Sei anni dopo il caso Palamara, al Csm la sfida per nomine col pallottoliere di Liana Milella La Repubblica, 14 ottobre 2024 Arriva alla stretta finale la discussione sul nuovo Testo unico. Lo scontro tra i progressisti che lanciano un sistema a punti con un pizzico di anzianità e Magistratura indipendente e i laici di centrodestra che vogliono piena discrezionalità. Coi punti, e un pizzico di anzianità. Oppure come s’è sempre fatto, col bilancino delle correnti. Incredibile, ma vero. Al Csm si sta cercando affannosamente, e con divisioni profonde, come garantire le nomine negli uffici senza che aleggi, o peggio incomba, l’incubo della trattativa correntizia sotto banco. Dal caso Palamara sono passati ben sei anni - deflagrò a maggio del 2019 - e allora stava per cadere tutto il Csm. Lo salvò Mattarella che non credeva in una nuova elezione con la stessa legge ed ebbe in David Ermini un vicepresidente che non muoveva palla se non si consultava con lui. Adesso però sta per diventare realtà la separazione delle carriere che obbliga chi ha il coraggio e la forza di resistere a lanciare un segnale concreto. Della serie, cambiare per non essere cambiati. Alla Camera la maggioranza insiste su un sorteggio pieno per i togati e uno soft per i laici, che offende i magistrati e la stessa istituzione che li rappresenta. Ve lo immaginate un Parlamento di sorteggiati? Una Consulta con i giudici estratti a sorte? E a quel punto qualsiasi nomina, a partire dai vertici delle polizie, della Rai, delle Authority, affidata al caso? Sarebbe la fine della rappresentatività delle nostre istituzioni. La morte definitiva della politica come entità che garantisce la trasparenza delle scelte. Così si può finire quando ci si ostina a non voler guardare avanti per misurare le conseguenze. Perché se togli una carta dal castello di carte, poi il castello viene giù tutto. In questo momento la carta in gioco è quella dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura italiana. E la separazione delle carriere assomiglia proprio a quella carta che sta per compromettere inesorabilmente l’equilibrio istituzionale rendendolo precario, come dimostra il recente caso della Consulta e dell’aut aut meloniano su Francesco Saverio Marini. Mentre la grottesca separazione delle carriere avanza verso il primo voto alla Camera: pm separati dai giudici che diventeranno sempre più dei poliziotti; due Csm ridotti ad altrettanti nominifici; l’Alta corte che nasce già lottizzata. Per questo al Csm c’è chi sta cercando di mettere un dito nel buco che goccia dopo goccia rischia di far crollare la diga. L’occasione è quella dei criteri per costruire la carriera di un magistrato e la necessità di riscrivere il Testo unico della dirigenza, una sorta di Bibbia delle regole. Lo impone la legge Cartabia sull’ordinamento giudiziario. Se ne parla da settimane tra contrasti durissimi. Ma ora siamo giunti allo showdown. Di fronte si aprono due strade, a partire da quella della conservazione ostinata delle “non” regole attuali. E cioè maglie larghe e mani libere per le nomine, senza criteri prestabiliti. Giusto il sistema che finora ha consentito ampie trattative e favoritismi. Sarebbe la conferma che i gruppi sottoscrivono il loro passato e non vogliono sottostare a criteri da rispettare. Se ne fanno promotori i sette togati di Magistratura indipendente, di certo alleati con i sei laici di centrodestra, compreso il vicepresidente leghista Fabio Pinelli. Con il congelamento della poltrona di Rosanna Natoli hanno perso un voto. Ai numeri, in plenum, ne contano 13. Dall’altra parte ci sono gli innovatori, Area, Unicost, Magistratura democratica, gli indipendenti Roberto Fontana e Andrea Mirenda, 13 anche loro, che mandano in scena il film “le nomine col pallottoliere”. Vogliono rompere con i vecchi schemi e le antiche “pratiche” spartitorie, disegnando uno scenario rigido, basato sui punteggi per ogni attività che la toga compie nell’arco della sua carriera, e con il peso dell’anzianità come dirimente finale quando due profili si avvicinano tanto da far restare la bilancia in equilibrio. Lo teorizza Fontana: “Il sistema attuale consente di nominare chi vuoi, scrivendo poi la motivazione necessaria. Se invece metti regole strette, che puoi anche periodicamente cambiare ma che ti legano le mani, diventa molto difficile forzare e anche lottizzare perché per il giudice amministrativo questa diventa un’autostrada”. “Può essere un modo per rendere le nomine più leggibili e trasparenti” dice il segretario di Area Giovanni “Ciccio” Zaccaro. Di certo un freno alle trattative sottobanco, perché la somma dei punti non ammette discussioni. Come ricorda l’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati “io, per mezzo punticino, sono diventato procuratore aggiunto”, ma avanza dubbi su un Csm che “non può rinunciare alla sua discrezionalità”. Tant’è che proprio i consiglieri di Area stanno riflettendo su possibili ritocchi che coniughino criteri rigidi, trasparenza, con un margine residuo di possibile discrezionalità. Ma se in ballo c’è la vita stessa del Csm e della magistratura che autonomamente rappresenta se stessa, e non per casuale sorteggio, un sistema che passo passo segua la vita di un magistrato, con i punti ne scandisca la carriera, e alla fine lo premi, può garantire nomine all’insegna del merito, a prescindere dall’appartenenza. Anche se, ovviamente, nella fase di accredito dei punti qualche giochetto si può sempre fare. La destra delle toghe e della politica invece paragona questo sistema “a un algoritmo”, e naturalmente lo boccia anche con parole dure, come quelle della segretaria di Mi Loredana Miccicchè e del presidente Claudio Galoppi. Ma dopo tante trattative sottobanco, ancorare le nomine a una severa analisi della carriera di ogni singolo candidato, proprio in questo momento politico di forte aggressione a tutta la magistratura, serve a presentarla agli italiani che credono sempre meno nei giudici come un’istituzione moralmente integra, che ha in sé gli anticorpi per contrastare clientele e carrierismo, ed è soprattutto scevra dal vizietto lottizzatorio che appesta la politica. È una via contrapposta non solo rispetto a chi sfrutta le correnti come un’autostrada da percorrere per garantirsi le promozioni, ma risponde soprattutto al centrodestra che sfregia le toghe escludendo la votazione democratica dei loro rappresentanti per affidarla alla sorte. La prima partita si gioca subito nella storica quinta commissione, quella che a palazzo Bachelet decide gli incarichi direttivi. Il presidente è il laico di Italia viva Ernesto Carbone. Deciso anche a mediare fin dove è possibile per raggiungere un risultato che faccia davvero notizia. Dalla sanità al codice rosso, l’arresto differito allarga i confini di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2024 Aumentano i reati per cui è possibile arrestare il presunto autore in “flagranza differita”, vale a dire anche dopo il fatto (ma entro 48 ore) come se fosse colto in flagranza, se ci sono documenti video, fotografici o tratti da dispositivi di comunicazione informatica o telematica che lo incastrano. In origine introdotta per contrastare la violenza dentro e fuori dagli stadi in occasioni di manifestazioni sportive, la flagranza differita è stata nel tempo allargata ad altri reati commessi con violenza in situazioni pubbliche. Il vero salto è stato fatto nell’ultimo anno, con l’estensione a reati di tipo diverso: prima, con la nuova legge Codice rosso in vigore da dicembre 2023 (legge 168), ad alcuni reati di violenza domestica e di genere e poi anche alle aggressioni a medici e sanitari e al danneggiamento di beni delle strutture sanitarie, con il decreto legge in vigore dal 2 ottobre scorso e ora all’esame del Senato per la conversione in legge. Non solo. Anche il disegno di legge sicurezza, già approvato alla Camera in prima lettura e ora all’esame del Senato, propone una nuova estensione dell’arresto in flagranza differita a due ulteriori ipotesi di reato: si tratta, in particolare, delle lesioni personali causate a pubblici ufficiali in servizio di ordine pubblico durante le manifestazioni sportive e le lesioni personali a medici e sanitari nell’esercizio delle loro funzioni, in entrambi i casi commesse durante manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico. Le regole Eppure la flagranza differita era nata come uno strumento eccezionale e transitorio. Ma negli anni il suo perimetro è stato ampliato e la possibilità di ricorrervi è stata stabilizzata, superando i dubbi di legittimità costituzionale legati al fatto che la flagranza presuppone uno stretto collegamento con la commissione del reato. Un legame previsto dall’articolo 382 del Codice di procedura penale, che indica due ipotesi in cui ricorre lo stato di flagranza: “ quando l’autore è colto nell’atto di commettere il reato; “ o quando, subito dopo il reato, l’autore è inseguito dalla polizia, dalla vittima o da altre persone o è sorpreso con oggetti o tracce da cui risulta che ha appena commesso il reato. Lo stesso Codice prescrive, per alcuni, più gravi, delitti non colposi, l’obbligo di arrestare chi è colto in flagranza e, per altri reati, l’arresto facoltativo in flagranza. La flagranza differita è stata invece introdotta nel 2003 per alcuni reati commessi in occasione di manifestazioni sportive e per le violazioni del Daspo (si veda la scheda a fianco): in pratica si è stabilito che, quando non è possibile “per ragioni di sicurezza o di incolumità pubblica” procedere all’arresto in flagranza, si considera comunque in stato di flagranza chi risulta autore del reato in base a documenti video fotografici. Inoltre, l’arresto deve avvenire non oltre il tempo necessario a identificare l’autore del reato e comunque entro 48 ore dal fatto. L’allargamento - L’arresto in flagranza differita è stato poi esteso, nel 2017, ai reati commessi con violenza alle persone o alle cose, alla presenza di più persone, anche in occasioni pubbliche e, nel 2020, ai reati commessi, sempre con violenza alle persone o alle cose, dai migranti trattenuti nei Cpr o nelle strutture di primo soccorso e accoglienza. L’anno scorso, poi, l’arresto in flagranza differita è stato esteso alla violenza domestica e di genere, con una nuova disposizione ad hoc del Codice di procedura penale (l’articolo 382-bis) che riguarda, nel dettaglio, i reati di: violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e violazione del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa; maltrattamenti contro familiari o conviventi; stalking. In questo ambito l’arresto in flagranza differita è stato introdotto, come ha spiegato la relazione illustrativa alla legge, soprattutto con finalità preventive di condotte più gravi. Da ultimo, il decreto legge varato per contrastare la violenza nei confronti del personale sanitario ha allargato la flagranza differita anche ai reati di lesioni personali a medici e sanitari e di danneggiamenti ai beni e alle strutture sanitarie. Una scelta fatta (inserendo un secondo comma all’articolo 382-bis del Codice di procedura penale) per rispondere, spiega la relazione illustrativa, “al crescente numero di reati commessi” in questo ambito. Secondo la relazione dell’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie, le segnalazioni di aggressione nel 2023 sono state oltre 16mila nell’intero territorio nazionale. Flagranza differita. Ma dietro c’è l’incapacità di dare tutela tempestiva di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2024 È un elenco ormai importante quello dei reati per cui la polizia giudiziaria può arrestare l’indagato in flagranza “differita”. Dal 2 ottobre vi sono anche le lesioni al personale sanitario e sociosanitario, nonché ai loro ausiliari, e le condotte di danneggiamento contestualmente commesse. Nata poco più di vent’anni fa come misura straordinaria per contrastare la violenza negli stadi evitando i pericoli per l’ordine pubblico e l’incolumità generale derivanti da arresti effettuati in occasione delle manifestazioni sportive, il legislatore ne ha progressivamente esteso l’applicabilità a fenomeni criminali non sempre omogenei. Accanto a delitti per i quali valgono le stesse ragioni di ordine pubblico della violenza negli stadi, ce ne sono altri per i quali le esigenze cautelari potrebbero adeguatamente essere garantite senza prevedere deroghe alle regole ordinarie. La flagranza differita è una limitazione della libertà personale disposta dalla polizia giudiziaria - su cui la magistratura svolge un controllo postumo di legittimità - che non colpisce chi è colto mentre commette il reato, oppure scappa o è sorpreso con tracce dalle quali appare che lo abbia commesso immediatamente