Il reato di resistenza passiva? Cambierà il volto del carcere di Ilaria Dioguardi vita.it, 11 ottobre 2024 Il testo del Ddl sicurezza, già approvato dalla Camera, ha iniziato ora il suo iter in Senato. Fuori, intanto, si susseguono le mobilitazioni contro il decreto. “Questa misura è un vulnus allo stato di diritto”, dice Susanna Marietti (Antigone). “Con il nuovo reato di rivolta penitenziaria, che si configura anche in caso di resistenza passiva a un ordine, le persone in carcere non rivendicheranno più i loro diritti”. Sono iniziate in Senato le audizioni del Ddl 1236, il cosiddetto Decreto sicurezza. Dopo l’approvazione alla Camera dello scorso 18 settembre, ora la parola passa a palazzo Madama. Proseguono le mobilitazioni contro molte misure previste. “Noi avevamo lanciato l’allarme già nei mesi scorsi, appena avevamo visto il testo depositato. Ma era passato in sordina, nessuno ci aveva troppo ascoltato. Ora che è cominciato l’iter in Senato, finalmente c’è un allarme”, dice Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone. Cosa pensa della misura del decreto che, se passasse in Senato, renderebbe facoltativo (e non più obbligatorio) il rinvio della pena per donne incinte e madri con bambini entro un anno di età? È una misura simbolica, odiosa, parliamo di poche decine di persone. Tra l’altro, le donne in carcere che ho visto incinte, tendenzialmente sono in misura cautelare. Mentre prima c’era un rinvio della pena obbligatorio, adesso sarà il giudice a decidere caso per caso. Ovviamente si pensa ad un’etnia particolare. Si sta pensando alle donne rom, quindi è odioso per questo: il fatto che le borseggiatrici che fanno i figli apposta per non andare in carcere io l’ho vista solo nei film. Si dice che queste donne vogliono evitare la pena, ma non la evitano, la rimandano. Basta farsi un conto su quanto dura la gravidanza. Se una donna fa un furto il primo giorno che resta incinta, rimanda la pena di un anno e nove mesi (la gravidanza e poi finché il figlio non ha un anno), ma poi la sconta se ha una sentenza passata in giudicato. È una pura norma di cattiveria. Per quanto riguarda le madri con i bambini entro l’anno di età? La nostra legge, fin dal 1975, permette ai bambini di stare in carcere fino ai tre anni con la mamma. È una legge che, tutto sommato, io non mi sento di giudicare male perché credo che ci siano dei casi in cui quello è il male minore, piuttosto che lasciare il bambino fuori da solo, affidato ai servizi. Quello che bisogna fare è usare poco questa norma, per i casi in cui davvero non si possa fare altrimenti, e usarla per meno tempo possibile. Se un bambino sta due mesi con la mamma in carcere significa che la sera torna a dormire lì, ma di giorno va al nido e fa altre attività. Oggi in Italia abbiamo 20 bambini in carcere con le madri. Se ce li teniamo poco e con delle accortezze, io credo sia meglio piuttosto che l’obbligo di separazione forzata, come ho cominciato a sentir ventilare. E poi l’amministrazione penitenziaria dovrebbe assumere una figura apposta: una babysitter, un educatore. Perché ci devono pensare i volontari? Ci sono alternative al carcere, per le donne incinte e le madri con bambini entro un anno di età? L’alternativa più seria è rappresentata dalle case famiglia protette. La legge 62 del 2011 lasciava la facoltà di finanziarle agli enti locali, che ovviamente non ci hanno pensato. Ce ne sono due in Italia, una a Roma (la Casa di Leda) e una a Milano (Ciao). Poi ci si provò con la legge Siani (l’iter si interruppe per la caduta del governo, ndr). Non si tratta di cambiare le norme di principio, si tratta di metterci i soldi, che è tutta un’altra storia. Il decreto introduce anche il reato di resistenza passiva in carcere. Cosa ne pensa? Mentre quella che rende facoltativo il rinvio della pena per donne incinte e madri con bambini entro un anno di età è una norma di principio, che però non avrà grandi effetti e sarà per piccoli numeri, la misura del decreto sulle rivolte cambierà il volto del carcere. Il nuovo reato di rivolta penitenziaria si configura anche in caso di resistenza passiva a un ordine (Chi “partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi in tre o più persone riunite, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”, ndr). Quindi, se una persona non fa nulla, ad esempio non mangia nonostante l’ordine di mangiare, è resistenza passiva. Perché questa misura cambierà il volto del carcere? Significa che le persone in carcere non chiederanno più, non rivendicheranno più i loro diritti. In carcere non si hanno molti modi per essere ascoltati. Purtroppo, a volte si è costretti a usare il proprio corpo: ci si taglia, si fa lo sciopero della fame. Le rivolte, i disordini nelle carceri, che si sono moltiplicati negli ultimi tempi, sono la dimostrazione del grande bisogno di essere ascoltati... Essere ascoltati in carcere per le persone è la cosa più importante, giustamente, come lo è per qualsiasi essere umano. Dopo tutte le proteste che abbiamo avuto negli ultimi mesi negli istituti penitenziari, non c’è nessuno che sia andato in carcere a parlare con loro, a chiedere loro cosa stessero chiedendo. Adesso tutto questo sarà punito con cumuli di carcere. Susanna Marietti Su 38 articoli del decreto, almeno 20 aumentano pene e aggiungono nuovi illeciti e delitti... Sì, questa è una gestione che vediamo fin dal primo Consiglio dei Ministri: la prima volta che questo governo si è riunito ha introdotto un nuovo reato, quello di rave party. L’Italia è stata governata, con questa maggioranza, al ritmo di un decreto legge al mese, nei quali ci sono stati l’introduzione di nuovi reati e l’aumento delle pene per quelli vecchi. Con l’attuale governo i problemi sociali non si affrontano tramite politiche di tipo sociale integrato, quindi intendo anche politiche economiche e del lavoro, ma attraverso politiche penali. Sono molte le mobilitazioni contro il Ddl sicurezza, che ultimamente si stanno susseguendo da Nord a Sud... Sì, per fortuna. Sono un po’ tardive, noi avevamo lanciato l’allarme già nei mesi scorsi, appena avevamo visto il testo depositato. Ma era passato in sordina, nessuno ci aveva troppo ascoltato o se n’era accorto. Adesso che è stato votato dalla Camera, e che è cominciato l’iter in Senato, finalmente c’è un allarme. Era ora che facessimo sentire in tanti la nostra voce, è veramente importante. Questo decreto è un vulnus allo stato di diritto. Oltre il 30% dei detenuti potrebbe accedere a pene alternative al carcere garantedetenutilazio.it, 11 ottobre 2024 Quasi 19.500 persone in meno potrebbero portare a un decongestionamento del sistema. Come si evince dal dossier statistico diffuso dal collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Gnpl) lo scorso 7 ottobre, a fronte di un tasso di sovraffollamento sui posti effettivamente disponibili che ha raggiunto il 132% vi sarebbe una percentuale del 31% di detenuti che potrebbero avere accesso a misure alternative alla detenzione. Tale percentuale deriva dalla valutazione dei numeri delle persone detenute che devono scontare una pena residua inferiore a tre anni e che non sono state condannate per reati ostativi che precluderebbero l’accesso a pene alternative al carcere. Si tratta di quasi 19.500 persone. Nel Lazio sarebbero poco meno di 2.500, il 36% dell’intera popolazione detenuta della regione. Se una buona parte di queste persone nei prossimi mesi potesse effettivamente accedere a tali misure si verificherebbe un decongestionamento che consentirebbe per lo meno di contenere entro i limiti della legalità le molte situazioni ormai fuori controllo del sistema penitenziario nazionale e regionale. Con tali ipotetiche misure non si risolverebbero comunque completamente le problematiche connesse al sovraffollamento e alle carenze di risorse professionali e strutturali che si sono acuite nel corso di questo biennio e sono anche connesse all’aumento di eventi critici, proteste e manifestazioni di estremo disagio che si sono susseguiti in questo periodo. Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria elaborati dal Garante Nazionale delle Persone private della libertà a livello nazionale, il numero di detenuti alla data del 7 ottobre è pari a 61.914 per un tasso di affollamento effettivo del 132%: sono quasi 1.500 in più rispetto all’inizio dell’anno (per un tasso del +2,9%). Nel Lazio i numeri risultano ancora più critici con 6.857 presenti pur essendo leggermente diminuiti (di due unità) rispetto al mese scorso il tasso di affollamento è rimasto comunque del 149%. Sono leggermente diminuiti anche i bambini reclusi con le loro madri che sono attualmente 22 distribuiti in cinque regioni. Il mese scorso erano 24. Si tratta purtroppo di una variazione contingente molto poco significativa e le misure governative contenute nel decreto sicurezza che escludono la possibilità di accedere per legge alla detenzione domiciliare per le detenute madri con figli minori di un anno potrebbe, invece, nei mesi a venire, determinare un incremento delle presenze di bambini in carcere. Quanto ai tassi di affollamento carcerario sono ben più dell’80% i penitenziari in tutta Italia in cui il numero dei presenti è superiore ai posti effettivamente disponibili e sono più di 100 quelli in cui tasso di affollamento supera il 130%. Sempre riferendoci alla nostra regione se si escludono due case di reclusione della regione e la terza casa circondariale di Roma, destinata ai semiliberi e al trattamento avanzato per tossicodipendenti, tutti gli istituti di pena presentano tassi di affollamento effettivi superiori al 100% e in otto su 14 i numeri dei detenuti presenti superano la soglia del 140% sui posti effettivamente disponibili. Va qui in particolare sottolineata la situazione più che paradossale degli istituti di Rieti, e Regina Coeli dove il numero dei detenuti presenti è addirittura cresciuto tra la fine di agosto e la fine di settembre nonostante un tasso di affollamento vicino al 200% che li colloca tra i primi venti in Italia. La situazione regionale non è difforme da quanto avviene nel resto del Paese dove sono solo due le regioni - la Val D’Aosta e la Sardegna - in cui il numero di detenuti è inferiore ai posti effettivamente disponibili. Disegno di legge Sicurezza, l’identikit del colpevole di Mauro Palma Il Manifesto, 11 ottobre 2024 Commenti Il testo ora all’esame del Senato scivola verso un diritto penale che individua l’autore, specie chi è in condizioni di minorità sociale, come il nemico. Un provvedimento eterogeneo, qualcuno lo ha chiamato omnibus, ma con un preciso filo conduttore: la restrizione delle libertà e dei diritti soprattutto di chi è già in condizioni di minorità sociale. Sul disegno di legge “Sicurezza” siamo stati ascoltati in molti, nelle Commissioni del Senato dove è iniziata la seconda lettura del testo di legge, perché tanti sono i punti di vista. Da quello costituzionale degli stridori che sorgono rispetto alla proporzionalità delle pene previste a quello penalistico, con ben quattordici nuovi reati e altre nove nuove circostanze aggravanti, a quella procedurale, fino all’attenzione ai provvedimenti di polizia e anche all’estensione di tutto ciò ai Centri per migranti. Panorama ampio, come ampio è lo sconcerto rispetto a un provvedimento che, oltre a restringere le possibilità di rivendicazione dei diritti, di opposizione e di espressione di dissenso, finisce col determinare maggiore emarginazione e carcerazione e aggiungere solo una tessera in più a quella cultura che ricorre al diritto penale in chiave simbolica di rafforzamento della sicurezza pubblica. Ma l’audizione era sostanzialmente tra sordi. O meglio, alla buona interlocuzione con gli esponenti delle forze di opposizione, ha corrisposto un silenzio gentile e muto da parte dei (pochi) presenti della maggioranza: sostanzialmente non una discussione con le loro scelte, ma un mero stare a sentire. Eppure, anche soltanto sotto l’aspetto penalistico - quello che mi sono limitato a considerare - il provvedimento non introduce semplici ritocchi repressivi bensì determina un mutamento di paradigmi che interessano la cultura del Paese. A partire dall’idea che a pene più dure corrisponda una minore tendenza a commettere il reato: ipotesi falsa che il passato dovrebbe aver insegnato a rifiutare (ho dovuto ricordare quanto detto, proprio in quella sede in una analoga circostanza, circa l’introduzione del reato penale per i cellulari in carcere che, come allora prevedevo, ha determinato più carcere e nessuna diminuzione della circolazione interna di cellulari). All’interno di questa premessa, un mutamento è nell’affidarsi all’indeterminatezza perché questa autorizza ampia e discrezionale applicazione: per esempio, nel prevedere l’aggravante per un reato qualsiasi in base al luogo dove lo si compie (stazione, aeroporto ecc) e non per la sua specificità o nel connotare come rivolta anche la resistenza passiva in base al contesto con buona pace del requisito di tassatività che la Costituzione impone alla norma penale. Fin troppo evidente poi come questa fluttuante previsione strida con altre, inclusa la resistenza a pubblico ufficiale che richiede violenza o minaccia e non mera passività, con il rischio che l’equiparazione tra due comportamenti ben dissimili finisca coll’aumentare il ricorso a quelli più gravi. Ma due ulteriori mutamenti, anch’essi paradigmatici, colpiscono: il primo è lo scivolamento verso previsioni penali che colpiscono un pre-individuato target di destinatari, così centrando il diritto penale non più sul reato ma sull’autore, per poi forse scivolare verso un diritto penale che individua l’autore come nemico. Come interpretare altrimenti la nuova possibilità di detenere in carcere donne incinte o con bimbi minori di un anno? Ripeto in carcere, perché quella specie di attenuazione che il testo impone di detenzione in un Icam (Istituto a custodia attenuata) dimentica che si tratta pur sempre di una struttura carceraria e inoltre l’obbligatorietà costringerà molte madri a separarsi dal proprio contesto perché gli Icam sono soltanto quattro in Italia. Norma con destinatari, come del resto è stata commentata anche da esponenti istituzionali, rivendicando che si tratti di donne rom, sinti che non ruberanno più nella metro. L’altro mutamento è nell’estensione alla non penalità, in particolare ai Centri per il rimpatrio, dove gli stranieri sono chiusi, in un tempo vuoto che scorre in quel non-luogo, senza un magistrato che possa vigilare sulle condizioni interne, quasi sempre nell’impossibilità di far comprendere necessità o di esprimere propri punti di vista se non rifiutandosi di obbedire a qualche ordine che ritengono offenda un loro diritto. Ora anche il rifiuto silenzioso può essere crimine e rimarrà soltanto la protesta estrema del tagliarsi o del reagire con violenza: l’opposto dell’obiettivo che la norma dice di perseguire. Aspetti parziali quelli qui considerati, di un provvedimento complessivo che incide anche su molti altri. Ma che danno il quadro di un mutato rapporto tra autorità e cittadino: l’ordine viene prima dei diritti, anche di quelli storicamente intoccabili. Separazione delle carriere, sì al testo base. Ora la giustizia corre di Errico Novi Il Dubbio, 11 ottobre 2024 Altra accelerazione del centrodestra, dopo le intese sulle leggi di Costa e Zanettin: l’agenda sul penale è diventata un “rifugio”. C’è un dato di cronaca parlamentare: la separazione delle carriere avanza, grazie all’adozione, in commissione Affari costituzionali alla Camera, del testo