Petrelli (Ucpi): “Le carceri sono il vero e unico esempio di resa dello Stato” agi.it, 6 ottobre 2024 Il carcere è “divenuto nel nostro Paese di per sé una macchina della disperazione. Un luogo incivile del quale vergognarsi: vero e unico esempio di resa dello Stato”. Lo ha detto il presidente dell’Unione delle Camere penali Francesco Petrelli, parlando al congresso straordinario dei penalisti in corso a Reggio Calabria, rilevando che “idee fatte del gettare via le chiavi, del marcire in galera, e di quella equivocata idea della certezza della pena hanno fatto apparire come naturalmente accettabile il vivere ristretti, in spazi degradati, fatiscenti e sovraffollati, fra le blatte e le cimici, fra la scabbia e le muffe, senza servizi igienici e sanitari degni di questo nome, e il permettere quindi che 73 persone detenute, abbandonate a se stesse in quei luoghi privi di speranza e di qualsiasi possibile risposta di giustizia, si siano suicidate, e continuino a farlo, dandosi la morte nei modi più atroci”. Nella realtà carceraria “caratterizzata da strutture fatiscenti e un tasso di sovraffollamento medio del 130,59% - ha osservato ancora Petrelli - lo squilibrio fra le risorse, materiali, sanitarie, trattamentali, disponibili e il numero dei detenuti provoca inevitabilmente condizioni di espiazione delle pene asfittiche, inumane e degradanti. Non si tratterebbe affatto di dare un premio immeritato liberando i condannati, ma semplicemente di riconoscergli un minimo risarcimento per le condizioni infami nelle quali sono stati costretti a vivere la privazione della libertà. Eppure le parole amnistia o indulto, e la stessa liberazione anticipata speciale, sono divenute parole eretiche espulse dal vocabolario della maggioranza. Parole che continueremo a pronunciare e a ricordare al Governo e al Parlamento - sottolinea il presidente Ucpi - perché sono ancora oggi, più che mai, gli strumenti elettivi che rispondono all’emergenza, che soprattutto salvano vite umane ma che anche salvano il carcere dall’illegalità”. L’intervento del senatore Nicola Irto (Pd) “Il Decreto Carceri è una scatola vuota e il ddl Sicurezza un attacco molto pericoloso alla libertà di dissenso e protesta”. L’ha detto il senatore Nicola Irto nel suo intervento, in rappresentanza del Partito democratico nazionale, al congresso straordinario dell’Unione delle Camere penali italiane. Il parlamentare - che ha espresso la vicinanza e il sostegno del Pd alle Camere penali calabresi in stato di agitazione - ha ricordato che “in Italia ci sono 61.547 detenuti in 189 istituti, con 51mila posti teorici ma soltanto 47mila effettivi e peraltro con un sovraffollamento superiore al 130 per cento”. “Rispetto a questo grave problema, la maggioranza di governo - ha aggiunto il senatore dem - ha votato contro una recente proposta di legge sullo svuotamento delle carceri. Nei mesi scorsi, come Partito democratico, avevamo verificato le preoccupanti condizioni dei detenuti con l’iniziativa “Bisogna aver visto”, ispirata alla lezione di diritto e umanità di Pietro Calamandrei. Al riguardo il governo e la sua maggioranza sono molto indietro e cercano effetti speciali ma non la sostanza”. A proposito del ddl Sicurezza, poi, Irto ha accusato: “L’articolato va a criminalizzare le proteste pacifiche, specie di chi si oppone alla costruzione di grandi opere pubbliche. Il testo prevede addirittura pene sino a 20 anni per chi protesta nei Centri di permanenza per il rimpatrio oppure nelle carceri. Oltre a contrastare con gli articoli 3, 13 e 27 della Costituzione, questo disegno di legge determinerebbe un’imperdonabile marginalizzazione di mendicanti, senzatetto, rom, detenuti e attivisti dei diritti. Le riforme - ha concluso - devono servire al singolo e alle comunità, non a limitarne o a comprimerne i diritti”. Consulta, scontro finale di Serena Riformato La Stampa, 6 ottobre 2024 Dopo sette tentativi a vuoto, il centrodestra pronto a sbloccare lo stallo. L’opposizione non partecipa al voto. Ma nel campo largo c’è il caso Bonelli. Il centrodestra servono almeno 3 voti per provare a centrare, dopo vari tentativi falliti, la nomina di un giudice della Corte costituzionale (che manca ormai da mesi). Giorgia Meloni ha bisogno di un uomo di fiducia nelle stanze della Consulta, in un momento in cui la Corte vedrà passare tra le sue mani una serie di temi particolarmente delicati per il governo, come l’autonomia e la cittadinanza, tra referendum e giudizi di incostituzionalità. Eppure, più delle possibili defezioni in Aula o degli accordi per trovare i voti necessari, la premier in queste ore è preoccupata soprattutto dell’ennesima fuga di notizie. E per questo, ha riaperto la caccia alla talpa. È andata su tutte le furie dopo aver visto su tutti i siti il messaggio con cui i suoi capigruppo avevano convocato i parlamentari di Fratelli d’Italia per il giorno della votazione, martedì prossimo. È quasi un’ossessione quella per il controllo sulle informazioni dentro il partito e nel governo. E sembrava forse già tracimata oltre gli argini quando aveva richiesto di allontanare la polizia dalla zona del suo ufficio di Palazzo Chigi, qualche settimana fa (salvo poi tornare sui suoi passi). Questa volta, però, decide di reagire in modo diverso. Le chat - In una delle chat di deputati e senatori in cui era stato inviato il messaggio di convocazione, la premier testa il muro di riservatezza e si lascia andare a uno sfogo plateale: “Io alla fine mollerò per questo. Perché fare sta vita per far eleggere sta gente anche no”, scrive. E ancora: “L’infamia di pochi mi costringe a non avere rapporti con i gruppi parlamentari. Molto sconfortante”. Questi messaggi vengono pubblicati ieri dal Fatto. Una fonte qualificata racconta che la premier avrebbe fatto lo stesso in un’altra chat, creata più di recente, scrivendo messaggi diversi in cui, ad esempio, apostrofava i suoi parlamentari: “Siete meglio di un ufficio stampa” e poi via, proseguendo con uno sfogo simile all’altro. Dalla seconda chat, però, non esce nulla. Nessun giornale, ieri, riportava quelle frasi. Meloni avrebbe quindi dato mandato ai suoi fedelissimi di procedere per sottrazione. In questo modo, viene subito notata una cosa: nella prima chat “colabrodo”, dove ogni cosa è stata passata ai giornalisti, non sono presenti solo deputati e senatori, ma anche alcuni collaboratori parlamentari e altri membri dello staff. Il cerchio inizierebbe quindi a stringersi intorno a una ventina di nomi che nella nuova chat, quella più fedele, non sono stati aggiunti. Un’esca, dunque. E sul risultato si costruiscono congetture, per ora niente di più. Ma è anche il segno di quanto Meloni si senta accerchiata e ritenga importante proteggersi dal mondo esterno. Nessun accordo con le opposizioni - C’è anche qualcun altro che ha letto attentamente i giornali in queste ore: Francesco Saverio Marini, il giurista candidato da Meloni alla Consulta. Ha visto che FdI ha convocato le truppe e lo stesso ha fatto Forza Italia, mentre dalla Lega non è ancora arrivato alcun messaggio ai parlamentari. Sarà che oggi c’è Pontida e i leghisti hanno ben altro a cui pensare, ma Marini ha iniziato a chiedere in giro: “Che intenzioni hanno Salvini e i suoi?”. L’impressione, finora, è che dentro il centrodestra gli uomini del Carroccio siano quelli che con meno trasporto stanno affrontando la sfida. Ma Meloni ha bisogno di tutti, martedì. E anche di qualcuno in più. Specie ora che - a quanto sembra - non sarà possibile trovare alcun accordo con le opposizioni. Dentro FdI speravano che la poltrona da direttore del Tg3 potesse allettare i Cinque stelle e ammorbidirli anche su questa partita, ma il Pd ha giocato d’anticipo e ha concordato con Giuseppe Conte di uscire dall’Aula al momento del voto. La speranza di riuscire a chiudere la partita della Corte costituzionale si fa quindi più complicata. Per avere qualche chance, servono circa 10 voti, in modo da poter sopperire alle assenze che inevitabilmente ci saranno, per malattia, imprevisti o altri impegni. Così, adesso, anche dentro il partito iniziano a prendere in considerazione l’ipotesi di non farcela: “Nel caso - dice una fonte di primo livello di FdI - ci riproveremo la prossima volta”. Meloni però ha fretta di avere un “suo” giudice alla Consulta. E anche di più, forse, di scoprire chi è la talpa. Consulta, la forzatura è un’arma a doppio taglio di Marcello Sorgi La Stampa, 6 ottobre 2024 Da Palazzo Chigi a Palazzo della Consulta, sede della Corte costituzionale. Dopo settimane di rinvii, tanto che era intervenuto anche il Capo dello Stato per sollecitare il Parlamento a esprimersi, Meloni ha deciso di imprimere un’accelerata alla scelta del quindicesimo giudice, sedia attualmente vacante. In un primo momento era sembrato che l’orientamento fosse quello di attendere la scadenza di altri tre membri della Corte, per eleggerli insieme, in modo da poter applicare la Costituzione, che prevede un quorum largo per far sì che maggioranza e opposizione trovino un punto d’incontro. Diversamente Meloni si è convinta che il destra-centro abbia i numeri per procedere all’elezione del giudice mancante. E ha designato come candidato il suo consigliere giuridico Marini, autore, tra l’altro, della proposta di elezione diretta del premier. Teoricamente potrebbe anche farcela, dato che nel 2022 la coalizione di cui è a capo, ottenne un grandissimo numero di seggi, grazie al meccanismo maggioritario dell’attuale legge elettorale e al sostanziale abbandono del campo da parte del centrosinistra (Conte non volle allearsi con Letta, allora segretario del Pd). Di qui la convocazione dei parlamentari del destra-centro “senza eccezione alcuna”, come recita l’appello per lo scrutinio. Si sa che nelle votazioni sui nomi non è facile trattenere i franchi tiratori, che colgono l’occasione per regolare i propri conti con il governo e in questo caso anche con la premier. Così la decisione di Meloni rappresenta un’arma a doppio taglio, perché in caso di bocciatura del candidato Marini (che ha come unica colpa l’essere troppo vicino alla presidente del consiglio) il “no” si potrebbe intendere indirizzato contro Meloni. L’idea di una Corte costituzionale che risponda al governo, perché al suo interno esisterebbe una maggioranza simile a quella dell’esecutivo, sarebbe una novità assoluta, trattandosi del più alto organo di garanzia, che trova la ragione della sua esistenza proprio nel poter pronunciarsi liberamente pure contro il governo e il Parlamento. Tra le prime questioni in arrivo sul tavolo della Consulta, la riforma delle autonomie differenziate. Se fosse dichiarata incostituzionale si aprirebbe un grosso problema politico all’interno della maggioranza. Il “bavaglio” ai pm: la tagliola Zanettin alle intercettazioni di Vincenzo Bisbiglia Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2024 Votazione la proroga agli ascolti solo davanti a “evidenze”: mercoledì discussione. Un altro bavaglio di governo è alle porte. Ma stavolta più che limitare il diritto di cronaca, il centrodestra vuole introdurre dei paletti al lavoro degli investigatori, i quali avranno ancora meno strumenti per portare avanti le loro indagini. “Sempre più difficile”, insomma, proprio come nelle prove a ostacoli. Mercoledì 9 ottobre, infatti, inizierà in Senato la discussione al ddl Zanettin in materia di intercettazioni. Ed è possibile che quello stesso giorno si arrivi a una rapida approvazione. Oltre alla modifica della disciplina degli ascolti di conversazioni tra gli indagati e i propri difensori - principio che ha trovato aperture anche da parte delle opposizioni - arriva sulla scrivania dei senatori il provvedimento con cui si vuole limitare a 45 giorni la durata massima delle intercettazioni. Un tempo che la gran parte dei magistrati reputa insufficiente per portare avanti delle indagini complesse. La proposta del senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin a marzo era stata perfino alleggerita dall’intervento della relatrice, l’ex ministra leghista Erika Stefani, che ha escluso da questa tagliola i reati di criminalità organizzata, per i quali resta in vigore l’attuale disciplina (quaranta giorni prorogabili per periodi successivi di venti, qualora sussistano “sufficienti indizi”). Il problema è che i nuovi paletti andranno a ostacolare, di fatto, le indagini sui cosiddetti “colletti bianchi”, ovvero quelle per i reati come la corruzione. Cosa che sta accadendo spesso con questo governo. Nel dettaglio, il testo riscrive l’articolo 267 del codice di procedura penale: se adesso le intercettazioni possono essere prorogate senza limiti dal gip, su richiesta del pm, per periodi successivi di 15 giorni, da domani non potranno “avere una durata complessiva superiore a 45 giorni, salvo che l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. Per poter intercettare oltre il limite, dunque, il pm dovrà portare al gip “elementi specifici e concreti”. Anche in questa espressione è nascosta una stretta: al momento, infatti, per ottenere la proroga serve dimostrare (oltre ai “gravi indizi”) l’”assoluta indispensabilità” del mezzo di ricerca della prova, che può essere ritenuta sussistente anche nel caso in cui gli indagati, come spesso accade, per un certo periodo non dicano né facciano nulla di compromettente. Con la nuova norma, invece, servirà per forza un “risultato” investigativo entro i primi 45 giorni. In vista di mercoledì, le opposizioni promettono una “battaglia serrata”. E pensare che a luglio scorso, quando il provvedimento era stato approvato in Commissione giustizia al Senato, anche nell’attuale maggioranza e nella stessa Fratelli d’Italia c’erano dei dubbi. Quelli manifestati, in particolare, da Andrea Delmastro. Il sottosegretario alla Giustizia era sì d’accordo con Zanettin nell’evitare “stanche proroghe e chiedere motivazioni sempre più rafforzate” rispetto alle intercettazioni, tuttavia spiegava che “la discussione è ancora aperta” rispetto al mettere “un tetto secco” alla tempistica degli ascolti. Che l’estate abbia portato “consiglio”? Più che altro al Fatto risulta che sia stato raggiunto un accordo di non belligeranza tra FdI e Forza Italia, tale da inserire il ddl Zanettin tra i provvedimenti ai quali gli azzurri - rinvigoriti dalla possibile discesa in campo dei fratelli Berlusconi - proprio non vogliono rinunciare. Le opposizioni annunciano battaglia in aula, dicevamo. “Limitare la proroga delle intercettazioni è un altro passo in una direzione pericolosa”, aveva