Carceri minorili, è picco di presenze. Il governo “apre” quattro nuovi istituti di Luca Bonzanni Avvenire, 20 ottobre 2024 Rovigo, L’Aquila, Santa Maria Capua Vetere, Lecce. Sono i punti di una nuova mappa che potrebbe prendere forma, quella dell’ampliamento delle carceri minorili: quattro istituti penali per minorenni (Ipm) da aprire o riaprire, di fronte al “costante aumento del numero di detenuti”. Dopo il Decreto Caivano, un ulteriore tassello della strategia del governo contro la criminalità giovanile è tratteggiato nello “schema di decreto del ministero della Giustizia” inviato nei giorni scorsi “per opportuna informativa” anche ai sindacati di Polizia penitenziaria. Nel documento, visionato da Avvenire e dedicato a una più ampia “riorganizzazione dei Centri per la giustizia e del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità” sulla scorta di precedenti decreti, scorre anche la previsione dell’attivazione di nuove strutture detentive. Non un fulmine a ciel sereno, perché alcune indiscrezioni erano già trapelate: per l’Ipm di Rovigo si ipotizzava proprio nei giorni scorsi una riapertura per la fine del 2024; l’Ipm di Lecce e dell’Aquila erano attivi in passato (a L’Aquila fu chiuso dopo il terremoto del 2009). Per questo, appunto, la bozza del decreto indica l’istituzione delle quattro nuove strutture, oltre alla creazione del Centro di prima accoglienza di Venezia (sono istituti dedicati ai minorenni fermati o arrestati in flagranza di reato). Se le carceri per adulti scoppiano, anche quelle per minori vivono un sovraffollamento senza precedenti recenti. Nelle scorse settimane, un dossier di Antigo - ne rilevava come tra l’ottobre 2022 - entrata in carica del governo - e l’ottobre 2024 le presenze negli Ipm siano aumentate di quasi i150%. Che la situazione si sia fatta critica lo riconosce anche la relazione del ministero della Giustizia allegata allo schema di decreto inviato ai sindacati: “Negli ultimi anni il sistema della giustizia minorile ha affrontato importanti emergenze - si legge nel documento -. L’incremento degli ingressi ha comportato maggiore complessità nella loro gestione. Rispetto agli ultimi dieci anni, nel 2024 si sta registrando, per la prima volta nel settore minorile, una criticità connessa al sovraffollamento degli istituti”. Traduzione in numeri: al 15 settembre si contavano 550 reclusi per 516 posti, con un tasso di affollamento del 107%. Paradossalmente, sono proprio i cantieri già avviati in alcune strutture ad aver ridotto gli spazi: “I lavori di ristrutturazione di numerosi istituti, anche in attuazione del Piano nazionale complementare al Pnrr, hanno determinato un’inevitabile compressione degli spazi di pernottamento a disposizione dell’utenza, in particolare nel nord Italia. Tale contrazione degli spazi ha acuito i problemi di sovraffollamento dovuti a preesistenti cantieri, a causa di lavori in fase di completamento, soprattutto presso l’Ipm di Milano e l’Ipm di Firenze”. È proprio al Nord, osserva la relazione, che l’incremento dei giovani detenuti è più marcato. La riorganizzazione ipotizzata dal ministero comprende anche altri passaggi, come la soppressione di alcuni centri diurni polifunzionali e di alcuni centri di prima accoglienza, con lo spacchettamento di alcune direzioni: per esempio, la direzione del Centro di prima accoglienza di Milano diverrebbe separata dalla direzione del “Beccarla: e questo per “assicurare una più efficace gestione del personale e degli interventi rispetto alla specificità dei servizi”. Ma il tema di più stringente attualità è quello dell’aumento degli ingressi in carcere, a cui si risponde con altre carceri: “Il decreto - prosegue la relazione - prevede l’istituzione dei nuovi Ipm nelle città de l’Aquila, Lecce, Rovigo e Santa Maria Capua Vetere. Le sedi di Lecce e l’Aquila hanno ospitato già in passato istituti penali per i minorenni; nella sede di Rovigo i lavori sono in corso già da tempo; per la sede di Santa Maria Capua Vetere, questo Dipartimento ha già disponibilità del complesso di immobili, che però attualmente ospita un centro diurno polifunzionale, e va pertanto riadattato alla nuova destinazione d’uso, con riallocazione delle risorse”. Resta un tema di fondo, ed è quello del disagio dei giovanissimi. Soprattutto tra chi finisce nei circuiti penali: “È stato osservato come le situazioni dei minori dell’area penale siano spesso collocate in una linea di confine tra il disagio sociale e il disagio psichico e richiedono di essere riconosciute e accolte da un sistema integrato di interventi”. A migliaia contro il Ddl Sicurezza. A Roma e in trentasei piazze d’Italia di Giuliano Santoro Il Manifesto, 20 ottobre 2024 La giornata indetta dalla Rete Liberi di lottare. Si parla di “unire questa lotta a quelle contro autonomia e premierato”. “Ci siamo riusciti, abbiamo riempito via dei Fori imperiali”: mentre nuvoloni neri si addensano, dal camion del corteo contro il Ddl sicurezza scrutano il corteo. La testa si trova quasi all’ingresso di piazza Venezia, la coda ha appena finito di percorrere via Cavour e piega sulla storica via romana. La manifestazione, dunque, può dire di aver raggiunto il suo obiettivo, anche se tutti sono consapevoli che la strada per bloccare il provvedimento del governo che inasprisce le pene e introduce nuovi reati che colpiscono praticamente ogni forma di dissenso è ancora lunga. Ieri a Roma si sono ritrovati sindacati di base (Usb e Si Cobas su tutti), movimenti di lotta per la casa, studenti e migranti. Spesso queste figure si intersecano tra di loro: è ormai noto che molti dei lavoratori che lottano nei centri nevralgici della logistica del nord Italia sono spesso migranti o che il popolo che si organizza contro la rendita e in difesa del diritto all’abitare è meticcio e intreccia le nuove forme del precariato metropolitano. “Siamo capaci di produrre una mobilitazione permanente come quella di oggi come le altre città che si sono mobilitate” dicono i promotori. E ancora: “Se incrociamo le nostre lotte a quelle contro autonomia differenziata e premierato riusciamo a cacciare via il governo. Adesso anche chi si oppone in parlamento deve fare la sua parte. Serve un nuovo momento di confluenza delle lotte”. Circola l’ipotesi di indire uno sciopero “generale e generalizzato”, allargato alle figure non sindacalizzate. Anche perché da Usb esplicitano la relazione tra politiche sociali e disegni repressivi: “Questo disegno di legge colpisce il conflitto mentre il governo con la legge di bilancio incrementa le disuguaglianze: per questo sanno che la protesta è destinata ad allargarsi”. Usb sottolinea che non c’è stata “nessuna risposta sul miglioramento delle condizioni di vita e dei diritti delle persone, non resta evidentemente che tentare di criminalizzare l’emergenza sociale”. Dunque, dal prossimo sciopero di lavoratrici e lavoratori del pubblico impiego previsto per il 31 ottobre, alla mobilitazione dell’industria dell’8 novembre, i momenti di lotta devono continuare”. Si contano altre trentasei piazze contro il Ddl, da Trieste a Reggio Calabria passando per Cagliari. A Milano la protesta si è unita alla manifestazione per la Palestina: circa duemila persone si sono mosse da Porta Venezia a piazzale Loreto. A Napoli, dove per il 28 ottobre è prevista un’assemblea nazionale sul tema. i No Ddl hanno sfilato insieme alla contestazione al G7 dei ministri della difesa. A Livorno la manifestazione si è conclusa con l’occupazione dell’ex cinema Grande. “In questa giornata di lotta contro il Ddl 1660 abbiamo deciso di occupare, seppur solo temporaneamente - spiegano i promotori di Asia Usb ed Ex Caserma occupata - Lo abbiamo fatto per evidenziare come il vero degrado siano i posti lasciati vuoti. Oggi vogliamo restituire alla città uno di questi luoghi; vogliamo condividerlo con un momento assembleare nel pomeriggio, ed un momento conviviale nella serata”. A Pisa e Firenze l’appuntamento era davanti alla prefettura: “Nel mirino del decreto ci sono tutte le forme di lotta e di organizzazione della protesta - dicono - dal movimento ecologista alle lotte studentesche, dal movimento dei lavoratori alla lotta per la casa, fino a quella per i diritti delle donne e dei migranti”. Petrelli (Ucpi): “Bene separare le carriere. Ma il dl Sicurezza è illiberale” di Giulia Merlo Il Domani, 20 ottobre 2024 Il presidente dei penalisti: “Il giudice deve essere e apparire terzo rispetto all’accusatore”. Molto critico su nuovi reati e politiche carcerarie: “Così il governo viola la Costituzione”. La riforma costituzionale della separazione delle carriere sta proseguendo in parlamento ed è stata oggetto del congresso straordinario dell’Unione delle camere penali italiane, che della separazione ordinamentale tra giudice e pubblico ministero ha fatto solitaria battaglia per anni. Presidente Francesco Petrelli, siete soddisfatti oggi che il governo si è intestato la riforma? La nostra non è mai stata una battaglia di bandiera e men che meno un fine personale. Non vediamo la separazione delle carriere come un fine, ma esclusivamente come un mezzo per ottenere quella terzietà del giudice che sta scritta nell’articolo 111 della Costituzione. La nostra Carta infatti parla di giudice terzo ed imparziale e non si tratta di una semplice endiadi: per imparzialità si intende l’indifferenza del giudice rispetto all’oggetto della controversia, mentre la terzietà indica la mancanza di contiguità ordinamentale fra il giudice e le parti. Agli occhi dei cittadini, il giudice deve apparire, oltre che essere, terzo rispetto all’accusatore. Oggi l’unicità delle carriere lo impedisce. Le toghe obiettano che, così, sia inevitabile che si arrivi alla sottoposizione del pm all’esecutivo... Rispondo che l’indipendenza e autonomia dei pm sono certamente un bene prezioso per la democrazia. Proprio per evitare qualsiasi rischio di sottoposizione all’esecutivo, il nostro progetto di riforma depositato nel 2017 in parlamento aveva già previsto la creazione di un doppio Csm, uno per i giudici e uno per i pm. Questa, infatti, è la migliore tutela e la più efficace garanzia rispetto al rischio di un qualche controllo della magistratura requirente da parte della politica. Nella stessa direzione va anche la riforma presentata dal governo e ora in discussione in parlamento. Se invece che discutere delle norme si fanno delle congetture significa che non si hanno migliori argomenti da contrapporre a questa necessaria riforma. Il governo Meloni, però, ha coniato anche lo slogan: “Garantisti nel processo, giustizialisti nell’esecuzione della pena”. La convince? Quello che speravamo che fosse solo uno slogan elettorale si è invece trasformato in una vera e propria formula programmatica. Se da un lato è vero che il governo ha varato una serie di norme che hanno rafforzato le garanzie processuali, sul fronte delle norme sostanziali e delle politiche carcerarie ci si è mossi in una direzione opposta a quella che ci si sarebbe atteso. Il paradigma del diritto penale liberale prevede la proporzionalità della pena, il ricorso allo strumento penale come extrema ratio, l’attivazione dello strumento repressivo solo se assolutamente necessario. Invece, sin dall’inizio, già con le norme anti-rave e con il decreto Cutro, il governo ha promosso una incredibile moltiplicazione delle fattispecie di reato, anche le più fantasiose e le più distanti dalle reali necessità del Paese, ed inutili incrementi di pena. Per altro, in un memento in cui si va sempre più aggravando l’emergenza del sovraffollamento carcerario e l’esponenziale crescita del numero di suicidi, ormai a quota 75 da inizio anno. Ci si è messi contromano sull’autostrada del diritto penale liberale. Il decreto Sicurezza va ascritto alla quota giustizialista dello slogan? Il pacchetto sicurezza è un vero e proprio manifesto di questo atteggiamento irrazionale fondato esclusivamente su quello che viene definito il diritto penale simbolico. Un diritto fatto solo di segnali genericamente rassicuranti, ma del tutto inefficace sul piano della realtà. Si tratta inoltre di un insieme di norme che rientrano in una idea totalmente illiberale del diritto penale come abbiamo spiegato nella nostra audizione al Senato. Norme che violano tutti i principi costituzionali fondamentali in materia - proporzionalità, ragionevolezza, uguaglianza, offensività, tassatività e determinatezza. Ma c’è di più: si tratta di norme irrazionali, che non solo se entreranno in vigore incontreranno un evidente difficoltà di interpretazione e di applicazione da parte dai giudici, ma che risulteranno ovviamente del tutto inefficaci rispetto al dichiarato intento di aumentare la sicurezza dei cittadini. Mi faccia un esempio di norma inapplicabile... Prenda il reato di rivolta carceraria: si ritiene che possa essere integrata non solo da atti di minaccia e violenza, ma anche da condotte di resistenza passiva che sono per antonomasia condotte non offensive e non punibili. Punire condotte così antitetiche allo stesso modo significa non solo esporsi ad evidenti ingiustizie ma potrebbe anche sortire l’effetto opposto a quello desiderato. Un esempio di norma irrazionale? L’aggravante di aver commesso un reato negli spazi delle stazioni ferroviarie. Non si capisce in base a quale criterio criminologico qualsiasi reato, prenda ad esempio una corruzione o una circonvenzione di incapace, debba essere aggravato solo perché commesso sotto la pensilina di una stazione. Eppure, lo stesso ministro Nordio al momento dell’insediamento aveva riconosciuto che l’aumento delle pene e la moltiplicazione dei reati non aiutasse affatto ad aumentare la sicurezza dei cittadini. Lei usa toni critici, ma c’è chi considera l’avvocatura ormai arruolata a favore del governo... Quanto in realtà l’avvocatura penale sia poco alleata di questa maggioranza e poco allineata alle sue politiche lo dimostrano le ultime decisioni prese. L’Unione non è un partito politico e non cerca né consenso né alleanze. L’ultimo esempio è proprio la proclamazione di una astensione e una manifestazione nazionale come tentativo di contrastare alle scelte della maggioranza in materia di diritto penale e di politiche carcerarie. Se questa maggioranza ha due anime diverse, con tutto il rispetto, si tratta di un problema del governo. Noi di anima ne abbiamo una sola. Non avete mai sostenuto alcuna maggioranza, quindi? Noi siamo laici e trasversali e la nostra bussola sono la Costituzione e i diritti dei cittadini. Non abbiamo bisogno del consenso per fare le nostre battaglie e sappiamo dire sì al governo quando le sue politiche vanno nella direzione del giusto processo ma anche manifestare la nostra più netta avversione, come sul pacchetto Sicurezza. Raffaele Cantone: “Giustizia, serve il fermo biologico” di Giuseppe Legato La Stampa, 20 ottobre 2024 Il procuratore capo di Perugia: “Fissare un limite di legge alle intercettazioni non è una buona idea. Le fondazioni vicine ai partiti diventano un mezzo per finanziare in modo illecito e surrettizio la politica”. Riforma della giustizia? “Non si avvertiva la necessità d tutte queste modifiche, auspico un “fermo biologico” da parte dell’esecutivo”. E ancora: “Il tema delle violazioni alle banche dati pubbliche o più in generale dei sistemi informatici pubblici, a partire da quelli del ministero della Giustizia, si sta rivelando in questi giorni un problema enorme, anche di sicurezza per l’intero Paese”. E poi la lotta alla corruzione che da anni connota la sua carriera da magistrato e da ex presidente di Anac “resa molto più complicata dalle ultime riforme”, il ruolo delle Fondazioni create dai partiti “che in molti casi finanziano in modo illecito e surrettizio la politica”. L’ufficio del Procuratore di Perugia Raffaele Cantone è un via vai di investigatori: l’inchiesta che vede indagati, tra gli altri, il tenente della Guardia di Finanza Pasquale Striano e l’ex magistrato della Dna Antonio Laudati è in corso: “Di questo ovviamente nulla posso dire” precisa. Procuratore Cantone, non si è mai visto - o si è raramente visto - come in questo biennio un profluvio di modifiche legislative. Erano tutte così necessarie? “Effettivamente nell’ultimo periodo si sono susseguiti tanti interventi in materia