Bambini in carcere, cattiveria inaudita di Ilaria Dioguardi vita.it, 1 ottobre 2024 Il fatto che possano andare in carcere le madri con i bambini fino a un anno di età “è mostruoso e demagogico”, dice Liviana Marelli (Cnca). In tutta Italia si moltiplicano le proteste contro il Ddl sicurezza. E un appello chiede la chiusura degli Istituti penali minorili. Se il Ddl sicurezza passasse in Senato, diventerebbe facoltativo e non più obbligatorio il rinvio della pena per le donne in gravidanza e le madri con figli sotto l’anno. In tutta Italia si moltiplicano proteste e mobilitazioni contro il decreto. Inoltre, un appello di associazioni ed esponenti della società civile chiede la chiusura degli Istituti penali minorili, Ipm. “Il nostro obiettivo è che il Senato intervenga senza l’approvazione del Ddl 1660, avvenuta invece alla Camera. È una cattiveria inaudita, non mi viene un altro termine”, dice Liviana Marelli, coordinatrice dell’Area nuove generazioni e famiglie del Cnca, Coordinamento nazionale comunità accoglienti. Ci spieghi meglio... Pensare di ridurre la fase della discrezionalità rispetto all’uso del carcere per donne con bambini sotto l’anno d’età ci sembra una violenza. È una misura pensata soprattutto per le donne rom. Impedire l’accattonaggio o altro vuol dire procedere a percorsi di inserimento per le persone. Si potrebbe pensare a soluzioni diverse. Quali soluzioni? Ad esempio, per bambini così piccoli, l’affido familiare. È proprio una cattiveria pensare di chiuderli dentro, vuol dire una chiusura ad ogni possibilità di dialogo. Mettere in mezzo i bambini sotto l’anno è davvero mostruoso, demagogico. Da un lato si parla del sostegno alle famiglie, poi si mettono in carcere i bambini? Perché, sono di serie B? Le soluzioni ci sono. Perché non pensiamo a forme di affido e di apertura, di connessione, di coinvolgimento di altre famiglie, di attivazione di altre forme, di comunità familiari o residenziali, che possono garantire anche il rispetto della legalità? Dobbiamo farci una domanda. Quale domanda? Una società adulta fa prevalere il diritto dei minori o il presunto diritto di sicurezza, tradotto esclusivamente con l’esclusione, la violenza, il carcere? Questa è la società adulta che presentiamo ai nostri ragazzi? E come possiamo pensare che facciano un investimento sul futuro? La società oggi si presenta con una faccia arcigna, che non dialoga. I ragazzi che si comportano male vanno ripresi, certo, ma con autorevolezza non con violenza autoritaria. Noi abbiamo perso questa capacità di essere autorevoli, quindi ci difendiamo. Non siamo più capaci di entrare in relazione col disagio, con l’aggressività, con la rabbia delle persone. La società adulta deve acquisire forza nell’entrare dentro le questioni sociali, forse anche con il cuore: deve esserci. Allora entrano in gioco il dialogo, la responsabilizzazione, la fermezza, l’autorevolezza. L’esclusione, l’interruzione del rapporto con le persone, non è una scelta matura: è una scelta di difesa infantile. Insieme ad altre associazioni e ad esponenti della società civile, il Cnca ha aderito all’appello che chiede di mettere all’ordine del giorno nelle aule parlamentari il tema urgente della chiusura degli Ipm, da sostituire con percorsi alternativi incentrati sui ragazzi e sulle ragazze. Cosa chiedete? Da un lato chiediamo la chiusura degli Ipm, dall’altro quest’appello è collegato al Ddl sicurezza. Ciò che noi contestiamo, anche a partire dall’esperienza diretta e quotidiana, è un approccio culturale che non condividiamo, è questo uso quasi esclusivo di pensare che la soluzione sia quella dell’escludere, del togliere di mezzo, del rinchiudere. Non condividiamo il pensiero che le questioni sociali, i problemi delle persone, a partire dai soggetti minorenni in una fase evolutiva, si risolvano aumentando la detenzione. Oggi negli Ipm ci sono 570 ragazzi, è un numero sempre crescente (erano 496 a dicembre 2023, 381 a dicembre 2022, ndr). Abbiamo, da un lato, l’esplosione di tutte le carceri, sempre più sovraffollate. Dall’altro c’è una grande incapacità. Quale incapacità? C’è una grande incapacità, una non volontà, di pensare e di investire risorse sui contesti abituali di vita, sui processi educativi e rieducativi, sulla giustizia riparativa, sulla messa alla prova. Che non sono modalità del cosiddetto “buonismo”. Esattamente il contrario. Responsabilizzare i ragazzi significa farsene carico, stabilire con i loro delle relazioni, non vuol dire chiuderli dentro e buttare la chiave. Questo è il paradigma che in qualche modo si intravede anche nel Ddl sicurezza. Non è questa la strada. Qual è, secondo voi, la strada? In una nazione che ha ratificato la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, come teniamo insieme il diritto dei minorenni con questa pretesa che l’unica soluzione è quella di escludere? Noi siamo contro l’inasprimento dell’uso della carcerazione. Non diciamo che la carcerazione è sempre un male, diciamo che questa non è la strada. Insistere sulla carcerazione come unica risposta, in particolare per i ragazzi, confligge con la responsabilità adulta, con una società che deve farsi carico del disagio e delle difficoltà, che deve pensare a una pena con processi di giustizia riparativa. Gli Ipm, ad esempio Beccaria a Milano e Casal del Marmo a Roma, stanno esplodendo e spesso ci sono tensioni. Come facciamo a pensare che la soluzione sia il carcere, quando abbiamo sovraffollamento e una situazione, negli Ipm e nelle carceri in generale, che oggi non vede una via d’uscita? Il Ddl prevede addirittura un inasprimento delle pene, laddove in carcere si protesti. Mi sembra che ci sia un corto circuito. Qual è il corto circuito? La nostra società pensa che la forza, la prova muscolare sia la soluzione e non ha assolutamente in mente che cosa succede non solo negli istituti penali, ma nei territori: c’è l’abbandono continuo, il disinvestimento su politiche sociali e rieducative, di accompagnamento, di luoghi di prossimità, di dialogo, di attenzione. È la relazione educativa che responsabilizza le persone. Metterle in carcere vuol dire difendersi pensando che alzare i muri sia la soluzione. I muri dovrebbero essere infranti con il dialogo. Come Cnca, cosa state facendo per far capire che, a vostro avviso, è sbagliata la misura del Ddl che renderebbe facoltativo il rinvio della pena per le donne incinte e le madri con figli sotto l’anno? Partecipiamo a incontri, mobilitazioni in varie città d’Italia, per creare dibattito. Il nostro tentativo è di far capire perché questa misura non va bene, ci vuole forse una maggiore capacità di motivare. Stiamo anche cercando di interloquire con le forze politiche. Attraverso la diffusione di opportunità di dialogo e di confronto si diffonde l’informazione e si sostanzia la presenza politica. Che non è ideologica ma, per quanto ci riguarda, parte dalla quotidiana relazione con le persone fragili. Donne incinte e bambini in carcere, pura propaganda di Ilaria Dioguardi vita.it, 1 ottobre 2024 Continua la mobilitazione delle associazioni e della società civile contro il decreto 1660, approvato alla Camera e ora passato all’esame del Senato. Laura Liberto, Cittadinanzattiva: “Mandare in carcere donne in gravidanza e madri di bambini entro un anno di età è una misura di pura propaganda. La tutela dello sviluppo psicofisico dei bambini dovrebbe prevalere rispetto ad ogni altra esigenza, anche di sicurezza e di ordine pubblico”. “Si tratta di una misura assolutamente gratuita, di pura propaganda, che non risponde effettivamente a nessuna esigenza reale di sicurezza e che serve a creare dei bersagli simbolici, dei nemici pubblici che, in questo caso, sono le donne borseggiatrici”. A parlare così della misura del Ddl 1660, che non renderebbe più obbligatorio ma facoltativo il rinvio della pena per donne in gravidanza e madri di bambini entro l’anno, è Laura Liberto, coordinatrice nazionale Giustizia per i diritti di Cittadinanzattiva. Liberto, il tema dei bambini in carcere è caro da tempo alla vostra organizzazione... Sul tema delle madri con i bambini in carcere, per anni abbiamo fatto un lavoro con la campagna “L’infanzia non si incarcera”, che va nella direzione opposta rispetto al decreto: di allargare il più possibile le opportunità di tutela della gravidanza, della maternità e del rapporto madre-bambino, anche nel caso in cui una mamma si trova a dover scontare una pena. Su questo erano stati fatti, nella scorsa legislatura, tanti passi avanti, attraverso un lavoro anche incrociato tra organizzazioni della società civile e parlamentari. In particolare intorno ad una proposta di legge. Ce ne parli…. Con la proposta di legge Siani si introducevano una serie di norme, sia di carattere sostanziale che procedurale, finalizzate a consentire l’esecuzione della pena all’interno di strutture al di fuori del contesto carcerario, in particolare nelle case famiglia. Questo lavoro era finalizzato, da un lato, a impedire nuovi ingressi di madri con bambini in carcere, per evidenti considerazioni di civiltà, su cui qualunque persona di buon senso dovrebbe essere d’accordo. Dall’altra, ad andare in una direzione coerente con i principi della nostra Costituzione e con le convenzioni anche internazionali sulla tutela dell’infanzia, che affermano che la tutela dello sviluppo psicofisico dei bambini dovrebbe prevalere rispetto ad ogni altra esigenza, anche di sicurezza e di ordine pubblico. Le alternative al carcere ci sono? Tutto il percorso collegato alla proposta di legge Siani era finalizzato ad allargare il più possibile le alternative al carcere, serviva a mettere a regime il sistema delle case famiglia, come soluzione alternativa al carcere per madri con bambini piccoli. E superava anche un limite che è presente nella normativa attuale, che prevede che le case famiglia si debbano realizzare senza oneri a carico dello Stato: manca la copertura finanziaria per rendere possibile questo sistema alternativo (la legge Siani prevedeva che alla copertura degli oneri derivanti dalla realizzazione delle case famiglia protette, si provvedeva a valere sulle disponibilità della Cassa delle ammende, ndr). Quella proposta di legge, purtroppo, è passata soltanto alla Camera, poi è caduto il Governo per cui non è stato possibile fare il passaggio in Senato. Come vi state muovendo per protestare contro il Ddl sicurezza? Come Cittadinanzattiva ci stiamo muovendo, come tante altre organizzazioni, per organizzare una mobilitazione che impedisca la definitiva approvazione di questo testo. Noi rilanceremo la nostra campagna, “L’infanzia non incarcera” e anche delle iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Si tratta di un provvedimento molto grave, che ci fa ritornare indietro e annulla anche quelli che sono principi consolidati: il divieto di ingresso in carcere per una donna incinta non si pensava che potesse essere messo in discussione. La sicurezza è una parola che può essere declinata secondo significati assolutamente opposti. Ci spieghi meglio... Si può interpretare la sicurezza come lo si sta facendo adesso, con risposte puramente repressive. E lo si può fare attraverso misure che intervengono davvero a trovare soluzioni concrete che vadano a supportare, a sostenere in particolare quelle categorie, come le future madri o le neomamme, anche attraverso percorsi e possibilità alternative. È questa la strada, a nostro parere, che può garantire una vera sicurezza per tutti. Per quanto riguarda i bambini entro l’anno di età, che andrebbero in carcere insieme alle madri, cosa ci vuole dire? Alcuni studi dimostrano che i bambini che passano i primi anni di vita in carcere subiscono dei traumi nello sviluppo molto importanti. A proposito della gratuità e dell’inutilità della misura, bisogna pensare al fatto che parliamo di numeri molto piccoli di madri con bambini che andrebbero in carcere. A maggior ragione, non dovrebbe essere così difficile trovare delle soluzioni alternative. Invece, prevale la logica dell’accanimento e si arriva a mettere in discussione principi basilari. Sangermano: “Costruire un Paese con diritti e doveri” di Lorenzo Malagola Tempi, 1 ottobre 2024 Affermare la cultura dei doveri e delle regole accanto a quella dei diritti. È questo il primo passo da compiere per migliorare il quadro della giustizia minorile italiana. Ne è convinto Antonio Sangermano, il Capo Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, che ha fotografato con precisione lo stato dell’arte degli Ipm della penisola. Presidente, è passato un anno dall’entrata in vigore del decreto legge Caivano. L’impatto sul numero dei detenuti negli Ipm è stato così forte come si temeva? Grazie a questo decreto legge, che è espressione dell’indirizzo politico del Governo, da ottobre a oggi abbiamo inviato nelle carceri per adulti ben 152 giovani adulti, di età compresa tra i 21 ed i 25 anni, che si sono resi responsabili di aggressioni alla polizia penitenziaria, di atti violenti e di devastazioni all’interno degli Istituti penali per minorenni. Questo è stato reso possibile proprio dalla Legge Caivano, che ci ha consentito di intervenire, trasferendo i soggetti maggiorenni resisi responsabili di atti illeciti. È necessario sottolineare che il dl Caivano incrementa le prerogative processuali della magistratura minorile che, applicando questi strumenti, dimostra la correttezza della norma. Si tratta di una risposta a un’esigenza reale che nasce dalla società e dalle nuove devianze giovanili. Possiamo tracciare