già dichiarato il senatore del Partito democratico, Walter Verini. “Si tratta di un provvedimento al quale ci opporremo con tutte le nostre forze”, gli fa eco la senatrice di Avs, Ilaria Cucchi. Con questa maggioranza siamo allo smantellamento del principale strumento investigativo, le intercettazioni”, dichiarò ad aprile l’ex pm antimafia Roberto Scarpinato, oggi senatore del M5S. Più morti causati dalle “armi legali” che da mafia e rapine di Thomas Bendinelli Corriere della Sera, 6 ottobre 2024 L’uomo che a Nuoro ha ucciso la moglie, la figlia, un figlio e un vicino di casa era un appassionato di armi sportive. Lo ricorda Giorgio Beretta, dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa di Brescia (Opal) osservando che nel 2024 sono già trenta gli omicidi commessi in Italia con armi legalmente detenute. Omicidi che hanno causato 42 morti, tra cui 12 suicidi dell’assassino. Diciotto le donne rimaste vittime. Appassionati di armi sportive, insomma, ma che talvolta usano l’arma per uccidere moglie e familiari. “La legge dovrebbe fare in modo che la licenza armi per uso sportivo sia concessa solo a persone che effettivamente praticano discipline sportive - afferma Beretta -. Invece oggi in Italia circa 600mila persone detengono questa licenza mentre solo 150mla sono iscritte a associazioni e poligoni di tiro. Questa licenza viene richiesta perché è la più facile da ottenere, permette di detenere un vero arsenale di armi (3 pistole e 12 fucili semiautomatici e 200 munizioni), il rilascio non prevede visite specialistiche ed il rinnovo è richiesto solo ogni 5 anni”. Da diversi anni l’Opal fa un lavoro certosino di raccolta di dati e notizie di cronaca di omicidi compiuti con armi da fuoco. Il ragionamento che fanno è semplice: più circolano armi più c’è la possibilità che queste vengano usate. Lo diceva già il drammaturgo russo Anton Cechov d’altronde: “Se nel primo atto di una pièce teatrale appare un fucile appeso al muro, nell’ultimo atto questo fucile sicuramente sparerà”. Non sempre accade fortunatamente, ma a guardare l’elenco degli omicidi compiuti nell’ultimo anno, certo è che di armi ne sono girate parecchie, in molti casi legalmente detenute. Ci sono diversi casi di omicidio-suicido, così come episodi in apparenza banali che scatenano la furia omicida (la guardia giurata che ha ucciso lo zio e un cugino per un’auto parcheggiata male a Frosinone, quello che ha sparato e ucciso il vicino dopo una lite scoppiata al bar). Nell’elenco c’è anche una vicenda bresciana, accaduta in città lo scorso aprile, quando un maresciallo ex carabiniere in pensione ha ucciso un uomo di origine indiana. Un elenco dettagliato, dal quale risulta in tutta evidenza che chi ha sparato era spesso in possesso dell’arma in modo legale. L’Italia è uno dei Paesi con il più basso tasso di morti violente complessivamente, ma il discorso cambia se si parla di omicidi con arma da fuoco: in questo caso, a livello europeo, siamo in cima (0,7 omicidi ogni 100 mila abitanti), ben lontani dagli Stati Uniti ovviamente (e fortunatamente) ma comunque il triplo o più rispetto a Germania, Francia e Spagna. Nel suo libro “Il Paese delle armi” Beretta ricorda che più armi non vuol dire più sicurezza: “Gli Stati Uniti, dove il ‘diritto alle armi’ è garantito dal secondo emendamento della Costituzione, oggi sono la nazione con il più alto tasso di omicidi per armi da fuoco tra i Paesi occidentali. In Italia, nel triennio 2018-2020 a fronte di 63 omicidi di tipo mafioso e di 29 per furti o rapine ci sono stati almeno 108 omicidi commessi da persone con il porto d’armi. In altre parole, oggi in Italia è maggiore il rischio di essere uccisi da un legale detentore di armi che dalla mafia o da rapinatori”. L’ultimo decreto sicurezza - quello delle norme anti blocchi stradali e che porta fino a sette anni la detenzione per chi occupa abusivamente un immobile - autorizza gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza alcune tipologie di armi, tra cui rivoltelle e pistole di ogni misura, anche quando non sono in servizio. Calabria. Carceri in situazione critica, il Garante regionale chiede aiuto in Senato cn24tv.it, 6 ottobre 2024 Nei giorni scorsi il Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Luca Muglia, è stato audito davanti alla Terza Commissione “Sanità, Attività sociali, culturali e formative” del Consiglio regionale sulle criticità che riguardano lo stato delle carceri in Calabria. L’audizione si è tenuta a seguito di una nota del Garante che, contestualmente al deposito della Relazione semestrale 2024 aggiornata al 31 luglio scorso, aveva richiesto al Presidente della Terza Commissione Consiliare, Pasqualina Straface, di essere ascoltato. Oltre a fare il punto sui diversi interventi in materia penitenziaria della Regione concretizzatisi negli ultimi due anni (cabine di regia degli assessorati, tavoli tecnici sulla sanità, provvedimenti normativi) e sulle iniziative realizzate dall’Ufficio del Garante, l’attenzione si è poi focalizzata sulle principali lacune del sistema penitenziario calabrese. Nei giorni successivi Muglia si è rivolto anche alla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, presieduta dall’Onorevole Stefania Pucciarelli, lamentando la presenza di schermature in plexiglass sulle sbarre delle finestre delle camere detentive presso alcune sezioni delle Case circondariali di Cosenza, Reggio Calabria e Vibo Valentia. In precedenza l’Ufficio del Garante aveva richiesto più volte al DAP la rimozione di tali schermature, segnalando le palesi violazioni di alcune norme dell’Ordinamento penitenziario. “Gli atti istituzionali concretizzati in questi giorni - ha dichiarato il Garante regionale - rivestono una fondamentale importanza. L’audizione davanti alla Terza Commissione del Consiglio regionale aveva una duplice finalità: illustrare il contenuto della Relazione semestrale 2024 in cui vengono indicate le condizioni di detenzione e lo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari calabresi e negli altri luoghi di privazione della libertà; richiedere l’intervento della Terza Commissione affinché la stessa solleciti una presa di posizione della Regione Calabria, secondo le modalità ritenute più opportune, volta a richiedere alle autorità politiche ed amministrative competenti sul piano nazionale una maggiore attenzione alla situazione penitenziaria calabrese e l’adozione di provvedimenti - legislativi ed organizzativi - urgenti con specifico riferimento al sovraffollamento, alle condizioni strutturali degli istituti e alle carenze di organici”. “Quanto alla segnalazione diretta alla Commissione per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato - ha aggiunto Muglia - il mio auspicio è che vi sia un intervento tempestivo ed efficace, previa attivazione di tutti gli strumenti conoscitivi necessari, potendosi ravvisare nella fattispecie una violazione dei diritti umani fondamentali. Invero, a proposito delle schermature in plexiglass, che durante la scorsa estate hanno innalzato a dismisura le temperature delle camere detentive ove sono posizionate, ho evidenziato che nei casi in cui sussistano contestualmente fattori negativi, quali la mancanza di aria e/o di luce naturale, la cattiva aereazione, una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali e le cattive condizioni igienico-sanitarie, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha riconosciuto la sussistenza di trattamenti disumani e degradanti e la violazione dell’art. 3 della Convenzione”. Basilicata. Carceri, l’Asp risponde alla denuncia dell’Associazione Luca Coscioni sassilive.it, 6 ottobre 2024 In riferimento alla notizia dell’omissione da parte di Asp Basilicata relativamente alla diffida ad adempiere ricevuta dalla Associazione Luca Coscioni, i vertici aziendali intendono formulare alcune precisazioni a chiarimento della situazione di fatto accaduta. Sul punto relativo alle visite ispettive, la direzione strategica aziendale informa che si è proceduto nei mesi estivi ai sopralluoghi oggetto di diffida per verificare le condizioni di idoneità igienico-sanitaria delle strutture. Si è trattato di una attività svolta in aggiunta a quella routinaria che normalmente e periodicamente l’Azienda effettua. Inoltre, proprio a garanzia della salute delle persone in stato detentivo, la Asp si è attivata già da tempo per assicurare la continuità assistenziale agli utenti. Quanto alle risultanze dell’ispezione avvenuta nel mese di agosto su richiesta dell’Associazione Coscioni, la Asp, risulterebbe inadempiente perché l’Associazione stessa non ha ricevuto il dato richiesto. La Direzione precisa che però la diffida e la messa in mora non prevedevano alcun riscontro, per cui da un punto di vista giuridico non ci sarebbe nulla da imputare all’Asp, tanto che il Direttore Generale ha appreso la questione solo oggi a mezzo stampa, ritenendo dal canto suo chiuso il percorso ad agosto per effetto delle attività svolte ed a cui verrà posto riparo già la prossima settimana. La Direzione, ciò nonostante, si scusa lo stesso per il mancato inoltro della comunicazione a cui, per il tramite del Direttore Sanitario che ne ha curato l’organizzazione, verrà dato certamente riscontro con trasmissione immediata di tutti gli atti (ostensibili) già formati da tempo. Sul tema carceri, peraltro, proprio nelle scorse settimane si sono susseguiti incontri con le Direzioni carcerarie e l’Assessore alla Salute e Politiche della Persona per analizzare e migliorare sempre più la condizione carceraria in Basilicata. Vicenza. Suicidio in carcere: cella posta sotto sequestro, disposta l’autopsia di Barbara Todesco Corriere del Veneto, 6 ottobre 2024 La cella del carcere “Del Papa” in cui lo scorso venerdì è stato trovato il corpo senza vita di un ventiquattrenne di nazionalità marocchina, la nona vittima delle prigioni venete in questo 2024, è stata posta sotto sequestro. Sulla salma del giovane sarà effettuata l’autopsia, anche se le cause della morte del detenuto, arrestato con l’accusa di stalking nei confronti di una minorenne, appaiono fin d’ora evidenti. Il giovane è stato trovato senza vita in cella, non ci sarebbero dubbi sul fatto che si tratti di un suicidio. La procura di Vicenza, però, ha aperto un fascicolo che al momento non vede alcun nome iscritto nell’elenco degli indagati. La pm Maria Elena Pinna vuole escludere che vi sia una qualsivoglia responsabilità da parte di terzi. K.S., queste le iniziali del giovane straniero, era stato recluso nel carcere di Vicenza nella serata di lunedì. Poche ore prima era stato fermato dagli agenti del commissariato di Bassano del Grappa dopo essere stato trovato non distante dall’abitazione di una ragazzina, ancora minorenne, con la quale aveva avuto una breve relazione e contro la quale da giorni aveva scagliato la sua rabbia dopo che la loro storia era terminata. “Lasciatemi andare, devo farla pagare a lei e alla sua famiglia” continuava a ripetere ai poliziotti che lo avevano arrestato dopo le continue minacce alla minorenne che le erano costate un’accusa di atti persecutori. Tra le stanze del commissariato bassanese in cui era stato accompagnato aveva fatto il diavolo a quattro, colpendo ripetutamente i pugni contro le pareti e lanciando tutti gli oggetti che trovava vicino, fermandosi solo alla minaccia degli agenti di utilizzare il taser. Per riuscire a calmarlo era servito l’intervento dei sanitari del 118. Arrivato in Italia nel 2015, il ventiquattrenne aveva vissuto per alcuni anni in provincia di Pistoia. Dal 2022, invece, aveva fatto la sua comparsa in Veneto, a Bassano del Grappa. In due anni è stato denunciato dieci volte: rissa, danneggiamento aggravato, furto, violenza privata, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale fino all’ultima accusa, quella di atti persecutori, che lo aveva portato dietro alle sbarre del “Del Papa”. Un carcere, quello vicentino, che aveva registrato la sua ultima vittima la vigilia di Natale dello scorso anno. A togliersi la vita era stato un ventiseienne nigeriano finito dietro le sbarre tre mesi prima, dopo una retata messa in atto nei confronti di una presunta rete di spacciatori. Anche quella volta a trovare il corpo erano stati gli agenti della polizia penitenziaria. Da inizio 2023 ad oggi, nella prigione berica sono almeno una ventina i detenuti salvati da gesti estremi grazie alla prontezza degli agenti chiamati ad operare spesso a rischio della loro stessa incolumità. In meno di due anni, sono state 23 le aggressioni subite dagli agenti nel carcere di Vicenza. Lodi. Dramma in carcere: muore un detenuto 30enne, forse una emorragia interna Il Cittadino, 6 ottobre 2024 La vittima era entrata da pochi giorni in via Cagnola. La denuncia del segretario provinciale del Pd Andrea Ferrari. “In carcere si muore. Anche a Lodi nella Casa circondariale questa notte è morto un ragazzo”. La denuncia arriva da Andrea Ferrari, storico volontario della casa circondariale di via Cagnola, nonché segretario provinciale del Partito Democratico, che oggi, sabato 5 ottobre, ha pubblicato un post sulla sua pagina Facebook. Ancora: “Del carcere troppo spesso si raccontano gli aspetti che tendono a nascondere le verità più scomode: si muore e si vive in condizioni di sovraffollamento cronico”. La vittima, secondo il resoconto di Ferrari, sarebbe un 30enne, “poco importa se italiano o brasiliano” osserva il politico. Secondo le prime indiscrezioni, il 30enne, che all’ingresso pare non soffrisse di particolari patologie, sarebbe morto per una emorragia interna. Al momento dell’intervento dell’automedica del 118 l’uomo era già in arresto cardiocircolatorio: a nulla sono valse le operazioni dei sanitari. Sono ovviamente ancora in corso gli accertamenti per comprendere le cause del decesso del giovane, che era entrato da pochi giorni in carcere. Bergamo. Il carcere affollato è un’emergenza. Il Quirinale risponde al Garante di Michele Andreucci Il Giorno, 6 ottobre 2024 L’appello della Garante dei detenuti di Bergamo per la situazione critica del carcere di via Gleno arriva al Presidente Mattarella, che esprime attenzione e apprezzamento per gli sforzi di recupero e integrazione. Iniziative educative e di dialogo tra carcere e territorio sono sottolineate come fondamentali. È approdato sul tavolo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’appello di Valentina Lanfranchi, garante dei detenuti del carcere di Bergamo, per tenere accesa la luce sulla difficile realtà penitenziaria della