prima. Il sospettato viene individuato dalle forze dell’ordine solo nelle successive 48 ore, sulla base di documentazione video-fotografica o di altra documentazione legittimamente ottenuta da dispositivi di comunicazione informatica o telematica. La misura ha perso la sua natura eccezionale poco meno di un anno fa, quando è stata inserita nel Codice di procedura penale dalla legge 168/2023, per maltrattamenti in famiglia, stalking e violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Una scelta sintomatica della volontà del legislatore di aumentare la sfera di autonoma azione investigativa della polizia giudiziaria, visto che le consente di prendere un’iniziativa cautelare sulla base di una valutazione delle prove che, come regola, dovrebbe essere prerogativa della magistratura. Nel caso delle aggressioni al personale sanitario, inoltre, disvela la difficoltà concreta di garantire controllo del territorio e tutela tempestiva rispetto a fatti gravi. Non si comprendono infatti le ragioni di ordine pubblico che - in concreto - dovrebbero impedire arresti in flagranza di reato in occasione delle aggressioni al personale sanitario, cioè situazioni nelle quali bisognerebbe invece auspicare che le forze dell’ordine intervengano proprio durante lo svolgimento dei fatti, identificando i responsabili e arrestandoli se ce ne sono i presupposti, a contemporanea tutela del personale medico e paramedico e del buon funzionamento del servizio. Morire per un paio di cuffie di Gabriele Romagnoli La Repubblica, 14 ottobre 2024 Ci colpisce l’eventualità che qualcuno, un ragazzo di 19 anni appena oltretutto, possa uccidere un uomo per portargli via un paio di cuffie del valore di 14, massimo 20 euro (e poco cambierebbe). Ci domandiamo se davvero questo possa essere il valore di cambio di un’esistenza, se si può cancellare quella altrui e di conseguenza la propria per tanto poco. La domanda, a cui i fatti hanno dato una tragica risposta affermativa, nasconde un equivoco. Altrove un imprenditore è stato ridotto in fin di vita per aver fatto concorrenza ai rivali abbassando il prezzo di una gruccia da 27 a 6 centesimi. Puoi pure moltiplicarlo per un numero indefinito di oggetti, ma il valore di partenza resta quello. Chi offre di meno? Altrove ancora, è passato un mese e mezzo, un uomo è uscito di notte in bicicletta per le strade del paese e ha accoltellato una donna che camminava da sola, “animato da un irrefrenabile impulso di togliere una vita”, in cambio di nulla. Quattordici, o venti euro; ventun centesimi, niente. L’ambiguità alla quale ci sottomettiamo è cercare un valore soglia dell’esistenza, come fosse una merce qualsiasi. E non stupirci più, anzi, se lo troviamo alto. Mercoledì scorso la Corte d’Appello di Perugia ha rigettato l’istanza di revisione per un caso di omicidio in cui la Cassazione aveva già confermato l’ergastolo. Il perito nominato da quello stesso organo giudicante aveva spostato l’epoca della morte rendendola incompatibile con la presenza del condannato. La pubblica accusa ha eccepito, tra l’altro e soprattutto, la compresenza di un castello indiziario inespugnabile al centro del quale si trovava la circostanza che l’uomo inquisito dovesse alla vittima due milioni e duecentomila euro. Un movente enorme, certo. Dunque due milioni spiegano tutto, venti euro niente. Così funziona la nostra società civile e non da ora, da secoli: dal lato dei delitti e da quello delle pene. La stagione selvaggia dei risarcimenti anche in forme cruente termina con la rivoluzione industriale. L’istituzione dell’ora/lavoro permette di dare un valore economico al tempo. Stabilita la perdita, la compensazione avviene in giorni, mesi o anni di reclusione, fino alla condizione estrema che prevede sia tolta la vita al colpevole di averla tolta a un altro nella modalità in apparenza più morbida dell’ergastolo. La funzione ben poco deterrente di questo sistema è denunciata dai casi recenti, dal fatto che i futuri omicidi escano di casa già armati, disposti eventualmente a uccidere per ottenere qualcosa la cui sottrazione di per sé porterebbe a una condanna lieve quanto il rilievo della cosa rubata. Ci siamo abituati a considerare come valore soltanto quello economico. Di un calciatore non si considera tanto la bravura quanto l’ingaggio, la plusvalenza che può generare. Di un artista non la capacità di cogliere o addirittura anticipare lo spirito del tempo, ma la cifra per la quale una sua opera è stata battuta all’asta. Se tutto ha un prezzo niente vale davvero. Il rovescio della medaglia è il rischio che la vittima è disposta a correre. Nel caso di Rozzano chiunque avrà pensato quanto spesso i genitori dannano i figli (anche quelli di 31 anni) con la raccomandazione di non reagire mai, lasciar perdere, consegnare la borsa e tenersi la vita. Nelle metropolitane del mondo si vede spesso un annuncio che avvisa, nel caso un oggetto cada tra i binari, di non buttarsi per recuperarlo, ricordandosi quale sia il bene primario. Lo pensiamo tutti: rinunceremmo al portafoglio, al cellulare, figurarsi alle cuffie ma, siamo sinceri, ognuno ha il proprio limite. La fede nuziale? Francamente, mia cara, non me ne infischio. L’orafo la rifarebbe uguale? Certo, chiedi a Tamberi. Non è eroico e non è sbagliato pensare che ci siano cose che valgono una vita. È un crimine invece pensare che una vita possa valere niente, o ventun centesimi, o due milioni di euro. Il coltello viene dopo. Lancini: “Se la disperazione non viene ascoltata, può tramutarsi in gesti di grande violenza” di Francesca Del Vecchio La Stampa, 14 ottobre 2024 Il terapeuta e presidente della Fondazione Minotauro: “Criminalizzare i genitori vuol dire perdere il senso di umanità”. “I giovani sono davvero ingordi di “cose” e per questo uccidono per un paio di cuffie oppure se il loro è uno stato di disperazione tale che li porta a compiere gesti che si potrebbero prevenire con l’ascolto?”. Matteo Lancini, psicologo e presidente della Fondazione “Minotauro”, parte dal caso di Manuel Mastrapasqua - il 31enne ucciso a coltellate da un 20enne a Rozzano - per spiegare che i ragazzi nella società “non sono né accettati, né responsabilizzati. Al contrario sono sempre più infantilizzati”. Perché i ragazzi di oggi sono così disperati? “È insoddisfazione, frustrazione per cose molto diverse: la mancanza di prospettive, la crisi climatica, l’assenza di ascolto da parte degli adulti, le guerre. Dovrebbero occupare le città e invece cercano in internet un luogo dove condividere il disagio. Finiamola di demonizzare la rete: è l’identità di questa generazione e criminalizzandola criminalizziamo anche loro”. Il ragazzo che ha ucciso era uscito con un coltello perché “era stata una brutta giornata”. Cosa significa? “Non è la paura del mondo esterno, ma la risposta a una paura interiore di solitudine. Ed è evidente che arrivino a gesti di tale violenza a causa di una profonda disperazione. In alcuni casi, la proiettano su se stessi, in altri verso il prossimo”. È corretto definirlo un movente “banale”? “Non è mai “banale”: il disagio e la sofferenza se non trovano vie di comunicazione con l’altro, se non trovano una opportunità di condivisione, diventano gesti disperati. Fenomeno sempre più frequente nei giovani”. Spesso si dà la colpa a famiglie che li viziano. È così? “Non credo che il problema sia il troppo amore. Al contrario, questi sono segnali di una generazione che non è stata amata per quello che è, in una società che incentiva la competizione e s’interessa più al profitto che alla sfera affettiva. Credo serva più che mai un’alfabetizzazione emotiva degli adulti che smettano di sostenere che la rabbia dei bambini aumenta per colpa dei videogiochi. E quella degli adolescenti per colpa della trap”. Pare che il padre del ragazzo lo abbia aiutato a scappare... “Ogni volta cerchiamo il grande colpevole e se non lo troviamo in internet lo cerchiamo nei genitori: vuol dire aver perso l’umanità, come accaduto con il padre di Filippo Turetta dopo la diffusione della conversazione in carcere. Non credo, comunque, che la prima cosa che viene in mente a un genitore quando un figlio confessa un omicidio sia quella di allertare le forze dell’ordine”. Il fatto che avesse dei precedenti è un indicatore? “Non tutti quelli che hanno un precedente penale arrivano a gesti violenti. Ogni ragazzo è diverso dall’altro e l’incontro con un adulto che gli chiede “tu chi sei?” è il momento in cui sperare che la disperazione venga comunicata. Il dialogo rende meno probabile che certi comportamenti vengano messi in atto”. Gino Cecchettin: “Il mio impegno l’ultimo regalo per Giulia” di Chiara Comai La Stampa, 14 ottobre 2024 Il papà di Giulia: “Non sono uno scrittore e non firmo copie, con il mio impegno cerco di farla rivivere. Il problema dei rapporti uomo-donna riguarda tutti, bisogna iniziare dal linguaggio che può fare male”. “L’esempio dei genitori vince su tutto. Serve un’educazione all’altruismo, dove non si tolleri nessuna forma di violenza dei confronti di qualsiasi altro tipo di persona. La scuola, poi, arriva dopo”. Gino Cecchettin, in dialogo con il vice direttore de La Stampa Gianni Armand-Pilon nell’ambito del festival “Women and the city”, ancora una volta premette: “Non sono uno scrittore. Sono solo un papà che ha voluto fare un ultimo regalo a sua figlia, una ragazza fantastica. Sono qui perché cerco di farla rivivere in qualche modo, e questo è l’unico modo che ho per farlo”. Cecchettin, che famiglia era la sua? “Patriarcale. Quando penso alla mia infanzia mi chiedo se mio padre fosse patriarca, e la risposta è sì, tantissimo. Per esempio, chi aveva il compito dell’educazione era mia madre. Mio padre si sentiva esentato, salvo per le punizioni corporali. Invece l’educazione è un lavoro che devono portare avanti entrambi i genitori”. Poi ha perdonato suo padre? “Sì, quando sono diventato anch’io papà. Ho capito che mi voleva bene ma che aveva a disposizione mezzi per educare diversi dai miei. È cresciuto in un contesto in cui mio nonno diceva a mia nonna: “Taci tu che sei una donna”. Mio padre ha respirato questo”. Rispetto ad altre epoche c’è una maggiore consapevolezza sul tema della violenza sulle donne. Qualcosa sta migliorando? “Stiamo progredendo come società ma c’è ancora tanto da fare. Noi - io e mia moglie - sicuramente abbiamo peccato nei primi tempi, siamo stati anche noi patriarcali. Ci abbiamo lavorato tanto. Per questo servono i seminari e soprattutto il dialogo con i giovani”. Da ragazzo, quali erano i modelli? “Sono cresciuto con stereotipi di maschio che non sono più sostenibili. Stallone, Rambo, James Bond che paragona le automobili alle donne. Alla fine non mi sono ritrovato nel ruolo di maschio alpha, forse non ne avevo il carattere. Non puoi risolvere sempre tutto con la forza, alla lunga è estenuante e ti porta alla solitudine”. Nel suo libro Cara Giulia scrive: “Io ero normale e nel mondo normale certe cose non succedono”. Queste cose sembrano non capitare mai a noi, finché non succedono... “Noi conducevamo una vita tutto sommato normale, non pensi mai a queste vicende. Quando le leggevo sul giornale non mi sentivo toccato, finché poi non mi è capitato e mi sono chiesto: perché a me?”