Facciamo luce sulla salute nelle carceri di Marco Perduca e Peppe Brescia* L’Unità, 30 novembre 2024 Dopo le diffide alle Asl sulle condizioni igienico-sanitarie, ecco gli accessi agli atti e un sito per le segnalazioni anonime da parte di chi può accedere ai luoghi di detenzione. Malgrado quest’anno il numero di detenuti abbia superato i 62.000, e i suicidi in carcere siano 83, il dibattito politico nazionale ha archiviato l’illegalità delle carceri e le proposte per metterci una toppa. Il combinato disposto di un circuito detentivo che prevede una capienza regolamentare di poco più di 45.000 persone e la carenza cronica di assistenza sanitaria per la salute mentale stanno protraendo l’illegalità della detenzione in Italia e i suoi trattamenti inumani e degradanti. Nell’agosto scorso, l’Associazione Luca Coscioni ha diffidato le 102 Asl competenti per la salute nelle 189 carceri ad adempiere al proprio ruolo di fornitrici di servizi sanitari e di monitoraggio delle condizioni degli istituti. Come previsto dalla legge, sta infatti alle aziende sanitarie garantire le condizioni igienico-sanitarie nei luoghi di detenzione con presenza di personale specializzato e (almeno) due sopralluoghi all’anno finalizzati a segnalare eventuali carenze di igiene e profilassi ravvisate nelle strutture. Le diffide inviate il 9 agosto ricordavano che “la responsabilità per la mancata applicazione e/o i ritardi nell’attuazione delle misure previste per lo svolgimento dell’assistenza sanitaria penitenziaria sono imputabili al Direttore Generale della Asl”. A tre mesi da quella messa in mora, nonostante il termine previsto per l’evasione della richiesta fosse fissato a 30 giorni, meno della metà delle Asl hanno fornito risposta. In molti casi le Aziende sanitarie si sono limitate a presentare la carta dei servizi offerti - redatta con l’amministrazione penitenziaria - condividendo quindi informazioni insufficienti a stabilire la qualità delle azioni effettivamente realizzate nonché le condizioni di vita negli istituti. Alla diffusa genericità delle risposte ottenute si sommano poi ritardi burocratici per scarsa efficienza amministrativa. Anche un recente lavoro di contatti telefonici con le direzioni delle Asl ha generato un rimbalzo di pec non rintracciabili, protocolli mancanti, pratiche smarrite, mentre il semplice contatto con un dirigente responsabile è risultato difficoltoso se non impossibile, restituendo un apparato burocratico lontano dall’attuazione di un’efficace ed efficiente transizione digitale, figuriamoci del godimento del diritto alla salute in carcere. A fronte del silenzio istituzionale e delle relazioni problematiche con le Asl, l’Associazione Luca Coscioni ha quindi predisposto 102 richieste di accesso agli atti per ottenere: la relazioni delle visite, eventuali linee guida sul modo con cui queste vengono effettuate, la lista delle istituzioni a cui sono stati inviati i resoconti e le eventuali risposte. Infine dalla settimana prossima al sito FreedomLeaks.org sarà possibile fare segnalazioni anonime e protette relative a quanto visto da chi ha accesso alle carceri. *Associazione Luca Coscioni Questo carcere è fuori dalla Costituzione. Ora diventi laboratorio di speranza Giovanni Maria Flick Il Dubbio, 30 novembre 2024 Riportiamo di seguito la sintesi della relazione introduttiva che il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick ha pronunciato lo scorso 22 novembre a Regina Coeli in occasione del 55° Convegno nazionale del Seac - Coordinamento dei gruppi di volontariato penitenziari. *** Prendere la parola oggi mi fa sentire un po’ come tornare a casa, a quei luoghi frequentati trent’anni fa nel tentativo di promuovere una riforma del carcere. Non sempre ci siamo riusciti, e ancora oggi dobbiamo combattere per trasformarlo. Avevo preparato una traccia per parlare di volontariato in carcere e del tema del “carcere della Costituzione”. Tuttavia, mi sono reso conto che questa traccia non funziona. Non possiamo parlare di un “carcere nella Costituzione”, perché semplicemente non esiste. Non esiste un carcere che incarni pienamente i principi costituzionali. Il carcere della Costituzione è come un’isola che non c’è: un luogo ideale, un obiettivo ancora lontano, ma essenziale per affrontare seriamente questo problema. Dobbiamo piuttosto parlare del carcere di fronte alla Costituzione o fuori da essa. Recentemente, ho riflettuto su due aspetti che mi hanno colpito. Da un lato, le notizie che giungono dalle carceri italiani, come Trani o Santa Maria Capua Vetere, dove emergono a ripetizione vicende di violenze e abusi che calpestano la dignità umana. Dall’altro, il libro di Papa Francesco La speranza non delude mai, che traccia un cammino verso il Giubileo, non solo come evento religioso, ma come percorso di rinnovamento della fede e della speranza. Il Papa ci ricorda che le carceri devono diventare “laboratori di speranza”. Eppure, le nostre carceri sono ancora sovraffollate, colme di poveri e vittime di ingiustizie sistemiche. Come sottolinea il Papa, spesso il sistema penale preferisce imprigionare invece di affrontare le cause profonde della criminalità. Nonostante le parole e i tentativi di riforma, siamo ancora lontani dal garantire condizioni umane e dignitose. Si continua a chiedere maggiore sicurezza, ma questa viene declinata come “sicurezza pubblica” nel senso tradizionale e non “sicurezza sociale”, senza un reale impegno per combattere esclusione e disuguaglianze. È più facile punire i deboli che affrontare i problemi strutturali. Un recente disegno di legge per intervenire sulla situazione drammatica del carcere, ad esempio, include disposizioni per sostenere la polizia penitenziaria, giustamente, ma introduce anche norme apparentemente scollegate, come la reintroduzione del peculato per distrazione al posto dell’abrogato delitto di abuso d’ufficio. Viene da chiedersi: ha davvero senso, in questo contesto, aggiungere un nuovo reato? È il momento di riflettere sulle vere priorità. Il Papa ci invita a “tenere aperta la finestra della speranza”, sia per i detenuti come singoli, sia per il sistema nel suo complesso. Ma la realtà che vediamo è diversa: sovraffollamento, carceri come luoghi di esclusione sociale, mancanza di progetti di reinserimento. Non basta costruire nuove strutture: occorre cambiare il modo in cui riempiamo quelle esistenti, mettendo al centro le relazioni, la dignità, l’affettività. Occorre considerare accanto alle relazioni le altre due componenti dell’identità della persona: quella temporale (il suo passato e il suo futuro); e quella spaziale (la sua privacy e il suo spazio vitale) emblematizzate nella “ora d’aria”. Un esempio significativo è la recente sentenza della Corte costituzionale che riconosce il diritto all’affettività per i detenuti. Questo diritto non riguarda solo i legami personali, ma tutte le relazioni che possono favorire il reinserimento sociale. Tuttavia, siamo ancora lontani da una reale trasformazione: il numero di suicidi in carcere cresce, e le risposte istituzionali restano insufficienti. Non possiamo dimenticare l’importanza del volontariato, che rappresenta quella “finestra” attraverso cui chi sta fuori può vedere e comprendere il carcere, e chi sta dentro può prepararsi al ritorno nella società. Ricordo i miei primi passi da ministro, quando affrontai i conflitti tra volontariato e personale di custodia. Fu chiaro allora, come oggi, che senza volontari il carcere rischia di perdere quella dimensione umana indispensabile per la rieducazione e prima ancora per la sopravvivenza. Occorre promuovere la cultura in carcere: l’accesso al sapere, alla formazione, al patrimonio storico-artistico. Non possiamo accettare logiche che negano questi diritti, come accaduto in un caso che ho seguito come avvocato alla Corte di Strasburgo. Un detenuto si era visto negare la detenzione domiciliare non solo per mancanza dei presupposti, ma con la motivazione aggiuntiva che, avendo conseguito una laurea e un master, era diventato “più pericoloso”. Una logica aberrante, che rischia di scoraggiare ogni percorso di crescita. Il Papa ci ricorda che non c’è giustizia senza misericordia. La solidarietà, l’uguaglianza e la valorizzazione della diversità sono i principi su cui deve fondarsi il volontariato. Non si tratta solo di tamponare le carenze del sistema, ma di mediare, proporre e costruire percorsi concreti di riforma. Tuttavia, non possiamo limitarci a belle parole: abbiamo sprecato troppe occasioni, come gli “Stati generali” del carcere, che si sono persi in discussioni accademiche senza portare a veri cambiamenti. Dobbiamo trovare un equilibrio tra sicurezza, prevenzione e rieducazione. Eliminare gli automatismi legislativi che ostacolano il trattamento personalizzato. Imparare dalle lezioni della pandemia, che ha messo in luce quanto sia fragile il sistema attuale. Non basta aumentare lo spazio fisico delle carceri: serve costruire un tessuto relazionale che promuova dignità e speranza. In conclusione, il carcere deve essere un luogo dove si coltiva il futuro, non un limbo dove si soffoca la vita. La sfida è enorme, ma non possiamo permetterci di perdere la speranza. Il Giubileo può essere un’occasione per ripensare il nostro sistema penitenziario, partendo dai principi della Costituzione e dall’appello del Papa: fare del carcere un vero “laboratorio di speranza”. Stranieri in carcere: quando l’irregolarità genera esclusione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 novembre 2024 Gli stranieri, nel carcere, rappresentano in media il 30 per cento dei detenuti. Se si va ad analizzare le loro storie, la maggior parte di essi si trova in carcere per avere commesso reati legati in qualche modo alla loro condizione di estrema precarietà sociale. In sostanza sono gli “irregolari”. Perdendo il permesso di soggiorno, entrano nell’invisibilità e per sopravvivere ricorrono all’illegalità. Due giorni fa, la Camera ha approvato il cosiddetto “decreto flussi” che, secondo la campagna Ero Straniero, non fa altro che produrre più irregolarità. L’organizzazione ha sottolineato con fermezza l’assenza di modifiche sostanziali che avrebbero potuto migliorare un sistema definito “scassato” anche dal sottosegretario Mantovano. Gli emendamenti proposti, volti a scardinare un meccanismo rigido e inefficace per l’ingresso dei lavoratori stranieri, sono stati sistematicamente respinti. I punti più critici riguardano principalmente tre aspetti: l’impossibilità di superare il controverso “click day”, il mancato riconoscimento di percorsi di regolarizzazione per chi già si trova sul territorio nazionale, e l’assenza di misure concrete per proteggere le vittime di un sistema che rischia di generare invisibilità e precarietà. Particolarmente significativa è la situazione di migliaia di persone che, pur essendo entrate regolarmente con decreti flussi e avendo anche lavorato temporaneamente, rischiano ora di diventare irregolari. La mancata approvazione di emendamenti che avrebbero consentito il rilascio di permessi di soggiorno per ricerca occupazione rappresenta un grave limite. I minimi interventi correttivi introdotti - come il tetto massimo alle domande per datore di lavoro, tempi più lunghi per la pre-compilazione e maggiori controlli incrociati - vengono considerati insufficienti a modificare strutturalmente un meccanismo ormai obsoleto. La proposta di Ero Straniero La campagna ha elaborato un progetto di riforma del Testo Unico Immigrazione, non accolto nemmeno in parte, che muove da una visione profondamente diversa, cercando di abbattere i muri burocratici che oggi rendono impossibile un’immigrazione regolare e sostenibile. L’architrave della proposta poggia su due pilastri fondamentali: da un lato, ripensare radicalmente i canali d’ingresso per lavoro, dall’altro aprire strade concrete per la regolarizzazione di chi già vive e lavora sul territorio nazionale. Non più una logica emergenziale e securitaria, ma un sistema che riconosca la complessità dei percorsi migratori e le reali esigenze del mercato del lavoro. Sul primo fronte, Ero Straniero immagina meccanismi di ingresso totalmente innovativi. Primo tra tutti, un sistema di assunzione “a chiamata” che sovvertirebbe l’attuale impianto delle quote. I datori di lavoro potrebbero finalmente chiamare personale dall’estero senza i vincoli temporali e settoriali che oggi ingessano il sistema, rispondendo in modo tempestivo ed elastico ai bisogni produttivi reali. Accanto a questo, la proposta di un permesso di soggiorno per ricerca lavoro con sponsor aprirebbe nuovi corridoi di mobilità, permettendo l’ingresso in Italia attraverso un meccanismo di accompagnamento e supporto. Ma è sul fronte della regolarizzazione che il progetto raggiunge la sua massima profondità strategica. Non più sanatorie una tantum, ma percorsi permanenti e individuali che riconoscano il valore delle persone. Un meccanismo che consentirebbe la regolarizzazione per chi già lavora ma è privo di documenti, basato su requisiti chiari e misurabili: una presenza sul territorio di almeno sei mesi, un contratto di lavoro serio, un reddito che garantisca dignità. E accanto a questo, un canale che tenga conto del radicamento sociale, delle radici costruite nel tempo, pur mantenendo le necessarie garanzie di sicurezza. Ero Straniero rilancia dunque la necessità di un approccio innovativo, che preveda canali di ingresso più flessibili, l’introduzione di figure come lo sponsor, permessi di ricerca lavoro e meccanismi di regolarizzazione individuali, sempre accessibili. Un appello chiaro alle istituzioni: superare logiche emergenziali e quote rigide, guardando finalmente a una gestione dell’immigrazione basata su diritti, opportunità e reale integrazione. Un progetto che sfida l’attuale paradigma, cercando di trasformare l’immigrazione da emergenza a opportunità, da problema a risorsa. E ciò significa più sicurezza e meno stranieri in carcere. La giustizia intimidita dall’ideologia al potere di Montesquieu La Stampa, 30 novembre 2024 Fin dalle prime lezioni di diritto costituzionale, nel primo anno di giurisprudenza, si fissa il principio della divisione dei poteri come