di giustizia su molti aspetti sostanziali e processuali. Va detto, per onestà, che anche altre legislature, pure recenti, si erano distinte per un eccesso di attivismo. Sulla necessità ed opportunità non posso che concordare con quanto saggiamente e felicemente ha detto la Prima Presidente della Cassazione, Margherita Cassano”. Sarebbe a dire? “Ha auspicato un “fermo biologico” in materia”. Abuso d’ufficio abolito. E amministratori liberi dalla paura della firma. Quanto c’è di vero? “È una leggenda metropolitana che la paura della firma, quella che qualcuno chiama burocrazia difensiva, dipenda dalla norma sull’abuso di ufficio; la paura della firma, purtroppo, invece è un fatto esistente, ma ha ben altre e più complesse cause. Sono convinto che anche con l’abolizione dell’abuso le amministrazioni pubbliche non si trasformeranno in esempi di efficienza e i fatti purtroppo mi daranno ragione”. Cosa accadrebbe alla lotta alla corruzione nell’ipotesi di un combinato disposto tra l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, il ridimensionamento del traffico di influenze e la ventilata cancellazione della Spazzacorrotti? “Chi si occupa di indagini sa benissimo che l’abolizione dell’abuso di ufficio renderà le indagini in materia di corruzione molto più difficili, perché viene meno un’ipotesi di “reato spia”, che può nascondere - non sempre - fatti di corruzione. La riforma Nordio depotenzia moltissimo anche il traffico di influenze che però è un reato che serve a punire l’attività dei faccendieri, che nelle forme moderne di corruzione sono coloro che fanno da tramite fra i pubblici ufficiali corrotti ed i corruttori: l’annacquamento di questa fattispecie rischierà di indebolire anche questo aspetto dell’attività di contrasto”. Sono pubbliche le intenzioni di limitare anche l’utilizzo del Trojan su indagini di corruzione... “Non consentire il trojan per questa tipologia di reati avrà un effetto assolutamente deleterio”. Forse qualcuno crede ancora che corrotti e corruttori parlano liberamente al telefono? “Ma si figuri. La corruzione è un reato commesso da persone con un certo livello di cultura e di attenzione, che al telefono parlano pochissimo e che non lo utilizzano per scambiarsi favori e mazzette; pensare che possano bastare le sole intercettazioni telefoniche è quantomeno un’ingenuità”. Dall’inchiesta della procura di Genova sulla politica è emerso un tema molto delicato legato alle Fondazioni che i politici creano per finanziare la campagna elettorale. Un sistema trasparente? “Le Fondazioni create a latere dei partiti nascono con nobili finalità culturali e di promozione di idee politiche ma in molti casi diventano un modo per finanziare in modo illecito e surrettizio la politica. La legislazione, pur con le novità timide introdotte dalla “Spazzacorrotti”, non è in grado di garantire la trasparenza dei finanziamenti e paradossalmente questa situazione fa danno anche a quelle Fondazioni che vogliono fare davvero politica e non raccattare denaro”. Ha ragione il presidente dell’Anticorruzione Busia a invocare una nuova legge sul conflitto di interessi? “Ha assolutamente ragione; il conflitto di interessi è l’anticamera della corruzione: per troppi anni abbiamo pensato che riguardasse un unico politico e cioè un importante imprenditore; in realtà i conflitti di interesse nelle amministrazioni pubbliche sono tanti e, ad oggi, non ci sono strumenti adeguati per rimuoverli”. Stop alle intercettazioni dopo 45 giorni. Anche questa era una misura impellente per un miglior funzionamento della giustizia? E cosa c’entra coi diritti degli indagati? “Credo che sia una riforma sbagliata, malgrado le eventuali buone intenzioni che la animano; concordo che le intercettazioni non devono avere tempi lunghissimi, ma fissare un limite per legge non è una buona idea; vediamo come sarà scritta la norma”. Quanto eventuali limitazioni all’accesso ai cellulari degli indagati (ddl sui sequestri) avrebbe impattato sull’indagine che sta portando avanti come procuratore di Perugia insieme al suo ufficio? “Dell’indagine nulla posso dire ma mi faccia dire che il tema delle violazioni alle banche dati pubbliche o di interesse pubblico o più in generale dei sistemi informatici pubblici, a partire da quelli del ministero della Giustizia, si sta rivelando in questi giorni un problema enorme, anche di sicurezza per l’intero Paese. Bisogna sul punto dare atto che fra le tante leggi criticabili il Parlamento ha varato una buona riforma dei reati informatici, attribuendo il coordinamento delle indagini alla Procura Nazionale antimafia. Un plauso meritato, quindi”. Sostiene il ministro che “la madre di tutte le riforme è la separazione delle carriere”... “Io sono assolutamente contrario; la riforma fra l’altro di cui si discute non prevede la separazione delle carriere ma molto di più e cioè la separazione delle magistrature e paradossalmente renderà il pm più forte e molto più autoreferenziale, ma anche molto più a rischio di essere influenzato da scelte della politica. Mi auguro che su questa riforma vi sia la giusta riflessione, perché si rischia di stravolgere l’impianto costituzionale”. Ritiene verosimile anche lei - come alcuni suoi colleghi - che “il vero obiettivo di pezzi di questo esecutivo sia sottomettere (ad esso) i pm e abolire l’azione penale obbligatoria”? “Sono rischi concreti che vanno assolutamente scongiurati; certi principi rappresentarono nel 1946 i capisaldi di una Costituzione democratica e restano ancora oggi pienamente validi”. L’avviso di arresto, così ribattezzato dalla norma sul “contraddittorio anticipato” sta svelando alcune fragilità... “È una riforma che non potrà reggere; nella prima attuazione ci sta creando problemi seri non tanto per i reati contro la pubblica amministrazione ma per quelli che riguardano la sicurezza pubblica: i furti e lo spaccio di droga; in una realtà come Perugia in cui questi reati sono appannaggio di soggetti senza fissa dimora o che non sono della zona l’interrogatorio preventivo rischia di rendere l’eventuale misura successiva inutile, perché gli indagati si danno alla fuga. Il governo ha promesso che monitorerà gli effetti e mi auguro, se necessario, che torni davvero sui propri passi”. Capitolo sorteggio/Csm. Il ministro Nordio lo considera “l’unico modo per dare alla magistratura indipendenza e autonomia”. E cita la Corte d’Assise “composta per la maggioranza da giudici popolari sorteggiati”.… “È un ragionamento che faccio fatica a credere possa aver fatto un giurista raffinato come il collega Nordio; cosa c’entra la Corte di assise, i cui componenti dovranno partecipare ad un processo per un tempo relativo, con il Csm chiamato ad gestire la vita professionale e le carriere dei magistrati? Questa norma mi pare solo punitiva per la magistratura e vorrei che si capisse che qualcuno, in futuro, raccogliendo questo precedente potrà chiedere che anche il Parlamento venga scelto a sorteggio”. Giustizia, a Nordio il premio del Movimento italiano per la gentilezza di Laura Anello La Stampa, 20 ottobre 2024 Il Movimento definisce il ministro persona con “un agire intriso da grandissima dedizione e spirito di servizio, da una visione illuminata”. Intanto infuria il caso Albania e il Pd chiede le sue dimissioni. Certo che a volte le coincidenze sono involontariamente ironiche. Succede infatti che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, mentre il governo fa la faccia feroce e sfida la magistratura sui trasferimenti in Albania in nome della difesa dei confini patri, si trovi a ricevere il Premio del Movimento italiano per la gentilezza. Al burbero Nordio, che si dice “commosso e orgoglioso”, viene riconosciuto “un agire intriso da grandissima dedizione e spirito di servizio, da una visione illuminata della giustizia riscontrabile nella sua prassi operativa protesa a rispettare “la dignità dei cittadini e degli operatori di giustizia”. Lui un po’ si schermisce (“Non so se sono un’anima gentile”) ma gli organizzatori non hanno dubbi, definendolo “permeato da quella proprietà d’animo che è virtù integrante dell’etica ovvero la gentilezza, definita da Schopenhauer come preoccupazione genuina e profonda per gli altri. Essa riflette dunque una comprensione della preziosità della vita e della sua imperfezione, cifra di una personalità testimone di autentici sentimenti di rispetto verso tutti”. Mentre infuriano le polemiche sui migranti portati in Albania e riportati in Italia dopo l’intervento dei giudici di Roma, mentre il ministro dei Trasporti Salvini rischia una condanna a sei anni per avere lasciato in mare per giorni, cinque anni fa, una nave carica di profughi, la cerimonia del Premio va avanti come su un’astronave nell’ambito dell’Assemblea mondiale della gentilezza ospitata nelle sale splendenti di Palazzo dei Normanni di Palermo, sede del Parlamento siciliano. Sala popolata di rappresentanti africani, indiani, asiatici, che raccontano di episodi di “gentilezza” spesso legati a storie di migrazione a lieto fine. Clima surreale, con il presidente del Parlamento siciliano Gaetano Galvagno e l’assessore ai Trasporti della Regione siciliana Alessandro Aricò a fare gli onori di casa davanti ai delegati di mezzo mondo che - con tanto di traduzione simultanea - si alternano al microfono cantando, ringraziando la vita, inneggiando al sorriso, sciorinando storie personali e collettive. Qualcuno dagli Stati Uniti racconta quella del fondatore della società americana Kind - che alla gentilezza deve appunto il suo nome - “Daniel Lubetzky, figlio di un ebreo sopravvissuto all’Olocausto grazie a un soldato tedesco che gli lasciava ogni giorno una patata marcia, poi emigrato in Messico, e poi da lì negli Stati Uniti”. Oggi, forse, sarebbe definito un clandestino. O un migrante economico proveniente da un Paese sicuro. L’attuale Segretaria del Movimento, la nigeriana Tristaca McCray, dà la parola a una connazionale che racconta della battaglia condotta “per salvare le donne vittime di abusi nel nostro Paese”; la ex Segretaria del Movimento, una donna indiana, racconta la storia che le ha cambiato la vita: “Scesa da un treno, non ho trovato chi doveva venirmi a prendere, era buio ed ero a disagio. Mi ha chiamato una persona che avevo conosciuto in treno, aveva già fatto venti minuti in più di viaggio ma è tornato indietro a prendermi”. Atmosfera tra seduta di autocoscienza e liturgia da Chiesa evangelica. Storie meticce, di migrazioni, di ecumenismo, con la presidente del Movimento italiano, la siciliana Natalia Re, imprenditrice di mestiere, che prova a dare concretezza all’iniziativa. “La gentilezza è un fattore strategico per la coesione sociale e per l’efficienza dello Stato”. La prima stima arriva dall’Osservatorio italiano della Gentilezza e del comportamento che il Movimento ha istituito: “Il conto economico dei maltrattamenti su minori, senza contare gli impatti sulla salute del bambino e sul suo futuro generano una spesa pubblica di oltre 13 miliardi di euro e arrivano a pesare fino allo 0,84 per cento sul Pil”. Sull’astronave a un tratto precipita l’attualità. “Ministro, ma che ne dice del caso Albania?”. “La reazione della politica - dice - non è stata contro la magistratura ma contro il merito di questa sentenza che non condividiamo e riteniamo addirittura abnorme. Non può essere la magistratura a definire uno Stato più o meno sicuro, è una decisione di altissima politica. Prenderemo dei provvedimenti legislativi”. Il Pd, per tutta risposta, ne chiede le dimissioni. La gentilezza può attendere. Cascina Spiotta, rigettate le istanze della difesa: il processo si farà di Frank Cimini L’Unità, 20 ottobre 2024 Formalmente la decisione è stata rinviata al 30 ottobre ma il gup Ombretta Vanini rigettando le istanze della difesa a livello di eccezioni preliminari ha già Scelto di rinviare a giudizio Renato Curcio Mario Moretti Lauro Azzolini e Pierluigi Zuffada ex dirigenti delle Brigate Rosse per l’omicidio del carabiniere Giovanni D’Alfonso del 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta durante le fasi della liberazione dell’imprenditore Vallarino Gancia in precedenza sequestrato. “È tutto il contrario del matrimonio di Renzo e Lucia che per don Rodrigo non s’ha da fare, questo processo di Torino invece s’ha da fare” commenta l’avvocato Davide Steccanella difensore di Azzolini. Il Gup nel rigettare le eccezioni proposte dagli avvocati è passato sopra una serie di forzature e irregolarità della procura. Parliamo di una indagine riaperta dopo un proscioglimento senza possibilità di leggere quella lontana sentenza poi annullata perché scomparsa nel corso dell’alluvione di Alessandria nel 1994. Parliamo di un captatore Trojan utilizzato a mezzo secolo dai fatti senza il decreto autorizzativo del gip. Ci sono anche sette libri dedicati alla stagione dei cosiddetti anni di piombo tra gli “elementi indiziari” presentati dai pm torinesi nel processo a carico degli ex Br. Tra questi ci sono i volumi firmati da Curcio e da Moretti. Alcuni frammenti di questi testi sono stati letti in aula. “I pm hanno letto dei brani io invece ne ho letti altri - dice l’avvocato Francesco Romeo che assiste Moretti - non ci si può limitare a estrapolare frasi dal contesto. La stessa presenza dei libri in un processo ci rimanda a un passato poco piacevole”. Va ricordato che il 5 giugno del 1975 moriva anche Mara Cagol colpita quando era terra arresa e disarmata. Ma su quel colpo di grazia non si è indagato nonostante i pm lo avessi promesso a Curcio in sede di interrogatorio. Si andrà in corte di assise a celebrare un processo alla storia di un tentativo fallito di rivoluzione. I vincitori processano i vinti. Insomma. Norimberga due. Almeno quella numero uno la fecero subito non mezzo secolo dopo a un gruppo di 80enni. Udine. Troppi detenuti nelle celle, non si può una sezione della Casa circondariale di Lara Zani rainews.it, 20 ottobre 2024 Non si sa dove spostarli per la durata dei lavori. Per il garante è una motivazione inaccettabile. Ma in via Barzellini si è già arrivati al doppio della capienza. Per la Casa circondariale di Udine è tempo di grandi lavori di ristrutturazione, dai quali però resta al momento escluso proprio uno degli spazi che più ne avrebbero bisogno, la sezione prima al pianterreno. Un progetto di riqualificazione, in realtà, già c’è, ma è impossibile avviarlo. “Abbiamo una situazione particolare con il primo piano, con la prima sezione che è al piano terreno del carcere, dove sono detenuti 57 reclusi, in condizioni di palese inagibilità edilizia - afferma Andrea Sandra, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine. “Per questa sezione è già stato previsto uno stanziamento per la ristrutturazione, ma è una ristrutturazione che non si fa, perché il Prap, cioè l’organismo amministrativo deputato, ha risposto che non c’è lo spazio per mettere i detenuti che attualmente vivono in quella sezione”. Una motivazione inaccettabile per il Garante, che ha dunque lanciato una nuova mobilitazione on line per chiedere l’immediata chiusura della sezione. Settantacinque le adesioni raccolte finora. “Sarebbe davvero un peccato - si sostiene nel documento - che il miracolo che si sta realizzando a Udine, con una ristrutturazione che offrirà spazi per attività e socialità, venisse messo in pericolo”. “Proprio questa mattina ho visto le nuove aule scolastiche, che sono state trasferite in uno spazio luminoso e certamente di grande miglioramento rispetto alla situazione precedente, racconta Franco Corleone, ex garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine. “E il polo culturale di lavoro chiuderà i lavori a fine dicembre, quindi l’anno prossimo inizierà un grande cantiere del cambiamento. Il carcere cambierà volto”. Resta, tuttavia, il problema del sovraffollamento. “Purtroppo anche oggi abbiamo 177 presenze rispetto a una capienza di 90 posti, cioè il doppio. È una situazione difficile da reggere per tutti”. Udine. Intollerabile degrado igienico ambientale nel carcere di via Spalato friulisera.it, 20 ottobre 2024 Dal Garante dei detenuti la richiesta di intervento immediato. “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri” le parole attribuite a Voltaire e spesso abusate con drammatica