Ecco perché la finalità rieducativa non è un semplice proposito buonista di Domenico Arena* Avvenire, 28 novembre 2024 Il carcere non può essere il luogo “in cui si perde ogni speranza”. Le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica suonano come un monito estremo, per il sistema dell’esecuzione penale nel nostro Paese; e obbligano tutti a compiere uno sforzo di analisi complessiva - e per certi versi, impietosa - della sua gestione, in frangenti in cui la speranza pare invece affievolirsi e il dibattito pubblico sul tema rischia di scivolare su un piano inclinato, verso polarizzazioni emotive, prima ancora che ideologiche, tra pulsioni “cattiviste”, tese all’enfatizzazione della dimensione affittiva delle pene; e tentativi di valorizzazione della finalità rieducativa e del reinserimento sociale, spesso percepite come propositi “buonisti” da parte di anime belle idealiste e lontane dalla realtà delle cose. Vale allora forse la pena di provare a tornare ad alcune questioni concrete che possano servire come punti di riferimento per una riflessione orientata a ricadute positive sull’intero sistema della penalità italiana. La prima di queste questioni riguardala necessità di superare l’idea che le modalità e i contenuti dell’esecuzione delle sanzioni penali siano dati, una volta per tutte, con la condanna del giudice; e che essi debbano consistere pressoché esclusivamente nella detenzione all’interno delle carceri. Così facendo, non solo si dimentica quanto le nostre leggi - a partire dalla Costituzione, che nona caso parla di pene al plurale piuttosto che di pena - disegnino un sistema sanzionatorio fortemente articolato e diversificato; non solo si ignora - più o meno coscientemente - quanto, nell’esperienza europea ed internazionale questa diversificazione sia già concretamente ed utilmente adottata; ma, soprattutto, si compie un’operazione ingiusta e pericolosa. Ingiusta, perché trattare in modo analogo situazioni diverse lede alle fondamenta il principio di eguaglianza; e pericolosa, perché la scarsa differenziazione è una delle cause del sovraffollamento carcerario, del rischio che gli istituti penitenziari divengano scuole del crimine e in definitiva, incubatoi di insicurezza sociale. Le persone condannate - oltre ad essere molto diverse tra loro, sotto il profilo dello spessore criminale e della pericolosità - hanno possibilità e volontà di cambiamento delle proprie traiettorie di vita differenti, nel corso del tempo e col mutare delle situazioni; e un sistema sanzionatorio efficace deve saper cogliere queste differenze e questi cambiamenti in modo accurato e sicuro. La transizione dall’interno del carcere alla penalità esterna dovrebbe costituire un passaggio tanto naturale, quanto calibrato, controllato e presidiato dal sistema nel suo complesso, in sinergia costante tra carceri ed uffici di esecuzione penale esterna; e la realizzazione di quel passaggio dovrebbe essere riconosciuta ed incentivata come un punto di eccellenza, per gli uni come per gli altri Su questo terreno molto si è fatto, ma moltissimo c’è ancora da fare per superare l’idea che l’unico carcere sicuro sia quello che non permette di varcare la sua soglia. Un secondo, conseguente punto di riflessione, riguarda gli investimenti e le risorse che questo approccio implica, sotto il profilo della quantità, ma, soprattutto, dal punto di vista qualitativo. Certo, per saper cogliere differenze e cambiamenti, serve un maggior numero e una maggiore diversificazione degli operatori, dalle forze di polizia agli psicologi, educatori, assistenti sociali, mediatori culturali e penali; così come servono spazi diversi da quelli attuali, per quantità e qualità delle condizioni di vita delle persone condannate e degli stessi operatori. Ma, accanto e forse persino più di questo, serve una forte accelerazione lungo almeno tre direttrici: la valutazione scientifica del rischio di recidiva nel reato; l’innovazione digitale (e interoperabilità dei sistemi gestionali ed informativi); la gestione delle risorse finanziarie disponibili e/o accessibili. Sul primo versante, l’attuale stato di avanzamento delle scienze criminologiche consente di adottare strumenti di risk assessment oramai raffinati e capaci di cogliere e aggiornare costantemente nella propria configurazione dinamica, i rischi di ripetizione dei comportamenti delittuosi. La disponibilità e la formazione all’utilizzo di tali strumenti potrebbero accrescere fortemente l’accuratezza e la precisione della