenuti della Casa di Reclusione di Via Roma. Al centro del progetto la lettura ad alta voce ai propri figli di storie e favole, così da creare e ritrovare momenti di quotidianità, difficilmente riproducibili nella routine dei colloqui con le famiglie all’interno del carcere. Il progetto - “C’era una volta… Papà legge una storia” - che si è svolto tra giugno e agosto ha coinvolto circa 30 persone, tra cui 8 cittadini detenuti e 22 familiari, e ha visto la partecipazione attiva di professioniste del settore. Marianna Baccini, Michela Ferretti, Elena Valentini ed Elena Borsetti della Cooperativa Sociale “Il Quadrifoglio” di Orvieto hanno ideato e realizzato il programma, con la fattiva collaborazione del capo area educativa dell’istituto, Paolo Maddonni, e dei funzionari educatori Alessia Gallo e Gianluca Minissale. Significativa l’attenzione e la cura messa dalla Polizia Penitenziaria per la riuscita dell’evento conclusivo, con i suoi risvolti delicati per l’ingresso congiunto di numerosi bambini. Sono stati organizzati quattro incontri, tre dei quali - giovedì 20 giugno, giovedì 27 giugno e giovedì 8 agosto - dedicati esclusivamente ai padri. Queste fasi propedeutiche si concentravano sull’acquisizione di competenze di base nella lettura a voce alta, come l’uso del timbro di voce, la postura e la scelta dei testi più adatti. Il momento clou del progetto si è avuto giovedì 29 agosto, quando è stato organizzato un evento speciale all’aperto nell’area verde dell’Istituto di Orvieto, al quale hanno partecipato le famiglie, con mogli (ma anche una nonna) e figli di età compresa tra i 3 e i 16 anni. Dopo un primo momento, straripante di affetti e di abbracci, i papà hanno letto le storie preparate in precedenza, dimostrando di aver appreso i fondamentali di questa pratica di lettura e un grande coinvolgimento emotivo. A seguire, i partecipanti hanno condiviso una merenda, organizzata dagli stessi cittadini detenuti, durante la quale alcuni bambini hanno sorpreso i genitori leggendo a loro volta una storia. Nel corso dell’incontro, è stato anche proposto un laboratorio espressivo che ha coinvolto ogni nucleo familiare, offrendo l’opportunità di trascorrere del tempo insieme in modo ludico e creativo. Il pomeriggio si è concluso con una lettura di gruppo e i saluti finali. A grande richiesta dei detenuti, la fotografa Emanuela Cannone è stata invitata a documentare la giornata, consentendo così alle famiglie portare con sé questo bellissimo momento. Il progetto ha rappresentato un’occasione preziosa per rafforzare il legame tra i detenuti e i loro figli, fornendo uno spazio confortevole in cui la lettura ha fatto da mediatore affettivo tra le diverse esperienze familiari. Genova. Riparte “La Barchetta dei Piccoli Capitani” a sostegno dei bambini figli di detenuti liguria.bizjournal.it, 10 settembre 2024 Coinvolti nel progetto circa 150 tra bambini e famiglie con iniziative sia dentro che fuori le mura delle carceri di Marassi e Pontedecimo. Mettere al centro chi, troppo spesso, risulta invisibile: è l’obiettivo de “La Barchetta dei Piccoli Capitani”, un progetto a supporto dei minori figli di detenuti che è ripartito a Genova con attività e iniziative sia dentro che fuori le mura delle carceri di Marassi e Pontedecimo. Capofila del progetto, realizzato grazie al supporto e al coinvolgimento dell’Ufficio esecuzione penale esterna di Genova, delle due case circondariali cittadine e del Comune di Genova, è la Cooperativa sociale Il Cerchio delle Relazioni, in rete con altre associazioni territoriali genovesi del terzo settore: la Cooperativa sociale Il Biscione, Veneranda Compagnia di Misericordia, Arci Genova e Ceis Genova. Saranno circa 150 i bambini dai 3 ai 14 anni presi in carico dal progetto