base. Uno snodo importante, considerato che l’iter della riforma è riferito non solo al ddl costituzionale di Carlo Nordio ma anche alle quattro proposte di legge depositate dai deputati già nel 2022. C’è poi il dato politico: sulla giustizia il centrodestra trova senza affanni la cosiddetta quadra. Di più: realizza una convergenza che si fatica davvero a registrare su altri dossier. Basti pensare alle ambiguità che persistono, sugli obiettivi della Manovra, tra la premier Giorgia Meloni e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. O alla diversità “ontologica”, in materia di cittadinanza, tra Forza Italia e Lega. È sorprendente il grado di sintonia e piena condivisione che si registra invece nell’alleanza di governo, soprattutto da alcuni giorni a questa parte, sulla politica giudiziaria. Intanto, i dettagli del passo compiuto a Montecitorio nella Prima commissione, presieduta dall’azzurro Nazario Pagano: la maggioranza ha deciso, con il voto contrario di Pd, M5S e Avs ma con il sostegno di Italia viva, di adottare come testo base il disegno di legge governativo. Non perché, sul “divorzio” fra giudici e pm, l’articolato di Nordio preveda scelte divergenti dalle proposte di matrice parlamentare, ma per gli altri due punti “in più” inseriti dal guardasigilli nella riforma: sorteggio integrale dei togati e Alta Corte disciplinare. Si parte da quello schema: i gruppi di maggioranza e opposizione potranno avanzare proposte di emendamento fino al 23 ottobre. È probabile che, tra le modifiche, trovi posto l’avvocato in Costituzione, vale a dire il riconoscimento della libertà e indipendenza con cui la professione forense deve poter svolgere il proprio ruolo. Probabile che si chieda, non solo da parte dei gruppi di minoranza, di derubricare il sorteggio integrale a sorteggio “temperato”, in modo che vi sia un’estrazione a sorte di un elenco di giudici (da una parte) e pm (dall’altra) eleggibili nei due “nuovi” Csm, e una successiva procedura di voto sottratta, a quel punto, al controllo delle correnti. Ma al di là dei contenuti, pesa come detto l’ulteriore segnale di sintonia che arriva dal centrodestra in materia di giustizia. È come se le scelte sul processo penale fossero improvvisamente diventate la tregua olimpica dell’alleanza di governo, il perimetro entro cui, come d’incanto, le frizioni svaniscono e gli obiettivi coincidono. Tanto più se si pensa che fino a pochi mesi fa il divorzio fra giudici e pm era percepito come un fastidioso intralcio, anche a Palazzo Chigi, sulla strada del premierato. Una svolta sorprendente alla luce di quanto avvenuto, nelle ultime ore, non solo sulla separazione delle carriere ma anche sulle intercettazioni, col fulmineo sì del Senato al limite dei 45 giorni, e sulla cosiddetta legge Costa, che vede entrambe le commissioni Giustizia procedere verso la richiesta, rivolta al governo, di perfezionare il divieto di pubblicazione testuale delle ordinanze cautelari con l’inasprimento delle pene previste per chi viola il precetto. Basti ricordare, per comprendere la novità di quest’afflato politico giudiziario, che sul limite dei 45 giorni approvato in prima lettura con la legge Zanettin, il plenipotenziario di Meloni sulla giustizia, Andrea Delmastro, aveva parlato a luglio di norma “draconiana”. Ritrosia convertita, due giorni fa, in pieno sostegno, con gli interventi in Aula di tre senatori FdI della commissione Giustizia: Sergio Rastrelli, Gianni Berrino e Giovanna Petrenga. E ancora oggi, dopo le bordate di Pd, 5 Stelle e Avs per una separazione che “mina l’autonomia di giudici e pm” (copyright democrat), il relatore meloniano del ddl costituzionale Francesco Michelotti ha replicato: “La sinistra che parla di tentativo di controllo della magistratura mente sapendo di mentire: con la riforma si realizzerà una effettiva parità fra accusa e difesa”. Determinazione condivisa dal presidente della commissione Pagano (“il sì al testo base è un primo passo essenziale”), dal viceministro Francesco Paolo Sisto (“la separazione delle carriere must go on”) e dall’intera delegazione di FI impegnata sul dossier (“l’obiettivo è il voto in Aula entro l’anno”). Durerà? Forse sì. Perché Meloni percepisce, sul fronte mediatico-giudiziario ancor più che altrove, quella sensazione di accerchiamento, di minaccia, di onnipresenza di trame oscure e letali ordite dall’opposizione in sinergia con altre forze. E se il vertice del governo nonché dell’alleanza si persuade che la giustizia, le inchieste, i dossieraggi, sono il terreno d’elezione sul quale gli avversari scommettono per ribaltare la partita, è inevitabile che la politica giudiziaria diventi la prima opzione, nell’agenda del governo. Di fatto la stessa vicenda di Guido Crosetto rientra in un catalogo simile. Nel mirino dell’Esecutivo c’è il potenziale uso di iniziative giudiziarie come arma impropria. E quando l’arma impropria è il “dossieraggio quotidiano” denunciato dalla premier non con un alleato ma addirittura con la sorella Arianna, il cerchio si chiude, e la giustizia si erge a fortino irrinunciabile della maggioranza. La separazione delle carriere arriva a Natale. Ma poi ci sarà il referendum di Mario Di Vito Il Manifesto, 11 ottobre 2024 La Commissione Affari costituzionali adotta come testo base quello di Nordio. Emendamenti entro il 23 ottobre, ma la riforma è blindata. La “riforma delle riforme”, quella della separazione delle carriere in magistratura, fa un passo in avanti. Piccolo di per sé - la commissione Affari costituzionali della Camera ha detto il suo primo sì - ma che apre ampi squarci su quel che sarà: una corsa veloce verso l’approvazione definitiva, almeno in attesa del referendum costituzionale. “Entro Natale il parlamento darà il suo ok”, giurano da Forza Italia, tra un moto di giubilo e una dedica commossa a Silvio Berlusconi, al quale la riforma è dedicata. Il testo passato in Commissione è quello firmato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio e depositato lo scorso 13 giugno dopo il via libera del consiglio dei ministri un paio di settimane prima. Sul tavolo c’erano anche altre proposte, in realtà - alcune delle quali avevano già cominciato a viaggiare sui binari parlamentari - che però si sono fermate quando il governo ha deciso di fare la sua mossa e cristallizzare una riforma che prevede un doppio Csm (uno per la magistratura giudicante e uno per quella requirente) i cui membri verranno sorteggiati, l’assoluta impossibilità di passare da una carriera all’altra (adesso si può fare una volta sola ed entro i primi sette anni di servizio) e un’alta corte per risolvere le questioni disciplinari. A favore del testo, ieri, ha votato compatta la maggioranza, con l’aggiunta di Riccardo Magi di + Europa, mentre Pd e M5s si sono espressi contro e i rappresentanti di Iv e Avs erano assenti al momento del voto (la contrarietà degli ultimi, comunque, è nota). Sempre ieri è stato fissato anche il termine ultimo per presentare emendamenti - il 23 ottobre - ma le possibilità di modifica sono assai limitati, per non dire del tutto inesistenti: il provvedimento è blindato e la maggioranza ha tutte le intenzioni di andare veloce, appunto, per arrivare al via libera entro Natale. Non sarà facilissimo. Trattandosi di una legge che va a modificare la Costituzione, infatti, è necessaria l’approvazione di ciascuna camera con due deliberazioni successive a un intervallo di almeno tre mesi. E alla seconda serve la maggioranza dei due terzi dell’assemblea. Allo stato attuale delle cose Meloni non ha abbastanza truppe per farcela. Non basterebbe nemmeno includere nel mazzo i centristi di Azione, di Italia viva e di +Europa per arrivare alla maggioranza qualificata. Dunque il sentiero è già tracciato: si andrà a referendum. È a questo punto, quando cioè il dibattito si aprirà al corpo elettorale, che la magistratura farà la sua mossa. La contrarietà di tutte le correnti è conclamata ed è stata espressa in più occasioni, ma ancora nulla si è detto di eventuali iniziative pubbliche: scioperi, manifestazioni, incontri vari. L’ultima volta che il comitato direttivo centrale dell’Anm ha discusso del tema, lo scorso giugno, si era parlato di una grande campagna da avviare in contemporanea all’iter parlamentare della riforma, ma con ogni probabilità, al netto di qualche spot, la vera battaglia comincerà solo quando sarà ufficialmente fissato il referendum costituzionale. Per le toghe, la separazione delle carriere è un vero e proprio attentato al potere giudiziario, un tentativo di sottoporlo a quello esecutivo, una manovra per trasformare i pm in superpoliziotti utili solo ad eseguire direttive impartite dall’alto. Resta da valutare quella che sarà la reazione degli italiani. L’ultimo precedente è il referendum proposto dal Partito radicale nel 2022, un flop totale che vide l’affluenza fermarsi a un penoso 20,9%. La prossima volta, però, il quorum non ci sarà: vince chi prende un voto in più. Col limite alle intercettazioni si archivia la logica del sospetto per un’idea liberale del diritto di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 11 ottobre 2024 Per la prima volta, con il voto di due giorni fa al Senato, si è fissato un limite temporale (45 giorni) alla possibilità di intrusione nella vita di ogni cittadino con le intercettazioni. Merito di chi questa riforma ha voluto, il senatore Pierantonio Zanettin di Forza Itala, e di tutta la maggioranza, estesa in questa occasione a Italia viva. Se il provvedimento sarà approvato anche alla Camera, ci troveremo di fronte a una vera rivoluzione culturale. Dalla logica del sospetto, per cui ogni soggetto è potenzialmente criminale e quindi va spiato senza limiti perché prima o poi qualcosa si troverà, a una concezione liberale del diritto che privilegia integrità e inviolabilità della persona al di sopra di qualunque necessità giudiziaria. I sì alla legge Zanettin sono stati 83, compresi quelli di Italia viva, presentati da un brillante intervento di Matteo Renzi, 49 i no e un astenuto. Come ormai succede sempre, i partiti dell’opposizione con il loro voto sono i meri esecutori materiali delle indicazioni che provengono sia dal sindacato delle toghe, Anm, che da singoli magistrati, come in questo caso da Nino Di Matteo, compresi quelli assorbiti dal gruppo parlamentare Movimento 5 Stelle, come Roberto Scarpinato. È impressionante la tempistica. All’approvazione di questa proposta di legge, con il voto contrario delle opposizioni, si è arrivati preceduti da una campagna assordante del “Fatto quotidiano”, che per giorni e giorni ha annunciato la data fatidica in cui sarebbe crollata qualunque possibilità di fare processi in Italia, soprattutto per reati di mafia, senza la possibilità di spiare all’infinito. È stato intervistato anche un magistrato genovese, il procuratore aggiunto Francesco Pinto, che ha condotto le indagini su Giovanni Toti, sottoponendo lui, il suo staff e il suo ufficio a intercettazioni durate quasi quattro anni, con un impegno di telecamere accese nell’arco delle 24 ore. Ha ragione, il procuratore, quando dice che tutto ciò non sarebbe stato consentito con la nuova legge, e meno male, vien da dire, visto il risultato. Perché ancora la procura di Genova non ha spiegato il senso di tutte quelle intrusioni, cui dobbiamo aggiungere i tre mesi di carcere domestico cui è stato sottoposto l’ex governatore, per arrivare a proporre un patteggiamento per corruzione impropria, cioè quella che qualifica come legittimo ogni atto amministrativo della giunta regionale. La seconda spiegazione che ancora aspettiamo è che fine abbia fatto quell’aggravante di mafia contestata ad alcuni coimputati di Toti, quella che ha consentito, tra l’altro, l’applicazione del regime speciale e incontrollato, con tempi ancora più lunghi dell’ordinario, delle intercettazioni. Come dimenticare il fatto che l’inchiesta genovese era nata a La Spezia e che il primo indagato, cui fu contestata l’aggravante mafiosa, era Matteo Cozzani, capo di gabinetto di Toti, intercettando il quale, con la normativa antimafia, si illuminò a giorno tutta la vita del governatore? La nuova legge Zanettin, pur avendo posto vincoli severi, basati su elementi “specifici e concreti” che le giustifichino, e “espressa motivazione”, sul sistema delle proroghe dopo i primi 45 giorni di captazioni, ha mantenuto la deroga per le inchieste sulla criminalità organizzata nelle quali, passati i primi 40 giorni, la proroga di 20 in 20 è infinita. Una scelta comprensibile, forse determinata anche dall’esigenza di tenere insieme una maggioranza in cui non tutti i partiti e non tutti i singoli parlamentari hanno alle spalle una storia perfettamente allineata alla cultura dello Stato di diritto. Ma anche forse per la scarsa conoscenza, a parte quella di qualche avvocato, della quotidianità giudiziaria, soprattutto nei processi che si celebrano al sud. Non solo Nino Di Matteo è sospettabile, come gli ha rinfacciato lo stesso Zanettin, di vedere la mafia ovunque. Ormai in tanti, lo abbiamo letto anche nell’intervista al procuratore genovese Pinto, usano uno strumento di comunicazione piuttosto efficace per giustificare l’invasività spionistica senza limite. Quella del cosiddetto “reato- spia”, la piccola trasgressione che nasconde il grave reato o addirittura l’operato della criminalità organizzata. Per paradosso, e sapendo di essere imprecisi, potremmo dire che il furto della mela potrebbe nascondere un progetto di strage mafiosa. Questi ragionamenti sono ogni giorno alla base di veri teoremi investigativi che spesso si infrangono solo quando incontrano, magari dopo molto tempo, qualche giudice ragionevole. Perché per fortuna ce ne sono, come il giudice Michele Morello che assolse Enzo Tortora. Ma se il sud giudiziario ha buoni motivi per piangere, anche al nord non si scherza. E non c’è solo il caso Liguria. Proprio ieri è iniziato al Csm il procedimento disciplinare nei confronti di due magistrati torinesi, Stefano Colace e Lucia Minutella, per la scandalosa vicenda delle 500 intercettazioni cui fu sottoposto, tra il 2015 e il 2018, il senatore del Pd Stefano Esposito, senza che fosse stata richiesta autorizzazione al ramo del Parlamento di appartenenza. Una vicenda giudiziaria senza precedenti, che ha visto coinvolta, con atteggiamento molto critico nei confronti della magistratura, addirittura la Corte costituzionale. Bene, quel processo, ormai finito su un binario morto e nel quale alcune toghe hanno mostrato il peggio di sé, era iniziato con la contestazione dell’aggravante mafiosa, per appartenenza di qualche indagato alla ‘ndrangheta. Una ricostruzione cervellotica, che ha però permesso agli inquirenti l’uso di tutta la legislazione speciale “antimafia” che consente qualunque deroga. Compresa quella non ammessa di spiare per 500 volte un senatore, pur consapevoli del suo status. Sarebbe bene che i deputati che nelle prossime settimane saranno chiamati a votare la benemerita legge Zanettin facessero qualche riflessione anche su questi aspetti. Magari anche per provvedimenti di riforma del futuro. “Vittime in Costituzione? La loro maggior tutela non si pone in contrasto con quella degli indagati” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 ottobre 2024 A differenza di quanto espresso dal professore Vittorio Manes qualche giorno fa su questo giornale a proposito del ddl che mira ad inserire la vittima in costituzione, per Fabrizio Filice, giudice del tribunale di Milano e componente esecutivo di Md, “l’apertura del nostro ordinamento a maggiori spazi di partecipazione e tutela