un identikit della popolazione delle carceri minorili? A oggi (16 settembre, ndr) abbiamo 567 detenuti, in larga maggioranza maschi, con un’incapienza di circa una quarantina di posti. A livello nazionale, la popolazione carceraria minorile è composta per il 52 per cento da stranieri non accompagnati, che in alcuni Ipm del nord arrivano a superare il 90 per cento. Ne consegue che molti degli atti violenti compiuti negli Istituti penali per minorenni provengono da minori stranieri non accompagnati. Questo, ovviamente, è un dato che non ha nessuna connotazione razziale, ma che fotografa la situazione esistente. Le faccio un esempio. Nella rivolta di Torino dello scorso agosto, ben otto degli undici arrestati sono minorenni stranieri non accompagnati. La popolazione carceraria è cambiata proporzionalmente alla crescita dell’immigrazione. Dobbiamo studiare delle misure per il loro trattamento, che deve andare di pari passo con l’integrazione. Non c’è trattamento senza sicurezza. Il ministro Nordio ha detto che in passato si è sottostimato il problema della crescita della criminalità minorile e questo ha portato ad avere un numero esiguo di Ipm. C’è stato in questo un problema culturale secondo lei? Trovo corretta l’analisi del ministro Nordio, che condivido. Quando ho assunto questa carica ho trovato un comparto afflitto da criticità cronicamente persistenti e derivanti anche dall’inopinata dismissione di strutture come gli Ipm di Lecce e L’Aquila. A questo si aggiungono anche alcune ristrutturazioni che si sono protratte nel tempo creando innegabili disagi. La sfida di oggi per questo dipartimento è chiara: implementare gli spazi detentivi, decongestionando così gli Ipm, e contemporaneamente potenziare in tutti i modi le comunità socio-educative ad alta densità terapeutica. Entro dicembre dovremmo poter contare su tre nuove comunità a Milano e due a Roma. Questo testimonia che la nostra visione non è carcerocentrica, ma volta a rafforzare il ruolo delle comunità. Quali sono le difficoltà oggettive nella gestione degli Ipm? La criticità maggiore riguarda il rapporto, la relazione, il “logos” con i minori stranieri non accompagnati. Si tratta spesso di ragazzi chiusi in se stessi, che rifiutano l’approccio trattamentale e che non hanno una prospettiva esistenziale. Bisogna ridare loro un progetto, uno scopo. L’Italia però non può essere un Paese di soli diritti, altrimenti si creerebbe una società senza rispetto per le regole. Bisogna ripartire dalle parole di Moro, costruire un Paese con diritti e doveri. I minori stranieri devono essere salvati, ma devono anche voler essere salvati. Questo è un punto centrale della mia analisi: non c’è trattamento senza sicurezza. Perché se gli operatori hanno paura di entrare in un Ipm, non ci può essere spazio per il trattamento. Il Beccaria e Casal del Marmo sono ormai bombe sociali impossibili da disinnescare? C’è anche un po’ di esasperazione da parte dei media. Basti pensare alla rivolta del 15 settembre a Roma. Due giovani adulti, attestati maggiorenni tramite perizia e in attesa del nullaosta al trasferimento nelle carceri per adulti, hanno dato vita a una protesta perché erano stati esclusi dalle attività in comune. La Polizia penitenziaria è intervenuta e poco dopo, senza l’uso della forza, si è ristabilita la calma. A volte c’è un modo antinazionale e ideologico di raccontare i fatti, senza mai valorizzare le tante cose positive che si fanno. A Casal del Marmo è stata ripristinata la legalità usando solo il dialogo. E questo non può certo essere raccontato come una sconfitta dello Stato. Ma come è possibile che un Ipm resti per 20 anni senza un direttore? Per venti anni le strutture detentive minorili non hanno avuto direttori e comandanti, ma solo direttori e comandanti a scavalco, presenti per 2-3 giorni a settimana. Questa amministrazione ha dato a tutti gli Ipm un direttore e un comandante. Certo, a volte può essere successo che non siano stati all’altezza della situazione, ma stiamo lavorando anche su questo. Qual è la sua sfida progettuale? Coniugare sicurezza e attività trattamentale, tutelare l’onore e la dignità della Polizia penitenziaria, sottoposta troppo spesso ad atti violenti, tutelare la legalità a ogni livello, potenziare le attività trattamentali, aprire nuove comunità per minori, decongestionare gli Ipm con nuovi e idonei spazi detentivi, implementare tutto il comparto delle funzioni sociali, specializzare le funzioni svolte negli Istituti minorili, affrontare con nuove figure professionali i “bisogni speciali” dei detenuti stranieri, diffondere la cultura dei doveri e delle regole accanto a quella dei diritti. Ecco, quest’ultima è la sfida più importante. Introduce più reati Nordio che Bonafede. L’onda del populismo penale non si ferma di Ermes Antonucci Il Foglio, 1 ottobre 2024 Il governo ha approvato un decreto legge che inasprisce le pene per chi aggredisce i medici, rese durissime solo quattro anni fa (fino a 16 anni di reclusione). Dal ddl sicurezza alle violenze sui medici, il governo sa solo creare nuovi reati e aumentare le pene. L’onda del populismo penale del governo Meloni non si ferma e così, dopo l’approvazione del ddl sicurezza, che introduce 24 tra nuovi reati, aggravanti e aumenti di pena, il Consiglio dei ministri ha varato un decreto legge che inasprisce le pene per chi aggredisce i medici. Per il ministro Nordio il testo “avrà un forte effetto deterrente”, eppure solo quattro anni fa sono state introdotte pene durissime per contrastare il fenomeno (fino a 16 anni di reclusione). Evidentemente non hanno avuto effetto, ma la lezione non è servita. Il decreto legge approvato in Cdm venerdì scorso, su iniziativa del ministro della Salute, Orazio Schillaci, e dello stesso Nordio, prevede due novità fondamentali: l’arresto obbligatorio in flagranza, anche differito, per chi compie atti di violenza contro gli operatori sanitari o danneggia beni destinati all’assistenza, e la reclusione fino a cinque anni e multa fino a 10 mila euro per chi danneggia beni all’interno di strutture sanitarie. Per le aggressioni in ospedale l’arresto in flagranza era già previsto, ma per Nordio l’effetto deterrente sarà determinato dalla possibilità di estendere l’arresto in flagranza nell’ambito delle 48 ore successive, non appena identificati gli autori delle violenze. Una visione dell’effetto “deterrente” della norma penale piuttosto singolare: soltanto quattro anni fa il Parlamento ha approvato una legge che prevede per chi provoca lesioni a medici e operatori sanitari la punizione della reclusione fino a dieci anni (lesioni gravi) o addirittura sedici anni (lesioni gravissime). Inoltre è stato stabilito che qualsiasi atto di violenza, per il solo fatto di essere compiuto contro un operatore sanitario, costituisce un’aggravante, cosa che comporta un aumento fino a un terzo della pena da infliggere al colpevole. Questo inasprimento di pene, attuato in seguito a numerosi casi di cronaca di medici aggrediti, non ha prodotto l’effetto sperato, come dimostrano le notizie delle ultime settimane, con episodi gravi registrati negli ospedali di Prato, Foggia, Lecce, Cagliari e altre città. Per il governo Meloni, però, l’effetto deterrente che non è stato prodotto dalle pene severissime introdotte quattro anni fa, sarà prodotto ora dall’ennesimo intervento sul piano penale. Il populismo penale in tilt. Ormai la maggioranza di centrodestra - come ai tempi dei grillini - sembra convinta che tutto possa essere risolto a colpi di codice penale. Dopo la sbornia forcaiola del ddl sicurezza, nelle ultime ore le commissioni Bilancio e Finanze del Senato hanno approvato un emendamento presentato da Forza Italia e Fratelli d’Italia al decreto legge omnibus contro la pirateria tv. La norma prevede “fino a un anno di reclusione” per i prestatori di servizi di accesso alla rete che omettono di segnalare all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria condotte penalmente rilevanti di cui sono venuti a conoscenza. Lo scorso giugno era invece stata la volta dell’introduzione del reato di “truffa online”, con aggravanti per chi commette reati usando siti e piattaforme. Ad aprile il governo ha presentato il ddl sull’intelligenza artificiale, anche questo con un nuovo reato, l’illecita diffusione di contenuti generati o manipolati con sistemi di intelligenza artificiale se dal fatto deriva un danno ingiusto (pena da uno a cinque anni di reclusione). Altro che giustizia liberale e depenalizzazione. Ormai introduce più reati Nordio che Bonafede. “Populista e illiberale”, penalisti in agitazione contro il ddl Sicurezza di Eleonora Martini Il Manifesto, 1 ottobre 2024 Inizia oggi di fatto l’iter in Senato. La maggioranza mette il limite alle audizioni: 25 all’opposizione. Mentre per il Fine vita sono cento. Associazioni e movimenti verso la manifestazione nazionale e azioni in tutto il Paese. “Populista, illiberale, autoritario”. Tale è, per l’Unione delle camere penali italiane che ha decretato per questo lo stato di agitazione, il ddl Sicurezza. Il provvedimento inizia nei fatti stamattina l’iter al Senato, nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia riunite in sede referente, con l’analisi del testo licenziato dalla Camera il 18 settembre scorso. Un pacchetto di norme che, a dispetto del nome che porta, ha solo l’ambizione di far sentire al sicuro i sindacati di polizia più vicini alle destre di governo. E il cui contenuto, come scrivono in una nota gli avvocati penalisti, “lungi dal porsi in sintonia con un programma di riforma della giustizia in senso liberale, rivela nel suo complesso e nelle singole norme una matrice securitaria sostanzialmente populista, profondamente illiberale e autoritaria, caratterizzata da uno sproporzionato e ingiustificato rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi ed ai danni dei soggetti più deboli, caratterizzandosi per l’introduzione di una iniqua scala valoriale, in relazione alla quale taluni beni risultano meritevoli di maggior tutela rispetto ad altri di eguale natura, in violazione del principio di ragionevolezza, di eguaglianza e di proporzionalità”. L’Ucpi dunque apre uno stato di agitazione riservandosi, dopo il congresso di Reggio Calabria che si terrà dal 4 al 6 ottobre, di decidere le forme di protesta per convincere il Parlamento a tornare sui suoi passi. “Contrariamente a ciò che avrebbe dovuto caratterizzare l’azione politica di un governo ispirato ai principi del diritto penale liberale - continua nel lungo comunicato l’Unione dei penalisti - si è, invece, assistito ad una irragionevole moltiplicazione delle fattispecie di reato” secondo “paradigmi che rispondono piuttosto alla più tipica logica del populismo giustizialista e del diritto penale simbolico”. Gli avvocati non sono gli unici a mobilitarsi contro il corposo elenco di nuovi reati (13) e di inasprimenti di pena imposti come se non ci fosse un domani. Sabato 28 settembre un’assemblea a Casetta rossa, spazio sociale nel quartiere romano di Garbatella, ha visto la partecipazione delle tante organizzazioni sociali che nelle settimane scorse hanno protestato contro il provvedimento. “Non possiamo permettere la restrizione delle libertà fondamentali, lo scivolamento verso i sistemi autoritari e dei populisti al potere”, è il messaggio che arriva da quella che si è definita “assemblea per la democrazia e la resistenza”, cui hanno partecipato circa 500 persone. Se davvero ci si trova di fronte a una stretta autoritaria - è il senso della discussione - allora servono risposte che si misurino con questo pericolo: “Se fate il fascismo, facciamo resistenza”, si legge nel comunicato finale. Si è quindi deciso di coordinarsi il più possibile con tutti gli altri che stanno pianificando azioni di protesta, di rivendicare la libera di manifestazione fin dalla piazza contro la guerra del prossimo 5 ottobre, di mettere in campo per il 12 ottobre azioni e mobilitazioni diffuse in tutto il Paese con l’obiettivo di convocare una manifestazione nazionale e di portare il dissenso davanti al Senato quando il ddl arriverà in Aula. Intanto stamattina la 1° e la 2° commissione in seduta unificata decideranno il numero massimo e il timing delle audizioni e degli emendamenti da presentare al ddl numero 1236 che al Senato avrà come relatori Marco Lisei di Fd’I e Erika Stefanini di Lega- Psd’Az. Sarà un braccio di ferro su tutto: la maggioranza naturalmente cerca di stringere i tempi al massimo e di portare a casa con il minimo sforzo il pacchetto di norme propaganda, mentre le opposizioni chiedono di riflettere bene prima di affrontare con il manganello temi tanto delicati. Al momento i partiti del centrosinistra hanno ottenuto di poter chiamare in audizione al massimo 25 esperti dei tanti temi affrontati nel ddl (dal terrorismo alle occupazioni, dalle carceri alle manifestazioni, dall’accattonaggio alla cannabis light, dalle donne madri in cella alle pistole libere in dotazione delle forze dell’ordine). Le destre si accontenteranno di 15 audizioni. Nulla, al confronto delle oltre cento audizioni che la maggioranza ha voluto assolutamente al Senato per il ddl sul Suicidio medicalmente assistito. Una legge auspicata più volte anche dalla Corte costituzionale ma che rischia di non arrivare mai in Aula. “Pene spropositate”, anche l’Osce boccia il ddl sicurezza di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 1 ottobre 2024 L’organizzazione internazionale chiede di riconsiderare gran parte delle norme liberticide del