e seguiti per 12 mesi, con interventi di sostegno tra famiglia, carcere, scuola e comunità. Si prevedono oltre 4mila ore di servizi educativi rivolti direttamente ai minori, in interventi singoli e di gruppo e saranno circa 150 i gruppi familiari con persona autore di reato che verranno assistiti e supportati nel ruolo educativo verso i figli minori. Inoltre, sono in programma circa 250 ore di supporto educativo in ambito scolastico, diretto coi minori o indiretto con gli insegnanti. Il progetto prevede anche l’organizzazione di oltre 20 eventi: da un lato le “Giornate delle famiglie”, ossia momenti d’incontro e socializzazione dentro le case circondariali, dall’altro occasioni di aggregazione nei quartieri cittadini. Le “Giornate delle famiglie” sono state pensate come preziose occasioni di convivialità tra famiglie con genitori detenuti: eventi autorizzati dalle Direzioni delle case circondariali per consentire ai detenuti di Marassi e alle detenute di Pontedecimo di incontrare le famiglie, insieme, e permettere ai bambini di giocare tra pari e con i genitori. In questo senso, il primo appuntamento è in programma giovedì 12 settembre presso il carcere di Marassi. “Al centro delle attività che portiamo avanti c’è uno spunto importante - sottolinea Elisabetta Corbucci, psicologa e coordinatrice del Cerchio delle Relazioni - che rende innovativo il lavoro anche su scala nazionale: la promozione della cultura della centralità indiscussa dei bambini, figure fragili tra i fragili e quasi sempre ignorate perché le famiglie non ne comunicano l’esistenza e perché gli stessi penitenziari troppo spesso non sono predisposti per accogliere minori”. Il percorso de “La Barchetta dei Piccoli Capitani” completerà il progetto della “Barchetta Rossa e la Zebra” che dal 2018 al 2020, prima dello stop alle attività in presenza imposto dalla pandemia, aveva portato alla ristrutturazione di alcuni spazi nelle case circondariali di Genova Marassi e Pontedecimo, creando luoghi “protetti” dove i bimbi possono attendere il momento del colloquio in un ambiente bello, accogliente e adatto alla loro esigenze. Oggi è tempo di concretizzare quella che a tutti gli effetti è la terza fase del percorso, realizzando numerose attività a sostegno di famiglie e minori. “Per perseguire i nostri obiettivi - spiega Vanessa Niri, pedagogista di Arci Genova - ci focalizzeremo innanzitutto sulle due dimensioni spaziali che segnano la vita dei bambini, dentro e fuori il carcere, avviando un processo di presa in carico e di sensibilizzazione. È fondamentale infatti che gli adulti che circondano i bambini figli di uno o entrambi i genitori detenuti (famiglia, insegnanti, educatori, assistenti sociali) comprendano a fondo di aver a che fare con minori con un portato di estrema fragilità che va fatto emerge e poi accolto sul breve, medio e lungo termine”. Tappa conclusiva della “Barchetta dei Piccoli Capitani” sarà un grande evento, previsto a febbraio 2025, di restituzione di dati ed elementi di spicco legati alle attività svolte, col coinvolgimento delle famiglie supportate: un momento di riflessione e confronto ma anche una giornata di aggregazione e socialità, di grande significato e importanza per i bimbi e per i loro genitori. L’incontro tra arte e carcere: corriamo il rischio di riaprire lo sguardo di José Tolentino de Mendonça Avvenire, 10 settembre 2024 Il cardinale Tolentino riflette sulle idee che hanno ispirato la presenza vaticana in Biennale: “Facciamoci carico della responsabilità del vedere. C’è nello sguardo una cittadinanza da riconquistare”. Pubblichiamo in anteprima il testo introduttivo del cardinale José Tolentino de Mendonça a “Con i miei occhi”, il catalogo dell’omonimo Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia, edito