. Che risposta si è dato? “I miei legali mi hanno detto che i femminicidi capitano in tutti gli strati sociali. Il patriarcato è pervasivo perché ci siamo dentro, e questo riguarda tutti i Paesi del mondo. Lo stiamo studiando con il team della Fondazione Giulia”. Può accadere a tutti... “Per questo non dobbiamo sentici esenti dall’affrontare il problema. Le forme di violenza non sono solo femminicidi, ma ce ne sono altre di più sibilline. C’è la violenza verbale, i modi di fare, che forse sono quelle che fanno più male”. Come fare a sensibilizzare gli altri uomini, per far capire che il patriarcato è un problema per tutti? “Prima di tutto mantenendo un dialogo costruttivo. E poi, ognuno di noi deve modificare il nostro linguaggio, stando attento a ogni singola parola. Anche nelle persone più illuminate c’è sempre quella frase sessista che sembra innocua, ma che i giovani poi metabolizzano”. Per esempio? “Dire a un bambino “Tu sì che sei un uomo” non è costruttivo, dà l’idea che un uomo sia molto meglio di una donna”. Domanda intima. In questa vicenda suo figlio Davide è rimasto un po’ in ombra. Come mai? “Ha preferito stare in disparte perché ognuno vive il dolore a modo proprio. Io rispetto la sua scelta e cerco di stargli vicino. Però entrambi, lui ed Elena, sono soci fondatori della Fondazione”. Di cosa si occuperà la Fondazione Giulia? “Faremo formazione nelle scuole tramite professionisti, per capire non solo cos’è la violenza di genere, ma anche la sessualità e l’emotività”. Che ruolo ha la politica in tutto ciò? Può aiutare, anche dal punto di vista normativo, ad affrontare il problema dei femminicidi? “Con la Fondazione stiamo lavorando in modo autonomo, cercando finanziamenti da sostenitori e aziende per fare formazione. La politica può potenziare la formazione degli insegnanti, per esempio. In realtà non ho ancora pensato a come possa agire, non è il mio ambito”. Viterbo. Detenuto impiccato in cella: processo d’appello all’ex direttore, assolto in primo grado di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 14 ottobre 2024 Detenuto impiccato in cella, processo bis all’ex direttore assolto da omicidio colposo. La procura generale ha chiesto la conferma della sentenza di primo grado del Gip del tribunale di Viterbo. No dei familiari del 36enne romano morto il 21 maggio 2018, padre di cinque figli. In attesa che entri nel vivo il processo per omicidio colposo per la morte di Andrea Di Nino che per due sanitari e un penitenziario si è aperto col rito ordinario davanti al giudice Jacopo Rocchi, ha preso il via il 30 settembre a Roma il processo d’appello scaturito dal ricorso della procura contro la sentenza del Gip Giacomo Autizi del tribunale di Viterbo che ha assolto in abbreviato l’ex direttore Pierpaolo D’Andria, difeso dall’avvocato Marco Russo. Di Nino è il 36enne romano padre di cinque figli detenuto per spaccio che fu trovato impiccato in una cella d’isolamento del carcere di Mammagialla la sera del 21 maggio 2018. L’ex direttore è stato chiamato a rispondere a titolo di cooperazione colposa della morte del detenuto. La discussione è iniziata con le requisitorie della procura generale di Roma e delle parti civili. In particolare la prima che svolge le funzioni requirenti nel grado di appello ha ritenuto ineccepibile il percorso motivazionale del giudice di primo grado viterbese ed ha concluso chiedendo la conferma dell’assoluzione emessa in primo grado, in totale disaccordo con le parti civili che hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei motivi di appello e la riforma della sentenza di primo grado. A fine mese proseguirà la discussione delle parti civili, quindi toccherà alla difesa dopo di che la corte si ritirerà in camera di consiglio per la decisione. Presunzione di innocenza - Nel sistema penale italiano vige la presunzione di innocenza fino alla sentenza definitiva. Presunzione di innocenza che si basa sull’articolo 27 della costituzione italiana secondo il quale una persona “non è considerata colpevole sino alla condanna definitiva”. Ivrea (To). Trenta sindaci in campo per il carcere: collaborazione e progetti per il reinserimento di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 14 ottobre 2024 L’appello dell’Associazione Volontari Penitenziari “Tino Beiletti” per costruire una rete di supporto al carcere di Ivrea. Opportunità di lavoro e giustizia riparativa al centro dell’incontro. Lunedì scorso, presso le Officine H di Ivrea, si è svolto un incontro promosso dall’Associazione Volontari Penitenziari “Tino Beiletti” e altre organizzazioni, che ha visto la partecipazione di circa 30 comuni del Canavese. L’obiettivo principale era di avviare una rete di collaborazione tra le amministrazioni comunali e il carcere, per affrontare le difficoltà quotidiane della struttura penitenziaria e individuare nuove opportunità di lavoro per i detenuti. Tra i presenti, rappresentanti di amministrazioni già con una lunga esperienza di collaborazione con il carcere, come Ivrea, Borgiallo, Chiesanuova e Vidracco, ma anche comuni che si affacciavano per la prima volta a questo tema, spinti dall’interesse per il progetto e dal desiderio di comprendere meglio la situazione. Alla riunione hanno preso parte figure di rilievo, tra cui la Direttrice del Carcere Alessia Aguglia e la Comandante Giuseppina Gambino, oltre a volontari e rappresentanti delle cooperative che gestiscono sportelli di orientamento e lavoro all’interno dell’istituto penitenziario. L’evento è stato aperto da Armando Michelizza, presidente dell’AVP. Ha sottolineato l’importanza di creare connessioni tra il carcere e i comuni. “È fondamentale,” ha detto Michelizza, “che il carcere non resti un’isola separata, così come i comuni. Creare relazioni è un’opportunità per tutti, soprattutto per valorizzare le competenze dei detenuti, che spesso rimangono inespresse.” La discussione si è concentrata su come i detenuti possano essere coinvolti in progetti di lavoro che potrebbero, da un lato, dare loro una nuova dignità e, dall’altro, rispondere alle esigenze delle amministrazioni locali. In questo contesto, il garante dei detenuti del Comune di Ivrea, Raffaele Orso Giacone, ha presentato la proposta di un “mini coordinamento”. L’idea è di creare una rete in cui i comuni più grandi e con risorse disponibili possano supportare quelli più piccoli nel cogliere le opportunità offerte dai prossimi bandi regionali, destinati a finanziare cantieri di lavoro per i detenuti. Uno degli aspetti centrali del dibattito è stato il tema della formazione professionale all’interno del carcere. Perla Allegri, volontaria dell’associazione Antigone, ha illustrato i risultati di una sua ricerca sulla formazione e sul reinserimento lavorativo dei detenuti. “Dove è stato possibile offrire una formazione professionale mirata,” ha spiegato Allegri, “si è osservata una significativa riduzione della recidiva e un inserimento più stabile nel mondo del lavoro”. Questo ha aperto una riflessione tra i sindaci presenti, molti dei quali hanno portato esempi di come la collaborazione tra i comuni e il carcere abbia permesso ai detenuti di partecipare a cantieri, contribuendo al miglioramento del territorio e creando un legame con la comunità. Non sono mancati, tuttavia, alcuni segnali di allarme. Alcuni sindaci hanno evidenziato le difficoltà incontrate nella gestione di queste esperienze. “Non tutte le persone - si è osservato -sono adatte a partecipare a questi progetti e spesso richiedono risorse straordinarie per poter essere seguite adeguatamente.” La necessità di un supporto maggiore, sia nella selezione dei partecipanti sia nel monitoraggio delle attività, è stata un tema ricorrente nel dibattito, con diverse richieste di maggiore assistenza da parte delle istituzioni. L’incontro - Sul tema della giustizia riparativa è intervenuta l’assessora Gabriella Colosso del Comune di Ivrea, che ha presentato un progetto in fase di avvio nella città in cui si lavorerà per costruire occasioni di incontro tra le vittime di reato e i colpevoli, con l’obiettivo di risolvere i conflitti e favorire una riconciliazione. “Siamo ancora in una fase iniziale,” ha spiegato l’assessora, “e mancano linee guida e fondi adeguati, ma è un progetto in cui crediamo fortemente e che speriamo di sviluppare al meglio”. La riunione si è conclusa con l’intervento del Garante Raffaele Orso Giacone sull’urgenza di affrontare alcune problematiche concrete legate al futuro di circa venti detenuti che verranno rilasciati entro la fine dell’anno. “Molti di loro,” ha ricordato “non solo non hanno un lavoro, ma non dispongono nemmeno di una sistemazione abitativa temporanea”. Le strutture di accoglienza sul territorio, come la comunità di Lessolo e la casa di Santa Croce di Candia, sono già al limite della capacità, e anche le storiche strutture della Caritas sono momentaneamente sature. I comuni sono stati quindi invitati a cercare soluzioni concrete per offrire ospitalità a queste persone, con l’auspicio che si possa evitare una situazione di emergenza sociale. Sassari. “Nel carcere di Bancali 400 detenuti su 500 usano psicofarmaci” sardiniapost.it, 14 ottobre 2024 Quattrocento detenuti tra i 500 ospiti della Casa circondariale di Bancali fanno uso di psicofarmaci. È soltanto uno dei dati drammatici emersi nel corso del convegno “Tutela della salute negli istituti penitenziari del Nord Sardegna: peculiarità e criticità”, all’Aula udienze penali della Corte d’Appello di Sassari. “Il diritto alla salute per i detenuti è stato più volte posto dal legislatore nazionale - ha detto Giommaria Cuccuru, presidente del Tribunale di sorveglianza di Sassari, in apertura di lavori -. La legge prevede che il Servizio sanitario nazionale deve operare all’interno degli istituti di pena, e deve garantire ad ogni istituto un servizio rispondente alle esigenze della salute dei detenuti. Questo che deve approntare per i detenuti strutture idonee a soddisfare il loro specifico bisogno di salute. Nella stragrande maggioranza dei casi, i detenuti provengono da strati sociali marginali, si portano dietro malattie trascurate nel tempo, non dispongono di risorse materiali per ricorrere all’assistenza privata e spesso neppure di un valido supporto familiare. Occorre dunque fare di più”. Il focus, che riguardava in particolare le realtà del Centro-nord Sardegna (Sassari, Alghero, Tempio Pausania, Nuoro e Mamone), in realtà ha mostrato un quadro che è analogo anche nel resto dell’Isola. “La detenzione è in crescita, in Italia e in tutto il mondo, anche a causa delle norme più restrittive introdotte negli ultimi anni e del dilagare del mercato delle droghe”, ha ricordato Sandro Libianchi, promotore dell’iniziativa, medico e presidente di Co.N.OS.C.I. - aps, il Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri italiane. “Da uno a due terzi delle persone detenute sono direttamente o indirettamente legate all’uso di sostanze stupefacenti. La maggior parte dei detenuti è di sesso maschile (94%) ma negli ultimi vent’anni il numero delle donne in carcere è cresciuto in maniera più evidente (+35%) rispetto agli uomini (+16%). I detenuti fanno parte della nostra comunità: proteggerli, in chiave di reinserimento sociale, significa anche proteggere noi stessi. Ecco perché è fondamentale aiutarli a recuperare e a non cadere nella recidiva. In Italia oggi contiamo circa 62mila detenuti (2.224 in Sardegna, dove si registra un indice di sovraffollamento del 97,70%: siamo arrivati, cioè, quasi ai limiti della capienza), ma i posti disponibili sono 47 mila: ecco perché le risorse messe a disposizione dallo Stato sono insufficienti”. “Per dare la dovuta assistenza ai malati in carcere, non bastano le leggi: occorre un approccio sinergico fra il livello della decisione politica, il lato medico e la magistratura per governare le complessità”, ha detto Armando Bartolazzi, assessore regionale della Sanità. “L’obiettivo comune deve essere la tutela della salute. Occorre andare verso un sistema che prenda in carico questa utenza per tipologia di cura: tossicodipendenze, disagio mentale, patologie comportamentali o malattie infettive. In questo modo è possibile organizzare la risposta sanitaria con una presa in carico che veda come obiettivo non solo il fine pena ma il trattamento del paziente detenuto a 360 gradi, garantendo la cura e il reinserimento sociale dell’individuo. Per fare questo, bisogna rafforzare il legame fra i livelli di gestione territoriale della sanità e le realtà penitenziarie dell’Isola. Penso anche alle prestazioni aggiuntive specialistiche da erogare, là dove possibile, all’interno del carcere. Le sezioni carcerarie in ospedale ci sono, ma gli spazi vengono ancora occupati da altre discipline. Occorre una maggior consapevolezza e un’assunzione di responsabilità verso i pazienti detenuti, spesso in condizioni di fragilità estrema”. “Tutta la comunità penitenziaria della Sardegna avvertiva la necessità di un confronto pubblico come questo”, ha commentato Irene Testa, garante regionale dei detenuti. “La carenza d’organico e le situazioni che ledono i diritti umani sono sotto gli occhi di tutti. Parliamo di persone in buona prevalenza malate, che chiedono assistenza ma la vedono negata. La sanità in carcere è quasi del tutto assente. Uno psichiatra per 700 detenuti è insufficiente: quanto tempo può dedicare al singolo disagio? Non accade soltanto nelle Case circondariali di Bancali e Uta, che sono le più affollate, ma anche nelle realtà più piccole. In alcune strutture arriviamo a un sovraffollamento del 130%, eppure le colonie penali sono semivuote e pure decadenti. La situazione sanitaria è critica sia all’interno che all’esterno delle carceri; tuttavia, in un istituto di pena si verificano situazioni complesse e spesso molto gravi: con una certa frequenza, alcuni detenuti ingeriscono batterie, altri si producono ferite, a causa di disagi psichici. E talvolta qualcuno si toglie la vita (a ieri si contavano 75 casi di suicidi in Italia: un record storico, ndr). Il personale penitenziario è carente, non può far fronte a tutto. Ecco perché questa è una emergenza nell’emergenza”. Marco Porcu, direttore della Casa circondariale di Uta (sino allo scorso 10 giugno ha diretto anche la