casa circondariale di via Gleno, dove, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 23 settembre, sono recluse 575 persone per 319 posti disponibili, per un tasso d’affollamento - calcolato sulla base dei dati del ministero della Giustizia - ora al 180,3% contro il 167,4% di un anno fa. È il decimo tasso d’affollamento più alto nel complesso delle carceri italiane. Lanfranchi ha preso carta e penna e si è rivolta alcune settimane fa direttamente a Mattarella, raccogliendo quotidianamente le voci e le testimonianze di detenuti, ma anche di agenti e operatori della casa circondariale, condensandole in due pagine. E nei giorni scorsi è arrivata la risposta del Quirinale, attraverso una lettera firmata da Stefano Erbani, direttore dell’Ufficio per gli Affari dell’amministrazione della giustizia, in cui si esprime la posizione del Capo dello Stato. Uno sguardo di “costante attenzione ai temi relativi alla complessità della condizione detentiva” e alle criticità segnalate dalla garante, cui va “il sentito apprezzamento del Presidente della repubblica per il costante impegno profuso in progetti finalizzati al recupero della legalità e al rispetto delle regole per una convivenza civile”. Quanto ai progetti legati al carcere, “in particolare - si legge nella parte finale della risposta - le iniziative che consentono agli studenti di apprendere le difficoltà delle condizioni carcerarie rappresentano una concreta occasione formativa e di riflessione”. Nella sua lettera al Capo dello Stato Valentina Lanfranchi, oltre a descrivere l’affollamento eccessivo della casa circondariale di via Gleno (“Ogni mattina quando entro temo di sentirmi dire che c’è stato un suicidio o un’aggressione”), aveva illustrato alcune iniziative che fanno da “ponte” tra il territorio e il carcere, dal lungo impegno dell’associazione carcere e Territorio, di cui Lanfranchi è presidente onoraria, all’esperienza del Consiglio comunale dei ragazzi di Gorle che ha incontrato più volte i reclusi. Asti. Marro (Avs): “Bisogna garantire visite specialistiche anche a chi è in carcere” di Sara Sergi La Stampa, 6 ottobre 2024 Visita della Consigliera regionale Giulia Marro nella Casa di reclusione di Asti. La popolazione carceraria è anziana. E così come nel “mondo di fuori”, ha bisogno di più cure. Ma la maggior parte dei detenuti della Casa di reclusione di Quarto d’Asti non possono uscire, perché le loro pene da scontare oltre che lunghe sono anche rigide. Ed è proprio sulla questione sanitaria che si sofferma la consigliera regionale di Avs Giulia Marro facendo il punto dopo il sopralluogo nella Casa di reclusione di Asti. La consigliera è reduce da una serie di visite nelle carceri piemontesi ed è stata invitata dai tre gruppi di opposizione del Comune di Asti che di recente hanno stretto un patto per le Amministrative del 2026. Per Uniti si può, Ambiente Asti e Verdi è la prima azione sotto questa rafforzata alleanza. “Dal punto di vista sanitario i detenuti hanno assistenza medica ma raramente hanno la possibilità di uscire per sottoporsi a esami diagnostici specialistici. Una volta al mese un medico radiologo con la necessaria attrezzatura si reca nella Casa di reclusione, ma questo non è sufficiente così come non sono sufficienti le visite cardiologiche”. L’assistenza medica non basta all’uomo che è in carcere con una malattia autoimmune e da tempo va alla ricerca di una diagnosi e soprattutto di una cura che possa alleviare i suoi dolori. Come non basta per tutti i detenuti che hanno problemi di vista e a cui è l’associazione Effatà - la onlus che con i suoi volontari si occupa di dare forma allo scopo rieducativo della pena - a fornire gli occhiali, ma con la paura di sbagliare gradazione e peggiorare la patologia dei detenuti. La sfera sanitaria in certi frangenti può essere legata anche alle dipendenze: “C’è un solo detenuto che fa uso di metadone - spiega Marro - ma ci sono altre dipendenze e in generale il Ser.D può fare un solo accesso mese nella struttura. Anche in questo caso troppo poco perché così non può esserci una presa in carico seria”. “Trattamenti medici non uniformi” - A monte di tutto c’è un altro problema che riguarda la salute: “I trattamenti medici non sono uniformi da carcere a carcere e questo comporta che in caso di trasferimento le cure possano cambiare in modo drastico. E così si creano tensioni. Non c’è una normativa e porteremo questo tema in Regione perché non è possibile lottare contro i suicidi e poi rischiare di lasciare morire la gente perché non ha la possibilità di curarsi”. Come altre molte altre realtà la Casa di reclusione di Quarto patisce organici inadeguati: “Mancano almeno 20 persone e questo si ripercuote sulla possibilità per i detenuti di fare attività - prosegue Marro. I progetti ci sono, ma non il personale per monitorare la situazione. Così, molte delle attività che si potrebbero fare non si fanno”. E in un mondo chiuso si sente “e va a incidere sulla sfera psicologica, con conseguenze anche sotto questo punto di vista”. I detenuti “avrebbero bisogno di attività imprenditoriali, di lavorare. E questo, considerato il regime detentivo, per la maggior parte di loro può accadere solo dentro le mura del carcere. Ma in pochi se la sentono di investire in questo mondo perché i percorsi sono complessi, soprattutto dal punto di vista burocratico”. In stand-by il progetto ristorazione - Qualcuno ci ha provato, come un’azienda panificazione che avrebbe dovuto dare vita a un laboratorio, ma sempre la carenza di personale lascia al momento in stand-by il progetto. Qualche investimento nel carcere c’è, ad esempio quello per installare la fibra ottica così da permettere ai detenuti di fare le videochiamate con la propria famiglia. “Sarebbe necessario anche rendere più accogliente la sala per i colloqui: è fatiscente, ma dovrebbe esserci uno stanziamento del ministero della giustizia in arrivo”. Brescia. Nuovo carcere, Benzoni (Azione) contro i ritardi del ministero di Manuel Colosio Corriere della Sera, 6 ottobre 2024 Il gruppo di Azione chiede intanto alla Giunta di diffondere il più possibile il documentario 11 giorni di Nicola Zambelli che denuncia le condizioni disumane del carcere di Canton Mombello: “Va chiuso”. Il sovraffollato carcere di Canton Mombello a Brescia è ormai emblema dell’emergenza carceraria italiana. Le soluzioni che tardano ad arrivare, nonostante i ripetuti annunci, rappresentano invece il paradigma dell’inerzia politica nel tradurre in fatti i buoni propositi. Era novembre dell’anno scorso quando il ministero degli Interni ha sbloccato un finanziamento da 38 milioni di euro per ampliare il carcere di Verziano, ma ad oggi non c’è alcun cantiere in vista e nemmeno un progetto chiaro e condiviso. Ad agosto i parlamentari bresciani Simona Bordonali (Lega) e Fabrizio Benzoni (Azione) avevano presentato due distinti ordini del giorno al dl carceri, entrambi poi approvati, che hanno impegnato il governo “ad interloquire con sollecitudine con il Comune di Brescia per poter entrare nella disponibilità delle necessarie aree adiacenti al carcere. Un nuovo progetto consentirà il reperimento di spazi e posti nel carcere di Verziano, con il conseguente ridimensionamento di Canton Mombello” riferiva Bordonali. A due mesi di distanza però non si vedono tavoli, mentre nel frattempo è intervenuto un altro onorevole bresciano, Alfredo Bazoli (Pd), che solo tre giorni fa è stato promotore di un’interrogazione al ministro Nordio nella quale ha attaccato il governo per il suo ultimo disegno di legge (il 1660, denominato “sicurezza”) che innalzerebbe le pene ed inserirebbe nuovi reati andando ad aumentare la popolazione carceraria, ma ha anche voluto ricordare che il carcere di Canton Mombello “vive una situazione drammatica, ed è impossibile anche solo pensare che in quell’istituto sia possibile una benché minima funzione rieducativa. La condizione è insostenibile e l’unica scelta fatta è quella di costruire un nuovo padiglione. Ma non è la soluzione”. Il riferimento al contestato disegno di legge “Sicurezza”, insieme alla convinzione che Canton Mombello andrebbe definitivamente chiuso, sono stati al centro delle valutazioni fatte ieri di Fabrizio Benzoni a margine della presentazione di un ordine del giorno con il quale il gruppo Azione - Italia Viva - +Europa in consiglio comunale chiede alla sindaca di Brescia ed alla Giunta di impegnarsi “a dare la massima visibilità al documentario “11 giorni” con iniziative, in particolare nei quartieri e nelle scuole cittadine, volte ad aumentare la presa di coscienza e dibattito sul tema”. Il documentario in questione, realizzato dal registra bresciano Nicola Zambelli tra i muri del carcere cittadino, sta riscontrando notevole successo di critica e pubblico, con designazioni a premi e presentazioni ai festival, come a dicembre quando a Roma arriverà al VerticalMovie di Cinecittà. Descrive in maniera efficace, attraverso la voce degli stessi detenuti, la drammatica situazione dentro quelle mura “ed è anche uno straordinario strumento di prevenzione visti i contenuti che esprimono i diretti protagonisti” sottolinea il consigliere comunale Luca Pomarici. Un modo per agire dal punto di vista culturale in attesa che qualcosa si muova da quello materiale: “Collega la battaglia a livello nazionale sulle carceri ed in contrasto al governo e le sue politiche securitarie che mandano solo persone in carcere” aggiunge Benzoni ricordando come su Verziano “il progetto che c’è oggi toglierebbe spazi aperti e sarebbe un passo indietro. Per trovare nuove aree bisogna attivarsi e stipulare un accordo di programma nel quale si chiede al Comune di espropriarle, altrimenti da solo non può certo muoversi”. Intanto il tempo passa, ma le risposte tardano ad arrivare: “È passato un anno e non ci si è ancora seduti ad un tavolo. È la dimostrazione che il governo non fa politiche connesse con il territorio, anzi sta facendo solo male: tanti slogan e poi il vuoto” conclude Pomarici. Ivrea (To). In carcere si sfornano pizze a forma di cuore, una giornata con le famiglie di Andrea Scutellà La Sentinella del Canavese, 6 ottobre 2024 In ordine di tempo, l’ultima iniziativa di “Cor et amor” sul fronte di “Costruiamo gentilezza”, è stata quella alla Casa circondariale di Ivrea. Il percorso viene da lontano: lo scorso anno, la Casa circondariale di Ivrea era stata la prima a inaugurare due panchine viola della gentilezza. Erano state realizzate dai detenuti e posizionate una all’interno della struttura carceraria mente l’altra è stata collocata la settimana scorsa nel quartiere San Giovanni di Ivrea per sensibilizzare i cittadini sull’importanza di adottare un comportamento gentile verso il prossimo per poter vivere bene nella comunità. La casa circondariale ha voluto dare continuità alla progettualità inaugurando al proprio interno una pizzeria della gentilezza, la prima dentro un carcere. “L’impegno preso - spiega Luca Nardi, presidente di Cor et amor e coordinatore di Costruiamo gentilezza - è di preparare le pizze a forma di cuore su richiesta a prezzo di listino invariato”. A insegnare al pizzaiolo del carcere a preparare le pizze a forma di cuore è stato Gabriele Santo, pizzaiolo professionista all’Aquila Nera, anche questa pizzeria della Gentilezza per scelta del titolare Tony Cuomo e della figlia Antonietta. All’Aquila nera sono stati subito disponibili a partecipare all’iniziativa con il carcere perché fare parte della rete nazionale delle pizzerie della Gentilezza significa anche impegnarsi per il sociale. I primi ad assaggiare le pizze a forma di cuore sono stati gli agenti della polizia penitenziaria, dando il buon esempio. A questo proposito l’ispettrice superiore Giuseppina Gambino, comandante della polizia penitenziaria, ha commentato: “La pizza a forma di cuore rappresenta amore, famiglia e serenità. Un messaggio di speranza”. L’inaugurazione è stata l’occasione di un pomeriggio di giochi della gentilezza con i genitori rivolto ai detenuti e ai loro figli minorenni organizzato dalla casa circondariale eporediese con le associazioni Cor et amor, Insieme è di più di Biella e Sogni Scalzi di Cigliano. Le famiglie hanno vissuto un momento di serenità giocando con un grande telo colorato a forma di pizza, un peluche a forma di cuore, tanti cuori di carta arricchiti con parole che fanno stare bene, le tempere con cui i partecipanti colorandosi le mani hanno creato su fogli delle farfalle. A conclusione dell’attività ludica, i bambini e i ragazzi con i propri genitori, disposti in una lunga tavolata, hanno potuto vivere un momento di unità familiare mangiando pizze (oltre 50) a forma di cuore. “La gentilezza è una forma di cultura comportamentale, occorre avere il coraggio di diffonderla e praticarla, anche all’interno di un carcere, ritengo che possa contribuire validamente ad una effettiva risocializzazione del detenuto - ha detto Alessia Aguglia, direttrice della casa cirondariale di Ivrea -. Con i giochi della gentilezza, per la prima volta all’interno di un carcere, abbiamo provato a regalare ai nostri detenuti un momento di “normale convivialità”. Aguglia e Nardi hanno poi sottoscritto il menù “Pizza & Gentilezza” con cui vengono riconosciute le pizzerie gentili. Erano presenti anche l’assessora di Ivrea Gabriella Colosso,le assessore alla gentilezza Daniela Ferro di Bollengo, Erina Patti di Quincinetto e il garante dei detenuti Raffaele Orso Giacone e Rachela Murdocca, con Jessica Garzin in rappresentanza di Sogni Scalzi. Ragusa. Nel carcere di gioca la “Partita con mamma e papà”, sarà la terza edizione ildomanibleo.com, 6 ottobre 2024 Per il terzo anno consecutivo la casa circondariale di Ragusa aderisce all’iniziativa “Partita con mamma e papà”. L’appuntamento è promosso dall’associazione “Bambini senza sbarre” e inserita nella campagna “Carceri aperte” e si terrà giovedì 10 ottobre. Sarà presente anche il garante per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza avv. Claudia Parrino, e le associazioni del territorio “Ci Ridiamo Su”, “Medu- Medici per i diritti umani Ragusa”, “Arcigay Ragusa”, “Ara’ - Associazione Angelo Ragusa”, “Facciamo scuola asd”, con il coinvolgimento del Comune di Ragusa, dell’Assessorato alla Pubblica Istruzione e ai Servizi Sociali, del Centro Servizi Volontariato Etneo e della Camera Penale degli Iblei. La “Partita con mamma e papà” nasce con lo scopo di favorire l’inclusione sociale dei bambini con genitori detenuti, una categoria spesso ignorata e soggetta a