ipocrisia, oggi risuonano anche a Udine. In realtà nel nostro paese del carcere non si parla se non legandolo a fatti di cronaca più o meno drammatici, si ha paura di farlo in maniera approfondita e si preferisce ignorare il problema o trattarlo in maniera semplicistica e gretta. Il carcere, come del resto nel medesimo solco di pensiero i Cpr per migranti, sono semplicemente luoghi di contenimento, nel caso delle carceri di autori di reato, nei Cpr manco di quello, ma nella percezione tutti potenzialmente pericolosi perché “predisposti” alla delinquenza. In maniera involontaria per molti, perniciosamente vendicativa o elettoralmente fruttuosa per altri, si soprassiede sul fatto che certamente la detenzione priva o riduce le libertà delle persone recluse ma che queste tuttavia conservano la titolarità di alcuni diritti. Primo fra tutti quanto prescritto dalla Costituzione ed in particolare dell’art. 2 che riconosce e garantisce a tutti “i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità”. Questo impedisce o meglio, dovrebbe impedire, di considerare il carcere come luogo in cui vige un regime di extraterritorialità rispetto alle garanzie fondamentali assicurate dallo Stato. Ed invece la situazione è spesso fuori controllo e per questo le parole di Voltaire suonano come condanna senz’appello della presunta “civiltà” italiana, basti pensare alle fatiscenti condizioni delle strutture carcerarie con detenuti ben oltre il numero massimo ospitabile e agenti di custodia dal numero sottodimensionato ai quali tocca incolpevolmente di condividere un pezzo delle “pena” vivendo anch’essi in intollerabili condizioni di disagio, in ambienti malsani spesso ai limiti della agibilità sanitaria. Una visione anche superficiale alla quotidianità del pianeta carcere dimostra con drammatica evidenza quanta distanza vi sia fra quei princìpi di diritti della persona e la realtà della pena detentiva. Dimostra quanto sia forte il contrasto fra la teoria dichiarata e gli obiettivi di rieducazione, legalità e rispetto della dignità. Fattori che dovrebbero certo produrre sicurezza, ma restituendo alla società dopo l’espiazione della pena una persona libera e capace di reintegrarsi. Un reinserimento sociale che non può non partire proprio dalle condizioni di detenzione, in mancanza di questo ad ottenere una condanna senz’appello sarà la “civiltà” italiana. Ebbene tutto questo è presente anche a Udine nel “suo” carcere di via Spalato dove convivono, anzi sopravvivono, detenuti ben oltre il numero massimo previsto e dove vi è assenza quasi assoluta di medici, psicologi e operatori sanitari. Insomma un carcere a misura d’uomo è un miraggio dietro le sbarre a Udine come altrove. Una situazione oggetto questa mattina di una conferenza stampa voluta da Andrea Sandra, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine che ha raccontato una realtà con alcune luci ma molte ombre. “La Casa circondariale di Udine, come noto, ha spiegato Sandra, è oggetto di un ampio programma di ristrutturazione in ottima fase di avanzamento, la cui completa definizione dei lavori è prevista per la metà del 2025: si tratta di un intervento architettonico che modificherà radicalmente l’Istituto penitenziario udinese, con la possibilità per i reclusi di un trattamento finalizzato a concrete esperienze di reinserimento”. Ma le “luci” finiscono qui. Sandra ha infatti spiegato che vi è una “contraddizione evidente” rappresentata dalla realtà della sezione prima per la quale è già previsto l’opportuno stanziamento per la sua ristrutturazione ma che in realtà si trova ancora in condizioni igienico sanitarie pessime, verosimilmente inagibile e non casualmente teatro delle maggiori tensioni all’interno del carcere”. “Per questa sezione ha spiegato ancora il garante, come già accennato, è già stato previsto uno stanziamento per i lavori, ma è una ristrutturazione che non si fa, perché il Prap, cioè l’organismo amministrativo deputato, ha risposto che non c’è lo spazio per mettere i detenuti che attualmente vivono in quella sezione”. In realtà, chiosa Sandra “è divenuto ormai di massima urgenza procedere, previo lo sgombero degli ospiti ivi reclusi, alla ristrutturazione dell’intera sezione nella quale - si precisa - trovano ospitalità, attualmente, oltre 50 detenuti, la maggior parte dei quali di nazionalità straniera, spesso con difficoltà relazionali e di comunicazione linguistica, ma soprattutto, in molti casi, con compromissioni della salute mentale che rendono ancor più a rischio la permanenza, la convivenza e la gestione dei reclusi”. Anche la visita dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino” della scorsa estate ha evidenziato la maggior criticità dell’Istituto penitenziario nelle condizioni ambientali, igieniche e sanitarie in cui versa la prima sezione nella sua interezza. Il sovraffollamento principale problema - è divenuto ormai di dimensioni sempre più difficilmente gestibili, con il superamento anche del doppio della capienza possibile. “Purtroppo, ha spiegato Sandra, anche oggi abbiamo 177 presenze rispetto a una capienza di 90 posti, cioè il doppio. È una situazione difficile da reggere per tutti, ma la situazione della prima sezione è addirittura a rischio permanente di degenerazione e la decisione di un immediato intervento non è più ulteriormente procrastinabile”. La motivazione dei mancati lavori in quella sezione è secondo il Garante inaccettabile tanto che ha lanciato una nuova mobilitazione on line per chiederne l’immediata chiusura. “Sarebbe davvero un peccato - si sostiene nel documento - che il miracolo che si sta realizzando a Udine, con una ristrutturazione che offrirà spazi per attività e socialità, venisse messo in pericolo”. Alle dichiarazioni di Andrea Sandra ha fatto eco l’ex garante Franco Corleone oggi coordinatore dei Garanti territoriali per i diritti dei detenuti che in una lettera aperta (che potete leggere i calce) ha espresso il suo severo giudizio sulla situazione lanciando nel contempo l’appello a “non rassegnarsi alla catastrofe”. Lo stesso Corleone ha poi ricordato l’efficacia delle azioni messe in atto dalla comunità associativa e istituzionale che si è creata in questi anni in sostegno al carcere udinese: dalla raccolta fondi per l’acquisto dei frigoriferi, al digiuno a staffetta. “Oggi mi viene da suggerire una marcia silenziosa dal Duomo di Udine al carcere, tenendo in mano una rosa bianca come segno di resistenza, come già fece don Pierluigi Di Piazza”. Udine. Non rassegnarsi alla catastrofe di Franco Corleone* friulisera.it, 20 ottobre 2024 Lettera aperta a tutte e tutti coloro che vogliono togliere il carcere dal cono d’ombra. Care amiche e cari amici, qualche giorno fa con Andrea Sandra abbiamo risposto alle notizie apparse sui media su alcuni episodi di autolesionismo e di proteste avvenute in carcere con un appello: “Salvare Via Spalato”. Avevamo voluto precisare la dimensione dei fatti accaduti, evitando preoccupanti strumentalizzazioni. Purtroppo un detenuto si era prodotto un taglio alla gola, ed era stato dato fuoco a un materasso e il fumo aveva intossicato, per fortuna non gravemente, treb agenti di polizia penitenziaria intervenuti meritoriamente per spegnere l’incendio. Le presenze in carcere sono arrivate a 180 persone, anche la parola sovraffollamento non è più adeguata. Il rischio che la situazione precipiti fuori controllo è reale. In Italia ci sono stati 70 suicidi in carcere, una vera ecatombe, e molte proteste si verificano non solo per le condizioni di vita inaccettabili, ma anche perché la detenzione è senza senso e senza speranza. Sarebbe davvero un peccato che il miracolo che si sta realizzando a Udine con una ristrutturazione che offrirà spazi per attività e socialità, venisse messo in pericolo. La sezione della semilibertà, assai dignitosa, è ormai in funzione per sedici detenuti e dai prossimi giorni potranno essere utilizzate le nuove aule della scuola e a fine dicembre l’ex femminile potrà diventare il Polo culturale e un laboratorio per corsi e lavoro. I provvedimenti che il Parlamento sta approvando indicano scelte preoccupanti se non pericolose: nuovi reati, aumenti delle pene detentive, penalizzazione della protesta pacifica, carcere per le donne incinte e con figli di meno di un anno, equiparazione della canapa light a quella stupefacente. Si opta per il confronto basato sulla forza invece che puntare sul dialogo, spesso difficile ma insostituibile per affermare i principi della Costituzione. La comunità che abbiamo costruito ha offerto prove di umanità e di sensibilità sorprendenti a cominciare dalla raccolta fondi per dotare tutte le celle di frigo e con l’acquisto in programma di attrezzi per la palestra e di giochi per le stanze della socialità. Dal primo di ottobre è presente a tempo pieno una psicologa del servizio sanitario pubblico. È un piccolo risultato ma non è sufficiente, è indispensabile il ridisegno completo del servizio di infermeria per garantire il diritto alla salute nelle 24 ore e la Regione deve offrire alla magistratura di sorveglianza spazi e strutture per la detenzione terapeutica per i soggetti con problemi di disturbi del comportamento e di salute mentale. Ma vi è una priorità assoluta che rappresenta un nodo intollerabile: la sezione al Piano terra è in condizione igienico sanitarie vergognose. Muffa e umidità sono presenti in un luogo chiuso e con i detenuti più problematici. Sono 57 prigionieri incatenati, da liberare. Il rifacimento è in programma da tempo e sono stanziati anche i fondi necessari. Perché non partono i lavori? Mistero inaccettabile, anche perché chi visita il carcere viene colpito da questo luogo più che dagli aspetti curati nelle altre parti dell’Istituto. Anche la Asl che compie visite periodiche per verificare il rispetto delle norme igienico sanitarie ha una responsabilità nel non avere dichiarato ancora la inagibilità della sezione e avere prescritto i lavori indispensabili. La soluzione è evidente. La sezione va chiusa immediatamente. È una battaglia di scopo chiara e l’obiettivo va raggiunto prima del seminario annuale previsto per il 7 novembre. La prova del digiuno a staffetta tra il 23 febbraio e il 25 aprile ha segnato l’esistenza di una comunità solida e solidale e potremmo riprendere quella modalità di presenza, ma anche immaginare altre iniziative con qualche carattere di originalità. La maratona oratoria è stata un esempio; mi viene da suggerire un walk around circondando i palazzi del potere (Tribunale, Regione, Comune) oppure una marcia silenziosa dal Duomo al carcere, tenendo in mano una rosa bianca come segno di resistenza. Molte volte ho detto che non voglio essere complice neppure per omissione e provo angoscia per una catastrofe che incombe provocata da irresponsabilità di chi tifa per il tanto peggio, tanto meglio. L’aria deve cambiare. Subito. La prima cosa da fare è di formalizzare la richiesta al Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria con una lettera del Garante dei diritti del carcere di Udine e sottoscritta da chi di noi la condivide. Per quanto mi riguarda sarò pronto a sostenere l’impegno comune con un digiuno di testimonianza, per convincere chi può e deve decidere, a fare la cosa giusta senza incertezze e perdite di tempo. L’esito di questa nuova battaglia sarà positivo se cento fiori risplenderanno. *Ex Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine Reggio Calabria. Le risposte del ministro: “Al carcere di Arghillà garantiti i diritti umani” di Francesco Tiziano Gazzetta del Sud, 20 ottobre 2024 “Il sovraffollamento è contenuto”. Il carcere di Arghillà a rischio collasso tra carenza degli organici della Polizia penitenziaria, sovraffollamento nelle celle, gravi criticità strutturali e soprattutto, come scrive il deputato di Forza Italia, Tommaso Antonino Calderone, nell’interrogazione presentata al ministro della Giustizia Carlo Nordio, il serio dubbio su “come garantire il rispetto dei diritti umani e la sicurezza del personale del Corpo di polizia penitenziaria e dello stesso istituto penitenziario”? Quesito, e tematiche, di estrema delicatezza su cui il Guardasigilli ha risposto con particolare puntualità. Sugli organici: “Partendo dai dati forniti dal Dap sulla popolazione carceraria, si rappresenta che al 4 settembre 2024, presso la Casa circondariale di Arghillà sono presenti un totale di 327 detenuti, rispetto a una capienza regolamentare pari a complessivi 294 posti disponibili, rilevandosi una percentuale di affollamento pari all’11,22 per cento, inferiore sia all’indice percentuale medio regionale (15,69%), sia a quello nazionale (31,66%)”. Diritti umani e vivibilità: “Non si registrano violazioni dei parametri minimi stabiliti dalla Corte Edu, atteso che la quasi totalità dei detenuti risulta avere a disposizione uno spazio di vivibilità superiore ai 4 metri quadrati. Per arginare il cronico sovraffollamento, la direzione generale dei detenuti e del trattamento gestisce le procedure di riequilibrio su scala nazionale della popolazione detenuta, sia appartenente al circuito dell’alta sicurezza sia appartenente al circuito della media sicurezza, attraverso un puntuale e costante monitoraggio”. Torino. Il blitz di Ilaria Salis in carcere: “Servono altre strutture” di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 20 ottobre 2024 Ospite di Aska per una raccolta fondi, l’europarlamentare visita il carcere e oggi va tra i Notav. Destre polemiche. Il corteo che nel pomeriggio, da piazza Castello, ha marciato per contestare il decreto sicurezza. Un bagno di folla nel giardino del centro sociale Askatasuna ha chiuso la prima giornata torinese di Ilaria Salis. Una risposta alla contestazione che aveva preceduto il “discusso” arrivo in città dell’europarlamentare. “Ilaria Salis: Torino non ti vuole”, recitava uno striscione firmato dall’organizzazione neofascista “Avanguardia” e affisso nella notte fuori dalla sede di Sinistra ecologista-alleanza Verdi Sinistra. “Le intimidazioni dei neofascisti non ci spaventano, Torino darà il benvenuto a Ilaria Salis dopo averla largamente sostenuta in campagna elettorale”, la replica dei vertici locali di Avs. La tappa torinese è stata occasione per presentare il fumetto “Questa notte non sarà breve”. Disegnato da Zerocalcare, racconta la storia di Ilaria Salis ed è in vendita per raccogliere fondi a sostegno delle spese legali degli attivisti antifascisti sotto processo in Europa. Vicende che l’eurodeputata ha raccontato in prima persona, affiancata dall’attivista di Askatasuna Dana Lauriola, Mattia Tombolini di Momo Edizioni, Nicoletta Salvi in rappresentanza delle Mamme in piazza per la libertà di dissenso e dalla “pasionaria” No Tav Nicoletta Dosio, in videochiamata dai domiciliari in Val di Susa. Inevitabile, in apertura, il racconto dell’esperienza in carcere in Ungheria: “Ho fatto ricorso alla mia forza interiore, i valori politici innanzitutto, ma anche ricordi e saperi che mi avevano tramandato compagni finiti in carcere prima di me. Ho avuto contatti con l’esterno dopo sette mesi, ma sapevo di non essere sola. Ho avuto anche problemi materiali: non avevo mutande di ricambio, assorbenti e sapone. Mi hanno sequestrato tutti i vestiti e le scarpe, me ne hanno dato alcuni malconci e un paio di stivali ridicoli con tacchi a spillo. Ma è stata un’esperienza in cui mi sono resa conto che le prigioni sono luoghi pieni di umanità, sofferente ma molto viva, nel bene e nel male”. Nell’ex centro sociale tutto sembra essere rimasto come prima, con gli hot dog, vegani e non, cucinati sulla piastra e le birre a offerta libera. Ieri sera l’incontro si è svolto all’esterno, ma gli avvisi ai corrieri e quelli per i corsi di pilates fanno intuire che poco sia cambiato durante il percorso di “amministrazione condivisa” con il Comune. In corso Regina Margherita 47 sono arrivate centinaia di persone, ma prima di salire sul palco tra gli applausi, Ilaria Salis si è presentata in carcere per una visita ai detenuti del Lorusso e Cutugno. “Ho incontrato ragazze che avrebbero bisogno di assistenza medica e di tutt’altro genere di strutture - racconta. La maggior parte delle persone è in carcere per reati di lieve entità. Persone svantaggiate, che vivono ai