struttura di Bancali), ha posto infine l’accento su un’altra grave criticità: la formazione specifica del personale penitenziario, chiamato ad affrontare situazioni di grande complessità ma spesso non messo in condizioni di operare. Nel suo intervento conclusivo Sandro Libianchi ha ipotizzato la Sardegna quale possibile laboratorio di sperimentazione verso un modello operativo che conglobi ed integri, finalmente, tutte queste funzioni nell’ottica di una presa in carico globale della persona detenuta che sia così facilitata a rientrare nel suo territorio di appartenenza e a riconnettersi con i suoi familiari. La Sardegna in virtù del suo stato di Regione autonoma, della grande disponibilità delle autorità giudiziarie e penitenziarie locali e anche della ricca varietà di tipologie penitenziaria (case circondariali, case di reclusione, colonie agricole con produzioni, alta sicurezza, ecc.) offre un terreno fecondo per la costruzione di un modello esportabile. Via al G7 sulla disabilità. Da Assisi una carta per diritti e inclusione di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 14 ottobre 2024 Accanto ai leader di Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, ci saranno come ospiti speciali Tunisia, Kenya, Cile, Vietnam e Sud Africa da oggi al 16 ottobre in Umbria per confrontarsi sulle strategie, individuare obiettivi comuni, ascoltare le associazioni: è l’Italia a promuovere l’appuntamento. Per la prima volta al mondo i grandi della terra si riuniscono per parlare di disabilità: per confrontarsi sulle strategie e sulle politiche, per individuare obiettivi comuni, per ascoltare le associazioni. Ed è stata l’Italia a farsi promotrice di questo appuntamento che inizierà oggi per concludersi mercoledì 16 ottobre in Umbria. “L’idea - spiega la ministra Alessandra Locatelli - mi è venuta durante la Conferenza Onu del 2023 al termine di una serie di incontri bilaterali in cui sono stata incoraggiata a mettere in agenda un appuntamento di questo tipo. Ne ho parlato alla Presidente del Consiglio e le ho detto di considerare questa proposta durante il periodo di sua presidenza italiana. Ho avuto subito il via libera ed eccoci qui”. Chi parteciperà? “I ministri dei Paesi del G7 ovviamente, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti, ma abbiamo invitato anche altri Paesi come ospiti speciali quali la Tunisia, il Kenya, il Cile, il Vietnam e il Sud Africa”. L’apertura sarà ad Assisi, poi continueranno i lavori a Solfagnano: perché avete scelto l’Umbria? “È il cuore verde del nostro Paese e Assisi rappresenta per tutti un luogo di riferimento e di promozione dell’accoglienza, di Pace, di condivisione e dunque adatto per lanciare un messaggio di inclusione, aprendo per la prima volta la cerimonia anche al pubblico. Il tema che ci siamo dati esplicita il “diritto di tutti alla piena partecipazione alla vita civile, sociale e politica” e per questo ci ispiriamo ad un G7 che sia concreto”. Obiettivo? “Dimostrare la leadership italiana su questi temi, firmare la Carta di Solfagnano, alla quale da mesi stanno lavorando i tecnici e gli uffici dei Paesi interessati prendendo un impegno su otto principi che abbiamo individuato: dall’inclusione lavorativa alla vita indipendente, da servizi e sport fino al tema dell’intelligenza artificiale, e prendere un impegno per completare gli approfondimenti su tutte le sfere della vita quotidiana delle persone con disabilità anche nei prossimi G7. Sarà fondamentale anche avviare provvedimenti sulla messa in sicurezza delle persone con disabilità in caso di eventi causati dalle crisi climatiche, umanitarie o nel corso dei conflitti. Il capo dipartimento della Protezione Civile Fabio Ciciliano sarà uno dei relatori su questo tema e grazie all’esperienza maturata la nostra Protezione Civile è già pronta a confrontarsi sui piani di sicurezza vigenti, e sulla tutela di chi ha una disabilità in caso di terremoti, alluvioni e durante altre eventuali situazioni critiche o emergenziali”. Il rischio che si firmi una bella carta d’intenti e finisca lì? “Intanto si inizia a mettere tutto nero su bianco con impegni che riguardano priorità condivise ed è un segnale importante, un punto di partenza sul quale lavorare con il mondo della disabilità, delle Associazioni, con l’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità (OND), e per ognuno di questi temi abbiamo individuato delle azioni da concretizzare”. Qualche buona pratica che potremmo “copiare” da altri Paesi? “In realtà siamo visti come modello. Possiamo e dobbiamo comunque fare sempre di più e meglio in varie aree della vita quotidiana, nell’integrazione sociosanitaria, nell’inclusione lavorativa, scolastica, sul “dopo di noi”, sull’accessibilità universale e nel supporto ai caregiver familiari per esempio. Quindi ci confrontiamo costantemente per creare le condizioni più opportune alla stesura del prossimo Piano Nazionale sulla disabilità, che sarà elaborato dall’Osservatorio (OND) coordinato dal Professor Serafino Corti, ed emanato dal Presidente della Repubblica, e che traccerà una strada per il futuro che sia più in linea con la Convenzione Onu sui diritti delle Persone con disabilità”. Ci sono nuovi fondi a disposizione? “Stiamo attuando la Riforma sulla disabilità che ci impegna con più di 400 milioni da quando sarà implementata e a breve partirà la sperimentazione in 9 province, abbiamo ripartito 50 milioni per il turismo accessibile, 217 milioni per l’autonomia e la comunicazione e a partire dal prossimo anno 50 milioni per il trasporto degli studenti con disabilità, stiamo inoltre preparando un bando da quasi 300 milioni per gli Enti del terzo settore che attraverso l’inclusione lavorativa e la valorizzazione delle persone potranno anche creare opportunità per percorsi di autonomia abitativa. Vorrei anche ricordare il Bando per le periferie inclusive: partiremo con 10 Comuni pilota che presenteranno progetti di inclusione in coprogettazione con gli Ets. Una fase iniziale del nostro più ampio Progetto di vita che prevede la presa in carico totale delle persone con disabilità, per sostenere persone e famiglie”. Quarant’anni di flop, rinvii e battaglie legali. Sul fine vita una legge è ancora (im)possibile? di Francesca Spasiano La Stampa, 14 ottobre 2024 Anche l’ultimo tentativo di normale il suicidio assistito con il Ddl Bazoli resta “sepolto” a Palazzo Madama. In Italia il diritto di morire è nelle mani dei giudici. La prima volta ci provò nel 1984 Loris Fortuna, deputato socialista e “papà” della legge sul divorzio, che si mise in testa di restituire dignità al malato con una proposta sul fine vita. Il progetto non andò mai in porto: naufragò appena un anno dopo con la sua morte. E da allora le cose non sono andate meglio. Negli ultimi 40 anni ogni tentativo di disciplinare l’eutanasia e il suicidio assistito si è impelagato nel dibattito politico senza mai superare la prova del Parlamento. Nonostante i ripetuti richiami della Corte Costituzionale e la miriade di proposte, tra disegni di legge e referendum, avanzate periodicamente. Solo nell’ultima legislatura se ne contano quasi dieci, tra cui il ddl a prima firma Alfredo Bazoli, attualmente “sepolto” a Palazzo Madama. La proposta del capogruppo Pd in commissione Giustizia, che mira a normare il suicidio assistito riprendendo integralmente il testo unificato approvato in prima lettura a Montecitorio nella passata legislatura, ha raccolto le firme di oltre un terzo dei senatori. E sarebbe dovuta arrivare il Aula dopo la pausa estiva, il 17 settembre, in virtù dell’accordo raggiunto tra le opposizioni. Che hanno “spinto” la calendarizzazione sfruttando l’articolo 53 del regolamento del Senato (“I disegni di legge, gli atti di indirizzo e gli atti di sindacato ispettivo sottoscritti da almeno un terzo dei senatori sono inseriti di diritto nel programma dei lavori del calendario”). Anche questa volta, le cose sono andate diversamente. La maggioranza ha studiato una contromossa utile ad allungare i tempi con una valanga di audizioni che hanno riportato il ddl nelle commissioni Giustizia e Affari sociali e Sanità di Palazzo Madama: il ddl Bazoli resta dunque in calendario, ma non la dicitura “ove conclusi i lavori in commissione”. Che sono ancora in alto mare. Al punto che i firmatari del disegno di legge (il n. 104, “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”), dopo tre settimane hanno indirizzato una lettera ai presidenti delle due commissioni per denunciare l’atteggiamento “platealmente (e paradossalmente) ostruzionistico della maggioranza” e il “grave ritardo” nell’esame del testo, il cui iter si annuncia lungo e in salita. Il testo prevede il diritto all’obiezione di coscienza solo all’esercente la professione sanitaria e ricalca le indicazioni contenute nella storica sentenza 242 del 2019 sul caso Fabo/Cappato, con la quale la Corte costituzionale aveva in parte legalizzato la pratica del suicidio assistito stabilendo quattro requisiti di accesso. Il più delicato riguarda il nodo dei “trattamenti di sostegno vitale”, sulla quale la Consulta è tornata a pronunciarsi lo scorso luglio. Gli altri tre prevedono che la richiesta arrivi da un malato affetto da una patologia irreversibile, che sia capace di autodeterminarsi e che reputi le proprie sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili. Quattro requisiti in presenza dei quali la Consulta esclude la punibilità di chi fornisce l’aiuto alla morte volontaria, prevista dall’articolo 580 del codice penale. Quattro condizioni che rispondevano alla situazione specifica di Fabiano Antoniani, sul cui caso la Corte Costituzionale si era pronunciata, ma che rischiano di escludere una platea di malati terminali affetti da patologie differenti. Come i pazienti oncologici, che spesso non hanno bisogno di un “macchinario” per restare in vita, ma necessitano di un’assistenza costante. È il caso di Sibilla Barbieri, morta in Svizzera nel 2023 dopo il no della Asl di Roma. O di Massimiliano, malato di sclerosi multipla morto nel 2022 in una clinica, lontano da casa. Proprio la sua vicenda, una delle tante che ha portato la battaglia sulla morte volontaria nei tribunali, è al centro dell’ultima pronuncia della Consulta, che con la sentenza 135 depositata il 18 luglio ha chiarito cosa bisogna intendere per “sostegno vitale”: non necessariamente un “macchinario”, ma un trattamento sanitario da cui dipende la vita del paziente. Una decisione che allarga il “campo” dei malati che potranno intraprendere un percorso di fine vita, limitando la discrezionalità dei singoli tribunali. E che richiama il servizio sanitario e il Parlamento a rispettare le regole, o a legiferare, nel secondo caso, dopo il monito già espresso nel 2019 e caduto nel vuoto. Da allora, infatti, la politica non è mai riuscita a trovare una sintesi. Dopo la legge sul testamento biologico, la 2019 del 2017, che resta nei fatti una norma “fantasma” (perché pressocché sconosciuta), il tentativo più “audace” risale al 2022: il referendum sull’eutanasia legale aveva raccolto oltre un milione di firme, ma è stato bocciato dalla Consulta. Qualcosa si muove anche sul fronte delle Regioni, con le proposte promosse dall’Associazione Luca Coscioni. Il primo tentativo guidato in Veneto dal governatore Luca Zaia si è concluso con un flop. Ma il presidente leghista non è l’unico “eretico”, a destra, a sostenere il diritto all’autodeterminazione nelle scelte di fine vita. Le opposizioni contano di ottenere qualche voto tra le file di Forza Italia, e persino nel Carroccio il segretario Matteo Salvini avrebbe aperto alla possibilità di lasciare libertà di coscienza ai suoi. Un tiepido segnale quest’estate è arrivato anche dalla Chiesa con le parole di monsignor Vincenzo Paglia, che nel Piccolo lessico del fine vita apre a uno “spazio per la ricerca di mediazioni sul piano legislativo”. Il rischio, però, è che i ddl sul tavolo siano tutti già “vecchi”. E che il diritto a morire resti ancora nelle mani dei giudici. Così la sentenza della Consulta sul caso dj Fabo ha colmato il silenzio del Parlamento di Valentina Stella Il Dubbio, 14 ottobre 2024 Nel 2019 la Corte scrisse le regole di accesso al suicidio assistito in risposta al caso di Fabiano, morto due anni prima in Svizzera con l’aiuto di Cappato. Il 28 febbraio 2017 Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, si presentava presso i Carabinieri di Milano dichiarando che, nei giorni immediatamente precedenti, si era recato in Svizzera per accompagnare presso la sede della Dignitas Fabiano Antoniani, che lì aveva programmato e poi dato corso al suo suicidio assistito. Noto a tutti come dj Fabo, dopo una serata in un locale di Milano, il 13 giugno 2014 fu vittima di un grave