pregiudizi. In Italia si stima che siano circa 100.000 i figli di detenuti (2,2 milioni in tutta Europa), bambini che, in molti casi, vivono in silenzio la loro situazione, subendo emarginazione sociale. La “Partita con mamma e papà” non è solo un momento di svago, ma un’opportunità fondamentale per i bambini di mantenere vivo il legame con il proprio genitore detenuto. Il pallone diventa un mezzo attraverso il quale il bambino può esprimere le proprie emozioni e vivere una dimensione familiare serena e normale, nonostante le difficoltà. Inoltre, per i detenuti, poter interagire con i propri figli in un ambiente meno formale e più disteso offre un’opportunità di rinnovare il proprio ruolo genitoriale, spesso compromesso dalla reclusione. La realizzazione dell’evento avviene grazie al pieno appoggio della direzione, dei funzionari giuridico pedagogici e degli agenti della polizia penitenziaria. A Verona premiazione dei vincitori del concorso letterario “Carlo Castelli”, riservato ai detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 6 ottobre 2024 Con la cerimonia di premiazione che si è tenuta ieri nella Casa circondariale di Verona Montorio e l’incontro sul tema “Dialogo: dopo il reato”, in programma oggi, 5 ottobre, dalle 10 al teatro Nuovo San Michele, si conclude a Verona la XVII edizione del Premio Letterario “Carlo Castelli” riservato ai detenuti delle carceri italiane. Organizzato dalla Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV - Settore Carcere e Devianza, il premio ha scelto quest’anno un tema complesso e quanto mai attuale: “Perché? - Ti scrivo perché ho scoperto che c’è ancora un domani”. “Nel cuore di ogni persona si nasconde una storia, un intreccio di esperienze e sentimenti che nella scrittura trova il suo più profondo strumento di espressione” afferma la presidente della Federazione, Paola Da Ros, nell’introduzione della raccolta antologica dei testi che hanno partecipato al concorso. In questa edizione si è chiesto di declinare il racconto del proprio vissuto nel senso della speranza di una possibilità di riscatto e di un nuovo inizio. Introdotta da Maria Cristina Failla, già presidente del tribunale di Massa Carrara e presidente della Giuria del Premio Carlo Castelli 2024, e moderata da Alessandro Ginotta, caporedattore della rivista “Le Conferenze di Ozanam”, la cerimonia di oggi vede, tra i presenti, Francesca Gioieni, direttrice della casa circondariale che ospita l’evento, il garante dei diritti delle persone private della libertà della Città di Verona, Carlo Vinco, e il presidente nazionale dell’Unione Cattolica Stampa Italiana, Vincenzo Varagona. L’iniziativa prevede non solo premi in denaro, ma offre ai tre vincitori l’opportunità di essere sponsor di progetti utili al reinserimento sociale. Grazie a una seconda somma che verrà assegnata, il primo classificato finanzierà una iniziativa in un carcere per adulti, il secondo in un istituto minorile e il terzo nel settore di competenza dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, contribuendo così, coerentemente con il tema trattato quest’anno, a costruire una nuova strada per chi desidera ripartire. Nel corso della cerimonia di premiazione sarà distribuita a tutti i presenti l’antologia che raccoglie i testi dei concorrenti allegata, per la prima volta, alla rivista della Federazione nazionale, “Le Conferenze di Ozanam”, La riflessione sul futuro dopo il carcere continua al Teatro Nuovo San Michele, grazie ai contributi di Sergio Premoli, psicoanalista e formatore, Stefania Zambelli, assistente sociale e responsabile area misure e sanzioni di comunità UDEPE V, e Paolo Dal Fior, parroco di S.Maria in Stelle (VR) ed ex cappellano della casa circondariale di Montorio. Al centro del dibattito un confronto sul valore della giustizia riparativa e sui percorsi rieducativi che aiutano a sanare le ferite e a diminuire il rischio di recidiva (ingresso libero, per info e prenotazioni 06 6796989). Il Premio Carlo Castelli, ha ottenuto i patrocini di Camera, Senato, Ministero della Giustizia (anche partner di un protocollo d’intesa) e lo speciale riconoscimento della medaglia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Vi sono grato per quanto fate. Continuate con gioia e generosità questo prezioso servizio. Non stancatevi di essere testimoni di fede, speranza e carità” è stato il messaggio di ringraziamento di Papa Francesco ai volontari vincenziani, dopo una recente visita al carcere di Verona. Libri. “Il carcere è un mondo di carta”, di Valentina Calderone e Marica Fantauzzi recensione di Federica Delogu vocididentro.it, 6 ottobre 2024 Del carcere si sa sempre poco. È difficile pensarlo, immaginarlo. Sono pochissime le fotografie, tutte molto simili, che raccontano lunghi corridoi e braccia appoggiate, anonime, che sbucano da dietro le sbarre. Come se fosse tutto là. Da sempre è un luogo di cui la società si dimentica. Non rientra nel mondo che si racconta ai bambini. Valentina Calderone e Marica Fantauzzi, nel libro “Il carcere è un mondo di carta”, edito da Momo Edizioni, con la prefazione di Giusi Palomba e la postfazione di Luigi Manconi, lo raccontano ad adolescenti e preadolescenti. Entrambe, in modi diversi, da anni si occupano di detenzione. Calderone, garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, il carcere lo vive quotidianamente, e Fantauzzi lo conosce bene anche attraverso il suo lavoro con i minori in pena alternativa. Con un linguaggio chiaro, diretto e senza retorica, le autrici ci raccontano questo mondo di carta, “perché in carcere per qualunque esigenza, dalla più piccola alla più grande, - spiega Marica Fantauzzi - si passa per la carta: c’è sempre un foglio che non si sa se verrà letto in tempo”. L’idea, racconta, è nata dalla casa editrice. “Ci hanno chiesto di immaginare un libro che parlasse ad adolescenti. Noi che siamo abituate a parlare di carcere in contesti di persone adulte, istituzionali o accademici, ci siamo rese conto che a volte le parole erano come usurate, o forse, finivano per usurare noi che le usavamo”. Da qua l’idea di un abbecedario. Una parola per ogni lettera dell’alfabeto, illustrate da Ginevra Vacalebre. “L’idea che traghetta l’abbecedario - racconta l’autrice - è che forse le parole utilizzate finora dagli adulti non hanno innescato una trasformazione nella società, una messa in discussione dell’utilizzo esclusivo del carcere come forma di pena. Dunque è nata l’idea di dialogare con generazioni curiose, prive di pregiudizi e sicurezze sedimentate sull’idea che del carcere non si possa fare a meno”. Le parole scelte sono in alcuni casi quelle che ci abituiamo da sempre a collegare al tema della detenzione, in altri sono termini specifici e quasi esclusivi del mondo carcerario. “Prima abbiamo individuato i temi che ci sembravano necessari per partire, perché non volevamo dare niente per scontato” - aggiunge Fantauzzi. La A di ambiente ci introduce immediatamente nell’architettura penitenziaria. La C di cella, invece, ci conferma che “la galera è anche e soprattutto una questione di spazi”. Arrivando alla I ci si approccia a un tema complesso come l’infantilizzazione delle persone detenute, perché, si legge, “quando si entra dentro un carcere non si perde solo la propria libertà, ma anche la facoltà di decidere per sé rispetto alle cose che si vogliono e di cui si ha bisogno”. E dunque anche quel linguaggio diminuito e piccolo, usato per tanto tempo dentro gli istituti e spesso non del tutto abbandonato, finisce per rendere diminuito e piccolo anche ciò di cui si parla. In altri casi ancora le parole scelte sono quelle che si usano tutti i giorni nella società libera, per tenere a mente che chi è in carcere ha bisogni e desideri come chi sta fuori. Dunque la F di famiglia serve per descrivere che “la fatica di mantenere un rapporto affettivo avendo a disposizione solo una manciata di minuti al mese per vedersi e parlarsi è gigantesca”. Ma tra tutte, spiega Fantauzzi, ce n’è una a cui è più legata: la Notte. “È la nota più buia del libro. Buia di per sé e da un punto di vista sentimentale ed emotivo. Perché la notte è un momento ancora più atroce per chi sta dentro. Abbiamo scelto di non affrontare direttamente il tema del suicidio e dell’autolesionismo ma attraverso le pagine della Notte abbiamo l’occasione di raccontare un dolore immenso”. Quell’ossessione per l’egemonia culturale di Concita De Gregorio La Repubblica, 6 ottobre 2024 “Adesso tocca a noi” non è un’idea nuova: l’hanno esercitata tutti coloro che si sono avvicendati al potere, leader di sinistra compresi, con esiti da cui credo discendano la grande disillusione per la politica e il conseguente astensionismo. Perché sì, tocca sempre a chi governa: ma lo si dovrebbe fare dando voce e spazio anche alle minoranze, in nome del bene e delle libertà dei diritti e dei doveri comuni. Bisognerebbe che avessero un amico. Un amico anche di destra, purché non abituato a obbedir tacendo ma educato all’esercizio del dubbio, che spiegasse loro che non si costruisce un’egemonia culturale mettendo a tacere il dissenso. Che non serve arrestare tutti, impedire di manifestare, di fare persino resistenza passiva alla maniera di Gandhi. Non serve mettere all’indice i funzionari pubblici, mettiamo dipendenti di un museo, che trovano inappropriato usare un luogo di cultura per fare propaganda politica. Non serve cancellare dai palinsesti programmi amati dal pubblico per sostituirli con altri che il pubblico ignora. E non perché la misura del successo di ascolti sia un parametro di qualità, non lo è - per lo meno non sempre. Ma perché se vuoi sostituire un’offerta culturale giudicata di sinistra con una giudicata di destra devi fare in modo che il risultato ti dia ragione: che confermi cioè che esiste una parte di Paese che non si riconosceva nell’altra, la subiva, e ora finalmente si riconosce nella tua. Non mi pare che accada, e questo potrebbe dipendere dal fatto che quel che la gente pensa e quel che alla gente piace non si stabilisce per decreto, per nomina di persona fedele o familiare né per imposizione. Succede, di solito lentamente, quando un pensiero interessante si rivela, quando le persone si riconoscono in qualcosa che li riguarda e poco a poco si identificano. Servirebbe un amico, alla destra di governo, che avesse studiato per esempio filosofia, storia delle dottrine politiche, storia e basta - ce ne sono, certo che ce ne sono a destra, di persone competenti - e che avesse però anche il cuore di dir loro che si sbagliano, a eccitarsi in questo moltiplicare sanzioni regole e censure: perché la regola non è la cosa che spiega, la cosa che convince. E la cosa già spiegata, che impone. Dunque una regola può sovente essere percepita come ingiusta e dunque può, anzi deve, essere cambiata. La storia dell’umanità, la nostra storia ha progredito abbattendo regole considerate sbagliate. Le battaglie politiche, le proteste, le manifestazioni, la plateale violazione di leggi considerate vessatorie sono state uno strumento di progresso - moltissimo in materia di diritti - così come lo sono stati i referendum. Vedo che Giorgia Meloni teme molto l’esito di un possibile referendum contro la proposta di autonomia differenziata delle Regioni e fa bene, a temerlo, perché anche da lì passa il parere del popolo sovrano. Ricordo bene quando Meloni si insediò al governo, forte di un consenso personale molto superiore a quello dei suoi alleati, e disse che mai e poi mai avrebbe impedito la libertà di manifestazione perché da lì lei arriva - sostenne con orgoglio: dalla strada, dalle proteste di dissenso tanto a lungo minoritarie, la destra esecrata. L’underdog. Poi però. Poi una volta entrata a Palazzo, fatta entrare la sua non sempre brillante compagnia, è iniziata un’opera sistematica di censura delle opinioni dissimili, di sostituzione, di sanzione alla libera espressione del pensiero fino ad arrivare a questo grottesco ddl Sicurezza: un obbrobrio di divieti a tratti sadico. Non credo che proibire a un migrante privo di permesso di soggiorno di acquistare una carta sim per comunicare con la sua famiglia si possa definire diversamente. E non basta dire che non devono venire (divieto di sbarco!), che non devono dormire accampati in luoghi abbandonati (sgombero immediato!) che non devono lavorare al nero nei campi e nelle strade (le tasse, non pagano le tasse!). Purtroppo non bastano i divieti a modificare lo stato della realtà: bisogna affrontarla, la realtà, a partire dalle ragioni che la determinano. Tutto succede perché qualcosa lo fa succedere. Nessuno sgombero, nessuna sim interdetta, nessun sit-in vietato per legge cancellerà le cause per cui le persone agiscono in stato di necessità, o di passione. Eliminare le conseguenze del dolore non elimina il dolore. Impedire l’esercizio del pensiero non cancella i pensieri. Semmai moltiplica il danno, genera ulteriore frustrazione, riempie carceri già indecenti per quanto affollate e teatro di abusi. Abbiamo visto premiati gli agenti che hanno picchiato i detenuti di santa Maria Capua Vetere. Encomio solenne a chi ha massacrato di botte persone che protestavano per le condizioni disumane in cui sono costrette. Che vergogna. Dicevo dell’egemonia culturale, tema da cui la nuova-vecchia destra è ossessionata. Eliminare quella “di sinistra”, elevare a dogma quella “di destra”. Intendiamoci. “Adesso tocca a noi” non è un’idea nuova: l’hanno esercitata tutti coloro che si sono avvicendati al potere, leader di sinistra compresi, con esiti da cui credo discendano la grande disillusione per la politica e il conseguente astensionismo. Perché sì, tocca sempre a chi governa: ma lo si dovrebbe fare dando voce e spazio anche alle minoranze, in nome del bene e delle libertà dei diritti e dei doveri comuni. Sarò il/la presidente di tutti: si dice sempre, non succede mai. Di peggio rispetto al passato, questa destra, di peggio anche rispetto al ventennio berlusconiano, ha un disprezzo del diverso da sé, una furia demolitoria, un carattere dispotico e illiberale che non si era mai visto prima. Manca totalmente di curiosità, di attenzione, di attitudine a mettersi nei panni dell’altro e comprendere. Manca di umanità, a dispetto dei crocifissi al collo e dei figli e dei nonni esibiti come meriti. Manca della capacità di dubitare. Ma si sa: solo chi è saldo e consapevole dubita, persino di sé. Sa di non sapere. È, questa, una destra fragile, spaventata, arroccata. Il Governo ha messo il bavaglio all’Ufficio antidiscriminazioni