governo: “Minano i principi fondamentali dello Stato di diritto”. Il disegno di legge sicurezza sarà approvato a breve dal Senato in via definitiva nonostante le manifestazioni contro un testo ritenuto liberticida dalle organizzazioni umanitarie e da parte dell’opposizione parlamentare. A dare un giudizio negativo del provvedimento anche l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) attraverso il parere del suo Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani (Odihr). “La maggior parte delle norme potrebbero minare i principi fondamentali del diritto penale e dello stato di diritto - scrive l’Osce in un documento - Diverse criticità che potrebbero ostacolare l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali, tra cui il divieto di maltrattamento e i diritti di sicurezza e libertà della persona, le libertà di riunione pacifica, di espressione e di movimento, nonché i diritti a un processo equo e al rispetto della vita privata e familiare, tra gli altri”. Pene sproporzionate - Secondo l’Ufficio dell’Osce “alcuni dei nuovi reati proposti sono formulati in termini generici e vaghi” e non sono specificati gli aspetti costitutivi, lasciando spazio a “potenziali interpretazioni e applicazioni arbitrarie”. Manca poi il rispetto della proporzionalità delle pene “con il rischio di scoraggiare l’esercizio dei diritti umani” e anche il modo in cui viene trattata la resistenza passiva dei detenuti “può essere considerato sproporzionato, soprattutto se utilizzato come mezzo per punire l’espressione pacifica del dissenso”. I principali rilievi riguardano la criminalizzazione della resistenza passiva e le misure inerenti le condizioni di detenzione e la tutela dei diritti delle donne e dei minori in carcere. L’Odihr procede quindi con un’analisi del testo del ddl sicurezza e poi con una serie di richieste, che coincidono con quelle di coloro che nel nostro Paese stanno protestando contro queste norme. Tra queste richieste vi è l’intera riconsiderazione dell’introduzione del nuovo reato di occupazione abusiva di proprietà e della procedura che porterebbe agli sgomberi, o almeno “circoscriverli in modo più rigoroso”. Lo stesso vale la portata temporale dei poteri del commissario di polizia. Anche sul fronte delle cosiddette misure anti-Ghandi, vale a dire “l’inasprimento delle sanzioni e la criminalizzazione di comportamenti di natura pacifica che arrecano disturbo o intralcio alla circolazione stradale”, sono chieste modifiche e la garanzia che “non sia prevista la pena della reclusione”. I diritti di donne e migranti in carcere - Se passiamo ai capitoli che riguardano le persone detenute, l’Osce sostiene che governo e Parlamento italiani devono “riconsiderare completamente la cancellazione del rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena detentiva per le donne incinte o con figli di età inferiore a un anno”. Deve inoltre essere preso in considerazione “l’interesse prevalente del bambino, le condizioni di salute della donna e i rischi alla salute” stessa legati alla capacità dell’istituto carcerario di sottoporla alle cure necessarie. Esorta quindi all’utilizzo di pene alternative alla detenzione come stabilito dalle Regole di Bangkok delle Nazioni unite. L’Ocse sostiene poi che i detenuti stranieri sono maggiormente vulnerabili rispetto alle nuove norme del ddl sicurezza, soprattutto perché molto frequentemente la scarsa o inesistente comprensione della lingua ostacola la comprensione dei loro diritti impedendo quindi un trattamento equo. Sempre in materia di immigrazione, l’opinione espressa dall’organizzazione è molto chiara: “La guardia di finanza e le altre autorità statali, nell’esercizio delle proprie funzioni, devono rispettare norme e salvaguardie internazionali”, perché il rischio è quello di “impattare ulteriormente e indebitamente sul lavoro delle organizzazioni umanitarie che conducono operazioni di ricerca e soccorso di migranti in mare”. Sicuramente anche all’Ocse sapranno che proprio l’indebolimento delle ong che operano nel Mediterraneo è uno degli scopi perseguiti dal governo anche con questo disegno di legge. Il pacchetto sicurezza e l’ipertrofia del Pubblico Ufficiale di Alberto Di Martino Il Riformista, 1 ottobre 2024 Il pacchetto-sicurezza non è a sorpresa: prende le mosse dal solito concetto asfittico di “sicurezza” che trasforma problemi e rivendicazioni sociali, quelle che si esprimono ad es. con imbrattamenti reversibili o l’impedimento della libera circolazione su strada, in questioni di ordine pubblico; che espande la penalità; che dilata i presupposti per le sanzioni cosiddette ibride come i “daspo” urbani (ma anche la revoca della cittadinanza), come pure per altre misure preventive; che, infine, rappezza deficienze strutturali gravissime delle strutture penitenziarie e di quelle di trattenimento e raccolta di migranti, col nuovo reato di “rivolta” esteso a condotte di mera resistenza anche passiva agli ordini impartiti. Nulla di nuovo sotto il sole: all’interpretazione restrittiva magari di tipo ortopedico ci si acconcerà come in altre simili occasioni. I due aspetti - Tuttavia, qui sembra più utile evidenziare due altre ragioni di preoccupazione: la prima, riguarda la tacita pretesa di dedurre dalla legittimazione democratica del legislatore la legittimazione intrinseca del prodotto legislativo, sottraendo le scelte penali a quelle cautele del procedimento legislativo destinate a fornire una certa garanzia di qualità formale e sostanziale del prodotto normativo. La seconda, un cambio strisciante del ruolo delle forze dell’ordine nel contesto dei poteri istituzionali. Quanto al primo aspetto, il disegno di legge è espressamente sottratto, proprio per le parti più qualificanti dal punto di vista della politica criminale (le fattispecie incriminatrici ed aggravanti), all’analisi preventiva d’impatto della regolazione - figuriamoci che sarà della valutazione successiva. In questo modo, le scelte di criminalizzazione sono vestite di una dignità intrinseca ed assoluta, non scalfibile da obiezioni empiriche o razionali: servono al marketing comunicativo. Quanto poi al controllo sulla “qualità del testo”, dovrebbe essere effettuato dal comitato per la legislazione: ma non è difficile scoprire dai resoconti che questo talvolta non vede la foresta per i troppi alberi, talvolta è voce che grida nel deserto. Una strada di resistenza ostinata - A queste condizioni, resta una strada di resistenza ostinata: quando il legislatore mette in tensione principi fondanti della legalità penale si deve escludere, in primo luogo, il ricorso giudiziario all’ortopedia ermeneutica e persino, eventualmente, all’interpretazione costituzionalmente conforme che non risolve alla radice il dubbio sul rispetto della Costituzione e apre al conflitto fra poteri; serve la responsabilità istituzionale di sollevare la questione di legittimità. In secondo luogo, quegli stessi principi fondanti devono essere dilatati al massimo della loro potenzialità espressiva di limite al potere legislativo. Ad esempio, la resistenza passiva nel caso di rivolta carceraria, anche ammessa la sua rilevanza in relazione al contesto, non può essere punita allo stesso modo perché meno grave: violazione degli art. 3 e 27 della Costituzione. La crescita del potere militarizzato - La questione è piuttosto culturale che tecnico-normativa: ma si tratta di riconoscere in termini generali che, in un contesto sociopolitico che esalta la pura volontà del legislatore come voce del popolo, l’idea di sistema giuridico come informato al rule of law quale controllo sul legittimo potere legislativo, deve cercare rimedi vincolanti e validi per la generalità dei casi. Quanto al secondo aspetto, è il fondo forse più oscuro del pacchetto: l’avvio di una surrettizia trasformazione nell’intendere i pubblici poteri. All’interno di questi, cioè all’interno della qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, viene ritagliata per i contesti di conflittualità la dimensione specifica dell’essere un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza (che aggrava i delitti di violenza, minaccia, resistenza al pubblico funzionario). In realtà proprio quel tipo di delitti ed in particolare quello di resistenza presuppone di per sé l’esercizio d’un tipo di poteri che, per così dire, naturalmente sono detenuti dalle forze di pubblica sicurezza e da coloro che agiscono con funzioni di polizia giudiziaria. L’ulteriore aggravamento ricollegato al sottolineare quell’appartenenza serve allora a conferire una speciale dignità, una speciale importanza dei relativi poteri rispetto a tutti gli altri poteri, e ovviamente rispetto ai cittadini ‘comuni’. È una crescita del potere militarizzato o quantomeno della sua auto-rappresentazione che, per restare al lessico militaresco, chiama quantomeno al “chi va là?”. Ddl Sicurezza, rapporto sbilanciato tra Stato e cittadino di Enrico Amati* Il Riformista, 1 ottobre 2024 Il 3 luglio 1910, mentre redigeva le riforme volte a ridurre il numero di detenuti che venivano mandati nel carcere di Borstal, Winston Churchill scrisse ai suoi consiglieri: “Non consentirei di certo a rendermi responsabile di un sistema di cui si possa dimostrare che aggravi la severità del codice penale”. Evidentemente l’idea, tanto semplice quanto irrazionale, secondo cui un aumento dei reati e delle pene corrisponde a maggiore sicurezza non convinceva lo statista britannico. Il ddl Sicurezza, di recente approvato dalla Camera, rappresenta invece un chiaro esempio di quella che il grande giurista Francesco Carrara chiamava “nomorrea penale”, ossia la produzione compulsiva di norme e sanzioni quale comodo escamotage (a “costo zero”) per evitare di affrontare problemi complessi. Stato e cittadino - Il risultato è un profluvio di nuove ipotesi di reato e di aggravanti che vanno ad aggiungersi alle oltre 6000 fattispecie criminose presenti nell’ordinamento italiano. Il principio di ultima ratio del diritto penale non è mai stato preso troppo sul serio dal legislatore (non solo italiano), e il ddl in questione è l’ennesima manifestazione di una pervasiva ideologia penale che trasforma l’idea stessa di giustizia: lo Stato non è più debitore di giustizia, ma di sicurezza; cosicché il concetto di sicurezza diviene orizzonte totalizzante della penalità. Nello specifico, il corposo disegno di legge presenta preoccupanti scostamenti dai principi costituzionali in materia penale (proporzionalità della pena, offensività, tassatività e determinatezza dei precetti) e segna un rapporto tra Stato e cittadino fortemente sbilanciato a favore del principio di autorità. La maggior parte delle previsioni normative sembra, infatti, privilegiare un modello di diritto penale per “tipo d’autore”, volto a criminalizzare con estremo rigore il dissenso e i soggetti socialmente emarginati piuttosto che “fatti” descritti in modo preciso e concretamente lesivi di interessi costituzionalmente rilevanti. Inoltre, talune nuove fattispecie si sovrappongono a reati già presenti nell’ordinamento, creando così un inutile e disordinato affastellamento normativo: si pensi, ad esempio, alla previsione del nuovo reato di “occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, che si aggiungerebbe a norme che già puniscono comportamenti simili. Cosa cambia - Suscita inoltre perplessità la generale costruzione di nuovi reati o l’introduzione di aggravanti per fatti commessi in occasioni di manifestazioni pubbliche o al fine di impedire che si realizzino “grandi opere”, cui si aggiunge la possibilità per il Questore di disporre il divieto di accesso alle aree di infrastrutture di trasporto anche a chi è solo denunciato o condannato con sentenza non definitiva. Calibrati sul “tipo d’autore” appaiono, altresì, i limiti alla concessione della sospensione condizionale della pena nei confronti di condannati per taluni tipi di reato commessi nelle aree dei trasporti pubblici. È poi davvero singolare (e irragionevole) l’aggravante comune, applicabile quindi ad ogni reato, se commesso “a bordo di treni o nelle aree interne delle stazioni ferroviarie o delle relative aree adiacenti” (una corruzione è più grave se commessa in treno?). Il caso delle donne incinte e le rivolte - Ma sono soprattutto due le disposizioni che svelano l’impianto ideologico e l’ossessione securitaria del ddl. La prima è quella che rende facoltativo il rinvio della pena per donne incinte e madri di prole fino a un anno. Gli istituti a custodia attenuata per donne madri, presso i quali dovrebbe essere scontata la pena, sono peraltro assai pochi e, in virtù della consueta clausola di invarianza finanziaria, la conseguenza sarà che per le donne in attesa e i bambini si apriranno le porte del carcere. La seconda disposizione è rappresentata dalla previsione del nuovo reato di “rivolta in istituto penitenziario”. La novità non sta tanto nell’incriminazione delle condotte violente, riconducibili a reati già presenti nel codice, quanto nell’esplicita incriminazione della resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti se realizzata da tre o più persone riunite. Peraltro, dottrina e giurisprudenza escludono che la resistenza passiva, di per sé priva dei connotati della violenza o della minaccia, possa integrare il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Cosicché la criminalizzazione della disobbedienza pacifica rivolta esclusivamente ai detenuti - che, proprio in quanto già privati della libertà personale, non hanno altro modo di protestare - è indice