principio guida nel passaggio dallo Stato assoluto a quello liberale, sullo sfondo dell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino. Questo sanno, almeno, quanti hanno seguito quel corso di studi; questo dovrebbero sapere i tantissimi connazionali che hanno avuto una esperienza parlamentare, capi dei partiti in testa. Questa banale premessa diventa meno banale se si considera che nel declinante anno in corso corre l’anniversario di una trentennale, furibonda battaglia politica che ha per oggetto non tanto l’adesione al principio, quanto la formidabile attuazione che ne hanno dato i nostri padri costituenti. Data di inizio il 1994, dopo quarant’anni di proficuo e pacifico sistema incentrato sul parlamento, capace di ovviare a una impossibile alternanza alla guida del governo per le fratture internazionali della guerra fredda. Grazie alla presenza e alla collaborazione, nelle nostre Camere, di due grandi partiti costituzionali, l’uno sempre, l’altro mai al governo: la democrazia cristiana e il partito comunista. Da allora, percorrendo con eccesso di sintesi fenomeni come Tangentopoli e Mani pulite, con contorno di partiti dissolti ed elettorati orfani in libera offerta, nasce quella che chiamiamo, per comodità e apparenza, seconda Repubblica. Due i poteri da scardinare da parte del partito e contestuale governo berlusconiano, piombato in campo a dichiarata difesa e potenziamento di un impero a un tempo economico e soprattutto mediatico: il primo, proprio la centralità del Parlamento, messa dai Costituenti ad ostacolo deliberato di un incontrollato potere decisionale governativo. In subordine solo apparente, il potere pregnante del sistema pubblico radiotelevisivo, ostacolo politico e giuridico allo sviluppo competitivo di quel potere mediatico privato. Il quarto potere: il più ambito per il raggiungimento di quelli politici. Il parlamento deve passare sotto il controllo pieno del governo: ed è la stagione della “privatizzazione” delle Camere, uno snaturamento che tocca il suo livello estremo, al limite della sovversione costituzionale, con la nomina di legali, e diretto dipendenti, del capo del governo alla guida delle commissioni Giustizia delle Camere. Prodromo delle legittimamente famigerate leggi ad personam. È esploso il contrasto più violento, tra potere politico e potere giurisdizionale. Contrasto che ne crea un altro, quello del potere politico con il potere di garanzia del capo dello Stato, mirabile invenzione dei costituenti, di cui non si sopporta il ruolo di regia e decisione nella formazione dei governi, fino alla nomina dei ministri (qualcuno ricorderà il caso Previti/Scalfaro); e quello di promulga delle leggi, per intuibili motivi. Un quadro a tinte forti, con una precisazione necessaria: nella strategia, senza remore, del Cavaliere, manca un sottofondo ideologico minaccioso per gli assetti istituzionali, e quindi un pericolo concreto di concorrenza costituzionale formale. Il livello è quello di abitudini costituzionali materiali: che non siano state poi nel tempo rimosse le catene che hanno bloccato e umiliato le Camere, è colpa precipua dell’inerzia delle opposizioni costituzionali. Per convinzione di stabilità complessiva, e per non elegante convenienza nei propri turni di governo. Ed ora, l’oggi. La odierna coalizione di destra, all’apparenza fotocopia dell’originario centrodestra, assomma questi tratti distintivi: un forte tasso di ideologia assente nel pragmatismo berlusconiano. La stessa ideologia che portò il partito avo dell’odierno presidente del Consiglio a una naturale incompatibilità costituzionale. In parte subita, in parte non minore strutturale, mai dismessa. Quindi, la revisione costituzionale come marchio distintivo, assente nella precedente versione di centrodestra: come emerge dagli obiettivi prioritari di questa coalizione di governo. Ancora: una inedita intolleranza per le posizioni ostili nella comunicazione, fino allo scontro individuale, giurisdizionale, tra il capo della coalizione e singoli esponenti di area di opposizione. L’assalto, massiccio, ai posti chiave del servizio pubblico, senza la disposizione di una classe giornalistica predisposta allo scopo. Infine, davvero preoccupante, democraticamente, l’intimidazione al potere giudiziario, senza l’alibi di una legittima difesa emozionale. Sullo sfondo, un quadro costituzionale alternativo, lo sguardo girato all’indietro. Chi può e deve, chi ha prerogative di garanzia, chi ha a cuore la “nostra” Costituzione, ha motivo e materia di riflessione profonda. La crisi del diritto e della politica generano le fughe creative dei magistrati di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 30 novembre 2024 Da varie settimane imperversa una polemica sui migranti in Albania tra il governo e i partiti, tra i politici e i magistrati, polemica insulsa e fuori luogo, e invece a Torino ad un convegno indetto dalla Corte dei Conti sul “principio di legalità” Alfredo Mantovano, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ha toccato da par suo temi importanti e fondamentali che riguardano il rapporto tra i poteri dello Stato. Diciamo subito che le grandi questioni da lui affrontate fanno giustizia di tutte le approssimazioni italiane e anche di quelle di oltre atlantico di Elon Musk, che chiede di “cacciare i giudici” non utili, il che dimostra la ignoranza e la slealtà costituzionale di tanti rappresentanti del popolo. Personalmente ho posto il problema del ruolo dei magistrati e del giudice sin dagli anni 70 che in un sistema costituzionale “multilivello” non può essere configurato come “ordine” soggetto solo alla legge, come vuole la Costituzione ma configura un “potere”. La conseguenza di questa profonda modifica è che è necessario pigliarne atto e regolare in maniera diversa la sacrosanta indipendenza del giudice in rapporto con una necessaria responsabilità istituzionale. Era questo ed è questo il tema vero che è al fondo di una qualunque riforma della giustizia di cui tanto si parla e la sua mancata soluzione crea una disarmonia e un forte squilibrio di poteri che naturalmente si aggrava nel rapporto con l’Europa sovranazionale. Sul piano europeo Mantovano osserva che “il principio di legalità di fronte a un costituzionalismo “multilivello”, cioè alla compresenza di fonti del diritto nazionale e sovranazionali, è stato messo in crisi e ha osservato che non c’è equivalenza tra il sistema nazionale, in cui la legalità nasce da provvedimenti approvati da un Parlamento che ha una diretta derivazione elettorale dalla “sovranità popolare”, e quelli sovranazionali, in particolare quello europeo. “In questo ambito”, ne deduce, “il principio di “legalità” si è trasformato in principio di “giuridicità”. E il tema della “moltiplicazione delle fonti, se non viene affrontato con saggezza ed equilibrio, rischia di porre in discussione i pilastri su cui fondano le Costituzioni degli Stati”. Mantovano osserva che questa contraddizione provoca “conflitti tra la Corte di giustizia dell’Ue e le corti costituzionali di alcuni stati”. E si pone una domanda: cosa significa in questa situazione contraddittoria dire che “i giudici sono soggetti solo alla legge?”. “L’unica soluzione per evitare il cortocircuito”, spiega, “è l’autolimitazione, il self-restraint, che avrebbe l’effetto di “evitare la giurisprudenza creativa: perché creativo, nei limiti della Costituzione, può essere il legislatore, non il “giudice”. Sono concetti sacrosanti sui quali andrebbe fatta da politici avveduti e da magistrati intelligenti profonda riflessione. Diciamo subito che al di là e prima di qualunque disciplina normativa, l’autolimitazione, il self-restraint è fondamentale ed è un metodo deontologico ineliminabile che qualunque rappresentante delle istituzioni dovrebbe adottare e in particolare il magistrato. Ma è la legislazione italiana che deve essere coordinata a quella europea con una prerogativa legislativa reale del Parlamento europeo per evitare che il principio di legalità si trasformi in “principio di giuridicità” come teme Mantovano. È la sovranazionalità che nel processo europeo, come abbiamo sempre auspicato, deve assumere carattere giuridico-istituzionale e comprendere le varie legislazioni nazionali. È il diritto comunitario dunque ancora giovane ad essere sviluppato e affermato come diritto europeo sovranazionale. È un cammino difficile ma la storia delle istituzioni è tormentata e ahimè! anche contraddittoria. Anche sul piano nazionale il problema del giudice “bocca della legge” è superato. È un problema delicato del quale dobbiamo prendere atto, perché il giudice ha il dovere- potere di interpretare la norma e il Parlamento, pur avendo il reale potere sovrano, è costretto a cedere alla prevalenza giurisprudenziale perché la norma è in crisi e non più espressione erga omnes. È stato detto da un eccellente avvocato, Valerio Spigarelli, che “nessuno è nostalgico per il “giudice bocca della legge”, però, un conto è quello, altra cosa è la deriva della funzione creativa della giurisprudenza, perché poi a quel punto chi legittima il giudice legislatore?” Ma è proprio la crisi della norma e la crisi del diritto che hanno determinato un panpenalismo molto pericoloso cioè la dottrina secondo cui tutto sfocia nel penale. E che ha il suo corrispettivo sociale nella sete di vendetta. Si è fatta largo nei cittadini un’aspettativa di giustizia smodata e fuorviante, in base alla quale si fa giustizia solo quando si condanna, soprattutto se la pena è “esemplare”. Imperversa una forma di populismo giudiziario. “C’è la sensazione che le riforme della giustizia finora presentante vogliano essere imposte come una ritorsione, una punizione nei confronti della magistratura per le sue presunte colpe del passato. C’è un’aria di resa dei conti, di ripristino muscolare delle gerarchie che non fa bene al Paese. Sorprendono e destano preoccupazioni soprattutto le dichiarazioni del Presidente del Consiglio che non critica le sentenze e le ordinanze della magistratura nel merito ma contesta il diritto di intervenire perché alcune decisioni, e per ultimo soprattutto quella recente sugli immigrati inviati in Albania, competono solo al Governo che ha il consenso degli elettori. Si tratta di contestazioni sistematiche che ignorano le distinzioni dei ruoli istituzionali, caratteristica fondamentale della democrazia. La Presidente Giorgia Meloni non può contestare l’intervento della magistratura come non dovuto e ritenere che il giudice debba “aiutare il Governo” con una contraddizione pericolosa perché l’” aiuto” sarebbe “politico” e quindi anomalo. È su questi delicati problemi la cui soluzione porta ad un nuovo equilibrio tra i poteri sui quali il Parlamento dovrebbe riflettere e i magistrati e i giudici dovrebbero con serenità portare il loro prezioso contributo per le particolari esperienze della loro funzione, anziché protestare e rifiutare qualunque riforma indiscriminatamente. Le acute riflessioni di Mantovano questa volta possono essere di grande orientamento. Ok al decreto giustizia. Ma sparisce l’illecito per le toghe “opinioniste” di Valentina Stella Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2024 Dopo gli scontri tra alleati dei giorni scorsi va in scena un Consiglio dei ministri lampo. Salvini assente per “motivi familiari. Nessuna nuova sanzione disciplinare per i magistrati, almeno per il momento. Ieri il Consiglio dei ministri ha varato il decreto legge sulle “Misure urgenti in materia di giustizia” ma senza la nuova previsione in materia di illeciti disciplinari per le toghe, che era stata inserita in una bozza circolata nei giorni precedenti. Il nuovo testo si compone di dieci articoli che vanno dalle elezioni dei Consigli giudiziari all’edilizia penitenziaria, passando per le procedure di controllo sui braccialetti elettronici. L’articolo 4, che nella prima stesura conteneva l’inedita fattispecie disciplinare, ora reca “Disposizioni in materia di corsi di formazione per incarichi direttivi e semidirettivi”. La riunione di governo, dunque, durata appena quindici minuti, sembra aver suggellato il lavoro delle diplomazie di Esecutivo e magistratura, che nelle ultime ore hanno cercato di raggiungere una tregua. Via Arenula e Palazzo Chigi da una parte e Anm dall’altra si sono confrontati su una norma che sarebbe stata percepita dalle toghe come troppo punitiva, lesiva della loro libertà d’espressione, sancita dall’articolo 21 della Carta e dai limiti già previsti da Consulta, Cassazione e codice etico dell’Associazione magistrati. La modifica, che si innestava nel decreto legislativo 109 del 2006, avrebbe dovuto sancire una “punizione” in presenza di una “consapevole inosservanza del dovere di astensione nei casi in cui è espressamente previsto dalla legge l’obbligo di astenersi o quando sussistono gravi ragioni di convenienza”. La misura era stata caldeggiata anche dal Viminale, con l’idea di limitare le esternazioni di alcuni magistrati soprattutto in materia di immigrazione. Ma per adesso è congelata. Era stata già rinviata una volta: il Dl Giustizia, che la conteneva, era stato difatti inserito nell’ordine del giorno del Consiglio dei ministri dello scorso 25 novembre, poi saltato del tutto per tensioni tra la Lega e Forza Italia. Ieri il decreto è stato approvato, ma privo di diversi elementi: non solo dell’ipotizzata sanzione disciplinare ma anche delle previsioni in materia di cybersicurezza. Due temi non facili da trattare, e per i quali gli uffici legislativi di competenza hanno chiesto più tempo in vista di “maggiori approfondimenti”. Da quanto si apprende, la norma sul disciplinare dei magistrati dovrebbe arrivare nella prossima riunione a Palazzo Chigi. E già si lavora perché non implichi un divieto assoluto di parola per i magistrati. Lo aveva chiesto il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “La norma andrebbe scritta meglio per evitare che vada a regolare casi estranei al fuoco della previsione e che sia letta in maniera allargata”. La questione è molto tecnica e interessa due versanti. Primo: nella bozza iniziale, il preambolo del Dl Giustizia riportava il riferimento all’abrogazione dell’abuso d’ufficio, che ha comportato