margini”. Poco dopo il blitz a sorpresa di Salis alle Vallette, un corteo ha raggiunto il comune per contestare il ddl Sicurezza. “Senza conflitto non c’è democrazia. Le lotte non si arrestano”, il messaggio ribadito a più riprese. E sul nuovo decreto si è espressa anche l’europarlamentare: “Rappresenta un attacco alle lotte e alla libertà di dissenso. Ma non è la prima volta: in passato anche i governi di centro sinistra avevano attaccato le forme di lotta più radicali. Oggi la destra sta alzando ulteriormente il livello: si tratta di uno strumento di repressione generale che va a colpire anche le persone comuni. Quello che mi preoccupa è la risposta, che ha dei limiti: non basta fare un discorso contro la repressione, bisogna portare avanti delle lotte che affermino degli obiettivi concreti”. Mentre Salis riscuoteva applausi ad Askatasuna, la sua presenza nell’ex centro sociale ha fatto infuriare Augusta Montaruli (FDI): “Non si tratta di un parlamentare europeo che visita un centro sociale qualunque, ma la casa della violenza e dell’odio politico senza pentimento. È un fatto gravissimo, forse auspicato da chi voleva una sanatoria di quel posto, di certo dannoso per chi crede nel confronto e non nella violenza ideologica, usata come arma di ricatto nei confronti dello Stato”. Di visione opposta l’assessore comunale alle Politiche sociali Jacopo Rosatelli: “Una serata bellissima, la migliore risposta all’ignobile intimidazione subita con quegli striscioni”. Questa mattina Salis incontrerà gli attivisti del movimento No Tav al presidio di San Giuliano di Susa e poi a San Didero. Genova. Seconda Chance, il lavoro oltre il carcere di Alessandra Rossi Il Secolo XIX, 20 ottobre 2024 Crescono anche in Liguria i progetti dell’associazione no profit che dà opportunità di impiego ai detenuti. Un gruppo di volontari e volontarie dell’associazione ligure Crivop, a cui si appoggia Seconda Chance per portare avanti le attività a favore dell’integrazione di detenuti, persone in affidamento ed ex carcerati. Ci sono improvvise curve nella vita che fanno sbandare. Ci sono errori che complicano talmente tanto l’esistenza da cancellare ogni orizzonte. È in momenti così bui che talvolta bussano alla porta, inaspettate, le possibilità. Seconda Chance è una di queste. L’associazione no profit, costituita nel 2022 per volere e caparbietà della giornalista del Tg La7 Flavia Filippi, ha infatti l’obiettivo ambizioso di dare opportunità di lavoro ai detenuti, agli “affidati” o agli ex detenuti che faticano a reintegrarsi nella società per le più disparate ragioni, una su tutte il pregiudizio. Seconda Chance lavora come un ponte tra il “dentro” e il “fuori”, consentendo alle imprese di conoscere i benefici della legge Smuraglia che offre agevolazioni a chi assume, anche part time o a tempo determinato, detenuti ammessi al lavoro esterno. Da qualche anno, ma in maniera più incisiva a partire dal 2023, Seconda Chance ha avviato il suo prezioso lavoro anche in Liguria e ora inizia a raccogliere i primi risultati. Complice Luca Pizzorno dell’associazione di volontariato Crivop, diventato “braccio destro ligure” dell’instancabile Filippi. “Ho conosciuto Seconda Chance proprio grazie al lavoro che già da tempo svolgo in carcere con Crivop. E, vuoi per questa ragione, vuoi perché ho un’esperienza passata come direttore del personale - racconta Pizzorno - ho abbracciato il progetto di Flavia con entusiasmo, cercando di fare il possibile per facilitare il dialogo tra l’amministrazione penitenziaria e il mondo del lavoro. Come volontario, faccio centinaia di colloqui e interventi di sostegno sociale per i detenuti: conosciamo le persone, le storie e quindi ho iniziato a collaborare realizzando i loro curricula da consegnare agli educatori che li seguono, nella speranza di incrociare domanda e offerta di lavoro”. Una spinta forte che arriva dall’interno del carcere dove, secondo l’ultimo report di Antigone, la situazione peggiora di giorno in giorno con un sovraffollamento record e un tasso di suicidi preoccupante, insieme ad un alto livello di recidiva, ben oltre il 70%. Secondo il report, al 31 marzo 2024 erano 61.049 le persone detenute in Italia, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti, quindi con 13.500 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare: numero che, secondo Antigone, entro fine anno rischia di arrivare a 65 mila. Inoltre, dopo il 2022, anno record con 85 suicidi accertati, il 2023 e il 2024 hanno continuato a registrare numeri elevati: nel 2023 sono state 70 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto di pena. Nei primi mesi del 2024, 30, uno ogni 3 giorni e mezzo (75 ad ottobre 2024). Non va meglio sul fronte lavoro: circa il 33% delle persone detenute è occupata, ma dei lavoranti 16.305 persone risultano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, pari all’85,1% del totale, e 2.848 alle dipendenze di datori di lavoro esterni, sottolinea il report. Chi lavora, lo fa in modo precario per poche ore settimanali. Ecco perché “da dentro il carcere, grazie al”impulso di Seconda Chance - racconta Pizzorno - abbiamo iniziato anche in Liguria a spingere per avere un referente dedicato a questi progetti. Dal provveditorato regionale (Prap), ci hanno fatto arrivare una mediatrice culturale ed ora è più facile dialogare con l’amministrazione penitenziaria di Marassi su questo tema”. L’obiettivo è conoscere le capacità del detenuto e capire se per lui ci sono possibilità fuori le mura. Tante le realtà che hanno raccolto l’invito di Seconda Chance, che ha creato ad oggi 340 opportunità lavorative: dagli imprenditori edili di Ance, a Confcommercio, ma anche realtà sociosanitarie come cliniche o Rsa, nonché diverse aziende con bilancio sociale, motivate ad operare per favorire l’inclusione. Tra le opportunità di lavoro sono previsti i tirocini, strumento messo in campo grazie al progetto Goal, finanziato dalla Regione Liguria attraverso fondi Pnrr: in questo caso, 200 euro sono a carico dell’imprenditore e 300 della stessa Regione. “Il tirocinio viene equiparato ad un’offerta di lavoro e aiuta la persona detenuta ad ottenere l’affidamento esterno, se si dimostra di avere un luogo dove dormire e soldi per mangiare - spiega Pizzorno - Diciamo che è un trampolino di lancio per avviare un percorso lavorativo”. L’altra possibilità è l’assunzione a tempo indeterminato, “ma ancora non è mai successo in Liguria - precisa il volontario - o quella a tempo determinato, che invece ha cominciato a trovare riscontri, attraverso aziende come Amplia e, nei prossimi mesi, Arcaplanet”. Il vero ostacolo da superare è la mancanza di fiducia. Attualmente a Marassi ci sono 681 detenuti, a fronte di una capienza di 535. Ma le persone che possono essere coinvolte nel progetto attualmente sono poche: 20 detenuti in semilibertà e 2 con “articolo 21”. “Da un lato è fondamentale che si attivino gli imprenditori, dall’altro è bene continuare ad insistere con l’amministrazione penitenziaria per svolgere corsi mirati, testando le capacità dei detenuti”. Le offerte arrivano principalmente da edilizia e ristorazione, ma anche il porto potrebbe rappresentare una chance, “visto ad esempio il grande bisogno di saldatori. E perché no - prosegue Pizzorno - sarebbe bello coinvolgere le Poste o la grande distribuzione. Bisogna conoscere le competenze dei detenuti, ma su questo non c’è ancora la dovuta attenzione: Seconda Chance spinge per creare, in questo senso, dinamiche virtuose”. Dei quasi 700 detenuti in carcere a Marassi, si esprimono poche decine di curricula. Certo, sarebbe d’aiuto avere un centro per l’impiego nella casa circondariale: “Intanto noi invitiamo gli imprenditori a mettere piede in carcere. Si troveranno davanti persone che hanno sbagliato e che hanno ben presente la loro situazione. Ma - conclude il volontario - con attenzione e pazienza, si ottengono risultati insperati”. Da detenuto a pizzaiolo, “l’attività fuori da quelle mura consente di pensare al futuro” Il racconto di M., che dopo la pena a Marassi ha aderito al progetto Seconda Chance: “Essere occupati aiuta a sopravvivere, il sogno è aprire una pizzeria”. “Non sono uno abituato a stare con le mani in mano sul divano”. M. si presenta così: sicuro di sé, determinato, affamato di futuro. È un detenuto “articolo 21” di Marassi, ovvero una persona che può usufruire del beneficio di lavorare fuori dal carcere. E di non tornarci, se ha un tetto garantito sulla testa e soldi per mangiare. Il 16 giugno, grazie all’incontro con Luca Pizzorno, attraverso Seconda Chance, ha iniziato il suo tirocinio come lavapiatti in un ristorante. Da metà settembre gli si sono aperte le porte di una pizzeria, luogo che sa di casa, visto che M., nonostante la giovane età, ha sempre fatto il pizzaiolo. “Uscire fuori da quelle mura, tornare la sera a casa, a contatto quotidianamente con i miei figli, è stato bellissimo”, racconta prima di iniziare il turno di lavoro. “Bellissimo” forse non rende l’idea per chi non ha vissuto la prigione. Immaginate di vivere dietro le sbarre, con ritmi scanditi dall’alto, dividendo la propria cella con altre 6-8 persone, senza far altro che pensare e ripensare: al passato che addolora e al futuro che terrorizza. “Il momento più sopportabile là dentro era quando lavoravo. Mi occupavo dello sfuso e dell’imballaggio all’interno del panificio di Marassi: era qualcosa che aiutava”. Aiutava letteralmente “a sopravvivere dentro quelle quattro mura”, confessa M. La sua esperienza detentiva è iniziata a Reggio Calabria, per poi chiedere il trasferimento a Genova con l’obiettivo di avvicinarsi alla moglie e ai suoi bimbi di 5 e 7 anni. “Mi sento addosso una grande responsabilità, specie nei confronti di mia moglie per la quale non è stato semplice venire tutte le settimane in carcere a fare colloqui. Ha un lavoro, doveva occuparsi da sola dei piccoli. Quando ha sentito di questa opportunità è stata più che contenta: sarei tornato a casa”. Prima del tirocinio, infatti, grazie alla buona condotta usciva in permesso 2-3 giorni, ma poi tornava dentro per altri dieci giorni. Un’odissea chiusa grazie a Seconda Chance e all’incontro con Luca Pizzorno. Nella cucina del ristorante è stato “ben accolto da tutti”: “La sensazione di essere occupati è molto piacevole: svuota la testa e ti proietta verso il domani. Ho accettato il tirocinio, sperando di trovare qualcosa di più per andare avanti e contribuire al mantenimento della mia famiglia”, rivela. E così è stato. Senza il tirocinio, non avrebbe messo quel tassello in più per ricostruire il futuro che aveva rischiato di compromettere. In più, si è avvicinato ulteriormente al suo vero sogno: “Aprire una pizzeria mia, magari nel mio Paese d’origine, sull’isola di Mauritius, dove sono nati i miei genitori - racconta - Finché non sconto tutto però resto qui a Genova. Lavoro, risparmio e domani, chissà”. M. è pentito dell’errore che lo ha portato dietro le sbarre, ma ha una fame enorme di riscatto, supportata dalla vicinanza della sua famiglia, che non l’ha mai abbandonato: “È determinante per un detenuto avere una famiglia - racconta - Senza nessuno che lì fuori ti aspetta, non hai la carica di sicurezza necessaria per andare avanti, perché quando esci devi ricominciare tutto: sei come un bambino che riprova a camminare. Il rischio è di cadere e di tornare qui. Io oggi ci penso mille volte prima di fare una cosa, perché so dove potrebbe portarmi: lontano dai miei bimbi e da mia moglie. Sono uscito da lì e non è che torno a delinquere: conosco le mie possibilità e so dove posso arrivare”. Lontano, si augura, molto lontano dal carcere, dove ha visto da vicino come si spegne un essere umano: “Ci sono persone dentro che meriterebbero di lavorare - confessa - Vorrei ci fossero più opportunità, che gli imprenditori si aprissero e che la magistratura concedesse più chance a chi ha i requisiti”. Per godere di questo beneficio, però, è fondamentale avere l’alloggio: viceversa, sfuma l’opportunità occupazionale. E secondo quanto racconta M., ci sono molti detenuti a Marassi che non hanno famiglia, di conseguenza sono senza un tetto sulla testa, ma avrebbero un bisogno enorme di trovare una possibilità di lavoro fuori: “È la loro unica chance vera per ricominciare”. Detenuto diventa operaio per la Gronda: “Il cantiere è come una famiglia” L’esperienza di Amplia, società che realizza l’infrastruttura a Bolzaneto. Il responsabile: “K. felice di lavorare, è fondamentale per la sua vita. “Inizialmente era timido, poi ha preso confidenza. Ora, quando arriva in cantiere, ha sempre un sorriso larghissimo”. Sembra una forzatura, ma per K., detenuto del carcere di Marassi, andare a lavorare dalle 7:30 del mattino alle 16:30 in uno dei cantieri della Gronda, lato Bolzaneto, è il momento più felice della giornata. A raccontarlo Gianni Lucia, capocantiere di Amplia, società che per conto di Autostrade sta eseguendo i lavori e che si è messa in contatto con Seconda Chance non solo per trovare un operaio da inserire in squadra, ma anche per fare formazione ai detenuti, con corsi ad hoc di carpenteria. Lucia da tre mesi ha a che fare con questo ragazzo di cui si dice soddisfatto: “Ho aperto una linea di credito di fiducia con lui, ad oggi completamente ripagata”. K. infatti è volenteroso, impara in fretta e, quando è ora di lasciare il cantiere, si rabbuia: “Quelle ore di lavoro - racconta Lucia - sono ore tolte alla routine carceraria. La privazione della libertà è un problema enorme per lui, ma il lavoro lo aiuta: gli dà una prospettiva sul domani”. Il giovane, che inizialmente se ne stava per conto suo, ora è sempre circondato dai colleghi in pausa pranzo: scherza, ride, racconta di sé. È stato proprio lui a rivelare agli altri operai di essere un detenuto: “Col passare dei giorni, ha iniziato a fidarsi: il cantiere - spiega il suo capo - è una piccola famiglia. Nessuno lo ha giudicato per la sua provenienza”. K. vuole impegnarsi nel lavoro, anche per i suoi cari che lo aspettano: Amplia gli ha offerto un contratto a tempo determinato e per lui quel pezzo di carta ha il sapore della possibilità nel bel mezzo di un cammino di porte chiuse. “C’è stato un episodio che mi ha fatto capire quanto questa esperienza sia fondamentale per K.