di Simone Alliva Il Domani, 6 ottobre 2024, 6 ottobre 2024 L’Unar di palazzo Chigi è ormai una scatola vuota. Riceve fondi Ue ma è sempre stata osteggiato dalla destra. Meloni voleva eliminarlo già anni fa. A capo c’è un renziano che ha scelto l’immobilismo come difesa personale. C’era una volta l’Unar, l’ufficio antidiscriminazioni interno al dipartimento Pari opportunità della presidenza del Consiglio. Un organismo nazionale, istituito in attuazione di una direttiva europea, “autonomo e indipendente”. Un lavoro decennale alle spalle contro tutte le discriminazioni, incluse quelle omotransfobiche. C’è ancora, in teoria. Tuttavia, da quando è presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che nel 2017 chiese l’immediata chiusura tramite un’interrogazione parlamentare, lavora un po’ meno. Qualche convegno e concilianti comunicati stampa. L’Unar risponde al vento della politica come la più docile e temprata delle vele. Al timone c’è Mattia Peradotto, ex FutureDem, ex tesoriere di Italia viva, ex segretario particolare della ministra per le Pari opportunità e la Famiglia del governo Renzi, cioè Elena Bonetti, ma anche fedelissimo del deputato Francesco Bonifazi, tesoriere di Iv come lo fu nel Pd con Matteo Renzi segretario. Peradotto era proprio al fianco del leader di Italia viva il mese scorso, in occasione della Festa dell’Unità di Pesaro. Può vantare un curriculum di studi e formazione che esclude le pari opportunità: laurea in ingegneria gestionale, esperienze lavorative in aziende come Technogym e L’Oréal. Trentacinque anni, una traiettoria di vita che gli permette di attraversare in bilico equilibri di potere e poltrone che come sempre rischiano di saltare se si disturba il manovratore. L’Unar sotto la sua direzione resta immobile. Tecnica vincente. Fingersi morti mentre gli altri si sbranano salva la vita. Adesso però sull’organismo delle pari opportunità pendono tre questioni che rischiano di far saltare questa tecnica della tanatosi: due direttive dell’Unione europea da attuare entro due anni. Più precisamente la 1499 del 7 maggio 2024 e la 1500 del 14 maggio, che ridefiniscono le caratteristiche degli organismi nazionali di parità, come viene considerato in Italia l’Unar. La richiesta: che si occupi di tutte le discriminazioni in campo a 360 gradi. Una falla visibile negli ultimi anni, con strategie ridotte a scatole vuote o dimenticate in un cassetto. Il secondo obbligo, invece, prevede che diventi un organo realmente indipendente. L’Unar ha invece dimostrato negli anni il contrario. L’Ue: “Inefficiente” - Ci sarebbe poi una terza questione. Secondo quanto risulta a Domani, entro la fine del mese di ottobre uscirà il Report sull’Italia dell’Ecri (European commission against racism and intolerance) del Consiglio d’Europa, dopo una ricerca sul campo durata un anno. Il report è pronto, aspetta solo l’approvazione del Comitato dei ministri. Gli osservatori denunceranno l’inadempienza del nostro paese per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e l’inefficienza dell’organismo che dovrebbe farne da garante: “Abbiamo indagato sia lo stato legale di Unar, la sua indipendenza e la capacità di servire come un effettivo organo di uguaglianza, sia la situazione di effettiva uguaglianza delle persone Lgbt in Italia, quindi i crimini di odio, quelli di hate speech e l’inclusione di minoranze, specialmente rom e migranti”, dice un’autorevole fonte vicina al dossier. Che il nuovo governo abbia scelto di tirare un freno con la complicità del direttore era tutto già scritto in una storia di restituzione, potere e vendetta. Era il 2015, la leader di Fratelli d’Italia protestava di fronte a Montecitorio con un bavaglio alla bocca per un richiamo dell’Unar su alcune frasi rilasciate a un quotidiano online. In quel tempo la stazione Tiburtina era divenuta un centro di accoglienza per migranti, e l’allora candidata a sindaco della Capitale dichiarava: “Basta immigrazione da paesi musulmani. La (piccola) quota di immigrati che reputiamo necessaria prendiamola da quei popoli che hanno dimostrato di non essere violenti”. Un’invettiva contro le persone musulmane che portò l’organo anti discriminazione a scrivere una lettera di ammonimento indirizzata proprio a Meloni: “Esaminando con attenzione il contenuto delle affermazioni attribuite a lei, quest’ufficio ritiene che una comunicazione basata su generalizzazioni e stereotipi non favorisca un sollecito e adeguato processo di integrazione e coesione sociale”. Unar invitò per altro la parlamentare a “voler considerare, per il futuro, l’opportunità di trasmettere alla collettività messaggi di diverso tenore”. Meloni gridò alla censura di Stato, ricevette anche la solidarietà di Renzi, che da presidente del Consiglio pensò bene di mandarle un mazzo di fiori. Risultato: l’Ufficio antidiscriminazioni razziali venne di fatto silenziato e l’allora direttore Marco De Giorgi non fu riconfermato. La crociata di Meloni - Nel 2017 Meloni chiese nuovamente la chiusura per una serie di finanziamenti a club e associazioni Lgbt, insieme lei il gruppo parlamentare Idea della quale faceva parte l’attuale ministra delle Pari opportunità Eugenia Roccella di cui, caso vuole, oggi è diretta responsabile. Nel 2024 poca cosa è quello che resta dell’unico ufficio nazionale che negli ultimi anni si è occupato di lotta alla discriminazione. Prendiamo la strategia Lgbt, prevede impegni a sostegno della comunità arcobaleno, un progetto triennale finanziato con fondi europei che già esistono, a scadenza breve. I fondi arrivano dalla Commissione europea con il governo Conte II. Si presenta, carte alla mano, come un atto amministrativo firmato dal direttore Mattia Peradotto. Siglato eppure messo nel cassetto: “Ci hanno detto che per loro tutto passa dal finanziamento dei centri antiviolenza per le persone Lgbt”, sostengono gli attivisti. Ma anche lì, un lavoro chirurgico imposto dalle Pari opportunità è riuscito a stilare un bando che non prevede l’istituzione di nuovi centri dove possono trovare riparo le persone picchiate e buttate fuori casa. Ma solo il finanziamento dei pochi già esistenti. Si lamentano le associazioni Lgbt, che però a viso aperto non parlano, il rischio: ritorsioni e perdere anche quei pochi finanziamenti con cui sostengono una comunità nel mirino del governo. “L’Unar è diventato una scatola vuota che per il momento dispone di una sola cosa: il direttore”, è il refrain nelle stanze del ministero. Eppure la strategia ci sarebbe, anche se a scadenza (2021-2025), prevede buone pratiche su lavoro e welfare, salute, sicurezza, carceri, educazione, formazione, sport, cultura la comunicazione. Non è mai stata approvata come decreto ministeriale, ma semplicemente presentata alla presidenza del Consiglio, un accumulo di pagine sul tavolo, inutilizzabili per ministeri e regioni che volessero prenderla in considerazione. Anche sul contrasto al razzismo non rimane che una bella scatola con il fiocco da esibire, vuota. Il dipartimento nel 2021 pubblicò un bando rivolto ad associazioni ed enti operanti nel campo della prevenzione e del contrasto alle discriminazioni etnico-razziali per definire il Piano nazionale di azione contro il razzismo, la xenofobia e l’intolleranza 2021-2025. Più di 120 adesioni, più di sessanta contributi che riguardavano le principali sfide, i fabbisogni specifici e le possibili risposte strategiche da proporre sia in relazione alle misure di prevenzione e contrasto delle discriminazioni etnico-”razziali” sia in relazione alle misure di promozione del principio della parità di trattamento. Di tutto questo resta una bozza nascosta all’occhio del governo, che parla liberamente di sostituzione etnica e invasione. Paralisi anche sul progetto Fami, il “Fondo asilo migrazione e integrazione”, in parte italiano, in parte europeo, sulle persone immigrate, che consente di finanziare corsi lingue, accoglienza e integrazione. Il dipartimento si limita così a raccogliere gli episodi di discriminazione attraverso un monitoraggio dei media, per poi pubblicare ogni anno un report con dati che non sempre rispecchiano il fenomeno, ma certo lo fotografano. C’è poi un valzer di antiche amicizie che ritornano. Per capirlo basta analizzare i bandi della manifestazione voluta dal direttore Peradotto sulle città inclusive Irca con la Rete europea delle città contro il razzismo (Eccar), realizzata nella settimana contro il razzismo tra il 18 e il 24 marzo. Tra i consiglieri Unar c’è una vecchia conoscenza di Peradotto: Benedetto Zacchiroli, già seminarista, ex girotondino, ex cofferatiano, “teologo e gay”, come ebbe a sintetizzare nel giorno del suo coming out, ma soprattutto ex consigliere personale di Renzi. Oggi è lui il presidente di Eccar. Assunto con contratto di un anno dalla ministra Roccella con un compenso lordo di cinquantamila euro annui. Tessere di un mosaico che si ricompone, in un gioco di potere trasversale. Fine vita, il Parlamento fa finta di nulla: “Migliaia di persone chiedono aiuto” di Marco Grieco L’Espresso, 6 ottobre 2024 La Corte Costituzionale, con due sentenze, ha invocato una legge sul suicidio assistito. Ma l’appello è rimasto lettera morta per la contrarietà della maggioranza. E al Numero Bianco dell’associazione Coscioni sono arrivate oltre tremila chiamate di cittadini che vogliono avere informazioni. Esiste il diritto di morire o il dovere di vivere? A questa domanda, che propone due opposti scenari, non c’è una risposta univoca. Eppure, due parole all’apparenza antitetiche come suicidio assistito o fine vita possono essere tenute insieme in nome della Costituzione. È ciò che, a più riprese, ha fatto la Corte Costituzionale, chiedendo una legge sul fine vita a partire da due sentenze. Con l’ultima, la 135 del 2024, ha ribadito la validità dei requisiti per richiedere il suicidio assistito, legittimati pochi anni prima dalla sentenza 242 del 2012: l’irreversibilità della patologia, la presenza di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili dal paziente, la dipendenza dello stesso da trattamenti di sostegno vitali e la sua capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. Si tratta di condizioni che vanno verificate dal sistema sanitario nazionale e approvate dal comitato etico territoriale, ma che definiscono la complessa situazione in cui versano molti malati gravi per i quali resta solo una speranza: morire dignitosamente. Talvolta la dignità viene impugnata nei tribunali, dove i pazienti ricordano che anche la vita, come i trattamenti medici, può essere sproporzionata se a scandirla è una sofferenza senza fine, come spiega Matteo Mainardi dell’Associazione Luca Coscioni: “A chi si rivolge a noi, spieghiamo che ci sono procedure in Italia che rendono possibile l’accesso al suicidio medicalmente assistito, ma non tutte le persone hanno l’energia per fare ricorso né, in alternativa, possono permettersi un viaggio in Svizzera. Solo nell’ultimo anno, al nostro Numero Bianco circa 3000 persone hanno chiesto informazioni sulle procedure che si possono attuare in Italia”. Eppure le sentenze della Corte Costituzionale non fanno una legge, e nel vuoto del nostro ordinamento, l’iter nelle Asl non sempre è lineare, puntualizza Mainardi: “La difficoltà per le Asl è che non esiste un protocollo interno che dica alla persona come procedere e molte si trovano impreparate. Pertanto, piuttosto che prendere l’iniziativa, aspettano la sentenza di un tribunale”. Pochi mesi fa, la Corte Costituzionale ha ribadito la necessità di una legge rivolgendosi al Parlamento, dove l’urgenza che un malato terminale sente su di sé si scontra con la lentezza dell’iter di discussione della proposta del Pd: “In due anni, il Parlamento ha fatto davvero poco. Nel primo anno ha ignorato quello che chiedeva la Corte. Nel secondo, invece, le due commissioni deputate, Sanità e Giustizia, si sono riunite cinque volte facendo solo tre sedute di audizione. Cinque audizioni da aprile a maggio significa che, in tutto quest’anno, i commissari ne hanno discusso per cinque ore”. Malgrado lo spiraglio aperto dalla Pontificia accademia per la Vita con un vademecum che ribadisce “mediazioni sul piano legislativo”, a diluire i tempi una valanga di audizioni richieste con associazioni conservatrici e di area cattolica. Così i Palazzi di fatto arginano una richiesta che viene dai cittadini, come quando nel 2022 la Consulta bloccò un milione e 200mila firme che chiedevano un referendum sull’eutanasia legale. A farlo, in quel caso, erano stati migliaia di giovani. Cittadinanza. Tajani lancia lo “Ius Italiae”: italiani dopo 10 anni di scuola di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 6 ottobre 2024 Insulti dalla Lega, Salvini si scusa. Striscioni e cori contro il leader forzista dai giovani leghisti riuniti a Pontida Gli azzurri insorgono, il capo del Carroccio corre ai ripari: “Sono 4-5 scemi, Antonio è amico e alleato”. Dopo mesi di annunci e conferme, nel pieno delle tensioni tra Forza Italia e Lega e insieme delle rassicurazioni sull’unità del centrodestra, Antonio Tajani scioglie le riserve e presenta lo “Ius Italiae”. Deciso a non votare il referendum delle opposizioni sulla cittadinanza, considerato una “provocazione”, dopo aver respinto il tentativo del leader di Azione Calenda di riformare la legge con un emendamento al ddl Sicurezza, il vicepremier azzurro presenta un testo che offre la possibilità di diventare italiano se “ti sei formato da italiano”, dopo 10 anni di scuola. Gli alleati, che avevano dissuaso con determinazione il ministro degli Esteri, evitano polemiche, ma la protesta sale dalla base leghista riunita a Pontida, dove i giovani del Carroccio innalzano striscioni e insultano il leader di FI. Ma per Tajani è il momento di mettere le carte in tavola. “Come avevamo promesso abbiamo lavorato intensamente per dare nuove regole per l’acquisizione della cittadinanza italiana. Non si tratta di regole permissive, non servono in nessun modo a favorire l’immigrazione illegale nel nostro Paese ma sono regole che puntano su serietà e diritti”, dice a Milano per la giornata per l’economia il leader azzurro. “La società cambia e il centrodestra non può essere oscurantista”, insiste Tajani, che rimarca il ruolo nonché il peso dell’area centrista della coalizione guidata da Meloni. E allora ecco il passo avanti rispetto alla Bossi-Fini: “Noi diciamo che per essere italiani bisogna conoscere l’italiano, la storia italiana, la geografia, la Costituzione e l’educazione