il venir meno dell’obbligo di astensione, per i magistrati a fronte di eventuali conflitti d’interesse; tale riferimento però mancava nella formulazione, all’articolo 4, del nuovo illecito disciplinare. La norma, una volta riscritta, dovrebbe dunque contenere l’esplicito richiamo ai conflitti d’interessi e al venir meno del reato di abuso d’ufficio. Dovrebbe essere riformulata, ed è il secondo punto, anche l’espressione “gravi ragioni di convenienza”, in modo da scongiurare il rischio di un’applicazione troppo estensiva della norma. Dopo l’intervento di Santalucia, il guardasigilli Carlo Nordio aveva lanciato un segnale di distensione: “Il magistrato ha il diritto e il dovere di dare un parere tecnico sulle leggi, ma non deve entrare nel merito politico” delle norme. L’apertura si è trasformata in un rinvio del via libera governativo al nuovo illecito. Lo stralcio della norma dal decreto di ieri sembrerebbe dimostrare che il dialogo a distanza tra il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, Nordio e Santalucia ha funzionato. Entrambe le parti, Esecutivo e Anm, sembrano consapevoli che non tutto può diventare terreno di scontro all’ultimo sangue, come sarà invece per la separazione delle carriere. Sul disciplinare dei magistrati, il pit-stop consentirà l’approfondimento chiesto ieri da via Arenula e, appunto, da Mantovano. D’altronde anche al Quirinale non erano sfuggite le incognite che si sarebbero aperte qualora la norma fosse stata mantenuta nella sua versione originaria. Ciononostante, dal Colle non è stata rivolta alcuna esortazione affinché si scegliesse una strada piuttosto che un’altra. Tra le disposizioni approvate ieri in Cdm vi sono quelle che rafforzano l’uso dei braccialetti elettronici come strumento di controllo delle misure cautelari. Come ha spiegato Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia, “da un lato sono esplicitate le procedure di accertamento che la polizia giudiziaria deve compiere per verificare il corretto funzionamento dello strumento”. Dall’altro, “sono state inasprite le conseguenze in caso di comportamenti che artatamente determinino un malfunzionamento del braccialetto”. Problemi tecnici e tensioni, il decreto giustizia si svuota di Mario Di Vito Il Manifesto, 30 novembre 2024 Il governo Consiglio dei ministri lampo: niente sanzioni alle toghe né stretta sulla cybersicurezza. Schede sbagliate inviate ai tribunali, rinviate d’urgenza le elezioni dei consigli giudiziari. Nei mille secondi scarsi che si sono resi necessari per fare il consiglio dei ministri, ieri pomeriggio, l’annunciato decreto giustizia non c’è. O almeno non ci sono i due pezzi più grandi che, stando alle bozze abbondantemente circolate nei giorni scorsi, avrebbero dovuto comporlo. Niente norma disciplinare per i magistrati, dunque, né stretta sulla cybersicurezza. “Un fatto tecnico”, dicono da palazzo Chigi. Servono “ulteriori approfondimenti” da parte degli “uffici competenti”. E tant’è. Anche se forse bisognerebbe considerare nelle valutazioni le recenti tensioni nella maggioranza e il pranzo tra Meloni e Mattarella. Ad ogni modo, il famigerato articolo 4 del decreto - quello che imporrebbe ai magistrati l’astensione “per gravi ragioni di convenienza” - è finito nella terra delle decisioni non prese. Pare che sia stato il sottosegretario Alfredo Mantovano a varare un supplemento d’istruttoria sul punto. Il problema qui non è solo la ferma contrarietà delle toghe a un provvedimento che considerano punitivo (in effetti pare proprio indirizzato a quei giudici che esternano in pubblico le proprie opinioni sui temi che poi riempiono i loro fascicoli, tipo quelli delle sezioni immigrazione che scrivono articoli tecnici o intervengono a dibattiti sui vari decreti), ma anche il fatto che l’astensione per convenienza servirebbe a sanare un buco che si è venuto a creare con l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, che ha portato via con sé una serie di casi in cui astenersi dal giudizio è un obbligo e non una facoltà (come da codice di procedura civile all’articolo 51). Non sfugge a nessuno, in tutto questo discorso, che sulla sparizione dal diritto penale dell’abuso d’ufficio pendono sei ordinanze di rinvio dei tribunali alla Corte costituzionale, che prima o poi dovrà pur dire la sua sul punto. Sul fronte della cybersicurezza, dove la notizia più forte contenuta nelle bozze era l’arresto in flagranza di reato per gli hacker, il problema era nel ventilato aumento delle competenze per la Direzione nazionale antimafia. Un dettaglio che avrebbe innervosito molto Forza Italia. Lo aveva detto quasi a chiare lettere il capogruppo azzurro al Senato Maurizio Gasparri nei giorni scorsi “In via Arenula ci sono troppi magistrati e noi politici non siamo la loro buca delle lettere”. Da qui la decisione di rinviare. Anzi, come si è detto, di dare tempo agli “uffici competenti” di fare “ulteriori approfondimenti”. Quel che è rimasto in piedi del decreto giustizia è l’articolo 1 sul rinvio ad aprile delle elezioni dei consigli giudiziari, inizialmente previste domenica e lunedì prossimi. Qui bisognava agire con la massima urgenza, perché il rischio di combinare un guaio grosso era dietro l’angolo: soltanto ieri, infatti, le Corti d’appello hanno ricevuto le schede elettorali. Che però erano in numero inferiore rispetto agli aventi diritto. Una situazione che oggi, al momento della vidimazione, sarebbe diventata oltremodo imbarazzante. In questo modo si spiega la fretta con cui Mattarella ha firmato il decreto, uscito in Gazzetta ufficiale in serata. Resta sospesa, sempre sul fronte della giustizia, la madre di tutte le battaglie tra il governo e la magistratura: la riforma della separazione delle carriere. L’esame del testo procede a rilento e il suo approdo in aula alla Camera è slittato al 9 dicembre, nonostante la maggioranza abbia a lungo brigato per chiudere questa fase della partita entro novembre. Già, perché, oltre al merito della questione, esiste anche una questione di tempi: trattandosi di riforma costituzionale è necessaria la doppia lettura sia a Montecitorio sia a palazzo Madama. E senza maggioranza qualificata (assai improbabile) in fondo al tunnel ci sarà il referendum, cioè la vera partita della vita del governo Meloni, uno scontro all’ultimo sangue dal valore sia identitario (dall’altra parte ci sono gli odiati giudici, “toghe rosse” per definizione al di là di ogni dato di realtà) sia politico. Se il premierato è sparito dai radar e l’autonomia differenziata si è fermata davanti alla Consulta, infatti, questa al momento rappresenta l’unica vera riforma che la destra potrebbe riuscire a portare a termine. Salta il bavaglio ai magistrati che parlano in pubblico di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2024 Dopo le polemiche il Governo cancella la norma dal decreto giustizia. Indietro tutta: la stretta sugli interventi pubblici di giudici e pm non s’ha da fare. O almeno non ancora. Dal decreto legge sulla giustizia approvato nel Consiglio dei ministri di venerdì - slittato di qualche giorno dopo un rinvio voluto da Forza Italia - è saltata l’ennesima “norma-bavaglio” che avrebbe, potenzialmente, obbligato i magistrati a rinunciare al trattare fascicoli riguardanti qualsiasi materia su cui avessero mai preso posizione in pubblico, ad esempio con un intervento a un convegno o un’intervista a un giornale. All’articolo 4, infatti, la bozza introduceva un nuovo illecito disciplinare a carico delle toghe che non si astengono dai procedimenti “quando sussistono gravi ragioni di convenienza”, e non più solo - come già previsto - quando l’astensione è obbligatoria per legge. L’intervento è stato giustificato dal governo con la necessità di tamponare gli effetti dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, consentendo di perseguire sul piano disciplinare i magistrati che trattano i fascicoli in cui hanno un interesse privato. Secondo i critici, però, la formulazione usata dal governo era troppo ampia per questo scopo e aveva il vero obiettivo di togliere indagini, processi e decisioni “sensibili” ai magistrati ritenuti politicizzati: l’esempio più fresco è quello di Silvia Albano, una dei giudici di Roma che hanno bloccato i trattenimenti dei richiedenti asilo in Albania. A valutare le “gravi ragioni di convenienza”, infatti, sarebbe stato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che avrebbe potuto esercitare l’azione disciplinare nei confronti delle toghe “disobbedienti” mandandole a processo di fronte al Consiglio superiore della magistratura, dove avrebbero rischiato sanzioni dal ammonimento alla rimozione dall’ordine giudiziario. Contro l’iniziativa del governo si erano scagliate le opposizioni, in particolare Movimento 5 stelle e Pd, ma soprattutto il mondo della magistratura associata, a partire dai vertici dell’Associazione nazionale magistrati, l’organismo di rappresentanza di giudici e pm. Nelle ultime ore, però, ecco il dietrofront: come anticipato dal Corriere, il ministero ha deciso di stralciare la norma dal decreto, ufficialmente per non esacerbare un clima di tensione già altissima con la magistratura. Ma è probabile che abbia avuto un peso anche il timore di un nuovo stop da parte del Quirinale, dopo quello sull’emendamento al decreto fiscale che avrebbe voluto raddoppiare il gettito del 2xmille. Come segnalato da numerosi addetti ai lavori, infatti, il nuovo illecito disciplinare previsto nel decreto avrebbe violato il principio di tipicità, in base al quale le condotte sanzionabili devono essere descritte in modo preciso e non equivocabile: l’espressione generica “gravi ragioni di convenienza”, invece, avrebbe consentito al Guardasigilli di esercitare l’azione disciplinare anche per “casi di partecipazione al dibattito pubblico rispetto ai quali sono emerse radicali diversità di opinioni tra esponenti del potere esecutivo e la magistratura”, avvertiva, tra gli altri, il consigliere togato del Csm Roberto Fontana. Che questo fosse l’intento, d’altra parte, l’aveva ammesso il governo stesso per bocca di Francesco Paolo Sisto, viceministro alla Giustizia di Forza Italia: “Le “gravi ragioni di convenienza” servivano e serviranno, se la norma passerà in Consiglio dei ministri, semplicemente per evitare che ci siano sovrapposizioni fra opinioni e materie da giudicare. Il cittadino non si sentirebbe rassicurato da chi dovesse esprimere opinioni sulla materia di cui poi è responsabile sotto il profilo dei provvedimenti giudiziari”, diceva. Tajani ne vince una: dal decreto Giustizia rimosse le norme sulla cybersicurezza di Ermes Antonucci Il Foglio, 30 novembre 2024 Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri l’atteso decreto Giustizia. Le due novità che erano state inizialmente annunciate, però, sono sparite dal testo finale. Si tratta del rafforzamento dei poteri della procura nazionale antimafia sui reati in materia di cybersicurezza e dell’introduzione di un illecito disciplinare per i magistrati che non si astengono in caso di “gravi ragioni di convenienza”. Lo svuotamento del testo è frutto delle proteste di Forza Italia, sulla prima misura, e delle toghe sulla seconda, definita un “bavaglio” imposto dal governo ai giudici. Stavolta la rottura fra gli alleati di governo non si è consumata in modo palese, come accaduto in settimana col voto contrario di Forza Italia sull’emendamento della Lega riguardante il canone Rai. Il risultato finale, cioè l’eliminazione dal decreto della parte che attribuiva maggiori poteri di coordinamento alla procura nazionale antimafia contro i reati di accesso abusivo ai sistemi informatici di interesse nazionale e pubblico, è però comunque frutto di una dura presa di posizione del partito guidato da Tajani contro gli iniziali intendimenti di Meloni e Fratelli d’Italia. Le nuove norme “sono state accantonate in attesa di ulteriori approfondimenti tecnici”, è stata la spiegazione formale data ieri da Palazzo Chigi. In sostanza, però, si è confermata la divisione fra gli alleati già emersa lunedì, quando era stata fissata l’approvazione del decreto, poi slittata a ieri. A prevalere è stata la linea gasparriana interna agli azzurri. Era stato il presidente dei senatori di FI, Maurizio Gasparri, a far intendere che sulla procura nazionale antimafia il partito si sarebbe opposto senza mezzi termini: “Dopo il caso Striano, non mi sembra proprio il caso di potenziare nemmeno il potere di impulso di questa procura, sulla quale stiamo indagando nella commissione Antimafia. Che da Via Giulia si pretenda un aumento di poteri, quando ancora si deve rendere conto dei poteri in mano esercitati negli anni passati, in particolare durante la gestione De Raho, mi sembra stupefacente”. “La bozza del decreto inerente a questo tema non può passare senza un esame approfondito dell’intero Cdm”, aveva ribadito Gasparri poche ore prima del Consiglio dei ministri di lunedì e del rinvio dell’intera questione. A nulla sono servite le osservazioni di chi, anche dentro FI, faceva notare che gli accessi abusivi al centro del caso Striano si riferiscono al periodo 2019-2022, e che in seguito la procura nazionale antimafia è stata rinnovata profondamente sul piano sia organizzativo che dell’infrastruttura tecnologica. “Non so chi abbia scritto il decreto Giustizia, ma una cosa è certa: non l’ho scritto io, né la maggioranza. Lo hanno scritto dei magistrati che controllano il ministero, non so se ispirati da qualcuno, magari proprio da quella procura nazionale antimafia che è sotto inchiesta per gli accessi abusivi di Pasquale Striano”, aveva detto Gasparri al Foglio, confermando il suo “no” al provvedimento. Un “no” che è diventato la posizione, irremovibile, del partito. A far saltare l’altra grande novità annunciata nel decreto Giustizia sono state le proteste della magistratura associata. La norma prevedeva l’introduzione dell’illecito disciplinare per i magistrati in caso di mancata astensione di fronte a “gravi ragioni di convenienza”. Un modo per reintrodurre dalla finestra l’obbligo del pm di astenersi “in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto”, previsto dal reato di abuso d’ufficio, nel frattempo abrogato. La