da Marsilio Arte. Il volume, curato da Chiara Parisi e Bruno Racine e realizzato sotto la direzione artistica di Irma Boom, contiene anche una prefazione di papa Francesco, i testi degli artisti e delle detenute, e un reportage del fotografo Juergen Teller sulla storica visita del pontefice alla Casa di reclusione femminile della Giudecca, sede del Padiglione, il 28 aprile scorso. Il catalogo verrà presentato oggi alle 18 nelle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo a Milano. Non è forse una coincidenza che la Santa Sede abbia scelto di presentare il proprio Padiglione alla Biennale di Venezia in un luogo apparentemente così inaspettato come il carcere di reclusione femminile dell’isola della Giudecca. E non è certo a caso che il titolo del Padiglione, “Con i miei occhi”, voglia farci concentrare sull’importanza dello sguardo e riproporlo come indispensabile dispositivo di costruzione culturale e spirituale, opera di cui siamo responsabili tutti. Viviamo in un’epoca in cui, con l’esplosione del digitale e il trionfo delle tecnologie di comunicazione a distanza, lo sguardo umano è sempre più filtrato, differito e indiretto, con il conseguente rischio di rimanere come staccato dalla realtà stessa. La contemporaneità moltiplica indefinitamente l’esercizio mediato dello sguardo, determinandone la spettacolarizzazione, come ha acutamente denunciato Guy Debord, e al tempo stesso disattivando o precludendo quella che possiamo considerare essere la sua nuda pratica. Vedere con i propri occhi, però, conferisce al vedere uno statuto politico unico, poiché ci coinvolge direttamente nella realtà e ci costituisce non come semplici spettatori, ma come testimoni. Una lettura possibile del tema generale della Biennale, “Stranieri ovunque”, è anche la problematizzazione di questo straniamento dello sguardo. I nostri occhi trasformati in “stranieri ovunque” sono capaci, sì, di registrare e annotare, ma non più di vedere. C’è dunque, nel campo dello sguardo, una sorta di cittadinanza da riconquistare. Nell’anno in cui la Biennale d’arte celebra la sua sessantesima edizione, cadono i sessant’anni della prima proiezione, a Venezia, del film Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Il regista spiegava all’epoca che il suo fascino per lo sguardo di Gesù risiedeva nel fatto che questi si pone “ai limiti della metaforicità, fino ad essere una realtà”. Basta ricordare quanto ci viene detto nel celebre capitolo 25 del Vangelo di Matteo: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. E tutti concludono con la domanda: “Signore, quando ti abbiamo visto?”. È, questo, uno dei testi biblici più commentati da papa Francesco, il primo pontefice a visitare la Biennale. Afferma Francesco: “A noi è richiesto di rimanere vigili come sentinelle, perché non accada che […] lo sguardo si indebolisca e diventi incapace di mirare all’essenziale”. Riacquisire la capacità di guardare alla realtà, come punto di partenza per ridisegnarla, coreografando possibilità sociali nuove nella linea del dialogo, della cura di tutto il creato e della cultura dell’incontro - è anche questo ciò che papa Francesco ha ricordato agli artisti nello storico incontro di giugno 2023 alla Cappella Sistina. “Voi artisti - disse allora il Santo Padre - avete la capacità di sognare nuove versioni del mondo. La capacità d’introdurre novità nella storia. Per questo […] assomigliate anche ai veggenti. […] Sapete guardare le cose sia in profondità sia in lontananza, come sentinelle che stringono gli occhi per scrutare l’orizzonte”. Proprio questo Rimbaud aveva indicato come programma capace di rifondare la poetica della modernità: “Bisogna essere veggenti, farsi veggenti”. Farci carico della