civica. Ecco perché diciamo nella nostra proposta dello Ius Italia e che dopo dieci anni di scuola dell’obbligo condotta con profitto, puoi diventare cittadino italiano”. Dunque, recita il testo di FI, “lo straniero nato in Italia o lo straniero che arriva in Italia entro il compimento del quinto anno di età, che risiede ininterrottamente per dieci anni in Italia e frequenta e supera le classi della scuola dell’obbligo, 5 anni di elementari, 3 anni di medie, 2 di superiori, può ottenere la cittadinanza italiana, a 16 anni”. E “finché è minorenne la richiesta deve essere fatta da un genitore” o “il ragazzo potrà chiedere la cittadinanza al compimento del diciottesimo anno”. Giro di vite, invece, sullo Ius sanguinis: per diventare italiani per discendenza non si potrà andare oltre i bisnonni. Un testo che ora Tajani vuole sottoporre agli alleati, pur conoscendone la contrarietà. Ma ieri il capogruppo di FdI Tommaso Foti ha minimizzato. Ogni gruppo è libero di presentare “ovviamente le proprie proposte di legge. Ci si confronterà, le si leggeranno e si vedranno se ci sono punti di convergenza”. Nessuna “fibrillazione”, assicura il presidente dei deputati di FdI. Di certo la forte opposizione di Salvini alle aperture dell’alleato sortisce effetti in quel di Pontida, dove -attesa del raduno dei leader sovranisti di oggi - ieri è stata la volta dei giovani del partito. In attesa del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, per il quale la priorità è “integrare gli stranieri” nelle classi, viene esposto lo striscione “Ius Scholae in vista, Tajani scafista”, accompagnato da cori volgari nei confronti del leader di FI. Per il partito di Tajani è troppo e parte la richiesta di scuse dal segretario Salvini. Scuse che non si fanno attendere: “Chiedo scusa a nome loro. Sono 4-5 scemi. Tajani è un amico e un alleato”, dice il leader leghista. Per Taj ani può bastare. “Anche per me ogni alleato è un amico”. Ma le divergenze restano. E le opposizioni non apprezzano: il Pd mette in chiaro le sue posizioni, che partono dallo Ius culturae; il segretario di +Europa Riccardo Magi parla di “presa in giro” di FI, “un grande bluff che peggiora la situazione attuale”, dunque “avanti col referendum”. Migranti. Decreto flussi, la riforma che non cambia niente di Gianfranco Schiavone L’Unità, 6 ottobre 2024 L’ennesimo decreto sull’immigrazione varato dal governo Meloni è uno zibaldone di norme tutte diverse tra loro. Da una parte insegue il bisogno di manodopera straniera, dall’altra mina ulteriormente il diritto di asilo. Ma si tiene ben alla larga da ciò che davvero andrebbe fatto: una grande riforma che superi la vecchia, irrazionale e criminogena Bossi-Fini. Il Decreto legge sull’immigrazione emanato dal Governo in data 2 ottobre e non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale, recante “Disposizioni urgenti in materia di ingresso in Italia di lavoratori stranieri, di tutela e assistenza alle vittime di capolarato, di gestione dei flussi migratori e di protezione internazionale, nonché dei relativi procedimenti giurisdizionale” ha le stesse due caratteristiche di fondo che caratterizzano l’intera esuberante produzione normativa dell’attuale Esecutivo: da un lato si tratta di uno zibaldone nel quale vengono frullate materie del tutto diverse tra loro, senza che vi sia alcuna organicità nell’intervento di riforma. Dall’altro lato si continua a modificare incessantemente la normativa in materia di asilo/protezione internazionale, ed in particolare le disposizioni sulle procedure accelerate di frontiera, il trattenimento, i respingimenti, differiti o no, al fine di comprimere sempre di più l’esercizio del diritto d’asilo. Il decreto legge era stato annunciato come un testo finalizzato alla sola riforma della logora programmazione dei flussi di ingresso per lavoro, ma anche questa volta non è stato solo così, come era del tutto prevedibile. Mi limito in questo articolo ad esaminare la riforma degli ingressi per lavoro, rinviando ad una seconda parte l’analisi delle nuove misure in materia di asilo. Il Governo, incalzato dalla realtà economica di un Paese con crescente carenza di manodopera, qualificata e non, ha deciso, non sappiamo se con riluttanza o meno, di apportare delle modifiche alla logora normativa sugli ingressi per lavoro; alcune modifiche potrebbero portare limitati miglioramenti, rimanendo tuttavia inalterato il quadro generale, sostanzialmente malato e privo di cure adeguate per le ragioni che illustrerò di seguito. Le modifiche del nuovo Decreto legge - La prima misura che può portare a dei miglioramenti consiste nel prevedere nel corso dell’anno una pluralità di finestre temporali (il famigerato click day) nelle quali presentare da parte dei datori di lavoro le richieste di nulla osta al lavoro, introducendo nello stesso tempo una nuova procedura di “precompilazione dei moduli di domanda sul portale informatico messo a disposizione dal Ministero dell’Interno”. E’ lo stesso Governo ad annunciare quale sia la direzione verso cui punta questa modifica normativa, che è quella di abolire in futuro (probabilmente prossimo perché la realtà dell’economia non aspetta) il click day e consentire la presentazione delle domande nel corso dell’anno senza irrazionali cesure temporali. Il Governo non lo ammette ovviamente, ma di fatto inizia timidamente ad avvicinarsi a una delle proposte di riforma da sempre proposte dalle associazioni (si pensi alla campagna Ero Straniero e molti altri) che finora erano sempre state sdegnosamente scartate. La seconda misura di un certo interesse, presentata come “sperimentale” (ma in realtà non del tutto nuova) consente nel prevedere l’ingresso nel 2025 “al di fuori delle quote” di diecimila “lavoratori da impiegare nel settore dell’assistenza familiare o sociosanitaria” a favore di disabili e grandi anziani. Allo scadere dei primi dodici mesi, durante i quali rimane vincolato all’attività assistenziale per cui ha fatto ingresso (anche con diverso datore di lavoro) il lavoratore straniero potrà cambiare settore lavorativo, pur nei limiti generali delle quote di ingresso. Anche in questo caso la drammatica realtà di un Paese in cui non si trovano lavoratori in grado di assistere un numero elevato (e che va crescendo a ritmi velocissimi) di anziani e di malati, fa la sua irruzione sfondando il muro dell’ideologia della chiusura. La terza modifica normativa di un certo interesse è rappresentata dalla modifica dell’art. 18 del TU Immigrazione con l’introduzione di una nuova tipologia di permesso di soggiorno per “gli stranieri vittime di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” da rilasciare alle vittime. Si tratta di una scelta riformatrice che in sé sarebbe molto positiva e che indica che c’è una certa consapevolezza dell’esistenza di un vasto mondo di lavoratori in condizioni di sfruttamento e marginalità. La norma però prevede che a tale permesso possa accedere solo colui “che “contribuisca utilmente all’emersione dei fatti e alla individuazione dei responsabili”. Un’impostazione premiale assai discutibile in quanto molti lavoratori sfruttati, pur collaborando alle indagini, potrebbero tuttavia non apportare contributi significativi alle indagini e per questa ragione del tutto indipendente dalla loro volontà, rischiano irragionevolmente di rimanere esclusi dalla protezione. Infine il testo risulta assai confuso su un altro aspetto dirimente, ovvero la definizione delle misure di accoglienza ed assistenza cui potranno accedere le vittime dello sfruttamento, in modo da consentire concretamente alle stesse di allontanarsi da coloro che li sfruttano. La normativa appare dunque piuttosto mal congegnata e rischia di rimanere solo un proclama che una realtà. Tutte le altre numerose modifiche previste dal decreto legge sono finalizzate a introdurre controlli e verifiche sia sulla natura non truffaldina della domanda di nulla osta al lavoro (controllo a monte dell’ingresso del lavoratore straniero) che sull’effettiva stipula del contratto di lavoro (controllo successivo all’arrivo del lavoratore straniero). La loro efficacia nel contrastare il vasto mondo degli abusi e dei trucchi su cui vive il sistema attuale degli ingressi per lavoro andrà verificata nell’attuazione pratica, senza preclusioni. Il sottoscritto nutre tuttavia molti dubbi che l’introduzione di disparati vincoli e procedure di controllo (ad esempio prevedere la firma digitale del datore di lavoro sulla domanda di nulla osta) possano produrre di per sé effetti di grande portata in assenza di un vero quadro di riforma generale del sistema degli ingressi per lavoro. La modesta riforma voluta dal Governo non intacca in alcun modo il problema di fondo che ha permesso nel tempo la solida costruzione di un sistema reale degli ingressi che quasi nulla ha a che fare con il sistema legale. L’assenza di un meccanismo che consenta l’effettivo incontro, in Italia, tra la domanda e l’offerta di lavoro da parte dei cittadini stranieri rimane il grande e irrisolto problema. Nessun datore di lavoro, italiano e straniero, che non sia parente del futuro lavoratore o ne abbia comunque avuto una conoscenza diretta, può ragionevolmente vincolarsi ad assumere qualcuno che non ha mai conosciuto, né sperimentato in concreto tramite una prova lavorativa. La gran parte dei lavoratori stranieri che vengono assunti tramite il decreto flussi si trovano in Italia e non certo nei loro Paesi di origine e già lavorano in nero, in condizioni di più o meno grave sfruttamento, con lo stesso datore di lavoro che fingerà di chiamarli dall’estero, o con altri datori di lavoro, realizzando di fatto un’emersione dal lavoro nero. Il tutto corredato dagli aspetti grotteschi che da sempre caratterizzano tale finzione, ovvero la necessità che il lavoratore straniero vincitore della agognata lotteria si rechi nel suo paese di origine (dove fingeva di trovarsi) per prendere, presso le nostre rappresentanze diplomatiche, il visto di ingresso per lavoro e così arrivare, o meglio ritornare, in Italia e finalmente incontrare quello sconosciuto datore di lavoro che l’ha chiamato a lavorare con sé. L’irrazionalità del meccanismo previsto dalla norma vigente nel disciplinare gli ingressi degli stranieri extra UE per motivi di lavoro è il primo motore che produce ciò che il Governo vorrebbe contrastare con le nuove normative, ovvero il fenomeno della compravendita di un finto contratto di lavoro da parte dello straniero che, nella mancanza di strade legali accessibili, cerca con questa strategia di venire in Italia evitando le rotte della speranza (o meglio le rotte della morte). Invece di spegnere questo motore si inseguono dei palliativi privi di efficacia. Il piano di riforma su cui sarebbe necessario ed urgente operare è quello di un cambiamento del paradigma di fondo su cui poggia la normativa vigente che preveda l’introduzione di una nuova misura che consenta la possibilità di fare ingresso nel nostro Paese per “ricerca di lavoro” a seguito di una rigorosa verifica dell’identità della persona che richiede il visto in ingresso, nonché del suo possesso di mezzi economici idonei a coprire la durata del soggiorno in Italia e l’eventuale ritorno nel Paese di provenienza. Tali mezzi possono essere forniti, in tutto o in parte da terzi che agiscono con funzione di sponsor sia privati che pubblici. Non si tratta di proposte peregrine, bensì di proposte precise ed articolate sul piano giuridico che sono all’attenzione della politica da molto tempo ma che rimangono inascoltate. Modificare solo gli aspetti procedurali dell’attuale sistema degli ingressi per lavoro allo scopo di non cambiare nulla nel suo impianto di fondo irrazionale e criminogeno: in ciò sta la totale mancanza di visione di un Esecutivo che pare non adeguato a gestire i grandi cambiamenti della nostra società. Conflitti e diplomazia: un tempo si faceva la pace di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 6 ottobre 2024 Ci sono 56 conflitti attivi al momento nel mondo, il numero più alto dalla fine della Seconda guerra mondiale. Nel 2023 l’impatto globale per spese militari è stato di 19 mila miliardi di dollari, circa 2.380 dollari per ogni abitante della Terra. Ma disimparare la pace ha costi incalcolabili. Forse la china che sta prendendo la situazione non ci angoscia come invece dovrebbe. E l’aspetto più allarmante è che a fronte della crescita esponenziale di morti, profughi, razzi e massacri, e con la prospettiva del peggio, fermamente perseguito per buone o cattivissime intenzioni, nessuno sembra in grado di farci niente. Nessuno, almeno tra quelli che avrebbero il compito di evitare o fermare disastri come quello in corso. Il collasso della diplomazia internazionale, il totale svuotamento di effetti per ogni sanzione o decisione punitiva contro chi ci sta precipitando verso il punto di non ritorno, è stato sintetizzato in un’intervista al Corriere della Sera da Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite: “Sono appena tornato dall’Assemblea generale a New York con un senso di impotenza straordinario. Abbiamo disimparato a fare la pace”. Ci sono 56 conflitti attivi al momento nel mondo, il numero più alto dalla fine della Seconda guerra mondiale: 80 anni durante i quali si è di molto affievolita la consapevolezza della sciagura del periodo 1939-1945, consapevolezza che ha portato alla nascita delle democrazie in Occidente, dell’Onu (“Possono diventarne membri tutti gli Stati amanti della pace”) e di ogni altro sistema frenante che scongiurasse altre corse verso l’abisso. Secondo l’Institute for Economics & Peace, i decessi per questi conflitti in atto sarebbero oltre 160 mila, di cui quasi tre quarti tra Ucraina (83 mila) e Gaza (almeno 33 mila, aprile 2024). E il contatore sale, inarrestabile, nonostante i tentativi di arrivare almeno a qualche tregua. Ma invece di cessare, il fuoco aumenta, gli incendi si estendono soprattutto in Medio Oriente, con l’apertura da parte di Israele del fronte con il Libano e la tensione sempre più alta con l’Iran, in una spirale che minaccia di travolgere non soltanto gli Stati interessati. C’è chi soffia su quei fuochi nella prospettiva che dal disordine esca un nuovo e diverso ordine mondiale (Cina, Russia, l’Iran stesso, burattinaio di Hamas, Hezbollah, Houti), e chi i fuochi prova vanamente, se non a spegnerli, almeno a contenerli. È passato un anno dalla brutalità della strage scatenante del 7 ottobre, 1200 vittime di Hamas, 250 ostaggi, di cui soltanto 96 