di una preoccupante “ostilità difensivo-repressiva” (Paolo Borgna su Avvenire del 4 gennaio 2024) che contrasta con il modello liberale e garantista di diritto penale delineato dai principi costituzionali. Se poi si considera che il recente “decreto carceri” si è dimostrato inefficace nel risolvere il cronico sovraffollamento e il crescente numero di suicidi, sembra che l’unico obiettivo del prospettato nuovo reato sia quello di inasprire le misure repressive contro i disordini e le proteste dei detenuti. Se è vero che la civiltà del diritto si può misurare scandagliando le regole del diritto e del processo penale, v’è da augurarsi che nel corso dell’iter legislativo si ponga rimedio ai numerosi dubbi di incostituzionalità cui vanno incontro le norme del ddl. Altrimenti non rimarrebbe che confidare, ancora una volta, in eventuali interventi correttivi della Corte costituzionale. *Professore Associato di Diritto Penale Armi senza licenza agli agenti di pubblica sicurezza, anche se non sono in servizio di Eriberto Rosso e Lorenzo Zilletti* Il Riformista, 1 ottobre 2024 Risicato: “Una scelta che lascia perplessi”. Parla senza mezzi termini di “furore punitivo”, di “tradimento del diritto penale liberale”, Lucia Risicato, professoressa ordinaria di diritto penale nell’Università di Messina. Eppure, questo DDL sicurezza vanta diversi precedenti… Certamente anche il testo di legge oggi in via di approvazione si inserisce nel solco di provvedimenti adottati a partire dal 2008, da qualsiasi maggioranza governativa, ma li supera tutti: contiene, infatti, una proliferazione inusitata di reati assolutamente inutile e pericolosa. È davvero necessario, ad esempio, trasformare in reato il blocco stradale, se non allo scopo di criminalizzare le manifestazioni pacifiche di dissenso? Per tacere di un assetto sanzionatorio che diventa macroscopicamente sproporzionato rispetto all’entità dei fatti incriminati. Penso alla pena della reclusione fino a sette anni per l’occupazione abusiva di edifici. Un massimo edittale superiore a quello dell’omicidio colposo! La sensazione è di trovarsi dinanzi a un caso in cui la risposta fornita dal legislatore consegue a una creazione artificiosa della domanda. Insomma, si lanciano messaggi di allarme e poi si risponde soltanto con il diritto penale... È sicuramente così. La sensazione, rispetto ad un discutibile passato, è che si sia superato un limite ontologico. Si tradiscono assieme principi di rilievo costituzionale e caratteri fondanti del diritto penale. Se, in un sistema liberale, esso dovrebbe avere carattere frammentario e tassativo, questo disegno di legge ne costituisce la negazione. Tramonta il carattere offensivo dell’oggetto dell’incriminazione. Guardando agli istituendi delitti di rivolta carceraria e nei CPR, colpisce che si incrimini esplicitamente - e forse per la prima volta nella storia - la resistenza passiva dei detenuti o degli internati. Un segnale pericolosissimo perché è incriminazione della disobbedienza civile e non violenta. Ciò, peraltro, in un momento storico in cui le carceri italiane versano in una situazione drammatica. La nuova fattispecie sembra un rimedio brutale all’emergenza che non si è voluta affrontare sul piano del sovraffollamento. Da avvocati penalisti, sottoscriviamo ogni sua affermazione. Il timore è che al corpo sociale sfugga l’entità del contrasto tra questo DDL e i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. D’altra parte, però, non si può neppure sottovalutare il sentimento diffuso di insicurezza tra i cittadini, davanti a episodi di criminalità e di lesioni al decoro urbano. Un buon legislatore dovrebbe misurare e diversificare i suoi interventi, non illudendo il corpo sociale che con il continuo incremento di reati e pene si risolvano tutti i problemi. Alla studiosa di diritto penale chiediamo, comunque, se la prevenzione generale, come deterrenza rispetto al crimine, mantenga tutt’oggi una sua funzione. La percezione, infatti, è che chi è intenzionato a delinquere raramente vada a leggersi, prima di agire, le sanzioni stabilite dalla legge... Andiamo con ordine. Intanto, esiste un problema di rappresentazione mediatica e politica del delitto, che influenza moltissimo l’opinione pubblica. Per utilizzare l’espressione bellissima del mio amico e collega Fausto Giunta, in Italia c’è un divario enorme tra la sicurezza reale e quella percepita. Dell’argomento si occupa diffusamente anche Luigi Ferrajoli nel suo ultimo libro Giustizia e politica. Leggendolo, il cittadino potrebbe apprendere che il tasso di omicidio in Italia è dello 0,45 per ogni 100.000 abitanti. Seguono Austria, Grecia, Portogallo e Spagna con un tasso dello 0,7; Olanda e Polonia con lo 0,8; Germania con l’1; Regno Unito con l’1,2; Francia con l’1,3, Estonia con 2,2, Ungheria con 2,5 e Russia con 9,2. Insomma, per grado di sicurezza, nel mondo, l’Italia è seconda soltanto al Giappone che ha un tasso dello 0,3. La c.d. sicurezza percepita è sensibilmente diversa da questi dati. Va però osservato che il tasso di omicidio e di crimini violenti è altissimo nei Paesi in cui il controllo delle armi da fuoco è pressoché inesistente. Proprio per questo, una delle disposizioni che mi ha lasciata più perplessa nel DDL è quella che autorizza gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza, anche quando non sono in servizio, alcune tipologie di armi (arma lunga da fuoco, rivoltella, pistola di qualsiasi misura, bastoni animati con lame di lunghezza inferiore a 65 cm.). Si tratta di una disposizione priva di ragioni politico-criminali, non legata a fattori contingenti di necessità o urgenza e inspiegabile anche nell’ottica di una sicurezza intesa a evitare le “broken windows” e mantenere l’ordine legale costituito. In effetti, questo DDL è infarcito di norme che “privilegiano” gli appartenenti alla polizia (addirittura municipale e locale), mettendoli su un gradino superiore anche rispetto ad altri pubblici ufficiali... Il provvedimento contiene l’affermazione inquietante che l’agente di pubblica sicurezza possa avere diritti superiori a quelli di qualsiasi cittadino nel difendersi e nell’offendere. Non mi sottraggo, però, al quesito più tecnico che riguarda la prevenzione generale. La funzione di prevenzione generale della pena si colloca nella fase della comminatoria edittale (cioè dell’astratta previsione normativa) e quindi è il frutto di opzioni di politica criminale volte a creare un effetto di deterrenza. Se vogliamo, però, che questo effetto sia reale, pervasivo e potente dobbiamo circoscriverlo a un ambito di reati particolarmente gravi. Occorre insomma operare serie distinzioni sul piano del disvalore delle condotte da prevenire e reprimere. Poco sopra, accennavo all’occupazione abusiva di immobili: ecco, sanzionarla con un massimo edittale così alto probabilmente non avrà in concreto alcuna efficacia deterrente. La repressione indiscriminata e severissima di condotte, tra loro assolutamente disomogenee sul piano del disvalore, significa negare ogni funzione alla prevenzione generale. Ritiene azzardata l’affermazione secondo cui, per ritrovare una logica equivalente a quella che anima questo provvedimento, si deve fare un balzo indietro di quasi un secolo, fino al Codice Rocco del 1930? Stiamo marciando dritti verso uno Stato di polizia? Ci stiamo avviando su una china scivolosa. Percepisco una deriva da democrazia illiberale. Riconosco che i proponenti abbiano avuto almeno l’attenzione di far passare attraverso il Parlamento questo disegno di legge (pur se è vero che le assemblee legislative vedono una preponderanza schiacciante di componenti espressione degli orientamenti della maggioranza di governo). C’è stata maggiore sensibilità istituzionale rispetto ai precedenti c.d. pacchetti - sicurezza, che erano tutti decreti-legge di emanazione governativa, poi convertiti in legge ordinaria. Probabilmente, lo scrupolo è dovuto al fatto innegabile che questo assetto di disposizioni è molto più repressivo di altri provvedimenti - anch’essi infelici - introdotti da altre maggioranze (il pensiero corre all’aggravante comune della clandestinità). Resta il fatto che siamo di fronte a un uso improprio del diritto penale come strumento di neutralizzazione del disagio sociale. Si afferma una logica emergenziale che vede sempre il “brutto, sporco e cattivo” come destinatario della norma penale. Logica che tanto ricorda il temibile diritto penale del nemico: da un lato i salvati (le persone per bene); dall’altro i sommersi (a cui sono negati i diritti elementari, compreso quello alla scheda telefonica). *Avvocati penalisti Si scrive “pacchetto sicurezza”, si legge libertà di perseguitare di Vittorio Alessandro* L’Unità, 1 ottobre 2024 Il ddl Sicurezza approvato alla Camera, e ora in attesa di voto al Senato, costituisce una sfida odiosa alla nostra vita civile. Il governo, che contava fra i suoi programmi la mitigazione dei reati e delle pene, li moltiplica, invece, rivolgendosi con particolare accanimento verso le fasce più deboli della società. Nel disegno di legge risaltano in modo particolare le norme che puniscono severamente le manifestazioni di protesta, anche quando espresse in forma di resistenza passiva, cioè senza alcun uso della violenza. Da più parti si è levato l’allarme nei confronti di questa previsione che cancellerebbe un modo di vivere nella comunità radicata nel primo cristianesimo, nell’opposizione indiana al dominio britannico, nelle lotte per i diritti civili. Ha detto Luigi Manconi a Il Cavallo e la Torre: “Si tratta di una involuzione autoritaria e illiberale. La resistenza passiva è un’acquisizione di intelligenza, di maturità, di libertà”. La nuova norma, insieme alle pacifiche contestazioni nelle strade, nelle piazze o davanti ai cancelli delle fabbriche, punisce anche la protesta nelle carceri dove, per ragioni che nessuno rimuove, dall’inizio dell’anno abbiamo già contato ben 69 suicidi. A tal proposito, chi nutrisse dubbi sulla valenza detentiva dei centri di permanenza per i migranti potrà considerare, ad esempio, quello da poco istituito a Porto Empedocle per la reclusione in attesa del rimpatrio. Lì, un numero consistente di forze dell’ordine è impegnato a contenere qualche decina di migranti e vi girano intorno perfino più che nelle prigioni di massima sicurezza. Chi, poi, non fosse convinto che i migranti siano carcerati come gli altri - e, come loro, reietti, per giunta senza processo - troverà nel nuovo decreto due previsioni interessanti. La prima, articolo 18, prevede una pena da due a otto anni per chi, negli istituti penitenziari, partecipi a una protesta (anche usando la resistenza passiva); la seconda, immediatamente successiva, commina da uno a sei anni per analoghe proteste nelle “strutture di contenimento e accoglienza per i migranti”. In entrambe le disposizioni, lo stesso intento persecutorio. *Ammiraglio in congedo delle Capitanerie di porto Giudici antimafia “tuttofare”, la norma finisce alla Consulta di Errico Novi Il Dubbio, 1 ottobre 2024 La Cassazione solleva una questione di legittimità sulle regole del 2011. Da ormai un anno giace inerte alla Camera una proposta di Forza Italia per riportare nel perimetro della Costituzione le norme su sequestri e confische antimafia. Tutto tace: la commissione Giustizia di Montecitorio e in generale il centrodestra si sono ben guardati dal calendarizzare una proposta capace sì di restituire un principio di civiltà all’ordinamento, ma evidentemente sgradita alla magistratura. Eppure non tutti i giudici sono insensibili alla presunzione d’innocenza e al diritto di difesa, cardini che le misure di prevenzione previste dal codice antimafia sradicano con una violenza degna degli ayatollah: la sesta sezione penale della Cassazione ha infatti recentemente trasmesso alla Consulta atti relativi a una delle norme in questione, in particolare alla possibilità, incredibilmente prevista dalla legge, che a pronunciarsi su una definitiva confisca sia lo stesso magistrato autore della decisione sull’originario sequestro. A renderlo noto è una nota diffusa dall’osservatorio Misure di prevenzione dell’Unione Camere penali: nell’ordinanza di remissione (dello scorso 10 settembre) piazza Cavour ha ritenuto dunque “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 37 comma 1 cpp, in riferimento agli articoli 24, 111 e 117” della Carta. La questione, si legge nel comunicato Ucpi, “era stata sollevata dalla difesa del ricorrente, il quale, nel corso di un procedimento di ricusazione del Collegio del Tribunale chiamato a decidere sulla confisca di prevenzione, aveva lamentato che, nel processo di prevenzione per l’applicazione delle misure patrimoniali, non è prevista alcuna incompatibilità (con conseguente esclusione della ricusabilità) del giudice che abbia disposto, ai sensi dell’articolo 20 D. lgs. 159/ 2011, la restituzione degli atti al proponente, ad assumere successivamente, in seguito alla integrazione probatoria, la decisione sul sequestro” e neppure quella del “giudice che abbia deciso sul sequestro ai sensi dell’articolo 20 commi 1 e 2 D.lgs. 159/ 2011, a decidere sulla confisca”. La mancata previsione di tali profili di incompatibilità, secondo il ricorrente, sarebbe in contrasto con la Costituzione e con l’articolo 6 della Convenzione europea dei Diritti umani. Tesi che la Cassazione ha condiviso. Calabria. Straface: “Puntiamo a migliora la situazione delle carceri” ecodellojonio.it, 1 ottobre 2024 La consigliera regionale di maggioranza: “La nostra attenzione e sensibilità è senza precedenti”. “Con il Presidente Roberto Occhiuto, l’attenzione e la sensibilità dell’istituzione regionale nel suo complesso, rispetto all’esigenza di innalzamento complessivo della qualità delle strutture penitenziarie, non ha precedenti. È quanto ha sottolineato la Presidente della Terza Commissione sanità, attività sociali, culturali e formative del Consiglio Regionale Pasqualina Straface, nel corso dell’audizione odierna del Garante regionale dei diritti delle persone detenute o provate della libertà, l’avvocato Luca Muglia”. Secondo la Straface sono numerose e diverse le iniziative messe in campo dalla Giunta Occhiuto: “A confermare questo nuovo approccio da parte della Regione Calabria - ha aggiunto - sono le numerose iniziative messe in campo fino ad oggi dalla Regione: dal Protocollo d’intesa tra il Ministero della giustizia e il Settore Welfare del Dipartimento Salute e Welfare della Regione Calabria per la Realizzazione di interventi di reinserimento socio-lavorativo delle persone in esecuzione penale nel territorio calabrese, all’approvazione del Piano regionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti; dal Protocollo Operativo regionale per la prevenzione del rischio autolesivo e suicidario nei servizi residenziali minorili del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità all’apertura a Girifalco di un modulo di 20 posti di Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS); dall’Osservatorio regionale permanente sulla Sanità Penitenziaria; dal tavolo tecnico regionale sulla Sanità penitenziaria, con funzioni propositive e consultive che partono dall’analisi delle criticità, fino alla Cabina di regia unica promossa per garantire l’integrazione dei servizi socio-sanitari e di inclusione socio-lavorativa delle persone sottoposte a provvedimenti limitativi o privati della libertà personale emanati dall’Autorità Giudiziaria”. La Straface annuncia 22 milioni di euro per una giustizia più inclusiva: “Proprio in questa sede, nei giorni scorsi, alla presenza dell’assessore alle politiche sociali Caterina Capponi che presiede la Cabina di regia, sono state affrontate - ha continuato la Presidente - le importanti opportunità derivanti dall’avviso pubblico finalizzato alla presentazione di proposte progettuali “Una giustizia più inclusiva. Programma Nazionale Inclusione e lotta alla povertà 2021-2027”, che ha l’obiettivo di promuovere interventi volti al raggiungimento di una giustizia più inclusiva, attraverso l’attuazione di azioni volte all’integrazione socio-lavorativa delle persone sottoposte a misura penale e la riqualificazione delle aree trattamentali dove si svolgono le attività di inclusione previste, con particolare attenzione alle persone adulte prossime al reingresso sociale al termine dell’esecuzione penale. Alla Regione Calabria - ha precisato la Straface - sono stati assegnati oltre 22 milioni di euro per il finanziamento delle due azioni previste”. “Tra le criticità che continuano a riguardare lo stato delle carceri in Calabria, in linea con le altre regioni, vi è sicuramente il sovraffollamento, le condizioni strutturali e sanitarie, la carenza di personale tra polizia penitenziaria, funzionari giuridico-pedagogici e mediatori linguistico-culturali. Come Commissione - ha aggiunto - abbiamo registrato tutte le diverse e dettagliate criticità contenute nella relazione semestrale del Garante, aggiornata al 31 luglio scorso, accogliendo l’esigenza di sollecitare tutte le autorità politico-amministrative competenti all’adozione di provvedimenti legislativi ed organizzativi ritenuti indifferibili ed urgenti”. Roma. Disordini a Regina Coeli, Ansatasìa: “Il sistema ha perso la bussola” garantedetenutilazio.it, 1 ottobre 2024 “Fuoco, fumo, tetto sfondato e tegole lanciate sulla strada”, così la Garante di Roma Capitale, Calderone, che si è recata subito sul posto. “L’immagine dell’VIII sezione di Regina Coeli in fiamme è la metafora di un sistema penitenziario privo di bussola: morti, proteste e devastazioni sono all’ordine del giorno. Così non si può continuare. Bisogna riaprire le porte alla speranza che sola garantisce una serena convivenza in carcere. Ridurre la popolazione detenuta e offrirle migliori opportunità di assistenza, formazione e reinserimento sociale. Tutto il contrario dell’illusione repressiva contenuta nel ddl sicurezza che prevede come reato anche la disobbedienza nonviolenta”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, all’indomani dei disordini divampati mercoledì 25 settembre nell’ottava sezione del carcere romano di Regina Coeli, dove sono reclusi un centinaio di detenuti circa. “Fuoco, fumo, tetto sfondato e tegole lanciate sulla strada”, così ha scritto in un post su Facebook la Garante di Roma Capitale, Valentina Calderone, la quale si è recata sul posto, ma non è stata fatta entrare nelle sezioni. “Nonostante la mia insistenza sono dovuta rimanere fuori dalla prima rotonda”, ha scritto Calderone. Sarebbero state fatte esplodere alcune bombolette dei fornelli da campeggio comunemente in uso per cucinare e preparare vivande. “Quanto sta accadendo a Regina Coeli preoccupa - ha dichiarato Anastasìa in un’intervista all’Adnkronos- e ovviamente crea anche molta impressione perché, questo non lo dobbiamo dimenticare, succede nel centro di Roma. Ho ricevuto segnalazioni, telefonate, video, fotografie da persone che abitano lì vicino o che vi si trovavano a passare. Cose di questo genere stanno accadendo con una frequenza di una, due volte alla settimana in molti istituti della regione ma per lo più all’oscuro di tutti, trovandosi gli istituti fuori città. Ieri, al contrario, nel cuore della Capitale, se ne sono accorti tutti”. “Il problema è di carattere generale - ha proseguito Anastasìa - di un sistema che ha perso la bussola, in cui i detenuti evidentemente non hanno più fiducia rispetto ai loro percorsi detentivi, al fatto che, partecipando all’offerta rieducativa, possano avere una prospettiva di reinserimento. Qualsiasi occasione anche futile porta subito quindi alla protesta, ai danneggiamenti, agli incendi, ai materassi bruciati. Che poi finisce per essere l’unico modo con cui fuori dal carcere ci si accorge che ci sono anche quelli in carcere”. “Queste rivolte non si risolvono con la minaccia della legge dell’ordine con il reato che è stato previsto nel DdL sicurezza di rivolta penitenziaria - spiega ancora - Non sarà un reato che farà finire queste cose, perché già ora i detenuti sanno perfettamente che quando fanno quel che hanno fatto ieri, saranno comunque passibili di un reato di danneggiamento che può avere anche una pena consistente quindi diciamo così. Non è la minaccia della pena che cambia questa situazione, ma l’offerta di prospettive alle persone che sono in carcere in modo tale che non si ammazzino, perché poi non dobbiamo dimenticarci che quando ci sono le proteste collettive ci sono purtroppo quelle individuali”. Nel corso della sua ultima visita nell’istituto penitenziario di via della Lungara, il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca aveva detto che Regina Coeli dovrebbe essere chiusa ma, vista la carenza di posti, una strada percorribile potrebbe essere quella di trasformarla in casa di reclusione, così da poter essere decongestionata e consentire condizioni di detenzione più umane. “Regina Coeli va al massimo tenuta in piedi per quello per cui è stata progettata ed è funzionale, cioè l’ospitalità degli arrestati in attesa della convalida - commenta all’Adnkronos Anastasìa - Ad oggi sono invece reclusi 1.150 detenuti per una capienza regolamentare di626 posti. Durante l’estate, in assenza di altri posti, le aule scolastiche sono state riempite di letti. Quando i primi di ottobre riprenderanno le lezioni, che succederà? In quelle aule scolastiche, si ricomincerà a far la scuola, che è l’unica offerta trattamentale che esiste in un istituto come Regina Coeli che non ha un campo sportivo, un teatro, oppure le aule dovranno restare occupate dai letti dei detenuti?”. “Regina Coeli certamente non è un istituto idoneo alle funzioni previste dalla Costituzione. Quindi può essere mantenuto solo come una casa d’arresto, per il tempo strettamente necessario alla convalida di provvedimenti di fermo. Oppure come un luogo dove magari possano essere alloggiati i detenuti che svolgono il lavoro all’esterno, in semilibertà: persone che non devono vivere là dentro ma che ci devono andare a dormire. Così ha senso, altrimenti no. Abbiamo invece chiesto, in occasione dell’ultimo suicidio che c’é stato, che la VIIsezione di Regina Coeli, la più complicata, quella di approdo, di transito, venga chiusa. Vedo in carcere tante persone che sono lì perché hanno una condizione di svantaggio sociale, non hanno casa o un’attività, una famiglia, nessuno che li sostenga. A questi non si riesce a dare un’offerta di sostegno effettiva: io, piuttosto che realizzare nuove carceri, investirei sul territorio e nei servizi sociali, in strutture abitative, in opportunità per le persone. Abbiamo un sistema penitenziario di 62mila persone di cui gli autori di reati gravi saranno ventimila, non di più”. Roma. Detenuta uccise i figli piccoli nel nido del carcere: assolta la psichiatra di Rebibbia di Natascia Grbic fanpage.it, 1 ottobre 2024 È stata assolta Lorena Bianchi, la psichiatra del carcere di Rebibbia accusata di omicidio colposo per la morte di due fratellini, uccisi dalla madre detenuta nel reparto nido del penitenziario. La procura aveva chiesto due anni e nove mesi di carcere. Secondo l’accusa, Bianchi non aveva visitato la donna per ben tre volte, nonostante le sollecitazioni della vice direttrice del carcere, allertata dal comandante del reparto e dal personale del nido. Alice Sebesta, che già dal giorno dopo il suo arresto aveva dato segni di forte squilibrio mentale, ha ucciso i suoi figli lanciandoli dalla tromba delle scale: la piccola di sei mesi è morta sul colpo mentre il più grande pochi giorni dopo all’ospedale Bambino Gesù di Roma. Subito dopo averli aggrediti, Sebesta ha cominciato a urlare “Li ho liberati!”. Assolta per vizio totale di mente dall’accusa di omicidio, dovrà comunque scontare quindici anni in una Rems, struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali. “Prendiamo atto della sentenza del tribunale - ha dichiarato l’avvocato di parte Civile, Andrea Palmiero -. Leggeremo le motivazioni nella speranza che la procura faccia appello”. Alice Sebesta era stata arrestata un mese prima degli omicidi per questioni legate alla droga. Insieme a lei erano stati portati in carcere i figli piccoli: Faith, di appena sei mesi, e Divine, poco più grande. Mentre stavano andando a pranzare l’allora trentenne li aveva presi e scaraventati giù dalle scale, urlando “Li ho liberati, adesso stanno bene!”. Un gesto improvviso, repentino, contro cui gli operatori penitenziari non sono riusciti a fare nulla. La piccola è morta immediatamente. Il più grande è arrivato al Bambino Gesù in condizioni disperate, con le funzioni cerebrali compromesse. È poi morto qualche giorno dopo, nonostante gli sforzi dei medici di salvargli la vita. Sondrio. Eletto il nuovo Garante per i diritti dei detenuti di Giuseppe Maiorana sondriotoday.it, 1 ottobre 2024 È Marco Racchetti il nuovo Garante dei detenuti del carcere di Sondrio: la sua elezione è avvenuta a Palazzo Pretorio, nel corso dell’ultima seduta del consiglio comunale del capoluogo, con 26 voti favorevoli e due schede bianche. Racchetti aveva presentato la sua candidatura a luglio, come aveva rivelato il sindaco Marco Scaramellini sempre nel corso della seduta del consiglio comunale di due mesi fa e poi la sua volontà era stata ufficializzata nelle scorse settimane. Ora l’elezione effettiva per questo importante e delicato ruolo che ha soddisfatto sia gli esponenti della maggioranza si quelli della minoranza: “Grazie a Marco Racchetti per la disponibilità - ha sottolineato il sindaco Marco Scaramellini. Il ruolo che va a ricoprire è dedicato, ma Racchetti è una persona particolarmente attenta e competente e siamo sicuri possa ricoprirlo al meglio”. “Quello del garante dei detenuti - ha fatto eco Andrea Massera del gruppo Sondrio per Sondrio - è un ruolo delicato e che richiede una certa passione. Conosco Marco Racchetti di cui, seppur su posizioni diverse, ho apprezzato anche qui in consiglio comunale, la passione civile e il rispetto delle istituzioni. Ora si accinge a ricoprire questo ruolo delicato, peraltro come già fatto da suo padre Francesco: per questo lo ringraziamo. Marco Racchetti è una persona più che degna e dovremmo sostenerlo affinché possa svolgere il suo compito nel migliore dei modi”. Ed è stato proprio questo ultimo concetto espresso da Massera a essere ripreso con forza anche da Roberta Songini, esponente del Pd: Racchetti succede infatti a Orit Liss, dimessasi circa un anno fa per l’impossibilità di svolgere al meglio e in pieno i compiti che prevedevano il suo ruolo. Ora bisogna evitare che questa situazione si ripeta. “Sono contenta dell’elezione di Marco Racchetti - ha sottolineato il consigliere Songini -. So la passione che ha e sono sicuro che potrà fare bene. Mi auguro, però, che abbia davvero il sostegno necessario visto che in passato ci sono stati problemi, soprattutto di dialogo con le altre amministrazioni. Quindi, patti chiari e amicizia lunga”. Pisa. Quasi 100 detenuti in più: “Celle invivibili, carceri ormai lager” La Nazione, 1 ottobre 2024 L’ispezione della Camera penale con il garante, giovani avvocati e il presidente del Consiglio Mazzeo. L’acqua calda che spesso non c’è, le strutture più volte detto “fatiscenti”, con l’intonaco che cade, celle strette, ma soprattutto affollate. Perché nella casa circondariale Don Bosco di Pisa ci sono quasi 100 detenuti in più rispetto al limite previsto. I numeri sono stati dati alla fine di una visita ispettiva da parte della Camera penale di Pisa per il progetto “Ristretti in agosto”, promosso dall’osservatorio carcere dell’Unione Camere Penali Italiana, la referente locale è l’avv Chiara Benedetti. Un sopralluogo posticipato a settembre per incontrare il nuovo direttore, Tazio Bianchi. Presenti anche l’avv Laura Antonelli, già presidente della Camera Penale di Pisa e attuale membro della giunta Ucpi, giovani avvocati, il garante e il presidente del Consiglio regionale Antonio Mazzeo che ha accolto “con piacere l’invito per dare voce a chi ne ha meno. Dobbiamo costruire le condizioni per queste persone perché possano tornare a essere cittadini. Alcuni impegni presi - ho potuto verificare - sono stati mantenuti. Nel settore femminile gli interventi di ristrutturazione sono stati eseguiti e ogni donna può tornare a essere cittadina libera”. Il problema principale è il “sovraffollamento”, aggiunge Mazzeo che ricorda gli investimenti della Regione nella formazione, “che è fondamentale, sono stati finanziati diversi corsi professionali per parrucchiere, estetista”. “La zona della semilibertà versa in una condizione non dignitosa, inaccettabile. Il direttore mi ha assicurato che c’è già una richiesta fatta in tal senso al Ministero. Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando le condizioni di vita in carcere”. La presidente della Camera penale pisana, l’avvocato Serena Caputo, fa il quadro. “Sono attualmente 282 le persone (27 sono donne) detenute, in realtà la capienza è a meno di 200, circa 190. Questo significa che in una cella ci sono anche tre persone invece che due e la sera i detenuti devono fare a turno per stare in piedi. Nel settore della semilibertà hanno ancora letti a castello con il bagno alla turca adiacente. Le carceri così stanno diventando lager autorizzati e vanno chiusi. È indecoroso, vivono come animali fra perdite d’acqua, intonaco cadente. La pena in questo modo è solo punitiva, una tortura”. Poi il riferimento al decreto Nordio “insufficiente”. “Il direttore a Pisa cerca di apportare migliorie con quello che ha (in estate sono stati acquistati ventilatori, sono state imbiancate le pareti e sostituiti i sifoni delle docce), ma ci sarebbe bisogno di risorse”. Ha accompagnato la delegazione anche l’avvocato Valentina Abu Awad, garante delle persone private della libertà personale, “Il sovraffollamento non garantisce spazi adeguati per svolgere attività e lavori”. Verona. Società San Vincenzo De Paoli, XVII edizione del Premio letterario “Carlo Castelli” agensir.it, 1 ottobre 2024 Verona si prepara ad accogliere, venerdì 4 e sabato 5 ottobre, la nuova edizione del Premio letterario “Carlo Castelli”, un concorso dedicato ai detenuti degli istituti penitenziari italiani, inclusi i minorili. L’evento, organizzato dalla Federazione nazionale italiana Società di San Vincenzo De Paoli Odv, Settore Carcere e devianza, ruota intorno al tema “Perché? - Ti scrivo perché ho scoperto che c’è ancora un domani”. Un titolo che invita a riflettere sul valore della speranza e sul riscatto possibile. “Nel cuore di ogni persona si nasconde una storia, un intreccio di esperienze e sentimenti che, nella scrittura, trova il suo più profondo strumento di espressione”, afferma la presidente della Federazione nazionale, Paola Da Ros, introducendo il volume che raccoglie i racconti dei finalisti, che saranno premiati nella casa circondariale di Montorio (Verona). Papa Francesco, durante una recente visita al carcere di Verona, ha incontrato i volontari vincenziani e ha inviato una lettera di ringraziamento, il 4 giugno scorso: “Vi sono grato per quanto fate. Continuate con gioia e generosità questo prezioso servizio. Non stancatevi di essere testimoni di fede, speranza e carità. La Grazia di Dio vi sostenga e vi rafforzi. Vi abbraccio e di cuore benedico voi e tutti i carcerati. Che la Santa Vergine vi custodisca sotto il suo manto materno”. Giunto alla sua 17ª edizione, il Premio Carlo Castelli offre ai detenuti l’opportunità di raccontarsi, riflettere e sperare attraverso la scrittura, ma anche di fare del bene: oltre ai premi in denaro per i primi tre classificati, una seconda somma è destinata a progetti di reinserimento sociale. Il primo premio finanzierà un’iniziativa in un carcere per adulti, il secondo in un istituto minorile e il terzo nel settore Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna). Il concorso, dedicato alla memoria di Carlo Castelli, figura di spicco del volontariato vincenziano e promotore della legge Gozzini, diventa un mezzo per costruire un futuro condiviso, sottolineando l’importanza del sostegno reciproco, anche in contesti difficili come il carcere. Il Premio Carlo Castelli ha ottenuto il patrocinio di Camera, Senato e Ministero della Giustizia ed è insignito della medaglia del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La manifestazione prevede sabato 5 ottobre, alle 10, al Teatro Nuovo di San Michele, l’incontro “Dialogo in punta di cuore: nuove speranze dopo il reato”, per riflettere sul valore della giustizia riparativa e sui percorsi rieducativi. I racconti premiati, insieme ad altri dieci segnalati dalla giuria, saranno raccolti in un’antologia che verrà distribuita a tutti i presenti nel corso degli eventi e allegata, per la prima volta, alla rivista della Federazione nazionale, “Le Conferenze di Ozanam”, pubblicazione che raggiunge oltre 13.600 tra soci e volontari in tutta Italia. A condurre gli eventi sarà Alessandro Ginotta, caporedattore della rivista e capo ufficio stampa della Federazione nazionale. L’incontro del 5 ottobre è aperto al pubblico. L’ingresso è libero, ma è possibile prenotare chiamando il numero 06 6796989. Cremona. L’allenatore di 76 anni dietro le sbarre e i detenuti in goal di Simone Bacchetta Il Fatto Quotidiano, 1 ottobre 2024 “È davvero un bell’impegno, ma estremamente gratificante. E poi mi diverto”. Gigi Bertoletti, cremonese, 76 anni ex litografo, una vita nell’ambito calcistico locale, racconta a ilfattoquotidiano.it la sua esperienza di allenatore di calcio dei detenuti del carcere di Cà del Ferro, a Cremona. Tutto ha inizio quando viene interpellato dalla sezione locale Uisp (Unione italiana sport per tutti): “Era il 2003, mi hanno proposto di portare in carcere la mia lunga esperienza nel mondo del calcio dentro al carcere. Prima di me ci aveva provato un amico ma ha resistito solo pochi giorni. Io ho accettato subito ed oggi sono sempre più fiero di averlo fatto”. Gigi, il ‘ct dei detenuti’ come lo chiamano con affetto, non si limita ad allenarli ma li dirige nelle partitelle che lui stesso organizza in base agli spazi e ai momenti di ‘libertà’ che i detenuti hanno durante la giornata. Di solito un’oretta o poco più al giorno, generalmente dalle 13 alle 14. “Oltre che come atleti, cerco di farli crescere anche come uomini. Cerco i ragazzi più bravi a giocare a calcio. Per la maggior parte la popolazione carceraria è straniera. I più talentuosi - e ce ne sono avendo molti di loro giocato a discreti livelli nei rispettivi Paesi, ad esempio in Romania e Marocco - li convoco per giocare le partite fuori dal carcere contro alcune rappresentative comunali, di associazioni di volontariato del territorio o delle scuole cittadine”, confida Bertoletti. Associazioni che forniscono gratuitamente anche materiale e abbigliamento. “La stessa Unione Sportiva Cremonese ci ha aiutato molto in questo senso”. Gigi, all’epoca in cui era un calciatore, ha giocato in Prima Categoria come attaccante. Poi, appese le scarpette al chiodo, “ho iniziato ad allenare squadre giovanili di provincia”. Poi l’attività in carcere. La prima volta che sono entrato? “Un gruppo di ragazzi mi circonda e mi fa: ‘Che ci fai qui?’ Ora non ho bisogno di presentarmi, anche i nuovi sanno già chi sono”. Ci sono due campetti in carcere: uno in sintetico ed uno in terra un po’ più grande. “Facciamo sia partite di calcio a 5 che a 7. Prima che arrivassi non c’erano regole. Ho migliorato, attenuandola, la loro irruenza. Prima molti finivano in infermeria. In più, qualcuno mi ha anche riempito di parolacce, nella sua lingua. Non capivo cosa stesse dicendo, ma l’ho sicuramente intuito. Ora va decisamente meglio. C’è più correttezza”. Gigi evoca inoltre, con un mezzo sorriso, un episodio relativo al periodo del Calcio scommesse: “Incontrai in carcere Marco Paoloni, l’ex portiere della Cremonese coinvolto nell’inchiesta. Lo conoscevo, naturalmente, avendo io lavorato per la società grigiorossa. E mi dice: ‘Cosa ci fai qui?’. No, gli dico io: cosa ci fai tu qui?”. Alla fine è stato arruolato nella rappresentativa dei detenuti, ma non in porta. Infine Gigi ricorda il premio assegnatogli dal Coni: “La cerimonia in Comune, che soddisfazione”. Motivazione del riconoscimento? L’impegno per creare un ponte tra sport e solidarietà. Baby Gang: “Sono fuori da tunnel e finalmente libero. O quasi” di Marco Bracconi La Repubblica, 1 ottobre 2024 Da quando è ragazzino entra ed esce da comunità e carceri. Storie da rap. Ora che i conti con la giustizia sono, forse, in pari, le porta in tour. Ma c’è un problema: “Gli adulti. Li vivo come un nemico”. “Qualunque cosa accada, sarò sempre libero di essere ciò che sono”. È una frase impegnativa per un ragazzo di ventitré anni, anche se si chiama Baby Gang, il rapper italiano più ascoltato in Europa e il più immortalato - finora - dalle cronache giudiziarie. L’avverbio è d’obbligo perché Zaccaria Mouhib, italiano di origine marocchina, 31 dischi d’oro e platino nel borsello e due miliardi di streaming, adesso è un uomo libero. A parte un processo per assembramento durante il lockdown, con la giustizia i conti sono in pari e forse è la prima volta che gli succede da quando aveva dodici anni e già viveva ‘mmiez ‘a via, in fuga da una comunità o l’altra, accompagnato “ai negri africani mica quelli americani”, come canta nel feat di Paradiso artificale di Tedua. “Io ci sono cresciuto assieme a loro, per questo sono l’unico bianco che può permettersi di chiamarli così”, dice guardando il manager Marilson, cittadinanza italiana e pelle scura come il carbone. Siamo in uno studio della Warner nel centro di Milano, lontani dalle popolari di Lecco City e dai tempi in cui Baby era un baby randagio, dormiva sui tram o dove capitava, magari nella branda di un carcere minorile. Ma a pensarci bene era solo ieri. Tra strada, microcriminalità, processi e galera, lo spazio vitale di Zaccaria è stato per tutti questi anni il prodotto di un perimetro di restrizioni, anche quando era già ricco e famoso. Ora, all’improvviso, l’Europa. Un tour che toccherà Barcellona, Madrid, Zurigo e altre sei capitali, poi il recupero nei palazzetti delle tre date italiane saltate causa andirivieni di legge: Ancona, Milano e Torino il 12, 14 e 21 dicembre. “Canterò live, finalmente. Lo dico io e spero che il pubblico provi la mia stessa sensazione, quella di una lunga attesa ripagata. Per me questi concerti sono la chiusura del cerchio. Fin qui è stato come allenarmi senza mai poter giocare. Dopo la libertà riconquistata, sento che questo tour mi cambierà la vita”. Viva la libertà - Si fa presto a dire liberi, però. “Il passato non passa facile, la notte non dormo perché ho la paranoia che vengano a prendermi anche se non ho fatto niente”, poi Zac affonda gli occhioni nella visiera e si strofina i polsi: “Ecco, vedi, lo faccio sempre. Come se cercassi le manette”. A guardare la Lambo con cui è arrivato verrebbe da chiedergli cosa gli manca dell’andazzo di prima, domanda banale che merita la risposta paradossale di uno che la cella se l’è fatta sul serio. “Mi manca la libertà. Per esempio andare in giro senza essere riconosciuto. Tutto questo è irrimediabilmente finito”. La parte oscura di quel passato, quella di errori, furti e casini, è invece viva e vegeta nelle canzoni e nei video che dirige lui stesso, roba gangsta dura e pura, a tratti un po’ paracula ma ci sta, fa parte del codice. E infatti Zaccaria, a proposito della querelle sull’emulazione dei ragazzini, la pensa come i colleghi: “Racconto quello che ho vissuto e ho visto in strada, senza filtri se non quello della musica. E l’idea che saremmo cattivi esempi è una polemica insensata. Viviamo in un’epoca in cui a dieci anni, sul telefonino, puoi vedere e fare di tutto, e loro se la prendono con i testi dei rapper”. La musica, dunque. E nove date europee che in pochi italiani, oggi, potrebbero permettersi. Merito di un pastiche linguistico che mescola arabo, francese, italiano, napoletano e di una voce che può fare tutto. Rap, trap, reggaeton o urban, Baby Gang ci sta sopra come a casa propria, anche se Rolling Stone, dopo l’ultimo disco L’angelo del male, gli ha rimproverato di essersi circondato di star come Lazza o Sfera e non di ragazzini della street. “Posso permettermi di fare anche ciò che viene definito commerciale. E poi è uno step per ogni artista, rapportarsi con un pubblico più vasto. Non vorrei che questi richiami alla “purezza” nascondessero l’intenzione di voler tenere certe voci ai margini. E comunque in Italia a noi rapper ci capiscono sempre in ritardo”. Un po’ come fanno i padri, certe volte. “Da adolescente gli dissi che volevo fare il cantante e lui mi ridicolizzò con una risata che non dimenticherò mai”. Anche da lì - ammette - è arrivata la furia che gli ha consentito di trasformare una fede in un risultato concreto. Rapper voleva essere, rapper è diventato. Solo che poi cresci, ti dai una calmata ma con il mondo degli adulti la questione resta aperta. “Sì, il problema sono loro, gli adulti. Li ho sempre vissuti come il nemico. Da questo punto di vista mi sento un eterno minorenne”. Il rischio della tranquillità - Per me è tutto un inizio, aveva detto prima di cominciare questa chiacchierata. Eppure una parte di Baby parla come se avesse già fatto ogni cosa, per strada e in studio di registrazione. Nell’elenco dei feat dati e ricevuti ci sono tutti, e infatti se gli chiedi con chi sogna di collaborare allarga le braccia: “Ho cantato con quelli che erano i miei idoli, chi dovrei volere di più?”