responsabilità che comporta il vedere con i propri occhi non ci consente di restare a osservare la storia blindati in un centro o inscritti in una zona di asserita neutralità che altro non è che la salvaguardia di una comfort zone. Guardare ci espone al rischio (che raramente è confortevole), ci propone contesti di itineranza e di interazione (che ci obbligano a decostruire tanti automatismi), ci avvicina, sempre per citare Rimbaud, a “cose inaudite e innominabili” (che sono parti costitutive del reale, ma che preferiamo rimuovere). Nella filologia della parola “sentinella” pulsa questo richiamo a farci custodi della sentina, che è lo spazio, nella parte più bassa della nave, dove si deposita l’acqua proveniente dalla pioggia o dal mare agitato. La sentina ci dà una visione anti-eroica della nave, priva di glamour, ma profondamente attenta al reale e alle sue infiltrazioni, che dobbiamo abbracciare. Diventare sentinelle informa i nostri occhi che non stiamo guardando la realtà solo dal di fuori, ma che, come scrisse Blaise Pascal, “siamo imbarcati” e siamo posti davanti alla necessità delle scelte e della scommessa. Una parola di gratitudine a Sua Santità papa Francesco che, quando gli ho presentato il progetto di questo padiglione, lo ha approvato e mi ha detto che avrebbe anche voluto vederlo con i suoi occhi. A Bruno Racine e Chiara Parisi, che formano un team curatoriale straordinario. Agli artisti Bintou Dembélé, Claire Fontaine, Claire Tabouret, Corita Kent, Maurizio Cattelan, Marco Perego e Zoe Saldana, Simone Fattal e Sonia Gomes, che hanno accettato questa sfida e che ci offrono visioni e domande che non dimenticheremo. A quanti hanno dato il meglio di sé nella produzione del padiglione: al collettivo di COR arquitectos, e in particolare all’impegno degli architetti Roberto Cremascoli e Flavia Chiavaroli. Alle autorità che rappresentano il ministero della Giustizia italiano, tanto a livello nazionale come nel Carcere di Reclusione Femminile dell’isola della Giudecca, insuperabili nell’apertura che ha reso possibile questa collaborazione con la Santa Sede. Al partner principale nella sponsorizzazione di questo progetto, Intesa Sanpaolo. Al Patriarcato di Venezia, nella persona del suo Patriarca, monsignor Francesco Moraglia. Alle fondazioni “Casa dello Spirito e delle arti” e “Gravissimum educationis”, come pure ai membri del comitato promotore. Al dono rappresentato dall’amicizia di Arnoldo Mosca Mondadori. E un sentito “grazie” a ogni singola donna residente nel carcere, i cui occhi interpellano e allargano lo sguardo del nostro mondo. “La libertà è un organismo vivente”, l’esperienza di lavoro autogestito di un gruppo di detenuti politici corriereirpinia.it, 10 settembre 2024 Sarà il Complesso polifunzionale del Comune di Tufo (Av) ad accogliere il 21 settembre, alle 16.30, la presentazione del volume di Beppe Battaglia “La libertà è un organismo vivente”, edito da “Sensibili alle foglie”. Nell’opera l’autore narra in prima persona l’esperienza di un gruppo di detenuti politici, provenienti dall’esperienza della lotta armata in Italia, a metà degli anni ottanta del secolo scorso. Un progetto di liberazione realizzato sull’agro di Tufo in regime di esecuzione penale esterna. Un progetto partito dal carcere di Bellizzi Irpino, mediante il lavoro autogestito collettivamente, col supporto di un gruppo di volontari e volontarie che insieme costituirono l’Associazione CSSD-Comunità di Servizio Sociale dei Detenuti, alla quale aderì anche il Comune di Tufo conferendo in comodato d’uso gratuito un terreno e un fabbricato rurale per realizzare una serie di attività lavorative che videro protagonisti il gruppo di persone detenute, numerose espressioni del mondo del volontariato e