vaghezza della norma contenuta del decreto, unita alle dichiarazioni del Guardasigilli Nordio (“Se un magistrato si è espresso in un determinato settore poi non si pronunci sul medesimo oggetto”), ha fatto gridare l’Associazione nazionale magistrati al “bavaglio” contro le toghe. Alla fine il governo ha deciso di eliminare anche questa norma, anche per non aggravare ulteriormente le tensioni con i magistrati alla vigilia dell’approdo in Aula della Camera del ddl costituzionale sulla separazione delle carriere, il 9 dicembre. Il decreto approvato ieri risulta, dunque, svuotato. Restano poche misure marginali, come la definizione delle procedure di verifica del corretto funzionamento dei braccialetti elettronici e la proroga del termine per le elezioni dei consigli giudiziari e del consiglio direttivo della Corte di cassazione. Dl Giustizia. Più verifiche sul “braccialetto” nella violenza di genere Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2024 Il Governo ha approvato il decreto legge n. 178/2024 contenente “Misure urgenti in materia di giustizia”. Previste verifiche sull’effettivo funzionamento del braccialetto elettronico nei casi di violenza di genere. Approda a tempi record nella “Gazzetta Ufficiale” n. 280 del 29 novembre il decreto legge 29 novembre 2024 n. 178, che reca “Misure urgenti in materia di giustizia”. Il provvedimento entra in vigore 30 novembre. Il via libera dal Consiglio dei ministri - che si è riunito per soli 15 minuti - al decreto legge n. 178/2024 è arrivato nella giornata di venerdì. Nella scorsa riunione, il provvedimento era slittato su richiesta del vicepremier Antonio Tajani, per l’assenza di diversi ministri di Forza Italia. Applausi per Raffaele Fitto per il suo ultimo Cdm prima di assumere da domenica l’incarico di vicepresidente esecutivo della Commissione Ue e commissario alla coesione e le riforme. Fitto, a quanto si apprende, ha spiegato ai colleghi che nelle prossime ore rassegnerà formalmente le dimissioni. Tra le norme approvate il rafforzamento degli strumenti a disposizione dell’autorità giudiziaria a tutela delle vittime di violenza di genere e di atti persecutori. Si integrano le norme relative alle “particolari modalità di controllo”, cioè al cosiddetto “braccialetto elettronico”, per precisare che tra gli accertamenti già previsti da parte della polizia giudiziaria in relazione alla “fattibilità tecnica” dell’utilizzo di tale strumento è inclusa anche la fattibilità operativa, collegata alla effettiva efficacia e funzionalità dello strumento rispetto al caso concreto e durante tutto il corso dell’applicazione della misura cautelare. Approvata anche la proroga del termine per le elezioni dei Consigli giudiziari e del Consiglio direttivo della Corte di cassazione. Via Arenula sottolinea che le elezioni previste per il 2024 sono state differite al mese di aprile 2025. Non c’è invece la norma sugli illeciti disciplinari dei magistrati, contenuta nella bozza circolata nei giorni scorsi e che prevedeva l’illecito disciplinare non solo per la “consapevole inosservanza del dovere di astensione nei casi in cui è espressamente previsto dalla legge l’obbligo di astenersi” ma anche nei casi di sussistenza di “gravi ragioni di convenienza”. Nel testo entrato oggi in Cdm l’articolo che nei giorni scorsi aveva sollevato polemiche ed era stato bollato come ‘norma bavaglio’ non era contenuto. Il testo approvato non contiene neppure le norme sulla cybersicurezza che, nella bozza nei giorni scorsi circolata, prevedevano funzioni di impulso in capo al procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo per il reato di estorsione informatica e l’arresto obbligatorio in flagranza per il reato di “accesso abusivo a un sistema informatico o telematico in sistemi informatici o telematici di interesse militare o relativi all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica o alla sanità o alla protezione civile o comunque di interesse pubblico”. Tornando al braccialetto elettronico, prima della scelta da parte del giudice della misura cautelare ritenuta più idonea, la polizia giudiziaria verifica l’attivabilità, l’operatività e la funzionalità dei mezzi elettronici o degli altri strumenti tecnici negli specifici casi e contesti applicativi, analizzando le caratteristiche dei luoghi, le distanze, la copertura di rete, la qualità della connessione e i tempi di trasmissione dei segnali elettronici del luogo o dell’area di installazione, la gestione dei predetti mezzi o strumenti tecnici e ogni altra circostanza rilevante in concreto ai fini delle valutazioni sull’efficacia del controllo sull’osservanza delle prescrizioni imposte all’imputato. Di tali verifiche viene redatto specifico rapporto che è trasmesso, entro 48 ore, all’autorità giudiziaria per le valutazioni di competenza. Nel caso di non fattibilità tecnica e operativa, qualora siano stati disposti l’allontanamento dalla casa familiare o il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, il giudice potrà disporre l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi di quelle già adottate. In caso di trasgressione alle prescrizioni imposte o di una o più condotte gravi o reiterate che impediscono o ostacolano il regolare funzionamento del braccialetto elettronico, il giudice può disporre la revoca degli arresti domiciliari e la sostituzione con la custodia cautelare in carcere. Inoltre, le norme introdotte provvedono a: • modificare la disciplina per il conferimento degli incarichi direttivi di legittimità. Tali funzioni potranno essere conferite esclusivamente a magistrati che, alla data della vacanza del posto messo a concorso, assicureranno almeno due anni di servizio prima della data di collocamento a riposo (anziché almeno quattro anni); • prevedere una deroga temporanea al limite di permanenza nell’incarico fissato dalla legge per i magistrati assegnati ai procedimenti in materia di famiglia, in vista dell’imminente operatività del neoistituito tribunale delle persone, dei minorenni e della famiglia, incentivando i magistrati che già svolgono tali funzioni all’inserimento nell’organizzazione del nuovo ufficio; • differire l’obbligo di frequenza dei corsi di formazione per i magistrati cui sono conferiti incarichi direttivi e semidirettivi all’avvenuto conferimento dell’incarico (entro 6 mesi), invece che anticipatamente, in modo da velocizzare le procedure di conferimento; • ridurre da due anni ad uno il periodo di assegnazione dei giudici onorari di pace all’ufficio del processo, in modo da assicurarne un più rapido impiego nella concreta attività per la quale sono stati selezionati; • modificare la disciplina istitutiva del Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria al fine di affrontare in maniera ancor più efficiente l’emergenza carceraria in corso; • chiarire la portata delle disposizioni transitorie dettate per il correttivo al Codice della crisi di insolvenza; • prevedere misure in materia di copertura INAIL in favore dei soggetti impegnati in lavori di pubblica utilità. Il retrobottega dell’antimafia di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 30 novembre 2024 Là dove la caccia ai boss fa allentare le regole. Persino Angiolo Pellegrini rinviato a giudizio: era un uomo di Falcone. Nell’antimafia c’è una terra di mezzo dove gli investigatori si muovono sul filo del rasoio. Equilibristi, in bilico tra l’esigenza di rispettare le norme del codice e l’urgenza di una giustizia sostanziale, che comprime la certezza del diritto ma è più gratificante per sé stessi e per gli altri. Le regole si allentano o, peggio, vengono violate. È una zona opaca, luogo di intrighi e traccheggi con boss irredimibili e pentiti. Una camera oscura dove persino lo splendore degli eroi perde lucentezza. C’è chi varca pericolosi confini e sprofonda perché prima o poi i segni che si lasciano lungo la strada vengono scoperti. Gli ultimi trascinati fuori dal retrobottega della giustizia sono Angiolo Pellegrini e Alberto Tersigni. Due generali rinviati a giudizio a Caltanissetta. Per quale ipotesi di reato? Cos’altro se non per depistaggio, parola entrata con prepotenza nei resoconti giudiziari degli ultimi decenni che evoca l’aria stantia dei sottoscala delle questure e delle stanze buie delle Procure. Quella di Caltanissetta, che da anni ormai indaga sul dietro le quinte malsano dell’antimafia, contesta a Pellegrini e Tersigni di avere ostacolato e deviato in un vicolo cieco le indagini per riscontrare le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Pietro Riggio. Se avessero fatto bene il loro lavoro avrebbero potuto arrestare Bernardo Provenzano prima del 2006 e svelare un progetto di attentato al giudice Leonardo Guarnotta, un tempo pubblico ministero del pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto, quando era presidente del Tribunale di Palermo che processava per mafia Marcello Dell’utri. Al netto del déjà vu che riporta alla mente le vicende del generale Mario Mori, processato e assolto per la mancata cattura di Provenzano e la trattativa stato-mafia, la presenza di Pellegrini nella lista dei presunti cattivi spariglia le carte più di altri. Destabilizza, e non poco, perché obbliga a misurarsi con la possibilità che anche Giovanni Falcone, di cui l’ufficiale è stato uno dei più leali investigatori, possa essersi fidato dell’uomo sbagliato. E cioè di qualcuno che un giorno, nella migliore delle ipotesi, avrebbe commesso delle leggerezze investigative o, nella peggiore, si sarebbe reso protagonista del più clamoroso dei voltafaccia dando una mano a Provenzano. Lo stesso Provenzano del quale, sotto il coordinamento di Falcone, Pellegrini aveva ricostruito il profilo criminale. Non solo del corleonese Binu per la verità, ma pure di Michele Greco, il “papa” di Cosa nostra, di don Saro Riccobono e degli altri boss inseriti nel “rapporto dei 162” che fu la base del maxi processo. Su quel rapporto c’era la firma dell’allora giovane capitano Pellegrini, nome di battaglia “Billy the Kid”. E così succede che il giorno prima Pellegrini scrive la sua autobiografia - “Noi, gli uomini di Falcone” s’intitola - ritenendo di essersi guadagnato un posto nel piazzale de gli eroi per la sua esperienza nella trincea dell’antimafia, e il giorno dopo si ritrova imputato. Gli anni al fianco di Falcone non lo hanno “salvato” dal rinvio a giudizio. Dalla sua ha l’attenuante di essersi imbattuto nel retrobottega in Riggio, personaggio scivolosissimo. Paludoso per certi aspetti, sulla cui attendibilità diverse procure hanno sollevato perplessità. Faceva l’agente di polizia penitenziaria, poi l’hanno arrestato per mafia ed estorsione. Collaborava con la giustizia dal 2009, ma ci ha messo anni prima di riferire le confidenze di un ex poliziotto e compagno di cella, Giovanni Peluso. E che confidenze: avrebbe imbottito di tritolo l’autostrada per l’attentato di Capaci. Era il 2018 e il dietro le quinte iniziò a stargli stretto. Riggio prese carta e penna e scrisse alla Procura di Firenze. Non lo aveva fatto prima per “paura”. Le cose erano cambiate, c’era stata la sentenza di primo grado di Palermo sulla trattativa stato-mafia. Si era confuso, visto che quando chiese di conferire con i pm toscani il verdetto non era stato ancora emesso. Di storie, tutte non verificabili, ne ha raccontate parecchie. Si è spinto a sostenere che i servizi segreti, italiani e libici (a Capaci a suo dire c’era pure una misteriosa donna dalla pelle scura), parteciparono alla strage, facendo credere a Giovanni Brusca di avere schiacciato il telecomando che innescò l’esplosione lungo l’autostrada. Nei suoi racconti il retrobottega ha una collocazione precisa, la sede della Dia a Roma, dove lo convocarono per un interrogatorio. Prima che arrivasse il magistrato di Firenze i carabinieri gli proposero di entrare a far parte di una squadra riservata per arrestare Provenzano. Ci avrebbe messo poco Riggio a capire che era una farsa. Nessuna voglia di catturare il latitante, semmai di acquisire notizie visto che “i carabinieri non è che lo vogliono prendere”. Tutto divenne più chiaro quando Riggio ricevette una risposta a una lettera che aveva inviato allo stesso Provenzano. “Tu non devi fare il mio nome”, c’era scritto. A questo punto sarebbe entrato in gioco Peluso, che sarà processato assieme a Tersigni e Pellegrini ma per concorso esterno in associazione mafiosa, che avrebbe convinto Riggio a infiltrarsi nella famiglia mafiosa di Caltanissetta per “attingere notizie utili alla cattura del latitante Bernardo Provenzano”, ma che in realtà sarebbero state spifferate al padrino corleonese in uno dei tanti anfratti della giustizia. Ce n’è uno dove l’aria è più pesante che altrove, ed è il luogo dove sono stati indottrinati i falsi pentiti come Vincenzo Scarantino con la forza convincente delle bastonate. È accaduto che i collaboratori di giustizia venissero addestrati. Nella camera oscura della giustizia non rispondevano più alla magistratura, ma agli agenti a cui era affidata la loro vita a centinaia di chilometri di distanza lontano da casa. Scarantino, malacarne di mezza tacca, è diventato il simbolo del sistema che traccheggiava con i pentiti, preparato a mentire sulla strage Borsellino dal super poliziotto Arnaldo La Barbera, i cui meriti investigativi gli valsero la guida del gruppo che indagava sulle stragi di mafia. Nessuno, neppure i magistrati, si era accorto che tramava e stava consegnando un manipolo di colpevoli fasulli all’opinione pubblica. Se per fare in fretta e venire celebrato come il più grande degli eroi o per proteggere qualcuno non è dato sapere. Chi poteva immaginare un tradimento simile. E assieme a lui sono finiti nella polvere i poliziotti che rispondevano ai suoi ordini. Se convinci qualcuno a recitare un copione stringendogli gli attributi puoi sempre contare sul suo silenzio una volta tirati su i pantaloni. I segni delle torture no, sono difficili da coprire. Nel retrobottega della giustizia accade l’imprevedibile. Ad esempio che un fidato finanziere, Giuseppe Ciuro, diventi la talpa di un mafioso. Ogni mattina, come se nulla fosse, andava a lavorare al palazzo di giustizia di Palermo. Faceva l’assistente di