delle persone offese nel processo penale non deve necessariamente essere vissuta come una drammatica contrapposizione con le garanzie degli indagati, potendo anzi costituire un’utile occasione di evoluzione del diritto penale, nel senso di un maggiore equilibrio dei diritti e delle garanzie di tutte le persone coinvolte in un reato”. Facciamo presente comunque che diversi giuristi auditi hanno criticato la proposta per gli effetti - dice Filice - distorsivi sul processo penale. “Il pregiudizio che sta a monte di questa critica consiste in una implicita equiparazione della prospettiva vittimaria con la tendenza al panpenalismo, quando in realtà è piuttosto vero il contrario. La vittimologia rappresenta il principale formante teorico di contrapposizione a un diritto penale illiberale, populista e politicamente orientato, in quanto muove dalla critica della pretesa punitiva dello Stato in quanto tale, perché esercitata istituzionalmente su un piano di pura formalità giuridica mentre le conseguenze di un reato, soprattutto (ma non solo) di un reato violento o che abbia cagionato la morte di un innocente, riversano tutti i loro effetti, pulsanti e vitali, sulle persone che ne sono coinvolte: l’autore del reato, la vittima diretta e le vittime indirette, come i congiunti della persona uccisa”. Per la toga “la pretesa punitiva statale classica ignora completamente quelle vite e nemmeno si pone il problema di rispondere ai loro bisogni, mentre la vittimologia afferma che il fine del diritto penale non può essere solo quello di punire, perché in questo modo finisce con il punire tutti: i colpevoli, condannati a un sistema carcerario inumano e insostenibile, e le vittime, stigmatizzate per sempre come tali e nei cui confronti l’opinione pubblica è mossa a passare con estrema facilità dalla solidarietà iniziale alla calunnia. Punizione non è riparazione, e le persone offese da un reato lo sanno bene”. Però non c’è dubbio che la vittima ha già guadagnato un posto sempre più protagonistico, dentro e fuori dalle aule. “Se ciò è avvenuto è proprio perché la vittimologia è già stata gradualmente riconosciuta come un valore costituzionale a livello europeo e, come tale, è permeata nel nostro ordinamento attraverso le cessioni di sovranità, previste in Costituzione, nei confronti delle fonti sovranazionali. Per questa via sono state recepite nel nostro ordinamento la Convenzione di Istanbul del 2011 e la direttiva europea del 2012. E, recentemente, si sono aggiunte altre fonti sovranazionali importanti, che implicheranno nuove trasformazioni del nostro diritto penale, come la raccomandazione del COE del 2023 e la nuova direttiva europea del 2024. Queste fonti, peraltro, oltre a richiedere la valutazione individualizzata delle esigenze e della vulnerabilità della vittima, contengono un costante richiamo alla giustizia riparativa, a chiarire come i diritti reclamati dalle persone offese non siano mai orientati in senso meramente punitivo ma in un senso altro: quello della verità, della riparazione e della riconciliazione degli equilibri”. Senza modificare la Costituzione, qual è la strada per dare alle vittime il ristoro che chiedono? “Per prima cosa le persone offese da un reato hanno bisogno di capire, hanno bisogno di verità. E quindi di un processo in cui la scelta delle imputazioni non sia strategicamente orientata, in base al criterio delle maggiori probabilità di successo, da un pm concepito come una parte contrapposta, in termini para- privatistici, alla difesa. E dopo la verità, le persone offese hanno bisogno di cura, di essere aiutate a elaborare quanto accaduto. La stessa cura di cui ha bisogno, su una retta che decorre parallela, l’autore del reato: di essere messo nella condizione di capire e di valutare la propria condotta e le conseguenze che essa ha avuto sulle vite degli altri”, conclude Filice. Scarcerazione del detenuto dipendente dell’Amministrazione penitenziaria e diritto alla NASpI di Sonia Gioia soluzionilavoro.it, 11 ottobre 2024 Nota a Trib. Milano 10 aprile 2024, n. 1335. La risoluzione del rapporto di lavoro intramurario per fine pena dà luogo ad uno stato di disoccupazione involontaria con conseguente diritto alla percezione dell’indennità di NASpI. La Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (c.d. NASpI), istituita dall’art. 1, D.LGS. 4 marzo 2015, n. 22 (concernente “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”) per fornire una tutela di sostegno al reddito ai prestatori con rapporto di lavoro subordinato che siano rimasti involontariamente disoccupati, spetta anche al detenuto, impiegato alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, il cui rapporto di lavoro sia cessato per fine pena. Lo ha stabilito il Tribunale di Milano (10 aprile 2024, n. 1335), in relazione ad una fattispecie concernente un detenuto - impiegato alle dipendenze del DAP con mansioni di addetto alla distribuzione del vitto, alla pulizia degli spazi esterni e alla rotazione dei sacchi della spazzatura - che rivendicava il diritto all’indennità di disoccupazione in seguito alla risoluzione del rapporto di lavoro conseguente alla scarcerazione. All’esito del procedimento amministrativo, l’INPS aveva rigettato la domanda di NASpI, proposta dal ricorrente tramite patronato, ritenendo che la scarcerazione non è equiparabile al licenziamento e non dà luogo ad uno stato di disoccupazione involontaria rilevante ai fini della tutela previdenziale della NASpI e che, in ogni caso, il sussidio di disoccupazione può essere erogato solo al termine di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze di aziende diverse dagli Istituti penitenziari (Msg INPS 5 marzo 2019, n. 909). Ciò, dal momento che l’attività di impiego prestata dal detenuto all’interno del carcere ed al medesimo assegnata dalla Direzione dell’Istituto penitenziario “non è equiparabile alle prestazioni di lavoro svolte al di fuori dell’ambito carcerario e, comunque, alle dipendenze di datori di lavoro diversi dall’Amministrazione penitenziaria”, poiché tale attività prevede la predisposizione di una graduatoria per l’ammissione al lavoro ed è soggetta a turni di rotazione e avvicendamento, che non si configurano come licenziamento ma come sospensione dell’attività lavorativa e, in quanto tali, non danno diritto all’indennità di NASpI (Cass. n. 18505/2006). Di diverso avviso, invece, è stato il Tribunale di Milano, secondo cui il lavoro prestato dai detenuti - sia in favore del DAP all’interno o all’esterno dello stabilimento presso cui si applica la pena restrittiva della libertà personale che all’esterno e alle dipendenze di altri datori di lavoro - deve ritenersi, “nonostante le peculiarità della disciplina di alcuni istituti derivanti dall’interferenza del trattamento penitenziario”, pienamente assimilabile ad un ordinario rapporto di impiego (CEDU 7 luglio 2011, n. 37452/02; Cass. n. 396/2024; Cass. (ord.) 27340/2019). L’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario, infatti, devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai detenuti e agli internati una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale - considerato che “il lavoro carcerario è tanto più rieducativo quanto più è uguale a quello dei liberi” - ed è garantita loro, nei limiti degli stanziamenti regionali, la tutela assicurativa e ogni altra tutela prevista dalle disposizioni di legge (art. 2, D. LGS. 2 ottobre 2018, n. 12, recante “Riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario”, in attuazione della delega di cui all’art. 1, co. 82, 83 e 85, lett. g), h), r), L. 23 giugno 2017, n. 103). “Il lavoro intramurario è equiparato al lavoro subordinato anche ai fini previdenziali e assistenziali”, dal momento che le peculiarità della regolamentazione carceraria non rilevano in alcun modo ai fini della spettanza o meno di tali forme di tutela. Con particolare riguardo all’erogazione dell’indennità di disoccupazione, la perdita di impiego alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria per fine pena integra a tutti gli effetti lo stato di disoccupazione involontaria richiesto dalla legge per l’accesso al trattamento di NASpI, poiché la cessazione del rapporto esula dalla discrezionalità del lavoratore: la scarcerazione, infatti, non dipende dalla volontà del detenuto né lo stesso può rifiutarla al fine di mantenere in essere il contratto di impiego. A tal fine, non assume rilievo la circostanza che l’internato al momento dell’assunzione possa già sapere quando sarà scarcerato e, conseguentemente, quando il suo rapporto di lavoro cesserà, “trattandosi di situazione esattamente sovrapponibile a quella del lavoratore assunto a tempo determinato”, cui è riconosciuto il diritto all’indennità di disoccupazione anche se la cessazione del contratto è in qualche modo riconducibile alla volontà che egli ha manifestato all’atto dell’assunzione a termine. Non ostano al riconoscimento del diritto all’indennità di disoccupazione né il fatto che il DAP non persegua scopi di lucro, “essendo pacifico” che la NASpI spetta a tutti i prestatori subordinati che abbiano perduto involontariamente l’occupazione (art. 1, D. LGS. n. 22 cit.), né che i posti di impiego vengano assegnati ai detenuti “a rotazione”, atteso che si tratta di modalità necessaria a conciliare l’impegno sancito in capo all’Amministrazione penitenziaria di “assicurare” agli internati un impiego con la nota scarsità quantitativa di offerta di lavoro in carcere, da cui non può dipendere alcuna conseguenza in termini di trattamento previdenziale (art. 15, co. 2, L. 26 luglio 1975, n. 354, recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”) (v. anche Trib. Siena 1 giugno 2022, n. 216, annotata in q. sito da S. GIOIA). La circostanza che la Direzione carceraria versi all’INPS i contributi per la disoccupazione anche per i detenuti - lavoratori costituisce, poi, un ulteriore elemento “utile a corroborare la soluzione che riconosce all’ex - detenuto la tutela previdenziale richiesta”. Pertanto, nel caso di cessazione del lavoro intramurario per fine pena, il detenuto ha diritto all’erogazione dell’indennità di NASpI, così come già pacificamente riconosciuto ai reclusi impiegati presso un datore di lavoro esterno, a condizione ovviamente che ricorrano i requisiti prescritti dall’art. 3, co. 1, D. LGS. n. 22 cit., vale a dire: a) Lo stato di disoccupazione, ai sensi dell’art. 1, co. 2, lett. c), D. LGS. 21 aprile 2000, n. 181 e succ. mod. (recante “Disposizioni per agevolare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro”); b) La possibilità di far valere almeno 13 settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di mancanza d’impiego; c) L’aver svolto - per i soli eventi di disoccupazione verificatisi prima del 1 gennaio 2022 - almeno 30 giornate di lavoro effettivo, a prescindere dal minimale contributivo, nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di inattività. Una diversa interpretazione, che non riconosca il diritto all’indennità di NASpI agli internati dipendenti del DAP rimasti privi di occupazione a seguito della scarcerazione, configura una violazione del principio di parità di trattamento nonché degli obblighi, costituzionalmente previsti a carico dello Stato, di tutelare il “lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” e di garantire ai prestatori “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita (…) in caso di disoccupazione involontaria”, privando, in tal modo, il lavoratore di uno strumento di sostegno al reddito “proprio nel momento più delicato del progetto di reinserimento sociale, caratterizzato dalla difficoltà di trovare una nuova occupazione lavorativa per chi ha una pregressa esperienza detentiva” (artt. 3, 4, 35 e 38 Cost. e art. 20, L. n. 354 cit.). Le peculiarità del lavoro svolto dai detenuti, derivanti dalla inevitabile connessione tra profili del rapporto di impiego e profili organizzativi, disciplinari e di sicurezza, propri dell’ambiente carcerario, e la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena non valgono, infatti, “ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato” (Corte Cost. n. 158/2001). In attuazione di tali principi, il Tribunale ha riconosciuto il diritto dell’ex detenuto dipendente del DAP a percepire l’indennità di NASpI, rigettando la tesi dell’ente previdenziale che escludeva dall’accesso al beneficio tutti i detenuti impiegati presso la Direzione carceraria e rimasti privi di occupazione in seguito a turnazione o a scarcerazione. Milano. Detenuto di 44 anni si impicca a San Vittore con i lacci delle scarpe lapresse.it, 11 ottobre 2024 Si tratta del 75esimo suicidio nelle carceri italiane da inizio anno. “Origini pugliesi, 44 anni, in carcere per presunti reati correlati agli stupefacenti, fine pena provvisorio fissato al 2027, si è strozzato utilizzando i lacci delle scarpe nel suo letto in una cella della Casa Circondariale di Milano San Vittore ed è stato ritrovato esanime verso le 5.30 di stamattina. A nulla sono valsi gli immediati tentativi di soccorso della Polizia penitenziaria e dei sanitari. Si tratta del 75esimo recluso che si toglie la vita dall’inizio dell’anno, in una strage continua e che non trova alcun argine dal Governo”. Lo rende noto Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “A San Vittore sono stipati 1022 detenuti a fronte di 447 posti disponibili con un sovraffollamento di oltre il 229%, sorvegliati da 580 appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria, distribuiti su più turni e comprendendo gli addetti agli uffici e ai servizi vari, rispetto a un fabbisogno di almeno 700, con una scopertura del 17%. È di ogni evidenza che un qualsiasi apparato articolato non possa reggere in tali condizioni e non possa propriamente dirsi neppure organizzato”. “Del resto - prosegue - nel Paese, con ormai 62mila reclusi presenti e meno di 47mila posti disponibili, sono oltre 15mila i detenuti in esubero e più di 18mila le unità mancanti alla Polizia penitenziaria. Carente è l’assistenza sanitaria e psichiatrica, inadeguati sono gli equipaggiamenti, le strutture e le infrastrutture, molto approssimativa risulta l’organizzazione”. “Un sistema carcerario sull’orlo del baratro, con gli operatori che dovrebbero assicurare il rispetto delle regole laddove tutte le regole sono da tempo saltate e loro stessi subiscono la negazione di diritti e prerogative persino di rango costituzionale, oltre a essere sottoposti a carichi di lavoro e turnazioni massacranti”, aggiunge il Segretario della Uilpa Pp.”Il 25 ottobre del 2022 (anno record per i suicidi in carcere) la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel suo discorso per la fiducia alla Camera dei Deputati, dichiarò che ‘Dall’inizio di quest’anno, sono stati 71 i suicidi in carcere. Non è degno di una nazione civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro dei nostri agenti di Polizia penitenziaria’. Dopo due anni, e siamo solo all’11 e non al 25 di ottobre, i suicidi sono 75 e le condizioni di lavoro della Polizia penitenziaria sono ulteriormente peggiorate. Dunque, lo sappia la Premier, sotto il suo Governo le condizioni delle carceri e di lavoro per gli agenti sono ancora più indegne che in passato per una ‘nazione’ civile”, conclude De Fazio. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuto 51enne muore stroncato da un infarto casertace.net, 11 ottobre 2024 Soccorso dal personale sanitario interno, neppure il defibrillatore è servito. L’altro giorno un episodio simile al carcere di Carinola, stamattina il copione si è ripetuto nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Purtroppo non c’è stato nulla da fare per il detenuto Sergio Mezzina, 51, anni di Bari, ritenuto vicino al clan Abbaticchio con precedenti per droga e nella rissa che nel 2012 portò alla morte di un parrucchiere. Soccorso immediatamente dal personale sanitario interno con l’utilizzo del defibrillatore, l’uomo non ha ripreso conoscenza e purtroppo è deceduto. Sul posto si è portata immediatamente un’ambulanza del 118, ma anche in questo caso non è servito a nulla. Pare ci siano stati problemi con il defibrillatore, circostanza non ancora confermata. San Gimignano (Si). Pestarono un detenuto, chieste condanne fino a 4 anni di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 11 ottobre 2024 “Non c’è dubbio che il detenuto colpito con pugni, calci e schiacciato a terra per circa 40 secondi sia stato sottoposto ad inutili quanto acute sofferenze fisiche. Gli operatori professionali non avevano certo bisogno di ricorrere a tali eccessi per spostare un piccolo uomo che esce tranquillamente dalla sua cella, convinto di andare a fare la doccia. Ma hanno commesso i fatti in una situazione che è stata pacificamente riconosciuta come difficile” nel carcere di San Gimignano. Al processo d’appello per il pestaggio di un detenuto al “Ranza” (avvenuto nell’ottobre 2018) il pg Ettore Squillace Greco ha chiesto condanne comprese tra 3 anni e 10 mesi e 4 anni, per 5 agenti della penitenziaria accusati di tortura falso e minaccia aggravata. In sostanza, ha sollecitato il riconoscimento delle attenuanti generiche e quindi una riduzione della sanzione rispetto al primo grado: nel marzo 2023 il Tribunale senese aveva inflitto pene tra 5 anni e 10 mesi fino a 6 anni e 6 mesi. “È stata un’operazione con finalità dimostrative e deterrenti - ha detto il pg. La persona offesa, trascinata per il corridoio tanto da perdere i pantaloni e, in mutande, ancora trascinata fino ad una cella, dove è stata di nuovo picchiata e lì lasciata mezzo nuda, ha subito trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. L’azione si “è sviluppata in pochi minuti, a parte il lasso di tempo in cui il detenuto è rimasto in cella in mutande e senza coperte. Le lesioni causate sono limitate”. Da qui la richiesta di riduzione della pena. Prossima udienza 5 novembre. Parma. “Pastiglie tritate e sniffate, cerotti con la morfina: vi racconto lo spaccio in carcere” di Christian Donelli parmatoday.it, 11 ottobre 2024 Intervista ad un ex detenuto del carcere di Parma: “Se non hai nessuno fuori sei un morto che cammina, dentro non mi hanno insegnato nulla”. “Se hai una famiglia fuori te la cavi, se non hai nessuno sei un morto che cammina. Gira più droga dentro che fuori dal carcere: fumo, crack, alcuni tritato e sniffano le pastiglie - l’orudis 200, il contramal, lo stinox, il lentomil - che vengono date per la terapia. Ci sono alcuni piantoni - detenuti che vengono fatti lavorare per assistere altri detenuti - che non ti danno la terapia, si tengono le pastiglie e le usano come droga”. Luca (nome di fantasia) ha trascorso in via Burla a Parma un anno della sua vita, tra il 2023 e il 2024. Ora si trova agli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico. È su una sedia a rotelle: nel corso degli anni ha sviluppato diverse patologie gravi. Dopo aver trascorso diversi mesi all’Ospedale Maggiore di Parma ora gira gli ospedali per effettuare visite e controlli medici. “La mia situazione sanitaria è molto grave: prendo tre antibiotici e quando svilupperò la resistenza anche a quelli ci sarà poco da fare. Dopo che ho fatto otto denunce contro un carcere vicino la Procura della Repubblica ha deciso di trasferirmi nel Centro Clinico del carcere di Parma” La quotidianità del carcere, il rapporto difficile con gli altri detenuti e con le ‘guardie’, il supporto trovato invece dagli psicologi e da alcuni medici. Oggi Luca gira per ospedali ma non tutti lo accettano, perché la sua situazione è molto grave. “Se faccio un intervento lo devo fare da sveglio perché non posso prendere farmaci, sul lettino della sala operatoria posso prendere solo due bicchieri di valium. Poi in molti casi sono svenuto. Poi, dopo dieci minuti, mi risveglio e urlo. Ho fatto due laparoscopie da sveglio, di cui una per un volvolo intestinale e cinque litotrissie ai reni” “Il cibo a volte è immangiabile” - Luca ci racconta come avviene la vita in carcere, a partire dalle prime ore della mattina. “Quando sono arrivato sono stato messo nell’ala nuova, al piano tre. Dalle 8 alle 8 e mezza passa la terapia, alle 9 c’è l’apertura della cella. Le celle sono da tre detenuti. Fino alle 10 ci sono le visite mediche ma ti devi prenotare la sera prima. Ci sono agenti che fanno il loro lavoro e a volte anche molto di più di quello che dovrebbero fare, altri che invece non chiamano quando hai bisogno. “Il vitto, che passa a mezzogiorno, a volte è immangiabile. A parte che portano sempre le stesse cose: arriva la verdura di pessima qualità. Se hai i soldi puoi comprare alcuni alimenti, il fornellino, il gas e puoi farti da mangiare. Non ci sono grandi condizioni igieniche. Il cibo è stabilito dalle tabelle del Ministero. La verdura non è mai condita: devi comprarti l’olio e il sale. Se non puoi comprarti le case d’acqua ti bevi quella del rubinetto, che è piena di calcare” “Pastiglie di Orudis 200 tritate e sniffate come la cocaina” - Una delle realtà più drammatiche è quella dello spaccio di farmaci e droghe in carcere. “I piantoni, detenuti che vengono fatti lavorare per assistere altri detenuti, ti chiedono le pastiglie, il contramal, lo Stinox, il Lentomil - ci rivela l’ex detenuto. Per esempio io mi mettevo i cerotti di morfina, per questioni mediche. Dopo tre giorni non fanno più effetto ma la colla che ci rimane è morfina. Alcuni detenuti te la chiedono e te li comprano anche: ti pagavano un pacco di tabacco ogni striscia. In un cerotto ci vengono sei strisce, quindi per un cerotto intero di morfina usato sei pacchi di tabacco”. Ma quali sono le dinamiche di questi giri di sostanze all’interno del carcere? “Alla sera, dalle 19 alle 20, ti fanno fare la socialità. A quel punto si riuniscono in 4 o 5 in una cella, si portano le pastiglie che dovrebbero prendere per via orale di uno e dell’altro, si fanno dei mix, si tirano anche la tachipirina. Le schiacciano e le tritano, si fanno le righe e se la tirano nel naso. Il farmaco che chiedevano di più era l’Orudis da 200. Se lo prendi per bocca è un conto, se te lo tiri è come tirarsi una riga di coca. Si facevano la sera e la mattina erano tutti sballati. Gira più droga in carcere che fuori, più in carcere che in stazione a Parma. Ai colloqui, c’era uno che si faceva portare dentro dalla madre lo Ossicodone, che passava nonostante i controlli. Alcuni le conservano le sirighe di valium che vengono date la sera: dopo qualche giorno diventa una sostanza come un acido” “Esci dal carcere e rifai quello che hai già fatto” - Tra le sbarre del carcere la situazione non è rosea, sia a livello mentale che fisico. Una sorta di girone dantesco, dove ogni cosa - anche la più basilare - è difficile da portare a termine. In questo caso pensare ad una rieducazione del detenuto è molto difficile. “Se esci dal carcere torni a fare quello che hai fatto - racconta Luca - non c’è recupero. Non ti insegnano niente. Io non parlavo con nessuno perchè gli unici dialoghi tra i detenuti sono ‘Ho spacciato, ho rubato. Vado fuori, torno a spacciare. Mettiamoci d’accordo per andare a svaligiare quella gioielleria quando usciamo. A volte inizio un’attività e poi la devi interrompere perchè finiscono i fondi per finanziarli”. C’è poi il problema della droga, sempre presente. “Alcuni detenuti, quando sanno che dopo 5 giorni usciranno, si tengono 50 euro per andarsi a fare al binario 8, prima di andare a casa ai domiciliari perchè dopo non possono uscire. Si comprano la ‘roba’ da portarsi a casa” Il centro medico e il supporto psicologico - Luca ha trascorso un anno all’interno di una cella del Centro Clinico, poi è stato trasferito nella sezione Crupi, dove si trovano i detenuti paraplegici e con problemi di mobilità. “Non è un vero e proprio centro clinico, è sempre un carcere con le celle un pò più grandi. C’è un piccolo ambulatorio e il medico 24 ore su 24. C’è gente di 70/80 anni, con demenze senili e paralizzati. Parma e Reggio Emilia per me sono i due carceri peggiori dell’Emilia-Romagna. Nella mia vita ho sbagliato ma mi hanno fatto patire tanto. E’ veramente una vergogna. Ho denunciato per otto volte il medico di un carcere vicino a Parma”. La situazione sanitaria di Luca è particolarmente grave. Anche se in carcere ha trovato un supporto. “Dalla parte psicologica ho trovato delle persone molto qualificate, così come avevo trovato un grande supporto un ex medico, il dottor Iacono, responsabile sanitario del carcere di Parma, che purtroppo è deceduto”. “La grappa fatta con i kiwi marciti” - Secondo Luca il problema del carcere non si risolverà da solo. Tutto quello che ieri e oggi accade tra le mura, accadrà anche domani. “Per risolvere il problema delle carceri ci vorrebbe un’amnistia di dieci anni”. E questa, secondo l’ex detenuto, una delle soluzioni possibili. “In carcere non ci hanno insegnato niente - prosegue Luca - alcuni detenuti tossicodipendenti si drogano più dentro che fuori”. “Al terzo piano dell’ala nuova fanno la grappa - rivela l’ex detenuto. Si fanno scaricare due o tre cassette di kiwi, li mettono in un sacco nero dell’immondizia e lo buttano sotto al letto. Lo lasciano lì tre o quattro giorni, così marciscono. Poi in una pentola mettono un sacchetto sigillato con un tubicino sopra, poi mettono il tubicino dentro la bottiglia e fanno bollire e il vapore che esce è grappa. Una bottiglietta da Estathe da 400 piena di grappa vale sei pacchi di tabacco”. “Se hai un infarto in carcere arrivi in ospedale dopo 40 minuti” - C’è poi il problema delle emergenze sanitarie in carcere, dei tempi di soccorso dovuti alla particolarità delle condizioni detentive “Parliamoci chiaro - conclude l’ex detenuto. Se in carcere di capita qualcosa di serio, sei morto. Per esempio se hai un infarto ci metti circa 40 minuti ad arrivare in ospedale. Prima chiami l’agente urlando (non ci sono campanelli), poi l’agente chiama il medico, che arriva in cinque, dieci minuti. Dopo averti visitato chiama l’ambulanza. Tra l’arrivo e i controlli all’ingresso passa ancora del tempo e in ospedale ci arrivi, se va bene, dopo 40 minuti”. Teramo. La Carovana della salute arriva al carcere di Marco Belli gnewsonline.it, 11 ottobre 2024 Con l’obiettivo di sensibilizzare e fare prevenzione per il tumore alla mammella, Komen Italia e Fondazione Severino hanno unito le forze e, dopo Castrovillari e Reggio Calabria, arrivano gli screening senologici alla Casa Circondariale di Teramo. Così 25 detenute e 12 operatrici dell’istituto penitenziario sono state sottoposte oggi a una giornata di screening senologico, allo scopo di promuovere la consapevolezza e l’importanza della prevenzione precoce del tumore alla mammella. L’obiettivo principale di questa iniziativa è offrire un’opportunità diagnostica cruciale a un gruppo di donne che diversamente avrebbe difficoltà ad avere accesso a questo tipo di campagne, promuovendo la salute e il benessere delle partecipanti e sensibilizzando sulla prevenzione e la cura della malattia. “L’iniziativa mi è stata proposta dal capo del DAP, Giovanni Russo, sempre molto attento e sensibile alle tematiche penitenziarie. E io l’ho accolta con gioia e grande interesse. La nostra Costituzione all’art 32 tutela la salute ed essendo una Costituzione formale sostanziale non si limita alle affermazioni di principio, ma vuole realtà, concretizzazione, principi incarnati, viventi. Inoltre il carcere deve essere opportunità di recupero e vita anche fisica, oltre che psichica, mentale, affettiva”. Così la direttrice dell’istituto penitenziario Lucia Avantaggiato, che ha poi tenuto a sottolineare: “L’iniziativa è estesa anche al personale femminile ed è questo un bellissimo riconoscimento agli operatori penitenziari donne, perché essere donne e lavorare in una istituzione come è il carcere non è facile, ma è sicuramente un valore aggiunto”. “Questa iniziativa rappresenta un passo significativo nella lotta contro il tumore alla mammella, portando la prevenzione direttamente dove è più necessaria. Siamo grati per la collaborazione con Komen Italia e il Prof. Masetti e l’impegno degli istituti coinvolti in questa Carovana della salute”, ha detto Eleonora Di Benedetto della Fondazione Severino. “Il progetto presso la Casa Circondariale di Teramo si inserisce all’interno della Campagna Nazionale di Komen Italia ‘La Prevenzione è il nostro Capolavoro’ per la sensibilizzazione sui tumori del seno, con l’obiettivo di offrire gratuitamente visite ed esami diagnostici dove c’è più bisogno. L’intesa con la Fondazione Severino è parte integrante della missione della nostra organizzazione che si impegna da 25 anni a tutela la salute di tutte le donne, grazie al progetto Carovana della Prevenzione, il Programma Nazionale Itinerante di Promozione della Salute Femminile, ideato in collaborazione con la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS”, ha dichiarato Riccardo Masetti, Fondatore di Komen Italia. Pisa. Convenzione per l’attivazione dell’Ufficio anagrafe nel carcere Don Bosco La Nazione, 11 ottobre 2024 Con questo accordo anche i detenuti potranno usufruire dei servizi erogati dall’Ufficio comunale. La Giunta comunale ha approvato lo schema di convenzione tra il Comune e la casa circondariale Don Bosco di Pisa per “assicurare un’adeguata e tempestiva fruizione dei servizi comunali afferenti ai sevizi demografici in favore dei soggetti destinatari di misure restrittive della libertà individuale”. L’oggetto della convenzione riguarda l’erogazione dei servizi all’interno della casa circondariale in favore dei detenuti, tra i quali il rilascio di certificazione anagrafica e di stato civile, le autentiche di firme su dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà, il rilascio di carte di identità elettroniche, la iscrizione e/o cancellazioni anagrafiche, i trasferimenti ad altri istituti penitenziari. “L’apertura dello sportello anagrafe di prossimità presso la casa circondariale di Pisa - spiega l’assessore ai servizi demografici, Gabriella Porcaro - rappresenta il risultato di un lavoro congiunto e non banale tra amministrazioni, per cui ringrazio Cristina Pollegione, dirigente degli uffici di anagrafe e stato civile, e il direttore della Casa Circondariale Don Bosco di Pisa, Tazio Bianchi, che fin dai primi giorni dal suo insediamento, si è mostrato disponibile ed ha avviato con noi un’interessante interlocuzione grazie alla quale abbiamo condotto un’attenta disamina delle esigenze della popolazione detenuta presso la struttura penitenziaria e fra le varie necessità è emersa proprio quella di assicurare un’adeguata e tempestiva fruizione dei servizi comunali nello specifico dei servizi anagrafici e di stato civile”. “La convenzione - prosegue - è il risultato concreto e tangibile di un dialogo che è stato intrapreso nell’interesse delle persone private della libertà che, nonostante lo stato di reclusione, continuano ad avere dei diritti e il nostro obiettivo è che almeno in questo ambito, tali diritti possano essere esercitati senza incontrare difficoltà burocratiche: penso in particolare al riconoscimento di figli o al semplice rilascio di un certificato o di una carta d’identità. L’avvio