. Tutto è all’inizio ma tantissimo già fatto, insomma, così non è facile interrogare sul domani un giovanotto che sente di avere la vita davanti ma anche dietro le spalle, puer aeternus con le esperienze strong di un quarantenne. Un bel casino da governare. Zaccaria, in ogni caso, non si vede come Marracash, a 20 anni ragazzaccio della Barona e a 40 targato dal premio Tenco. “Il mio obiettivo è non aver più bisogno, a 30 anni, di fare musica. E non parlo dei soldi. Arriveranno le terze e quarte generazioni, ci saranno altri Baby Gang a cui lasciare la scena. Magari allora passerò ad altri modi di esprimermi, ho un’idea precisa in testa”. La dice, pregando di non scriverla. La pensata è ambiziosa ma attenzione, esce dalla bocca di uno che quando si mette in testa una cosa ci riesce, evidentemente. “Se farò un disco diverso? Parlare di sentimenti non è un tabù, ma ogni cosa in me va piano piano. Finora ho raccontato quello che mi è successo da ragazzino, poi racconterò gli anni dopo. Di sicuro non sarò mai un artista che vivacchia. Non gioco per partecipare”. Poi, di nuovo, quello strofinamento di polsi e altre paure da conoscere, tipo il rischio di perdere il carburante creativo innescato da una vita malvissuta. “Certo che ci penso, quando hai una storia come la mia, dove degrado e riscatto sono intrecciati, ti preoccupi che la tranquillità possa anche voler dire che è finita. Ma non sarà così”. Intanto meglio pensare al tour, all’etichetta No Parla Tanto con cui fare scuderia e alle parole di Paola Zukar, manager di Fibra e di Marra, che considera il disco “un capolavoro neorealista che dà voce a contesti sociali che rimuoviamo”. A questa voce, ora, non resta che avere un palco e un corpo: “So di aver fatto al contrario, di solito si comincia nei locali e poi arriva il successo, io inizio coi live quando sono già una star. È tutto strano, ma ciò che conta è poter mettere entrambe le scarpe dentro”. Dal 25 ottobre a L’Aquila - la data zero - si fa dunque sul serio. In cerca del pubblico ma anche di una libertà tutta da scrivere e imparare. Per un baby che a sette anni era certo di diventare rapper è un ritorno al futuro, per il ragazzino che a dodici rovistava nei cassonetti e scippava catenine è la prima vera occasione di tenere il passato al posto dove deve stare, non attorno ai polsi ma dentro le canzoni. E forse, un giorno, neppure più in quelle. Cittadinanza, 637mila sì al referendum. La Lega: “Gli italiani lo bocceranno” di Andrea Bulleri Il Messaggero, 1 ottobre 2024 Depositate in Cassazione le firme per chiedere la consultazione. Magi: “Numeri record”. Il primo traguardo è stato tagliato. Per provare a passare anche il secondo, si dovrà aspettare fino alla prossima primavera. Sono oltre 637mila le firme per il referendum sulla cittadinanza consegnate ieri alla corte di Cassazione, che permetteranno - se la procedura sarà validata dalla Suprema corte - di far esprimere gli elettori su un tema che tiene banco dall’inizio dell’estate: la concessione della cittadinanza italiana ai figli degli stranieri che vivono in Italia. E, nel caso del quesito elaborato da +Europa, il dimezzamento dei tempi per diventare cittadini, dagli attuali dieci a cinque anni di residenza legale in Italia. Per richiedere la consultazione di firme ne servivano 500mila. Invece dal 6 al 30 settembre i promotori ne hanno raccolte online 637.487, di cui più di 155mila in sole 24 ore, tanto da mandare in crash per alcune ore il portale dedicato sul sito del ministero della Giustizia. Un successo dovuto anche agli appelli di personalità del mondo dello spettacolo, dello sport e della cultura, da Julio Velasco a Malika Ayane a Ghali, che hanno rilanciato la campagna via social. “Non sono solo dei numeri record, sono numeri che dimostrano che in un momento di grande sfiducia nei confronti della politica c’è stata una mobilitazione straordinaria”, esulta Riccardo Magi di +Europa. Obiettivo: “Porre al Paese una questione urgente su cui il Parlamento non si esprime”, spiega. Con Magi a consegnare le firme c’era anche la deputata dem Ouidad Bakkali, il segretario del Psi Enzo Maraio, oltre a esponenti di Possibile, Radicali e delle altre associazioni che fanno parte del comitato pro referendum, sostenuto pure da Avs, Italia viva e pezzi di M5S (anche se Giuseppe Conte non ha firmato). Eccoli, i promotori del quesito, schierati per la foto di rito fuori dal Palazzaccio, mentre reggono cartelloni con i numeri delle firme incassate e una grande bandiera italiana. Una battaglia “di opposizione e resistenza al governo e alla maggioranza”, dicono: “Il Paese è più avanti di loro”. Ora si passa alla seconda fase. Una volta terminato il controllo sulle firme da parte della Cassazione la palla passerà alla Consulta, che entro febbraio dovrà esprimersi sull’ammissibilità e la correttezza della formulazione. Punti su cui c’è chi solleva qualche dubbio. Replica Magi: “Chi parla di referendum propositivo non ha letto il quesito”. In caso di via libera, le urne dovrebbero essere convocate per la primavera, probabilmente tra aprile e giugno. E non è escluso che il referendum sulla cittadinanza venga accorpato in un’unica tornata primaverile, insieme ai quesiti per abrogare la legge sull’Autonomia differenziata e il Jobs act. Almeno è in questa direzione che spinge il Pd, che punta così a mobilitare il maggior numero possibile di votanti: perché il referendum sia valido dovrà andare alle urne la metà più uno degli aventi diritto. Obiettivo tutt’altro che semplice, in tempi di affluenza sempre più scarsa. Contrario il centrodestra, a cominciare da Matteo Salvini. “Adoro ogni referendum e ogni volta che il popolo si esprime - osserva il vicepremier - ma se ce ne sarà uno che prevede la cittadinanza breve e facile sono convinto che gli italiani lo bocceranno: già oggi siamo il Paese europeo che concede più cittadinanze a tutti”. Per il leader della Lega insomma “non si capisce la necessità di accelerare”. Anzi: il Carroccio propone di “trovare il modo di ritirare la cittadinanza agli stranieri che commettono reati in Italia”. Eppure il capitolo cittadinanza nel centrodestra continua a creare frizioni. Con Forza Italia che rilancia sullo Ius scholae (gli azzurri stanno elaborando un testo da sottoporre agli alleati “in settimana”) e la Lega che torna a bocciare la proposta senza appello: “Benzina su un fuoco acceso dalle opposizioni, assurdo e contro ogni buon senso, così si danneggia il governo”, chiude la porta Stefano Candiani. Chi invece promette il suo sì una volta che il testo arriverà in Aula è Italia viva. Che punta sul via libera di tutte le opposizioni per mettere in difficoltà il governo. E si chiede: “Che faranno a quel punto i forzisti?”. Migranti prigionieri senza colpa: l’inferno del Cpr di Ponte Galeria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 ottobre 2024 Quello di Ponte Galeria, a Roma, è il Centro di Permanenza per i Rimpatri (Cpr) più grande e più longevo d’Italia. Esiste dal 1998, quando questi centri furono istituiti dalla legge Turco- Napolitano. Più volte è stato al centro delle cronache, dalle rivolte fino ai suicidi. Alcuni davvero drammatici. Basti pensare a Ousmane Sylla, un ragazzo della Guinea di 22 anni che non poteva essere espulso perché mancano gli accordi fra l’Italia e il suo paese. Sul muro della cella aveva scritto: “Mi manca mia madre, voglio tornare in Africa” e poi si era impiccato la notte del 3 febbraio. Ed è terribile. Ai fini del rimpatrio (questa è la ratio dei Cpr), è risultato quindi del tutto inutile il trattenimento di questo ragazzo, così come di altri. L’appello degli accademici per la chiusura - Da anni diverse organizzazioni che si occupano dei diritti umani chiedono la sua chiusura. A loro, una settimana fa, per la prima volta, si è aggiunto un nutrito gruppo di accademici romani lanciando un’iniziativa mai avvenuta nella Capitale. L’azione, che vede in prima linea figure di spicco del mondo universitario, vuole sollecitare l’intervento diretto del sindaco di Roma. L’istanza che mira all’immediata chiusura del centro, firmata da oltre trenta professori di diritto e medicina, tra cui l’ex Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, il professor Mauro Palma, sottolinea come la presenza del Cpr sia “gravemente lesiva dell’identità e dell’immagine della Città di Roma”. I firmatari denunciano le condizioni precarie della struttura, l’alto livello di degrado e le tragiche morti che vi sono avvenute. Secondo gli accademici, tutto ciò minerebbe profondamente i valori su cui Roma si fonda, come sancito dallo Statuto della città. “L’esistenza del Centro e la sua funzione privativa della libertà senza alcuna prospettiva positiva è incompatibile con i principi di accoglienza, solidarietà e di tutela dei diritti umani di cui la città è portatrice”, si legge nell’istanza. La richiesta al Sindaco è chiara: chiedere al ministero dell’Interno la chiusura immediata del Cpr e prevedere forme risarcitorie per la comunità territoriale, considerando il danno arrecato all’immagine e all’identità cittadina. L’iniziativa non si ferma qui. Gli accademici si dicono pronti a depositare un’azione popolare in Tribunale in caso di inerzia da parte dell’amministrazione comunale. Un precedente simile si è già verificato con successo a Bari, aprendo la strada a questa nuova sfida nella capitale. Tra i sottoscrittori figurano nomi illustri come Luigi Ferrajoli, Marco Ruotolo, Flavia Lattanzi e molti altri, rappresentanti di diverse discipline accademiche, ma uniti nell’obiettivo di porre fine a quella che considerano una situazione insostenibile. L’azione del mondo accademico romano potrebbe segnare un punto di svolta nel dibattito sui centri per il rimpatrio, ponendo l’accento non solo sulle condizioni di vita all’interno di queste strutture, ma anche sull’impatto che esse hanno sull’identità e sui valori delle comunità che le ospitano. Resta ora da vedere se il sindaco di Roma recepisca questa pressante richiesta, in un momento in cui il tema dell’immigrazione e della gestione dei centri per il rimpatrio si inserisce in un contesto più ampio di criticità evidenziate da una recente ricerca di Amnesty International, sollevando serie preoccupazioni sui diritti umani e sulla dignità delle persone trattenute. L’indagine e le denunce di Amnesty International - L’organizzazione, dopo aver visitato due centri di permanenza per i rimpatri, tra i quali proprio quello di Ponte Galeria, ha pubblicato un’indagine intitolata “Libertà e dignità: osservazioni sulla detenzione amministrativa delle persone migranti e richiedenti asilo in Italia”. Il quadro che emerge è a dir poco preoccupante. Secondo Serena Chiodo dell’Ufficio campagne di Amnesty International Italia, “la detenzione amministrativa dovrebbe essere una misura eccezionale e di ultima istanza”. Invece, l’organizzazione ha riscontrato un uso “eccessivo e sistematico” di questa pratica, che priva le persone migranti e richiedenti asilo dei loro diritti fondamentali. Particolarmente allarmante è la presenza nei centri di individui in situazioni di estrema vulnerabilità: persone con gravi problemi di salute, richiedenti asilo in fuga da persecuzioni legate al loro orientamento sessuale o al loro attivismo politico, e persone con responsabilità familiari. “Questi inutili ordini di detenzione gettano nel caos le loro vite, la loro salute e le loro famiglie”, denuncia Chiodo. Amnesty: “Violazioni del diritto internazionale” - Il rapporto critica aspramente le recenti misure adottate dal governo italiano nel 2023, che hanno esteso il periodo massimo di detenzione a 18 mesi e introdotto “procedure di frontiera” per i richiedenti asilo provenienti da cosiddetti “paesi sicuri”. Queste politiche, secondo Amnesty, violano il diritto internazionale che richiede una valutazione individuale per ogni caso. Le condizioni all’interno dei centri visitati - Ponte Galeria a Roma e Pian del Lago a Caltanissetta - sono state descritte come “estremamente restrittive, spogli e carenti dal punto di vista igienico- sanitario”. I detenuti non possono muoversi liberamente nemmeno all’interno delle strutture, i cellulari personali sono proibiti e le condizioni abitative sono al di sotto degli standard minimi accettabili. “Le persone sono costrette a trascorrere tutto il loro tempo in spazi recintati, in condizioni che per molti aspetti sono peggiori di quelle carcerarie”, afferma Chiodo, sottolineando come l’assenza di attività e la mancanza di informazioni sul futuro provochino “enormi danni psicologici” tra i trattenuti. “È