forse ancora vivi da qualche parte della Striscia: per accelerare la corsa alla voragine, la Guida suprema di Teheran Ali Khamenei ha appena definito il 7 ottobre “un atto legittimo”. Sono passati 956 giorni (24 febbraio 2022) da quando la Russia ha cominciato a invadere l’Ucraina. La furia dell’aggressione non si placa come dimostra, efferatezza tra tante, la recente fucilazione di 16 soldati di Kiev dopo che si erano arresi. Già nel marzo 2023 la Corte penale dell’Aia aveva emesso un mandato di arresto per il presidente Putin, accusato di essere responsabile dei crimini delle sue truppe in Ucraina, tra cui la deportazione di oltre 16 mila bambini. Ribadendo la necessità di quella decisione, Karim Khan, il procuratore che l’aveva firmata, rimarcava quanto fosse cruciale la cooperazione internazionale ai fini dell’esecutività di quel mandato, ricordando i processi di Norimberga e al leader serbo Milosevic. Risposta del Cremlino: “Carta igienica”. Sull’altra questione cruciale, la risposta, o l’eccesso di risposta, di Netanyahu al massacro del 7 ottobre, l’Onu ha adottato (settembre 2024) una risoluzione che chiede a Israele “di porre fine alla presenza illegale nel Territorio palestinese occupato: entro 12 mesi”, con l’invito agli Stati terzi di interrompere qualsiasi forma di aiuto a quel governo, incluso il blocco delle forniture di armi. La risoluzione è stata approvata con 124 voti a favore, 43 astensioni (tra cui l’Italia) e 14 contrari (Stati Uniti e Israele in testa). Approvata e archiviata. In compenso, il 2 ottobre, dopo l’attacco missilistico iraniano su Tel Aviv conseguente all’eliminazione di Nasrallah, capo di Hezbollah, il ministro degli Esteri Israel Katz ha dichiarato “persona non gradita” il segretario generale dell’Onu Antònio Guterres, vietandogli l’ingresso nel Paese. Motivo: le Nazioni Unite sono ormai un’organizzazione antisemita che sostiene terroristi e stupratori di Hamas e simili. Respinta e archiviata anche la replica di Guterres: “Abbiamo condannato Hamas 102 volte, 51 in discorsi ufficiali e le altre su piattaforme social”. Stesso trattamento anche per l’ultimo appello del G7 per tregua su Gaza, liberazione ostaggi, rispetto per i confini del Libano, pressione sull’Iran per fermare le ritorsioni. Effetto zero. In compenso, un milione 200 mila nuovi sfollati proprio dal Libano e, per quel che ci riguarda direttamente, una preoccupazione allarmata per i nostri 1076 militari Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon). Tenerli lì? Evacuarli? E quanti? Quando? La scelta del monopolio della forza come base di uno Stato, e quindi anche del rapporto con gli altri Stati, è la via che al momento risulta prevalente e rende chi guida questo tipo di nazioni del tutto indisponibile a scendere a patti, quale che sia il peso e l’autorità di chi li propone: Papa Francesco, per esempio, ostinatamente voce nel deserto. Nel 2023 l’impatto globale per spese militari è stato di 19 mila miliardi di dollari, circa 2.380 dollari per ogni abitante della Terra. Per converso, gli investimenti per il mantenimento o la costruzione di situazioni pacificate si sono fermati a 49,6 miliardi, poco più dello 0,5 per cento degli importi bellici. Ne stiamo sperimentando le conseguenze. Il progressivo svuotamento di credibilità degli organismi internazionali, la ridotta efficacia reale delle loro decisioni, l’incapacità manifesta di ottenere un qualche risultato nei loro tentativi di mediazione o di rispetto della legalità, sono il segno di una decadenza visibile e percepita. Corrosi al loro interno dall’insorgere di nazionalismi rampanti, stretti nella morsa di due blocchi ormai decisi a contrapporsi per il predominio del pianeta, i grandi garanti, chiamati a impedire il ritorno al buco nero già sperimentato nel secolo scorso, sono di fatto fuori dai giochi. Ed è un errore grave non preoccuparsi per questa evidenza, questa impotenza. Medio Oriente. La ferocia di Netanyahu e il fanatismo in piazza a Roma di Andrea Malaguti La Stampa, 6 ottobre 2024 “Spiazziamo Hamas. Facciamo scendere su Gaza non le bombe, ma migliaia di paracaduti colorati con casse di cibo, acqua e medicinali”. Emilio Jona dopo il 7 ottobre, intervento su Ha Keillah (La Comunità). Facciamo sempre la cosa più ovvia. Forse è per questo che non cambiamo mai, che ricorriamo alla vendetta come se fosse un anestetico e non un veleno. Mi ci ha fatto ragionare Amelia Fresia, la moglie di Bruno Gambarotta, insegnante cattolica torinese in pensione che ha avuto dodici familiari sterminati ad Auschwitz e una zia tornata per miracolo. Erano tutti ebrei catturati in Liguria, li hanno portati via in treno dal binario 21. È una donna speciale Amelia. Un incrocio di molte cose. È lei che mi ha girato la frase di Emilio Jona su quello che servirebbe a Gaza. Non bombe, ma solidarietà colorata. Cibo, acqua, medicinali, per curare il corpo e le ferite invisibili, per impedire che il dolore e le umiliazioni si trasformino in nuovo desiderio di guerra. Un modo per dire alle nuove generazioni che non tutto è perduto. Solidarietà al posto della devastazione. Quella sì che sarebbe una rivoluzione perché, lo dice in modo come sempre indiscutibile Liliana Segre: “Chi non è bambino non può capire il bambino che nasce in un mondo nemico. Indifferenza è una delle parole più brutte del nostro vocabolario”. Ha ragione. Mi rendo conto però che tradire la filosofia del cane pazzo, le leggi del taglione e del più forte, è solo un’illusione per poveri matti. Il contrario di quello che ci si aspettava, ed in effetti è accaduto, dopo l’orrore incancellabile del 7 ottobre, il macello di Hamas, gli stupri, le torture, gli omicidi di milleduecento innocenti, il rapimento di altri duecentocinquanta, quasi la metà dei quali ancora nelle mani dei terroristi. L’innesco di un incendio che ha tirato fuori la ferocia di Bibi Netanyahu e del governo reazionario che siede attorno a lui. Strage che risponde a strage, morte che risponde a morte, furia che risponde a furia, in un crescendo infinito senza una prospettiva comprensibile, in cui migliaia di cadaveri di civili si accumulano sulle carcasse incenerite dei barbari comandanti del Movimento islamico di resistenza o dei Nasrallah di turno. Prima Gaza. Ora il Libano. Nelle prossime ore l’Iran. E noi? Noi, annichiliti da questo disastro, dodici mesi dopo siamo ancora qui a dividerci in fazioni patetiche, come se di fronte all’abisso ci fosse la necessità di schierarsi con un esercito e non l’urgenza di ragionare ossessivamente su come costruire la pace. Persino Macron, sostenitore dell’intervento aggressivo in Russia, ieri si è fatto prendere da un sussulto di civiltà: “Penso che oggi la priorità sia arrivare a una soluzione politica. Basta fornire armi per condurre i combattimenti a Gaza. La Francia non le manda”. Frase sideralmente distante da quella pronunciata poche ore prima da Donald Trump: “Israele colpisca i siti nucleari dell’Iran”. Ma non sono Francia e Stati Uniti baluardi incrollabili degli stessi valori occidentali? Non sono Trump e Macron leader di casa nostra? Non erano gli Stati Uniti a dettare la linea e Tel Aviv a seguire? Mai vista una grande potenza che si fa guidare da un satellite. Il fatto è che siamo usciti da un ordine mondiale liberale e non sappiamo più dove stiamo andando. Neppure il governo italiano, alle prese con la sindrome dei complotti interni, è riuscito ancora a dire una parola di chiarezza. Li mandiamo davvero i carabinieri a Gaza come ci ha chiesto il segretario di Stato americano Blinken? Sarebbe una decisione pesante, giusta e significativa. La prendiamo? Siamo in grado di accogliere l’esortazione del poeta palestinese Mahmoud Darwish: “Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri, non dimenticare il cibo delle colombe. Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri, non dimenticare coloro che chiedono la pace”? Stavo pensando a tutto questo, ad Amelia Fresi, alle parole di Emilio Jona, mentre camminavo verso la Piramide Cestia, a Roma, assieme a un amico israeliano. Siamo stati poco alla manifestazione non autorizzata. La prima mezz’ora. Seduti su una panchina a osservare a distanza. Lui guardava loro, i seimila manifestanti decisi a sfidare le forze dell’ordine. Io guardavo lui, che detesta il governo Netanyahu, non accetta lo sterminio della Striscia, ha paura della guerra con Teheran, eppure ama la sua terra quanto e più della sua vita. È un professionista di successo e credo che sia la persona meno faziosa che conosco. Al terzo slogan antisemita, ha detto: “Basta così”. Si è alzato, mi è parso con lo stomaco accartocciato e l’amarezza negli occhi. L’ho seguito. Gli ho chiesto: “Troppi Palestina libera dal fiume al mare? Troppi Netanyahu assassino, Joe Biden assassino, Giorgia Meloni assassina?”. Mi ha risposto: “No, solo troppo odio. Condensato. Confuso con dei finti buoni propositi. Mischiato con l’alibi di un ormai inesistente diritto internazionale. In questa piazza stiamo semplicemente assistendo alla quintessenza dell’antisemitismo. Mi pare che stiano facendo un regalo a Meloni. Non posso più restare”. Volevo rispondergli qualcosa di rassicurante, ma in quell’istante siamo passati di fianco a tre cartelli in sequenza: “Ebrei o sionisti? Decidetevi”. “Antifascismo uguale antisionismo”. “Non è il 7 ottobre che giustifica il sionismo, è il sionismo che giustifica il 7 ottobre”. Mi sono domandato perché la sinistra non abbia detto ufficialmente che con questo tipo di manifestanti si rifiuterebbe di prendere anche solo un caffè. Fanatici in possesso di una verità impellente da imporre, uomini e donne che non ammettono interlocutori, solo ascoltatori. Spiriti marmorei, guidati da un demone spaventoso. Ho taciuto, mentre il mio amico saliva in motorino e salutava sotto la pioggia. Stabilito che è incomprensibile vietare piazze in cui migliaia di persone vogliono esprimere le proprie idee per quanto ripugnanti (sposo e cito la tesi espressa da Vladimiro Zagrebelsky su questo giornale), mi sono anche detto che in questo sabato romano è stato superato un confine. Se le più importanti associazioni palestinesi hanno deciso di stare a casa, di rinunciare alla propria voce, significa che hanno capito la strumentalizzazione. Il tentativo sgradevole e narcisistico di scatenare una piccola fantomatica tragedia domestica, esattamente alla vigilia del 7 ottobre, di fronte a una tragedia enorme, reale, dolorosa e complessa. Una farsa camuffata da rivendicazione sociale finita come da copione tra lacrimogeni e botte con gli agenti. Tra molte altre cose, Amelia Fresia - sostenitrice dell’idea apparentemente sepolta dagli opposti fondamentalismi religiosi dei “due popoli due Stati” - mi ha detto di essere certa che alla base di manifestazioni così platealmente aggressive come quella romana, ci sia una forma chiara di ignoranza. “Vede, io sogno che il governo di Israele cambi il prima possibile e penso che Netanyahu sia una persona orribile. Aggiungo che partiti religiosi mi fanno paura in generale. Ma temo che l’antisemitismo stia tornando con forza e questo è frutto della mancanza di memoria. Della mancanza di conoscenza. Della mancanza di umanità. Sul comodino ho un libro di Anna Foa, si intitola: Il suicidio di Israele. Mi piacerebbe che lo insegnassero nelle scuole”. Lei, a scuola, subito dopo la guerra ha scoperto che i suoi genitori si erano convertiti al cattolicesimo per sfuggire (senza riuscirci) alle persecuzioni razziali e che poi, alla fine degli anni Quaranta, erano stati scomunicati da Santa Madre Chiesa perché suo padre si era iscritto al Pci (“considerava i comunisti gli unici che si erano opposti davvero al fascismo”). Questo incrocio di sensibilità, queste contraddizioni continue, l’hanno spinta ad approfondire la propria storia e quella dei suoi familiari sterminati ad Auschwitz, ma soprattutto a non cedere mai ad alcuna forma di estremismo, nella certezza che quando il dolore si decompone in nome di una guerra santa si trasforma immancabilmente in collera cieca contro il mondo. Medio Oriente. Il 7 ottobre, la notte lunga un anno. In attesa del sole di Eshkol Nevo* Corriere della Sera, 6 ottobre 2024 L’insonnia, un bar, le vite di chi ha perso ogni cosa. E uno scrittore che si chiede: come posso aiutare? Dopo il 7 ottobre le nostre figlie ci hanno scongiurato di aggiungere una seconda serratura alla porta d’ingresso, una di quelle apribili solo dall’interno. Le avrebbe fatte sentire più sicure e forse avrebbe allontanato gli incubi durante i quali, la notte, i terroristi di Hamas irrompevano in casa nostra. Nel giro di pochi giorni abbiamo montato la serratura, naturalmente. Si fa qualunque cosa pur di rasserenare i figli. Un anno dopo, all’una di notte, mi ritrovo davanti alla porta chiusa a bussare, abbastanza forte perché la figlia soldatessa, che deve aver dimenticato di aprire la seconda serratura prima di addormentarsi, si svegli e mi apra, ma non tanto forte da destare i vicini. La figlia soldatessa non si sveglia. Le altre donne di casa sono rimaste a dormire a Gerusalemme dopo un festeggiamento in famiglia e non potrebbero comunque aiutarmi. Ci siamo solo io e la porta chiusa. Telefono e ritelefono alla figlia soldatessa, ma non risponde. Busso più forte ma niente, non si sveglia. Ormai sono le due del mattino, i vicini iniziano a lagnarsi per il rumore e io mi rendo conto che non ho speranze: il sonno della figlia soldatessa è troppo profondo, non mi aprirà fino al mattino. Mando messaggi WhatsApp agli amici che abitano nei paraggi, in cerca di un rifugio. Nessuno risponde. Tutti dormono. Logico, vista l’ora. Scendo in strada e verifico se riuscirei ad arrampicarmi sulla parete esterna del palazzo per introdurmi nell’appartamento, al secondo piano, ma giungo alla conclusione che è troppo pericoloso. Non ci sono abbastanza appigli a cui aggrapparmi. Non mi resta altra scelta che controllare se in zona c’è un bar aperto per tutta la notte e ne trovo uno solo, vicino a una stazione di servizio. Monto in macchina e parto. Aumento il volume della radio per non addormentarmi. I notiziari informano che le probabilità di un cessate il fuoco a Sud sono sempre più ridotte. Le probabilità di una guerra a livello regionale crescono. E le agenzie hanno abbassato il rating di Israele. Sono le due e mezza e il bar è sorprendentemente affollato. C’è addirittura una minicoda alla cassa. Ordino un espresso doppio, mi siedo e chiedo alla cassiera carta e penna, se possibile. Poi osservo. Ci sono