incidente che gli cambiò improvvisamente la vita in modo irreversibile. Fabiano diventò cieco e tetraplegico. Nel gennaio 2017 registrò un video indirizzato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel messaggio letto da Valeria, la sua fidanzata, Fabo sottolineava che “in questi anni ho provato a curarmi, anche sperimentando nuove terapie. Purtroppo senza risultati. Da allora mi sento in gabbia”. Ma assicurava: “Non sono depresso ma non vedo più e non mi muovo più”. “Signor presidente - concludeva Valeria - sappiamo che non spetta a lei approvare le leggi. Le chiediamo però di intervenire affinché una decisione sia presa, per lasciare ciascuno libero di scegliere fino alla fine”. In seguito all’appello al Colle e dopo il terzo rinvio della legge sul testamento biologico in Italia, dj Fabo decise di recarsi in Svizzera, con il sostegno dell’Associazione Luca Coscioni, dove morì in una clinica il 27 febbraio 2017, mordendo un pulsante per attivare l’immissione del farmaco letale. Il suicidio assistito era avvenuto dopo una visita medica e psicologica, servita a confermare la sua volontà di morire. Dopo anni di terapie senza esito infatti aveva maturato la precisa consapevolezza di voler porre fine alla sua vita: “Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione, non trovando più il senso della mia vita. Fermamente deciso, trovo più dignitoso e coerente, per la persona che sono, terminare questa mia agonia”. Fu lui stesso, nel suo addio su Twitter, a descrivere con parole nette la situazione: “Sono finalmente arrivato in Svizzera, e ci sono arrivato purtroppo con le mie forze e non con l’aiuto dello Stato. Volevo ringraziare una persona che ha potuto sollevarmi da questo inferno di dolore, di dolore, di dolore. Questa persona si chiama Marco Cappato e la ringrazierò fino alla morte”. Cappato veniva così iscritto nel registro degli indagati da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano. All’udienza del 17 gennaio 2018, la pubblica accusa chiedeva l’assoluzione dell’imputato o, in subordine, di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale. Stessa richiesta veniva avanzata anche dalla difesa di Marco Cappato. All’udienza del 14 febbraio 2018, la Corte di Assise di Milano pronunciava una ordinanza con cui sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., sostenendo un duplice profilo di incostituzionalità della norma: da un lato, infatti, i giudici milanesi chiedevano alla Consulta di valutare la compatibilità con la Costituzione e la Cedu del reato di istigazione e aiuto al suicidio “nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione, e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio”; dall’altro lato si argomentava l’incostituzionalità della norma sotto il profilo sanzionatorio, per l’equiparazione tra condotte di istigazione e condotte di mera agevolazione materiale. L’udienza davanti alla Corte Costituzionale si teneva il 23 ottobre 2018. All’esito dell’udienza, la Corte, rilevato che “l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti”, al fine di “consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina” decideva di rinviare la trattazione della questione all’udienza del 24 settembre 2019. La Corte costituzionale si è quindi pronunciata dapprima con ordinanza n. 207 del 2018, con cui ha riconosciuto l’incostituzionalità del reato di aiuto al suicidio per il suo contrasto con la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie; secondo la Consulta, tale diritto fondamentale si fonda sul combinato disposto tra gli artt. 3, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione. L’incostituzionalità della norma, pur riconosciuta, non è stata dichiarata immediatamente dalla Corte, che ha optato per il rinvio della decisione ad una successiva udienza fissata a quasi un anno di distanza dalla prima, in modo da consentire al legislatore di intervenire per sanare il vulnus di costituzionalità e, al contempo, garantire un’efficace e ponderato bilanciamento tra i vari interessi in gioco. A distanza di un anno, considerata l’inerzia del legislatore e a disciplina invariata, la Corte ha pronunciato la sentenza n. 242 del 2019, con cui ha dichiarato l’incostituzionalità della fattispecie di aiuto al suicidio “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) - ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione -, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. La Corte d’Assise di Milano, infine, è stata chiamata a confrontarsi con il caso concreto sottoposto al suo giudizio alla luce della disciplina dell’aiuto al suicidio rimaneggiata dalla Corte costituzionale. L’imputato Marco Cappato fu prosciolto con la formula “perché il fatto non sussiste”, con questo ponendo ragionevolmente fine alla vicenda relativa al caso dj Fabo. Al primo posto c’è la dignità del malato: è ora che la politica ne prenda atto di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 14 ottobre 2024 Chi sceglie di morire si trova in condizioni di grande sofferenza e non può attendere tempi infiniti per ottenere una risposta. In Italia, analogamente a molti Paesi, è centrale nella discussione del biodiritto il cosiddetto “fine vita”, ossia la regolazione di come morire, in una era caratterizzata dall’avanzamento delle tecnologie biomediche che configurano inedite condizioni di esistenza. La Legge n. 219/2017 “Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento” ha introdotto una regolazione sul rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari sulla base dell’autonomia del soggetto, sul dovere delle strutture sanitarie di astenersi da ostinazione irragionevole di cure sproporzionate, sulla liceità della sedazione profonda e delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT). Con la ordinanza n. 207/2018 e poi con la sentenza n. 242/2019 la Corte Costituzionale è intervenuta sulla questione del suicidio assistito, dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 580 c.p., per violazione degli artt. 2, 13, primo comma e 32 secondo comma Cost. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio di una persona: a) affetta da una patologia irreversibile; b) subisca a causa di essa sofferenze fisiche o psicologiche, che egli ritenga intollerabili; c) tenuta in vita mediante appositi trattamenti di sostegno vitale (TSV); d) risulti capace di decisioni libere e consapevoli. È necessario poi che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. La Consulta ha precisato che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio “non è di per sé in contrasto con la Costituzione, ma è giustificata da esigenze di tutela del diritto alla vita specie delle persone più deboli e vulnerabili che l’ordinamento intende proteggere, evitando interferenze esterne in una scelta estrema e irreparabile, come quello del suicidio”. La decisione sarebbe avvalorata, inoltre, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa avrebbe conosciuto una evoluzione, il cui approdo finale sarebbe rappresentato dall’esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 del diritto di ciascuno di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà. La pronuncia della Corte determina dunque un passaggio dal “lasciar morire”, già recepito e riconosciuto come diritto del paziente dalla L. n. 219/2017, “all’aiuto a morire medicalizzato” ora non punibile, qualora sussistano le procedure e le condizioni del paziente sopra indicate. Primario fra le altre condizioni il fatto che il soggetto sia in grado di prendere in modo autonomo la pozione fatale, preparata dal medico. Ci si allontana, dunque, da una possibile diversa situazione: quella in cui il soggetto si avvalga per la sua morte del prodotto letale somministrato da un terzo (un medico, un familiare, un amico, ecc.), che svolge un ruolo primario e continuo nell’ambito dell’intera vicenda. Per il nostro ordinamento questo è un atto criminoso definito come “omicidio del consenziente” (art. 579 c.p.) e generalmente indicato come eutanasia. Va ricordato che l’ordinanza aveva ritenuto opportuno che tale vicenda fosse in seguito regolamentata dal legislatore nell’arco di un anno, così da poter sanare quelle situazioni di incertezza che l’ordinanza costituzionale, come in seguito la sentenza, inevitabilmente avrebbero suscitato. Questo invito, ripreso dal ddl Bazoli (2022), che recepisce in modo abbastanza fedele, anche se in modo restrittivo, la sentenza della Consulta ed approvato alla Camera, non fu preso in considerazione in Senato dal successivo governo ideologicamente contrario alla decisione della Corte costituzionale, portata a tutelare sempre e comunque il bene vita. Pertanto, ancora oggi il legislatore tace. E la maggioranza blocca la legge attraverso una serie di audizioni (circa 90 associazioni di area cattolico-integralista). Viene spontaneo pensare che la sofferenza può certamente attendere e che la politica abbia altro da fare. Se le teorie divergono sul valore da attribuire alla vita umana, sono le circostanze reali e complesse alla fine della vita, sono i malati che soffrono in modo insopportabile in alcune condizioni concrete a sollecitare il dibattito politico. Questo non può rimanere astratta contrapposizione teorica, ma è chiamato a guardare in faccia la realtà e dare regole concrete alle situazioni emergenti. Così nell’arco di questo periodo di tempo a fronte del colpevole silenzio del legislatore sono intervenuti diversi tribunali regionali: Massa, Ancona, Trieste, Milano e Firenze, che hanno dovuto affrontare e verificare le richieste dei pazienti di accedere al suicidio medicalmente assistito, l’idoneità dei medicinali da somministrare, la procedura da seguire, discutere le eventuali impugnabilità del provvedimento stesso e, infine, i costi richiesti dalla commissione. La verità è che i pazienti che hanno dovuto far ricorso all’aiuto al suicidio medicalizzato, così come previsto dalla Corte Costituzionale, hanno visto tempi molto lunghi perché il loro diritto venisse rispettato. Un tempo troppo lungo per pazienti che si trovano in condizioni di estrema sofferenza. E una vicenda drammatica di questo genere non può essere caratterizzata da vuoti procedurali riempiti con diverse modalità a seconda dei tribunali che possono allungare i tempi di realizzazione di un tale evento. Una buona legge che garantisca il diritto a scegliere liberamente come terminare la propria esistenza restituirebbe dignità a tutte quelle persone colpite da dolori inaccettabili e da forme di disabilità gravi e progressive. Sarebbe un legittimo esercizio di libertà individuale ed è ora che la politica ne prenda atto. Monsignor Vincenzo Paglia: “Diritto a morire non vuol dire diritto a farsi togliere la vita” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 14 ottobre 2024 “La Chiesa resta contraria al suicidio, ma sul tema serve una riflessione continua”, precisa il presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Non si può dire che sia un cambio di rotta. “La Chiesa rimane contraria al suicidio e all’eutanasia”, precisa monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita. “Ma al contempo è consapevole che siamo in un terreno di frontiera, che chiede una continua riflessione”. Un contributo attivo nel “cantiere” legislativo aperto da quarant’anni sul fine vita. Nel “Piccolo lessico del fine vita” pubblicato quest’estate, Lei apre a uno “spazio per la ricerca di mediazioni sul piano legislativo”. Al momento in Senato è in discussione il ddl Bazoli. In che direzione dovrebbe andare, a suo parere, una buona legge? La sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019 mi sembra un punto di equilibrio interessante a cui riferirsi. Certo il Parlamento è libero e sovrano, non deve sottostare alla sentenza. Ma può prenderla in considerazione nella misura in cui ritiene che rappresenti una mediazione ragionevole tra diverse posizioni che sono presenti nella nostra società. Il ddl Bazoli si muove in questa linea, cercando di tradurre in norme legislative i criteri presenti nella sentenza. Una via che si è mostrata praticabile, visto che è stata approvata alla Camera prima della caduta del precedente governo. Ma perché, secondo Lei, la politica non riesce a raggiungere una sintesi su questo tema? Su questi temi ci sono posizioni molto polarizzate e si fa fatica ad articolare in modo equilibrato il rapporto tra una molteplicità di posizioni etiche e la produzione di un testo legislativo. In una società pluralista non è facile sviluppare la consapevolezza del fatto che le convinzioni etiche di ciascuno non possano immediatamente tradursi in norme giuridiche, ma occorre anche prendere in considerazione quanto la legge contribuisca alla coesione sociale e al bene comune, naturalmente