Antonio Ingroia, il più duro e puro fra i duri e puri pubblici ministeri della Procura di Palermo. Seduti nella stessa stanza, uno accanto all’altro. Nel frattempo Ciuro era stato reclutato nella rete di informatori organizzata da Michele Aiello, mafioso di Bagheria (l’inchiesta è la stessa che coinvolse l’ex governatore siciliano Totò Cuffaro), il quale aveva spiegato a Provenzano che i soldi si potevano fare speculando sulla salute della gente. Divenne così un potentissimo manager della sanità privata, capace di allestire una clinica con attrezzature all’avanguardia che coprivano le falle dell’arretrato sistema sanitario pubblico. Scontata la condanna e passata la tempesta, Ingroia ha chiamato Ciuro al suo fianco come collaboratore nella sua nuova vita professionale da avvocato. Un’altra tempesta che aveva il sapore amaro dell’harakiri si scatenò per colpa di Massimo Ciancimino. Che ingrato! Ingroia lo aveva reso un’icona dell’antimafia celebrando l’importanza delle sue fantasiose dichiarazioni sulla trattativa stato-mafia e il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo lo “ripagava” straparlando. Si fece intercettare mentre spiegava che all’epoca del suo andirivieni dal palazzo di giustizia, dove lo convocavano per gli interrogatori un giorno sì e l’altro pure, l’ex magistrato lo lasciava da solo nella stanza della Procura, libero o quasi di armeggiare nel suo computer. E lui Ciancimino jr, talmente era il livello di familiarità raggiunto, si sentiva a casa propria e “faccio quello che minchia voglio là dentro, peggio per loro che mi lasciano là”. Così disse, affidando le parole alle microspie, suscitando un’ondata di indignazione salvo poi fare marcia indietro. Una delle tante, perché lui in quella stanza da solo - ammise dopo - non c’era rimasto. Ristabilì quella sintonia fatta di domande e risposte, con le seconde che in tanti passaggi degli interrogatori sembravano tarate per assecondare le prime. A volte è l’esuberanza a rendere più complicate le cose, la voglia di raggiungere il risultato a tutti i costi ciò che spinge a seguire la via più breve e sbrigativa. Il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Gianfranco Donadio tra il 2009 e il 2013 se n’era andato in giro per le carceri italiane a sentire decine di testimoni e pentiti. Affascinato dall’ipotesi che dietro l’attentato di Capaci ci fossero i servizi segreti avviò un’indagine parallela - definirla in altro modo potrebbe apparire una diminutio di fronte alla mole di lavoro del solerte magistrato -, convinto di potere riuscire nell’impresa in cui tutti hanno fallito: trovare le prove senza le quali i processi si perdono e i teoremi si afflosciano. I magistrati di cinque procure - Palermo, Caltanissetta, Firenze, Catania e Reggio Calabria - competenti a indagare su stragi e attentati di mafia fecero notare l’ingerenza nel tentativo accomodante di risolvere la faccenda fra colleghi gentiluomini. Donadio smise di indagare. Nel frattempo, però, aveva consegnato alla storia giudiziaria miti e figure per gli anni a venire. Ad esempio interrogò Vincenzo Lo Giudice, un tempo a capo di uno dei più potenti clan di Reggio Calabria, che in un improvviso quanto tardivo lampo di memoria si ricordò che a fare saltare in aria Paolo Borsellino era stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro”, catalizzatore di nefandezze e accuse, morto da qualche anno di infarto. Voleva essere cremato, ma lo seppellirono perché non si sa mai, poteva sempre servire un nuovo rilievo scientifico sulla salma. A proposito di iniziative parallele in carcere, qualche anno fa a discapito della proclamata voglia di muoversi nell’ombra fecero un gran rumore le visite di due parlamentari della Repubblica, Giuseppe Lumia del Pd e Sonia Alfano dell’italia dei Valori (esisteva ancora il partito di Di Pietro), ai boss sanguinari detenuti al 41 bis. Speravano di convincerli a pentirsi e già che c’erano magari contavano di raccogliere qualche delicatissima prova dell’esistenza della trattativa statomafia. Era il 2012, il teorema del patto sporco era ancora in fase di indagini ma il battage mediatico-giudiziario lo aveva già reso una verità inscalfibile. Almeno così la spacciavano tentando di stordire l’opinione pubblica. I nostri eroi parlamentari in tournée a caccia di prove parlarono con Bernardo Provenzano, lo stragista di Brancaccio Filippo Graviano e Nino Cinà, il medico boss (quello del papello di Ciancimino jr per intenderci). Pare che Cinà prima di andare via avesse salutato Alfano con la più sibillina e vuota delle frasi: “Sono a sua disposizione, a 360 gradi”. Né Cinà, né qualcun altro si pentì al termine di quel tour. Di prove della Trattativa neanche a parlarne. Le hanno cercate senza esito, con ogni mezzo e senza limitazione di risorse, i pubblici ministeri figuriamoci se potevano riuscirci due volenterosi parlamentari. Che poi, a voler parlare con franchezza, cosa mai potevano offrire in cambio Lumia e Alfano? I pentiti hanno bisogno di ben altro per collaborare. Chiedetelo all’avvocato Luigi Li Gotti che nella sua lunga carriera ha assistito i più importanti collaboratori di giustizia, da Tommaso Buscetta a Totuccio Contorno, da Giovanni Brusca a Francesco Marino Mannoia e Gaspare Mutolo. Era lo stato che gli affidava i pentiti, obbligati dal sistema a cambiare il proprio avvocato in una logica di equilibri e garanzie mai chiarita. Un do ut des opaco che nel tempo ha finito per generare storture nel fenomeno del pentitismo. Tutto si aggiustava nelle mani dell’avvocato quando c’erano da spegnere tensioni e malumori. Chissà quanto ne avrà viste e sentite lui nella camera oscura della giustizia. Tante, a giudicare da alcune sue dichiarazioni dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro. Si disse certo che il padrino di Castelvetrano e gli altri boss rimasti in fuga per anni avessero goduto “in quella zona grigia” dei favori di “qualcuno di importante, in grado di tutelare le latitanze”. Qualcuno che “non faceva parte dell’apparato di Cosa nostra, ma di altri livelli profondamente interessati a tutelare la latitanza”. Qualcuno molto in alto che spifferava l’arrivo delle forze dell’ordine e mandava all’aria ogni blitz. Investigatori e boss, si sa, traccheggiano e un giorno i pentiti fuori tempo massimo, magari gli stessi che assiste Li Gotti, ce lo verranno a raccontare. No alla revoca della pena sostitutiva “pattuita” per incompatibilità con misura di prevenzione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2024 Se il giudice non ha dettato le prescrizioni di applicazione della sostituzione, la pena sostitutiva non può essere considerata incompatibile con la misura di prevenzione, ma può semmai stabilirne la sospensione. Per legge la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità non è incompatibile con l’intervenuta applicazione di una misura di prevenzione, ma solo con le misure di sicurezza. Non è quindi legittima la revoca del lavoro di pubblica utilità semmai la sua sospensione in caso intervenga una misura di prevenzione, fino alla conclusione di quest’ultima. In particolare, nel caso risolto dalla Corte di cassazione - con la sentenza n. 43844/2024 - la revoca riguardava una pena sostitutiva frutto del patteggiamento tra le parti. La Corte di cassazione ha annullato la decisione di revoca del Gip che, al contrario come affermato dalla Suprema corte avrebbe potuto dettare le adeguate prescrizioni invece di affermare tout court l’inadeguatezza del programma trattamentale inizialmente previsto con l’Uepe. A tal fine la Cassazione penale ha dettato il principio di diritto con cui afferma che il giudice dell’esecuzione non può revocare l’intervenuta ammissione alla pena sostitutiva patteggiata, perché il giudizio sull’ammissibilità della sostituzione e sul tipo di pena sostitutiva è già stato espresso ed è irrevocabile. “Essendo consentita la revoca solo per inosservanza delle prescrizioni dettate”. Che, tra l’altro nel caso concreto non risultavano date. La vicenda, infatti, aveva scontato una serie di rinvii di applicazione della pena sostitutiva poi revocata, in quanto medio tempore il giudice aveva preso atto dell’applicazione di una misura di prevenzione a carico dell’imputato che aveva patteggiato la sostituzione della pena detentiva breve per quanto essa non risultasse assistita dalle prescrizioni che il giudice del patteggiamento è legittimato a dare per l’assegnazione della stessa. Mentre, va ricordato, l’accordo sulla sostituzione può essere solo accolto o rigettato dal Gip che - nel caso concreto - aveva accolto la pena concordata, unitamente alla sua sostituzione. Inoltre, nel caso occorso, dove era stato applicato l’ordine dell’obbligo di soggiorno, il Gip non poteva rilevare alcuna incompatibilità con la pena sostitutiva e quindi revocarla, in quanto non aveva mai assegnato le prescrizioni a essa connesse, per poterle giudicare incompatibili con la misura di prevenzione. Perugia. Dalla cella all’ospedale perché malato: si uccide gettandosi dal quinto piano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 novembre 2024 Detenuto in attesa di giudizio nel carcere di Terni, l’uomo accusato dell’omicidio di Marielle Soethe a Pistrino si è lanciato dalla finestra della struttura. Era stato appena trasferito dal carcere di Terni all’ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia, in regime di arresti domiciliari, a causa delle sue precarie condizioni di salute incompatibile con la detenzione penitenziaria. Ma Cristian Francu - il 51enne operaio rumeno accusato dell’omicidio di Marielle Soethe, la donna trovata morta in casa a Pistrino (Perugia) il primo dicembre 2022 - si è gettato da una finestra ed è morto sul colpo dopo un volo di 5 piani. È accaduto giovedì sera, intorno alle 19, appena l’uomo - diabetico grave e con altre patologie - è arrivato nel reparto di Medicina interna direttamente dal carcere di Terni. L’ultima udienza sulla morte di Marielle Soethe, durante la quale erano state fatte rivedere le immagini del delitto, si era tenuta lunedì. Francu, presente in aula, si era proclamato innocente, come sempre fatto in tutte le fasi delle indagini. Con la morte dell’unico imputato si chiude di fatto anche il processo nei suoi confronti, cominciato a ottobre. Francu era accusato di omicidio volontario e violenza sessuale e rischiava l’ergastolo. L’uomo, in carcere dal 20 novembre 2023 e difeso dall’avvocato Donatella Donati, secondo l’accusa aveva dapprima abusato della vittima per poi pestarla a morte e infierire su di lei anche quando era già a terra, fino a schiacciarle brutalmente il torace sotto le proprie suole, come scritto nel capo di imputazione. I carabinieri, che hanno svolto le indagini con il coordinamento del pm Paolo Abbritti, erano convinti di essere risaliti al responsabile, anche in base al dna ritrovato sulle unghie e sugli abiti della donna e da un’intercettazione ambientale in casa, nella quale riferisce alla moglie dettagli sul delitto non ancora resi noti allora, che solo l’assassino - per l’accusa - poteva conoscere. La difesa, invece, non è mai stata d’accordo sottolineando la presenza di un altro profilo genetico maschile isolato sulla vittima, definendo gli indizi frutto di deduzioni e testimonianze poco attendibili. I detenuti che si sono uccisi in carcere dall’inizio dell’anno sono 83, a cui si aggiungono i 7 agenti della polizia penitenziaria. Secondo Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, “sono ormai 16mila i detenuti oltre i posti disponibili e più di 18mila le unità mancanti al fabbisogno della Polizia penitenziaria, peraltro mal organizzata e scarsamente equipaggiata”. Il sistema carcerario si trova in una situazione di grave sovraffollamento, con circa 62mila detenuti che occupano strutture pensate per ospitarne 46mila. Questo surplus di 16mila persone non solo viola i diritti fondamentali dei detenuti, ma mette anche a dura prova l’intero sistema penitenziario, compromettendo la sicurezza, la salute e le possibilità di riabilitazione. Verona. Sovraffollamento, suicidi e tensioni. “Non possiamo ignorare le carceri” di Marianna Peluso Corriere di Verona, 30 novembre 2024 “Ai detenuti servono più cultura e formazione”. “La situazione delle carceri italiane riguarda tutti noi, al pari delle scuole e degli ospedali. Deve riguardarci perché potremmo finirci tutti, anche solo per un errore di giudizio. Il carcere è un concentrato dei problemi del mondo fuori”. Daria Bignardi, giornalista e scrittrice, autrice di “Ogni prigione è un’isola”, è intervenuta ieri all’incontro “Carceri. Emergenza diritti” promosso dal gruppo “Radici dei diritti” dell’ateneo scaligero. Il suo intervento, previsto in presenza al Polo Zanotto, per un contrattempo è diventato un collegamento online, inserito in un fitto panel a cui hanno assistito circa settecento studenti delle scuole superiori veronesi. “L’articolo 27 della Costituzione stabilisce che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbano tendere alla rieducazione del condannato - sottolinea Bignardi -, ma è un equilibrio quasi impossibile da mantenere, per il sovraffollamento delle carceri e tutti i problemi che ne conseguono. Uno su tutti, i suicidi: con 83 suicidi contati dall’inizio dell’anno fino ieri, il 2024 si candida per diventare l’anno col numero più alto di suicidi in carcere”. Un argomento scottante, su cui si è esposto anche Ivan Salvadori, docente di Diritto Penale dell’Università di Verona: “Il sovraffollamento porta ad atti di autolesionismo - dichiara -. Nella casa circondariale di Montorio si contano 600 detenuti, sebbene la capienza sia di 335”. Una condizione che si rispecchia, in scala, nel resto d’Italia. Al 4 novembre, ultimo dato disponibile del ministero della Giustizia, nelle prigioni c’erano 62.220 detenuti mentre la capienza sarebbe di 51.181 (a cui bisognerebbe sottrarre i posti inagibili, che quindi abbatte il numero di posti letto a 46.756). Un sovraffollamento causato anche dalle recidive che, però, potrebbero essere evitate. Come? Attraverso la cultura, l’acquisizione di competenze e di un ruolo nella società. “La formazione e la conoscenza - chiosa la direttrice della casa