- racconta il capocantiere - Un giorno, non troppo tempo fa, mi ha guardato con gli occhi lucidi dicendomi “Voglio fare questo nel mio futuro. Per favore, non farmi andare via”. “Quando inizialmente mi avevano annunciato che avrei avuto in squadra un detenuto, ammetto di aver storto un po’ il naso - confessa Lucia - In passato mi era capitato un episodio spiacevole e non volevo trovarmi nella stessa situazione. Ma K. - conclude - ha ridisegnato i miei orizzonti”. Nei colloqui di questa settimana Amplia ha conosciuto 9 candidati, di cui 3 sono risultati idonei. I prescelti faranno un corso di formazione per essere poi inseriti in cantiere. Bologna. Letteratura e carcere: artisti, studiosi, registi all’Alma Mater di Massimo Marino Corriere di Bologna, 20 ottobre 2024 Nel 1987 Aurelio Grimaldi pubblicava “Meri per sempre”, storia di ragazzi nel carcere minorile Malaspina di Palermo, accendendo i riflettori, anche con il successivo film di Marco Risi, sulle condizioni di quell’Istituto di pena e sulla possibilità di un lavoro diverso, attraverso la letteratura e l’arte, in contesti di emarginazione. Aurelio Grimaldi sarà presente domani all’incontro su “Letteratura e carcere: esperienze a confronto” promosso dal Dipartimento di Filologia classica e Italianistica dell’Università (dalle 15.30, presso il Dipartimento stesso). Dopo di lui si potranno ascoltare l’artista Tommaso Spazzini Villa, la scrittrice e giornalista Serena Uccello, la studiosa di letteratura italiana e insegnante Sonia Trovato. Parleranno di esperienze educative in carcere e rifletteranno sulle pratiche di lettura e su come la letteratura possa raccontare l’esperienza della reclusione. L’iniziativa si inserisce nel programma sviluppato da qualche anno dal Circolo dei lettori della Dozza, che ogni mese si ritrova per discutere di uno stesso libro sia nel carcere di Bologna sia in Salaborsa Lab. Gli appuntamenti prossimi di questa esperienza, nata sempre nel Dipartimento, saranno annunciati domani, insieme alla novità della partecipazione, quest’anno, di studenti dei licei Galvani, Minghetti e Arcangeli. Firenze. I cani entrano a Solliccianino e i detenuti li addestrano per i ciechi di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 20 ottobre 2024 I cani entrano nel carcere di Solliccianino e vengono affidati ai detenuti. Succede grazie alla convenzione tra la Scuola cani guida della Regione Toscana e la casa circondariale a custodia attenuata Mario Gozzini (più comunemente nota come Solliccianino) grazie alla quale i reclusi in regime di semilibertà potranno prendersi cura di alcuni cuccioli che accompagneranno le persone cieche o con disabilità motoria. I detenuti saranno dei veri e propri addestratori, che cresceranno i cuccioli insegnando loro a muoversi nella vita quotidiana. Non li terranno soltanto negli spazi interni ed esterni del carcere, ma durante la giornata li porteranno fuori, permettendo ai cani di prendere dimestichezza con la strada. I detenuti insegneranno ai cani ad attraversare, li guideranno tra le buche dei marciapiedi, li accompagneranno sull’autobus, sui treni, nelle stazioni, al ristorante. E poi tutto questo, i cani lo restituiranno ai non vedenti. Saranno cinque i detenuti che si prenderanno cura di altrettanti cuccioli, che faranno il loro ingresso al Gozzini entro la fine dell’anno. Non è escluso che, qualora il progetto funzioni, possa essere allargato anche ad altri detenuti. Il progetto è stato presentato ieri dall’assessora regionale alle politiche sociali Serena Spinelli nel corso dell’open day della Scuola cani guida di Scandicci. “Sarà un’opportunità preziosa sia per i detenuti che per la scuola - ha spiegato Spinelli - Un’azione virtuosa, che produrrà effetti positivi per tutti”. La convenzione prevede anche un progetto dedicato ai cani da allerta medica per bambini con diabete. Napoli. “Detenuto per un minuto”, una cella virtuale nel salotto buono della città di Gennaro Scala Corriere del Mezzogiorno, 20 ottobre 2024 La cella virtuale, installata in piazza dei Martiri a Chiaia, ha consentito ai cittadini di varcare la soglia di un luogo di detenzione per un minuto. Una cella virtuale allestita nel bel mezzo di piazza dei Martiri, a Chiaia, per dare ai cittadini il senso di cosa significhi vivere la detenzione. È questo il senso dell’iniziativa “Detenuto per un minuto”, che Il Carcere Possibile Onlus ha organizzato questa mattina, dalle 10,30 alle 13,30, con il patrocinio dell’Unione camere penali Italiane, del Comune di Napoli, del Garante dei diritti delle persone private della libertà Samuele Ciambriello, della Camera penale di Napoli e dell’Università Parthenope. La cella virtuale, installata in piazza, ha consentito ai cittadini di varcare la soglia di un luogo di detenzione per un minuto. Un’iniziativa volta a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema delle condizioni inumane delle carceri italiane dovute al sovraffollamento (62mila detenuti a fronte di una capienza a fronte di una capienza di 47mila), con particolare riferimento ai continui suicidi che si verificano dietro le sbarre, 75 dall’inizio dell’anno, quasi uno ogni tre giorni. Si tratta di un’iniziativa ideata anni fa dal compianto ex presidente dell’associazione Riccardo Polidoro e che l’attuale presidente, avvocato Maria Esposito Gonella, ha deciso di replicare: “Questa è un’iniziativa che nasce col presidente emerito fondatore del Carcere Possibile, che ormai festeggia un ventennio di esistenza. Un’iniziativa che, allora come oggi, purtroppo è attualissima”. “Il prendere una cella - continua Esposito Gonella - e metterla in una piazza di passeggio del salotto buono della città, ha naturalmente un forte significato simbolico: l’obiettivo era far sì che si entrasse almeno per un minuto nella cella, per rendersi conto dello spazio minimale che è riservato ad una persona”. Parliamo di uno spazio fisico esiguo, con il water in vista, il lavandino, la brandina, senza televisore. Sono questi gli arredi che si trovano nelle celle. L’obiettivo era quindi registrare la sensazione. “Il carcere non è per noi punizione, ma è rieducazione, perché lo dice la Costituzione - continua Maria Esposito Gonella -. Lo dice l’articolo 27 della Costituzione che, ahimè, il mondo politico ha deciso di ignorare, forse perché non è serbatoio di voti né di interessi immediati”. Ma come ha reagito la cittadinanza? C’era chi aveva un atteggiamento polemico. Molti invece l’hanno accolta. “In tutti quelli che sono entrati - conclude Esposito Gonella - ho registrato grande impressione. Qualcuno ha detto “no, no, no” consapevole nel non voler provare un’emozione tanto negativa. E a me questo già basta. Cioè, le persone che hanno vissuto la cella per un minuto, sono uscite, secondo me, con una consapevolezza diversa”. Sacrofano (Roma). Carcere, minori, lavoro: Azione Cattolica a tutto campo di Agnese Palmucci Avvenire, 20 ottobre 2024 Ecco i progetti delle associazioni diocesane che, nei territori, trasformano le idee in bene comune L’Atelier è il laboratorio dell’artigiano, il luogo dell’immaginazione e della concretezza. Nel pomeriggio di ieri, i presidenti diocesani e gli assistenti unitari di Azione Cattolica hanno avuto l’opportunità di partecipare a laboratori di studio e progettazione su alcuni ambiti di impegno presenti nel Documento assembleare nazionale per il triennio 2023-2026. Tra i progetti presentati c’è quello dell’Ac dell’arcidiocesi calabrese di Rossano-Cariati, che da oltre dieci anni coinvolge, nelle attività associative e nel cammino di fede, detenuti della Casa circondariale Corigliano-Rossano. “Dal 2013 - ha spiegato Maria Vennari, presidente diocesana - portiamo avanti incontri settimanali sui sussidi nazionali, con più diventi detenuti che si sono anche tesserati. Facciamo attività formative, proponiamo momenti di preghiera, ma anche convegni di approfondimento sulla legalità e attività ludiche”. In più, “con i giovani, accompagniamo i detenuti nel percorso di studio universitario, e molti di loro si sono laureati”. Altra esperienza importante è il Progetto Safe, nato nel 2019, promosso da Azione Cattolica ragazzi (Acr), Comunità Papa Giovanni XXIII e Csi. “Si tratta di un progetto di formazione sulla prevenzione e il contrasto degli abusi sessuali all’infanzia - ha detto Anna Maria Bongio, responsabile nazionale Acr - nelle organizzazioni di ispirazione religiosa che operano con i minori”. L’obiettivo di Safe “è creare una cultura della prevenzione - ha aggiunto - tramite la promozione di ambienti sicuri e la formazione. Tra gli impegni c’è proprio quello, da parte delle associazioni coinvolte, di contrastare ogni forma di abuso emotivo e psicologico, anche diventando sentinelle e fornendo agli educatori gli elementi fondamentali di conoscenza dei diversi tipi di abuso e maltrattamento”. Sono tante, in tutta Italia, le iniziative di progettazione sociale promosse dal Movimento Lavoratori di Ac (Mlac). Come il progetto di formazione al lavoro, contro lo spopolamento delle aree interne, portato avanti dal 2018 dal Mlac della diocesi campana di Cerreto Sannita-Telese-Sant’Agata de’ Goti. “Con il progetto RicarICARE - afferma Giovanni Pio, segretario diocesano del movimento - insieme alla Cooperativa sociale di comunità “I Care” volevamo mostrare ai ragazzi delle superiori che i sogni si possono realizzare anche senza abbandonare il proprio territorio. Così abbiamo iniziato a fare ore di formazione nelle scuole, proponendo attività come le simulazioni di colloqui di lavoro. Ha dato molto frutto”. Ecco poi l’iniziativa della diocesi abruzzese di Avezzano con il “Lavandeto della Fraternità”: “Abbiamo vinto nel 2022 il contest nazionale del Mlac - ha raccontato Claudia Di Biase, presidente diocesana - con un’esperienza che era nata da più di un anno, grazie all’impegno di alcune parrocchie della diocesi. Il Lavandeto è un’esperienza di fraternità intergenerazionale che ci ha permesso di riscoprire il lavoro della terra. I proventi della lavanda raccolta, su un campo che prima era incolto, hanno permesso a molti giovani fragili dell’Albania di partecipare ai campi con i nostri ragazzi”. Cosa accade davvero quando “Mamma è in prigione” di Francesca Giannetto Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2024 Che cosa succede quando una donna, e madre, deve scontare una pena in carcere? Risponde in maniera esaustiva il libro inchiesta “Mamma è in prigione” (Editore Jaca book) di Cristina Scanu, che permette di seguire dall’interno, con una struttura molto chiara suddivisa in sezioni, tutto l’iter legato alla carcerazione femminile. Una questione tornata prepotentemente di attualità ora che il disegno di legge Sicurezza, per volontà della maggioranza, propone di cancellare l’obbligo di rinviare la pena per le madri con figli sotto l’anno di età sancendo lo slittamento solo facoltativo, come già avviene per le mamme di bambini tra 1 e 3 anni. Anche i neonati, dunque, rischieranno di muovere i primi passi nel mondo nel buio di una cella. La scelta dell’autrice di intervistare sia chi sta scontando o ha scontato una pena sia chi si trova dall’altra parte (educatori, agenti, mediatori, psicologi) offre un quadro completo della situazione in Italia, non solo dal punto di vista burocratico, ma anche umano. Il dolore di una madre che deve portare dietro le sbarre un figlio o una figlia o li deve lasciare fuori, senza riuscire a spiegare (per pudore o per incapacità di porre a un bambino una questione gigantesca nel modo meno traumatico possibile) il motivo dell’allontanamento, è tangibile nelle parole delle intervistate. Voce alle “donne più disgraziate del Paese” - Il libro, pubblicato nel 2013, rappresentava il primo studio sulla situazione carceraria delle donne dopo tanti anni. L’intento primario era di far conoscere un argomento di cui si parla poco dalla viva voce da chi ci sta passando o ci è passata: “Sono le donne più disgraziate del Paese. Quelle che non hanno scelta: se sei in carcere e hai un figlio sotto i tre anni che nessuno può tenere e non vuoi darlo in affido perché hai paura di perderlo, sei obbligata a tenerlo con te. Condannato all’umido delle celle e al sole visto a spicchi dietro sbarre arrugginite”. Molto chiara è anche l’intenzione sociale; il libro si apre con un appello alle istituzioni affinché prendano in carico una questione così complicata: “In Parlamento non ci sono mai state tante donne. Non so quante di loro siano madri. Ma so che, all’uscita del libro, ognuna di loro ne avrà ricevuto un estratto. Le voci rotte dei bambini che ho incontrato sono un grido che le sfida. Nella speranza che non termini l’ennesima legislatura con quei piccoli dietro le sbarre”. A che punto siamo, dieci anni dopo l’inchiesta di Cristina Scanu? È interessante capire se e come questo appello (che esprime anche un sentire comune) sia stato recepito, cosa sia realmente cambiato in dieci anni. La stessa autrice, che non ha mai smesso di seguire la questione, ha recuperato per Alley Oop dati e progressi, ove ce ne siano stati, ed emerge un panorama non molto diverso dal 2013, come testimoniato anche recentemente dalle indagini dell’Associazione Antigone, che svolge un prezioso lavoro di ricerca sul pianeta carcere. Anche oggi - e finché il Ddl sicurezza non diventerà legge (al momento è all’esame del Senato in seconda lettura) - le madri beneficiano del rinvio della pena se i figli hanno meno di un anno e invece corrono il pericolo di finire dietro le sbarre con i bambini da 1 a 3 anni. Secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 agosto scorso le mamme in carcere erano 18, con 21 figli al seguito. Con la nuova norma, potrebbe, dunque, amplificarsi il problema che l’inchiesta di Scanu solleva grazie alla sua ricerca sul campo: una madre può godere in teoria degli arresti domiciliari, ma se non ha una residenza ufficiale o una famiglia, come accade a tante donne straniere, non può che finire in cella con i bambini. I figli si ritrovano a essere piccoli carcerati, pur non avendo pene da scontare. Condizione che potrebbe persino diventare “accettabile” se solo venissero garantiti spazi di gioco, o il semplice diritto di frequentare nidi e scuole materne esterne al carcere. Ma i soldi a disposizione del sistema carcerario sono stati e sono sempre pochi e spesso i tagli riguardano proprio i servizi accessori, come il pulmino che dovrebbe accompagnare i bimbi a scuola o le ludoteche attrezzate dentro le strutture o ancora i corsi di formazione per le donne, che dovrebbero prepararle a un nuovo ingresso in società. Non punizione, ma riabilitazione, nuovo ingresso alla vita sociale - Un aspetto che Scanu sottolinea a gran voce, ma che lascia trasparire tutto il carico di emozioni che un incontro “fuori dalle cronache”, immerso nella vita reale di queste donne, può comportare, è che si è persa di vista, negli anni, la reale finalità dell’esperienza carceraria: la riabilitazione e quindi la formazione di chi sta scontando una pena. La riforma penitenziaria del 1975 ha ribadito il fine rieducativo dell’esperienza carceraria sancito dall’articolo 27 della Costituzione, sottolineando che “nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento del condannato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive”. E invece si scopre, leggendo le testimonianze, raccolte ed elaborate con garbo e attenzione dall’autrice, che non è proprio così, e ancora oggi mancano gli spazi adibiti alla formazione delle detenute, che solo in poche strutture vengono organizzati laboratori (spesso sono associazioni di volontari a occuparsene), corsi professionali, seminari e incontri che possano essere utili e per rendere il percorso formativo, riabilitativo, più che punitivo. Con sorpresa, si apprende che per tante donne anche l’idea di uscire dal carcere, a un certo punto, rappresenta una fonte di ansia, angoscia, perché significa lasciare un ambiente in qualche modo protetto da schemi, orari, attività (seppure poche), abitudini e tornare in un mondo al quale sono completamente impreparate. Chi delinque ha bisogno di ricostruire una vita diversa da quella che ha lasciato, allontanarsi da un ambiente che, per mancanza di risorse, di assistenza, le ha portate a rubare, spacciare, prostituirsi. Quindi hanno bisogno di strumenti (il lavoro prima di tutto, ma anche una forte consapevolezza di sé) che le aiutino a tornare a una vita dignitosa. Gli Icam e la mancanza di fondi per avviarli - Sono necessari anche ambienti che favoriscano la convivenza di mamme con i bambini piccoli, nei quali la vita del minore non venga completamente stravolta; in Italia esistono gli Icam, Istituti a custodia attenuata per detenute madri, ma sono ancora troppo pochi e non possono accogliere tutte le donne che ne avrebbero diritto; queste “case famiglia protette” erano poche nel 2013 e ancora oggi sono soltanto cinque (Milano, Cagliari, Venezia, Lauro e Torino) e due nuove sono state aperte, a Roma e Milano, grazie all’Associazione Ciao e alla Cooperativa Alice. Lo Stato, infatti, ha difficoltà a reperire o destinare finanziamenti per aprire nuove case famiglia e forse non se ne sente, oggi, nemmeno l’esigenza. È del Pd l’ultima proposta (a prima firma Debora Serracchiani) per il finanziamento pubblico alle case famiglia protette, ritirata per la mole di emendamenti peggiorativi della maggioranza; la Lega infatti ha negato la validità del differimento della pena per le donne incinte o con figli minori di un anno in quanto “essere incinta e/o madre di bambini piccoli non può essere il passepartout per le borseggiatrici abituali e professionali per evitare il carcere e continuare a delinquere” (queste le parole di Jacopo Morrone e Ingrid Bisa, componenti della commissione Giustizia alla Camera, che hanno presentato la proposta di modifica all’articolo 146 del Codice penale, che sancisce il rinvio dell’esecuzione della pena in caso di gravidanza o bambini molto piccoli). Lo stesso principio è alla base della norma del Ddl Sicurezza approvata alla Camera. Una questione lontana dalle Istituzioni - Le istituzioni apparivano, dieci anni fa come oggi, lontane, anche nella concezione del carcere. L’aspetto emotivo delle detenute viene poco