Carceri minorili in crisi: celle sovraffollate, trasferimenti senza preavviso e abuso di psicofarmaci di Viola Giannoli La Repubblica, 2 ottobre 2024 Il dossier dell’associazione Antigone a un anno dall’introduzione del decreto Caivano. Ecco come vivono i minori dietro le sbarre. Se l’associazione Antigone che dal 1991 si occupa del sistema penitenziario italiano afferma nel suo ultimo rapporto sulle carceri minorili di “non aver mai visto nulla di simile” significa che la situazione si è fatta seria davvero. All’orizzonte ci sono nubi dense e il rischio è di ritrovarsi con un modello di carcerazione minorile sempre più simile a quello degli adulti: chiuso, sovraffollato, violento, affatto educativo e solo repressivo. Ma già oggi negli Ipm si respira una tensione inedita, tra numeri abnormi, marginalità sociale e progressiva abbottonatura del sistema. La conseguenza sono anche più di trenta rivolte, nel giro di un anno, dall’autunno scorso a questo, per restare a quanto pubblicato sui media: lenzuola e materassi incendiati, tentativi di fuga, tagli sulle braccia, vetri ingeriti, battiture. La verità è che oggi in Ipm ci vanno coloro per i quali l’Italia non ha posto altrove. “Non gli autori dei reati più gravi (la maggiore percentuale sono infatti reati contro il patrimonio, soprattutto nel caso dei ragazzi stranieri), ma i più marginali, a partire dai minori stranieri non accompagnati - racconta Antigone - E il mandato affidato alle carceri minorili è quello della neutralizzazione. Non reintegrateli in società - è l’implicito messaggio - noi qui fuori non li vogliamo: teneteveli voi. Seppelliteli sotto litri di psicofarmaci e cumuli di altri anni di carcere”. Il sovraffollamento. Effetto Caivano - Inedito è, anzitutto, il sovraffollamento: al 15 settembre 2024 erano 569 i ragazzi e le ragazze detenuti negli Istituti penali per minorenni. È da febbraio che il dato supera costantemente le 500 presenze, arrivando ad oscillare tra le 560 e le 580 negli ultimi mesi. Numeri così alti non si erano mai registrati prima. In ventidue mesi i giovani detenuti sono cresciuti del 48%. Un’impennata che non ha eguali e che non trova alcun fondamento in un parallelo aumento della criminalità minorile, che negli ultimi quindici anni ha avuto un andamento ondivago senza tuttavia particolari picchi. E allora perché? Antigone risponde guardando, ancora, i numeri: se negli undici mesi che vanno dall’ottobre 2022 al settembre 2023, quando è entrato in vigore il cosiddetto Decreto Caivano, le presenze in Ipm sono aumentate di 59 unità, nei successivi undici mesi l’aumento è stato di 129, ovvero più del doppio. E, inoltre, quest’ultimo numero è assolutamente falsato al ribasso: sarebbero ben di più i ragazzi oggi in Ipm se non fosse che il decreto ha permesso il trasferimento al sistema degli adulti di tanti ragazzi che, avendo commesso il reato da minorenni, avevano compiuto la maggiore età. Sono state 123 le uscite nel 2024 verso le carceri, erano stati 88 nel 2023, 58 nel 2022. Ci sono altri viaggi carcerari. E sono quelli che compiono in maniera coatta i ragazzi dagli Ipm del Nord agli Ipm del Centro e del Sud Italia non solo per allontanare chi è coinvolto in eventi critici, ma anche per fare più spazio in Istituti pieni. La scelta di chi trasferire ricade quasi sempre su minori stranieri non accompagnati, considerati più facili da allontanare non avendo famiglie sul territorio, spezzando però i pochi legami che si sono creati. Come M., ragazzo nato in Egitto nel 2008, spostato da Miano ad Airola. “Un trasferimento - racconta la sua tutrice - è stato effettuato senza avvisare nessuno. Né me, né il legale, né gli assistenti sociali. Non è stato possibile salutare il ragazzo né recuperare le sue cose. Il minore ha forti fragilità psicofisiche e stava già soffrendo moltissimo la condizione di detenzione. Gli unici legami del minore sono a Milano: io e uno zio. La lontananza e l’impossibilità di vederlo potrebbero essere (anzi saranno) sicuramente per lui altamente dolorosi e peggiorativi”. Alla richiesta del Difensore Civico in merito alle ragioni del trasferimento, il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità ha riferito che fosse stato “disposto per motivi di sovraffollamento”. M. ha avuto fortuna, è tornato a Milano, in una comunità. Tanti ragazzi continuano invece a vagare, da un Ipm all’altro, senza che per loro si trovino soluzioni concrete. In 12 su 17 superata la capienza massima - In totale i posti negli istituti minorili sono 516, il tasso di affollamento medio è dunque pari al 110%. Metà sono stranieri, pochissime le ragazze, appena 27. Solo un terzo ha una condanna definitiva. Ma ad essero pieno non è solo qualche istituto, si tratta di una situazione diffusa: 12 Im su 17 ospitano più persone di quelle che dovrebbero. Il record nero è di Treviso dove sono state aggiunte brandine nelle celle e in alcuni casi anche materassi per terra; segue il Beccaria di Milano, teatro di ripetute evasioni; poi l’Ipm di Acireale. Nelle zone comuni della palazzina che ospita i reclusi minorenni dell’Ipm di Roma è mancata la luce per almeno tre settimane. Mancano anche i frigoriferi e spesso i ragazzi riempiono il lavandino d’acqua, vi ripongono cibo o bevande, per farli rimanere freddi. La criminalità minorile: numeri e reati - La percezione della criminalità minorile, delle baby gang, dei maranza che imperversano in città e province, di bande di stranieri casseur, è diversa dalla realtà. Se sul lungo periodo ci sono stati alti e bassi, nel 2023 i ragazzi denunciati e/o arrestati sono diminuiti del 4,15% rispetto all’anno prima. E, in percentuale, sono calate di più le segnalazioni sugli stranieri rispetto agli italiani. Sono ragazzi che fanno meno risse di prima e più rapine, meno percosse e più lesioni dolose, più violenza sessuale. Come gli adulti commettono più reati contro il patrimonio (52,2%) che contro la persona. E spesso, quando finiscono dietro le sbarre, si portano dietro problemi di dipendenza, usano le droghe a prescindere dal loro passaporto e dal loro portafoglio. Cresce la spesa per gli psicofarmaci - Un’inchiesta realizzata da Altreconomia racconta che c’è anche un altro tipo di uso, e di abuso: nella fase post pandemica negli Istituti penali per minorenni si è registrato un significativo aumento della spesa - e dunque della somministrazione - di psicofarmaci, in particolare di antipsicotici: +30% tra il 2021 e il 2022. Il dato, di per sé allarmante, risulta ancora più grave se paragonato a quanto accaduto negli Istituti penitenziari per adulti, dove la spesa nello stesso arco temporale e in relazione allo stesso tipo di farmaci, è sì aumentata, ma solo dell’1%. Le carceri minorili si riempiono, ma andrebbero chiuse: iniziamo con Casal del Marmo di Valerio Renzi fanpage.it, 2 ottobre 2024 I reati commessi dai minori diminuiscono, ma aumenta la popolazione nei penitenziari minorili oramai sovraffollate come effetto del Decreto Caivano del Governo. E come nelle carceri dei “grandi” anche qua scoppiano le rivolte. Viaggio dentro e intorno al carcere di Casal del Marmo a Roma, con una domanda in testa: ma perché non chiuderlo una volta per tutte? Nel carcere minorile di Casal del Marmo le rivolte dei detenuti sono ormai all’ordine del giorno. L’ondata di proteste che ha coinvolto i penitenziari negli scorsi mesi ha coinvolto anche le prigioni dove si trovano i minorenni. Dipinti come realtà quasi idilliache, in realtà anche le carceri minorili sono luoghi di sofferenza ed esclusione, ma anche violenza come è venuto alla luce dall’inchiesta che ha coinvolto il Beccaria di Milano. Lo scorso aprile 13 agenti della penitenziaria sono stati arrestati con l’accusa di aver picchiato e torturato i ragazzi detenuti: cinghiate sui genitali, detenuti presi a bastonate mentre erano ammanettati, violenze e abusi sistematici e continui tollerati e coperti dall’istituzione carceraria. La giornalista di Fanpage.it Simona Berterame ha incontrato Alberto (il nome è di fantasia), un ragazzo che è appena uscito da Casal del Marmo, che ha raccontato ai nostri microfoni com’è vivere nel carcere di Casal del Marmo, ma anche perché esplodono le rivolte. Anche se è più permeabile all’esterno di altri sistemi carcerari, anche le prigioni per minori, spesso è difficile capire perché avvengono alcuni eventi e la cronaca dei fatti. Alberto ci ha raccontato che ha dovuto impedire a un suo compagno di cella di impiccarsi durante una delle ultime rivolte, e anche delle ragioni della loro esplosione: come per le carceri dei grandi la principale è il “sovraffollamento”, e la mancanza di personale che porta a ridurre gli spazi di libertà fuori dalle celle e le attività alternative. Con l’approvazione del cosiddetto Decreto Caivano del governo Meloni, abbiamo assistito a un sensibile aumento della popolazione nelle carceri minorili inasprendo le pene detentive e quindi il ricorso alla custodia cautelare. Il paradosso è che aumentano i minori in carcere, ma diminuiscono i reati commessi da minori. Nel suo ultimo Rapporto sullo stato delle carceri in Italia, l’associazione Antigone ha sottolineato come gli ingressi stiano aumentando in luoghi come Casal del Marmo in modo regolare, tanto da modificare la stessa natura di questo tipo d’istituto. “Continuando con questi ritmi si rischia di perdere quella specificità positiva del sistema della giustizia penale minorile nel nostro paese che lo aveva reso un modello per l’intera Europa, ovvero la sua capacità di rendere residuale la risposta carceraria puntando piuttosto su un approccio di tipo educativo codificato nel codice di procedura penale minorile del 1988”, si legge nel rapporto. Ovviamente poi a un aumento delle presenze, già criticabile, non corrisponde un aumento del personale e un potenziamento di attività e possibilità per i giovanissimi detenuti. Non servono più carcere e nuovi reati di Giuliano Torlontano L’Espresso, 2 ottobre 2024 L’utopia repressiva è il mantra della destra, ma di fronte ai fenomeni sociali la risposta penitenziaria non è utile, spiega l’ex presidente della Camera Luciano Violante. Leggi penali e libertà civili. Dopo il sì di Montecitorio al Ddl Sicurezza, ne parliamo con Luciano Violante, presidente della Fondazione Leonardo Civiltà delle Macchine, giurista, ex magistrato, già presidente della Camera, per decenni con ruoli di primo piano nella sinistra italiana (dal Pci al Pd). Presidente Violante, nello scontro politico, il ritorno della contrapposizione fra sicurezza e diritti di libertà non le appare una regressione per tutti? “Ogni legge penale pone l’alternativa tra libertà e sicurezza. Per mantenere l’equilibrio è necessario che la legge penale sia ragionevole, cioè motivata dalle circostanze di fatto, ed equilibrata, cioè proporzionata alla gravità del fatto commesso. Nel tentativo di reggere questo equilibrio ci troviamo schiacciati tra l’utopia repressiva e l’interpretazione sociale del reato. Secondo l’utopia repressiva, solo la repressione assicura la sicurezza e conseguentemente al massimo di repressione e di emarginazione corrisponde il massimo di sicurezza. All’opposto c’è l’interpretazione sociale che tende a individuare nel reato non tanto libere scelte individuali quanto cause sociali, e quindi propende per la mitezza della pena e per l’impegno a rimuovere le cause sociali che hanno prodotto il reato. Il reato è essenzialmente mancanza di rispetto per un diritto altrui, alla vita, alla libertà, alla proprietà. Attraverso la pena occorrerebbe trasmettere la cultura del rispetto. È quello che la Costituzione chiama rieducazione del condannato”. Ma è possibile? “Molte volte è possibile. Ma dipende da due fattori. Il primo fattore è la natura del reato: una strage di mafia o un grande traffico di stupefacenti. In questi casi la punizione prevale. Il secondo fattore è costituito dal carcere nel quale si sconta la pena. Se in quel carcere sono rispettati i diritti dei detenuti, molto probabilmente i detenuti si educheranno al rispetto dei diritti altrui. Se invece saranno costretti a vivere in condizioni indegne o disumane, se saranno sottoposti a umiliazioni, saranno forse contenti i sostenitori dell’utopia repressiva, ma si creano i presupposti per una scuola del crimine in carcere. Vede, quando un giudice infligge cinque o sei anni di reclusione, si apre un corridoio oscuro: il condannato può scontare quegli anni in un carcere disumano o in un carcere dove la sua umanità viene rispettata. Il giudice non lo sa, e non lo sa neppure il condannato; ma da quella scelta, che è puramente amministrativa, dipende il destino della persona condannata. Il provvedimento votato dalla Camera, non si preoccupa delle condizioni di vita nei penitenziari o nei luoghi in cui sono detenuti gli immigrati. Si limita a punire severamente ogni forma di rivolta, anche passiva”. Anche qui va trovato un equilibrio... “Le punizioni, i divieti, a volte sono necessari ma creano un ordine illusorio fondato sulla paura, non sul consenso. È evidente che in alcuni casi occorrono la punizione e il divieto. Ma in molti altri è necessaria la rieducazione, passando attraverso la socializzazione. Manca una discussione e una teoria di cosa debba essere la pena nel XXI Secolo. Circa 2.500 anni fa, Antigone fu condannata a essere reclusa in una grotta murata, senza poter uscire. Oggi cosa facciamo? Chiudiamo in celle, a volte simili alla grotta di Antigone, le persone cha hanno commesso i reati. Abbiamo costruito tanti diritti a partire del Settecento, sui quali si potrebbe incidere, ma la pena negli ultimi duemila anni è più o meno sempre la stessa! Non ci sono altre misure? Penso al divieto di uscire di casa e di ricevere persone nel fine settimana, oppure al ritiro della patente negli stessi giorni, alla intensificazione dei lavori di pubblica utilità, ma veri, come curare i giardini pubblici, ripulire i muri, tenere in ordine le sponde dei fiumi e dei torrenti. Insomma, occorre un’idea più articolata della punizione, che riduca gli ingressi in carcere e che aiuti a ricostruire un rapporto tra detenuto e società. E poi non dobbiamo dimenticare che nelle carceri la polizia penitenziaria fa la stessa vita dei detenuti a volte con qualche rischio in più”. È un aspetto che troppo spesso viene trascurato... “Assolutamente sì. Oltretutto, agli agenti della polizia penitenziaria non sempre sono fornite la preparazione e le garanzie adeguate”. C’è un difetto di formazione professionale... “Ma se un governo, comunque si chiami, segue l’utopia repressiva è chiaro che non si preoccuperà della formazione del personale penitenziario. Se manca la formazione professionale necessaria, l’unica risposta al comportamento indisciplinato del detenuto è la violenza. Il carcere diventa un’arena di scontro tra