dello sportello diffuso è un traguardo che sottolinea l’importanza della sinergica collaborazione tra istituzioni che porta anche a maggiore efficienza e risparmio di tempo e risorse. Si tratta di un’iniziativa di grande valore anche a livello simbolico perché, riconoscendo la non extra-territorialità del carcere rispetto alla città, la comunità e le sue istituzioni si fanno carico dei detenuti e del loro diritto di cittadini. Spero questo segnale venga colto dagli stessi detenuti affinché possano intraprendere un percorso di consapevolezza”. In base alla convenzione un ufficiale di anagrafe del Comune potrà essere presente all’interno della struttura penitenziaria il primo lunedì di ogni mese, dalle ore 9 alle ore 12, a seconda delle richieste. Per il servizio, verrà individuato un locale idoneo nel quale oltre al personale comunale potranno accedere anche i richiedenti. Per monitorare le residenze dei detenuti presso la convivenza del carcere, l’istituto comunicherà periodicamente all’ufficio anagrafe del Comune i trasferimenti ad altro istituto dei detenuti e la fine pena detentiva, con le indicazioni per procedere alla successiva iscrizione anagrafica. La convenzione, che avrà durata di due anni e potrà essere rinnovata, conferma che le parti continueranno ad avvalersi anche del supporto dei volontari che già stanno svolgendo la propria attività. Per monitorare l’andamento del progetto, Comune e Istituto penitenziario individueranno dei referenti. Cagliari. L’assessora regionale Manca: “Garantire percorsi di riqualificazione per i detenuti” sardiniapost.it, 11 ottobre 2024 Visita dell’assessora regionale del Lavoro Desiré Manca, questa mattina, nell’Istituto penitenziario per minori di Quartucciu e alla Casa circondariale di Uta, per conoscere e verificare con mano l’esito del progetto sociale “Lav(or)ando”, ideato dalla cooperativa cagliaritana Elan e sostenuto dalla Fondazione con il Sud. Avviata nella primavera del 2020, l’iniziativa è nata per favorire il recupero sociale e offrire un’occasione di riscatto a ventiquattro persone sottoposte a provvedimenti penali detentivi, attraverso il loro inserimento nelle lavanderie industriali presenti nei due istituti, con la prospettiva poi di essere inseriti in imprese del territorio disponibili ad accoglierli. Nel farlo è stata prestata attenzione anche alla sostenibilità energetica e ambientale con l’installazione a febbraio, sul tetto del carcere di Uta, di un impianto fotovoltaico che produce 15 kw di energia. “L’obiettivo del nostro assessorato è quello di garantire anche all’interno delle carceri dei percorsi di riabilitazione e soprattutto di riqualificazione e di formazione. Ho molto apprezzato il lavoro nelle lavanderie di Uta e Quartucciu. Sarà pertanto nostra cura - ha dichiarato l’assessora del Lavoro, Desirè Manca - lavorare alla realizzazione di progetti formativi innovativi che possano rappresentare realmente un’opportunità per questi ragazzi che hanno sbagliato”. “Ci tenevamo che l’assessora visitasse le nostre lavanderie, vedesse quanto abbiamo costruito in questi quattro anni e in che modo le persone detenute, che hanno percorso con noi un pezzo della loro strada, hanno sfruttato questa occasione di possibile riscatto”, spiega Elenia Carrus, vicepresidente e responsabile dell’area inclusione della cooperativa sociale Elan. Roma. La dignità della detenzione al centro del convegno sulla giustizia riparativa rainews.it, 11 ottobre 2024 La Regione Lazio ha ospitato esperti e politici per una riflessione sul senso della pena che va trasformata da punizione a una opportunità di riscatto. La giustizia riparativa al centro della riflessione avviata nella sala Tevere della giunta della regione Lazio con esperti e politici. E’ intervenuto anche il Vice Ministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Non sono contrario al valore processuale della giustizia riparativa, é un corrispettivo commisurato al gesto che il soggetto autore di reato pone nei confronti della vittima, un percorso che apre le porte a una umanizzazione del processo penale” ha sottolineato il viceministro “L’esecuzione della pena va trasformata in un percorso virtuoso che possa offrire ai condannati l’opportunità? di riconoscere i propri torti, cominciare una nuova vita e abbattere così il tasso di recidiva che in Italia è ancora molto alto. La questione delle carceri passa anche da un cambiamento di paradigma culturale che porti a trasformare l’esecuzione della pena da una punizione a una opportunità di riscatto”. Così Luisa Regimenti, Assessore al Personale, alla Sicurezza urbana, alla Polizia locale, agli Enti locali e all’Università della Regione Lazio nel corso del convegno. Sono intervenuti anche Pietro Pittalis, vice presidente della Commissione Giustizia della Camera, Irma Conti, Componente del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, Oriana Tantimonaco, magistrato in servizio presso il DAP, Giovanna Zaccaria, Vice direttore vicario Gruppo Operativo Mobile. Dal canto suo, l’associazione Antigone, che da anni si occupa di carcere nel nostro paese, fa notare come il taglio del 50% dei fondi a disposizione per il pagamento delle persone detenute lavoranti in carcere non vada nella direzione di abbattere il tasso di recidiva. Questi tagli - sottolinea Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone - potranno colpire peraltro categorie specifiche di lavoratori: quelli che prestano assistenza ad altri detenuti disabili o non pienamente autosufficienti, o quelli a supporto dell’area pedagogica (bibliotecari e scrivani). Il lavoro in carcere è già scarso. A lavorare è solo circa il 30% delle persone detenute e la maggior parte di esse lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, peraltro in molti casi già per pochi giorni o poche ore alla settimana. Il guadagno che si ottiene serve a garantire un ritorno in libertà dove si abbiano a disposizione un minimo di risorse per far fronte alle spese, comprese quelle del mantenimento che ogni persona detenuta deve versare allo Stato a fine pena. Apportare ulteriori tagli al lavoro significa lasciare le persone senza possibilità di guadagno, nella noia e nell’apatia più totale, in una condizione che produce solo ulteriore deprivazione. Così facendo non si aiutano le persone detenute a costruire possibilità diverse dal crimine una volta fuori, incidendo negativamente quindi anche sulla sicurezza. Torino. Carcere nel caos, salta lo spettacolo teatrale previsto al Lorusso e Cotugno di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 11 ottobre 2024 Disordini e mancanza di personale costringono alla cancellazione dell’evento culturale per i detenuti. Mentre il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, lancia un appello disperato al ministro della Giustizia Carlo Nordio per denunciare la condizione disastrosa delle carceri torinesi, arriva l’ennesima prova di un sistema al collasso. Il teatro, uno dei pochi spiragli di luce per i detenuti del carcere “Lorusso e Cotugno”, diventa la vittima dell’ennesimo paradosso: lo spettacolo previsto nel contesto delle “Giornate della Legalità” è stato cancellato, e i biglietti già venduti sono stati rimborsati. Motivo? I continui disordini, gli episodi di violenza sempre più frequenti e una cronica mancanza di personale. A dare voce allo sdegno per questa situazione, sono i senatori di Italia Viva, Ivan Scalfarotto e Silvia Fregolent, che non usano mezzi termini. “È un paradosso che l’unico evento culturale, che avrebbe dovuto portare un po’ di rieducazione e dignità all’interno di un carcere, sia annullato a causa del caos in cui è sprofondato il sistema carcerario italiano”, si legge nella loro nota. Non è solo una questione di Torino, denunciano, ma di tutto il Paese, dove la pena, anziché essere parte di un processo rieducativo, diventa semplicemente una punizione priva di senso, in condizioni disumane. Il quadro dipinto dai senatori è desolante: il sovraffollamento, la carenza di risorse e di personale stanno soffocando qualsiasi tentativo di riabilitazione dei detenuti, trasformando le carceri in polveriere pronte a esplodere. “Ha ragione il sindaco Lo Russo: le strutture detentive torinesi sono inadeguate e la situazione è ormai insostenibile. Il governo, però, resta immobile, paralizzato dalle proprie divisioni e dalle proprie ideologie”. Vicenza. Il volontariato in carcere del Csi: “Fu un’idea di Paolo Rossi, così aiutiamo i detenuti” di Francesco Brun Corriere del Veneto, 11 ottobre 2024 I progetti del Centro sportivo italiano animati da un volontario tra calcio, Tai Chi e volley. Coinvolti anche i ragazzi delle superiori. E dopo 25 anni l’impegno continua. Una storia lunga oltre 25 anni, cominciata con una partita di calcio con i grandi ex Biancorossi e che finora ha visto coinvolti più di 14 mila studenti. È un percorso unico nel suo genere quello messo in piedi da Enrico Mastella, 66 anni di Vicenza, che da un quarto di secolo si dedica allo sviluppo di progetti per le persone detenute. Il tutto grazie al lavoro degli operatori del Csi (Centro sportivo italiano), del quale Mastella è volontario ed ex presidente, con il contributo della Regione Veneto. Dopo gli inizi nell’aprile del 1999, quando il Csi è entrato nel carcere di San Pio X portando due ore di attività motoria due volte a settimana, la svolta è arrivata nel marzo 2000, grazie al coinvolgimento di Paolo Rossi, l’indimenticato goleador del Lanerossi e della Nazionale. “Chiesi a Pablito di venire, non ci pensò due volte” - “Gli chiesi se avrebbe potuto venire a giocare una partita all’interno del carcere assieme ai compagni del Real Vicenza - racconta Mastella - e senza pensarci due volte Paolo aderì all’iniziativa. Ottenuti i permessi, nel maggio successivo è andata in scena una partita che ha visto coinvolte ex glorie biancorosse e persone detenute: Paolo ha segnato tre gol, proprio com’era stato contro il Brasile al Mondiale dell’82. Quello fu solo l’inizio: è stato poi il turno della squadra dei medici e degli infermieri del San Bortolo, di quella degli scout e, in tre occasioni diverse, della prima squadra del Vicenza Calcio”. In quegli anni fu istituito il Real Csi, una squadra di volontari che una volta al mese disputava una partita in carcere e iniziarono le attività all’esterno della struttura dedicate alle persone che possono beneficiare di permessi premio, iniziativa che va avanti tuttora. “La prima esperienza è stata un torneo di volley a Casale - prosegue Mastella - avevamo costruito una squadra di persone detenute e di ragazzi con disabilità psichica: in campionato abbiamo perso tutte le partite, ma è stato qualcosa di meraviglioso. C’è anche qualche aneddoto divertente. Durante un’uscita, le due persone che stavo accompagnando in macchina discutevano riguardo una rapina commessa da uno dei due in una banca, e anch’io lavoravo in un istituto bancario: insomma, sono venuto a sapere che aveva fatto da palo durante una rapina in cui ero stato coinvolto”. Le attività - Attualmente, il Csi svolge nel carcere di Vicenza attività motoria, tennistavolo, nordic walking, Tai Chi, scacchi e yoga, tutte con operatori qualificati. Nel 2010 è inoltre iniziato il servizio di accoglienza, con alcune operatrici specializzate che accudiscono i bambini durante i colloqui tra le persone detenute e i familiari, anche se una delle attività più importanti è sicuramente il progetto “Carcere e Scuola”, attivo dal 2003. Se inizialmente consisteva in una partita a calcio tra persone detenute e studenti, dal 2009 questi ultimi passano un’intera giornata all’interno della struttura, dalle 8 alle 15, ascoltando le parole degli operatori dell’area giuridico pedagogica, sanitaria e di sicurezza, oltre che le testimonianze di alcune persone detenute. Gli studenti hanno l’opportunità di entrare in una cella e di fare conoscenza delle realtà che ci sono all’interno del carcere, come il Progetto Jonathan, attraverso il quale alcune persone detenute hanno la possibilità di svolgere l’ultima parte della detenzione in una casa in strada della Paglia. Prima della pandemia l’iniziativa vedeva coinvolte 43 scuole di Vicenza e provincia, mentre l’anno scorso sono state 27, con la partecipazione di un istituto di Verona, uno di Treviso e uno di Venezia. Genova. Detenuti, la vicinanza della Chiesa genovese di Doriano Saracino* ilcittadino.ge.it, 11 ottobre 2024 Quest’estate Padre Marco Tasca ha incontrato i detenuti nel carcere di Marassi. È un caldo pomeriggio di fine estate quello in cui l’Arcivescovo di Genova, padre Marco Tasca, varca i cancelli del carcere di Marassi per incontrare i detenuti di quella che lui stesso definisce “un pezzo della mia chiesa, della nostra chiesa genovese”. Il tempo e le dimensioni dell’istituto penitenziario non consentono di incontrare tutte le settecento persone che vi si trovano recluse, e pertanto è necessaria una scelta. Si inizia quindi dal centro clinico, dove sono ricoverate una cinquantina di persone. È una sezione particolare, in cui ai tratti severi del penitenziario si mescolano quelli della cura ospedaliera: nutrita è la presenza di medici ed infermieri, che quotidianamente si prendono cura di persone affette vuoi da tumori, cardiopatie, problemi motori, vuoi da malattie infettive o ancora da patologie psichiatriche. Alla sofferenza dell’incarcerazione e della separazione dai propri cari si somma il dolore causato dalla malattia. Padre Marco - così si presenta ai detenuti il nostro vescovo - entra nelle celle, si ferma a parlare con chi non si alza dal proprio letto o si muove solo in carrozzina, ascolta tutti. Come Garante regionale lo accompagno e ascolto i loro dialoghi, ma mi allontano se prendono una piega strettamente personale. Molti si affidano alle sue preghiere, c’è chi gli parla della sua storia personale, chi di come il carcere lo abbia portato ad un cambiamento e ad una riflessione su ciò che conta nella vita. Il cappellano don Paolo Gatti, che pure accompagna il vescovo nella visita, è testimone degli itinerari di fede di molti dei detenuti incontrati. Qualcuno chiede alla chiesa genovese di farsi voce delle speranze di chi si trova in carcere e di entrare nel dibattito pubblico, anche richiedendo misure di clemenza. Riecheggiano nelle loro parole gli appelli del Papa ad un “gesto di clemenza” per le persone detenute e private della libertà. Il vescovo li rassicura: la Chiesa non solo li ascolta ma è anche attiva per migliorare la condizione carceraria e per contribuire al reinserimento sociale dei detenuti. La presenza alla visita di alcune associazioni di volontariato, dalla Veneranda Compagnia di Misericordia alla Comunità di Sant’Egidio, ne è la conferma. La visita si conclude con un incontro del vescovo con una rappresentanza di detenuti. La discussione si protrae a lungo, ed i presenti hanno modo di illustrare al vescovo le difficoltà della vita in carcere. Uno tra i presenti dice: “non chiediamo clemenza ma lungimiranza: occorre una programmazione, perché chi entra in carcere abbia un’opportunità per cambiare vita”, e si delinea così un percorso ideale, dall’accoglienza ai primi colloqui con gli operatori penitenziari, fino alla frequentazione di corsi scolastici e di formazione professionale, per giungere ad un’opportunità lavorativa. Ma quanti ostacoli in questo percorso! Chi è in carcere ha sbagliato, è vero, ma come ricucire la lacerazione che si è creata? Gli operatori penitenziari devono ricostruire un clima di fiducia nei confronti del detenuto, che oggi è carcerato ma che domani uscirà, ed occorre che