delicata opera di valutazione che gli operatori devono compiere quotidianamente. Ugualmente la realizzazione di una rilevazione sistematica e generale dei tassi di recidiva - oramai a portata di mano, da un punto di vista tecnico - offrirebbe un prezioso strumento di valutazione del tasso di efficacia del sistema sanzionatorio nel suo complesso e una solida base per la calibrazione di scelte orientate all’incremento della sicurezza sociale. Le tecnologie digitali ed informative disponibili rendono accessibile la realizzazione di un modello di gestione dell’esecuzione penale che sappia scambiare informazioni e dati, al proprio interno, in modo efficace, in tempo reale e con flussi di lavoro sicuri. Non è un tema solo tecnico, ma dalle inimmaginabili ricadute positive, in termini di efficienza del sistema del suo complesso, di risparmio di risorse, di sicurezza dei dati: la recente realizzazione, a cura del ministero della Giustizia, del portale dedicato ai lavori di pubblica utilità rappresenta un esempio di quanta strada si possa percorrere in questa direzione. Anche in materia di reperimento ed utilizzo efficace delle risorse finanziarie molto può essere fatto, per sostenere un processo di cambiamento tanto necessario ed ambizioso, quanto realizzabile, da subito e a normativa vigente. Il programma “Una Giustizia più inclusiva” porrà a disposizione dell’esecuzione penale un budget di 280 milioni, nel triennio 2025- 2027, finanziato confondi sociali e strutturali europei, realizzando luoghi ed opportunità - dentro e fuori dagli istituti penitenziari, per adulti e per minori - di lavoro, di riflessione di volontariato e restituzione alle comunità di almeno una parte di quanto è stato loro sottratto con la commissione dei reati. È, anche questo, un esempio e certamente un primo passo nella direzione di un utilizzo pieno ed efficace di risorse che spesso il nostro Paese fatica ad impegnare. Sono investimenti di denaro, ma soprattutto di intelligenze, capacità, strumenti scientifici e tecnologici, che possono rivelarsi di straordinaria redditività e realizzare un deciso cambio di passo nella qualità dell’esecuzione delle pene, più umana e rispettosa della dignità delle persone (le vittime ancor prima degli autori di reato, le rispettive cerchie sociali, gli stessi operatori della giustizia) e delle comunità coinvolte. *Direttore generale dell’Esecuzione Penale Esterna e Messa alla Prova, Ministero della Giustizia Detenuti tossicodipendenti: carceri sovraffollate e Comunità mezze vuote di Ilaria Dioguardi vita.it, 28 novembre 2024 Solo il 7% dei detenuti con problematiche legate all’uso di sostanze ha accesso ad un percorso alternativo alla detenzione, in comunità. Caterina Pozzi, presidente Cnca: “La nostra rete accoglie 400 persone. È pronta ad accogliere, da subito, altri 220 detenuti. Non è più tollerabile che tensioni e problemi sociali vengano affrontati creando nuovi reati, aumentando le pene e limitando il ricorso alle misure alternative”. Nelle comunità terapeutiche residenziali che afferiscono alla rete Cnca, Coordinamento nazionale comunità accoglienti “ci sono 400 persone con problemi di dipendenza patologica in misura alternativa alla detenzione, ma quasi altrettanti posti sono disponibili nelle comunità della rete sparse per l’Italia. Da subito potrebbero accedere alla misura, e quindi uscire dal carcere, 220 detenuti in 12 diverse regioni”, ha detto Caterina Pozzi, presidente Cnca, durante la conferenza stampa “Vuoti a prendere. L’affidamento in prova in comunità per i detenuti tossicodipendenti, una pratica in calo mentre il sovraffollamento carcerario aumenta”. “Si tratta di comunità terapeutiche accreditate che offrono servizi riconosciuti ed approvati dalle rispettive normative regionali, che operano in sinergia con i SerD territoriali e che possono da subito offrire soluzioni di accoglienza alleggerendo il carico negli istituti penali”. Formazione e reinserimento sociale e lavorativo - Le realtà del Cnca, “come altri, lavorano nei diversi territori da decenni in stretta collaborazione con i servizi pubblici locali per le dipendenze, i servizi sociali dei comuni e gli enti di formazione per garantire percorsi territoriali di reinserimento sociale e lavorativo alle persone con problemi di dipendenza anche provenienti dalla detenzione”, ha continuato Pozzi. “Malgrado questa ampia rete di collaborazione fra pubblico e privato, sono pochissime le persone che accedono alle misure alternative con affidamento ai servizi