poteri violenti. Il conflitto fra la polizia penitenziaria e i detenuti diventa inevitabile quando da una parte manca la preparazione e dall’altra si è privati della dignità”. Come spiega che dopo quasi dieci anni, da un tentativo di depenalizzazione (governo Renzi) si sia passati all’introduzione di nuovi reati, come dimostra proprio questo disegno di legge che ne introduce un’altra ventina? “Ci sono culture politiche diverse (le rispetto tutte, sia chiaro). Quella di destra è incentrata su un’idea della repressione come condizione per ristabilire l’ordine di una società: è una visione che riscontriamo in tante parti del mondo, non solo in Italia”. Che effetto avrà l’aumento delle pene sul funzionamento della giustizia? “Se non ho contato male, sono state introdotte negli ultimi due anni circa quindici nuove ipotesi di reato. Più crei nuovi reati, più aumenta il lavoro dei magistrati e, alla fine, crescono i tempi della giustizia. I tribunali non sono un pozzo senza fondo. Occorre un rapporto equilibrato fra la quantità di norme incriminatrici e le possibilità di risposta. Questo equilibrio è saltato da tempo”. Perciò qual è il suo giudizio complessivo sul provvedimento? “Un giudizio complessivo è difficile, perché un paio di norme sono positive, Cito, ad esempio, l’interdittiva del prefetto nei confronti di azienda sospettata di intrattenere rapporti con la mafia. Con questa legge il prefetto può evitare di incidere su quei cespiti che danno all’imprenditore la possibilità di vivere: sinora si bloccava tutto e il destinatario del provvedimento, anche in assenza di condanna, non aveva i mezzi per vivere. Altre norme positive sono quelle sullo sgombero delle abitazioni occupate abusivamente”. Anche perché è in gioco il diritto di proprietà... “È un diritto di civiltà. Se una casa è occupata abusivamente, le forze dell’ordine devono avere la possibilità dello sgombero forzato. Abbiamo avuto, nelle periferie, casi di povera gente che, uscita di casa, al ritorno l’ha trovata occupata e senza riuscire a mandare via gli abusivi”. Veniamo alle norme che non vanno bene... “Tutto il resto, la parte prevalente, è un inno alla punizione. Siamo davanti all’utopia repressiva di cui si diceva prima”. Ma la sicurezza è necessaria... “La sicurezza è necessaria per tutti e soprattutto fuori della Ztl, per le persone più deboli. Ma l’eccesso di repressione provoca violenza e insicurezza. Dobbiamo difendere i più deboli. Ma occorrono leggi di carattere sociale che aiutino la vita dei più deboli. Anche questa è sicurezza”. È un tema che a maggior ragione dovrebbe trovare sensibile anche il centro-sinistra... “Io penso che la sicurezza dei cittadini, gestita secondo la Costituzione, debba essere un tema della sinistra. Mi permetta un ricordo, diciamo così, archeologico che risale all’inizio degli anni Ottanta. Quando ero responsabile della sezione giustizia del Pci, in una riunione di 40-50 persone con i quadri di partito, dissi che la sicurezza, riguardando soprattutto i ceti più deboli, era un tema di sinistra. All’inizio ci fu un po’ di sconcerto. Poi cominciammo a percorrere quella strada”. Veniamo alla libertà di manifestazione. Fin dove arriva? È giusto sanzionare penalmente i blocchi stradali, praticati negli ultimi tempi soprattutto dagli ecologisti di Ultima Generazione? “Gli ecologisti che bloccano le strade provocando seri problemi alla circolazione fanno male, ma non dobbiamo dimenticare il problema che sollevano. Davanti ad un fenomeno sociale non deve esserci solo un atteggiamento punitivo. Non si governa con il manganello alla cintola. Questi ragazzi pongono, in modo sbagliato, un problema giusto, il dissesto ambientale. Bisogna dialogare, cercare di capire e di capirsi. In sintesi: il dialogo è la premessa dell’ordine. È la contrapposizione violenta a creare il disordine”. L’aumento delle pene è un vero deterrente? Si tratta di una vecchia discussione... “Non è un deterrente. Chi commette un reato non si preoccupa della pena”. Uscire anticipatamente dal carcere se negli ultimi anni il detenuto dimostra una buona condotta è una strada da percorrere maggiormente, sconfiggendo le posizioni securitarie? “Sono d’accordo. È una scommessa da fare. Poter uscire dal carcere anticipatamente apre una speranza, può aiutare la persona a rispettare la società”. Ma basta? “Non basta. Occorre introdurre cambiamenti già nei penitenziari partendo da un un punto di fondo, che è il lavoro produttivo. Chi lo ha praticato in carcere, quando esce, difficilmente è recidivo. Le statistiche sono chiare: tornano a delinquere soprattutto coloro che nei penitenziari non hanno lavorato. Talvolta mi capita di visitare i penitenziari e tempo fa mi ha colpito un detenuto sardo del Due palazzi di Padova. Aveva un paio di ergastoli sulle spalle, quindi davanti a sé una vita da scontare in carcere. Mi mostrò il 740, perché lavorava e pagava regolarmente le tasse. Mi disse: questo è il mio certificato di dignità, grazie a un lavoro che mi è stato dato dal carcere, non dalla vita libera”. Dunque, cosa pensa della fine anticipata della pena? “Dobbiamo pensare anche ad un indulto (per l’amnistia non ci sono le condizioni). L’indulto, altre misure, come l’uscita anticipata per buona condotta, e nuove politiche per incentivare il lavoro produttivo in carcere possono avviare una svolta verso una concezione civile”. Ddl sicurezza, palla al Senato: al via le audizioni di Valentina Stella Il Dubbio, 2 ottobre 2024 Il Servizio studi evidenzia la necessità di chiarire alcune norme, in particolare sulle madri in carcere. Al via in Senato l’esame del ddl sicurezza, già approvato dalla Camera, che è stato incardinato ieri mattina dalle commissioni Affari costituzionali e giustizia. È stato deciso che ci sarà un giro di audizioni (25 indicate dalla maggioranza e 25 dalle opposizioni) e che i primi 12 soggetti verranno ascoltati martedì prossimo. Ancora non è stato definito un calendario per le audizioni successive che dovranno incastrarsi anche con quelle sul provvedimento che riguarda il fine vita e che sono almeno 90. Si rischia per questo un grosso ingorgo. I relatori, Marco Lisei (Fdi) ed Erika Stefani (Lega), hanno illustrato il provvedimento. Il disegno di legge, molto contestato in questi mesi dalle opposizioni, prevede venti nuovi reati, estendendo sanzioni e aggravanti, e in alcuni casi ampliando le pene previste per reati già esistenti. Tra le varie misure, criminalizza le proteste pacifiche, con l’aggravante per chi si oppone alla costruzione di grandi opere pubbliche, permette la detenzione delle detenute-madri, innalza la pena per chi occupa abusivamente un immobile, autorizza gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza, e quindi senza obbligo di denuncia, armi da fuoco quando non sono in servizio, punisce le rivolte nonviolente in carcere, prevede una stretta sulle sim per i migranti. Il termine per gli emendamenti non è stato ancora fissato. “Non c’è bisogno di correre ma non c’è bisogno di rallentare ingiustificatamente. Quindi un passo veloce, ma che ci dia la possibilità di esaminare le questioni che meritano di essere esaminate”, ha affermato a margine dei lavori il presidente della commissione Affari costituzionali Alberto Balboni. Mentre a ridosso dell’approvazione a Montecitorio la Lega aveva chiesto una accelerazione dell’iter, a Palazzo Madama ieri dalle file della maggioranza è trapelato che il testo non è blindato e sono possibili alcune modifiche che comporterebbero una terza lettura del provvedimento dell’Esecutivo. Alcuni spunti potrebbero arrivare proprio dal ciclo di audizioni, a partire dalla stretta sulla cannabis light (introdotta con un emendamento del governo). Intanto i tecnici del servizio studi del Senato hanno segnalato nel loro dossier diverse “opportunità di” “specificare meglio” alcuni articoli, “chiarire l’esatta portata normativa” di altri, “coordinare” determinate disposizioni. Per esempio, in merito all’articolo 15 del disegno di legge, “con riferimento all’obbligo di esecuzione della pena presso un Icam per le donne incinte o madri di figli di età inferiore ad 1 anno, andrebbe valutata l’opportunità di coordinare tale disposizione con quanto previsto dall’articolo 47- ter dell’ordinamento penitenziario (legge n. 345 del 1975) in materia di detenzione domiciliare per le detenute madri”. In particolare, “andrebbe chiarito se, in attuazione della disposizione sia preclusa per il giudice la possibilità di disporre la misura della detenzione domiciliare”. Per la vicepresidente del Senato, la dem Anna Rossomando, “il ddl Sicurezza ha creato un acceso dibattito non solo in Parlamento ma anche nel Paese, come abbiamo visto dalle diverse manifestazioni delle scorse settimane. Registriamo diffusamente attenzione e preoccupazione, come testimoniato da molte prese di posizione, tra cui quella dell’avvocatura associata. Questo conferma la necessità di un esame approfondito al Senato e confidiamo che la maggioranza ascolti le voci autorevoli di giuristi e operatori dei vari ambiti interessati da un provvedimento che incide sulle libertà individuali. In questo contesto torneremo a dare battaglia in commissione e in aula per affrontare adeguatamente diversi aspetti del provvedimento, tra cui la disciplina delle detenute madri, su cui sono stati anche svolti significativi rilievi tecnici da parte degli uffici studi”. Il riferimento dell’esponente del Pd è, tra l’altro, alla presa di posizione dell’Unione delle Camere penali che ha annunciato lo stato di agitazione in quanto “il contenuto dell’intero pacchetto sicurezza, lungi dal porsi in sintonia con un programma di riforma della giustizia in senso liberale, rivela nel suo complesso e nelle singole norme una matrice securitaria sostanzialmente populista, profondamente illiberale e autoritaria, caratterizzata da uno sproporzionato e ingiustificato rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi ed ai danni dei soggetti più deboli, caratterizzandosi per l’introduzione di una iniqua scala valoriale, in relazione alla quale taluni beni risultano meritevoli di maggior tutela rispetto ad altri di eguale natura, in violazione del principio di ragionevolezza, di eguaglianza e di proporzionalità” . Ddl sicurezza: la cabina telefonica della razza di Domenico Gallo Il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2024 Giorgia Meloni si è sempre rifiutata di pronunciare una condanna chiara del fascismo (del resto la sua cultura politica non gliel’avrebbe consentito), però del fascismo ha condannato in modo netto e senz’appello le leggi razziali. Evidentemente il rigetto della legislazione razziale del fascismo riguardava soltanto l’oggetto di quelle disposizioni (le persone di religione ebraica) non il metodo, cioè la discriminazione, che è ritornata di nuovo in auge nei provvedimenti legislativi del governo. L’ultimo disegno di legge in materia di sicurezza pubblica, approvato dalla Camera il 19 settembre e trasmesso al Senato, introduce una logica repressiva e discriminatoria tale da far impallidire le (molto più blande) norme in materia di sicurezza pubblica introdotte dal fascismo. Il disegno di legge governativo spinge verso una criminalizzazione delle lotte sociali, trasformando in crimini, puniti con pene abnormi, comportamenti di scarsa offensività che hanno a che fare con il disagio e la marginalità sociale. In particolare, vengono criminalizzati i movimenti di lotta per la casa con l’introduzione di un nuovo reato che colpisce con una pena assurda (da due e sette anni di reclusione) anche chi coopera nell’occupazione, al di fuori dell’ipotesi di concorso nel reato. C’è da rimpiangere il tanto vituperato codice Rocco nel quale non esisteva il reato inventato da Piantedosi (occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui) mentre la relativa fattispecie ricadeva nel perimetro del reato di invasione di terreni o edifici (art. 633) che puniva l’occupazione di immobili con la pena fino a due anni o con la multa e non prevedeva alcuna sanzione per coloro che organizzavano le lotte per la casa. Queste disposizioni sono un classico esempio di “diritto penale del nemico”: si tratta di un indirizzo politico-legislativo che in modo esplicito colpisce quella parte della popolazione socialmente più vulnerabile, criminalizzando le proteste e affrontando il disagio sociale come una mera questione di ordine pubblico. Ma non c’è solo repressione, coloro che condannano la legislazione razziale del fascismo non hanno avuto ritegno ad adottare il metodo della discriminazione che condisce la legislazione meloniana con l’aroma delle leggi razziali. Sul piano della discriminazione il disegno di legge governativo rafforza un istituto palesemente incostituzionale introdotto nel 2018, quello della revoca della cittadinanza, che di fatto ha creato una cittadinanza di serie A, per coloro che sono cittadini in virtù dello ius sanguinis, e una cittadinanza di serie B, per coloro che l’hanno acquistata per naturalizzazione, ai quali la cittadinanza può essere - in determinati casi - revocata. La disposizione più bizzarra, però, è quella che toglie il telefono agli immigrati privi del permesso di soggiorno, compresi i richiedenti asilo che spesso devono aspettare anni per ottenerlo. Una telefonata allunga la vita, così titolava un celebre spot pubblicitario interpretato da Massimo Lopez, in cui un condannato a morte faceva aspettare il plotone d’esecuzione con una telefonata interminabile. Se una telefonata allunga la vita, togliere la possibilità di fare una telefonata ai migranti - avrà pensato Piantedosi - sarà un ottimo strumento per il contrasto all’immigrazione. Per capire il significato di questa disposizione bisogna pensare a una cabina telefonica. Con l’evoluzione tecnologica le cabine telefoniche sono state tolte di mezzo, adesso la loro funzione la svolgono i cellulari. Vietare la Sim agli immigrati irregolari è come mettere un cartello di divieto d’ingresso a una cabina telefonica che, fin quando è esistita, non ha mai vietato l’accesso ad alcuno. Nella cabina telefonica potevano avere accesso tutti: belli e brutti, italiani e stranieri, uomini e donne e persino minori; bianchi e neri, ebrei e musulmani, cattolici e atei. Tutti potevano comunicare senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (art. 3 della Costituzione). Possedere un gettone era l’unico requisito per essere ammessi nel mondo della comunicazione. Con la nuova legge sulla sicurezza finirà questo bengodi della comunicazione aperta a tutti, e saranno poste le giuste restrizioni a coloro che sono figli di un Dio minore. Il divieto d’accesso a una cabina telefonica ricorda i cartelli che vietavano l’accesso agli ebrei negli esercizi pubblici. Con le leggi razziali agli ebrei fu vietato un po’ di tutto, persino di accedere alle biblioteche pubbliche, di inserire il proprio nome negli elenchi telefonici e di possedere una radio, ma non fu vietato l’uso del telefono. Adesso ci pensa Piantedosi a colmare questa lacuna. La carica delle Procure contro l’abrogazione dell’abuso d’ufficio di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 ottobre 2024 Da sempre bastonati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la violazione di diritti fondamentali, i magistrati italiani si scoprono improvvisamente sensibili al diritto internazionale e chiedono che la norma che ha cancellato l’abuso d’ufficio sia dichiarata incostituzionale perché in contrasto con la Convenzione di Merida. Da Reggio Emilia a Catania, da Firenze a Potenza, fino ad arrivare a Busto Arsizio. Le procure d’Italia stanno insorgendo contro l’abrogazione dell’abuso d’ufficio decisa dal governo Meloni, chiedendo ai tribunali di sollevare questione di legittimità costituzionale di fronte alla Consulta. Per i pm, infatti, l’abrogazione del reato sarebbe incostituzionale, in primis per il mancato rispetto dei vincoli derivanti dal diritto internazionale e, in particolare, dalla Convenzione Onu di Merida contro la corruzione del 2003. Il tribunale fiorentino ha già deciso di spedire la questione alla Corte costituzionale, ma la “rivolta” delle procure contro la riforma voluta da Nordio non accenna a placarsi. E fa abbastanza sorridere - con tutto il rispetto - leggere le richieste di rimessione formulate dalle procure. Abituati a essere bastonati periodicamente dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la violazione di alcuni diritti fondamentali dei cittadini (soprattutto in materia di intercettazioni, sequestri e misure preventive), i magistrati italiani si scoprono ora improvvisamente sensibili agli obblighi derivanti dal diritto internazionale, tanto da vestire le panni di esperti. La procura di Reggio Emilia, la prima a chiedere di sollevare la questione di legittimità costituzionale, ad esempio, non ha dubbi: “L’abrogazione tout court dell’abuso d’ufficio si pone in contrasto con l’articolo 117 Cost. e con gli obblighi assunti dallo stato italiano sia in ambito comunitario europeo sia in ambito internazionale”. Per sostenerlo, la procura riporta ampi stralci della Convenzione di Merida, fornendo la sua interpretazione del testo che riguarda l’abuso d’ufficio: “Se è vero che l’obbligo assunto sul piano internazionale è quello di ‘esaminare l’adozionè (‘shall consider adopting’) e non quello di ‘adottarè (‘shall adopt’), invece utilizzato nella stessa Convenzione per differenti e specifiche ipotesi corruttive, è pur vero che, senza dubbio, è in evidente contrasto con gli obblighi internazionali assunti, la condotta di uno stato che avendo già nel proprio corpus normativo l’ipotesi delittuosa in disamina ed essendo dunque quell’obbligo per esso tamquam non esset, decida invece di privarsene”. Insomma, come sostenuto anche dalla procura di Catania, “dal combinato disposto” degli articoli della Convenzione “discende un obbligo di mantenimento (rectius non abrogazione) di quelle misure già presenti nella legislazione italiana e dirette a tutelare la trasparenza della PA”. In altre parole, ratificando la Convenzione di Merida, che non prevede l’obbligo di introdurre il reato di abuso d’ufficio, l’Italia avrebbe comunque preso l’impegno a mantenere i reati già preesistenti, tra cui proprio l’abuso d’ufficio. Sarà la Corte costituzionale a valutare l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale e poi, eventualmente, a valutarne la fondatezza. Col risultato che, nel caso in cui la norma venisse dichiarata incostituzionale, verrebbe riportato in vita un reato abrogato. Per il momento non si può non ironizzare sull’improvvisa scoperta del diritto internazionale da parte delle procure, così come evidenziare la durezza delle parole usate dal tribunale di Firenze: “La scelta legislativa di abrogazione del delitto di cui all’art. 323 c.p. - si legge nell’ordinanza - non pare riconducibile a un legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore, ma si prospetta come arbitraria”. Per i giudici fiorentini, infatti, “non si è tenuto di conto che le ragioni poste a sostegno della spinta riformatrice (la c.d. ‘paura della firma’ o ‘burocrazia difensiva’) erano di fatto venute meno (sopravvivendo, forse, solo sul piano, del tutto irrilevante, soggettivo e psicologico di singoli funzionari) in ragione delle recenti riforme e del successivo (e ormai consolidato) orientamento giurisprudenziale di legittimità e dei principi enunciati dalla Corte costituzionale”. Ma cos’è questa se non una valutazione discrezionale da parte dei giudici? Un po’ poco per spingersi a definire addirittura “arbitraria”, e quindi incostituzionale, l’azione del legislatore. Avviso d’arresto: paradiso dei ladri e degli spacciatori di Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2024 Udienza dal Gip anche per reati di stupefacenti. “Grottesco” è l’interrogatorio preventivo dell’indagato, avvisato dal Gip che rischia di essere arrestato: parola del procuratore di Napoli, Nicola Gratteri. È lui che usa questo aggettivo durante una conferenza stampa sull’ennesima retata di spacciatori di droga a Caivano. E grottesche sono le storie che arrivano dai territori dove hanno iniziato ad applicare questa controversa norma introdotta dalla riforma Nordio. La prima l’ha raccontata questo giornale: un teste costretto a scappare e ad andare a vivere altrove, perché la banda di pusher che aveva denunciato ne ha scoperto il nome ed è andata a minacciarlo sotto casa. Il tutto in una città che per la sua sicurezza non riveliamo, ma dove fortissimo è il potere delle associazioni a delinquere di stampo mafioso. La nuova norma, dicevamo, impone “il contraddittorio anticipato” ribattezzato “avviso di arresto”, quando la richiesta del pm è fondata solo sul pericolo di reiterazione dei reati. Con eccezione di alcune tipologie di reati gravi (ma non la corruzione o i reati di Pubblica amministrazione), tra i quali però il legislatore - forse contento degli effetti che avrebbe avuto per scudare politici e colletti bianchi - si è dimenticato i reati di droga. Il legislatore si è dimenticato anche di fissare un termine al Gip per la decisione: lasciando all’indagato il tempo possibile per organizzare una eventuale fuga o la cancellazione delle prove. “L’indagato al giudice - secondo Gratteri - confesserà e così non andrà in carcere perché se ha confessato non c’è pericolo di fuga o reiterazione, se gli va male avrà i domiciliari. Ma i venditori di droga dai domiciliari hanno sempre continuato a fare il loro lavoro, e se uno spacciatore viene avvisato potrà far sparire le prove prima che venga bloccato. Se in casa ha un bilancino, le bustine per il confezionamento e sa che dovrà andare davanti al giudice per fare questo interrogatorio, è ovvio che pulirà casa e i carabinieri non troveranno nulla. Il ritrovamento di droga, attrezzature e altro materiale, da parte delle forze dell’ordine era determinante per le forze dell’ordine e la magistratura”. Proprio a Napoli si era ancorata una richiesta di arresto per il reato previsto e punito dall’articolo 73 del Testo unico sugli stupefacenti - produzione, traffico e detenzione illecita di droga - avanzata a luglio, quando l’avviso di arresto non era ancora in vigore. Il Gup aveva fissato l’udienza al 12 settembre, forse il primo caso in Italia. Altra storia che sarebbe ben etichettata dalle parole di Gratteri è quella che rimbalza da Palermo, dove tre giovani ladri resteranno a piede libero nonostante la Procura guidata da Maurizio de Lucia ne avesse chiesto l’arresto. È il risultato del garantismo in salsa meloniana, perché la riforma cucinata da Nordio prevede l’attribuzione delle ordinanze cautelari al gip in composizione collegiale. E visto che i giudici al tribunale di Palermo sono sotto organico, l’interrogatorio slitterà solo a fine ottobre. Così i tre giovani accusati di furto potranno restare liberi, e compariranno davanti al gip solo un mese dopo i loro complici, nel frattempo già finiti in manette, con l’interrogatorio di garanzia fissato la prossima settimana. I sette complici sono accusati di associazione per delinquere finalizzata a rapine ed estorsioni. Secondo le indagini condotte dai carabinieri e dalla Squadra mobile di Palermo, la banda avrebbe compiuto diversi furti di autovetture e di motocicli, e una rapina a mano armata. Il gruppo adottava il consolidato metodo del “cavallo di ritorno”, ovvero la restituzione del bene rubato alla vittima sotto pagamento, dai 300 fino a 1.500 euro. Agli indagati sono contestati 26 episodi di estorsione, 28 furti e 19 ricettazioni, inchiodati da video e intercettazioni. Il “cavallo di ritorno”, secondo Gratteri, è il brodo di coltura di mafie e camorre “che esistono solo se si interagisce con loro. Se si finisse di interagire con la camorra, di salutarla, allora sarebbe l’inizio della fine. Fino a quando invece di fare la denuncia ai carabinieri ti rivolgi al cavallo di ritorno, allora è un pozzo senza fondo”. La Cassazione: il contraddittorio va garantito anche al 41 bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 ottobre 2024 La sentenza numero 35463 della Corte di Cassazione ha fatto chiarezza su un importante aspetto del diritto penitenziario italiano, riguardante in particolare i detenuti sottoposti al regime del 41bis. Il caso di Alessio Attanasio, un detenuto che aveva presentato un reclamo contro il diniego di inoltro di un’istanza al ministro della Giustizia, ha portato alla luce alcune criticità procedurali e ha offerto l’opportunità alla Suprema Corte di ribadire principi fondamentali. Attanasio, trasferito da un carcere all’altro, aveva visto respinto il suo reclamo dal Magistrato di sorveglianza, il quale aveva motivato la decisione sostenendo che il trasferimento avesse determinato una “sopravvenuta carenza d’interesse” all’impugnazione. In sostanza, secondo il Magistrato, il detenuto non aveva più motivo di insistere con la sua richiesta, essendo stato spostato in un altro istituto. La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso di Attanasio, ha però espresso un parere diametralmente opposto. I giudici di legittimità hanno sottolineato che la decisione del Magistrato di sorveglianza era affetta da un errore di diritto. In primo luogo, ha ribadito l’importanza cruciale del contraddittorio nei procedimenti di sorveglianza. Anche quando un caso può sembrare di facile risoluzione, il detenuto deve sempre avere l’opportunità di presentare le proprie argomentazioni direttamente al Magistrato di sorveglianza. Questo principio garantisce che ogni decisione sia presa dopo aver considerato attentamente tutte le prospettive in gioco. La Cassazione ha inoltre affrontato la questione dell’interesse a impugnare in relazione ai trasferimenti dei detenuti. Ha chiarito che tale interesse non si estingue automaticamente quando un detenuto viene spostato da un istituto penitenziario all’altro. Se l’oggetto del reclamo non è intrinsecamente legato a una specifica struttura carceraria, il detenuto mantiene il diritto di vedere la sua questione esaminata e risolta, indipendentemente dalla sua nuova collocazione. Infine, la Cassazione ha riaffermato il principio della perpetuatio iurisdictionis nel contesto penitenziario. Questo concetto giuridico stabilisce che, una volta avviata una controversia, la competenza del giudice a decidere su di essa rimane inalterata, anche se il detenuto viene trasferito in un’altra giurisdizione. Questo principio assicura continuità e coerenza nel processo giudiziario, evitando potenziali interruzioni o complicazioni dovute a cambiamenti nella situazione logistica del detenuto. Questa sentenza della Cassazione ha un’importanza che va oltre il singolo caso. Essa rappresenta un passo avanti nella tutela dei diritti dei detenuti, in particolare di quelli sottoposti al regime del 41 bis dove i diritti subiscono una compressione. Tuttavia, la ragione per cui è stato introdotto non era quella di infliggere sofferenze inutili, ma solo di impedire ai detenuti di far inviare ordini al proprio gruppo criminale di appartenenza. La Corte ha quindi stabilito che i detenuti, pur essendo privati della libertà, conservano i loro diritti fondamentali, nel rispetto dei limiti previsti dalla legge. Niente immunità per i membri del Csm se esprimono opinioni lontano dal plenum di Simona Musco Il Dubbio, 2 ottobre 2024 La Cassazione boccia il ricorso di un ex laico, che dovrà versare 15mila euro per aver diffamato una toga. “La dichiarazione espressa (dal consigliere del Csm, ndr) in un contesto di pubblica riunione si pone certamente al di fuori del ristretto contesto consiliare cui si riferisce l’esimente in esame (articolo 32- bis L. n. 195/ 1958, ndr), laddove non sussista una occasionalità necessaria con l’esercizio della funzione consiliare, ma si ponga quale pretesto per un’affermazione diffamatoria nei confronti di una persona”. A stabilirlo è la terza Sezione civile della Cassazione, ordinanza n. 25876 del 27 settembre scorso, che ha respinto il ricorso di un ex laico del Consiglio superiore della magistratura, condannato a risarcire gli eredi di un magistrato. La toga - ora defunta - aveva citato in giudizio il laico per ottenere il risarcimento dei danni morali subiti a causa di dichiarazioni da lui ritenute diffamatorie e fatte durante un convegno giuridico. L’allora laico, avvocato, infatti, aveva espresso pubblicamente giudizi negativi sulla capacità professionale della toga, che all’epoca aspirava alla carica di presidente del Tribunale di Melfi. In primo grado, il Tribunale aveva respinto la richiesta di risarcimento, ritenendo che il laico fosse coperto dalla non punibilità prevista per i membri del Csm per opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni. Tuttavia, la Corte d’Appello ha ribaltato la decisione, sostenendo che le opinioni del laico non erano state espresse durante una discussione consiliare, ma al termine di un convegno, cosa che rendeva l’esimente non applicabile. I giudici avevano così riconosciuto il delitto di diffamazione condannando l’avvocato a risarcire 15mila euro per il danno morale subito dalla toga. Con il primo motivo, l’ormai ex laico contesta la decisione della Corte d’Appello, che ha ritenuto sussistente un “giudicato implicito” sul fatto diffamatorio, cioè che il reato di diffamazione fosse stato definitivamente accertato. Secondo il ricorrente, infatti, la Corte d’Appello ha interpretato erroneamente la sentenza di primo grado, considerando un’affermazione marginale come una conferma del reato. Secondo l’ex laico, la riproposizione delle sue difese sarebbe stata dunque sufficiente, senza la