questo avvenga già durante la carcerazione. Il vescovo ascolta con attenzione le parole dette, ma ancor di più quelle non dette. L’incontro con la realtà del carcere è fatto anche di silenzio, pudore e sguardi. “È normale che io sia qui - ha detto in conclusione Padre Tasca - il carcere non è una realtà separata, voi siete parte del gregge di cui mi devo prendere cura. E nella preghiera mi ricorderò di voi e delle vostre richieste”. Sono lieto di aver promosso, come garante, questo incontro, perché si tratta di un segno di speranza: sapere di poter essere ascoltati, potersi esprime e raccontare, avere l’occasione di una riflessione comune e di uno scambio con il vescovo hanno un grosso significato per chi ogni giorno vive nel chiuso di quelle mura. E confido nel fatto che il vescovo saprà farsi voce, nella Chiesa e nella città, delle persone incontrate in carcere. *Garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Ragusa. Si è svolta la “partita con mamma e papà”. Hanno vinto i buoni valori radiortm.it, 11 ottobre 2024 Gli abbracci, i sorrisi, la gioia di ritrovarsi tutti insieme. Al di là delle barriere fisiche, all’insegna dello sport con tutti i valori che porta con sé. La casa circondariale di Ragusa ha ospitato per il terzo anno l’iniziativa “Partita con mamma e papà”, promossa dall’associazione “Bambini senza sbarre” e inserita nella campagna “Carceri aperte”. Si è disputata questa mattina presso l’istituto penitenziario ragusano dove è stato presente anche il garante per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza avv. Claudia Parrino, e che ha visto il coinvolgimento delle associazioni del territorio “Ci Ridiamo Su”, “Medu-Medici per i diritti umani Ragusa”, “Arcigay Ragusa”, “Ara’ - Associazione Angelo Ragusa”, “Facciamo scuola asd”, “Libertas” e “Anas”, con il coinvolgimento del Comune di Ragusa - Assessorato alla Pubblica Istruzione e ai Servizi Sociali e della Camera Penale degli Iblei. La “Partita con mamma e papà” nasce con lo scopo di favorire l’inclusione sociale dei bambini con genitori detenuti. “Lo sport rappresenta una risorsa preziosa per migliorare la vita dei genitori detenuti e dei loro figli - spiegano gli organizzatori - Attraverso il gioco, la famiglia può ritrovare un senso di unità e speranza, affrontando insieme le sfide quotidiane. Investire in programmi sportivi per queste famiglie non solo favorisce il benessere individuale, ma contribuisce anche a una società più coesa e inclusiva. Partecipare a eventi sportivi può fornire ai bambini l’opportunità di socializzare e di costruire nuove amicizie, riducendo il senso di isolamento che spesso accompagna la detenzione di un genitore”. La cronaca della partita di oggi è semplice e va oltre il risultato. L’obbiettivo condiviso tra le associazioni era quello di far sparire magicamente le mura, ogni elemento di divisione, di giudizio, di discriminazione e tutto ciò che poteva suscitare l’imbarazzo proprio in carcere, un mondo invisibile ma che esiste, situato in mezzo alla nostra città e che spesso ignoriamo. Dunque spazio al Cerchio, grande inclusivo con giochi buffi di riscaldamento, di incontro. Tutti insieme papà, mamma, bimbi, volontari, funzionari e personale. Spazio ad un telone colorato per stare per divertirsi ancora in cerchio. “E poi la partita, dove non si sa chi sia il compagno di squadra. Forse perché non importa - spiegano ancora gli organizzatori - Quello che interessa è giocare, ridere, abbracciarsi, correre insieme”. Dopo la fatica dello sport un terzo tempo nell’area verde, un’ora in più per stare ancora insieme. E grazie a vaschette piene di colori a tempera bimbi, mamma e papà hanno avuto la possibilità di riempirsi le mani di colore e lasciare le proprie impronte in un abbraccio indelebile sulle magliette. “Non nascondiamo che, in più di un’occasione, a molti di chi osservava è scappata la lacrimuccia - dicono ancora gli organizzatori - Perché nella vita si può sbagliare ma la vicinanza della famiglia e’ fondamentale ed oggi ne abbiamo avuto la conferma. La frase più bella che ha detto un papà, perché oggi erano papà non detenuti, è stata “oggi sto bene sono felicissimo” e poi l’altro papà che si è fatto tutta la partita con il figlio in braccio per non perdere neanche un attimo di quel poco tempo che aveva a disposizione”. Affollare il campetto, urlare di gioia, correre e rincorrere, “fare i matti”, è stato importante. E’ arrivato oltre l’area di gioco. E tutto questo non poteva avvenire se non con il coordinamento di tutte le associazioni presenti, le istituzioni, la casa circondariale che hanno lavorato gioiosamente in questi ultimi due mesi portando alta l’energia di tutti. “Un grazie enorme certamente va alla piena disponibilità dell’istituzione penitenziaria, della direzione, dell’area Penitenziaria, dell’area educativa e della capo area trattamentale dott.ssa Rosetta Noto in prima linea per le attività in favore dei detenuti e le loro famiglie”. A contribuire alla buona riuscita dell’evento, anche Ergon con l’insegna ARD Discount che ha offerto un delizioso rinfresco per i presenti. Taranto. Caso di Angelo Massaro, oggi presentazione del docu-film “Peso morto” con dibattito Gazzetta del Mezzogiorno, 11 ottobre 2024 Un incontro per confrontarsi e approfondire il fenomeno degli errori giudiziari partendo da uno dei più eclatanti casi della storia italiana, quello di Angelo Massaro di Fragagnano che ha trascorso 21 anni in carcere da innocente per colpa di un’intercettazione telefonica trascritta male e interpretata peggio. Così una parola in dialetto pronunciata durante una normalissima telefonata alla moglie, diventa la prova regina dell’accusa di omicidio pur in assenza del cadavere, dell’arma e del movente. La sconvolgente storia di Angelo Massaro è raccontata in “Peso Morto”, l’emozionante documentario che, realizzato dall’associazione Errorigiudiziari.com, ripercorre i momenti chiave della sua sconvolgente vicenda umana e giudiziaria, a cui solo un processo di revisione è riuscito a porre fine, senza però cancellare le cicatrici nella mente e nel cuore del protagonista. Il docufilm sarà proiettato nell’incontro “Peso morto. Storia di un errore giudiziario” che, con ingresso libero e gratuito, si terrà alle ore 14.30 di oggi, al Cinema Ariston, in Via Abruzzo 77 a Taranto (info 3391248181). La manifestazione è organizzata dall’Ordine degli Avvocati di Taranto e dalla Scuola Forense di Taranto in partnership con l’Unione Camere Penali, l’Associazione Nazionale Forense, Ilsole24ore, la Sottosezione Taranto ANM, Uniba ed Errorigiudiziari.com. Per gli avvocati sono previsti 6 crediti FPC, di cui due deontologici. Con Angelo Massaro in sala, dopo la proiezione del docufilm si svilupperà un dibattito sugli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni nel nostro Paese, un fenomeno che ha raggiunto ormai proporzioni senza uguali in Europa: ogni anno in Italia vengono arrestati in media circa mille innocenti, al ritmo di uno ogni otto ore, per risarcire i quali lo Stato spende ogni anno circa 30 milioni di euro. Il dibattito sarà introdotto e moderato da Rosario Orlando, segretario dell’Ordine degli Avvocati di Taranto e autore del libro “L’Offesa” che narra un altro caso eclatante di errore giudiziario. Dopo i saluti di Vincenzo di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, e di. Paola Donvito, presidente della Scuola Forense di Taranto, il primo intervento sarà di Gaia Tortora, Vicedirettrice di La7 e figlia di Enzo Tortora, il conduttore televisivo vittima di uno dei più incredibili casi di errore giudiziario. Interverranno poi i giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, i fondatori di Errorigiudiziari.com che hanno scritto i testi, con il regista Francesco Del Grosso, prodotto e realizzato il docufilm “Peso morto”. Al dibattito interverranno poi Francesca Iole Garofali, Professore aggregato di Diritto processuale penale dell’Università degli Studi di Bari, Rita Romano, GIP Taranto e Presidente ANM sottosezione Taranto, Giacomo Frazzitta, avvocato - responsabile Osservatorio “Errore Giudiziario” - Unione Camere Penali Italiane, e Salvatore Maggio, avvocato difensore di Angelo Massaro. Prepariamoci agli assalti al referendum di Franco Corleone L’Espresso, 11 ottobre 2024 Grande partecipazione popolare per il quesito sulla cittadinanza. Ma il governo lo ostacolerà. Il 30 settembre scorso sono state presentate in Cassazione 637.487 firme per sostenere la richiesta di referendum sulla cittadinanza. Raggiungere e superare ampiamente in un tempo ridotto il traguardo delle cinquecentomila firme necessarie è stato un miracolo, pur se laico. Pochi, infatti, ci credevano. È il segno di una partecipazione di soggetti fuori dai circuiti della politica tradizionale, in questo caso si tratta di giovani, e in particolare di donne, dai 18 ai 42 anni. Un fenomeno che andrà analizzato e studiato. Un popolo in marcia, che meriterebbe un Pellizza da Volpedo del nostro tempo, ha fatto proprio un quesito chiaro, che riporta l’Italia a una legislazione europea, concedendo la cittadinanza a persone presenti nel nostro Paese, regolari, da cinque anni. Si parla tanto di discriminazione, di razzismo e d’improvviso la risposta all’aspirazione di una società dell’inclusione si impone con un click. Con livoroso sconcerto di alcuni politicanti che non conoscono il Paese reale e che, avvinghiati alle briciole di un potere parassitario, cercano di diffamare una nuova forma di espressione di diritti sociali che impongono una diversa agenda delle priorità. Un tempo, per fare il consigliere comunale bisognava superare la prova di alfabetizzazione, oggi si dovrebbe dimostrare di saper usare lo Spid: molti dei critici superficiali sarebbero bocciati. Coloro che oggi, grazie a una legge elettorale truffaldina, vengono eletti dalla minoranza degli elettori si ergono tuttavia a censori della pretesa facilità di raccogliere le firme online e propongono di abolire questa forma di espressione della volontà dei cittadini, che risponde a indicazioni dell’Onu, o di aumentare il numero delle firme necessarie. La verità è che non è il mezzo che decreta il successo, ma il tema e il consenso che suscita. E anche l’entusiasmo. Paradossalmente il più accanito e minaccioso nemico è un’esponente della Lega (non di Bossi) che quando ha provato a raccogliere le firme sulla giustizia non vi è riuscita né con i banchetti né con la firma digitale ed è dovuta ricorrere alle deliberazioni di cinque Consigli regionali come prevede la Costituzione. Qualche anima bella suggerisce che sia il Parlamento a cambiare la legge sulla cittadinanza, magari con la truffa dello ius scholae, facendo finta di non sapere che si tratta di una speranza impossibile. Questa maggioranza agli ordini del governo è capace solo di approvare leggi repressive, di introdurre nuovi reati, di aumentare le pene, di affollare le carceri con donne in gravidanza (peggiorando il Codice Rocco) e con coltivatori di canapa senza proprietà stupefacenti. I referendum devono ora superare il vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale e immaginiamo le pressioni del potere o le opinioni di tanti mozzaorecchi del diritto per impedire il voto del popolo la prossima primavera. Nel 2022 la decisione della Corte contro il referendum su eutanasia e cannabis impedì il cambiamento, indebolì la vita del governo Draghi e favorì la reazione. Non sappiamo se a decidere tra gennaio e febbraio sarà una Corte senza plenum (a dicembre cessano dal mandato tre giudici) o un consesso rimodellato dalle nomine meloniane: in ogni caso una decisione negativa provocherebbe delusione e rabbia e costituirebbe un colpo alla democrazia che vive di passioni e diritti. Non è il caso di scherzare con il fuoco. Sulla salute mentale in Italia c’è maggiore consapevolezza, ma ancora tanto da fare di Riccardo Bessone Il Domani, 11 ottobre 2024 Il 10 ottobre l’Oms ha istituito il World mental health day, che quest’anno si concentra sulla connessione tra lavoro e salute mentale. In Italia sono ancora molti i problemi legati a questo tema, ma questo è sempre meno un tabù. Per la giornata mondiale del 2024, l’Oms intende in particolare concentrare l’azione di sensibilizzazione sul legame che esiste tra salute mentale e lavoro. Un ambiente sano di lavoro può infatti funzionare come “un fattore di protezione” per la salute mentale. Allo stesso tempo, situazioni negative in ambito lavorativo come la stigmatizzazione, la discriminazione, la possibilità di subire molestie o violenze e molte altre cose possono invece, secondo l’Organizzazione, essere dei grossi fattori di rischio per il benessere mentale delle persone e possono influire sulla qualità della vita e di conseguenza anche sulle prestazioni di lavoratori e lavoratrici. Inoltre, alcune tendenze emerse particolarmente dalla fine della pandemia da Covid-19, hanno messo in luce come le persone, nello specifico quelle giovani, siano sempre meno disposte a dedicare tutta la loro vita alle proprie mansioni lavorative, eliminando ogni altra occasione di socialità e avendo quindi effetti negativi sulla propria salute psicologica. Già nel 2022, la stessa Oms aveva pubblicato delle linee guida per preservare la salute mentale sul luogo di lavoro, nelle quali si rendeva noto che, nel 2019, si stimava che il 15 per cento degli adulti in età da lavoro avesse dei disturbi legati alla salute mentale come ansia o depressione nel mondo. Questo prima ancora che la pandemia costringesse gran parte della popolazione mondiale dentro le proprie case, con effetti amplificatori su ansia, depressione o fatiche nella socializzazione. Nel nostro paese la salute mentale è rimasta per molto tempo un tabù, così come l’affidarsi a figure professionali come quelle di psicologi, psicoterapeuti o psichiatri per tutelare la propria condizione psicologica o per affrontare le varie difficoltà che ogni giorno si presentano nella vita di ognuno. Negli ultimi anni questo stigma è venuto sempre meno e si è diffusa molta più consapevolezza, in particolare tra i e le giovani, soprattutto appartenenti alla generazione Z. A una crescente domanda di attenzione per la salute mentale non è ancora corrisposta però un’adeguata risposta da parte delle istituzioni, soprattutto nell’ambito delle politiche pubbliche in favore di questa tutela. Nel 2022 il governo Draghi ha stanziato 25 milioni di euro per istituire un bonus per il supporto psicologico, che poteva essere usato dagli assegnatari presso i terapeuti che si fossero iscritti al programma. Vista la crescente necessità e l’attenzione sul tema, le domande sono state fin da subito tantissime, 395mila, e i fondi hanno potuto coprirne soltanto il 10,5 per cento, ovvero 41.600. Ci sono stati ritardi nei pagamenti dei professionisti e delle professioniste. Coloro che fanno terapia attraverso piattaforme online non hanno potuto aderire al programma e in generale è stato registrato un eccessivo impegno burocratico. Negli anni successivi il governo Meloni ha prima stanziato 5 milioni per il 2023 e poi 8 milioni per il 2024, a cui si sono aggiunti con un emendamento al decreto Omnibus 2 milioni nei giorni scorsi. Il risultato è stato che, a fronte di un aumento ulteriore delle richieste - 800mila in due anni -, il numero di persone che hanno potuto beneficiare dello strumento si è sensibilmente ridotto. Questo non ha fatto che rendere ancora più evidente la necessità di non ricorrere a una soluzione di emergenza come un bonus, ma di mettere in piedi soluzioni strutturali da parte dello stato. Per