dell’associazionismo locale e nazionale, nonché la stessa popolazione irpina a partire dai cittadini tufesi e avellinesi. Un’esperienza originale che seppe coniugare in modo spontaneo la massa enorme di contributi liberatori espressi dal territorio che di fatto superarono la dimensione politica e/o giuridica per collocarsi direttamente e senza filtri sul terreno della liberazione nell’accezione più ampia. Un processo di cambiamento partito dal basso ed in modo spontaneo che persino le istituzioni coinvolte riconobbero. Al centro quel piccolo gruppo di persone detenute che legittimamente aspirava alla propria liberazione dal carcere, ma di liberazione c’era bisogno per ciascun componente di quell’esercito variopinto che su Tufo seppe poggiare il cuore. Beppe Battaglia intreccia con delicata emotività quei momenti non rinunciando a schiette considerazioni su quella che è stata la dura esperienza detentiva e sulle più generali condizioni della realtà carceraria nel nostro paese offrendo interessanti spunti di riflessione di ordine giuridico, politico, sociale e umanitario di cocente attualità. A portare i propri saluti Nunzio Donnarumma, sindaco di Tufo, Francesco Nigro, già sindaco di Tufo. Interverranno l’avvocato Giovanna Perna, componente “Osservatorio Carceri Unione Camere Penali Italiane”. Modera Pier Luigi Melillo, giornalista e Direttore di “Otto Channel”, Cecco Bellosi, Responsabile delle Comunità dell’Associazione “Il Gabbiano”, Rita Romano, Direttrice Casa circondariale Avellino, Beppe Battaglia, autore di “La libertà è un organismo vivente”. È prevista la presenza dell’Editore. Sogni (e futuro) per i giovani di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 10 settembre 2024 Il ritorno a scuola: c’è un’intera generazione che ormai parla una lingua indecifrabile e vive altrove anche se abita in casa. Zitta zitta è ricominciata la scuola. Come ogni anno? Quasi. La continuità con il recente passato è garantita dall’endemica mancanza di personale (i supplenti al via sarebbero 250 mila secondo i sindacati, 165.000 secondo il ministro) e dall’assenza di un piano per rafforzare insegnanti di sostegno e docenti di italiano per alunni stranieri che l’italiano non lo sanno. La scuola boccheggia da tempo immemore e continuerà a boccheggiare, come se non fosse l’emergenza nazionale che è. E questo in perfetta continuità con i governi precedenti, nonostante i fondi previsti dal Pnrr, però in perenne attesa di concorsi e decreti attuativi. In compenso, sono cambiate le linee guida, secondo le disposizioni del ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, che ha voluto incardinare il nuovo corso di studi su alcuni concetti chiave, più connessi al merito che all’istruzione: Patria (con la p molto maiuscola), impresa, proprietà privata, con l’aggiunta in extremis dell’educazione civica. Il Comitato tecnico del ministero ha sottolineato in matita blu la mancanza di riferimenti alla dimensione sociale dell’insegnamento e alla lotta contro la violenza di genere. Tutti rilievi accolti con deferente inchino e bellamente archiviati. Come i tre pilastri proposti dal predecessore, Patrizio Bianchi, governo Draghi, membro dell’Accademia dei Lincei: Costituzione, sostenibilità ambientale, cittadinanza digitale. Temi più in sintonia con lo spirito del tempo ma rimasti sulla carta. Valditara batte altre strade, con qualche eco da libro Cuore. Per esempio, forte pressione per tornare a usare il diario, e scritto a penna, come i compiti a casa. Più il divieto tassativo all’uso di smartphone nelle elementari e alle medie, misura quest’ultima che si sta tentando anche in altri Paesi, Gran Bretagna in testa: di certo lodevole lo scopo, lecito dubitare del risultato. Basteranno mattine a