necessità di un appello incidentale. La Cassazione ha però respinto questo argomento, affermando che, in assenza di un’impugnazione formale da parte dell’ex laico contro l’accertamento del fatto illecito, si è formato un giudicato implicito. Questo significa che la diffamazione è stata ritenuta provata in modo definitivo. Il secondo motivo del ricorso riguarda l’applicazione dell’esimente prevista dall’articolo 32- bis della legge n. 195/ 1958, che esonera i membri del Consiglio superiore della magistratura dalla responsabilità per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni. Si tratta di una guarentigia a tutela “dell’indipendenza del Consiglio (e indirettamente, della magistratura) - si legge nell’ordinanza - “nella misura necessaria a preservarlo da influenze”, con la conseguenza che l’operatività dell’esimente deve restare circoscritta alle sole manifestazioni di pensiero, in concreto attinenti all’oggetto della discussione e strumentalmente collegate all’esercizio del voto”. L’ex laico sostiene che la Corte d’Appello abbia erroneamente ritenuto inapplicabile questa esimente alle sue dichiarazioni, che a suo avviso erano funzionali al futuro esercizio del voto per l’assegnazione di un incarico direttivo a un magistrato. Il Palazzaccio ha però bocciato tali critiche, ritenendo i motivi di impugnazione in parte inammissibili e in parte infondati. La Corte d’Appello, scrivono i giudici di legittimità, avrebbe infatti correttamente valutato che l’esimente si applica solo alle opinioni espresse nel corso di discussioni consiliari e strettamente legate all’esercizio del voto. Le dichiarazioni in questione, invece, sono state fatte in un convegno pubblico e non nell’ambito consiliare. L’esimente non può estendersi a dichiarazioni fatte al di fuori del contesto consiliare e non collegate direttamente alle funzioni del Csm, così come sarebbe avvenuto in questo caso, perché ciò si tradurrebbe in una libertà indiscriminata a diffamare. Nel terzo e ultimo motivo del ricorso, l’ex laico contesta la quantificazione del danno per diffamazione stabilita dalla Corte d’Appello: secondo il ricorrente sarebbero state violate le norme di diritto in materia di risarcimento del danno, decidendo in modo arbitrario e senza adeguata prova del pregiudizio subito dalla parte offesa. In particolare, l’ex laico critica la decisione della Corte di liquidare il danno in via equitativa (cioè secondo discrezione), senza sufficienti prove concrete del danno non patrimoniale subito. La Cassazione ha dichiarato inammissibile il motivo, spiegando che la Corte d’Appello ha correttamente applicato i principi del diritto, ricorrendo al notorio e alle presunzioni per valutare il danno subito dalla vittima. Ha considerato la gravità dell’offesa e il contesto sociale, nonostante l’assenza di risonanza mediatica, e ha valutato equo un risarcimento di 15mila euro. Inoltre, la valutazione equitativa del danno è una decisione di merito del giudice e non può essere censurata in sede di legittimità se è congruamente motivata e il potere di liquidare il danno equitativamente è discrezionale e previsto dal codice civile (articoli 1226 e 2056), soprattutto quando è difficile determinare con precisione l’ammontare del danno. Oristano. Stefano Dal Corso, l’autopsia sul corpo del detenuto rivela gli errori degli investigatori di Andrea Ossino La Repubblica, 2 ottobre 2024 L’avvocato della famiglia: “I consulenti del pm contestano la mancata autopsia fatta nell’immediatezza. Nella relazione si evidenziano comunque una serie di disattenzioni della procura. Adesso abbiamo chiesto altre indagini”. “Sul corpo di Stefano Dal Corso sono state trovate tracce sospette di Dna”. Ma nel fascicolo mancano tutti i documenti necessari a chiarire le cause del decesso. Emerge anche questo dalla relazione dei medici incaricati di effettuare l’esame autoptico sul detenuto romano morto il 12 ottobre del 2022 nel carcere di Oristano. I dottori parlano di sopralluoghi in cella, esami, materiale fotografico e certificati medici. E scrivono: “Nulla di tutto ciò è presente”. I documenti sono pochi e imprecisi. I certificati medici non sono neanche firmati. E l’esame ai polmoni necessario per capire le cause della morte non è stato fatto. Adesso è ormai tardi. Così l’autopsia chiesta per sette volte dalla famiglia della vittima e ottenuta solamente otto mesi fa porta alla luce solo nuovi misteri. I medici nominati dai pm e anche quelli chiamati in causa dall’avvocato della famiglia, Armida Decina, concordano: impossibile capire con certezza se il 42enne si sia suicidato o sia stato strangolato dopo aver discusso con alcuni secondini, come rivelano due testimoni. Le carenze della procura e le nuove “tracce di Dna” - Dal giorno della morte è infatti trascorso troppo tempo. I legali della famiglia hanno continuato a ripeterlo ma solo dopo 7 richieste, conferenze stampa a Montecitorio, due testimoni, una telefonata anonima, un libro con misteriose rivelazioni e qualche ispezione ministeriale l’esame tanto agognato è stato effettuato. Tutti concordano sul fatto che è stato perso troppo tempo, che la documentazione è carente e che sul corpo del detenuto non ci sono “lesioni ossee di natura traumatica”, dunque non è morto “per rottura dell’osso del collo”, come sostenevano le relazioni dei primi medici, quelle che hanno portato ad archiviare il caso, poi riaperto. E poi ci sono le parole dell’avvocato Armida Decina: “I consulenti del pm contestano la mancata autopsia fatta nell’immediatezza. Nella relazione si evidenziano comunque una serie di disattenzioni della procura. Adesso abbiamo chiesto altre indagini perché sono state trovate altre tracce di Dna che non appartengono a Dal Corso”.Il consulente del pm dice che “non sono state rilevate lesioni dovute a terzi” ed è difficile che qualcuno abbia strangolato Dal Corso perché servirebbe una gran forza, ma la controparte fa notare che la vittima era imbottita di farmaci e il tempo trascorso rende impossibile sapere le dosi precise, se quei medicinali lo abbiano stordito al punto tale da non essere in grado di difendersi. Il tutto perché chi ha analizzato inizialmente il corpo è “privo di necessaria competenza medico legale” e ha fatto una diagnosi “frettolosa” e “generica”. Del resto non capita spesso di leggere la parola “maleficio” in un certificato medico. Il caso di Stefano Dal Corso - Doveva essere la fine e invece è un nuovo inizio. E dal principio occorre dunque partire. Da quando i parenti di Stefano Dal Corso si sono accorti che qualcosa non andava: le scarpe indossate dalla vittima non erano le sue, l’inferriata alla quale aveva legato il cappio era troppo bassa e il taglierino utilizzato per stracciare il lenzuolo era spuntato dal nulla. Lo stesso copriletto utilizzato per il cappio era intatto e il letto ben fatto. E poi c’erano delle strane macchie di sangue. Alla procura però non bastava. Un medico generico aveva detto che si era rotto l’osso del collo impiccandosi e questo bastava. Il caso è stato archiviato sulla base di relazioni di servizio arrivate mesi dopo la morte: per gli investigatori un detenuto si è ucciso poco prima di essere scarcerato, dopo aver scritto una lettera alla figlia in cui diceva di voler ricominciare una vita insieme. La vicenda sembrava finita. Prove, testimoni e libri oscuri - Poi un paio di detenuti hanno iniziato a parlare dicendo di aver sentito urla, spiegando che Dal Corso aveva avuto screzi con “le guardie”. Un anonimo che dimostrava di sapere molte cose interne al penitenziario ha anche telefonato alla sorella della vittima dicendo che il 42enne era stato ucciso perché aveva assistito a un rapporto sessuale tra due secondini. Inoltre a casa della donna un finto fattorino Amazon aveva consegnato un libro di una mistica austriaca con due capitoli evidenziati: “La confessione” e “La morte”. Neanche ciò è bastato ai pm per disporre un’autopsia. L’intervento dei media e di alcuni parlamentari forse invece hanno ottenuto un effetto. Grazie all’impegno dei familiari e dell’avvocato Armida Decina il caso è stato riaperto e l’autopsia è stata effettuata. Ma dopo due anni, quando il corpo è ormai in elevato stato di decomposizione. Roma. I Garanti dei detenuti Anastasìa e Calderone in visita all’VIII sezione di Regina Coeli garantedetenutilazio.it, 2 ottobre 2024 “Siamo consapevoli che la gestione di queste situazioni di crisi risulta sempre più difficile, ma i diritti fondamentali della persona e dei lavoratori non possono essere messi a rischio da inefficienze di sistema”. Questa mattina i Garanti regionale e comunale dei detenuti, Stefano Anastasia e Valentina Calderone, sono stati in visita nella VIII sezione della Casa circondariale di Regina Coeli, interessata dall’incendio e dai danneggiamenti delle proteste dei detenuti di mercoledì scorso. Nonostante la distruzione e la rimozione di gran parte delle vetrate dei corridoi della sezione, tangibile è ancora l’odore di fumo e una stanza è ancora interessata da un piccolo focolaio attivo. L’impianto elettrico è fuori uso, così come uno dei due cortili per il passeggio, su cui corre il rischio di caduta di tegole dal tetto. Giovedì scorso l’ufficio tecnico del Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria è intervenuto per la valutazione dei danni e dell’agibilità della struttura. Al momento della visita, però, la Direzione non aveva ancora ricevuto indicazioni in ordine all’agibilità della struttura e ai lavori da porre in essere. I Garanti hanno quindi scritto al Provveditore Maurizio Veneziano e al Capo Dipartimento Giovanni Russo, sollecitando urgenti indicazioni operative alla Direzione dell’Istituto. “Ricordiamo - scrivono i Garanti - che risulta già affidato l’incarico per l’intero rifacimento della sezione, con la relativa dotazione finanziaria”, mentre peraltro sarebbe grave se detenuti e agenti continuassero a vivere e a operare in ambienti inidonei alla vita di comunità e all’esercizio dell’attività lavorativa. “Siamo consapevoli - dichiarano i Garanti - che la gestione di queste situazioni di crisi risulta sempre più difficile in un sistema penitenziario regionale e nazionale gravemente sovraffollato, ma i diritti fondamentali della persona e dei lavoratori non possono essere messi a rischio da inefficienze di sistema”. Nella giornata di oggi sono 1161 le persone detenute nel carcere di Regina Coeli, a fronte di 626 posti detentivi regolamentari effettivamente disponibili, per un tasso di affollamento del 185%. Nella ottava sezione nella giornata odierna erano presenti 115 detenuti. Biella. La Garante: “Detenuti sempre più depressi, in inverno al freddo nel vecchio padiglione” newsbiella.it, 2 ottobre 2024 Nel pomeriggio di ieri la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Sonia Caronni ha esposto la sua relazione di fine mandato in consiglio comunale a Biella. Più ore di visite psichiatriche e psicologiche per i detenuti, più mediatori culturali di lingua madre e problemi di riscaldamento nel padiglione vecchio tra le criticità segnalate dal Garante. “Oggi gli ospiti sono 422, di cui 182 migranti, quando la capienza massima è di 395. Un trend in lieve calo rispetto agli anni addietro - ha dichiarato Sonia Caronni - in linea con la media nazionale. Negli anni passati siamo arrivati ad ospitare fino a 450 detenuti. Ci sono più funzionari giuridici pedagogici: oggi sono 8, negli anni prima erano stati prima 5 e inizialmente solo 2”. Durante il suo mandato Sonia Caronni ha fatto 652 colloqui individuali e tra le richieste principali ce ne sono state che riguardano la salute (112), in particolare mentale (173). Un dato che però allarma è la povertà di queste persone: molte di loro arrivano senza nemmeno delle scarpe di gomma, un asciugamano. In questo caso le segnalazioni sono state 213. Al giorno d’oggi in carcere ci sono tante persone sole, senza famiglia. Quello che preoccupa è che tanti di loro entrano depressi e il carcere amplifica questo loro malessere perchè al suo interno non ci sono strumenti per agire”. Elemento critico tutto biellese è poi lo sconto di pena che per la garante arriva a fine della detenzione: “Alcune volte addirittura a 2 giorni dalla pena principale, motivo per cui non se ne può usufruire”, sottolinea Caronni. Corsi professionali? “Nei miei 2 mandati hanno chiuso le classi del CPIA e il biennio del Liceo Artistico perchè si dice che i detenuti non frequentano i corsi - commenta Sonia Caronni - . Quello che penso invece io è che serve una spinta per queste persone ad avvicinarsi allo studio. Un tempo si entrava in carcere con la speranza di uscire, oggi si entra e non si intravede più la fine della detenzione. È svanita la speranza di un futuro, le persone entrano con l’idea che non usciranno più”. Tra i grandi problemi del carcere ce ne sono anche strutturali, sia nel padiglione vecchio che in quello nuovo. “Ci sono infiltrazioni nel salone polivalente per il cinema e lo spettacolo - spiega il Garante. Nel corridoio del nuovo padiglione anche, e la situazione non è accettabile. Ci sono infiltrazioni nelle camere nel nuovo padiglione e negli ultimi tre anni la caldaia del vecchio non è stata in grado di scaldarlo perché c’è un problema con il teleriscaldamento, non dialoga con la caldaia originaria. I medici, gli insegnanti hanno problemi a visitare i pazienti, a tenere loro lezioni”. Biella. Marisa Boccadelli è la nuova Garante dei detenuti ilbiellese.it, 2 ottobre 2024 Marisa Boccadelli è la nuova Garante per i diritti dei detenuti di Biella. L’ha eletta il Consiglio comunale martedì pomeriggio con i voti della maggioranza. Tre preferenze, quelle dai banchi dell’opposizione di Buongiorno Biella e Costruiamo Biella, sono andate all’altra candidata Federica Valcauda, militante radicale e dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, in corsa alle ultime elezioni europee con Azione. Pd, Movimento 5 Stelle e i civici di Biella c’è hanno lasciato l’aula senza partecipare al voto. Un’aula da cui, poco prima dell’inizio del dibattito, il presidente del consiglio comunale Luca Zani aveva fatto uscire tutti esclusi i 32 consiglieri, il sindaco e la giunta per una parte di seduta che si è svolta a porte chiuse e con le telecamere del nuovo sistema per le dirette da palazzo Oropa che sono rimaste temporaneamente spente. Boccadelli è stata a lungo referente del Fai biellese. Pochi mesi fa aveva scritto un intervento in dissenso con i vertici provinciali del Fondo ambiente italiano per le loro critiche al progetto della nuova piazza Vittorio Veneto. È stata anche insegnante volontaria nella casa circondariale di via dei Tigli quando era tra i componenti dell’associazione Gufo Re, presieduta dall’attuale consigliere regionale di Fratelli d’Italia Davide Zappalà. Prima dell’elezione, la