questo motivo alcune regioni hanno cominciato a fare delle sperimentazioni per la figura dello psicologo di base, o psicologo delle cure primarie. Il o la professionista in questione sarebbe una figura a disposizione delle Asl e delle case di comunità che lavora in comunicazione con i medici di base per intercettare i casi in cui serve un aiuto di tipo psicologico o in cui serve avere conoscenze e competenze per indirizzare le persone verso le figure professionali adatte ad affrontare i diversi casi. Ad attivarsi (con fondi ancora insufficienti) sono state in particolare Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Abruzzo, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. A livello nazionale invece una legge ancora non esiste. Varie proposte sono state presentate. A novembre scorso - quasi un anno fa - la commissione Affari sociali della Camera le ha messe insieme adottando un testo unificato, che però è poi rimasto bloccato. Inoltre, i fondi di cui si è finora parlato per finanziare questa legge, si attestano sui 20-30 milioni. Pur essendo un tipo diverso di misura, salta all’occhio il fatto che la cifra sia simile a quella inizialmente stanziata per il bonus, risultata irrisoria in confronto alla domanda. Un iter simile ha interessato l’istituzione dello psicologo a scuola, strumento messo in funzione da diverse regioni, che però ancora non vede realizzata una legislazione statale. Questo nonostante i problemi successivi alla pandemia citati sopra siano stati particolarmente pesanti per ragazzi e ragazze. Tra l’altro, fra i giovani sono in aumento i casi di pensieri e tentativi suicidari, che manifestano ancora di più un bisogno di attenzione verso il proprio stato di salute psicologica. Il tema della salute mentale va inoltre a toccare numerosi altri ambiti della vita e della società. Vanno per esempio incontro a grandi difficolta i e le caregiver, spesso donne, che portano avanti un lavoro di cura dei propri famigliari molto logorante e poco tutelato, non semplice da affrontare per lunghi periodi. Questioni di genere - O ancora, il tema si inserisce nelle questioni legate ai ruoli di genere nella nostra società. Il peso del lavoro di cura nei confronti delle famiglie e delle case, per esempio, ricade spesso sulle donne. Sono spesso le donne a lasciare il lavoro all’arrivo di un figlio o di una figlia, o ad essere licenziate nel caso di una gravidanza. A quest’ultima sono poi connessi vari rischi: la depressione post-partum, la violenza ostetrica, l’eventuale insorgenza di aborti spontanei, tra gli altri. Anche la violenza sulle donne è strettamente connessa alla salute mentale. Per esempio, oltre a crescere in una società violenta e che svantaggia le donne in modo sistemico, i ragazzi diventano adulti spesso senza saper riconoscere, leggere, interpretare e affrontare le proprie emozioni, le proprie paure e le proprie difficoltà. In molti casi la rabbia prevale quindi in situazioni di disagio ed emerge sotto forma di violenza. La situazione insostenibile delle carceri - Sempre più si parla anche di situazioni di grande difficoltà all’interno del sistema penitenziario italiano. Nelle carceri, negli istituti penali minorili, nei cpr. Quest’anno l’associazione Antigone ha dichiarato che i suicidi negli istituti di pena sono in preoccupante aumento: a metà settembre erano 72 dall’inizio dell’anno. Le case circondariali sono sempre più affollate, con condizioni di vita insostenibili, soprattutto nelle estati che stanno diventando sempre più calde. Passi avanti sono stati fatti ma ancora tanti devono essere fatti. Ciò che fa ben sperare, intanto, è una crescente consapevolezza e una sempre maggiore serenità diffusa sul parlare e affrontare queste tematiche. I prossimi passi toccano alle istituzioni. Migranti e protocollo con Tirana: le trappole dell’esternalizzazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 ottobre 2024 Con le recenti iniziative governative relative alle politiche migratorie, il Paese sta ridisegnando i contorni del diritto d’asilo e dell’accoglienza dei migranti. L’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) si erge come baluardo contro quella che definisce una “costante esternalizzazione del controllo migratorio e del diritto di asilo”, manifestatasi attraverso il Protocollo tra Italia e Albania e l’imminente apertura del centro di detenzione di Porto Empedocle come già affrontato su queste stesse pagine de Il Dubbio. Il Protocollo siglato tra Italia e Albania rappresenta un punto di svolta nelle politiche migratorie italiane. Questo accordo, presentato come una soluzione innovativa per gestire i flussi migratori, prevede il trasferimento di richiedenti asilo in territorio albanese per l’espletamento delle procedure di frontiera. Asgi ha prontamente sollevato dubbi sulla legittimità di tale pratica, evidenziando come essa possa costituire una violazione del principio di non- refoulement e del diritto dei richiedenti asilo di accedere a procedure eque sul territorio italiano. L’associazione sottolinea come questa mossa possa effettivamente tradursi in una “finzione giuridica” che tenta di eludere gli obblighi internazionali dell’Italia in materia di diritti umani e protezione dei rifugiati. La questione solleva interrogativi fondamentali sulla giurisdizione e sulla responsabilità dello Stato italiano nei confronti dei richiedenti asilo una volta trasferiti in Albania. Parallelamente, l’apertura del centro di detenzione di Porto Empedocle ha acceso un altro faro sulle politiche di gestione dei flussi migratori. Questo centro, concepito per accelerare le procedure di frontiera, è stato oggetto di aspre critiche da parte di Asgi e altre organizzazioni per i diritti umani. Le preoccupazioni principali riguardano le condizioni di detenzione, l’accesso effettivo alle procedure di asilo e la potenziale violazione del diritto alla libertà personale dei migranti. Asgi ha evidenziato come la creazione di tali centri rischi di normalizzare la detenzione dei richiedenti asilo, in contrasto con i principi fondamentali del diritto internazionale e europeo che prevedono la detenzione solo come misura di ultima istanza. Riconoscendo l’importanza cruciale del ruolo degli avvocati nella tutela dei diritti dei migranti, Asgi ha inoltre elaborato una guida pratica per i difensori. Questo documento, pur non pretendendo di essere esaustivo, offre un prezioso strumento per gli avvocati impegnati nella tutela dei diritti dei migranti, contenendo possibili eccezioni da sollevare durante le procedure di convalida dei trattenimenti, sia in frontiera che in Albania. La guida elaborata da Asgi affronta diverse questioni chiave. Essa evidenzia l’inapplicabilità della procedura di frontiera per coloro che non provengono da Paesi di Origine Sicuri o non hanno eluso i controlli di frontiera. Sottolinea come l’appartenenza a categorie vulnerabili dovrebbe escludere l’applicazione della procedura di frontiera. Mette in luce la problematica della violazione dei tempi di convalida, ovvero il mancato rispetto dei termini previsti per la convalida del trattenimento. Critica la mancanza di valutazione individuale, denunciando l’automatismo nel disporre il trattenimento senza una valutazione caso per caso. Solleva questioni di legittimità costituzionale, evidenziando potenziali contrasti con il diritto costituzionale all’asilo e al ricorso effettivo. Infine, affronta le specificità del caso Albania, trattando questioni legate alla sovranità nazionale e alla compatibilità con il diritto dell’Unione Europea. Attraverso questa strategia articolata, che combina analisi giuridica, sensibilizzazione pubblica e supporto pratico ai difensori, Asgi si pone come un attore chiave nella difesa dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo in Italia, contrastando attivamente le politiche restrittive e promuovendo un approccio basato sul rispetto dei diritti umani e delle norme internazionali. Le azioni intraprese da Asgi non solo mirano a contrastare le attuali politiche, ma anche a prevenire futuri sviluppi che potrebbero ulteriormente erodere i diritti dei migranti e dei richiedenti asilo. L’associazione sottolinea come queste misure, se non contrastate, potrebbero creare pericolosi precedenti, aprendo la strada a una progressiva esternalizzazione delle responsabilità in materia di asilo e migrazione. Inoltre, Asgi evidenzia come tali politiche rischino di minare la fiducia nel sistema di protezione internazionale, scoraggiando potenziali richiedenti asilo dal cercare protezione in Italia e potenzialmente spingendoli verso canali di migrazione ancora più pericolosi. Migranti. Salta l’impresa d’Albania. La Corte Europea cassa il progetto di Meloni di Angela Nocioni L’Unità, 11 ottobre 2024 Impossibile considerare Paesi sicuri in cui rispedire migranti Paesi che sono pericolosi per alcune categorie di persone. Inutili gli hotspot albanesi. Ora Giorgia Meloni dovrà inventarsi cosa fare dei centri di detenzione temporanea per migranti fatti costruire in fretta e furia in Albania. Perché non potrà sottoporre lì a “procedure accelerate di frontiera” i naufraghi provenienti da Paesi considerati dal governo italiano “Paesi sicuri”, destinazione d’uso per i quali quei centri sono stati costruiti. Non potrà farlo perché una sentenza della Corte di giustizia europea glielo vieta espressamente per la banale ragione che quei Paesi sicuri non sono. E perché il fatto che il governo italiano li abbia considerati d’imperio “sicuri” con l’escamotage, assai penoso, di escludere da questa valutazione alcune aree geografiche o alcune categorie di persone, è stato giudicato impossibile dalla Corte che si è trovata a dover spiegare l’ovvio: un Paese o è sicuro per tutti ed in ogni parte del suo territorio non può essere considerato tale. Quindi aver trasformato per pura prepotenza in Paesi sicuri la Tunisia, l’Egitto, il Bangladesh, il Camerun, tra gli altri, allo scopo di poter così negare il diritto a migranti provenienti da lì a vedere esaminate le loro richieste d’asilo con la procedura ordinaria, è stato inutile per Giorgia Meloni. La Corte ha anche chiarito che il giudice nazionale chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di un atto amministrativo in materia di protezione internazionale, com’è il trattenimento ai fini delle procedure accelerate in frontiera, è obbligato a rilevare d’ufficio una violazione delle norme del diritto dell’Unione relative alla designazione di Paesi di origine sicuri. È la Corte stessa a confermare che la decisione presa dai giudici del Tribunale di Catania, additati dal governo per non aver convalidato il trattenimento per le procedure accelerate nel centro ragusano di Pozzallo, era una decisione non solo corretta ma anche dovuta. Quei giudici sono stati attaccati perché non hanno convalidato i decreti dei questori che imponevano il trattenimento amministrativo in procedure di frontiera per tutti i richiedenti asilo provenienti da paesi di origine ritenuti “sicuri”. Ma non avrebbero potuto fare diversamente. La Corte spiega che non sono ammesse interpretazioni estensive (leggasi: fantasiose) delle norme. Quindi i magistrati del Tribunale di Roma, soggetti competenti nel caso dei trattenimenti in Albania, dovranno applicare la direttiva europea nel modo in cui la Corte ha stabilito. Non a piacere. Vuol dire in concreto che se viene chiesta la convalida del trattenimento di un migrante egiziano per l’esame accelerato della sua domanda è impossibile per un qualsiasi giudice italiano convalidarla, a meno di non voler violare le leggi. Il giudice italiano potrà soltanto negarla, perché l’Egitto non può essere considerato Paese sicuro. Vale lo stesso per la Tunisia, per il Camerun e per tutti quei paesi che oscenamente mesi fa il governo italiano ha infilato nella lista dei Paesi considerati sicuri. E se il governo decidesse di forzare la mano e rinchiudere comunque naufraghi nelle gabbie d’Albania, si troverà poi obbligato a portarli in Italia dove le loro richieste di asilo verranno esaminate con procedura ordinaria e nessuno potrà permettersi di trattenere i migranti durante l’esame della loro richiesta. Il governo presumibilmente brandirà in sua difesa il nuovo Patto migrazione e asilo approvato dal Parlamento Ue che riapre la possibilità di negare di fatto il diritto d’asilo, ma la formulazione normativa è completamente diversa e, secondo quanto stabilisce la Corte Ue, imporrà comunque agli Stati di riscrivere le liste dei Paesi considerati sicuri. Quel Patto però non sarà applicabile prima del giugno 2026. e da qui al giugno 2026 Giorgia Meloni dovrà inventarsi un altro sistema per raccattare voti con la propaganda sulla pelle dei naufraghi. Quando la diplomazia rinuncia al suo ruolo di Gabriele Segre La Stampa, 11 ottobre 2024 “La diplomazia è la via più lunga tra due punti”, sintetizzava il drammaturgo francese Pierre-Adrien de Courcelle a cavallo tra ‘800 e ‘900. Era l’epoca d’oro delle cancellerie europee, impegnate in raffinati balletti di alleanze e trattati tragicamente violati nelle carneficine dei decenni successivi. A distanza di oltre un secolo, dopo che molti altri patti sono stati ridotti a carta straccia, siamo ancora qui a invocare imperterriti la via della diplomazia di fronte ai cannoni. O siamo incoscienti, o ben consapevoli che le scorciatoie non promettono mai nulla di buono e che questo è l’unico percorso realmente possibile. In fondo, le ragioni storiche per fidarci della diplomazia non mancano: c’è stato un tempo non lontano in cui sembrava funzionare davvero. Durante la Guerra Fredda era più semplice dialogare con una sola controparte, ma non mancano esempi più recenti. Da dopo il 7 ottobre di un anno fa e lo scoppio del conflitto a Gaza, torna di frequente alla memoria l’immagine iconica della stretta di mano tra Rabin e Arafat. Una testimonianza carica di speranza e malinconia che ci ricorda come i miracoli della diplomazia siano possibili, per quanto effimeri. Di certo, sono molto più complicati nel mondo caotico e frastagliato di oggi, tra mille interlocutori e senza più lo strapotere della deterrenza degli Stati Uniti negli anni 90: quella stessa foto, che ritrae al centro Bill Clinton intento a benedire i due leader, certifica chi fu il vero artefice degli accordi di Oslo. Fuori da quel contesto, gli appelli alla diplomazia sembrano ormai ridotti a inefficaci imperativi impersonali: invocazioni come “si devono trovare soluzioni negoziali”, “bisogna avere il coraggio di giungere ad un accordo”, “serve che la politica torni protagonista” sono ampiamente condivisibili, ma il ragionamento si inceppa quasi sempre alla domanda conseguente: “Da dove si parte?”