tolleranza zero per disintossicare studenti che verso il cellulare hanno sviluppato una dipendenza di massa e precoce? Parlare di scuola di destra o di sinistra, se sia più importante il concetto di Patria o di Costituzione, è come disquisire sulla piega dei centrini da tè sul ponte del Titanic, mentre l’iceberg sta squarciando la nave. C’è un’intera generazione che ormai parla un’altra lingua, si incontra o si scontra attraverso canali e codici indecifrabili, che vive altrove anche se abita in casa. E manifesta un disagio palpabile e crescente, senza nome, senza cura, senza sbocchi. Farsi del male o fare del male diventano gli antidoti estremi alla perdita di senso e di qualsiasi prospettiva risvegliante di futuro. Nel saggio “La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli”, in uscita per Rizzoli e anticipato su queste pagine da Walter Veltroni, lo psicologo americano Jonathan Haidt stila un’allarmante diagnosi sugli effetti trascurati dell’iperconnesione al cellulare: riduzione drastica del tempo riservato al gioco come momento di contatto personale; calo a picco della capacità di concentrarsi; peggioramento del sonno; progressivo sviluppo di una dipendenza come quella da slot machine, alcol o stupefacenti. Ma non è soltanto questa pandemia di disconnessione dalla realtà reale, sostituita da quella virtuale, a rendere fragilissima la leva di una gioventù accartocciata su sé stessa. Una ragazza di 16 anni ha detto al padre: “Prima il Covid, adesso una guerra vicina e poi ancora un’altra. Quello che stiamo provando noi negli ultimi anni, voi ve lo siete risparmiato da quando siete nati”. Noi adulti siamo cresciuti con dei sogni. Loro, con degli incubi. La scuola non può da sola arginare questo male di vivere, e di dissipazione dei desideri, che coinvolge chi, per anagrafe, è destinato a ereditare il mondo. Ma è colpa grave trascurare l’impatto di questo iceberg, concentrando gli sforzi sulle tazzine da tè, offrendo come via di salvezza richiami retorici all’orgoglio di nazione o al successo come meta di una crescita. Il fatto che il “bonus psicologo” verrà (forse) confermato è (sarebbe) cosa buona e utile. Che passi dai 25 milioni di euro del 2022 ai 10 messi a bilancio, con 400 mila richieste da evadere, è un po’ meno che niente: significherebbe 25 euro a testa, neanche la metà del costo di una sola seduta. Don Milani, priore di Barbiana, morto a 44 anni dopo aver compiuto il miracolo di seminare l’amore per il sapere in un gruppo di ragazzini perduti del Mugello, scriveva: “Cari professori, vi paghiamo perché ci dovete insegnare a vivere, non per bocciarci, soprattutto noi, che siamo gli ultimi”. Il problema, l’iceberg, è che adesso gli ultimi, cari professori e caro ministro, sono tanti. E l’impressione è che aumenteranno. Non tocca solo a voi, ma tocca anche a voi. Migranti. Per l’Italia “legittimi i controlli alle frontiere tedesche”. Ma rimane il no a riprendere i “dublinanti” di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 10 settembre 2024 Il blocco italiano riguarda oltre 14mila profughi solo nei primi sette mesi del 2024 da tutti i Paesi Ue. E così resterà almeno fino al 2026. La questione sarà affrontata al G7 dei ministri degli Interni europei a ottobre ad Avellino. Una decisione legittima da parte della Germania, che ha stabilito di ripristinare i controlli alle frontiere almeno per i prossimi sei mesi, come è legittimo del resto da parte dell’Italia, ormai da un anno a questa parte, non riprendere indietro i “dublinanti”. Compresi i 14.360 da gennaio a luglio 2024 per i quali sono arrivate nuove richieste di trasferimento da tutti i Paesi Ue. Non un muro contro muro fra due nazioni alleate nel contrasto all’immigrazione clandestina e nella gestione dei