considerato e le condizioni sanitarie sembrano non essere una priorità del sistema. Colpisce leggere che ogni detenuta ha a disposizione uno spazio di sei ore al mese per i colloqui con i familiari, che spesso avvengono in una stanzetta affollata, e attraverso un vetro, anche se si è in carcere per reati minori. Non si riesce a creare continuità con l’esterno, i legami pian piano - a meno che non si abbia una famiglia veramente solida, che non accusi il colpo, alle spalle - si dilatano, si affievoliscono; si diventa estranei e si iniziano ad avere rapporti più profondi con le compagne di cella che con mariti e figli. Questo porta a un grande senso di solitudine, spesso anche alla depressione, e in carcere non ci sono abbastanza mezzi per affrontare il disagio. Gli psicologi sono pochi, i momenti di svago rari. Perfino chi sta male deve assecondare le procedure burocratiche - “Il carcere è un ambiente insano, affollato. Per questo il medico può stabilire che alcuni soggetti scontino la pena fuori, in ospedale o in altro luogo idoneo. Lo avevano stabilito per Stefania Malu, settantanove anni, detenuta di Cagliari, gravemente malata e con un figlio disabile cinquantaduenne da assistere. Ma così non è stato, nonostante le sue condizioni di salute, legate anche all’età, fossero già gravi al momento dell’arresto. Per ottenere gli arresti domiciliari ha dovuto aspettare ventidue mesi…” Sono trascorsi undici anni da quando il libro di Scanu è stato pubblicato, ma la questione carceraria, soprattutto se riguarda le donne, rappresenta sempre un vulnus. C’è ancora tanta strada da percorrere per arrivare a un assetto dignitoso degli istituti penitenziari e all’allestimento di un numero sufficiente di Icam per accogliere tutte le mamme con bambini piccoli. Questo libro favorisce un’immagine netta e precisa di un sistema che andrebbe, ancora, oliato, aggiustato, che vive di vecchie consuetudini e non riesce a guardare veramente al futuro trincerandosi dietro il classico “non ci sono i fondi” e lasciando che le detenute, e spesso anche i bambini, vivano in condizioni critiche e che escano completamente impreparate e non formate per una nuova vita sociale e professionale. Un romanzo importante, per chi invece volesse rimanere in argomento, è “Il corpo docile” di Rosella Postorino (uscito in edizione tascabile per Feltrinelli nel 2022 e pubblicato per la prima volta nel 2013). La storia parte proprio dall’incontro di un giornalista, in cerca di storie e risposte, con una donna che ha vissuto i suoi primi anni in carcere con la madre e che ai bambini rinchiusi come è stata lei dedica tutto il suo tempo. Autore: Cristina Scanu Titolo: “Mamma è in prigione” Editore: Jaca book (2013) Prezzo: 15 euro Se le vittime innocenti non ricevono giustizia di Tonino Palmese Il Mattino, 20 ottobre 2024 Il 4 marzo 2022, presso la sede storica dell’Università Federico II, la Fondazione Pol.i.s. della Regione Campania presentò il volume “La tutela delle vittime di reato”, un libro che faceva il punto sul corpus legislativo in merito alle vittime innocenti di reato, e al contempo raccontava l’esperienza di vicinanza della nostra Fondazione alle vittime innocenti, a partire dalla presa in carico sino all’accompagnamento psicologico e nelle aule dei Tribunali. L’opera, realizzata grazie alla sapiente regia dell’ex prefetto di Napoli, Marco Valentini, aveva uno scopo non soltanto scientifico, ovvero di raccontare in maniera didattica lo status di vittima innocente, ma anche sociale, comunitario, ovvero narrare la “carezza” che ogni giorno cerchiamo di donare, a nome dell’istituzione, a coloro che, per una falla nella sicurezza della nostra società, hanno subìto la perdita violenta di un congiunto. In quell’occasione ripresi un’espressione che volutamente ho pronunciato nelle diverse occasioni che abbiamo incontrato i vari ministri dell’Interno e servendomi della nostra lingua napoletana, dissi “ce vò a ciorta pure a’ essere accisi o feriti” (ci vuole la fortuna pure a essere uccisi o feriti). Un’iperbole non tanto surreale in quanto quel volume serviva e serve soprattutto a uno scopo: prima di tutto riconoscere attraverso l’innocenza la morte o il ferimento violento subìto da una qualsiasi persona. Non possiamo negare lo “stato di vittima” solo perché non si riesce a terminare con una sentenza la violenza subita da un innocente. Istat, quasi sei milioni di poveri e mai così tanti minori. “Un dramma desolante” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 20 ottobre 2024 Oltre 2,2 milioni di famiglie in povertà assoluta: quasi una su dieci tra tutte quelle che ci sono in Italia. E quasi 5,7 milioni di persone nelle stesse condizioni. Un quarto delle quali minorenni: mai così tanti i minori poveri - quasi 1,3 milioni, il 13,8% del totale - dal 2014 che è l’anno in cui si è cominciato a tenere le serie storiche. Sono le cifre del 2023. E raccontano il crescente disagio economico delle famiglie che hanno come persona di riferimento un lavoratore dipendente (10,7%, in crescita dal 9,8% del 2022) e, soprattutto, quelle operaie o assimilate (18,6% dal 16,8% del 2022). Peggiora anche la condizione delle famiglie che hanno come riferimento chi si è ritirato/a dal lavoro, sia a livello nazionale (7,9% dal 7,1% del 2022), sia nel Nord (4,3% dal 3,5%). È la fotografia dell’Istat sull’anno 2023, in cui sono in condizione di povertà assoluta poco più di 2,2 milioni di famiglie (8,4% sul totale delle famiglie residenti, valore stabile rispetto al 2022) e quasi 5,7 milioni di individui (9,7% sul totale degli individui residenti, come nell’anno precedente). “Non possiamo accettare - è il commento a caldo di Giorgia D’Errico per Save the Children in riferimento ai dati sui minori - che le condizioni materiali creino una frattura così profonda nella nostra società e un inasprimento ulteriore delle diseguaglianze sociali: è indispensabile mettere il tema della povertà minorile al centro del dibattito pubblico e delle attenzioni di Governo e Parlamento, in particolare alla vigilia dell’avvio dell’esame della legge di bilancio”. L’incidenza della povertà assoluta fra le famiglie con almeno uno straniero è pari al 30,4%, si ferma invece al 6,3% per le famiglie composte solamente da italiani. L’incidenza di povertà relativa familiare, pari al 10,6%, è stabile rispetto al 2022, si contano oltre 2,8 milioni di famiglie sotto la soglia. È in lieve crescita l’incidenza di povertà relativa individuale che arriva al 14,5% dal 14,0% del 2022, coinvolgendo quasi 8,5 milioni di individui. La geografia della povertà vede l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta che si mantiene più alta nel Mezzogiorno (oltre 859mila famiglie, 10,2%,), seguita dal Nord-ovest (8,0%, 585mila famiglie) e Nord-est (7,9%, 413mila famiglie), mentre il Centro conferma i valori più bassi (6,7%, 360mila famiglie). Tra le famiglie povere il 38,7% risiede nel Sud (41,4% nel 2022) e il 45,0% al Nord (42,9% nel 2022). Il restante 16,2% nel Centro (15,6% nel 2022). Istruzione e il lavoro emergono come fattori di protezione contro la povertà, che, infatti, pesa di più nelle famiglie in cui il soggetto di riferimento è operaio. L’incidenza di povertà assoluta- spiega l’Istat - diminuisce al crescere del titolo di studio della persona di riferimento della famiglia; se quest’ultima ha conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore, l’incidenza è pari al 4,6%, in peggioramento rispetto al 2022 (quando era pari al 4,0%), e raggiunge il 12,3% se ha al massimo la licenza di scuola media. Nelle famiglie con persona di riferimento occupata, valori elevati dell’incidenza di povertà si confermano per le famiglie con persona di riferimento operaio e assimilato (16,5%, in crescita rispetto al 14,7% del 2022), raggiungendo il valore più elevato della serie dal 2014; stessa dinamica per le incidenze degli occupati e dei dipendenti. “La povertà è a livelli record - sottolinea la segretaria confederale di Cgil Daniela Barbanesi - e un italiano su dieci è in povertà assoluta. Di fronte a una condizione così diffusa e complessa sono necessari e urgenti interventi e politiche diverse da quelle esistenti”. Fra le famiglie con persona di riferimento indipendente, i valori più alti si registrano per coloro che svolgono un lavoro autonomo diverso da imprenditore o libero professionista (6,8% altro indipendente, in miglioramento rispetto all’8,5% del 2022). Le famiglie con persona ritirata dal lavoro mostrano valori stabili (5,7%) dopo la crescita del 2022, mentre si confermano invece i valori più elevati per le famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione (20,7%). L’incidenza di povertà assoluta si conferma più elevata tra le famiglie con un maggior numero di componenti: raggiunge il 20,1% tra quelle con cinque e più componenti e l’11,9% tra quelle con quattro. Per Federconsumatori “i dati odierni sulla povertà delle famiglie italiane rivelano un quadro desolante”. L’associazione consumeristica non ritiene affatto consolante che il dato sia stabile sul 2022: “Si tratta di cifre allarmanti, enormi, che fotografano una situazione di disagio radicata. Il nostro Osservatorio continua a registrare sacrifici e rinunce sul fronte dei consumi: con una riduzione del consumo di carne e pesce, una ricerca sempre più assidua di offerte, sconti, acquisti di prodotti prossimi alla scadenza (abitudine adottata dal 49% dei cittadini); un aumento degli acquisti presso i discount (+11,9%)”. Contro l’individualismo: gli italiani apprezzano il modello delle cooperative di Enzo Risso Il Domani, 20 ottobre 2024 Nell’ottobre 2024 la fiducia nelle imprese capitalistiche è rimasta ferma al 46 per cento come nel 2021, mentre quella nelle imprese cooperative è salita ulteriormente, passando dal 57 per cento al 64 per cento. Le dinamiche profonde nel paese sono in costante fibrillazione. Sotto la cenere di un quadro apparentemente narcotizzato, dietro le spinte di un crescente individualismo, si alimenta anche una aspirazione contraria, la spinta verso dimensioni di nuova condivisione, di cooperazione, di collaborazione. Più la società spinge verso dimensioni egocentrate, più cresce, in contraltare, il bisogno, in molte fasce sociali, di trovare nuove forme per stare insieme, per sostenersi, per ridimensionare gli effetti perniciosi di una società sospinta solo a pensare a sé stessi. Una recentissima (ottobre 2024) indagine dell’osservatorio Fragilitalia del Centrostudi Legacoop e Ipsos, realizzata per la nuova edizione della Biennale cooperativa di Bologna, porta alla luce le diverse dinamiche in atto, confrontando i dati tra il 2021 e il 2024. Tre anni fa il 70 per cento degli italiani segnalava il bisogno di accentuare le forme di cooperazione, oggi siamo saliti al 78. Analoga crescita la possiamo registrare sul bisogno di condivisione, che nel triennio è passato dal 69 per cento al 76. Molto più forte è la crescita registrata sul bisogno di mutualismo. L’incremento è stato di ben 12 punti passando dal 61 per cento del 2021 al 73 di oggi. L’antropologo statunitense David Graeber sosteneva che “il mutualismo è il fondamento di tutte le relazioni sociali umane e della moralità stessa”. Graeber vedeva nel mutuo aiuto la base stessa della socialità umana. Per il 45 per cento degli italiani mutualismo significa assistenza e aiuto reciproco e per il 27 per cento significa anche un patto tra persone per condividere benefici e vantaggi. Solo il 5 per cento degli italiani ritiene il mutualismo una mera utopia. Ad avvertire in modo maggiormente pressante il bisogno di nuove forme di reciproco sostegno sono i ceti popolari (78 per cento), ma il tema è di alto interesse anche per la generazione Z che già nel 2021 dava segnali di bisogno di nuove risposte collettive e non solo individualistiche. La scrittrice, attivista e femminista statunitense bell hooks ha sempre sottolineato l’importanza del mutualismo per accrescere le forme di giustizia sociale. “La solidarietà”, affermava, “non è un atto di carità, ma un atto di mutuo riconoscimento e supporto”. La spinta verso nuove forme di cooperazione e di reciproco sostegno si riverbera anche sul mondo dell’economia. Per l’80 per cento del paese (era il 74 per cento nel 2021) c’è bisogno di far crescere la quantità e il ruolo delle imprese cooperative nell’economia italiana. Di questo ne sono convinti non solo i giovani under 35 anni (85 per cento), ma anche il ceto medio (84). Una esigenza che trova conferme anche nel tasso di fiducia crescente nelle imprese cooperative rispetto alle imprese capitaliste. Lo iato tra le due modalità di fare imprese non solo è tornato a essere ampio dopo il lungo periodo di sbornia neoliberista, ma è anche in crescita. La fiducia nelle imprese capitalistiche (for profit) tre anni fa era al 46 per cento mentre quello nelle cooperative era al 57 per cento. Nell’ottobre 2024 la fiducia nelle imprese capitalistiche è rimasta ferma al 46 per cento, mentre quella nelle imprese cooperative è salita ulteriormente, posizionandosi al 64 per cento. Un tasso di legame e un giudizio positivo verso le cooperative che sale ulteriormente se guardiamo i dati dei giovani della Generazione Z (75 per cento) e dei residenti al sud (72 per cento). È significativo anche lanciare uno sguardo a come è composto l’alveolo dei soggetti (54 per cento degli italiani) che segnala una sfiducia verso le imprese capitalistiche for profit. Si tratta innanzitutto di persone appartenenti ai ceti popolari (65 per cento); di over cinquantenni, la fascia di età che ha vissuto l’epoca del profondo innamoramento verso la proposta e il racconto neo-liberista (63 per cento); di appartenenti al ceto medio basso, la fascia di persone che un tempo si sentiva ceto medio e che negli anni ha perso ruolo, forze economica e potere di acquisto (59 per cento). L’economista e filosofo francese Pierre-Joseph Proudhon nell’Ottocento, sosteneva che “la reciprocità è la formula della giustizia”. Il mutualismo duecento anni dopo non appare più come una dimensione antica e sorpassata, ma, in un mondo sempre più interconnesso e individualistico, il riconoscimento dell’importanza del mutuo supporto diventa cruciale per affrontare le sfide globali e per costruire società più eque e sostenibili. Migranti, conoscere per decidere di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 20 ottobre 2024 Leggiamo almeno i nomi: prima di fare di questi migranti carne da cannoni propagandistici, si consumi tempo e fatica per starli a sentire e valutare da quali storie vengono via. Son diventati tutti giuristi dell’immigrazione, dimessisi però dal restare intanto esseri umani. Tutti a discettare di protocolli con l’Albania, trattenimenti non convalidati dal Tribunale di Roma, sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, procedure accelerate di frontiera da liste di Paesi “sicuri”: ma nessuno che, prima di fare di questi migranti carne da cannoni propagandistici o figurine retoriche da salotto, alla prima riga legga almeno i nomi di queste persone, e consumi tempo e fatica per stare a sentire e valutare da quali storie raccontino di venir via. Perché non è vero che “allora mai nessuno potrebbe più essere rimandato in Egitto o in Bangladesh”, o negli altri Paesi decretati “sicuri” dal governo Meloni: é invece l’automatismo immediato della procedura accelerata di frontiera (presupposto della gelida delocalizzazione del trattenimento nei centri in Albania) ad essere interdetto dalla sentenza della Corte Ue nei casi in cui i Paesi dichiarati “sicuri” non siano tali per la generalità delle persone. E questa generale sicurezza non esiste - stando proprio ai rapporti del Ministero degli Esteri - ad esempio in Bangladesh per persone accusate di crimini politici o vittime di quelle violenze di genere, etniche o religiose contro le quali proprio la maggioranza di centrodestra che sostiene il governo Meloni giustamente si scaglia in nome dei valori invece dell’Occidente; e non esiste in Egitto per oppositori politici, dissidenti, e difensori dei diritti umani, come palese nei casi al centro di campagne di sensibilizzazione promosse in questi mesi anche in Italia. Prima di litigare sulla pelle dei 12 traghettati a peso d’oro tra Italia e Albania, se