. Nel concreto, non si vede alcun attore con la forza di offrire una risposta tangibile, capace di sostenere davvero l’iniziativa politica e pronto ad assumersi la responsabilità di un eventuale fallimento. Ed è un guaio perché la diplomazia non è solo una disagevole via tra due punti, ma è modellata anche dagli attori che sono disposti a percorrerla. La lista di chi potrebbe farsi avanti offre qualche speranza, ma suscita al contempo grande sconforto. Gli Usa non sono più il poliziotto del mondo. Pur rimanendo l’attore geopolitico più rilevante, sono sempre più demotivati e incapaci di proiettare la propria potenza con efficacia. La Cina tenta di mostrarsi cauta e responsabile, ben consapevole che i suoi molteplici interessi globali non le conferiscono ancora una voce politica pienamente autorevole. La Russia, con l’invasione dell’Ucraina, ha scelto una via alternativa alla diplomazia, mentre l’India non appare per ora pronta ad assumere un ruolo determinante. Ai margini restano l’Onu, incapace di rivendicare il ruolo che le compete per statuto, e l’Europa, che, al di là di accorati appelli e dichiarazioni di condanna, appare ogni giorno più evanescente. La verità è che oggi nessuno è pronto a farsi carico di alcuna iniziativa diplomatica perché le vie lunghe non sono più di moda in un mondo che non riesce neanche a immaginare dove sarà domattina. Ogni pace invece non richiede soltanto tempo, ma anche la capacità di combinare forza e visione progettuale: deve essere tanto pragmatica e risoluta nel breve termine quanto idealista e concreta sul lungo periodo. Si tratta di un cammino instabile e faticoso, per il quale bisogna essere pronti a sporcarsi le scarpe nel tentativo di battere un sentiero percorribile per quanto non ideale. La fine dei combattimenti può essere persino la tappa più semplice da raggiungere, ma la tregua non basta per la pace. È necessario intravedere già il passo successivo al cessate il fuoco, e poi quello dopo ancora e ancora, fino a che uccidere il nemico non sembrerà più l’unica strada possibile. La vera “via della diplomazia” unisce tutti questi pezzi del percorso, fino a rendere concepibile la ricostruzione di un futuro comune. In molti, tuttavia, preferiscono scegliere rotte più chiare e immediate. Ad esempio, avanzando previsioni che si abbandonano al pessimismo più catastrofista, alimentando una paura tanto angosciante quanto improduttiva. Oppure, all’opposto, accettando di considerare la guerra come un “fastidio abituale”, una condizione endemica e sopportabile fino a quando il logoramento la renda insostenibile per uno dei contendenti. Si tratta di alternative nefaste, non solo per chi nel conflitto è coinvolto direttamente: rinunciare al percorso della diplomazia vorrebbe dire infatti rinunciare a un altro dei fondamenti dell’Occidente, forse l’ultimo che ci è rimasto. Corsa agli armamenti. “Un Trattato internazionale contro le armi autonome letali” di Luca Liverani Avvenire, 11 ottobre 2024 La società civile contro i killer robots, armi guidate dall’AI. Amnesty: “Finiranno in mano a mercenari e jihadisti”. Archivio disarmo: “Più guerre con l’illusione di zero perdite”. “Un robot non può recare danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno”. Il padre della fantascienza Isaac Asimov già nel 1950, immaginando potenzialità e rischi di un futuro robotizzato, proponeva nei suoi romanzi la “prima legge della robotica”. Da allora la scienza e la tecnologia hanno fatto progressi enormi. La legge sui robot è ancora solo fantascienza. Da anni la ricerca militare studia armi letali autonome - in inglese LAWS (Lethal autonomous weapons systems) - per selezionare e distruggere il bersaglio senza controllo umano. Terminator, il film del 1984, raccontava di un cyborg assassino. E Stop killer robots è il nome della campagna internazionale - 250 organizzazioni della società civile mondiale - che chiede un Trattato internazionale. Un tema attualissimo (in Ucraina e a Gaza le sperimentazioni sono sul campo) di cui si discute oggi pomeriggio a Roma, alla facoltà di Scienze politiche della Sapienza, al convegno “Intelligenza delle macchine e follia della guerra: le armi letali autonome”, organizzato da Archivio Disarmo e da Rete italiana pace e disarmo, assieme alla Campagna internazionale, Amnesty International, Croce Rossa italiana e Etica Sgr. Tra gli interventi, anche Peter Asaro, numero due di Stop killer robots. L’obiettivo immediato è sostenere l’approvazione, alla sessione di ottobre dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite della risoluzione sulle armi autonome. Promossa dall’Austria come capofila di altri stati, segue quella analoga del 2023 votata da 164 stati, 5 contrari (Bielorussia, Russia, India, Mali e Niger) e 8 astenuti (Cina, Corea del Nord, Iran, Israele, Arabia Saudita, Siria, Turchia e Emirato arabi). Consolidare un ampio fronte politico come tappa verso un Trattato giuridicamente vincolante. L’attenzione dell’Italia, oltre che dal sì alla risoluzione nel 2023, è testimoniata anche dal fatto che i promotori del convegno sono stati ricevuti l’8 ottobre al Quirinale dal presidente Sergio Mattarella. Richiami accorati a una regolamentazione delle LAWS sono arrivati più volte anche da Papa Francesco. A giugno, al G7 in Puglia, ha definito “urgente ripensare lo sviluppo e l’utilizzo di dispositivi come le cosiddette “armi letali autonome” per bandirne l’uso”. Concorda il professor Fabrizio Battistelli, presidente di Archivio Disarmo: “L’intelligenza aritificiale (AI) è un fattore potente e rivoluzionario che, come sempre, può portare grandi progressi o rischi inauditi. A cominciare dalle responsabilità in campo militare, strategiche e tattiche. Strategicamente le LAWS possono rendere più facile lo scatenarsi dei conflitti, saltando l’ostacolo principale, almeno nelle democrazie rappresentative, cioè le perdite umane dei propri eserciti. La resistenza delle opinioni pubbliche per i governi è ancora un freno. È l’illusione delle “perdite zero”“. Dal punto di vista tattico poi, ragiona Battistelli, “un’arma con AI è in grado di riconoscere un nemico identificato, non di distinguere un miliziano confuso tra i civili. I rischi sono enormi. E senza più responsabilità umana. È urgente creare norme internazionali come già fatto per le armi biologiche, chimiche, per le mine antipersona”. Concorda Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: “C’è una pericolosa sottovalutazione dell’impatto che l’AI può avere sull’automazione dei conflitti. Grande è il ritardo normativo. L’UE ha prodotto nel 2021 un pronunciamento non particolarmente vigoroso. Ora con l’Assemblea NU c’è l’occasione di dare seguito alla prima risoluzione, più che altro espressione di una preoccupazione internazionale. È necessario un passo avanti, per arrivare a un trattato vincolante. Come l’Att sul commercio internazionale di armi: anche se non abbastanza rispettato, afferma un principio fornendo un appiglio legale”. Togliere all’uomo la decisione finale sull’uso delle armi apre a esiti imprevedibili, sottolinea Noury. “Chi avrà la responsabilità? Il ministero della Difesa? L’azienda produttrice? E se queste tecnologie finiranno nelle mani di gruppi non statali? Miliziani, jihadisti, mercenari? Sulla proliferazione delle armi autonome va posto un tabù”. Medio Oriente. L’atto di accusa Onu: “Sterminio a Gaza” di Nello Del Gatto La Stampa, 11 ottobre 2024 Il Consiglio per i diritti umani lancia nuove durissime accuse: “Omicidi e torture nei Territori”. Le tensioni sono al massimo, Unwra nel mirino dello Stato ebraico, Guterres persona non grata. Israele ha commesso a Gaza e in Cisgiordania crimini di guerra. È questo il succo del rapporto, reso noto ieri, della commissione indipendente internazionale istituita nel luglio del 2021 dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, per indagare sulle violazioni dei diritti nei Territori Palestinesi. Nel documento di 24 pagine, sono stati analizzati diversi casi di violazione da parte dell’esercito israeliano soprattutto a Gaza. Uno dei più eclatanti è quello dell’omicidio di Hind Rajab, di cinque anni, insieme alla sua famiglia, e sul bombardamento dell’ambulanza della Mezzaluna Rossa palestinese inviata a salvarla. I tre membri della commissione non hanno dubbi sulle responsabilità israeliane del caso, come sulle violazioni commesse sui detenuti, compresi minori, torturati anche sessualmente nelle carceri israeliane. Molta parte del rapporto riguarda la sistematica distruzione del sistema sanitario a Gaza, provocando gravi danni alla popolazione civile. “Israele deve immediatamente fermare la sua distruzione gratuita e senza precedenti delle strutture sanitarie a Gaza”, ha affermato Navi Pillay, presidente della Commissione. “Prendendo di mira le strutture sanitarie, Israele sta prendendo di mira il diritto alla salute stesso con significativi effetti negativi a lungo termine sulla popolazione civile. I bambini in particolare hanno sopportato il peso di questi attacchi, soffrendo sia direttamente che indirettamente per il crollo del sistema sanitario”. Nei 110 paragrafi del rapporto, che sarà presentato il 30 ottobre all’Assemblea generale dell’Onu, gli ultimi due sono dedicati agli ostaggi israeliani a Gaza, il cui rapimento, oltre che gli stupri, le violenze e le torture da parte di Hamas e degli altri gruppi palestinesi, per la commissione sono pure crimini di guerra. Per il momento Israele non ha commentato il rapporto, ma alcune fonti lo ritengono un altro punto del fronte di scontro con il palazzo di vetro, culminato nella dichiarazione, da parte del Paese ebraico, del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, di persona non gradita, impedendogli quindi, come già successo alla maggior parte dei funzionari Onu, l’ingresso nel paese. L’Onu di Guterres viene accusata da Israele di utilizzare atteggiamenti anti israeliani. Molti funzionari Onu hanno anche negato le violenze sessuali sulle donne israeliane il 7 ottobre o non hanno condannato apertamente Hamas. Dopo l’attacco dell’Iran, Guterres fu accusato di non aver denunciato chiaramente Teheran dei missili. Ma è con l’Unrwa che Israele ha un conflitto aperto da anni. Nei libri scolastici diffusi nelle scuole dell’organizzazione dell’Onu per i rifugiati palestinesi, Israele non esiste e il Paese ebraico ha da sempre accusato l’agenzia di favorire il fondamentalismo e l’antisemitismo. Inoltre, l’Unrwa sarebbe una copertura per molti affiliati ad Hamas, come per Israele è emerso durante la guerra a Gaza e in Libano. Qui è stato ucciso il capo locale di Hamas a Tiro, che era anche il preside di una scuola Unrwa e responsabile del sindacato dei docenti in Libano. L’esercito ha denunciato che Hamas usa le scuole dell’agenzia come basi di stoccaggio di armi, postazioni di lancio di razzi e centri di comando. Per questo, ha spinto per il blocco dei finanziamenti all’agenzia. Il parlamento israeliano ha già passato in prima lettura una legge per dichiarare l’Unrwa organizzazione terroristica. Nonostante questo, l’Unrwa è tra i candidati al Nobel per la pace, premio contro il quale Israele sta facendo pressioni informali. La nomina ha provocato l’ira dei familiari delle vittime e degli ostaggi del 7 ottobre, in particolare di Ayelet Samerano il cui figlio Yonatan fu ucciso e il cui corpo fu portato a Gaza da un dipendente dell’agenzia Onu. “L’Unrwa è stata fondata sui principi dei diritti umani e dell’umanità. Tuttavia, questo non è chiaramente il caso dell’Unrwa come la conosciamo ora. Stiamo parlando di un’organizzazione che ha preso parte attivamente all’omicidio, allo stupro e al rapimento di persone innocenti. È inconcepibile che un’organizzazione del genere possa essere candidata a un premio così importante come il Nobel per la pace che dovrebbe essere assegnato a coloro che promuovono la pace e spingono per gli aiuti umanitari, non a coloro che partecipano ad azioni che sono l’esatto opposto di umanità”, ha detto la donna in conferenza stampa. Anche l’Unifil, la forza di interposizione in Libano, è criticata da Israele, per non aver vigilato che Hezbollah si attestasse e militarizzasse il sud del Paese sotto il fiume Litani, venendo meno a quanto richiesto dalla risoluzione 1701 dell’Onu. Medio Oriente. L’attacco all’Unifil, Netanyahu ha superato i limiti. Ora si fermi di Riccardo Redaelli Avvenire, 11 ottobre 2024 Non è stato un errore. Non è stato un incidente né una fatalità. L’attacco attuato da Israele alle postazioni della missione Unifil, la forza di peacekeeping svolta sotto mandato Onu e che vede protagoniste Italia e Francia, è stato un atto voluto e deliberato, che ha provocato il ferimento di due soldati indonesiani. Un’aggressione che avrebbe potuto portare a conseguenze molto gravi anche per i nostri soldati, i quali dal 2006 garantiscono che Israele e Hezbollah non vengano nuovamente a contatto, dopo la tragica guerra dei trentatré giorni di quell’anno. Un’azione che sarebbe ingannevole limitarsi a catalogarla come una “follia” delle forze armate israeliane. È molto di più: attaccare una missione internazionale Onu è un crimine di guerra. E purtroppo, è doloroso doverlo ammettere, non sembra essere neppure il primo commesso da Israele in questo anno di vendetta dopo l’orribile strage del 7 ottobre. Sembra quasi che - sull’onda dei successi militari - il governo e i vertici militari dello Stato ebraico abbiano perso ogni freno inibitore, travolti da una volontà di continuare il conflitto e di allargarlo alla regione: ieri la distruzione di Gaza e gli assassinii mirati all’estero, poi i bombardamenti indiscriminati in Libano e le sfide continue alla Repubblica islamica, quasi ad invitarla a reagire - come ha in effetti fatto -, ora l’entrata con le truppe di terra nel fragile “paese dei cedri” e infine l’attacco a Unifil. In molti pensano che si sia trattato di una sorta di avvertimento, che a noi italiani suona molto in “stile mafioso”, per far sloggiare dalla frontiera le nostre truppe e avere mano libera nell’invasione del Libano del Sud. Una richiesta fatta già da qualche giorno in modo rude - “spostatevi più a nord” - e alla quale il comando Unifil ha risposto negativamente. Del resto, il contingente Onu non prende ordini da un governo che è parte in causa nel conflitto, anche se si tratta di un Paese amico come Israele. Ma quale che fosse l’intento di questo attacco, è chiaro che Netanyahu ha superato ogni limite. Ora basta: non vi sono alternative a fermare subito le armi. E non vi devono essere ambiguità e discorsi levantini anche fra i nostri alleati in Occidente: è tempo di massimizzare la pressione su Tel Aviv per forzarli a fermare questo conflitto sanguinosissimo. Washington ha gli strumenti, se solo li volesse usare, per fermare la deriva bellicista di Israele: ossia bloccare - come già richiesto dal presidente francese Macron - l’invio di armi al Paese. Non si tratta di togliere sostegno o di “abbandonare” lo Stato ebraico; piuttosto, è il tentativo estremo di evitare una spirale insensata di morti e violenze, per riprendere i negoziati per una tregua. Che finora Netanyahu ha sempre boicottato, anche a costo di lasciare gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas al loro terribile destino. Cosa faranno l’Italia e le altre nazioni impegnate in Unifil è difficile da prevedere. Per ora si resta, ha detto il governo italiano, anche perché smobilitare una missione ventennale nel mezzo di un conflitto è tutto tranne che semplice o privo di pericoli. Ma restare significa anche dare un segnale che l’Onu, per quanto indebolito, non cede alla protervia che sembra aver intossicato il governo israeliano. E difendere il ruolo delle Nazioni Unite è fondamentale, soprattutto ora che il suo Segretario generale, António Guterres, viene considerata persona non grata e che Israele minaccia di mettere al bando l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa). Una minaccia insensata, dato che su di essa si basa la distribuzione degli aiuti - quei pochi che si riesce a far arrivare - alla stremata popolazione civile di Gaza. È tempo di pace in Terra Santa. È tempo di riporre le armi e siglare una tregua che possa portare a uno stop definitivo del conflitto. Ma è anche tempo di assumersi le responsabilità a Washington e in Europa, per parlare a Israele come solo gli amici possono fare. Per dire che tutti i limiti sono stati infranti e che è ora di fermarsi. Subito.