flussi, ma il rispetto di esigenze nazionali. È la posizione del Viminale che non vede come un atto ostile l’ordine della ministra dell’Interno tedesca Nancy Faeser, che scatterà lunedì prossimo, ma come un provvedimento già adottato a più riprese negli ultimi anni, per motivi di sicurezza nazionale e antiterrorismo, da vari partner europei (compresi Italia e Francia). Centri di accoglienza con oltre 138mila assistiti - Qualcuno tuttavia intravede nel ripristino dei controlli ai confini (non quelli fisici con l’Italia) l’ombra di una risposta al rifiuto di Roma di riprendersi circa 20 mila “dublinanti” come richiesto da Berlino, che ha rappresentato la stessa necessità anche ad altri Paesi Ue. Nel caso italiano - con il maggior numero di migranti partiti alla volta della Germania - la replica negativa è legata in particolare all’impossibilità al momento di riprendere i rifugiati identificati nel nostro Paese, in quanto primo approdo e poi andati all’estero, nelle strutture d’accoglienza già sotto pressione per gli sbarchi passati, ora più che dimezzati (a ieri 44mila circa contro gli oltre 157mila di tutto il 2023 - 115mila circa al 9 settembre di un anno fa - con oltre 138mila assistiti). Il Patto europeo su asilo e immigrazione - Prima del 2026, con l’applicazione del Patto europeo su asilo e immigrazione, lo scenario dovrebbe rimanere lo stesso, senza che Germania e Italia debbano per questo arrivare ai ferri corti. Poi le nuove regole, decise anche grazie al peso della posizione italiana in Lussemburgo, potrebbero rivoluzionare l’attuale assetto della redistribuzione dei migranti con azioni da attuare nei Paesi di partenza e di transito dei profughi come previsto dal Piano Mattei. Ma il caso “dublinanti” potrebbe finire sul tavolo ad Avellino in un incontro bilaterale (a tre se il ministro dell’Interno francese Gerald Darmanin dovesse restare al suo posto) fra il responsabile del Viminale Matteo Piantedosi, che presiederà il vertice, e la sua collega tedesca Faeser al prossimo G7 dei ministri dell’Interno Ue dal 2 al 4 ottobre. I ruoli si sono invertiti - Sulla carta i rapporti sono eccellenti, lo stesso Patto nasce soprattutto da una collaborazione italo-tedesca anche sull’utilizzo di Paesi terzi per svolgere procedure accelerate alla frontiera di identificazione dei migranti (come l’Albania). Insomma, più che i dissidi e i dispetti, si punta sul rispetto delle reciproche posizioni in un clima comunque di collaborazione, con i ruoli che sembrano invertiti: la Germania alle prese con l’emergenza immigrazione (che ha avuto un peso nelle ultime elezioni) tanto da chiedere agli alleati di riprendersi i “dublinanti”, e l’Italia che al momento tira il fiato con il calo degli sbarchi da Libia e Tunisia, nonché l’azzeramento pressoché totale di arrivi dalla Costa d’Avorio grazie ai progetti di investimenti e sicurezza messi a punto anche dalla Farnesina. Ora la destra europea vuole mani libere sui migranti di Simone Martuscelli Il Domani, 10 settembre 2024 Un tempo Bruxelles veniva accusata di non fare abbastanza per la gestione migratori, adesso la strategia è cambiata: l’Unione è di troppo e deve sostanzialmente farsi da parte e lasciare agli Stati membri il diritto di tutelare i propri confini. C’era una volta il ritornello per cui uno dei motivi per cui prendersela con l’Europa risiedeva nel suo “non fare abbastanza” per gestire e regolare i flussi migratori verso i propri confini, nella sua “mancanza di solidarietà”. Adesso, invece, la strategia della destra europea sembra essere cambiata: Bruxelles è di troppo, e deve sostanzialmente farsi da parte e lasciare agli Stati membri il diritto di tutelare i propri confini. Il primo segnale in questo senso l’ha inviato Marion