cose che di notte risultano più visibili. Nessuno è lì per divertirsi: ecco la prima cosa che mi salta all’occhio. Non c’è nessuno ubriaco bonario e ridanciano. C’è un gruppetto di soldati in uniforme, silenziosi in modo allarmante. Devono essere di passaggio, in movimento tra il confine sud e il confine con il Libano. C’è una coppietta che confabula. Forse questo è l’unico momento e l’unico posto in cui si possono incontrare senza dare nell’occhio. Tutti gli altri, e sono tanti, sono soli con il loro caffè. Palpebre a mezz’asta. Tristarelli. Saranno scappati qui per sfuggire agli allarmi dei missili sul Nord? Soffriranno di insonnia? Di incubi? Si saranno ritrovati anche loro davanti a una porta chiusa stanotte? Avranno anche loro una figlia soldatessa esausta di una guerra senza fine? Mi siedo, ordino un espresso dopo l’altro, osservo, ascolto conversazioni, sono sovrappensiero. Eventi che per tutto l’ultimo anno ho rimosso perché intollerabilmente tristi si ripresentano di colpo. Durante le lunghe ore bianche in quel bar non rimane niente e nessuno a proteggermi dai ricordi. Non posso fare altro, li devo scrivere. Ad esempio il seminario di scrittura per le donne di Kfar Aza, il kibbutz di cui cento abitanti sono stati uccisi il 7 ottobre e gli altri sono sfollati in un albergo vicino a Tel Aviv. Ho esitato prima di accettare di tenerlo. Non ero sicuro di essere in grado di affrontare le emozioni che sarebbero emerse. Di essere abbastanza preparato. D’altro canto, come fai a rifiutare? Durante i primi due incontri ho evitato di proposito di chiedere di scrivere di quel sabato. Non ero sicuro che avrebbero retto loro. Non ero sicuro che avrei retto io. Ho proposto altri argomenti: vacanze trascorse all’estero. Ricordi d’infanzia. Amore. Abbiamo parlato di come si costruisce un personaggio in una storia. Dell’uso del linguaggio. Dell’importanza dei piccoli dettagli nella costruzione di una scena. Poi, all’ultimo incontro, ho preso il coraggio a due mani e ho chiesto esplicitamente di scrivere della ferita. Ma - ho precisato - focalizzatevi su qualcosa di piccolo. Marginale. Apparentemente irrilevante. Sul dramma piccolo collaterale al dramma grande. Il silenzio calato quando hanno iniziato a scrivere era diverso. Carico. Di tanto in tanto qualcuna tirava su col naso. Dopo venti minuti ho chiesto che leggessero. Sono rimasto sorpreso, volevano leggere tutte. Una aveva descritto il cinguettio degli uccelli all’alba, appena prima dell’attacco dei terroristi. Una seconda, l’insalata preparata in fretta e furia prima di tornare nella stanza-rifugio. Una terza, la telefonata veloce, pratica, con il marito uscito a difendere la casa e subito dopo freddato in giardino. Quando il giro di lettura è finito, ho osservato le persone nel cerchio. Tutti, me compreso, avevano le lacrime agli occhi. Mi torna in mente anche la studentessa particolarmente dotata che ha abbandonato di punto in bianco un altro corso di scrittura, di livello avanzato. Ci ha scritto una breve mail per informare che era costretta a ritirarsi per motivi personali. Le ho telefonato per dire: peccato che molli. Hai un vero talento, raro. È rimasta in silenzio e poi ha spiegato, grazie, ma il mio ragazzo è tornato da Gaza con l’anima in pezzi. Mi prendo cura di lui. Dobbiamo andarcene da qui per qualche mese, altrimenti non ne esce. Tornerò a scrivere, maestro, non ti preoccupare, ma in questo momento la vita è più forte. Ho pensato: è precisamente quello che mi ripeto da quando è iniziata la guerra: adesso la vita è più forte. E le ho detto, ti capisco benissimo e... buona fortuna. Quest’anno è capitato solo una volta che abbia detto di no a una richiesta che mi era stata rivolta. Mi hanno contattato dalla struttura per il recupero dei superstiti del festival Nova perché tenessi un laboratorio di trenta minuti. Era novembre, appena un mese dopo che la festa si era trasformata in un bagno di sangue. Ho chiesto se sarebbe stato presente un terapeuta. Hanno risposto di no. Ho chiesto se era possibile avere più di trenta minuti. Hanno risposto di no. Ho chiesto che gli incontri fossero non uno ma una serie, per poter attivare un qualche processo. Hanno detto che non era possibile. Ho pensato: la scrittura porta a galla immagini dolorose. Risveglia demoni sopiti. In mezz’ora non c’è modo che io riesca a radunare i frammenti di emozioni che si sparpaglieranno per la stanza e a dare loro un senso. Rischierei di nuocere ai sopravvissuti al festival, invece di aiutarli. Mi sono scusato con chi mi aveva contattato e ho detto che a quelle condizioni purtroppo ero costretto a rifiutare. Ormai sono le quattro del mattino. Mia figlia continua a non rispondere al telefono. La coppietta che confabulava se n’è andata e al suo posto è arrivata un’altra coppietta che confabula, ad occupare esattamente lo stesso tavolo. Come se fosse noto che quello è il tavolo delle coppiette che confabulano. I soldati intanto si sono alzati e, muovendosi come un sol uomo, sono ripartiti per la loro strada. Ho sentito che ripetevano la parola “Libano” diverse volte. Devono essere davvero diretti a nord, alla prossima guerra. Riusciranno a tornare tutti?, penso con preoccupazione. E se anche torneranno, dopo tutto quello che avranno passato saranno ancora capaci di credere nella bontà dell’uomo? Ancora oggi mi tormento chiedendomi se mi sono comportato nel modo giusto quando ho detto che senza un terapeuta al mio fianco non me la sentivo di assumermi la responsabilità dei sopravvissuti al Nova. Dopotutto, ogni spazio in cui sono entrato quest’anno è diventato uno spazio di cura. In ogni spazio in cui sono entrato quest’anno ho trovato persone tristi e preoccupate. Bisognose di conforto. Di speranza. Ogni banale incontro con lettori si è concluso con una fila di persone che volevano raccontarmi qualcosa. Condividere. Alleggerirsi. Ripenso a una ragazza timida, a Be’er Sheva. L’incontro con i lettori era terminato e lei ha aspettato con pazienza che tutti, fino all’ultimo, si allontanassero. Ti voglio raccontare una cosa, mi ha detto. Magari un giorno finirà in uno dei tuoi libri. Ti ascolto, l’ho invitata. E lei ha raccontato che suo padre era tra gli ostaggi detenuti da Hamas. Il fatto era, però, che lei aveva scoperto solo un anno prima che quello era il suo padre biologico. Ti rendi conto? Siamo riusciti a incontrarci solo un paio di volte e poi l’hanno rapito. E come sono stati i vostri incontri? Ho chiesto. Strani, ha risposto. Non è proprio mio padre, e nello stesso tempo lo è. Mi sento così anche adesso: sono da considerare tra i “familiari dei rapiti” oppure no? Dovrei disperarmi fino al rilascio del mio padre biologico? Anche se lui per trent’anni non mi ha nemmeno riconosciuta? Cerco di ricordare il nome del suo padre biologico ma non ci riesco. Nel frattempo l’avranno rilasciato? L’avranno ucciso? O è ancora in un tunnel di Hamas a marcire e impazzire di fame? Durante le allucinazioni causate dalla fame avrà visto qualche volte questa figlia che è sua e non sua? Ha nostalgia anche di lei? Mia figlia mi telefona alle 6 del mattino. È imbarazzata. Si scusa, desolata. Come ha potuto dimenticarsi di aprire la serratura dall’interno? Come? È sicura che sia furioso con lei, ma io non ci riesco. Per la verità, più passano gli anni e meno riesco ad arrabbiarmi con le mie figlie. In quest’ultimo anno, poi, ho solo il desiderio di rallegrarle, proteggerle e raddolcire la durezza della realtà in cui vivono. Mia figlia dice che ha aperto. Posso entrare in casa. Le compro un croissant al cioccolato ancora caldo ed esco. Alla radio sempre le solite cattive notizie. Fuori è ancora scuro. In un certo senso, penso, tutto quest’anno è stato un’unica lunga notte nera popolata da incubi, calata sugli abitanti di Israele, sugli abitanti di Gaza e sugli abitanti del Libano a precipitare le loro vite nel buio. È ora che si levi il sole. *Traduzione dall’ebraico di Raffaella Scardi Medio Oriente. A Gaza si muore in silenzio di Greta Privitera Corriere della Sera, 6 ottobre 2024 Le testimonianze di chi vive nella Striscia bombardata e nella Cisgiordania occupata. A un anno dall’inizio del conflitto, ecco le parole di madri, padri e giovani che la guerra la vivono sulla propria pelle. Gli intellettuali palestinesi ci chiedono di non usare metafore poetiche per raccontare Gaza. Perché, dicono, se Gaza rimane l’allegoria del male sulla Terra è più semplice non occuparsene poi nel mondo reale. Ed è per questo che a un anno dall’inizio del conflitto, lasciamo parlare chi la guerra la vive sulla pelle. Con le testimonianze dirette di madri, padri e dei giovani che da mesi vivono nella Striscia bombardata e nella Cisgiordania occupata. “Ero una madre, lo sono ancora: di due figlie, erano cinque - Rana Albaed, 45 anni, Gaza City. “Ero una madre. Lo sono ancora, ma non sono più niente. Nella mia vita ho partorito cinque bellissime figlie. Me ne sono rimaste due. Il 25 ottobre scorso una bomba è caduta sulla nostra casa. Le pareti ci sono esplose addosso. Era notte fonda e io e mio marito ci siamo messi a urlare i nomi delle bambine: una piangeva, un’altra ci ha detto dove si trovava, le altre tre non davano risposta. Abbiamo aspettato un’ora perché i mezzi della protezione civile ci tirassero fuori da sotto le macerie. Ho visto i corpi senza vita delle mie figlie spuntare da una montagna di cemento. Sono diventata una vera madre di Gaza, tormentata dalla morte e della disperazione. Non ero così, prima. Ero sorridente, vivevo per vedere le mie figlie crescere. Ora passo le mie giornate a piangere e a guardare le foto e mi dispiace per Hala e Sozan, le mie figlie in vita. Hala ha bisogno di cure mediche, qualcuno ci può aiutare? Mi arrabbio sempre, sono triste e senza speranza. Dopo i bombardamenti siamo andati a Deir al-Balah a casa di parenti, ma un mese fa la zona è stata minacciata. Ci siamo rifugiati in una tenda e ora nell’appartamento di alcuni amici. Ci mancano le bambine. Remas sognava di studiare legge, Jana voleva diventare insegnante e Shahad medico. Voglio andarmene da qui: siamo innocenti, lasciateci vivere. Non posso stare tra queste macerie, è troppo doloroso”. “Se perdi tutto, casa e ambizioni, diventi invisibile” - Yara Abo Maddain, Gaza Nord, 26 anni, interior designer: “Passo la mia giornata a pensare come ricaricare il cellulare, dove comprare una cipolla per la zuppa e a chi tocca andare a prendere l’acqua. Un anno fa ero una bella ragazza, ora ho il viso di una vecchia signora distrutta. La mia vita prima era felice, nonostante l’occupazione. Grazie al mio lavoro riuscivo anche a viaggiare. Ora vivo nel terrore che qualcuno dei miei fratelli venga ucciso. Prego che se deve succedere, una bomba ci faccia fuori tutti. Siamo a Nuseirat ospiti di amici di famiglia: venti in due stanze e un bagno. Perdere tutto è diventata una cosa normale per noi invisibili. Ho perso lavoro, casa, amici e ambizioni. Il mondo non ci vede e mi ha insegnato a non sapere più chi sono e che cosa voglio. Possiamo sfuggire con i nostri corpi dalle mani della guerra, ma le nostre menti rimarranno per sempre intrappolate in questo orrore. Sto morendo, forse. Qual è la mia colpa, vorrei saperlo. Pace? Non la vedo. Dopo che ci hanno ucciso e derubato del futuro ditemi voi dove è la pace. Ci hanno bombardato dentro prima che fuori. Non credo che li perdonerò. Non siamo Hamas, non siamo mostri. Vogliamo vivere come tutti, avere una nazione e i diritti rispettati. Oggi tocca a me andare a prendere l’acqua ma non ho voglia di alzarmi dal materasso sdraiato a terra. Sono una zombie. Se muoio qualcuno si ricorderà di me? “Io piena di rabbia, non parlate di noi come terroristi” - Sarah Abu Alrob, 29 anni, giornalista, nata a Jenin ora residente a Sebastia. “Sono cresciuta sotto un sistema di colonizzazione. Vuol dire che tutta la mia giornata gira intorno agli ostacoli di un paese occupato: come devo muovermi? I checkpoint sono aperti? Arriverà l’acqua da Israele? L’elettricità? I coloni attaccheranno? Sotto occupazione non controlli i tuoi movimenti, il tuo tempo e la tua sicurezza. Il tuo futuro. L’ultimo anno è stato devastate. Il mio popolo sta subendo le peggiori atrocità. Ho tanti amici a Gaza e penso a loro con un senso di impotenza. E mentre Israele compie nella Striscia un genocidio sostenuto dal mondo occidentale, un altro massacro avviene in West Bank dove molte comunità sono state spopolate con la forza, dai coloni aiutati dall’esercito israeliano che arresta e tortura. Mentre gli occhi sono puntati su Gaza, Israele cerca di raggiungere il più possibile i suoi obiettivi di espansione in West Bank. Vuole creare città ghetto come Nablus, Ramallah, Turkalem, e isolarci completamente. Mi fa arrabbiare che siamo raccontati come un gruppo di terroristi. Si parla di ostaggi israeliani, giusto. E dei nostri bambini? Delle nostre vite senza dignità? Questa non una guerra normale tra due Stati. Non c’è comparazione possibile tra occupanti e occupati. Sono pronta a vivere in pace, ma bisogna decolonizzare il sistema e creare uno Stato democratico per tutti. Chi è pronto?”. Samy Abu Omar, 60 anni, Khan Younis, imprenditore. Parla italiano perché ha studiato in Italia. “Io e la mia famiglia ci siamo spostati dieci volte. Prima Rafah, poi Deir al-Balah, ora siamo ad Al-Mawasi. Il 4 dicembre hanno bombardato una casa vicino alla nostra. Quando abbiamo visto i militari cadere dal cielo con i paracadute, ci siamo spaventati e siamo scappati, lasciando la nostra casa per sempre. L’amavamo molto: aveva due piani e un bel giardino. Non è facile scappare quando si è in tanti. Io e mia moglie abbiamo sette figli, quattro maschi e tre femmine. Il più grande ha 27 anni, il più piccolo 13. Mentre scappavamo, proprio lui è stato colpito da una scheggia e ora ha una mano fuori uso. Da quel momento sono iniziati i mesi più difficili. Non trovavamo cibo, non avevamo soldi per affittare un appartamento: costa 5 mila dollari al mese. Ci siamo comprati una tenda al mercato nero. Seicento dollari. Poi, in un altro bombardamento ce l’hanno bruciata. Ora ho due tende. Viviamo nella zona umanitaria, ma bombardano anche qui. Dieci giorni fa ci sono stati 50 morti. Abbiamo provato a uscire ma l’ambasciata italiana ha rifiutato la richiesta. Mi sento senza speranza, specie per i miei figli. Tre vanno all’università ma sono fermi da un anno. Negli ultimi tempi stanno bombardando meno perché non c’è più niente. Prima morivano circa cento persone al giorno, ora venti o trenta”.