garante uscente Sonia Caronni ha tenuto la sua relazione di fine mandato, un incarico durato per dieci anni. “Ora che l’esperienza si è conclusa” ha scritto sul suo profilo social “provo un profondo senso di gratitudine per la vita che mi ha dato l’opportunità di vivere una simile esperienza evolutiva e di crescita. Sento tra i capelli il vento del cambiamento, lo sento così forte che non posso fare a meno di lasciarmi trascinare con il cuore pieno dei volti dei detenuti, dei funzionari giuridico pedagogici e degli agenti di polizia penitenziaria”. Lodi. Sovraffollamento alla Cagnola: “Le celle del carcere scoppiano” di Mario Borra Il Giorno, 2 ottobre 2024 La consigliera regionale del Pd Vallacchi in visita. “Nota positiva le tante iniziative pensate per i detenuti”. Il carcere di Lodi scoppia. Il numero dei detenuti, infatti, dovrebbe essere la metà di quelli presenti ora: la denuncia arriva direttamente dalla consigliera regionale Pd, Roberta Vallacchi la quale ieri ha fatto il punto, mettendo in luce la principale criticità legata al sovraffollamento. Secondo i dati in suo possesso appresi durante la visita alla struttura di via Cagnola, le persone dietro alle sbarre sono ottanta, ma dovrebbero essercene la metà: di questi sessanta sono tossicodipendenti, “molti dei quali potrebbero accedere alla pena alternativa nelle comunità terapeutiche, ma la lista d’attesa è davvero lunga per carenza di posti”. Con l’appoggio del Serd dell’Asst esiste un percorso di preparazione per chi ha problemi di dipendenza e che intende scegliere l’alternativa della comunità terapeutica, anche se i posti in queste strutture sono molto pochi. “Ne servirebbero di più per consentire a queste persone di essere curate in un luogo idoneo e conseguentemente alleggerire le carceri” ha spiegato l’esponente dem. Vallacchi però riconosce il lavoro svolto dalla direttrice dell’istituto di pena, Anna Laura Confuorto la quale “sta facendo un ottimo lavoro per permettere che il periodo detentivo abbia veramente una funzione rieducativa e riabilitativa”. Infatti, “si sta portando avanti all’interno un operato che, in rete con aziende ed associazioni, può in qualche modo aiutare la crescita di chi è recluso”. Inoltre, sottolinea la consigliera regionale, “nel carcere si stanno cercando di aumentare tutte le attività che si possono fare all’interno dell’istituto, ma anche di creare dei ponti con l’esterno che riguardano la possibilità di lavorare per i detenuti che possono fruire di questa misura”. Udine. Per la sanità in carcere visite specialistiche e una nuova psicologa rainews.it, 2 ottobre 2024 Dopo l’allarme sollevato dai Garanti e da Enrico Sbriglia, neo insediato Garante regionale per i diritti della persona, in arrivo un potenziamento della sanità nel penitenziario. L’azienda sanitaria verificherà la possibilità di strutturare un calendario di visite specialistiche da erogare direttamente all’interno del carcere, concentrandosi sulle patologie che si manifestano con più frequenza tra i detenuti. Lo ha annunciato il direttore generale dell’azienda sanitaria Friuli centrale Denis Caporale dopo aver visitato il carcere di Udine insieme all’assessore regionale alla salute Riccardo Riccardi. Con loro il direttore del dipartimento di salute mentale Marco Bertoli e la nuova psicologa del carcere Antonella Esposito al suo primo giorno di servizio. “Coadiuvata dall’equipe del dipartimento di salute mentale darà supporto ai detenuti per affrontare la situazione complessa che stanno vivendo” dichiara in una nota Riccardi rimarcando di aver assicurato alla professionista la massima collaborazione per mettere a sua disposizione gli strumenti più efficaci per migliorare le condizioni della popolazione carceraria. Durante la visita di Riccardi e Caporale la stessa direttrice del carcere Tiziana Paolini ha sottolineato la necessità che rispetto al passato la presa in carico evidenzi segnali di miglioramento. “Sull’Istituto penitenziario di Udine l’attenzione è alta” rimarca Riccardi ricordando che la salute di chi è in carcere è affidata all’azienda sanitaria e assumendosi l’impegno affinché il sistema-salute metta in campo tutti gli sforzi possibili per dare risposte adeguate al bisogno di salute dei detenuti ed evitare che la malattia diventi un inaccettabile aggravio di pena. Una prima risposta concreta dopo l’allarme sollevato dai garanti dei detenuti sulla sanità penitenziaria, e da ultimo da Enrico Sbriglia neo insediato garante regionale per i diritti della persona, proprio sulla scorta delle segnalazioni dei direttori delle carceri. Piacenza. Reinserimento dei detenuti, Avviso pubblico rivolto a Enti del terzo settore comune.piacenza.it, 2 ottobre 2024 Percorso di co-programmazione volto a ideare interventi a favore dell’inclusione sociale delle persone in esecuzione penale esterna. Domande entro il 17 ottobre. L’introduzione delle misure alternative o sostitutive alla detenzione ha reso più evidente l’importanza di valorizzare l’utilizzo degli strumenti della co-programmazione per la definizione dei percorsi di reinserimento e di inclusione sociale rivolti alle persone condannate in carico all’Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna (Udepe), residenti o domiciliate nelle province di Reggio Emilia, Parma e Piacenza per i quali l’Ufficio è territorialmente competente. L’Avviso pubblico prevede l’istituzione di Tavoli di co-programmazione che avranno il compito di individuare i bisogni da soddisfare e di ideare i servizi da attivare per rispondere in maniera mirata e adeguata alle necessità delle persone sottoposte a misure e sanzioni di comunità. L’obiettivo finale è quello di ridurre i tassi di recidiva e di superare la condizione di marginalità delle persone in esecuzione penale esterna. Possono aderire al procedimento di co-programmazione gli Enti iscritti nel Registro unico nazionale del terzo settore (RUNTS). I soggetti interessati dovranno presentare apposita domanda di partecipazione trasmettendo la stessa entro le ore 12 del 17 ottobre 2024 esclusivamente via PEC a: prot.uepe.reggioemilia@giustiziacert.it. Scrivendo allo stesso indirizzo e-mail sarà possibile richiedere eventuali chiarimenti all’UDEPE di Reggio Emilia entro e non oltre il 10 ottobre 2024. Il procedimento di co-programmazione si svolgerà sulla base di un calendario di incontri che verrà reso noto ai partecipanti tramite relativa convocazione dei Tavoli di co-programmazione, inoltrata via PEC all’indirizzo fornito dall’Ente del terzo settore ammesso alla procedura. La partecipazione ai Tavoli non attribuisce ai soggetti coinvolti alcun diritto a contribuire alla realizzazione di attività che potranno essere avviate attraverso successive procedure di co-progettazione ad evidenza pubblica: https://www.giustizia.it/giustizia/page/it/scheda_di_sintesi_gare_o_contratti?contentId=SBG1421584# Roma. “I ragazzi non sono il reato che hanno commesso”, la storia della falegnameria di Casal del Marmo di Gabriel Bernard fanpage.it, 2 ottobre 2024 Viaggio nella falegnameria dove i giovani detenuti di Casal del Marmo costruiscono la loro seconda possibilità. E imparano che non sono solo il loro reato. “Una delle cose che noi diciamo sempre ai ragazzi è che loro non sono il reato che hanno commesso, quello è un piccolo errore che è capitato nell’arco della loro vita e non deve condizionare tutta la loro vita”. Viviana Petrucci è la direttrice dell’associazione Arpjtetto, attiva a Roma nel quartiere Ostiense. Oltrepassato il cancello dell’associazione, due cartelli segnalano la casa-famiglia e il centro “Gli Scatenati”: nato nel 2013 per accogliere minori e giovani adulti in misura penale esterna, il centro promuove laboratori di falegnameria, teatro, scrittura, sport e giardinaggio. Due anni fa, è stato avviato il progetto di falegnameria FuoriBolla, ideato dall’architetto Giulio Mattioli. Da marzo, il progetto si è ampliato con la gestione della falegnameria all’interno dell’Istituto Penale per i Minorenni di Casal del Marmo, offrendo continuità tra attività interne ed esterne. “La presenza di questo progetto lì dentro è molto importante per i ragazzi. A volte sembra essere una delle poche cose normali che gli succedono mentre sono lì”, racconta Mattioli, evidenziando le difficoltà della falegnameria di Casal del Marmo. “Il sovraffollamento crea una serie di incompatibilità tra i detenuti, a volte individuali, per cui il detenuto ‘x’ non può incontrare il detenuto ‘y’, altre volte legate a dinamiche di gruppo. Questo complica l’organizzazione della falegnameria: dovremmo avere sei ragazzi, ma spesso ce ne sono solo due, a volte uno”. “Ciò che ha fatto il decreto Caivano è inasprire tutte le misure”, spiega Francesco Montalbano che è condirettore del centro “Gli Scatenati”. “Ciò che è successo, prosegue, è che è proprio che non è più favorito l’approccio educativo, ma l’approccio punitivo”. Rischiando di vanificare gli sforzi di chi lavora quotidianamente per il reinserimento sociale dei minori. Trieste. Illy Caffè e Seconda Chance per la formazione professionale dei detenuti illy.com, 2 ottobre 2024 Da sempre per noi la sostenibilità, oltre che ambientale, è anche sociale ed economica. Per questo siamo orgogliosi di offrire il nostro sostegno all’associazione no profit Seconda Chance, fondata nel 2022 da Flavia Filippi con lo scopo di creare un ponte tra il mondo delle carceri e le imprese. I nostri trainer di Università del Caffè interverranno nei corsi di pasticceria e panetteria, di Barista e Cameriere di Sala organizzati nella Casa circondariale di Trieste, all’interno di un programma volto ad offrire la possibilità di frequentare corsi di aggiornamento professionale o di studio, per permettere ai detenuti di acquisire nuove competenze fondamentali, in settori come quello della ristorazione, vivere in modo più costruttivo la detenzione e avere una possibilità di reinserimento in società una volta scontata la pena detentiva. La conferenza del settembre ha visto riuniti tutti gli enti locali e le realtà che collaborano alla formazione per i detenuti, nell’ottica di definire una visione progettuale allargata. Napoli. De Giovanni a Poggioreale: “La lettura è libertà” di Tiziana Cozzi La Repubblica, 2 ottobre 2024 “Leggere allena i muscoli della fantasia e l’immaginazione salva la vita. Consente di evadere. Non dovrei dirlo qui, ma è così”. Strappa un sorriso e accende gli sguardi dei 24 detenuti dei padiglioni Firenze e Genova, lo scrittore Maurizio De Giovanni, invitato ieri nel carcere di Poggioreale per un incontro organizzato dal garante dei detenuti Samuele Ciambriello, nell’ambito del progetto “Parole in libertà”. Prende coraggio Giovanni, uomo di mezza età, giacca a quadri, camicia bianca, cravatta, un libro dell’autore tra le mani, insolitamente elegante in un contesto del genere, alza la mano e confessa: “Sto scrivendo anche io un libro, sa? Racconto della mia storia prima di entrare qui, di quanto sono cambiato… Ce la sto mettendo tutta”. “Bravo, sarò felice di leggerti - lo incoraggia lo scrittore - è difficile scrivere di sé, serve molta obiettività, ricordatelo quando scrivi”. Un’ora di conversazione scorre nella nuova biblioteca della casa circondariale, inaugurata due settimane fa con un incontro con il direttore di Repubblica Maurizio Molinari e con un’opera di Lello Esposito. Un dibattito a cui sono intervenuti, assieme ai detenuti e al garante Ciambriello, il vicedirettore del carcere Stefano Martone. “Nessuno è senza ferite - prosegue De Giovanni - tutti portano dolori, malinconie. E a voi ho portato un libro contro i pregiudizi, sulle apparenze, sui giudizi che pesano”. Il volume, che alcuni dei detenuti tengono tra le mani, è “Pioggia”, 12esimo titolo dei “Bastardi di Pizzofalcone”. “Com’è nato questo romanzo? Come si fa ad avere l’idea giusta?” chiede il 33enne in prima fila, maglietta nera, jeans grigi e sguardo attento. “La prima cosa da fare è dare al lettore un odore, un sapore - risponde lo scrittore - il vento, il mare”. Il caso narrato in “Pioggia” è quello di Leonida Brancato, un anziano avvocato penalista, da tempo in pensione, ucciso da qualcuno che ha poi infierito sul suo cadavere. Antonio è un uomo in camicia a righe, capelli grigi, siede in quarta fila e il libro l’ha letto tutto d’un fiato. “Non è un romanzo consolatorio, ha un finale brutto da digerire - spiega, improvvisando una recensione, mentre lo scrittore annuisce - il colpevole è un’altra vittima. E poi, ci sono tanti passaggi riconoscibili nei fatti di cronaca, nella nostra città…”. E poi, ancora. “Cosa accade quando un avvocato non difende bene il suo assistito e il giudice condanna senza guardare oltre?”