in quel margine di manovra consentito dal rispetto dei diritti fondamentali di tutti. Lei ha più volte espresso contrarietà all’accanimento terapeutico, come ribadito anche nella dichiarazione “Dignitas infinita”. In quali casi è lecito interrompere un trattamento? Il criterio è quello dalla proporzionalità. Esso si colloca al punto di convergenza tra due ordini di fattori, entrambi necessari per valutare i trattamenti da somministrare. Sul primo versante si trova il personale sanitario, con la propria competenza professionale. I medici dispongono delle conoscenze per valutare l’appropriatezza clinica dei trattamenti, considerando le loro caratteristiche proprie (reperibilità, complessità di utilizzo, costi, rischi) in relazione ai benefici attesi in termini di salute e di benessere del paziente. Questi aspetti non sono però sufficienti. Per porre un giudizio di proporzionalità, occorre considerare anche un secondo ordine di fattori, che riguarda l’onerosità e la sostenibilità per il paziente degli interventi indicati. E questa è una valutazione che può essere svolta solo dalla persona malata, che ha consapevolezza delle forze fisiche e psichiche di cui dispone. Quindi un giudizio di proporzionalità non può essere posto senza il coinvolgimento del paziente. Nella stessa Dichiarazione, si includono il suicidio e l’aiuto al suicidio tra le violazioni della dignità umana, sottolineando che “la vita è un diritto, non la morte”. Perché, per lei, non esiste un diritto a morire? Trovo che “diritto di morire” sia un’espressione molto ambigua. Sarei più a mio agio nel dire che non esiste un “diritto a farsi togliere la vita” a cui dovrebbe corrispondere un dovere da parte di terzi di procurare la morte a chi lo chiede (o di fornirgli i mezzi per procurarsela). Tanto è vero che anche la sentenza 242/2019 considera l’assistenza al suicidio non un diritto, che metterebbe a rischio la vita delle persone più fragili, ma un crimine che non viene sanzionato in alcune precise circostanze. Lei direbbe che le posizioni della chiesa sull’eutanasia e sul suicidio assistito si sono “ammorbidite”, nel tempo? Già nel 1957, Pio XII sosteneva la liceità di non utilizzare tutti i trattamenti disponibili per allungare la vita o di sospenderli. La Chiesa rimane contraria al suicidio e all’eutanasia. Ma al contempo è consapevole che siamo in un terreno di frontiera, che chiede una continua riflessione sui termini e sulle situazioni che si presentano nel nostro mondo, anche in relazione alle novità tecnico-scientifiche. L’ultima sentenza della Consulta sul fine vita ha “esteso” l’interpretazione di uno dei quattro requisiti previsti per l’accesso ai percorsi di fine vita, quello relativo ai “trattamenti di sostegno vitale”. Lei ritiene, come altri, che possa generare discriminazioni tra i malati terminali che non rispondono ai requisiti previsti? Questa è una domanda molto importante perché è invocando la discriminazione che, per esempio, si è aperto l’accesso all’eutanasia ai minori nei Paesi Bassi, sulla base del ragionamento: se è consentito farsi togliere la vita a chi è maggiorenne, è discriminatorio negarlo a chi non lo è. Ora la Corte Costituzionale stessa ha precisato come la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale sia discriminatoria rispetto a pazienti che si trovano in tutte le altre condizioni, ad eccezione di questa (cfr sentenza n. 135/2024). Infatti l’argomentazione della Corte è che se può chiedere l’assistenza al suicidio chi può lasciarsi morire sospendendo i trattamenti (come dice la legge 219/2017 su consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento), questo non vale per chi non dipende da trattamenti di sostegno vitale: la presenza di tali trattamenti introduce quindi una differenza rilevante, che legittima una ragionevole differenza di trattamento, che non risulta pertanto discriminatoria. Per gli italiani pochi dubbi: il sì all’eutanasia ottiene sempre più consensi di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 14 ottobre 2024 Negli ultimi 20 anni tutti i sondaggi indicano un orientamento in forte crescita a favore del fine vita adesso siamo all’84 per cento. Come spesso accade, sull’eutanasia e sul suicidio assistito la società italiana è decisamente più avanti della classe politica, che non è ancora riuscita a dare una cornice legislativa solida a un tema che tocca l’esistenza di centinaia di migliaia dei cittadini e dei loro cari. Secondo un sondaggio risalente allo scorso giugno e commissionato a Swg dall’associazione Luca Coscioni, infatti, l’84% degli italiani è favorevole a una legge che regolamenti l’eutanasia nel nostro Paese. Il dato ancor più interessante, però, è che questa posizione è trasversale alle appartenenze politiche: l’83% degli elettori di Fratelli d’Italia e di Forza Italia non si opporrebbe a una legge sull’eutanasia, così come sarebbe favorevole il 77% di quelli della Lega. Ancor più alte le percentuali tra chi dichiara di votare i partiti d’opposizione: il 92% degli elettori del Partito Democratico è favorevole, il 94% di Alleanza Verdi e Sinistra, 88% del Movimento Cinque Stelle, 96% di +Europa, 89% di Azione-Italia Viva. Se l’analisi si sposta sul piano geografico, i più favorevoli all’eutanasia sono i cittadini e le cittadine del Centro Italia (91%), seguiti da quelli del Nord Ovest (85%), delle Isole (84%), del Nord Est (83%) e infine da quelli del Sud (80%). Anche sul suicidio assistito, l’opinione degli italiani negli ultimi anni è sempre stata largamente favorevole, a dispetto del fatto che tutte le proposte di legge in merito sono finite su un binario morto. In questo ambito, però, è il caso di accendere un riflettore in particolare sul Nordest, territorio che è stato al centro del tentativo più avanzato degli ultimi anni di regolamentare la disciplina. Secondo dati recentemente elaborati da Demos per il quotidiano il Gazzettino, infatti, l’82 per cento degli abitanti del Nordest è dell’idea che “quando una persona ha una malattia incurabile, e vive con gravi sofferenze fisiche, è giusto che i medici possano aiutarla a morire se il paziente lo richiede”. Interessante il fatto che nel corso degli anni il consenso per eutanasia e suicidio assistito sia costantemente aumentato su tutto il territorio nazionale. All’inizio di quest’anno, il governatore veneto Luca Zaia ha tentato di portare ad approvazione un testo sul suicidio assistito, che è stato però respinto dal Consiglio regionale, a causa delle divisioni interne ai partiti. Una parte dei consiglieri del Carroccio (compreso il presidente dell’assemblea Roberto Ciambetti) sono infatti andati contro le indicazioni di Zaia, ma decisivo per la bocciatura della legge è a stata la decisione di un’esponente cattolica del Pd di astenersi. Per evitare nuove spaccature sul tema, in un recente consiglio federale del partito, Matteo Salvini ha fatto sapere che i leghisti della Regione Lombardia avranno libertà di coscienza quando, nelle prossime settimane, il Pirellone procederà al voto di una proposta analoga, stavolta promossa dall’opposizione. Che la sensibilità dei nostri concittadini, nel corso del tempo, sia cambiata, lo testimonia anche l’impennata delle richieste di informazioni al Numero Bianco dell’Associazione Coscioni, in concomitanza della campagna referendaria del 2022, fallita per la non ammissione del quesito sull’eutanasia da parte della Consulta. Nel periodo della raccolta firme, infatti, sono arrivate 15.559 richieste di informazioni sul fine vita, il +43% rispetto all’anno precedente. Sulla mancanza di una legge sul fine vita influisce proprio la scelta dei giudici costituzionali del febbraio del 2022 di respingere il referendum sull’eutanasia. Una scelta per motivare la quale, l’allora presidente della Corte, Giuliano Amato, convocò una conferenza stampa. In quell’occasione, l’ex-premier spiegò che “il referendum non era sull’eutanasia, ma sull’omicidio del consenziente, e in questo caso sarebbe stato lecito in casi ben più numerosi e diversi da quelli dell’eutanasia”. Secondo Amato (che asserì di avere cercato “il pelo nell’uovo”, il quesito avrebbe aperto “all’impunità penale di chiunque uccide qualcun altro con il consenso, sia che soffra sia che non soffra”. “Occorre dimensionare”, aggiunse, “il tema dell’eutanasia alle persone a cui si applica, ossia a coloro che soffrono. Noi non potevamo farlo sulla base del quesito referendario, con altri strumenti può farlo il Parlamento”. La replica di Cappato fu molto dura: parlò di una “conferenza stampa politica”, e di parole che “minano agli occhi dell’opinione pubblica la credibilità dei comitati promotori, a cui è stata attribuita l’incapacità tecnica di scrivere dei quesiti referendari ed anche l’accusa di avere preso in giro milioni di persone firmatarie ed elettori”. “Il giudizio nella Corte”, aggiunse Cappato, “non è stato unanime, quindi possiamo dire che anche giudici costituzionali hanno ritenuto che questi referendum fossero ammissibili. Allora trattare con tanto disprezzo i comitati promotori è un’accusa critica rivolta non a Marco Cappato ma ai giudici della Corte ed alcuni massimi costituzionalisti italiani”. Stato che vai, legge che trovi: il “fine vita” nel mondo di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 14 ottobre 2024 Dalla libertà totale ai divieti più intransigenti: una panoramica globale delle norme che disciplinano l’eutanasia e il suicidio assistito. Ma la tendenza è quella della legalizzazione. Il quadro giuridico che regola il ricorso all’eutanasia attiva, all’eutanasia passiva e al suicidio assistito varia in funzione della legislazione del singolo Paese e va dall’autorizzazione totale a quella parziale fino al divieto assoluto, anche se la tendenza alla legalizzazione sembra avanzare un po’ ovunque. Attualmente sono nove gli stati che nel mondo autorizzano l’eutanasia attiva. Ecco la lista in ordine cronologico. Il primo paese ad averla legalizzata è l’Olanda con una legge approvata 23 anni fa, nel 2001. Nel 2023 il parlamento dell’Aja si è spinto oltre, varando una norma che permette di praticare l’eutanasia anche sui minori di 12 anni colpiti da malattie incurabili che causano una morte certa e imminente. In Belgio l’eutanasia è consentita dal 2002 ed è disciplinata per i minorenni dal 2014. Il medico deve tuttavia accertare che la persona malata sia dotata di discernimento e cioè che sia capace di intendere e di volere e che soffra di una patologia che non si può curare. Il terzo Paese ad aver legalizzato l’eutanasia è il Lussemburgo nel 2009 stabilendo che il medico che la pratica non sia sanzionabile penalmente né che possa dare luogo a un’azione civile, anche se rimane vietata per i minori di 18 anni. Dal 2015, invece, sia il Canada che la Colombia (primo paese sudamericano in seguito alla pronuncia della Corte costituzionale) hanno adottato una legislazione che autorizza eutanasia e suicidio assistito anche per i malati non terminali. Nel 2021 tocca al parlamento della Spagna stabilire che ogni persona maggiorenne e pienamente capace di intendere e di volere può richiedere e ricevere aiuto medico alla morte volontaria, purché sia completamente informato e consapevole delle implicazioni della propria richiesta e delle alternative possibili. La norma non vale per i cittadini stranieri. Sempre nel 2021 è il vicino Portogallo a depenalizzare eutanasia e suicidio assistito, anche se ci vorranno altri due anni di ricorsi e veti politici per approvare la legge in via definitiva. Nel 2024 è il turno della Corte costituzionale dell’Ecuador che, accogliendo il ricorso di una donna affetta da sclerosi laterale amiotrofica ha sancito lo scorso febbraio che un medico che abbrevia le sofferenze di un paziente incurabile non possa venire perseguito per omicidio. C’è poi il caso dell’Australia: per quanto non ci sia ancora una legge federale che consenta il fine vita, cinque Stati su sei ad eccezione del Territorio del nord, consentono il ricorso all’eutanasia e al suicidio assistito. Ci sono poi altri Paesi che autorizzano la cosiddetta eutanasia passiva che si configura quando il personale medico interrompe delle cure che tengono il malato artificiosamente in vita. Nel 2020 la Corte di Karlsrhue in Germania ha annullato le norme che punivano il suicidio assistito, precisando che i malati hanno il diritto di morire in maniera autonoma, anche con l’aiuto di terzi. L’eutanasia attiva rimane vietata e chi la pratica può essere accusato di omicidio. Per il codice penale della Svizzera l’eutanasia attiva è un reato a tutto gli effetti mentre quella passiva è ammessa nella misura in cui non viene esplicitamente vietata. Il suicidio assistito invece è pienamente permesso se il paziente ha