ne vogliono ascoltare almeno le motivazioni non per finta? Non per finta come nelle invece surreali udienze celebrate l’altro giorno in una manciata di ore dalle Commissioni territoriali in videoconferenza tra Roma e l’Albania, di corsa per esprimere il primo rigetto delle domande d’asilo in anticipo persino sulla decisione del Tribunale sui trattenimenti in Albania, alla presenza puramente decorativa di avvocati impossibilitati a tutelare improvvisati clienti nel videocollegamento “a distanza” senza averli mai visti e conosciuti prima: avvocati peraltro offensivamente gratificati da un decreto del Ministero della Giustizia e dell’Economia di un rimborso-spese massimo di 500 euro per trasporto-vitto-alloggio nel caso in cui vogliano intestardirsi a partecipare fisicamente alle udienze in Albania. Forse su questi aspetti potrebbe riflettere il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, anziché ieri brandire “interventi legislativi” contro la sgradita “sentenza abnorme” di una magistratura che “ha esondato”, e così ricommettere nei confronti di questi giudici romani (come già su quelli genovesi di Toti, o su quelli emiliani dell’incostituzionalità dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, o su quelli milanesi dei domiciliari ad Artem Uss) un’ingerenza di grossolanità istituzionale pari soltanto alla gaffe dell’argomentare che “allora anche gli Stati Uniti non sarebbero sicuri se ritenessimo non sicuri i Paesi dove vigono regole che noi abbiamo ripudiato, come la pena di morte”: eh sí, proprio così, infatti l’Italia, come tutti i Paesi europei, non concede agli Stati Uniti l’estradizione di qualcuno se rischia di essere condannato a morte. E nel Consiglio dei ministri, annunciato già domani per puntare a un braccio di ferro con un nuovo decreto legge sui Paesi “sicuri”, il governo potrebbe magari occuparsi pure del fatto che, a oltre 4 anni dalla scadere nell’estate 2020 dei termini per l’emersione degli stranieri irregolari e per le loro richieste di permessi di soggiorno, su 220.000 domande ci siano 60.000 persone che non hanno ancora avuto uno straccio di risposta da Questure e Prefetture sotto organico, subappaltanti queste pratiche al massiccio turn-over di rinforzi temporanei somministrati da agenzie di lavoro interinale. Migranti. Perché la Costituzione vuole che decida un giudice di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 20 ottobre 2024 È necessario che si verifichi la situazione di fatto nei Paesi ritenuti “sicuri”, altrimenti prevarrebbe sempre la ragion di Stato. Negarlo è analfabetismo costituzionale. La pretesa del governo di non farsi ostacolare dai giudici nelle politiche migratorie (ma analogo discorso potrebbe farsi anche in materia di sicurezza e ordine pubblico) è la dimostrazione dell’analfabetismo costituzionale dell’attuale maggioranza. Dovrebbe essere ben noto, infatti, che le Costituzioni rigide del Novecento hanno reso “indisponibile” a qualsiasi maggioranza la definizione dei principi in materia di diritti fondamentali e anzi è la Costituzione a chiedere al governo (in verità alla Repubblica intera) di adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale per garantite i diritti inviolabili dell’uomo. Diritti che appartengono ad ogni persona senza possibilità di distinzione per sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, tantomeno per provenienza geografica. Dunque, i governi - ma certamente anche i giudici - non possono adottare atti in contrasto con quanto la Costituzione impone. Con riferimento alle politiche migratorie basterebbe allora leggere l’articolo 10 della nostra Costituzione. Per comprendere l’infondatezza della pretesa del governo di impedire ai giudici di decidere in materia di migrazione autonomamente. “Autonomamente” vuol dire non subordinato all’indirizzo politico maggioritario o impedito da norme che, seppure legittimamente poste, si pongano però in contrasto con il diritto costituzionale e internazionale. In tal modo diventerebbe, inoltre, immediatamente evidente come non si possa più continuare a seguire la strada intrapresa dall’attuale governo. Si è contestato al Tribunale di Roma di avere applicato i principi definiti dalla Corte di Lussemburgo, che ha individuato, in base alla normativa europea, i criteri per la definizione di “Paese sicuro”. È stata ritenuta sbagliata la decisione assunta dai nostri giudici rivendicando che, non ad essi ma ai governi spetti stabilire quali siano i Paesi da considerare “sicuri”. Scordando così che, non solo i magistrati, ma anche il governo è obbligato a conformarsi alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (articolo 10 della Costituzione, primo comma). Quelli posti dal giudice europeo sono principi che neppure un eventuale e preannunciato atto avente forza di legge nazionale potrebbe contrastare. Il governo dovrebbe pensarci prima di adottare - al prossimo consiglio dei ministri convocato d’urgenza per domani sera - atti che creeranno altri conflitti e alla fine verranno ritenuti illegittimi. D’altronde, che spetti al potere giudiziario e non al potere politico la decisione ultima su quali Paesi possono essere considerati “in via di fatto” rispettosi dei diritti umani è ben comprensibile e dal punto di vista costituzionale indispensabile. Lo dimostra la modalità con cui viene predisposta dal governo la lista di Paesi sicuri: definita sulla base di una trattativa con lo Stato interessato che accetta il rimpatrio dei migranti. Dunque, in base ad accordi di natura esclusivamente politico-diplomatica che nulla o poco hanno a che fare con le effettive garanzie prestate ai diritti delle persone. In fondo avere incluso l’Egitto nonostante il caso di Giulio Regeni, ma anche quello di Patrick Zaki, dimostra la scarsa attenzione all’effettività delle tutele e alla realtà dei sistemi giudiziari in tali Paesi. È necessario che sia un giudice a verificare la situazione di fatto perché deve essere assicurato quel che la Costituzione impone, che non è il prevalere della ragione di stato o politiche di chiusura delle frontiere. Quel che la nostra legge fondamentale pretende è che si rispetti il diritto dei migranti di espatriare in ogni caso in cui allo straniero “sia impedito nel suo territorio l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana” (articolo 10, terzo comma). Tutte queste persone sono titolari di un diritto perfetto ed esigibile, il diritto d’asilo, che nessuna maggioranza politica può negare. Lo prescrive non solo la nostra Costituzione, ma anche le norme internazionali generalmente riconosciute. La legge può stabilire le condizioni per esercitare tale diritto, non lo può però negare. Che l’accertamento sia di volta in volta definito a seconda dei casi concreti da un giudice e non in via generale ed astratta dal legislatore è il presupposto per il rispetto del diritto costituzionalmente protetto. Una considerazione conclusiva. Le politiche migratorie e il governo dei flussi sono un problema epocale, non v’è dubbio. Non è facile dare giudizi assoluti ed è palese l’incapacità sino ad ora dimostrata dai Paesi occidentali ed europei in particolare di adottare soluzioni equilibrate. Quel che può però dirsi con certezza è che i migranti non sono merci (o “carichi residuali”, come pure sono stati definiti) bensì persone, alle quali devono essere garantiti dignità e rispetto dei diritti fondamentali. Da qui dovremmo ripartire sia in Italia sia in Europa. Mi sembra che il nostro governo, ma anche l’Europa, guardino altrove. Migranti. Nordio: “Sentenza abnorme”. Bufera sul Guardasigilli. Il Pd: “Si dimetta” di Lorenzo De Cicco La Repubblica, 20 ottobre 2024 Salvini contro le toghe al Tg1: “Paghino loro se un migrante stupra”. Schlein: “Comizio delirante”. Esposti Iv-5S alla Corte dei conti sui centri in Albania. L’offensiva del governo contro la magistratura non solo non si smorza, ma sale di livello. Ventiquattr’ore dopo la sentenza del tribunale di Roma che non ha convalidato il trattenimento di 12 migranti nei nuovi, costosissimi centri tirati su in Albania, è il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a passare all’attacco degli ex colleghi togati. Parole ruvide: per il Guardasigilli la decisione della sezione immigrazione del tribunale civile della Capitale sarebbe addirittura “abnorme”. E se “la magistratura esonda dai propri poteri attribuendosi delle prerogative che non può avere”, aggiunge il ministro da un convegno a Palermo sulla “gentilezza”, “la politica deve intervenire”. Sortita talmente tranchant da spingere le opposizioni a chiedere, quasi in blocco, le sue dimissioni. La leader del Pd, Elly Schlein, parla di un “gravissimo scontro istituzionale alimentato dal governo per coprire la sua incapacità”, mentre i parlamentari dem insistono sulla richiesta di un passo indietro del numero uno di via Arenula: “Un ministro della Giustizia che sferra un attacco così pesante alla magistratura e alla sua indipendenza non può restare al suo posto”. Anche per il M5S e per Avs il Guardasigilli deve farsi da parte. Secondo Riccardo Magi di +Europa, “Nordio, con Meloni e Salvini, vuole la giustizia assoggettata a Palazzo Chigi”. Interviene pure l’Anm, col presidente Giuseppe Santalucia: “Nessuno scontro da parte della magistratura, solo l’applicazione di norme che sono cogenti per gli Stati, quindi lo saranno anche per il governo nel momento in cui, come è stato annunciato, si appresta a trovare nuove soluzioni”. A difesa del Guardasigilli, per FdI parla soltanto Giovanni Donzelli, il responsabile Organizzazione di via della Scrofa: “Spiace per la sinistra, ma il ministro non risponde a comando alle toghe politicizzate”. Stop. Perché è soprattutto la Lega a cavalcare il caso: Matteo Salvini ha tutta l’intenzione di legare la vicenda albanese al suo processo palermitano su Open Arms. E infatti, già di prima mattina, il vicepremier fa sapere di avere riunito “con massima urgenza” il consiglio federale del Carroccio, per lanciare una mobilitazione in tutta Italia. Mozioni anti-toghe da presentare nei consigli comunali dello Stivale, gazebate nel weekend del 14 e 15 dicembre, in vista della sentenza sul sequestro di persona fissata per il 20 dello stesso mese. Il segretario leghista continua a bersagliare i magistrati, in ogni comizio in Liguria: parla di giudici che dovrebbero “candidarsi con Rifondazione comunista”, di toghe “con la maglietta rossa” che “usano i tribunali come centri sociali”. Fino all’intervista al Tg1 della sera, in cui dichiara: “Se uno dei 12 migranti stuprasse, chi ne paga le conseguenze? Il magistrato che li ha riportati in Italia?”. Risposta ovvia: “Vorrei sapere perché tra tutti i lavoratori che pagano per i propri errori, i magistrati non pagano mai”. “Un comizio delirante, un attacco frontale allo stato di diritto”, lo definiscono Schlein e i capogruppo Pd Boccia, Braga e Zingaretti. La leader denuncia una Rai “svilita a megafono di un governo che vuole smontare - non lo permetteremo - la separazione dei poteri”. I giornali del gruppo Angelucci, dal Giornale al Tempo, intanto attaccano la magistrata Silvia Albano, che fa parte del collegio che ha emesso la sentenza sui 12 richiedenti asilo rientrati dall’Albania. “Sentenze assurde a favore degli irregolari”, titola il primo; “La giudice dem fan della Apostolico”, recita il Tempo, con riferimento alla toga di Catania finita nel mirino della destra per avere liberato 4 migranti, un anno fa. Tesi, questa, rilanciata anche da FdI. Il pasticcio dei centri albanesi rischia di trasformarsi poi in una grana erariale, per il governo Meloni: “Sta sprecando centinaia di milioni”, attacca Matteo Renzi. Ieri sia Italia viva, col tesoriere Francesco Bonifazi, sia il Movimento di Conte hanno annunciato un esposto alla procura della Corte dei conti. Lo stellato Antonio Colucci chiede di “accertare l’ipotesi di responsabilità erariale” e stima il costo di trasporto dei 16 migranti inizialmente diretti a Shengjin in “circa 250-290mila euro: circa 18mila euro a migrante”. Migranti. Nordio contro gli ex colleghi. Le opposizioni: “Si dimetta” di Mario Di Vito Il Manifesto, 20 ottobre 2024 “I magistrati esondano” dice il ministro della Giustizia. Le decisioni prese da sei giudici, ma la destra attacca “la toga rossa” Albano. Soldi buttati per le deportazioni non riuscite, Iv e M5s alla Corte dei conti: “Danno erariale”. “Se la magistratura esonda dai propri poteri attribuendosi delle prerogative che non può avere, deve intervenire la politica che esprime la volontà popolare”. In una giornata di fiumi che rompono gli argini e palombari chiamati a soccorrere automobilisti inabissati in città, forse Carlo Nordio avrebbe potuto scegliere un verbo migliore per il suo altolà alle toghe. Il senso del discorso, comunque, è chiaro: la sezione immigrazione del tribunale di Roma - che venerdì ha demolito il protocollo albanese che tanta fatica e tanti soldi è costato al governo - non la passerà liscia, l’affronto (perché così l’esecutivo considera l’applicazione della legge) non può restare impunito. “Noi rispondiamo al popolo - ha detto ancora il ministro da Palermo -, se il popolo non è d’accordo con quello che facciamo noi andiamo a casa. La magistratura, che è autonoma e indipendente, non risponde a nessuno e quindi proprio per questo non può assumersi prerogative che sono squisitamente ed essenzialmente politiche”. Ecco, squisitamente ed essenzialmente, Nordio ritiene che debba essere l’esecutivo a decidere quale paese sia sicuro e quale no, spacciando la cosa come se fosse una questione diplomatica: “Definire non sicuro un paese amico come il Marocco può anche creare dei problemi. Se noi ritenessimo che non sono sicuri i paesi dove vigono delle regole che noi abbiamo ripudiato come la pena di morte, allora anche gli Stati Uniti non sarebbero sicuri. Queste sono questioni di alta politica e non possono, non devono e non saranno lasciate alla magistratura”. L’argomentazione su quella che definisce una “sentenza abnorme” potrebbe tornare utile per avere la meglio in qualche discussione su Facebook o su X, a patto naturalmente di non essere un ministro della Repubblica. Ma essendo Nordio un membro del governo in carica, e non avendo detto quanto sopra in un post con la foto di un gattino, le reazioni non possono che essere veementi. In una parola: “Dimissioni”. Le chiedono le opposizioni in coro, a partire dal Pd e poi giù a cascata fino a M5s e Avs, passando per +Europa. In effetti il confine della separazione dei poteri, a parole, è stato ampiamente superato e non regge più la giustificazione che Nordio ha sempre fatto il Nordio e non ha mai rinunciato a una polemica con i suoi ex colleghi in toga. Che, dal canto loro, quasi liquidano l’uscita con un’alzata di spalle. Ieri a Pesaro, dove è in corso la rassegna Parole di giustizia, i molti esponenti di Magistratura democratica presenti hanno affrontato il tema con una battuta o poco più. “Eviteremo di mettere i calzini turchesi”, ha detto al manifesto una famigerata toga rossa alludendo al mitologico caso Mesiano, il giudice della sentenza Fininvest-Cir a suo tempo messo in croce da Canale Cinque per il suo abbigliamento. L’aria che tira, del resto, è quella. Al centro del mirino dei propagandisti filogovernativi c’è soprattutto una giudice della XVIII sezione civile di Roma che venerdì non ha convalidato i trasferimenti in Albania di dodici migranti raccolti in mare da una nave della marina militare. Si tratta di Silvia Albano. La ricerca di appigli per procedere a un’operazione di killeraggio mediatico sul modello di quanto accaduto un anno fa a Iolanda Apostolico procede, ma sin qui il massimo che si è riusciti a fare è la sottolineatura di una conclamata e mai negata evidenza: Albano è presidente di Magistratura democratica e nei mesi scorsi, in punta di diritto, aveva già spiegato più volte per filo e per segno perché i piani albanesi di Meloni fossero dal punto di vista legale una sciocchezza (eufemismo). E poi la storia di per sé non regge: i provvedimenti del tribunale di Roma sono stati emessi da sei giudici diversi, alcuni appartenenti a correnti di certo non progressiste. Albano di udienze ne ha tenute solo due su dodici e, anche con un notevole sforzo di