. Il tema della presunta innocenza e degli errori giudiziari torna più di una volta. La platea è composta dai detenuti dei due padiglioni Firenze e Genova, come detto: il primo ospita chi entra per la prima volta in carcere, il secondo chi ha pena definitiva. “Il nostro progetto è uno spiraglio per quanti sono costretti a vivere in celle con otto persone - ricorda Ciambriello - su 2.077 detenuti oggi a Poggioreale, contro la capienza massima di 1.600, solo 800 hanno pena definitiva”. È nato per questo il progetto “Parole in libertà”, per portare qualche spiraglio di cultura a chi ha orecchie per ascoltare. Infatti, tra i reclusi, c’è chi, in tuta blu e sguardo basso, in cella ha cominciato a scrivere poesie, la sua timidezza gli ha impedito di fare domande allo scrittore ma poi gli si avvicina alla fine, per una stretta di mano. “Non conta quante volte siamo caduti, ma conta il coraggio di sapersi rialzare” li sprona Ciambriello. “Il titolo del libro - commenta il vicedirettore Martone - rimanda a qualcosa di cui abbiamo bisogno: la purificazione per poter riemergere”. Alla fine De Giovanni si congeda, leggendo un brano della sua raccolta “L’ultimo passo di tango”, si appresta al firmacopie, chiedendo se riescono a guardare la partita del Napoli in tivù. “Un atto di gran generosità dovuto al cardinale don Mimmo Battaglia che ha pagato l’abbonamento” confessa Ciambriello. “Chi legge - conclude De Giovanni - si pone delle domande, è portato a pensare, a riflettere, a essere libero. Essere libero è difficile. Leggere ti consente di non impazzire. Voi scrivete con le parole vostre, scrivete come pensate. Così tutto sembrerà più vero”. Milano. Quando l’arte riqualifica il carcere di Luca Cereda Famiglia Cristiana, 2 ottobre 2024 “L’arte è il ponte che porta in carcere la città di Milano e viceversa. E questo ciò di cui abbiamo bisogno”, a dirlo è il direttore del penitenziario milanese di San Vittore, Giacinto Siciliano durante la visita alla mostra “Gli artisti sono quelli che fanno casino”, promossa dal ReverseLab del Politecnico di Milano che ha affiancato un artista di fama internazionale come Maurice Pefura ai detenuti. Era un seminterrato destinato alle celle di isolamento dei detenuti degli “anni di piombo” e poi ai mafiosi delle prime inchieste contro le cosche di ‘ndrangheta e Camorra in Lombardia nel cuore della casa circondariale ‘Francesco Di Cataldo’ di Milano, noto come carcere di San Vittore. Un luogo - quello situato al piano seminterrato del primo raggio, abbandonato da alcuni decenni, che oggi è stato riqualificato grazie all’intervento di tesisti, ricercatori e professori del Politecnico di Milano, e diventato prima un laboratorio e ora è una vera e propria galleria d’arte contemporanea aperto alla città. “Gli artisti sono quelli che fanno casino. Frammenti dal carcere di San Vittore”. Questo è il titolo della mostra ma anche il sinonimo del capovolgimento totale della funzione dello spazio detentivo. È il motivo ispiratore di Milano San Vittore ReverseLab, un progetto nato dalla collaborazione tra la casa circondariale ‘Francesco Di Cataldo’, il Politecnico di Milano e il Padiglione d’Arte Contemporanea (Pac), realizzato grazie al contributo di Fondazione di Comunità Milano, in collaborazione con Forme Tentative e Philo - Pratiche filosofiche. Per tutto il mese di ottobre chiunque può visitate le istallazioni, ma il dono più grande va chi sta dentro “che soffro per spazi vecchi e ridotti”, chiosa il direttore del penitenziario Giacinto Siciliano. Il carcere nel cuore del capoluogo lombardo è tra gli istituiti di pena più affollati d’Italia, con oltre 1.000 detenuti su 450 posti. “All’interno lavorano anche 500 persone tra agenti, educatori e personale amministrativo, tutti noi insieme ai detenuti abbiamo bisogno di questa riqualificazione e di far entrare gli studenti, i cittadini e il bello per guardare ai problemi con spirito d’iniziativa”, chiosa Siciliano. Sul tema si è espresso anche Mauro Palma, giurista, fondatore dell’associazione Antigone e fino a inizio 2024 Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale: “Una sentenza recente ha dato ragione ad un detenuto che denunciava il fatto di non potere vedere il sole e la luna fuori dalla finestra. Ecco, questo lo potremmo chiamare Diritto al cielo. Ed è importante. Poter puntare alto lo sguardo e sognare vuole dire coltivare frammenti di speranza e raccogliere la forza di lottare per quello cui si tiene, in questo caso auspicabilmente la vita”. L’allestimento della mostra è stato curato dall’artista internazionale Maurice Pefura che si è chiesto “con cosa posso coinvolgere e far lavorare in modo artistico delle persone detenute? La risposta è stata nel formato “ristretto” [come nel gergo burocratico delle carceri viene definito il detenuto ndr] del post-it”, spiega l’artista. Così l’opera si compone di migliaia e migliaia di piccole finestre disegnate ad acquarello alternate da centinaia di post-it colorati scritti o disegnati dalle persone che vivono dietro le sbarre: i carcerati così come gli agenti di Polizia penitenziaria. Questo progetto è l’ultimo frutto, in ordine di tempo, “del lavoro di rete che ha messo insieme istituzioni, associazioni e atenei”, aggiunge Francesca Cognetti, delegata della Rettrice del Politecnico al programma Off Campus, nato per creare piccole “basi” dell’università in luoghi di Milano che sono marginali e fragili e hanno bisogno di visibilità. Il laboratorio permanente inaugurato, ReverseLab, sarà gestito dall’Off Campus del Politecnico ma partecipano tra gli altri anche Bocconi e Bicocca - ad esempio - con uno sportello legale. “Il carcere può essere un posto di appiattimento, ma può essere un posto di grande fermento nel momento in cui lo si trasforma in un luogo di attenzione in cui si svolgono attività; allora si scoprono risorse e anche talenti. La presenza di un laboratorio di progettazione permanente come Off Campus San Vittore, ora attivo sul progetto ReverseLab, crea i presupposti per ragionare sugli spazi ma anche sulle persone, per raccontare un altro carcere possibile. È un’occasione per far entrare i giovani all’interno del carcere, cambiare la prospettiva dal quale lo si osserva e coinvolgere in questa visione gli studenti, i docenti, gli operatori e gli ospiti della struttura. Per noi questo è importante: aprire alle persone per aprire nuove possibilità; è importante l’idea che il carcere possa diventare un luogo dentro la città, e che possa avere qualcosa di buono da raccontare”, incalza rispetto alla bontà di queste collaborazione e del progetto in sé, Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale Francesco Di Cataldo. Che aggiunge: “Il coraggio che ci è servito per fare entrare un progetto del genere con il flusso di visitatori che potrebbe portare genererà altra osmosi tra fuori e dentro. Gli istituti di pena ne hanno bisogno”. Il coraggio lo ha avuto anche il Pac di Milano che ha scelto di utilizzare l’arte contemporanea come “strumento di conoscenza delle tante realtà che ci circondano e accanto alle quali viviamo, anche quelle più difficili da approcciare. Lo fa attraverso lo sguardo e l’impegno degli artisti invitati a realizzare le loro mostre, ma anche partecipando a progetti di educazione e formazione come ReverseLab, affinché l’arte possa diventare anche veicolo di riscatto sociale” ha spiegato Diego Sileo, curatore del Padiglione d’Arte Contemporanea. Il gruppo di studenti del “Laboratorio Carcere” del Politecnico di Milano, oltre ad ideare e condurre ReverseLab, ha collaborato con Forme Tentative al progetto architettonico e alla riqualificazione dello spazio sotto il primo braccio di San Vittore. facilitando le attività partecipative del workshop artistico e il processo di relazione e coinvolgimento dei detenuti e degli agenti. Mostra visitabile il sabato e il lunedì su due turni 14.00-15.00 e 15.00-16.00 fino al 28 ottobre 2024. Raccontare i mafiosi: errore o dovere educativo? di Roberto Puglisi Avvenire, 2 ottobre 2024 Fanno discutere le presentazioni del libro che dà voce, ma senza sconti, a Giovanni Brusca e del film dedicato a Matteo Messina Denaro. Può un sanguinario boss di Cosa nostra ripercorrere una vita di orrori e darla alle stampe, per offrire il resoconto della sua stessa perdizione? La domanda risulta attuale alla luce delle furibonde polemiche divampate intorno alla presentazione del libro di “memorie” di Giovanni Brusca che si terrà comunque a San Giuseppe Jato (Palermo), luogo di nascita, epicentro di una biografia e involontario simbolo di una sterminata carriera criminale. L’opera (Edizioni San Paolo) si intitola “Uno così. Giovanni Brusca si racconta”. Un lungo dialogo, senza sconti, con don Marcello Cozzi, sacerdote impegnato da anni nel delicatissimo terreno dell’educazione alla legalità. Brusca è uno dei responsabili dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido, dopo una atroce prigionia. La tortura e la morte di un bambino innocente rappresentarono la “punizione” per suo padre Santino, collaboratore di giustizia. Fu la mano di Brusca ad avviare il meccanismo collegato all’esplosivo che uccise Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, il 23 maggio del 1992. E tanto altro, di terribile, si potrebbe riferire. Ecco perché l’annuncio della ventura manifestazione letteraria, dato dal sindaco del paese, Giuseppe Siviglia, ha creato una comprensibile reazione che va oltre la scontata polemica politica. “Non bisogna dare più visibilità agli uomini di Cosa nostra che hanno martoriato il territorio, bloccandone lo sviluppo e portando dolore e morte”, ha detto Nicola Di Matteo, fratello di Giuseppe, martire della ferocia mafiosa ad appena quattordici anni. “Su questi personaggi - ha aggiunto - deve calare l’oblio, il silenzio. Non devono avere più alcuna possibilità di potere parlare. Brusca non si è mai mostrato veramente pentito per tutto il male compiuto in quegli anni. Dare a lui una ribalta è solo un grave errore che porta in noi che abbiamo sofferto altro dolore”. “Capisco i familiari delle vittime - ha risposto il sindaco Siviglia -. Ma il libro, a mio giudizio, ha un valore educativo soprattutto per i giovani”. “Mi sembra opportuno valorizzare oggi il suo percorso di collaborazione con la giustizia - così è intervenuta Franca Imbergamo, la magistrata che raccolse le prime dichiarazioni del boss, diventato un collaboratore di giustizia -. Non si può certo definire lineare, come accade in molti percorsi di collaborazione, ma resta uno strumento processuale indispensabile. Ricordiamo che Brusca è stato un personaggio apicale nella struttura militare di Cosa nostra. Il suo racconto può suscitare un comprensibile orrore, e per questo allora mi rifiutai di stringergli la mano. Ma poi ho potuto apprezzare la sua collaborazione e il suo racconto su circostanze controllate in modo obiettivo che hanno dato un grande contributo processuale”. E mentre San Giuseppe Jato vive l’inquietante ombra di un personaggio maledetto e ingombrante, non si è spenta l’eco delle accese discussioni per la proiezione, che non ci sarà, di “Iddu”, il film su Matteo Messina Denaro, nell’unico cinema di Castelvetrano (Trapani), altra zona inquinata dalla presenza di un gigantesco emblema del male. La decisione è stata presa dal titolare della sala, Salvatore Vaccarino, già consigliere comunale e figlio dell’ex sindaco Antonio, che con “la primula rossa” avviò un rapporto epistolare tramite nomi in codice, collaborando con i servizi segreti a caccia del super latitante. Un episodio controverso. “Io un film su Messina Denaro non l’avrei mai fatto - ha spiegato Vaccarino - perché credo sia un uomo da dimenticare”. Su entrambe le questioni è intervenuto il presidente della commissione Antimafia regionale, Antonello Cracolici. “Per quanto riguarda la presentazione del libro su Giovanni Brusca a San Giuseppe Jato, sarebbe stata necessaria una maggiore prudenza da parte del sindaco - ha detto -. È evidente che anche la reazione dei parenti delle vittime testimonia che forse occorreva una capacità di ascolto e prevenzione delle possibili polemiche”. E su Messina Denaro: “Faremo di tutto perché anche a Castelvetrano, al di là della qualità della pellicola che ognuno poi giudicherà, si possa vedere quel film”. Oggi è la Giornata internazionale della nonviolenza di Mao Valpiana Il Manifesto, 2 ottobre 2024 La guerra oggi ha ucciso anche le Parole, e dunque la Verità. L’invasione viene chiamata liberazione, la vendetta viene chiamata giustizia, l’attacco viene chiamato difesa la trattativa viene chiamata resa, la vittoria viene chiamata pace. L’Assemblea generale dell’Onu ha indetto per il 2 ottobre, oggi, la Giornata internazionale della nonviolenza nel giorno della nascita del Mahatma Gandhi, il profeta della nonviolenza moderna. Ma che senso ha, in tempo di guerre feroci, celebrare questa giornata? Forse lo stesso Gandhi sarebbe stato contrario alla ricorrenza, refrattario com’era a cerimonie rituali e formalità. Tutta la sua vita è stata una sperimentazione delle tecniche della nonviolenza, per la giustizia, per il disarmo, per la pace, per cercare la Verità (che per lui era Dio stesso). La guerra oggi ha ucciso anche le Parole, e dunque la Verità (Dio è morto?). L’invasione viene chiamata liberazione, la vendetta viene chiamata giustizia, l’attacco viene chiamato difesa, la trattativa viene chiamata resa, la vittoria viene chiamata pace. Nel principio era la Parola, alla fine c’è la menzogna. In Ucraina, in Russia, in Palestina, in Israele, in Libano, c’è la guerra, e l’Europa intera si sta preparando, riarmandosi e militarizzando la società. Cosa possiamo fare noi? Al punto drammatico in cui siamo, non sono più sufficienti le analisi, le riflessioni, gli approfondimenti, le considerazioni. Ci vuole soprattutto un’azione che spezzi la catena della violenza e della falsità. Ci vuole un punto fermo da cui ripartire, per ritrovare la via della pace, e ancor prima per non diventare complici della guerra e perpetuare l’imbroglio della pace costruita su macerie e morti. Nonviolenza è l’azione concreta che obiettori, disertori, renitenti alla leva stanno facendo nei luoghi di guerra. Sono centinaia di migliaia i ragazzi di Russia e Ucraina che si sono resi irreperibili per sfuggire alla mobilitazione militare, molti di loro subiscono processi e carcere. Anche in Israele e Palestina cresce sempre di più il numero di giovani che rifiutano le armi e la violenza e insieme attuano progetti di pace e dialogo. Scegliere di stare dalla loro parte, di sostenerli concretamente, di difendere il loro diritto umano alla vita, significa “dare una possibilità alla pace”. Se è vero, come ha detto Gandhi, che la nonviolenza è la più grande forza a disposizione dell’umanità, sarà da questi esempi che potrà venire una speranza per fermare il massacro. Ma dobbiamo fare di più: dichiariamoci noi stessi indisponibili a qualsiasi chiamata alle armi, e rivendichiamo, per loro e per noi, lo status di obiettori di coscienza, facciamo sapere al nostro governo che diserteremo la mobilitazione militare, contro la guerra e la sua preparazione. Qualcuno potrà dire che si tratta solo di testimonianza, che non c’è una dimensione politica e che anche se una minoranza si sottrae, tanti altri verranno comunque mandati a combattere e la guerra andrà avanti. A costoro rispondiamo “Se vogliamo la pace, non prepariamo la guerra”, e facciamo quello che è in nostro potere. L’obiezione alla guerra la dobbiamo esprimere e vivere adesso. Oggi, non domani. Proprio la nostra azione nonviolenta, insieme a quella di tanti altri, può prefigurare un futuro diverso, migliore. Questo è il senso politico della nonviolenza. È questa la proposta, politica e concreta, della Campagna di obiezione alla guerra. La nonviolenza ci dice che slogan vuoti e gesti simbolici lasciano il tempo che trovano. Anche il pacifismo, se si limitasse a chiedere pace e sventolare bandiere, servirebbe a poco. Lo diceva già Aldo Capitini, il fondatore del Movimento Nonviolento: “Una volta c’è stato un pacifismo molto blando, tanto è vero che davanti alla prima e alla seconda guerra mondiale vacillò. Il vecchio pacifismo era ottimista e di corta vista. La nonviolenza pone impegni precisi. La nonviolenza è una continua lotta. La nonviolenza è attivissima”. Oggi gli amici della nonviolenza sono impegnati nella Campagna di Obiezione alla guerra, a sostegno degli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva, che hanno capito che per cessare il fuoco bisogna non sparare, per fermare la guerra bisogna non farla. Facciamo la nostra obiezione di coscienza. Spezziamo il nostro fucile. Con la nonviolenza. È questo il modo concreto per dare un senso alla Giornata internazionale della nonviolenza, e ai giorni che seguiranno. Referendum, al quorum della democrazia di Antonella Soldo Il Manifesto, 2 