capacità di discernimento ma deve assumere la dose letale da solo, ossia senza l’aiuto di un medico, per questo ad assistere i malati sono membri di associazioni. La Norvegia da parte sua vieta sia l’eutanasia che il suicidio assistito, tuttavia il paziente ha il diritto di rifiutare un trattamento medico se quest’ultimo non dà prospettive di guarigione. In Grecia è pienamente riconosciuta la volontà del paziente di rifiutare e interrompere il trattamento in qualsiasi momento. La legge tollera l’eutanasia passiva che presuppone il consenso del paziente e la certezza del verificarsi fisico della morte. Situazione simile in Ungheria dove la legge attualmente riconosce solo l’eutanasia passiva. In Austria, dal 1° gennaio 2022, il suicidio assistito è stato depenalizzato. Ciò è limitato ai malati gravi e terminali, essendo esclusi dalla normativa i minori. Infine negli Usa la Corte Suprema ha approvato l’eutanasia passiva, lasciando la legislazione ai singoli Stati. Cinque di essi consentono il suicidio assistito: Oregon, Washington DC, Montana, Vermont, California e Colorado. Migranti. Le falle del progetto Albania di Niccolò Zancan La Stampa, 14 ottobre 2024 Nei prossimi giorni i primi migranti sbarcheranno da una nave italiana. Il loro sarà un destino pieno di incognite. Mare calmo, visibilità ottima. “Niente, ancora niente”, dice il direttore del porto Sender Marashi. Stanno smontando il luna-park, qualcuno fa il bagno. Fra questi pescherecci che tornano carichi di sgombri e sardine, uno dei prossimi giorni attraccherà una nave della Marina Militare italiana. Porterà il primo carico di migranti della missione Albania. Una missione piena di incognite e di problemi. Si vedono tutti. A occhio nudo. In queste giornate di attesa e cielo terso. Roulette mediterranea - È una questione di fortuna. Si capisce bene. Ogni singola persona che tenterà l’attraversata per arrivare in Europa avrà quattro possibili livelli di rischio e di sventura. Scampata la morte per annegamento, potrebbe essere portata indietro dalla Guardia Costiera libica finanziata dal governo italiano: altre torture, altre violenze, altri soldi da pagare. Il terzo livello di rischio è incontrare una motovedetta italiana. Perché da lì è probabile il trasbordo sulla nave hub della Marina, quindi una lenta navigazione verso l’Albania. Che non è ancora Europa, anche se sogna di farne parte. Per questo essere salvati da una nave Ong diventerà presto, per distacco, la migliore delle possibilità. Le Ong non vanno in Albania. Poco importa se verrà assegnato un porto di sbarco lontanissimo, come scelta punitiva. Genova, Ravenna, Ancona sono comunque Italia, sono pur sempre Europa. Paesi sicuri - Possono essere deportati in Albania solo uomini adulti provenienti da Paesi considerati “sicuri”. Ma l’Italia considera sicuri anche Egitto, Tunisia e Bangladesh. Mentre una sentenza del 4 ottobre della Corte di giustizia dell’Unione europea fissa altri parametri. Perché un Paese possa essere considerato sicuro, deve esserlo in qualsiasi parte e per qualsiasi cittadino. Chiedete a quel ragazzo tunisino a cui è stato tagliato un testicolo per ritorsione, dopo che aveva messo incinta la sua fidanzata, se tornare in Tunisia per lui sia effettivamente sicuro. Come si comporteranno i giudici che dovranno decidere sui singoli casi? Un destino in pochi giorni - La procedura accelerata per chiedere il diritto d’asilo dovrà durare al massimo 28 giorni. Servono interpreti preparati. Servono informazioni precise che mettano le persone nelle condizioni di esercitare un diritto. Serve sapere chiaramente - per esempio - che in caso di diniego della commissione, il tempo per presentare ricorso è stato appena ridotto a 7 giorni. Fare tutto questo in Albania, in video collegamento, secondo molti giuristi discrimina fra migranti e migranti, il che è anticostituzionale. Di sicuro un migrante in Albania sarà molto più solo. Più indifeso. Avvocato d’ufficio o di fiducia - Per esempio: vallo a trovare un avvocato di fiducia, stando dentro le gabbie del centro di detenzione di Gjadër. Devi difenderti in lingua italiana, in un Paese che parla albanese, mentre tu ne parli un’altra ancora. Da queste gabbie il diritto alla difesa appare fortemente indebolito. Un piccolissimo Stato italiano in terra d’Albania - Lo dicono gli agenti di guardia: “Oltre il cancello cambia nazione”. Lo dice il premier albanese Edi Rama: “Quei centri non ci riguardano”. Non si capisce quindi cosa succederà in caso di rivolte, di incendio, di tentatitivi di fuga. O, più semplicemente, se una persona dentro si sentirà male e avrà bisogno di cure urgenti dall’altra nazione. Oltre le gabbie. Prigionieri di fatto - “L’accordo con l’Italia prevede che nessun migrante uscirà mai da lì”, dice sempre il premier albanese Edi Rama. Ma l’Italia non può costringere all’infinito un migrante dentro a quelle gabbie. Si prevedono molti viaggi di ritorno: Adriatico coast to coast. Il conto salato - Per costruire l’hotspot al porto di Shëngjin e il centro di trattenimento di Gjadër, il governo Meloni ha già stanziato 65 milioni di euro. Il costo di gestione previsto è di 120 milioni all’anno. Ma è un costo ipotetico. Sottostimato. Perché nessuno sa quanti trasbordi - effettivamente - verranno fatti. Quanti poliziotti saranno impiegati in trasferta, quanti costi vivi e variabili dovranno essere sostenuti. Il miraggio delle espulsioni - Nella prima metà del 2024 in Italia sono stati firmati 13.330 ordini di rimpatrio. Le espulsioni eseguite 2. 242. Questi sono i numeri reali. Cosa sarà dei migranti con il foglio di via in terra albanese? La probabilità che il governo italiano debba accompagnarli sul suolo italiano, per poi abbandonarli al loro destino, è molto alta. Ma allora perché? Per rimpatriare direttamente dall’Albania alcune nazionalità, pochissime. Quasi soltanto migranti tunisini, grazie all’accordo fra governi. Questo sembra l’obiettivo. Serve una foto simbolica. “Siamo nel propagandistico” dicono gli studiosi del fenomeno migratorio. Ma mentre il governo cerca la foto, il rischio è creare una zona franca. Sarà difficile testimoniare quello che accadrà lì dentro. I centri in Albania nascono per essere “un altrove”. Un posto senza testimoni. Migranti. Ci risiamo: Polonia verso la sospensione temporanea del diritto d’asilo di Lorenzo Berardi Il Manifesto, 14 ottobre 2024 Il premier Donald Tusk annuncia la misura per fermare i flussi spinti dalla “guerra ibrida” di Lukašenko e Putin. “Lo Stato deve riprendere al 100% il controllo di chi entra e di chi esce dalla Polonia”. E ancora: “Uno degli elementi della strategia polacca sulla migrazione sarà la sospensione temporanea del diritto d’asilo sul nostro territorio”. Frasi che sembrano tratte dalle dichiarazioni dell’ex governo di Varsavia trainato dalla destra populista e ultracattolica di Diritto e Giustizia (PiS). Un esecutivo che, fra 2019 e 2022, ha fatto erigere un muro di 186 chilometri sormontato da filo spinato e presidiato militarmente lungo il confine con la Bielorussia per impedire l’arrivo nel Paese e nell’Ue di migranti. Invece entrambe le frasi sono state pronunciate ieri dall’attuale premier polacco Donald Tusk, un liberale moderato, al congresso annuale del suo partito, Piattaforma Civica (PO), durante il quale ha annunciato che presenterà la nuova strategia polacca sulla migrazione il prossimo martedì, chiedendone il riconoscimento da Bruxelles. La Polonia, ha anticipato Tusk, “non rispetterà o adotterà alcuna proposta dell’Ue sul tema se saremo certi che vada a minacciare la nostra sicurezza”. Il motivo per cui un primo ministro liberale e moderato intende interrompere, seppur temporaneamente, il diritto all’asilo dei migranti è geopolitico. A partire dall’estate del 2021, quando le prime centinaia di migranti sono entrate illegalmente in Polonia dalla Bielorussia, il governo di Minsk assieme a quello di Mosca sono stati accusati da Varsavia e dall’Ue di adoperare queste persone come arma in una “guerra ibrida” per destabilizzare l’Europa. Presto si è appurato come questa nuova rotta migratoria fosse stata creata e alimentata da una serie di agenzie viaggi truffaldine rivolte a vari Paesi africani e mediorientali, con compagnie aeree compiacenti. Da Minsk e da Mosca queste false agenzie promettevano un comodo, costoso, passaggio in Europa a chi lo desiderasse, con tanto di rilascio di fantomatici visti. Ecco come in questi tre anni decine di migliaia di siriani, libici, maliani, afghani sono atterrati con l’inganno a Minsk, ritrovandosi bloccati sul confine bielorusso-polacco, impossibilitati a proseguire o a tornare indietro. Nonostante la presenza del muro lungo un ampio tratto del confine, nell’anno in corso 26mila migranti hanno cercato di passare da un Paese all’altro, per esempio attraversando il fiume Bug Occidentale su imbarcazioni di fortuna e dormendo all’addiaccio nelle foreste con cibo, acqua e vestiario insufficienti. La loro speranza è quella di riuscirci per poi richiedere asilo politico in Polonia. Un processo - quest’ultimo - lungo, complesso e senza garanzia di riuscita, nonostante l’assistenza legale fornita da associazioni polacche. L’anno passato, 9.513 persone hanno richiesto asilo in Polonia: soltanto 4.029 lo hanno già ottenuto. Tuttavia, escludendo dal computo ucraini, russi e bielorussi, appena 82 persone su 1.190 provenienti da Paesi africani e asiatici hanno avuto risposta positiva da Varsavia. A luglio di quest’anno, il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty, ha scritto proprio a Tusk accusando le autorità polacche di avere respinto in Bielorussia nel giro di sei mesi 7.317 persone, comprese alcune ancora in attesa di risposta alla propria richiesta d’asilo. Preoccupazioni che fanno eco a quelle espresse due anni prima sulla pratica dei respingimenti sia da parte polacca che bielorussa, dal relatore speciale dell’Onu sui diritti umani dei migranti, Felipe González Morales. Oggi la maggiore preoccupazione di Donald Tusk è quella di arrestare la guerra ibrida incoraggiata dal presidente-dittatore bielorusso Aleksandr Lukašenko e dal suo omologo russo Vladimir Putin e combattuta sfruttando uomini, donne e bambini in cerca di un futuro migliore. La pace dal Sud del mondo? di Paolo Mieli Corriere della Sera, 14 ottobre 2024 Europa e America in questo momento non hanno abbastanza forza per cercare di mettere fine ai conflitti. L’occasione per l’incontro tra il presidente russo Vladimir Putin e l’iraniano Masoud Pezeshkian è stata, venerdì scorso, un forum di Paesi centrasiatici ad Ashgabat in celebrazione dei trecento anni dalla nascita del poeta, filosofo sufi Magtymguly Pyragy (1724-1807). Dai comunicati ufficiali non è dato sapere quanto Putin e Pezeshkian si siano intrattenuti sulla celebre poesia di Pyragy “Bady-sabani görsem” (“vorrei sentire il vento dell’alba”). Si evince invece, quantomeno dai documenti resi pubblici, che i due leader hanno manifestato l’intenzione di rendere sempre più stretti, al punto da definirli “una priorità”, i rapporti tra i loro Paesi. La valutazione russa degli eventi mondiali a fronte di “minacce senza precedenti”, ha sottolineato Putin, “è spesso molto vicina, persino simultanea” a quella di Teheran. Vicinanza e simultaneità che si tradurranno in un trattato di partnership strategica destinato, con ogni probabilità, ad esser reso pubblico a breve in un nuovo incontri tra i due. Stavolta in Russia, a Kazan, nel corso di un vertice che si terrà tra il 22 e il 24 ottobre per un summit dei Paesi Brics (originariamente Brasile, Russia, India, Cina, successivamente Sudafrica, a cui si sono aggiunti Iran, Egitto, Etiopia, Emirati Arabi Uniti). All’incontro è stato invitato e sarà ben lieto d’essere presente (come si evince da una sua dichiarazione) il segretario generale dell’Onu António Guterres. Neanche una parola, quantomeno nelle comunicazioni ufficiali provenienti da Ashgabat, fa esplicito riferimento alle guerre in corso. Se non qualche prevedibile accenno ad una comune volontà di non sottomissione all’egemonia statunitense. Ma il sottotesto di tutte queste iniziative è evidente. Mentre Netanyahu intima a Guterres di rimuovere Unifil dalle aree di combattimento in Libano e viene ritardata la risposta all’offensiva missilistica iraniana del 2 ottobre scorso contro Israele, l’ayatollah Khamenei esibisce lo schieramento internazionale su cui può far leva. Forse non tutti i Paesi che aderiscono all’area Brics si schierano dalla parte dell’Iran, ma sicuramente ci sono quelli più importanti. In primo piano la Russia. Contemporaneamente si ha notizia che soldati nordcoreani già combattono al fianco dei russi in Ucraina. E il ministro della Difesa di Taiwan mette il suo esercito