immaginazione, è complicato sostenere che ci sia stata una sua regia dietro quello che il governo considera un golpe giudiziario. Più banalmente si è trattato di decisioni nell’ordine delle cose, previste da più parti sulla base delle leggi vigenti. Tutto qui. Lo scontro tra governo e magistratura è in ogni caso servito e andrà avanti senza esclusioni di colpi, nell’ennesima replica di un grande classico dell’ultimo trentennio di vita pubblica italiana. In tutto questo le opposizioni, oltre alla richiesta di dimissioni di Nordio - destinate a restare lettera morta - puntano forte sullo spreco di soldi pubblici che il fallimento del protocollo Albania porta con sé. Ieri sia Italia Viva sia il Movimento Cinque Stelle hanno gridato al danno erariale e annunciato la loro intenzione di rivolgersi alla Corte dei conti. Il denaro investito nell’impresa da Meloni poteva certo essere speso meglio, ma forse la cosa davvero preoccupante di questa storia è un’altra e riguarda il tentativo, ancora in corso, di legalizzare le deportazioni dei migranti. Migranti. La mossa di Meloni: UN decreto legge con la lista dei Paesi sicuri da aggiornare ogni 6 mesi di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 20 ottobre 2024 L’ipotesi di rendere appellabile la mancata convalida del fermo. Se Giorgia Meloni si è infuriata per il verdetto dei giudici di Roma e ha convocato domani un Consiglio dei ministri urgente e (lei spera) risolutivo, è perché è convinta che in gioco ci sia qualcosa di molto più grande del “modello Albania”. La premier questa volta non grida esplicitamente al complotto, ma vede il rischio che una parte “politicizzata” ed “ideologicamente prevenuta” della magistratura possa muoversi in sintonia con le opposizioni con l’obiettivo di scavalcare la volontà popolare e neutralizzare l’azione riformatrice del governo. “La sinistra prova a minare la mia leadership in Europa perché stiamo facendo scuola”, è il tormento della premier. La quale però, a quanto raccontano fonti di governo, confida nell’effetto boomerang: “Gli italiani ci chiedono sicurezza e io non credo che, quando si voterà in Liguria, premieranno chi vuole cancellare i confini della nazione”. Decreto legge ad hoc - Con questo stato d’animo, inasprito dagli echi del nuovo e durissimo scontro con la magistratura e dalle opposizioni che presentano denunce per danno erariale, la presidente del Consiglio ha affidato al sottosegretario Alfredo Mantovano il delicato compito di districare la matassa legislativa e coordinare da Palazzo Chigi il lavoro con i ministeri. L’obiettivo è strategico: scrivere nel week end un decreto legge ad hoc che confermi la linea dura e scongiuri il clamoroso fallimento del patto Meloni-Rama per la deportazione oltremare dei migranti irregolari. Indietro non si torna, è il diktat: se fino a mercoledì o giovedi non approderà a Shengjin una nave italiana con altri migranti a bordo sarà solo per le cattive condizioni meteo che non consentono “salvataggi”. La scrittura e limatura delle nuove norme assieme ai tecnici di Esteri, Viminale e Giustizia andrà avanti fino alle sei di domani sera, quando la premier aprirà il Consiglio dei ministri e illustrerà il provvedimento, assente il leader di Forza Italia e ministro degli Esteri Antonio Tajani (in missione in Medio Oriente). Lo strumento giuridico individuato è il decreto legge, che nelle intenzioni di Palazzo Chigi serve a “blindare il tema dei Paesi sicuri”. L’urgenza del governo è doppia: disinnescare il flop del modello Albania ed evitare che cadano sia la procedura accelerata per i rimpatri su tutto il territorio italiano, che l’intero Patto europeo sulla migrazione e l’asilo. “Il tema va ben oltre il nostro interesse nazionale” ripete ai ministri la premier, forte dell’apprezzamento di Ursula von der Leyen. I contatti - Da Palazzo Chigi, dove non sfuggono il dispiacere e la preoccupazione del presidente Mattarella per il braccio di ferro con i magistrati, Mantovano si sta confrontando ai massimi livelli con gli uffici giuridici del Quirinale per sciogliere nel modo più indolore il nodo politico e normativo. Tecnicamente, il punto di partenza è il decreto interministeriale del 7 maggio 2024 con l’elenco dei Paesi di provenienza dei migranti che il governo italiano ritiene sicuri. Alla Farnesina ammettono che “alcune schede andranno modificate” in corsa. Il passaggio cruciale è elevare quel testo a norma di legge di rango primario, il che avviene scrivendo un decreto legge che conterrà - forse sotto forma di allegato - la nuova lista dei Paesi sicuri, destinata ad essere aggiornata ogni sei mesi. “Non tocca alla magistratura decidere se uno Stato è sicuro - aveva ammonito il ministro della Giustizia, Nordio -. È una questione di alta politica”. L’esecutivo vuole “neutralizzare” la sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia Ue secondo cui non esistono Paesi parzialmente sicuri, sentenza che ha fatto da base giuridica al mancato trattenimento nel centro di Gjader dei 12 migranti di Egitto e Bangladesh, rimessi in libertà. Aggirare la sentenza della Corte di giustizia non è cosa facile, ammettono anche a destra, ma gli addetti ai lavori ritengono che rafforzare con una legge l’elenco dei Paesi sicuri renda più difficile alle presunte “toghe ideologizzate” scalfire le disposizioni del governo. Definire l’elenco dei Paesi sicuri con una legge vera e propria consentirebbe di superare le situazioni di criticità impedendo alla magistratura di disapplicare le norme (come avveniva con l’atto amministrativo), se non impugnandole davanti alla Corte costituzionale. I ricorsi del governo - Il ministro Piantedosi ha evocato ricorsi: tra le ipotesi allo studio c’è l’idea di rendere appellabile anche la mancata convalida del fermo. E tra le righe del decreto potrebbe esserci l’attribuzione di una maggiore rilevanza giuridica alla decisione della Commissione territoriale che stabilisce l’accoglimento o meno della richiesta di asilo. Il fermo disposto dal questore non potrà essere appellato, se non dal giudice di pace. Migranti. “Diritto d’asilo sotto attacco”. Il mondo cattolico in rivolta di Francesco Peloso Il Domani, 20 ottobre 2024 Si moltiplicano le voci critiche contro i centri per i migranti istituiti dal governo in Albania. Per il Centro Astalli è a rischio la tutela dei diritti dei migranti, “ha vinto la politica della paura”. Secondo la Fondazione Migrantes si tratta di una pagina triste della nostra democrazia e parla di grave spreco di risorse economiche. Sant’Egidio, da parte sua, chiede all’Italia di farsi promotrice di corridoi umanitari per tutta l’Europa. “Quello in atto è il tentativo di mettere in discussione il diritto d’asilo In Europa”. È questo, secondo padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, l’organismo dei gesuiti che storicamente si occupa dell’accoglienza dei rifugiati, il profilo politico dell’operazione realizzata dal governo italiano con il trasferimento dei migranti nei centri costruiti in Albania; del resto, spiega, anche il Regno Unito con la proposta di trasferire chi arrivava sulle coste inglesi in Ruanda, andava nella stessa direzione. Ma è una gran parte del mondo cattolico ed ecclesiale ad essere in subbuglio per l’avvio delle operazioni di trasporto dei migranti in Albania. “Il fatto che le persone non entrino nel nostro territorio le espone a minori tutele dei loro diritti, è un’azione che incide sulla loro libertà, perché con un artificio legale vengono portate in un paese esterno all’Ue, anche se i centri sono sotto la giurisdizione italiana” dice a Domani padre Ripamonti. “Quando i riflettori saranno meno puntati sull’evento - aggiunge - si rischia che le persone subiscano una riduzione del loro diritto a poter fare una domanda d’asilo”. Il tema di fondo resta quello della contrazione costante delle politiche che favoriscano l’integrazione e l’assenza di canali di arrivo sicuri, fuori dalla tenaglia dei trafficanti. La notizia poi della sentenza della magistratura italiana che non ha convalidato il trattenimento dei migranti provenienti da Egitto e Bangladesh in Albania, è stata commentata in modo caustico all’agenzia Adnkronos, dal presidente della Fondazione Migrantes (organismo della Cei), mons. Giancarlo Perego: “Avevamo ragione: soldi buttati a mare, il centro torna ad essere vuoto ed era abbastanza ovvio che una procedura così accelerata, senza considerare tutti gli elementi della storia della persona, fosse impugnata da un tribunale, in questo caso quello di Roma”. In precedenza, mons. Perego aveva rilevato come, con l’operazione dei trasferimenti forzati in Albania, ci si trovi davanti ad un “grande spreco di risorse, ad un risultato minimo e speriamo venga presto una condanna anche dalla Corte penale europea e dalla Commissione Ue dei diritti umani”. Quindi il presidente di Migrantes aveva parlato di “pagina triste della nostra democrazia che speriamo sia solo una pagina triste per l’Italia e non anche per l’Europa perché se avvalorerà nel 2026 col suo trattato questo tipo di scelta, ne vedremo altre e certamente l’Europa dovrà interrogarsi veramente sulle sue origini cristiane e sulla salvaguardia della dignità delle persone e non fermarsi alle chiacchiere”. Da parte sua, il quotidiano della Cei Avvenire, ha commentato così, in un editoriale dedicato al tema, la sentenza del tribunale di Roma che dava torto al governo sul trattenimento dei migranti: “La Corte di giustizia europea e i giudici nazionali ricordano ai cittadini che la dignità umana in Europa si rispetta in una cornice di civiltà e democrazia. Il caso Albania ci ricorda che i diritti dei deboli non sono mai diritti deboli”. La conferenza episcopale italiana sta elaborando una presa di posizione complessiva sulla questione, come annunciato qualche giorno fa dal segretario generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi. Migranti e reati - Anche la comunità di Sant’Egidio ha espresso critiche severe all’iniziativa del governo Meloni, il presidente dell’organizzazione Marco Impagliazzo, ha infatti osservato: “Mi chiedo quale reato hanno compiuto queste persone che verranno portate in Albania. Per quale reato saranno detenute? Immigrazione irregolare? Non lo sappiamo ancora, perché dobbiamo ancora interrogarli e sapere le loro storie. Sono cifre che spero resteranno basse ma nel nostro Paese abbiamo centri vuoti che potrebbero servire allo stesso scopo. Creare sempre maggiori ostacoli all’immigrazione farà solo crescere l’immigrazione irregolare ma soprattutto le sofferenze dei migranti. Noi questo non lo vogliamo”. Sant’Egidio, d’altro canto, è impegnata da anni in uno dei pochi progetti in atto per sostenere un’immigrazione regolare e che punti all’integrazione dei nuovi arrivati, quello dei corridoi umanitari. Per contrastare l’immigrazione irregolare, secondo Impagliazzo, “bisogna allargare il decreto flussi, aprire i corridoi lavorativi e allargare il sistema dei corridoi umanitari proponendolo a tutta l’Europa”. E appunto le politiche migratorie prevalenti in Europa costruite sulla paura sono una delle questioni aperte. Propaganda - “Negli anni abbiamo costruito il nemico migrante - spiega ancor padre Ripamonti - che ha influito notevolmente anche sugli assetti elettorali; si spostavano infatti i consensi in funzione delle politiche migratorie. Di conseguenza quello che ormai fanno tutti i Paesi è cercare di avere delle politiche molto caute se non eccessivamente prudenti nei confronti dell’immigrazione perché tutti hanno paura di perdere consenso nei confronti dell’opinione pubblica che è stata caricata negli anni con messaggi del tipo: “I migranti sono dei nemici della pace sociale”“. “In questo senso pensiamo anche alla comunicazione fatta Salvini - prosegue il religioso - che dice di aver difeso i confini, ma allora diciamo pure che ha difeso i confini da persone che non sono armate che si trovavano sui barconi; in definitiva, anche la retorica rispetto a questa impostazione che ha fatto dei migranti dei nemici, ha contribuito al fatto che in Europa le politiche migratorie fossero sempre più accettate dall’opinione pubblica se improntate alla chiusura e non all’apertura, all’accoglienza e a scelte lungimiranti. Per questo la situazione attuale è figlia di ciò che abbiamo creato nel tempo e ora si fa fatica a cancellarlo, e poi nessuna delle forze politiche è veramente interessata a farlo perché in tal modo si rischia di perdere le elezioni proprio a partire da questi temi”. Migranti. “Dal Governo proclami inutili. Fino al 2026 non muterà nulla” di Paolo Lambruschi Avvenire, 20 ottobre 2024 Intervista a Francesca De Vittor, docente di Diritti dell’uomo all’Università Cattolica. “Paesi sicuri? Se non si rispettano i criteri del diritto europeo la magistratura può e deve intervenire”. Nonostante i proclami del governo, fino al 2026 non cambierà nulla. La lista dei Paesi di origine sicuri, sulla quale si è infranto l’avvio dei primi hotspot in Albania, dovrà tenere conto per due anni della sentenza della Corte di giustizia europea del 4 ottobre, citata come base giuridica dal Tribunale di Roma nella sentenza dell’altro ieri che ha riportato i migranti in Italia. Ne parliamo con Francesca De Vittor, docente del corso di Diritti dell’uomo presso l’Università Cattolica. Su quali fonti giuridiche poggia la sentenza del tribunale di Roma che ha portato allo scontro con l’esecutivo? Il trasferimento e il trattenimento in Albania di queste persone è possibile per la legge italiana solo applicando ai richiedenti la procedura accelerata per la valutazione delle domande di protezione internazionale, che si applica a coloro che hanno presentato la domanda in frontiera e provengono da paesi di origine sicura. Solo nell’ambito di tale procedura, quando i richiedenti non hanno consegnato il passaporto o prestato la garanzia finanziaria, può essere disposto il trattenimento che, come ogni privazione della libertà personale deve essere convalidato dal giudice. Il Tribunale di Roma che ha valutato i casi di queste 12 persone provenienti da Bangladesh ed Egitto ha ritenuto che non fossero paesi sicuri, di conseguenza non è applicabile la procedura accelerata e il trattenimento, e che quindi i migranti non potessero restare in Albania privati della libertà. Perché i giudici di Roma valutano Egitto e Bangladesh non sicuri? È il punto su cui interviene la sentenza della Corte di giustizia europea dello scorso 4 ottobre che interpreta il concetto di paese di origine sicuro ai sensi dell’art. 37 della direttiva 2013/32 sulle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. La Corte ha precisato che si può qualificare paese di origine sicuro quello in cui non vi è rischio di persecuzione, tortura o trattamento inumano e degradante o di violenza nell’ambito di un conflitto su tutto il territorio nazionale. È insomma improbabile che chi viene salvato nel Mediterraneo venga da un paese sicuro. Per Egitto e Bangladesh il Tribunale di Roma cita i rischi indicati nelle “schede Paese” della Farnesina... Esatto. Nelle schede del ministero degli Esteri per inserire tali Paesi nella lista di quelli sicuri si esclude la sicurezza per attivisti, oppositori politici e altri. Alla luce della sentenza del 4 ottobre, questi paesi non sono più qualificabili come sicuri. E visto che sono definiti tali dal governo italiano in esecuzione di atti Ue, deve rispettare le condizioni del diritto europeo. Quindi nessuna interferenza dei giudici? L’esecutivo ha la competenza di inserire i Paesi nella lista. Ma non ha potere discrezionale, se non sono rispettati i criteri del diritto europeo la magistratura può e deve intervenire, tanto più che la sentenza della Corte è arrivata dopo la definizione della lista, quindi cambia i presupposti. Ma non è una novità. Ci sono stati trattenimenti in Italia non convalidati dai giudici per la stessa ragione. Il governo vuole, però, andare avanti… Il rischio che quanto è successo si ripeta è altissimo. Fino al 2026 resteremo nella stessa situazione perché solo allora entrerà in vigore il nuovo regolamento sulla procedura di riconoscimento del diritto di asilo che prevede la possibilità che i Paesi siano qualificati di origine sicura anche escludendo parti del territorio.