circondariale di Montorio, Francesca Gioieni sono gli unici mezzi per costruirsi un’identità”. Nel carcere veronese, il diritto allo studio si concretizza in un’offerta didattica che va dalla scuola dell’obbligo fino ai corsi universitari, grazie a un accordo siglato a fine settembre tra l’Università di Verona, la casa circondariale di Montorio e un’ampia rete di enti impegnati nella promozione del recupero sociale delle persone sottoposte a provvedimenti giudiziari restrittivi. “In questo momento ci sono quattro detenuti che studiano per laurearsi - aggiunge Salvadori -. A breve entrerò come referente del progetto. Ci saranno anche studenti-tutor che affiancheranno gli studenti detenuti, supportandoli nel loro percorso di studi. Li metteremo in condizione di poter avere le lezioni registrate e di sostenere gli esami all’interno del carcere con i docenti dell’Univr”. Un’altra novità bolle in pentola: “Il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, inaugureremo uno spazio colloqui a misura di bambino - svela don Carlo Vinco, garante dei detenuti del Comune di Verona -. È uno spazio già esistente, ma che è stato totalmente rinnovato, con disegni colorati sui muri e giocattoli, in modo che possa accogliere i figli dei detenuti in visita”. Cagliari. La Garante Irene Testa: “Serve aprire le Comunità esistenti e crearne di nuove” di Matteo Cardia ilporticocagliari.it, 30 novembre 2024 Nuovo appello dopo un nuovo suicidio all’interno del carcere di Uta. Una situazione sempre più complessa. In cui la luce in fondo al tunnel, ancora, non si vede affatto. I detenuti e i lavoratori delle carceri sarde vivono una realtà sempre più amara, in cui l’assenza dell’azione legislativa appare ancora più pesante che nella vita fuori dalle celle di detenzione. Dopo aver tentato il suicidio nella giornata di sabato 23 novembre, un detenuto del carcere di Uta si è spento nella giornata di mercoledì 27. Una nuova triste pagina che si aggiunge alle oltre ottanta già scritte nell’ultimo anno all’interno delle carceri italiane. Un fatto annunciato - “È stata una vicenda che ha scosso l’animo di tante persone - ha dichiarato ai microfoni di Radio Kalaritana la garante dei detenuti della Sardegna Irene Testa - che hanno avuto a che fare con il ragazzo, per il fatto che innanzitutto lui non doveva neanche stare in carcere, perché destinato a una comunità. Era un ragazzo fragile, con dei disagi importanti, che non ha retto alla vita carceraria e di conseguenza si è tolto la vita. Era però, purtroppo, un avvenimento annunciato”. Tra chi si è tolto la vita in carcere ci sono il più delle volte individui affetti da problematiche di salute mentale. “Se andiamo a vedere la casistica ci rendiamo conto che chi si toglie la vita sono spesso i giovani che hanno dei disagi, delle dipendenze, delle doppie diagnosi. Dico per questo che è necessario mettere a disposizione le comunità che esistono e che se ne creino di nuove. Il carcere non può sostituire le comunità nel territorio”. Riaffermare i diritti - A oggi appare fortemente necessaria ancora una lotta per far comprendere l’importanza dei diritti dei detenuti: “Questo ragazzo - continua la garante della regione Sardegna - aveva lasciato scritto tempo addietro che voleva donare i suoi organi. Sono stati così donati gli organi a 7 persone, ha salvato 7 vite. Ci tengo a dire questo perché credo che la vita di una persona che è privata della libertà debba avere la stessa dignità e lo stesso valore che hanno le vite delle persone libere. Come cambiare narrativa e rendere il legislatore più attento? - continua Testa - Credo che il legislatore dovrebbe vedere di più perché non basta avere i numeri e i fascicoli, è importante conoscere da vicino e toccare con mano la situazione perché negli anni la popolazione detenuta è cambiata. Si richiude il disagio”. Da qui passa un appello alla politica e al governo: “Il ministro della Giustizia Nordio - conclude Testa - ci aveva garantito che ci sarebbe stato un albo con tutte le comunità e che quindi tutto il disagio psichiatrico o le dipendenze sarebbero state gestite in un altro modo. Al momento non è così, quindi noi non possiamo fare altro che continuare ad appellarci a un Ministro che ha delle responsabilità oggettive”. Brescia. Protocollo carcere: concluso il corso di formazione per 10 carrellisti bresciaoggi.it, 30 novembre 2024 I partecipanti hanno ottenuto l’abilitazione alla guida del carrello elevatore industriale, tra le più spendibili nel mondo lavorativo bresciano. Il corso è finito e i nuovi carrellisti sono formati. Ora spetterà alle aziende inserire le figure abilitate in azienda. E se lo faranno, non solo daranno un lavoro a dieci persone ma le aiuteranno in un importante percorso di reinserimento. Perché si tratta di detenuti che potranno ottenere l’autorizzazione all’attività lavorativa al termine della quale dovranno rientrare in carcere. Percorso di inserimento lavorativo per detenuti - Il corso dalla specifica valenza sociale si è tenuto negli scorsi giorni del 19 e 20 novembre all’interno della casa di reclusione di Brescia Verziano. È finalizzata a creare un percorso di inserimento lavorativo per i detenuti, come definito dal protocollo sottoscritto da Confindustria Brescia, Istituti di Pena Bresciani, Garante dei Detenuti e Tribunale di Sorveglianza di Brescia. Il corso di formazione - In particolare, nel primo giorno di formazione del corso - erogato da Isfor Formazione Continua - è stata affrontata la parte teorica: normativa in materia di sicurezza, principali rischi connessi all’utilizzo del carrello, meccanismi di funzionamento e caratteristiche del carrello e verifica delle condizioni di equilibrio e manutenzione; il giorno seguente, i partecipanti hanno, quindi, affrontato la parte pratica: illustrazione di uso del carrello e guida dello stesso su un percorso di prova per evidenziare le manovre a vuoto o a carico. Le aziende - I partecipanti - che sono autorizzabili ad eseguire attività lavorativa (rientrando in carcere al termine del turno lavorativo) - hanno quindi ottenuto l’abilitazione alla guida del carrello elevatore industriale: si tratta di una figura professionale individuata da Confindustria Brescia tra quelle attualmente più richieste in ambito produttivo manifatturiero. Le aziende che manifesteranno interesse potranno ora inserire le figure abilitate in azienda Roma. L’opera di Unitelma Sapienza e della Cooperativa Etam per il reinserimento dei detenuti di Diana Zogno L’Unità, 30 novembre 2024 Nella vita a Rebibbia “vedi la tossicodipendenza, l’uso e abuso di psicofarmaci, donne che girano come zombie. Puoi assistere alla morte”. A testimoniarlo è Bruna Arcieri, detenuta, appartenente a quell’esiguo numero di reclusi che, in Italia, con l’applicazione dell’art. 21 della legge sull’ordinamento penitenziario, possono uscire dal carcere per essere assegnati a lavori esterni agli istituti penitenziari. L’occasione per parlare della sua e di altre storie che vivono e percorrono le carceri arriva con il seminario “Le attività d’inclusione durante e dopo la detenzione” organizzato da Unitelma Sapienza lo scorso 28 ottobre per raccontare il lavoro che l’Ateneo e il contact center in particolare, sta portando avanti a Roma in partnership con la cooperativa Etam, coordinata da Don Sandro Spriano. “Per capire che cosa una persona vive in certi momenti, occorre entrarci in interazione diretta e farlo con umiltà” ricorda il Rettore Bruno Botta. “Offrire delle opportunità significa mettere nelle condizioni qualcuno di fare qualcosa, senza dover mettere in evidenza le sue esperienze passate. Sta a noi, piano piano, comprendere la bellezza di quello che stiamo vivendo, non solo nel donare opportunità, ma anche nel capire. Se noi per primi non ci mettiamo a disposizione e non mettiamo gli altri nella condizione di capire, di provare, di avere opportunità, abbiamo fallito”. Un fallimento, quello della mancata vocazione all’inclusione e al rispetto dei diritti, che è già realtà sul piano dei fatti e della legge in Italia. “Pannella diceva che la nostra Costituzione è così buona che se la sono mangiata” ricorda Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino. “La Costituzione viene costantemente violata. La finalità, per esempio, costituzionale che prevede il percorso individuale del detenuto verso la risocializzazione non è percepito né presente nelle carceri nazionali. Tornando infatti al codice di ordinamento penitenziario”, prosegue Rita Bernardini, “basti pensare che questo contiene diversi articoli che non sono mai stati attuati e articoli dal 74 in poi che istituiscono i Consigli di aiuto sociale, istituzioni che non sono mai state realizzate e che avrebbero dovuto avere una forte valenza sociale per l’inserimento del detenuto in una rete di supporto, che poi l’avrebbe condotto a trovare o ritrovare il proprio inseriment o lavorativo. Con l’On. Roberto Giachetti, con cui da decenni siamo al lavoro su questi temi, abbiamo presentato un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per chiedere che fine hanno fatto i Consigli di aiuto sociale. In realtà, su oltre 62mila detenuti che oggi sono presenti nelle carceri - in 45mila posti disponibili - meno di 2.000 hanno l’opportunità di fare esperienze esterne di inserimento anche lavorativo. L’ordinamento penitenziario stabilisce l’esistenza di un percorso individualizzato di trattamento. Vale a dirsi che dovrebbero esserci dei professionisti: educatori, psicologi, criminologi per attuare questo percorso che deve portare al reinserimento sociale. Molti detenuti, tuttavia, non hanno mai visto un educatore, non conoscono neanche il concetto di percorso individualizzato, sono abbandonati a loro stessi. Così la legge non vive e perisce la carne viva delle persone”. A ricordare l’inferno, perché di inferno in Terra parlano i numeri del sovraffollamento e delle morti negli istituti penitenziari, è lo stesso Don Sandro Spriano che da anni coordina la Cooperativa Etam e che citando la Bibbia dà voce a un messaggio antico, attuale, profondamente umano. “Quando ho iniziato a frequentare le carceri ho pensato all’inferno così come è descritto, la geenna, la ‘valle di Innom’, dove si compiva il sacrificio dei bambini con il fuoco, una società di catene, della non solidarietà”. La stessa ‘non solidarietà’ che porta morte negli istituti penitenziari sotto lo stigma di un’indifferenza istituzionale e politica senza precedenti. E se proprio l’indifferenza, l’egoismo, la violenza diventano i pilastri di quegli istituti di democrazia dove la grazia della giustizia dovrebbe essere faro di verità e speranza, come possiamo immaginare che oltre quelle sbarre, la società specchio dei non detenuti, si regga su principi diversi? Abbiamo costruito l’inferno e gli abbiamo dato un nome diverso in ogni epoca che abbiamo abitato nel tempo, rendendolo sempre più terreno, sempre più reale e vicino. A essere cambiata è la spregiudicatezza del boia, della mente che giudica senza comprendere, della mano che si chiude senza aprirsi, del cuore che sanguina senza più chiedere aiuto. Venezia. Lavoro e riscatto nelle carceri venete: un progetto che unisce imprese e società di Adamo Chiesa lapiazzaweb.it, 30 novembre 2024 Lunedì 2 dicembre, a Venezia, verrà presentata una pubblicazione che esplora il lavoro penitenziario nel Veneto. La Sala Polifunzionale del Palazzo Grandi Stazioni della Regione Veneto ospiterà, lunedì 2 dicembre alle ore 9.30, la presentazione di “Liberiamo le produzioni - Lavoro penitenziario nel Veneto - Opportunità per le imprese”. Questo evento rappresenta un punto di incontro tra mondo produttivo e istituti penitenziari, con l’obiettivo di creare una filiera produttiva che valorizzi il lavoro carcerario come strumento di inclusione sociale ed economica. Ad aprire i lavori sarà l’assessore regionale allo Sviluppo economico, Roberto Marcato, affiancato da illustri relatori: Andrea Ostellari, sottosegretario al Ministero della Giustizia; Antonio Santocono, presidente di Unioncamere Veneto; e il Patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia. La pubblicazione nasce da un progetto sostenuto dalla Regione Veneto, in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e l’Unione Regionale delle Camere di Commercio, e punta a far dialogare il sistema imprenditoriale con le strutture penitenziarie regionali. L’assessore Marcato descrive questa iniziativa come “una grande opportunità per le imprese e una sfida sociale” che permette di unire economia e riscatto personale. Durante l’evento saranno illustrati i risultati e le prospettive di questa ambiziosa proposta, che guarda oltre le mura del carcere per costruire un futuro inclusivo. Pontremoli (Ms). Un’alternativa al carcere. La speranza in una mostra La Nazione, 30 novembre 2024 Nell’ex tribunale di Pontremoli l’iniziativa di Comunità educanti con i Carcerati. L’impegno dei volontari della ‘Papa Giovanni XXIII’ per il reinserimento. Una mostra e un convegno parlano dell’alternativa al carcere. La rassegna fotografica “Dall’amore nessuno fugge” sulla realtà delle Comunità Educanti con i Carcerati della ‘Papa Giovanni XXIII’ e sull’esperienza Apac (Associazione di protezione e assistenza condannati) che dal Brasile si è diffusa in diversi Stati, è stata inaugurata ieri nell’ex Tribunale. Presenti i sindaci di Pontremoli e Mulazzo Jacopo Ferri e Claudio Novoa, Giorgio Pieri, coordinatore del progetto Comunità Educanti con i Carcerati, che ha illustrato i pannelli della rassegna. Un racconto della vita di donne e uomini che si sono reinseriti nella società. “Le Comunità educanti con i carcerati- ha detto Pieri - sono luoghi di espiazione della pena alternativi al carcere che offrono percorsi educativi personalizzati da svolgere in un circuito comunitario protetto, garantendo sicurezza ai cittadini, rispetto alle vittime e riscatto al reo. L’auspicio è che, anche grazie a questa mostra, possano essere maggiormente conosciute e avere riconoscimento istituzionale e amministrativo, dato che oggi lo Stato non finanzia queste comunità”. Le Cec in Italia sono una decina e sopravvivono con l’aiuto di volontari. Spesso il tema carcere è ritenuto ‘materia di Stato’ invece i territori hanno un ruolo fondamentale nella costruzione della speranza per i detenuti e gli enti locali sono attori strategici. La mostra offre spunti di riflessione per avviare una ‘rivoluzione necessaria’. Il messaggio è che per un vero reinserimento servono carceri senza sbarre, dove è importante l’azione del volontariato. Le prime esperienze Apac sono nate nel 1972 in Brasile ad opera dell’avvocato e giornalista Mario Ottoboni a cui è anche dedicata la rassegna. In quel progetto i detenuti hanno le chiavi delle celle non ci sono né guardie né muri: è la comunità locale ad aiutare il reinserimento di chi sta scontando la pena. E si è visto che i tassi di ricaduta sono bassi (12% rispetto al 70% delle carceri tradizionali). E venerdì alle 17 al Pungiglione di Mulazzo il convegno su “Dall’esecuzione intramuraria alle misure alternative”, in cui saranno spiegati il ruolo dell’avvocato e l’attivazione di percorsi educativi individualizzati. Siena. “Maschere e ombre” fuori da Ranza. La mostra dei detenuti-fotografi La Nazione, 30 novembre 2024 L’importante progetto di formazione realizzato nel carcere di San Gimignano incontra la città. Si legge “Maschere e ombre”. Si traduce in ventuno scatti della prima mostra di fotografi “professionali” dei detenuti di Ranza e Volterra esposti in sala di cultura fino a domani. Volti e maschere al maschile, usciti per la prima volta fuori dalle sale di posa del corso di fotografia dalla casa di reclusione a Ranza e dal ‘Maschio’ di Volterra. A illustrare questi volti in posa fra ombre e maschere un giovane custode-detenuto-semilibero Pietro (nome di fantasia) calabrese 25 anni, oramai agli sgoccioli della pena dopo 15 anni, già in cerca di lavoro da giardiniere, con l’assessora Daniela Morbis, con delega fra l’altro al sociale, famiglia, alle politiche giovanili per questo evento con il contributo del comune su progetto ‘LibeRanza’ dell’associazione ‘Spazio Libero’ di Ranza del corso di fotografia professionale del 2023. Grazie al sostegno e volontà per questi eventi culturali della direttrice Mariagrazia Giampiccolo, promotrice del progetto con le educatrici, educatori e il personale della polizia penitenziaria di Ranza. Una mostra delle ombre e le maschere che rappresenta il frutto del lavoro svolto all’interno della casa di reclusione di San Gimignano Ranza e Volterra, dai volontari di Spazio Libero Volterra: Mauro Fanfani, Roberto Fiorini e Stefano Cari, coordinati da Mirella Venturi nel 2024. La riflessione uscita dalla cinta di Ranza dove sono ospiti ogni giorno circa trecento detenuti in alta sicurezza e una quindicina di semiliberi. “Preziosa anche la collaborazione della amministrazione comunale che ha accolto la proposta di allestire la mostra, proprio nei giorni in cui si celebra la Festa della Toscana, solenne ricorrenza per meditare sulle radici di pace e giustizia del popolo toscano - spiega soddisfatta l’assessora Daniela Morbis - che valica le porte del carcere per arrivare nel centro della nostra città e dalla ennesima conferma di come l’arte, soprattutto quando trova spazio tra le mura carcerarie, si rende portavoce dei grandi cambiamenti della società, con un’attenzione speciale dedicata all’importanza delle relazioni, all’ambiente, ai disagi dei giorni nostri, affinchè il futuro possa essere migliore per tutti”. Una mostra illustrata da Pietro applaudita e visitata da molti turisti. Sulmona (Aq). Un fumetto con i detenuti contro la violenza di genere ansa.it, 30 novembre 2024 È stato presentato oggi, nella Casa di reclusione di Sulmona, un libro-fumetto che rilegge la Divina Commedia attraverso il tema della violenza di genere. Un lavoro realizzato dai detenuti con il contributo e il monitoraggio di esperti che coinvolge detenuti e figure esperte per offrire una chiave moderna nell’interpretazione di personaggi come Francesca, Pia e Piccarda. Il progetto, dal titolo “E il modo ancor ci offende: da Dante ai giorni nostri” è stato avviato da tempo nell’ambito delle iniziative del 700esimo anniversario della morte di Dante, ha analizzato le figure femminili della Divina Commedia per esplorare le radici della cultura patriarcale e riflettere sul legame tra pubblico, privato e violenza. La creazione del fumetto, pubblicato da Masciulli, ha visto la collaborazione di esperti, del Cpia (Centro provinciale istruzione adulti) L’Aquila, con il supporto dell’amministrazione penitenziaria e della Fondazione Carispaq. L’incontro ha visto i saluti del direttore della struttura, Stefano Liberatore, e della dirigente scolastica Alessandra De Cecchis. A seguire, sono intervenute Elisabetta Santolamazza, capo area trattamentale, e le legali Cristina Marcone e Simona Giannangeli, impegnate nel contrasto alla violenza di genere. Tra i presenti anche Lorenzo Scocciolini, autore di un libro sul femminicidio nella Divina Commedia che è stato letto nell’ambito del progetto come spunto per il fumetto. All’incontro hanno partecipato, inoltre, la psicologa Rosa Anna Passaretti, oltre alla dottoressa Valentina Cavallucci e ad alcuni detenuti che contribuiranno con letture e testimonianze, affidate agli attori: Giorgia Cironi, Francesca Galasso e Pietro Becattini. A condurre l’evento è stata la giornalista Chiara Buccini. “Le storie di Francesca, Pia e Piccarda - spiegano le due docenti del Cpia Antonella Iulianella e Concetta Berlantini - sono accomunate non solo dalle violenze cui sono state sottoposte, ma anche da una visione più emancipata della loro femminilità. La forma fumetto possiede una forte valenza didattica”. Venezia. L’arte in carcere: esperienza del bello a Santa Maria Maggiore di Alessandro Polet Gente Veneta, 30 novembre 2024 Un desiderio e un proposito di bene, confidato ad una persona amica, da ideale o sogno quasi irrealizzabile diventa invece una splendida realtà, riuscendo a passare attraverso le molte sbarre e i vari passaggi blindati che scandiscono “naturalmente” ogni ingresso ed ogni uscita dal carcere. Succede infatti, qualche tempo, fa che suor Virginiana Dalla Palma, religiosa delle Figlie di S. Giuseppe del Caburlotto e stabilmente impegnata da anni come volontaria nel carcere maschile veneziano di S. Maria Maggiore, incontri in una calle Milena D’Agostino, dipendente del Patriarcato ed impegnata nella Pastorale del turismo con particolare attenzione al servizio volontario di guida e accompagnamento ai visitatori della basilica di S. Marco e dei suoi magnifici mosaici. “Mi piacerebbe - le dice allora la suora - portare all’interno del carcere la bellezza di Venezia, magari presentando ai detenuti i mosaici di S. Marco. Tu che lavori ogni giorno con l’arte, perché non vieni a fare qualcosa anche per i detenuti?”. “Già, perché non portarla a tutti questa bellezza? Certo che si può fare…”, osserva Milena. Sarebbe proprio interessante e bello, concordano entrambe. E da quel momento suor Virginiana e Milena “partono” e pongono le basi, ricercando le strade e le modalità giuste, accanto ovviamente all’ottenimento di tutti i permessi necessari, per iniziare a realizzare quest’idea particolare e suggestiva. A loro si unisce immediatamente Nicola Panciera, marito di Milena, ingegnere, guida volontaria a S. Marco e anche lui grande appassionato d’arte, detto amichevolmente “Pancho”. La direzione dell’Istituto si è dimostrata subito entusiasta della prospettiva e il compianto don Antonio Biancotto, allora cappellano (indimenticato) del carcere, si era detto felicissimo, tanto da immaginare già i successivi passi: dopo i mosaici di S. Marco aveva invitato, in futuro, a proporre alcune delle tante e bellissime chiese di Venezia per, magari, arrivare un giorno a dare la possibilità ai detenuti (in una sorta di permesso premio) di ammirarle dal vivo almeno una volta, riproponendo così un paio di iniziative singole e simili realizzate in anni passati a S. Francesco del Deserto e alla Salute. Per don Antonio, inoltre, l’educazione e la formazione all’arte hanno sempre rappresentato una risorsa in più per gli ospiti dell’Istituto nel momento della loro uscita e del ritorno in società. “Abbiamo cominciato - racconta Milena - legandoci all’incontro già esistente del lunedì per la recita del Rosario e ci siamo collegati ai contenuti dei singoli misteri, iniziando da quelli dolorosi e quindi con la Passione di Gesù, com’è raffigurata a S. Marco. Abbiamo poi affrontato i mosaici principali e più belli della Basilica, per finire con quelli dedicati alla Creazione, che hanno suscitato tante curiosità e domande. Adesso siamo passati a Torcello e stiamo affrontando nientemeno che il Giudizio universale. In futuro probabilmente toccherà al Tintoretto”. Questi incontri spirituali e culturali - che sono, insieme, di preghiera, catechesi e dialogo attraverso l’arte - avvengono in genere una volta al mese e vi partecipa un gruppo di 15-20 persone in media, tutte molto interessate e che attendono con trepidazione l’appuntamento; sono perlopiù detenuti italiani, più di qualcuno originario dell’area veneziana, ma non mancano gli stranieri - nordafricani o dell’Est Europa - che rappresentano una parte cospicua dell’attuale popolazione di S. Maria Maggiore. “La proposta ci ha preso da subito - afferma Pancho - quasi come un completamento dell’esperienza che, con Milena, facciamo in Basilica come guide volontarie. Del resto, il racconto che viene fuori dall’apparato musivo marciano ha sempre un duplice fascino: quello artistico e quello del contenuto che suscita sempre reazioni e colpisce i visitatori. Questo vale ancor di più per chi è in carcere. La nostra non è mai una lezione, ma una esperienza del bello che, in quel luogo, ha un grande valore e riesce a tirare fuori l’umano che è in ogni persona al di là della situazione contingente e vincolante. L’opera d’arte, letta attraverso uno sguardo di fede, aiuta la persona a confrontarsi e ad approcciare l’esistenza, anche quella vissuta in carcere, come uno spazio di libertà e di bene. Il nostro dialogo giunge così a toccare corde molto personali, come quando si arriva a parlare del peccato e del male”. Per gli ospiti del carcere, quell’ora e mezza d’incontro diventa una boccata d’aria fresca e buona; un momento che li fa guardare ad altro e più avanti, rispetto anche alle preoccupazioni e ai soliti dialoghi di carattere più ordinario (in cella, con gli avvocati, con il personale del carcere, con i magistrati…). Milena ricorda, in particolare, il momento in cui Pancho stava spiegando l’arcone marciano dell’Ultima Cena con il tradimento di Giuda che, in tale rappresentazione, come pure nella patavina Cappella degli Scrovegni, non guarda in faccia Gesù perché non riesce a sostenerne lo sguardo: “Accanto a me un giovane detenuto mi sussurra: “Giuda era proprio un dilettante! Io al mio avvocato ne ho dette di tutti i colori guardandolo in faccia…”. Un altro ragazzo, però, appena sentita quella battuta, mi fa: “Io invece lo capisco (Giuda, ndr), perché adesso non riesco più a guardare in faccia i miei genitori”. E lì si è aperto un momento forte di dialogo”. I detenuti sono colpiti dal fatto che una coppia come loro dedichi del tempo per venire in carcere e, a volte, si aprono dei canali di comunicazione brevi ma profondi. “Hanno tanto bisogno di comunicare e di vivere degli spazi di normalità in un contesto che non è normale”, confida suor Virginiana. Di fronte, ultimamente, alla presentazione della Creazione marciana o del Giudizio universale di Torcello, capita poi di toccare temi delicatissimi come la libertà dell’uomo o la rappresentazione (e l’esistenza) dell’inferno. Con reazioni impreviste e imponderabili, come quando un detenuto, ad un certo punto, ha aperto il suo cuore con una limpidezza assoluta: “Quando sarò dall’”altra parte”, penso che Dio non mi guarderà come mi guardo io. Lui mi dirà: “So che hai sbagliato, ma io ti voglio bene”“. Il benefico e stimolante intreccio tra fede e arte portato all’interno del carcere, al centro di un’iniziativa specifica, stabile e non più solo estemporanea, ha suscitato già molto interesse anche al di fuori della città. Ne ha già parlato con un servizio il mensile “Madre”, mentre TV2000 ha voluto raccogliere le voci di suor Virginiana, Milena e Pancho per raccontare l’originale esperienza veneziana durante il rotocalco “Finalmente domenica” (la trasmissione andrà in onda domenica 1 dicembre alle 15.15). Un volume per narrare la vita dentro e fuori le sbarre di Marina Piccone L’Osservatore Romano, 30 novembre 2024 Il progetto del volume “I volti della povertà in carcere” nasce “plurimo”; è stato sostenuto, tra gli altri, da “L’Osservatore Romano”, “L’Osservatore di Strada”, la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, Giacinto Siciliano, provveditore della Regione Lazio, già direttore del carcere di San Vittore, Giuliano Crepaldi, della Società San Vincenzo de Paoli di Roma. L’incontro del 28 novembre scorso, arricchito da una mostra fotografica allestita nel Chiostro di Santa Maria sopra Minerva, a Roma, è stato aperto da un videomessaggio di saluto di Juan Manuel Buergo Gómez, presidente generale, e Antonio Gianfico, direttore generale internazionale della Società San Vincenzo dè Paoli, e da Giovanni Russo, a capo del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Sono intervenuti - oltre agli autori del libro, Rossana Ruggiero e Matteo Pernacelsi - tra gli altri, Roberto Turrini Vita, garante nazionale dei detenuti, Francesco Bonini, rettore dell’università Lumsa, don Dario Acquaroli, direttore della Comunità don Lorenzo Milani di Sorisole (Bergamo), Roberto Pagani (Forum Terzo Settore) e il provveditore Siciliano. I volti sono quelli di alcuni detenuti e detenute del carcere di San Vittore di Milano, illuminati dalla penna di Rossana Ruggiero, che ha scritto le storie, e dalla luce di Matteo Pernacelsi, che li ha fotografati in un bianco e nero di forte impatto emotivo; I volti della povertà in carcere (Bologna, Edb, novembre 2024, pagine 144, euro 39) è il volume presentato il 28 novembre scorso presso la Sala degli Atti Parlamentari nella Biblioteca del Senato Giovanni Spadolini, a Roma. “Questo libro è una bella scossa, che turba e inquieta facendoci tuffare