Maréchal, eurodeputata conservatrice e nipote di Marine Le Pen, rilanciando un vecchio video del nuovo primo ministro francese Michel Barnier. Era il 2021 e l’ex negoziatore per la Brexit, candidato alle primarie del centrodestra (perse) per le presidenziali dell’anno dopo, elencava il suo programma sull’immigrazione: una moratoria comprensiva di una drastica limitazione dei ricongiungimenti familiari, la fine delle regolarizzazioni e dell’assistenza medica gratuita, la facilitazione delle espulsioni, la riforma del diritto d’asilo e un referendum popolare che faccia da “scudo costituzionale” per questi provvedimenti. Nel suo tweet, Maréchal aggiunge solo: “È ora di tenere fede a queste promesse”. In effetti Barnier, nonostante il suo passato ruolo da negoziatore europeo, negli ultimi anni ha assunto posizioni decisamente più dure contro l’Ue, rimettendo in discussione il primato del diritto europeo su quello nazionale francese e, appunto, chiedendo una “Frexit” sulle politiche migratorie. Una posizione sostenuta, poche ore dopo, anche da due pesi massimi dell’estrema destra europea, direttamente dal Forum Ambrosetti di Cernobbio: Geert Wilders e Viktor Orbán. L’olandese ha dichiarato come l’obiettivo sia un “un opt-out sull’immigrazione come in Danimarca”, che permetterebbe di “essere più severi sui permessi di ingresso nel nostro Paese”. Secondo il premier ungherese, invece, “non si può imporre a un Paese di accettare persone che pongono rischi in termini di sicurezza e carico sociale. Chi definisce se abbiamo bisogno di migranti? Alcune problematiche non dovrebbero essere decise a livello europeo, ma nazionale. Chi può decidere che Bruxelles deve gestire l’immigrazione per tutta l’Ue? Sono i singoli leader delle singole nazioni a dover decidere”. Questa modifica nel linguaggio e nella postura merita considerazione anche perché arriva a pochi mesi dall’approvazione definitiva del Patto Ue su migrazione e asilo, che ha riscritto in parte proprio quelle regole europee di cui si chiedeva insistentemente la modifica. L’impressione, però, è che quelle divisioni emerse anche al momento del voto in Parlamento - alcuni testi, come quello sulle situazioni di crisi e sulle procedure d’asilo erano stati approvati solo grazie a numerose astensioni - si siano poi riverberate in una ricezione politica che ha scontentato tutti. A sinistra, dove si ritiene che la riforma vada a ledere fortemente il diritto all’asilo; ma sorprendentemente anche a destra, per la quale il mettere mano concretamente alle politiche migratorie significa anche ridurre lo spazio di protesta contro le istituzioni europee. Da qui, il passo successivo e - forse - definitivo: Bruxelles non sarà mai davvero in grado di agire come chiediamo, per cui tanto vale muoversi in autonomia. E la dimostrazione dello sfondamento di questo pensiero arriva perfino da un paese con un governo di centrosinistra e una delle politiche migratorie più aperte, ovvero la Germania. Negli ultimi giorni, infatti, rimbalza da Berlino l’idea che il paese possa subentrare al Regno Unito nel cosiddetto “piano Ruanda”, che consisterebbe nella deportazione nel paese africano di circa 10mila migranti all’anno. L’idea è stata proposta dal rappresentante speciale del governo federale per gli Affari migratori, il liberale Joachim Stomp, e riguarderebbe soprattutto i migranti provenienti dalla Bielorussia, oggetto di una “guerra ibrida” messa in atto da Putin e Lukashenko. Nei mesi scorsi, la commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johansson si era opposta all’idea di piani sul modello di quello UK-Ruanda, sostenendo che il patto approvato a Bruxelles in primavera non apre a scenari di questo tipo. Ma il rischio del “liberi tutti” è sempre in agguato.