urgentemente necessaria una svolta significativa”, conclude Chiodo, ricordando che la detenzione legata alla migrazione dovrebbe essere utilizzata solo in circostanze eccezionali e mai per coloro che cercano protezione internazionale. La gestione privata poco virtuosa del Cpr di Ponte Galeria - Il Cpr di Ponte Galeria è una struttura, fuori dal centro abitato, realizzata in cemento e ferro. Le zone di trattenimento sono realizzate su moduli architettonici regolari con due o più stanze, con annessa area esterna comune. Tutti i moduli sono separati tra loro, dalle aree di passaggio e dall’area amministrativa da spesse cancellate in barre di ferro alte fino a otto metri. Nella zona maschile alle barre di ferro sono stati aggiunti dei pannelli in spesso vetro per limitare ulteriormente eventuali tentativi di evasione o di sommossa. Si apprende direttamente dal sito del garante regionale Stefano Anastasìa che dal 1° febbraio 2022 si è insediato il nuovo ente gestore la Ors Italia parte della multinazionale Ors Group, con sede centrale in Svizzera, aggiudicataria dell’ultima gara d’appalto pubblicata nel giugno 2021 dalla Prefettura di Roma. Come le precedenti gare, l’appalto è stato aggiudicato in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Il gruppo Ors è attivo da più di 30 anni nei settori dell’accoglienza e della detenzione amministrativa dei migranti per conto di governi e autorità in tutta Europa e gestisce strutture di accoglienza e trattenimento in Svizzera, Germania, Austria, Italia e Spagna. Ma la gestione è virtuosa? Sempre dalla scheda del Garante regionale del Lazio, Stefano Anastasìa, apprendiamo che vi è una carenza di personale, anche sanitario, allarmante, peggiorata con l’ultimo capitolato d’appalto. E senza meraviglia, la scarsa qualità del cibo risulta pessima. Julian Assange: “Mi sono dichiarato colpevole di giornalismo” di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 1 ottobre 2024 “Ho scelto la libertà sull’impossibilità di ottenere giustizia”. Inizia così il primo discorso da uomo libero di Julian Assange, volato dall’Australia a Strasburgo per parlare davanti alla Commissione per gli affari legali e i diritti umani dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Un discorso pieno di amarezza e che punta il dito contro Washington. “Voglio essere totalmente chiaro. Non sono libero oggi perché il sistema ha funzionato. Sono libero oggi perché dopo anni di carcere mi sono dichiarato colpevole di giornalismo”. “Ora la giustizia per me è preclusa - ha continuato - poiché il governo degli Stati Uniti ha insistito affinché nel patteggiamento fosse prevista la condizione di non presentare il mio caso alla Corte europea per i diritti dell’uomo”, ha sottolineato Assange. Il fondatore di Wikileaks è stato rilasciato a giugno dopo 5 anni di reclusione in carcere seguiti a sette anni di esilio autoimposto presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove aveva chiesto asilo per motivi di persecuzione politica. Il caso durato anni si è concluso quando si è dichiarato colpevole di aver cospirato per ottenere e diffondere illegalmente informazioni riservate sulla difesa nazionale in base all’Espionage Act. “La questione fondamentale è semplice - continua Assange - i giornalisti non dovrebbero essere perseguiti per aver svolto il loro lavoro. Il giornalismo non è un crimine. È un pilastro di una società libera e informata”. Il giornalista australiano è stato accusato di aver ricevuto e pubblicato migliaia di documenti segreti, tra questi diari di guerra e dispacci diplomatici che includevano dettagli sugli illeciti militari statunitensi in Iraq e Afghanistan. Tra questi anche il video di un attacco con un elicottero Apache del 2007 a Baghdad che uccise 11 persone, tra cui due giornalisti della Reuters. Celebrato dai sostenitori della libertà di stampa, Assange è stato accusato di aver messo a rischio la sicurezza nazionale americana e vite innocenti - come quelle di persone che hanno fornito informazioni alle forze statunitensi in Iraq e Afghanistan. Durante il suo discorso, il giornalista australiano ha messo in guardia gli europei dai rischi dell’ingerenza statunitense. “Gli europei devono obbedire alla legge sullo spionaggio degli Stati Uniti - afferma Assange - La libertà di espressione e tutto ciò che ne consegue si trovano a un bivio oscuro. Temo che, a meno che istituzioni che stabiliscono norme come il Consiglio d’Europa non si sveglino di fronte alla gravità della situazione, sarà troppo tardi”. “Se l’Europa vuole avere un futuro in cui la libertà di parola e la libertà di pubblicare la verità non siano privilegi riservati a pochi ma diritti garantiti a tutti, allora deve agire in modo che ciò che è accaduto nel mio caso non accada mai a nessun altro”, ha sottolineato Assange, chiedendo a tutti di fare la propria parte “per garantire che la luce della libertà non si affievolisca mai, che la ricerca della verità continui a vivere e che le voci di molti non vengano messe a tacere dagli interessi di pochi”. L’Assemblea, che comprende parlamentari di 46 paesi europei, discuterà della detenzione e della condanna di Assange “e del loro effetto agghiacciante sui diritti umani” in vista di un dibattito sull’argomento previsto per mercoledì 2 ottobre Alabama (Usa), i detenuti “in leasing” a Mc Donald’s, Kfc ed altre aziende commerciali di Mauro Del Corno Il Fatto Quotidiano, 1 ottobre 2024 Sottopagati, metà dello stipendio va allo Stato. Non siamo alle colonne di detenuti incatenati a spaccare pietre ma neppure troppo lontano. L’Alabama, stato del sud degli Stati Uniti con lunga storia di schiavismo, ha deciso di mettere a reddito i detenuti nei penitenziari statali. Per la gioia di catene come Mc Donald’s, Kfc, Wendy’s etc, grandi utilizzatori di questa forza lavoro a bassissimo costo. L’Alabama non prevede un salario minimo, i datori di lavoro possono quindi scendere sotto i 7,25 dollari l’ora previsti a livello federale. Paghe da fame, insomma. Per di più l’Alabama Department of Corrections tiene per sé il 40% della retribuzione dei detenuti a cui addebita anche il costo del trasporto sul luogo di lavoro. La differenza rispetto al passato è che chi rifiuta di farsi impiegare rischia grosso. Va incontro a penalizzazioni sui permessi premio, possibili trasferimenti in celle di isolamento, sino alla minaccia di venire trasferiti in penitenziari di massima sicurezza, più duri e più pericolosi. Così, ogni giorno, decine e decine di detenuti vengono di fatto obbligati a salire sugli appositi bus con cui sono trasportati nei luoghi di lavoro per prestare servizio per 12 e più ore al giorno. Contro questa pratica, riporta il sito statunitense Jacobin, alcune organizzazioni no profit hanno intentato causa, portando all’attenzione dell’opinione pubblica quello che il sistema carcerario dell’Alabama chiama “detenuti in leasing”. Il Center for Constitutional Rights, una delle due associazioni che si sono rivolte ai tribunali, nel ricorso scrive che ““In Alabama, la schiavitù e la servitù involontaria non sono finite con la guerra civile ma si sono spostate dalle piantagioni ai penitenziari. Generazione dopo generazione lo stato ha mantenuto in vigore un sistema di lavoro forzato finalizzato ad estrarre profitti da neri e poveri e a mantenerli in uno stato di sottomissione”. Il primo ricorso è stato respinto dal tribunale dell’Alabama ma l’associazione sta lavorando ad un appello. Quello dell’Alabama non è né l’unico né il primo caso ma si distingue per la coercizione a cui vengono sottoposti i detenuti, di fatto obbligati a partecipare al programma. Nel 2014, in Colorado, 1.600 prigionieri furono impiegati presso le catene di montaggio di industrie private di mobili, di riparazioni auto e della difesa, con una paga al di sotto di un dollaro l’ora. Nessuno sciopero, nessun sindacato, paghe bassissime. Detenuti sono stati “appaltati” anche a Boeing, Starbucks e Victoria’s Secrets. La messa a reddito di penitenziari e detenuti è ormai un grande business. Sempre più spesso la gestione delle prigioni è affidata a gruppi privati che ricevono una somma per ogni prigioniero. Sono sorti da tempo gruppi specializzati nel settore come Geo Group, che vale in borsa 1,8 miliardi di dollari, o CoreCivic che ne vale 1,4. Operano per conseguire profitti che puntualmente arrivano. Non a caso tra i principali azionisti ci sono i soliti colossi della finanza come Blackrock, Vanguard, Fidelity, State Street, Jp Morgan, etc. La privatizzazione della sicurezza è un ramo di attività che piace molto all’ex presidente Donald Trump. Quando vinse, nel 2016, le azioni delle società del comparto balzarono del 40% Negli Stati Uniti si contano circa 2,3 milioni di detenuti a cui si aggiungono 5 milioni di persone sottoposte a varie misure di sorveglianza. Il tasso più alto del mondo in rapporto alla popolazione, in Cina i reclusi sono “appena” 1,7 milioni. Tra il 2000 e il 2018 la popolazione carceraria americana è aumentata del 40% e negli ultimi 40 anni di un impressionante 900%. Più in generale, da tempo negli Usa è in corso un tentativo, in parte riuscito, di rendere più lasche le normative sul lavoro. Lo stesso stato dell’Alabama, insieme ad altri 10, ha varato leggi per indebolire le norme contro il lavoro minorile. Il loro impiego, che rimane illegale, è quindi triplicato in tre anni, con le catene di fast food spesso in prima fila nell’utilizzo di questa forza lavoro a bassissimo costo. I rifugiati siriani in fuga dal Paese dei cedri: nessun luogo per loro è sicuro di Martina Ucci L’Unità, 1 ottobre 2024 Sono più di mezzo milione gli sfollati dal Libano. Da quando Israele ha iniziato la sua offensiva nel sud del Paese, la situazione dei profughi è precipitata molto velocemente. Tra chi scappa, il numero più alto è quello dei siriani (circa l’80%), che erano fuggiti dal loro Paese a causa della crisi politico-economica e della guerra civile. Così, solo qualche anno dopo aver abbandonato la Siria, sono costretti a farci ritorno, per fuggire - questa volta - dagli attacchi delle forze israeliane nel nord del Paese in cui, seppure in condizioni precarie e con pochissimi diritti, avevano trovato rifugio. Si stima che siano circa 1,5 milioni i rifugiati siriani in Libano. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, ad oggi sarebbero oltre 137 i rifugiati siriani, di cui 40 minori, ad essere stati uccisi dai bombardamenti israeliani in meno di dieci giorni. Queste persone oggi si trovano ad un bivio: rimanere in Libano sotto le bombe dell’Idf oppure scappare e tornare in Siria, dove è molto alta la preoccupazione per ciò che il governo del presidente Bashir al-Assad potrebbe riservagli. Fonti locali di Homs, città della Siria occidentale, hanno riferito al quotidiano panarabo Asharq al-Awsat, che il numero di persone arrivate nella zona è in continuo aumento. “Tra i rifugiati siriani di ritorno dal Libano c’è il timore di ciò che li attende da parte delle autorità siriane, che non hanno annunciato come li tratteranno, né se assegneranno loro dei rifugi e gli forniranno degli aiuti”, hanno dichiarato le fonti. Questa paura nasce da episodi documentati di ritorsione contro rifugiati rientrati in patria. Secondo un rapporto del 2021 sulla Siria di Amnesty International, i servizi di sicurezza siriani hanno commesso numerose violazioni dei diritti umani su 66 ex rifugiati, tra cui 13 bambini. Cinque di loro sono morti in carcere e altri 17 risultano scomparsi. “Le attività militari si saranno anche ridotte, ma non è così per la propensione del governo siriano a compiere gravi violazioni dei diritti umani. Le torture, le sparizioni forzate, le detenzioni arbitrarie e illegali che avevano costretto tanti siriani a lasciare il paese sono di attualità ancora oggi. Quel che è peggio è che proprio il fatto di aver lasciato la Siria è sufficiente per essere presi di mira dalle autorità”, ha dichiarato Marie Forestier, ricercatrice di Amnesty sui diritti dei migranti e dei rifugiati. Il presidente Assad, la scorsa settimana ha annunciato un’amnistia per i cittadini siriani che hanno disertato all’obbligo di leva e hanno lasciato il paese. Come riferisce il quotidiano online Daily Sabah, questa dichiarazione sembra rivolta in maniera più o meno esplicita ai rifugiati siriani che si trovano in Turchia - che ad oggi è il paese che ospita il maggior numero di cittadini provenienti dalla Siria con status di protezione internazionale. Secondo molti esperti questa mossa di Assad non deve creare troppe illusioni. Si potrebbe, infatti, trattare solamente di una mossa politica per migliorare i suoi rapporti internazionali, senza che le promesse di amnistia e perdono per chi aveva lasciato il paese vengano davvero rispettate dal suo governo. “Queste persone sono entrate in Siria attraverso un passaggio illegale al confine, solo per aspettare che gli attacchi israeliani finiscano. Il loro obiettivo è quello di tornare in Libano a conflitto concluso, perché la paura delle ritorsioni del governo siriano sono tante. Ho sentito qualcuno parlare della possibilità di rimanere in Siria, facendo un accordo con i servizi di sicurezza di Assad, ma al momento non c’è nulla di chiaro”. Per gli sfollati siriani fuggiti dalla guerra civile e ora costretti a scappare di nuovo dal luogo in cui avevano trovato rifugio, sembra un pellegrinaggio senza lieto fine. Tornare in patria sanno che rischi può comportare, ma al momento restare nel sud del Libano per molti di loro avrebbe significato morte certa.