dentro una realtà che spesso togliamo dalla nostra visuale, che spesso vogliamo rimuovere”, ha detto Andrea Monda, direttore de “L’Osservatore Romano” e moderatore dell’incontro, aperto con un messaggio di saluto di Papa Francesco e del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “Il carcere è stata un’esperienza dolorosa”, ha detto Rossana Ruggiero, membro del Consiglio Centrale di Roma della Società San Vincenzo de Paoli e giurista e bioeticista nell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, di Roma. “Superarne la soglia e vivere, attraverso i detenuti, l’esperienza del limite della libertà e la percezione del corpo incarcerato, non mi ha trovato pronta. Poi, dopo un anno di lavoro e di incontri, ti accorgi che hai fatto quello che hai potuto, che il loro bene era cucire i pezzi delle loro storie, storie di vita che non credevano più di avere né di ricordare”. Per Matteo Pernaselci, fotografo, “entrare in un carcere è stata un’esperienza forte, soprattutto quando si è molto giovani. Ho scattato le fotografie di questo libro quando avevo 22 anni ed era la prima esperienza di reportage in un luogo così carico di storie. Siamo andati alla radice, cercando di comprendere il senso di quanto era accaduto nella vita delle persone che abbiamo incontrato. Guardare qualcuno negli occhi e porgergli la mano potrebbe cambiare la sua vita per sempre”. Come scrive il cardinale Matteo Maria Zuppi nella prefazione del libro, “non sei un numero, non sei una matricola, non sei il reato che hai commesso, sei una persona”. E dunque conosciamole alcune di queste persone. Berrich, tunisina, ha un ricco curriculum professionale e umano: infermiera, cameriera, mediatrice culturale, un matrimonio combinato, un’unione civile e una convivenza. Ha due bambini, di dieci e quattro anni, ed è arrivata in Italia per scappare dal primo matrimonio. La sua ultima storia d’amore è stata fatale. Un reato consumato per aver scoperto il tradimento del suo compagno con la sua migliore amica, ingaggiata come babysitter del figlio. Viene reclusa, prima, in una casa circondariale, dove vive una brutta esperienza, poi, al carcere di San Vittore, che considera una “salvezza, un paradiso”. “Sono rinata”, dice. “Ora ho una grande pace interiore, mi sento libera, mi amo e mi rende felice aiutare chi ha bisogno”. La povertà ha molte facce: economica, spirituale, educativa, di relazione. Colpisce la storia di Antonietta, pugliese, quattro figli, l’ultimo dei quali, Pasquale, studia per diventare frate a Reggio Calabria. Un marito violento e una vita di duro lavoro. Riferisce di trovarsi in carcere per aver acquistato un cellulare usato che è risultato essere rubato. Antonietta non ha vestiti, non ha prodotti per lavarsi, non ha denaro. Ha solo il crocifisso donatole da Pasquale. “Lo porto sempre al collo. Qui dentro mi protegge”. Il “fuori” fa paura. “A combattere si inizia quando si è fuori di qua e la forza sta nel coraggio di allontanare qualunque cosa ti riporti alla tua vecchia vita”, dice Roberto, 23 anni, che, in carcere, ha scoperto la musica trap e scrive canzoni. “Ho paura di uscire e di ricadere nella vita di prima. C’è il professore di musica, contatti con associazioni, il Sert e diciamo che gli strumenti li ho... però ho paura!”. Una paura che può soffocare ogni speranza. “Dura da dirsi, ma sentirsi isolati fuori dal carcere, senza famiglia, e senza lavoro, inevitabilmente ti peggiora e crea tanta solitudine. Per cui, sì, meglio il carcere”, afferma Massimo, 62 anni. Secondo don Dario Acquaroli, c’è una parola fondamentale che si trova nella Bibbia e nella nostra Costituzione, la parola è “responsabilità”. “Magari non c’è più nessuna speranza perché lui ha deciso di non sperare più, però c’è ancora una speranza per me, c’è ancora una speranza di rimanere accanto a quella persona; e quel rimanere accanto è quel gesto che permette di non essere soli neanche nell’ultimo momento della vita”. Non sarà un decreto a salvare le donne dall’uomo violento di Vitalba Azzollini* Il Domani, 30 novembre 2024 La ministra Roccella, annunciando un testo unico che raccoglierà le disposizioni per contrastare la violenza di genere, ha affermato che “avrà un impatto anche sul fronte del cambiamento culturale”. Ma la cultura non si cambia per decreto: se mancano campagne di sensibilizzazione, programmi educativi o altre iniziative svolte in via continuativa, in grado di acuire la consapevolezza. Nella giornata contro la violenza sulle donne, il 25 novembre scorso, la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità, Eugenia Roccella, ha annunciato l’inizio dei lavori per la redazione di un testo unico di raccolta delle disposizioni sul contrasto a tale tipo di violenza. La ministra ha sottolineato il fatto che il testo “avrà un impatto anche sul fronte del cambiamento culturale”. Abbiamo detto più volte che la cultura non si cambia per decreto. A maggior ragione se il decreto - un decreto del presidente della Repubblica, in questo caso - non introduce nuove disposizioni, ma ha una funzione meramente ricognitiva di quelle già vigenti. Roccella ha reso noto di aver dato mandato ai propri uffici e a quelli della ministra per le Riforme istituzionali, Elisabetta Alberti Casellati, di predisporre “un tavolo di lavoro presso la Presidenza del Consiglio per redigere il testo un testo unico contro la violenza sulle donne con il coinvolgimento di tutte le amministrazioni interessate”, nonché “della Commissione bicamerale contro il femminicidio, da cui è anche partita questa quest’idea”. Infatti, la Commissione, istituita nel febbraio 2023, ha tra i suoi compiti anche l’adozione di “iniziative per la redazione di testi unici in materia”. A partire dalla legge di riforma del diritto di famiglia, si sono susseguiti una serie di interventi, a tutela delle donne vittime di violenza, che hanno contribuito a una stratificazione normativa, con la conseguenza che oggi la regolazione in materia è disorganicamente “dispersa nelle varie norme che riguardano il tema”. Il testo che le raccoglierà - ha precisato Roccella - sarà “compilativo, quindi non comporterà innovazioni di tipo legislativo”, cioè modifiche nel contenuto delle norme. Vi saranno incluse non solo le disposizioni che strettamente attengono alla violenza, ma anche quelle che “riguardano per esempio l’empowerment delle donne, quelle che riguardano il lavoro, quelle che riguardano tutti i fronti su cui in qualche modo la violenza contro le donne si esprime”. Il testo unico dovrà essere redatto secondo una serie di criteri indicati dalla legge (n. 400/1998): la puntuale individuazione delle norme vigenti; la ricognizione di quelle abrogate, anche implicitamente; il coordinamento delle disposizioni esistenti, in modo da garantirne la coerenza logica e sistematica ecc. Le norme che prevedono reati, come pure quelle contenute in altri testi unici, non saranno spostate dalla loro sede attuale. La ministra ha, infine, annunciato che l’iniziativa “si concluderà in una giornata significativa, l’8 marzo”. La violenza di genere e la cultura - Un testo ricognitivo può giovare in termini di chiarezza del quadro regolatorio. Ma si può davvero dire che esso potrà determinare un “cambiamento culturale”, come ha affermato Roccella? Se ne può dubitare. Un’iniziativa di mera raccolta delle norme vigenti in tema di violenza sulle donne non può di certo supplire, ad esempio, alla mancanza in via continuativa di campagne di sensibilizzazione, di programmi educativi o di altre iniziative in grado di formare le coscienze e di consentire a tutti di acquisire un’effettiva consapevolezza circa la cultura del rispetto. Ad esempio, si è arenato il progetto “Educare alle relazioni”, presentato un anno fa dal ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, e finanziato con 15 milioni di euro, che avrebbe dovuto articolarsi in gruppi di discussione tra studenti e professori per 30 ore complessive extracurricolari, al fine di educare alla parità di genere, prevenire comportamenti violenti e diffondere la conoscenza del Codice penale. Né il testo unico potrà compensare la mancanza di preparazione che talora si riscontra nel personale preposto a ricevere le denunce delle donne, con la conseguente incapacità di attuare le azioni necessarie per metterle in sicurezza. A fronte di tutto questo, come può Roccella enfatizzare l’idoneità di un testo unico ricognitivo a cambiare la cultura, e magari ad attenuare le criticità a causa delle quali tante, troppe donne subiscono violenza o addirittura vengono uccise? E, se davvero la ministra crede che questo testo abbia un’importanza essenziale, perché l’ha tenuto nel cassetto dal 31 luglio scorso, data in cui è stato approvato dalla commissione parlamentare, e l’ha riesumato solo quattro mesi dopo, mostrando così di considerare la giornata contro la violenza sulle donne solo come una cornice scenografica entro cui collocarne l’annuncio? *Giurista Migranti. Dl flussi, l’allarme: “Aumento dei ricorsi e decisioni più lente” di Simona Musco Il Dubbio, 30 novembre 2024 Il dl Flussi avrà un impatto significativamente negativo sull’organizzazione e sul funzionamento dei tribunali italiani in materia di protezione internazionale, mettendo a rischio le risorse del Pnrr. A dirlo è la Sesta Commissione del Csm, in un parere che verrà votato il 4 dicembre e che verrà poi inviato al governo. A votare contro solo il laico di centrodestra Felice Giuffrè. La normativa introduce la composizione monocratica dei tribunali per le decisioni relative alla protezione internazionale, contrariamente alla precedente composizione collegiale. Un cambiamento che, combinato con l’introduzione della possibilità di presentare un reclamo in appello contro le decisioni monocratiche, mira a gestire meglio il flusso di casi, ma potrebbe anche portare a un aumento del numero di ricorsi e a rallentamenti nei tempi di risposta, dato che le Corti d’Appello dovranno occuparsi di nuove impugnazioni. I dati suggeriscono che il numero di ricorsi e la durata dei procedimenti continuano a crescere, con una durata media dei procedimenti in aumento (oltre 900 giorni per le impugnazioni nel periodo 2023- 2024), creando una situazione di “sofferenza” nei tribunali, che sono chiamati a smaltire una mole di lavoro sempre maggiore. L’ampliamento della lista dei Paesi sicuri, si legge nel parere, potrebbe determinare “un incremento delle istanze di sospensiva e, di conseguenza, del numero delle (eventuali) impugnazioni in appello delle decisioni rese dalle Sezioni specializzate in relazione a tali istanze”. Ma non solo: l’attri-buzione della competenza alle Corti d’appello imporrà una riorganizzazione degli uffici giudiziari di secondo grado”, che si troveranno investiti di un numero di reclami sempre più alto, in base al trend statistico, “in una materia che, come riconosciuto dallo stesso legislatore, richiede di essere trattata non solo con celerità e priorità rispetto agli altri procedimenti, ma anche da magistrati che siano in possesso di specifiche competenze e che seguano appositi percorsi di formazione”. Un ulteriore effetto negativo sarebbe l’allungamento dei tempi di definizione dei procedimenti relativi agli altri affari civili di competenza delle Corti d’appello e dal momento che non è previsto, in parallelo, un aumento degli organici degli uffici di secondo grado, “va tenuto presente e valutato il rischio concreto di pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi fissati per il settore giustizia dal Pnrr”. Ma non solo: analizzando l’emendamento 16.4, la Sesta Commissione evidenzia come “non appaiano allo stato intellegibili né le ragioni poste a fondamento dell’inedita sottrazione alle Sezioni specializzate dei Tribunali distrettuali di procedimenti - quelli appunto sulle convalide dei trattenimenti dei richiedenti asilo - tipicamente assegnati ai giudici di primo grado e il loro affidamento, per saltum, alle Corti d’appello, né i motivi che inducono il legislatore a (proporre di) cancellare uno dei cardini dell’intervento normativo d’urgenza (vale a dire la re- introduzione del reclamo in appello)”. Le Corti d’appello competenti sulle convalide dei trattenimenti sono inoltre individuate con un rinvio alla legge n. 69 del 2005, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri. “Se la disposizione dovesse intendersi come finalizzata esclusivamente a individuare il giudice territorialmente competente, il richiamo della disciplina dell’esecuzione del mandato di arresto europeo potrebbe risultare superfluo, essendo sufficiente, ai fini suddetti, il riferimento alla sede del questore che ha adottato il provvedimento oggetto di convalida”. E volendo andare fino in fondo, “l’unico spazio per ritenere che la competenza sulle convalide dei trattenimenti possa essere attribuita alle Sezioni civili delle Corti di appello è quello di affidare, con provvedimento organizzativo del singolo ufficio giudiziario, a tali ultime Sezioni anche la materia del Mae e delle procedure di consegna”. Il rinvio alla legge 69/ 2005 è stato quindi considerato potenzialmente problematico, poiché crea confusione e potrebbe suggerire una connessione tra il trattamento dei richiedenti asilo e i procedimenti penali. La modifica proposta, infatti, creerebbe una scissione tra i giudici competenti a decidere sul merito del riconoscimento del diritto d’asilo e quelli che dovrebbero occuparsi della legittimità dei trattenimenti dei richiedenti asilo, separando procedimenti intrinsecamente legati tra loro. Tale emendamento, insomma, “da un lato, stravolge il contenuto normativo del decreto-legge”, sopprimendo “il reclamo in appello sul merito (appena reintrodotto), pur lasciando ferma la possibilità di reclamo avverso le decisioni sulle istanze di sospensiva” e dall’altro “incrina il consolidato assetto giurisdizionale in tema di convalida dei trattenimenti, sin qui imperniato - per evidenti ragioni di coerenza sistematica (...) e di salvaguardia delle esigenze di specializzazione affermate dal Consiglio superiore della magistratura e dallo stesso legislatore - sull’attribuzione della relativa competenza alle Sezioni specializzate in materia di immigrazione”.