ottobre 2024 Ci risiamo. Ogni volta che un referendum raccoglie le firme necessarie parte la grancassa del “è troppo facile raccogliere le firme con lo Spid”. E accade così che, comodamente seduto sul suo divano, il senatore della Lega Claudio Borghi annunci battaglia, brandendo proposte di legge per cancellare la possibilità di sottoscrizione digitale. Altrimenti, dichiara, “anche uno che vuol abolire il cappuccino si può svegliare e con quattro click ci arriva”. Andiamo con ordine. La possibilità di firmare con Spid referendum esiste dal 2021 quando, con un emendamento di Riccardo Magi, è stata recepita la decisione del Comitato Diritti Umani dell’Onu sul ricorso sulle limitazioni alla partecipazione democratica avanzato anni prima dal co-presidente dell’associazione Luca Coscioni Marco Gentili e da Mario Staderini, segretario dei radicali. Dall’Onu era arrivata una condanna all’Italia per le “irragionevoli restrizioni” che impedivano, ad esempio, a persone disabili di firmare il referendum per il semplice fatto di non poter uscire di casa a cercare un banchetto. Il tema, com’è ovvio, riguarda non solo le persone disabili ma anche, banalmente, i cittadini che vivono in piccoli paesi dove non hanno la fortuna di poter incontrare un banchetto di raccolta firme. L’Onu ha ribadito una cosa implicita anche nella nostra Costituzione: la democrazia non deve essere difficile e inaccessibile. Così nel 2021 promuovemmo un referendum sulla cannabis che raccolse le firme in otto giorni. Da destra e da sinistra arrivarono i savonarola ad annunciare catastrofi sull’abuso che se ne sarebbe fatto. Ricordo una copertina de L’Espresso diretto da Marco Damilano: “La Spid democracy… che rischia di dare il colpo finale al Parlamento”. Il colpo finale. In un Paese in cui oltre il 90% delle leggi sono decreti del Governo. In quegli stessi giorni la Lega del senatore Borghi promuoveva i referendum sulla giustizia. Ebbene, un partito al governo, con centinaia di parlamentari, consiglieri regionali, sindaci, attivisti, con a disposizione strutture enormi, denaro e massiccia esposizione mediatica, sapete come ha raccolto le firme per quei sei quesiti? Sudando ai banchetti sotto il sole e sotto la pioggia come vorrebbe Borghi? Con “quattro click” con la firma digitale? Macché. Ci hanno provato, non ce l’hanno fatta, e alla fine li hanno presentati con le deliberazioni di cinque consigli regionali, che è una alternativa prevista. Facile facile. Senza alcuno sforzo per i nostri eroi della democrazia. Ma i leghisti non sono stati gli unici a non raccogliere le firme sui referendum nonostante la Spid. Altri comitati ci hanno provato, prima sulla piattaforma di Itagile (il servizio privato che ha anticipato il governo), poi su quella del ministero della Giustizia. Negli ultimi tre anni i tentativi di raccolta firme sono stati circa un centinaio. Alcuni di questi - penso al referendum contro il green pass - hanno ricevuto pure una grande copertura mediatica. Ma dopo cannabis hanno superato la soglia solo il referendum sull’autonomia differenziata e quello sulla cittadinanza. Quest’ultimo ha destato scalpore e allarme. Ma solo chi non è più in grado di ascoltare il paese può stupirsi del fatto che temi come la cannabis e la cittadinanza siano sentiti dalle persone e da quei giovani che accusiamo tanto di essere disinteressati alla partecipazione. La democrazia non è mai un male. È un male la sua limitazione: per questo lorsignori si dovrebbero preoccupare piuttosto di come riportare la Corte costituzionale nei limiti del dettato della nostra Carta ed evitare che i suoi pronunciamenti siano politicisti. Ancora, si preoccupino di come rimuovere il quorum del 50%+1 degli elettori in un paese dove a votare all’ultima tornata elettorale è andato solo il 48%. I referendum in questo Paese sono troppo facili? In realtà sono ancora troppo difficili. Migranti. La denuncia alla Ue: le vite sospese, l’incubo dei richiedenti asilo in Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 ottobre 2024 Presentata dall’Asgi per violazione della normativa. Con una mossa che potrebbe avere ripercussioni significative sul sistema di asilo italiano, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) rende noto di avere presentato una denuncia formale alla Commissione Europea. L’accusa è grave: l’Italia starebbe violando sistematicamente la normativa dell’Unione Europea in materia di accesso alla procedura di asilo. Al centro della denuncia ci sono due problematiche principali: le difficoltà di accesso agli uffici delle Questure per la registrazione della volontà di chiedere protezione e il mancato rispetto delle tempistiche per la registrazione delle domande di protezione. Secondo l’Asgi, queste pratiche non solo violano il diritto comunitario, ma minano anche i diritti fondamentali dei richiedenti asilo. La denuncia dipinge un quadro allarmante della situazione in molte grandi città italiane, tra cui Roma, Milano, Firenze, Bari e Torino. Qui, i cittadini stranieri che intendono presentare domanda d’asilo si trovano spesso costretti a recarsi in Questura per settimane, se non mesi, prima di riuscire anche solo a manifestare la volontà di chiedere asilo. Questa situazione crea un limbo giuridico in cui i richiedenti asilo si trovano privi di status e, di conseguenza, di accesso ai servizi di base. L’Asgi ha documentato casi in cui i tempi medi di formalizzazione della domanda si attestano intorno ai 90- 100 giorni, come dichiarato dalle stesse Questure di Venezia e Vicenza in risposta a richieste di accesso agli atti. Tali ritardi sono in netta violazione dell’articolo 6, paragrafi 1 e 5 della Direttiva 2013/ 32/ UE, che prevede la registrazione della domanda entro tre giorni lavorativi dalla sua presentazione, con una possibile estensione a dieci giorni in caso di un numero elevato di richieste simultanee. La gravità di questi ritardi è ulteriormente sottolineata dal fatto che, nel frattempo, non viene rilasciato alcun permesso provvisorio. Ciò ha un impatto devastante sulla vita dei richiedenti asilo, privandoli di fatto dell’accesso a diritti fondamentali come l’alloggio, l’assistenza sanitaria e l’istruzione. L’Asgi non si è limitata a denunciare il problema, ma ha anche intrapreso azioni concrete. L’associazione ha inviato diffide ai sensi dell’art. 3 d. lgs. 198/ 2009 alle Questure di Venezia e Vicenza, chiedendo la conclusione dei procedimenti di formalizzazione delle domande di protezione internazionale. Queste azioni sono prodromiche alla presentazione di un ricorso per l’efficienza delle amministrazioni pubbliche, un passo che l’Asgi si prepara a intraprendere se la situazione non migliorerà. La denuncia è corroborata da una serie di pronunce giudiziarie che dimostrano la natura sistematica del problema. I Tribunali di Roma, Milano, Bologna, Torino e Venezia hanno ripetutamente accolto ricorsi d’urgenza presentati da richiedenti asilo, ordinando alle Questure di fissare appuntamenti per la formalizzazione delle domande. Queste decisioni, tuttavia, non hanno portato a un cambiamento strutturale nelle pratiche amministrative. L’Asgi denuncia come i ritardi nella formalizzazione delle domande d’asilo violino non solo la direttiva Ue, ma anche l’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali, rendendo di fatto inefficace il diritto d’asilo. Tali ritardi innescano una catena di violazioni di altri diritti fondamentali, dalla dignità umana al diritto al lavoro, fino alla libertà di movimento. È per questo che l’associazione chiede alla Commissione Europea di intervenire, avviando una procedura di infrazione contro l’Italia. Migranti. Così l’Italia ha lasciato morire 61 persone in mare di Angela Nocioni L’Unità, 2 ottobre 2024 Guardia costiera rimasta a guardare, che fa la magistratura? Roma sapeva dall’8 marzo e non ha avviato un’operazione di ricerca e soccorso. L’Ocean viking ha trovato e salvato i 25 sopravvissuti il 13 marzo, gli altri sono morti di stenti. Frontex aveva un aereo lì sopra, perché la Guardia costiera italiana è rimasta ferma? L’Italia ha lasciato morire di sete, di fame, di stenti, 60 persone in mezzo al mare. L’Italia ha saputo con quattro giorni di anticipo di un gommone con più di 50 persone alla deriva in acque internazionali a nord della Libia. E è rimasta a guardare. È successo nel marzo scorso. L’Italia sapeva, perlomeno dall’8 marzo alle 21.06, di una imbarcazione in difficoltà. E aveva le coordinate esatte. Lo sapeva l’Italia, cioè lo sapeva il Comando delle capitanerie di porto di Roma, l’autorità italiana responsabile dei soccorsi (IMrcc). Lo sapeva Malta e lo sapevano i miliziani di cui è composta la guardia costiera libica che non fa salvataggi ma solo deportazioni di naufraghi. L’Italia la sera dell’8 marzo ha saputo che c’era una imbarcazione in difficoltà carica di persone e non ha avviato nessuna operazione di ricerca e salvataggio. La magistratura se ne vuole occupare? Lasciare morire persone è un reato, non soccorrerle sapendo che stanno per essere inghiottite dal mare è un reato. Tutte le carte sono pubbliche e disponibili a questo indirizzo. La mattina del 13 marzo, per estrema casualità, un gommone con ormai solo 25 ragazzi a bordo - altri 60 erano morti nel frattempo sotto il sole o si erano suicidati lanciandosi in mare, tra i morti di stenti c’è anche un bambino di nemmeno due anni e sua madre, suo padre è tra i sopravvissuti - è stato avvistato con il binocolo dal ponte della Ocean Viking, la nave di soccorso della ong francese Sos Mediterranée. Erano le 11,50. Ero quel giorno a bordo di uno dei gommoni lanciati in mare per il salvataggio. Sono testimone di quel che è accaduto. Perché, se l’esistenza di una imbarcazione in difficoltà era stata segnalata la sera dell’8 marzo, la Guardia costiera italiana non ha lanciato immediatamente una operazione di ricerca e soccorso? Come primo centro operativo a conoscenza di una barca alla deriva aveva l’obbligo di monitorare qualsiasi altra iniziativa presa da altre autorità. Perché, una volta chiaro che nessuno stava soccorrendo i naufraghi, la Guardia costiera italiana non ha lanciato subito una operazione di salvataggio? Quando, dopo mezzogiorno, i gommoni a punta rigida della Ocean Viking sono arrivati vicino a quel gommone grigio alla deriva, noi a bordo abbiamo visto venticinque facce lacere, solcate dal sale, quasi tutti ragazzini magrissimi, terrorizzati. Tutti neri, tutti maschi. Senza cibo e senz’acqua. Ci hanno raccontato subito che erano partiti in molti di più (“un centinaio” ha detto a me un ragazzo che parlava appena, 85 si è capito giorni più tardi). Ci hanno raccontato subito che c’era un bambino piccolissimo. “Baby”, un ragazzo faceva con le braccia a mo’ di culla il gesto del ninnare. Tutti morti, uno dopo l’altro. “Abbiamo pregato e poi abbiamo messo i cadaveri in acqua” raccontavano con gli occhi sbarrati. Hanno detto subito di aver visto un elicottero volare a lungo, e spesso, a bassa quota sulle loro teste. Forse un elicottero della piattaforma petrolifera Bouri oil che poi, contattata dalla rete di attivisti di Alarmphone, ha detto di non saperne nulla. Quell’elicottero non ha chiamato i soccorsi, non ha avvisato nessuno. Li ha guardati morire. Dall’alto. Steso sul fondo del gommone c’era un uomo alto e possente. Incosciente. Accanto a lui, supino, un ragazzo magrolino, sembrava morto. Nello strattone necessario a sollevarlo di peso ha avuto un sobbalzo, si è voltato di scatto, ha morso la mano del soccorritore bretone, bravissimo, che lo stava reggendo. Poi si è accasciato a terra e non ha più ripreso conoscenza. Almeno 12 di loro sono minori, due con meno di dodici anni. Uno di loro ha continuato per tutto il tempo della navigazione, fino al porto di sbarco, Ancona, a cercare sua sorella. “Dov’è mia sorella? Era seduta accanto a me, dov’è?”. Non c’era sua sorella, non c’era nessuna ragazza tra i sopravvissuti. Era tra i morti. Vengono dal Senegal, dal Gambia, dal Mali. Erano tutti in pessime condizioni fisiche e psicologiche. Hanno visto morire i loro compagni di viaggio. Uno a uno davanti ai loro piedi. Hanno visto donne e uomini morire di stenti. Hanno assistito ai sussulti dei moribondi, alla disperazione degli altri, alla rabbia, alla paura di fronte ai cadaveri, alle discussioni dei grandi su cosa fare con i corpi. Hanno visto gli adulti pregare, buttare a mare i morti, hanno visto i corpi gettati in acqua sparire tra le onde. Hanno avuto paura di finire anche loro mangiati dai pesci. Quel gommone alla deriva si è casualmente trovato sulla rotta della Ocean Viking che stava andando verso una barca di legno blu a rischio naufragio segnalata poco prima da Sea Bird 2, l’aereo della ong Sea Watch, a cinque ore di distanza. Ci stavamo preparando a un salvataggio con tensione perché alcune motovedette libiche, le motovedette date ai miliziani libici dal governo italiano, stavano attraversando il radar nello spicchio di mare davanti a noi. Dagli smartphone sbucava intanto un Matteo Piantedosi abbronzato appena sbarcato a Benghazi che stringeva la mano di Haftar e sorrideva a favore di telecamera. *** Un parente di uno dei 24 sopravvissuti (uno dei due ragazzi incoscienti è morto in ospedale in Sicilia) ha riconosciuto un suo parente nelle foto del salvataggio pubblicate da Sos Mediterranée e ha chiamato Alarm phone. A quel punto gli attivisti di Alarm phone si sono resi conto che il gommone della strage era lo stesso gommone in avaria di cui avevano avvisato Roma, Malta e tutte le altre autorità marine già quattro giorni prima. Hanno recuperato i tracciati dei voli aerei e rintracciato alcuni sopravvissuti. In una lettera aperta inviata al Centro di comando delle capitanerie di porto (IMrcc) di Roma, di Malta, a Frontex e all’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) pongono delle domande precise, accompagnate da carte e tracciati. Ne riportiamo alcune. E aggiungiamo una domanda: la magistratura italiana vorrà aprire una inchiesta? Si tratta di 85 persone lasciate consapevolmente alla deriva. 