in “massima allerta” pronto “a rispondere se necessario” dopo aver rilevato che la portaerei cinese Liaoning è entrata nelle acque del canale di Bashi che separa l’isola dall’arcipelago filippino. Accompagnata, la Liaoning, da undici aerei e otto navi da guerra. Ad un tempo Taipei annuncia grandi manovre militari a partire dal 28 ottobre. Unica nota positiva in questo contesto è che l’incontro dell’11 ottobre tra Zelensky e papa Francesco (il terzo dall’invasione russa) è stato — a detta di entrambi — proficuo. E che il cardinale Zuppi si accinge a partire per Mosca dove nei mesi scorsi già ha ottenuto risultati non trascurabili in materia di restituzione di bambini ucraini. Ma è evidente a questo punto che non sono più sufficienti le esortazioni a un temporaneo cessate il fuoco in uno dei due conflitti ancorché in previsione di un traballante compromesso. E soprattutto si fa sempre più chiaro che c’è un intimo legame tra le guerre che stanno scuotendo o minacciano di scuotere il mondo intero. Troppo tardi perché sia lecito confidare nella speranza che ognuna di queste contese possa trovare una soluzione a sé stante. Solo un’ambiziosa iniziativa delle grandi e medie potenze che si ponga l’obiettivo di ridefinire un ordine mondiale tale da mettere in sicurezza le parti che sono o stanno per essere coinvolte in scontri militari, potrebbe impedire la deflagrazione. Lo scoppio di un conflitto generale che potrebbe concludersi — dopo un sanguinoso coinvolgimento dell’umanità intera o quasi — esclusivamente con dei vincitori e dei vinti. Come, appunto, le guerre mondiali. Nella storia recente non ci sono precedenti di un genere di iniziativa come quella che auspichiamo. Anche perché — per evidenti motivi — né il Consiglio di sicurezza né il palazzo di vetro delle Nazioni Unite parrebbero la sede adatta per ospitare un confronto del genere. Ma non ci sono neanche precedenti di una consapevolezza così diffusa (per la forza e l’invasività dei mezzi di comunicazione) del ritrovarci tutti nelle vicinanze di una crisi più grande di noi. Talché, anche se solo venissero accantonate le soluzioni propagandistiche, affrettate e si mettesse in moto un processo per un accordo più vasto, gli effetti non potrebbero essere che benefici. Purtroppo, né l’Europa anche in questa occasione divisa, né gli Stati Uniti in prossimità di elezioni presidenziali dall’esito incerto, sono in condizione di fare il primo passo. Nessuno si fiderebbe in momenti come questi dell’Occidente. Stavolta spetta al “Sud del mondo” prendere l’iniziativa. Oltretutto per aver titolo a conquistare, nei futuri assetti, il ruolo a cui aspira. Chissà che la sorpresa non giunga proprio dal prossimo vertice dei Brics. Può sembrare ingenuo nutrire una speranza del genere Ma al punto a cui si è giunti è lecito confidare nel riaffacciarsi di antiche saggezze depositate nella memoria dei popoli e capaci di trasmettersi alle loro classi dirigenti. Voci dall’Iran: “La strada per la democrazia non passa per la guerra” di Luciana Borsatti huffingtonpost.it, 14 ottobre 2024 Dalla Premio Nobel Mohammadi agli appelli degli intellettuali, sono in molti a temere che l’annunciato attacco di Israele contro l’Iran preluda a un “nuovo ordine” imposto dall’esterno, ignorando i movimenti della società civile cresciuti in questi anni e che lavorano per il cambiamento dall’interno. La strada verso la democrazia in Iran non passa per la guerra. Ne sono convinti quegli iraniani che, in patria e all’estero, guardano con molta preoccupazione al conflitto aperto ormai alle porte anche del loro Paese. Una guerra che potrebbe partire proprio dalla tanto annunciata ritorsione israeliana all’attacco missilistico della Repubblica Islamica contro Tel Aviv del primo ottobre scorso - a sua volta una ritorsione contro gli attacchi di Israele, anche in territorio in territorio iraniano, in una spirale che negli ultimi dodici mesi ha toccato livelli mai visti prima. Lo scenario temuto non è soltanto quello della guerra sul suolo stesso dell’Iran- sono in molti a ricordare gli otto anni di conflitto con l’Iraq cominciato con l’invasione di Saddam Hussein nel 1980 - ma anche la concreta possibilità che un conflitto diretto con Israele risponda all’obiettivo di far cadere la Repubblica con un atto violento dall’esterno, funzionale alla creazione del “nuovo ordine” nel Medio Oriente programmato da Netanyahu. Il quale, solo pochi giorni fa, in un messaggio video agli iraniani assicurava che “non c’è nessun luogo in Medioriente che Israele non possa raggiungere” per difendere il proprio popolo, e annunciava che “quando l’Iran sarà finalmente libero - e quel momento arriverà molto prima di quanto si pensi - tutto sarà diverso. I nostri due antichi popoli, quello ebraico e quello persiano, saranno finalmente in pace” e l’Iran prospererà come mai prima d’ora”. Un discorso pronunciato in inglese, in cui non è difficile leggere la possibilità, se non il piano, che un attacco dello Stato ebraico contro Teheran apra la porta alla caduta della Repubblica islamica. In persiano invece, ma anche in ebraico, il discorso del principe Reza Pahlavi rivolto da New York “agli amici del popolo iraniano in Medio Oriente”. Senza aver mai criticato le azioni di Israele a Gaza e in Libano o le minacce di Netanyahu di colpire le infrastrutture civili in Iran, anche Pahlavi rilancia l’argomento di Netanyahu sulle risorse del Paese spese da Teheran non per i cittadini, ma per finanziare le sue milizie nella regione - cosa per nulla apprezzata in Iran. E aggiunge che, per migliorare la situazione nella regione, è necessario che “questo regime, che ci tiene in ostaggio da quasi mezzo secolo, se ne vada”. “Il Medio Oriente - riconosce Pahlavi - conosce molto bene il caos e i disordini. Pertanto - prosegue, rivolgendosi a chi teme una guerra civile - capisco che si possa temere che il cambio di regime in Iran porti il caos. Ma non si deve avere paura. Non permetteremo che si crei un vuoto di potere dopo la caduta di questo regime. Una grande coalizione di iraniani patriottici, dentro e fuori, è pronta ad agire per servire il nostro Paese e stabilire la pace con i paesi della regione”. “Farò il mio dovere e su loro richiesta - conclude - mi farò avanti per supervisionare questa transizione pacifica verso la democrazia”. Dopo il grande allarme seguito all’attacco del primo ottobre, racconta da Teheran una conoscente che preferisce restare anonima, ora la gente sembra tornata alle occupazioni normali. “All’inizio c’erano file ai distributori di benzina - racconta - ma per ora anche questo è finito.Purtroppo sono di nuovo aumentati i prezzi”, aggiunge, ricordando gli alti tassi di inflazione (fino al 40%) che hanno messa a dura prova gli iraniani negli ultimi anni. Quanto a Israele, le opinioni sono divise - risponde - ma anche chi guarderebbe con favore a un attacco è preoccupato per le conseguenze, a cominciare dai danni alle infrastrutture del petrolio e del gas e all’economia. Per non parlare appunto di quel “caos” politico prefigurato dallo stesso Pahlavi. Il discorso di Netanyahu agli iraniani - sottolinea Raha, quarantenne che da tempo si divide tra Roma e l’Iran, dove abita ancora la sua famiglia - rappresenta “un insulto alla loro capacità di liberarsi da soli, e considera come fosse zero la forza dei movimenti interni cresciuti in questi anni, partiti dalla gente che vive in Iran: dal movimento Donna Vita Libertà a quelli degli studenti, degli operai, dei prigionieri politici nelle carceri. Questi movimenti, nonostante la repressione, non si sono mai fermati, ma continuano con le proprie mani e la propria forza ad andare verso la libertà e la democrazia. È un insulto che non si consideri nemmeno queste forze interne, e si creda che gli iraniani abbiano bisogno di un aiuto dall’esterno”. “Inoltre - prosegue Raha - il popolo iraniano non ha mai chiesto aiuto a nessuno, lo ha fatto solo una certa opposizione che non può considerarsene rappresentante. Ma se anche dovessero chiedere aiuto gli iraniani, per liberarsi di un regime tiranno che uccide anche i minori, certo non lo farà con un Paese ugualmente tiranno - conclude, riferendosi alla guerra di Israele su Gaza - che uccide molti più bambini della Repubblica islamica. Un regime occupante e di apartheid è l’ultimo a cui chiedere di liberarci dalla tirannia”. La pensa in modo analogo anche Feresteh Rezaifar, di Donna Vita Libertà Roma, che al festival Sabir in corso a Roma ha partecipato, con altre attiviste iraniane e afghane, a un dibattito sulla necessità che l’Onu riconosca l’apartheid di genere come un crimine contro l’umanità. “Sono convinta che la Repubblica Islamica debba cadere sotto la spinta del suo popolo, e non di potenze straniere. La guerra non porta la democrazia, uccide piuttosto la cultura democratica della parte più attiva e consapevole della popolazione”. Ma anche dovesse esserci una guerra, sottolinea, le donne continueranno a fare da avanguardia di tutti gli iraniani che vogliono il cambiamento. E la loro battaglia non si è mai fermata, come dimostra anche - ricorda - la campagna contro la pena di morte guidata dalle prigioniere politiche in Iran. Qualche dubbio lo nutre però Rayhane Tabrizi, attivista basata a Milano. “Gli iraniani non vogliono la guerra - dice - alla caduta della Repubblica Islamica ci vogliono arrivare da soli. Purtroppo però fra loro c’è anche chi ancora cerca un tutore, un padre che possa aiutarli a farlo”. Magari un re o aspirante tale, appunto. Ma contro la guerra si è espressa pochi giorni fa l’autorevole voce di Narges Mohammadi, Premio Nobel per la pace, da anni in carcere per le sue idee e le sue battaglie, fra cui quella contro la pena di morte e, più di recente, per la criminalizzazione dell’apartheid di genere da parte dell’Onu. “Per me la pace non è semplicemente assenza di guerra - ha detto nei giorni scorsi al Corriere della Sera - ma la liberazione da ogni tipo di tirannia, dominio, discriminazione, minaccia e terrore”. “Non esiste un percorso di pace - ha proseguito - attraverso il buio della guerra. Odio la guerra come la tirannia, e sono favorevole alla pace come alla democrazia. Ho vissuto entrambe le esperienze. Il raggiungimento della democrazia, la fine di ogni forma di tirannia, i diritti umani e la fine dell’apartheid di genere sono le condizioni preliminari per una pace che possa essere duratura”. E rispondendo alla domanda su un possibile cambio di regime provocato dall’esterno, “la transizione dalla tirannia alla democrazia - afferma - è il cammino della gente d’Iran”. Intanto, un gruppo di circa 360 accademici, esponenti politici e attivisti della società civile hanno diffuso una dichiarazione contro la guerra, che denuncia sia il coinvolgimento dell’Iran nei conflitti regionali per procura, sia le azioni militari di Israele a Gaza e in Libano. Tra i firmatari come Ervand Abrahamian, Touraj Atabaki, Mehrangiz Kar, Reza Alijani, Mohammad Reza Nikfar e e la Premio Nobel Shirin Ebadi. La dichiarazione condanna entrambe le parti del conflitto per l’escalation delle tensioni, la crisi umanitaria e l’aumento dell’estremismo. “La Repubblica islamica e i suoi alleati fondamentalisti hanno preso in ostaggio le aspirazioni del popolo palestinese, mentre il governo Netanyahu alimenta la guerra in Medio Oriente con il pretesto di un ‘nuovo ordinè”, si legge nella dichiarazione. Dove si esorta gli organi internazionali, comprese le Nazioni Unite, le organizzazioni per i diritti umani e i sostenitori della pace e della democrazia, a fare pressione su tutte le parti coinvolte affinché concordino un cessate il fuoco immediato. “Difendere la pace - affermano i firmatari - significa difendere la libertà e la dignità umana”. Una cinquantina di altri intellettuali basati sia in Iran che all’estero hanno firmato un altro documento “contro il ‘nuovo’ ordine imposto al Medio Oriente”. Anche gli intellettuali devono intervenire con i loro strumenti, vi si legge, soprattutto in un momento in cui la macchina della propaganda di una parte dell’opposizione all’estero - “spesso con il sostegno e la guida diretta e indiretta di governi e istituzioni finanziarie straniere - sfrutta costantemente le proteste popolari contro il governo iraniano”. Quest’ultimo elemento, prosegue l’appello, non solo ha influenzato la percezione della posizione dell’Iran nella regione e nel mondo, “ma ha anche preso il sopravvento su qualsiasi rivolta e resistenza contro l’oppressione e la disuguaglianza all’interno dell’Iran”, rafforzando il rischio di una violenta repressione interna. Un chiaro esempio di ciò - sottolinea la nota - “è l’abuso dello slogan Donna, Vita, Libertà da parte dei fautori della guerra e delle sanzioni contro l’Iran.