61 di loro sono morte. È una strage. I testimoni sono disponibili. Si indaga quando c’è una strage! Migranti. Il flop dei Centri in Albania: ancora nessuna data certa per l’apertura di Alessandra Ziniti La Repubblica, 2 ottobre 2024 L’ultima ipotesi in circolazione, 23 settembre, è stata smentita e nessuno dei tanti attori coinvolti nel progetto ha ricevuto alcuna comunicazione su quando tenersi pronti. I 13 milioni e mezzo di euro destinati al noleggio (per soli tre mesi) della nave privata per i soccorsi nel Mediterraneo e destinati ai centri in Albania, il Viminale ha pensato bene che era il caso di risparmiali. Ad estate ormai passata e a flussi così sensibilmente ridotti, è ormai chiaro anche al governo che quando il progetto sarà in grado di partire le persone che, almeno per il 2024, finiranno nei centri saranno molto ma molto meno dei tremila al mese previsti dal protocollo. Alla procedura per la manifestazione di interesse, spesa stimata fino a 1,5 milioni per soli 90 giorni, pubblicata a giugno quando ancora l’apertura dei centri era prevista come imminente, non è stato dato alcun seguito. E dunque niente nave privata, una trovata peraltro non prevista dai termini dell’accordo che parla chiaramente di navi militari italiane come mezzo a bordo dei quali trasportare i migranti. Ancora tutto fermo - Se e quando i centri apriranno. Al Viminale ormai non danno più date. Stanchi di rispondere, ormai da maggio, “questione di poche settimane. Ma settembre è ormai passato e il progetto Albania non parte ancora. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi spera ancora di presentarsi ai colleghi del G7 convocati per il 2 ottobre a Mirabella Imbaccari per parlare soprattutto di strategie di contrasto al traffico di migranti, con le porte dell’hotspot di Shengjin e del centro di trattenimento per richiedenti asilo di Gjader finalmente aperte. Ma prima il sole e il troppo caldo che hanno costretto gli operai a lavorare con lunghe pause nelle ore centrali della giornata, ora la pioggia che ha reso i terreni di Gjader privi di fogne un pantano. E dunque ancora nessuna certezza su quando il Genio civile darà l’ok e i Centri verranno consegnati al Viminale. L’ultima data in circolazione, 23 settembre, è stata smentita e nessuno dei tanti attori coinvolti nel progetto, da Unhcr ai giudici alle forze di polizia, ha ricevuto alcuna comunicazione certa, e comunque è esclusa un partenza prima della seconda metà di ottobre. La ‘fila’ per andare in Albania - In attesa del semaforo verde, però, per andare in Albania in Italia c’è la coda. Polizia, carabinieri, agenti della penitenziaria, si contendono la missione d’oro che già da giugno sta costando al bilancio dello Stato inutili ma considerevoli cifre. Circa 30.000 euro al giorno, 900.000 euro in un mese. Sono già migliaia le richieste che sono giunte nei vari Corpi interessati per poter fare almeno un turno in Albania: cento euro di missione al giorno più vitto e alloggio, al momento per vigilare sulle strutture vuote, un domani per guardare a vista i migranti nel centro di trattenimento o, se mai qualcuno dovesse finirci, nel piccolo penitenziario da 24 posti dove sarà assicurato un trattamento che nessun carcere italiano ha: 3 guardie carcerarie ogni detenuto a fronte di un rapporto che nell’inferno delle carceri italiane è invertito, un poliziotto ogni tre detenuti. Quelle che sono partite, e non senza proteste e riserve, sono quelle che il ministro dell’Interno Piantedosi definisce le “prove generali” dell’attuazione delle procedure accelerate di frontiera che poi dovranno trovare piena attuazione nei centri di Albania che restano un miraggio. Il primo espulso - Il primo espulso dal centro trattenimenti per richiedenti asilo di Porto Empedocle con le procedure accelerate di frontiera su cui ruota il progetto-monstre dell’Albania è stato un ragazzo tunisino con mutilazioni genitali. Dunque decisamente un vulnerabile, di quelli - per capirci - che la legge vieta di rimandare indietro con procedura sommaria. E invece, quel ragazzo lo hanno rimandato indietro in tre giorni, dopo che la giudice della sezione immigrazione di Palermo ha confermato il fermo che il questore di Agrigento aveva disposto perché a Lampedusa aveva tentato la fuga. “Rimandato indietro ancor prima di comparire davanti al giudice per la trattazione della sua richiesta di asilo - racconta la sua legale Rosa Emanuela Lo Faro - non pensavano che lui, dalla Tunisia, dove appena arrivato è sfuggito ad un agguato delle stesse persone che in passato lo avevano mutilato, sarebbe riuscito a collegarsi in udienza e a farci avere una lettera con la sua storia”. Migranti. In fuga dal regime iraniano, processata in Italia. Il padre: “Non è una scafista” di Marika Ikonomu Il Domani, 2 ottobre 2024 Il genitore dell’attivista detenuta in Calabria ha dovuto vendere tutto. Così ha pagato il viaggio ai figli in fuga dalle minacce dei pasdaran. Maysoon Majidi e il fratello Rajan sono stati minacciati, picchiati, hanno subito pressioni dal regime iraniano e, per questo, racconta il padre Ismael, hanno deciso di fuggire da casa loro, “non si sentivano più al sicuro”. Ma la figlia, Maysoon, attivista curdo-iraniana per i diritti umani e i diritti delle donne, laureata in regia teatrale, arrivata in Italia dopo una traversata di quattro giorni dalla Turchia, è stata arrestata, con l’accusa di aver aiutato il capitano dell’imbarcazione. Voleva chiedere asilo in Europa, in cambio rischia da sei a sedici anni di carcere, per accuse che il padre, professore in Iran, definisce prive di fondamento: “Se l’Italia vuole trovare i trafficanti di esseri umani, sa dove sono, non deve accusare persone innocenti”, dice, spiegando che ha dovuto vendere tutto ciò che aveva per pagare il viaggio ai figli, in cerca di un luogo sicuro. Reclusa nel penitenziario di Reggio Calabria, l’attivista 28enne si trova in condizioni di salute mentale e fisiche precarie. Per la prima volta nell’udienza del primo ottobre, all’ennesima richiesta dell’avvocato di concederle gli arresti domiciliari, il giudice non ha rigettato tout court e si è riservato cinque giorni per decidere. Martedì 1 ottobre si è tenuta la terza udienza, come sta in queste settimane in cui è in corso il processo? È da più di 9 mesi che non mi sento bene, non solo in queste settimane, ma da quando Maysoon è stata arrestata, come penso sia normale per un padre. Ho avuto due ictus e sono dovuto andare in ospedale. E ogni volta che vedo il video di mia figlia in tribunale mi sento peggio. Come descrive sua figlia? Maysoon da quando è nata ha un’energia speciale. Ha cominciato a parlare presto, alla scuola primaria ha cominciato a scrivere e a dipingere. Scriveva anche poesie. Alle superiori è diventata responsabile della rivista scolastica del suo istituto e ha vinto anche un concorso letterario a livello nazionale. All’università ha poi deciso di studiare teatro e cinema. In quel periodo è diventata attivista. Perché Maysoon e il fratello Rajan hanno deciso di partire? Siamo una famiglia politicamente attiva. E così i miei figli, anche se non ero molto sereno della direzione che avevano preso. All’università sono scesi in piazza per un referendum in Kurdistan e sono stati minacciati e picchiati dagli agenti del regime e della sicurezza dell’università (una sorta di polizia morale e politica all’interno degli atenei, ndr). Maysoon è stata percossa e ricoverata in ospedale. Una volta arrivati nel Kurdistan iracheno, hanno continuato la loro militanza politica e, avendo le autorità irachene rapporti con il regime iraniano, non li hanno protetti. È per questo che hanno deciso di fuggire anche da lì, non si sentivano più sicuri. Penso che il loro sogno non fosse quello di vivere da rifugiati in un altro paese. A loro piaceva vivere in Iran, ma le pressioni politiche e le minacce li hanno costretti a fuggire. Spero che, quando Maysoon verrà liberata, continuino entrambi a studiare. E che prima o poi tornino. Ci racconta del viaggio? Riusciva ad avere contatti con i suoi figli? Sapevo della loro decisione, ma non mi hanno avvisato quando sono partiti per non farmi preoccupare. Me l’hanno detto solo una volta arrivati in Turchia. Hanno raccolto i soldi per il viaggio in vari modi: Maysoon ha lavorato per un periodo e sono stati aiutati da amici e dalla famiglia. Con la cifra che avevano raccolto, Maysoon e Rajan sono riusciti ad arrivare nella città di Van in Turchia tramite i trafficanti. Ricordo che mio figlio mi ha chiamato e mi ha detto che avevano problemi e bisogno di più soldi. Ho dovuto vendere la mia macchina, svalutandola. Ma quei soldi non sono mai arrivati a miei figli, purtroppo ci hanno truffati. Hanno perso tutto il denaro e, arrivati in Turchia, non avevano veramente più niente. Zero. E ho provato a far avere loro qualcosa per sopravvivere, 200 o 300 dollari. Hanno avuto problemi anche con la polizia turca. Ogni mese dovevano cambiare casa per essere al sicuro. Hanno trovato un altro trafficante che, per il viaggio verso l’Italia, ha chiesto inizialmente 18mila dollari. Poi sono riusciti ad abbassare la cifra a 17mila. Ho dovuto vendere anche casa mia per pagare i trafficanti. Sono poi riusciti ad arrivare in Italia e, come sappiamo, mio figlio è stato liberato mentre Maysoon è stata arrestata. Come ha vissuto la decisione dei suoi figli di partire e il viaggio? Fino al momento in cui si sono imbarcati per fare il viaggio dalla Turchia all’Italia abbiamo avuto contatti quotidiani. Sapevo tutti i dettagli. Poi, durante la traversata per cinque giorni hanno spento i cellulari, non sapevo più niente. Ho vissuto momenti di forte stress, come ogni genitore. Ho avuto paura di perdere i miei figli, e non era la prima volta. Già in un’altra occasione hanno rischiato la vita mentre attraversavano il confine a piedi, quando alcuni uomini hanno sparato nella loro direzione. Ero molto preoccupato, e il mare può essere anche più pericoloso. Quando sono arrivati in Italia, dopo 24 ore Rajan è stato liberato e mi ha detto che Maysoon era in carcere. Non ci credevo, pensavo che fosse successo qualcos’altro. Qualcosa con la criminalità, con i trafficanti che avevano preso i loro soldi, pensavo l’avessero uccisa. Non avevo nessuna prova che fosse in carcere ed ero molto preoccupato, perché non parlavo con lei da due settimane. Finché non ho parlato con l’avvocato e ho capito che Maysoon era viva. Cosa chiede all’Italia? Ho mandato una lettera alle organizzazioni per i diritti umani e ringrazio chi sta lavorando per la liberazione di Maysoon. Spero che il giudice prenda una decisione giusta e che non venga influenzata dalla politica. Il mio desiderio è che mia figlia venga liberata il prima possibile. Ma ho un messaggio molto importante per l’Italia. Se il governo italiano vuole trovare i trafficanti di esseri umani, non deve accusare persone innocenti, sa già chi sono. Conosce chi trae profitto da questa cosa e sa chi c’è dietro. Se vogliono possono arrestarli. Migranti. Maysoon Majidi, le chat che fanno crollare l’accusa di Silvio Messinetti Il Manifesto, 2 ottobre 2024 Il processo La deposizione del perito assesta un colpo alla tesi dei pm, secondo cui l’attivista sarebbe una scafista. Dalla traduzione degli appunti sul cellulare viene fuori che il partito curdo Komala ha raccolto i fondi per far fuggire lei e il fratello. “È importante esserci a ogni udienza perché è evidente che è in atto una inaudita persecuzione giudiziaria frutto di una macchinazione ai danni di una ragazza. È capitato a lei, poteva capitare a tutti. Cercano il capro espiatorio con cui provano a mostrare il pugno duro verso i migranti. Questa giovane militante politica oggi rischia l’espulsione in un paese a lei ostile. È la vittima sacrificale di un sistema. Noi siamo qui per bucare il muro del silenzio. E la società civile calabrese ha il merito di aver fatto diventare “il caso Maysoon” un caso nazionale e internazionale. Noi siamo straconvinti della sua innocenza e continueremo a lottare per una sentenza equa e un processo giusto”. Filippo Sestito, presidente provinciale dell’Arci di Crotone, le udienze per Maysoon Majidi le ha fatte tutte. Anche quella di ieri. Apparentemente interlocutoria alla vigilia. Ma probabilmente quella decisiva per l’esito del giudizio immediato che vede sul banco degli imputati la regista e attivista curdo-iraniana Maysoon Majidi, reclusa a Reggio Calabria da 9 mesi e sotto processo a Crotone con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Il destino di Maysoon fluttua intorno a chat whatsapp e telefoni satellitari, connessioni e hotspot. Un processo indiziario privo di prove roboanti che si regge sull’assunto (indimostrato) dell’accusa che Maysoon fosse una scafista e che, in quanto tale, non avesse consegnato il telefono come tutti gli altri naufraghi prima della partenza dalla Turchia. “Si vedeva già dal suo stile di vita che non era come gli altri” ha l’ardire di dichiarare uno dei finanzieri, testi a carico che la identificarono quella mattina del giorno di San Silvestro dello scorso anno. Poi ha preso la parola il perito informatico che ha analizzato il telefono dell’imputata. E forse il processo gira in un senso a lei favorevole. Perché Fausto Colosimo, ingegnere di Catanzaro, dice intanto che il telefono, malgrado sia stato sempre acceso (e non ricaricato) durante la traversata, Maysoon non lo ha mai usato. E soprattutto, su richiesta del presidente del collegio, Edoardo D’Ambrosio, l’analista decripta, seduta stante, due messaggi dell’11 e del 20 dicembre, dunque prima dell’inizio del viaggio. Si tratta di due “chat a se stessa” ovvero di un paio di appunti che l’imputata avrebbe annotato come promemoria prima di salpare alla volta dell’Europa. La procura, stranamente, ne aveva prodotto e depositato agli atti soltanto una traduzione parziale. Per cui è stato necessario estrapolare e tradurre il resto della chat. E dal testo completo si evince quello che Maysoon va dicendo da quando è cominciata la sua odissea giudiziaria. Compresa la precedente udienza del 18 settembre. Ovvero che lei è un membro del partito Komala e che i suoi compagni avevano raccolto una cospicua somma, frutto di sottoscrizioni, per permettere a lei e al fratello Jamal di fuggire dall’Iran. In effetti, il Partito Komala del Kurdistan iracheno, di ispirazione comunista, è una formazione storicamente perseguitata in Iran. Antimperialista, sostiene l’autodeterminazione dei curdi. I suoi militanti hanno preso parte alla guerriglia contro il governo iraniano, in particolare durante la ribellione curda del 1979 e la guerra Iran-Iraq. Hanno inoltre combattuto il Partito democratico del Kurdistan iraniano durante gli anni Ottanta e Novanta. Dopo un lungo cessate il fuoco, nel 2017 l’organizzazione ha dichiarato di aver ripreso il conflitto armato contro l’Iran. Il Komala ha sede a Soulemanya. Proprio in quella città, emerge dalla chat, sarebbe avvenuta la raccolta fondi a favore dei Majidi. “Dopo quanto emerso oggi, dovrebbero scarcerarla immediatamente e darle l’asilo politico” ha esclamato all’uscita il deputato europeo Mimmo Lucano (The Left). Non prima di aver avuto un alterco proprio con la pm del processo, Rosaria Multari, che l’aveva rimbrottato perché fuori dall’aula parlava con il legale di Maysoon, Giancarlo Liberati. Un fuori programma che denota un certo nervosismo degli inquirenti. Perché nell’aula 3 delle udienze penali del Tribunale di Crotone il vento del processo Maysoon Majidi probabilmente da ieri è cambiato.