territoriali pur previsti dalla legge, ovvero facendo ritorno alla propria abitazione o accedendo a strutture di accoglienza domiciliare, con un progetto socio sanitario curato dagli enti territoriali”. Ridurre ingressi e tempi negli istituti di pena - Il Cnca è la più vasta rete nazionale che si occupa da oltre 40 anni di persone con problemi legati al consumo di sostanze e spesso con procedimenti penali alle spalle. “Il tema del sovraffollamento degli istituti penali e delle condizioni di vita disumane delle persone recluse è sotto gli occhi di tutti. Per prima cosa vogliamo ribadire con forza che la strada maestra per affrontare il problema del sovraffollamento in carcere è principalmente quella di ridurre gli ingressi nelle strutture detentive e limitarne i tempi. Un risultato che si raggiunge con una decisa azione di depenalizzazione e di ricorso esteso alle misure alternative alla detenzione”, ha proseguito Pozzi. “Non è più tollerabile che tensioni e problemi sociali vengano affrontati creando nuovi reati, aumentando le pene e limitando il ricorso alle misure alternative. Pozzi ha concluso dicendo che, alla fine dell’anno, uscirà un capitolato con le caratteristiche che dovranno avere le strutture per far parte dell’albo delle comunità, di cui parla il decreto carceri. Sovraffollamento al 120%, 81 suicidi tra i detenuti e 7 tra gli agenti - “È allarmante la situazione in cui versa il carcere italiano, che conta 61.480 ospiti (al 30 giugno di quest’anno), con una capienza regolamentare di 51.234 persone. Il tasso di sovraffollamento, in media, è del 120%, con 81 suicidi tra la popolazione ristretta e sette di agenti di Polizia penitenziaria da inizio 2024”, ha detto Sonia Caronni, referente area penale adulti del Cnca, alla conferenza stampa, che ha visto la presenza anche degli onorevoli Debora Serracchiani, Riccardo Magi e Devis Dori. “Riteniamo urgente portare l’attenzione su quelli che potrebbero essere i dispositivi che possano migliorare le condizioni detentive e il benessere penitenziario. Negli istituti di pena italiani ci sono 17.405 detenuti tossicodipendenti, pari al 29% della popolazione ristretta nazionale, ma solo il 7% degli assistiti per problemi di uso di sostanze ha accesso ad un percorso alternativo alla detenzione nelle comunità terapeutiche, come riportato nella “Relazione al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia 2024”, ha continuato Caronni. Housing diffuso - “Sono da rafforzarsi immediatamente le condizioni per la concessione dell’affidamento in prova per casi particolari aumentando il numero degli inserimenti in comunità e gli affidamenti territoriali. Per quanto riguarda i detenuti comuni che hanno diritto ad accedere alle misure alternative, come Cnca mettiamo in evidenza l’esperienza positiva di accoglienza in housing diffuso, modulato su ospitalità per gravi fragilità, per medie fragilità e per percorsi di autonomia che abbiamo sperimentato durante l’emergenza pandemica Covid-19. Tale dispositivo di accoglienza permette alle persone di sperimentare percorsi educativo-trattamentali ponendosi al centro delle comunità e della rete di servizi in cui l’housing è collocato”. Carceri “ingovernabili e forse ingovernate” - Le carceri in Italia sono “ingovernabili e forse anche ingovernate”, ha detto Stefano Anastasia, garante dei diritti dei detenuti della regione Lazio. “Per quanto riguarda le comunità, nel decreto carceri approvato la scorsa estate si parla di un’istituzione dell’albo delle comunità terapeutiche insignificante. I giudici decidono le misure alternative alla detenzione sulla base delle leggi, a prescindere che queste strutture siano o no presenti nell’albo ministeriale. L’accreditamento deve essere presente nell’albo dei servizi sociosanitari, non nell’albo del decreto del Ministero della Giustizia”, ha continuato. “Il problema della riduzione delle persone in carcere è un problema del governo”. Serve il potenziamento del personale sanitario ed educativo - “Occorrerebbe da subito attivare alcune facili azioni e disponibilità di collaborazione che abbiamo portato ai confronti avuti con i vari ministeri, ma di cui non vediamo azione concreta”, ha affermato Riccardo De Facci, referente rapporti istituzioni sulle dipendenze Cnca. “È necessario un potenziamento ed una messa a regime del personale sanitario ed educativo interno alle carceri, in modo da permettere una celere, corretta, continuativa ed efficacia presa in carico delle persone ristrette con problematiche di abuso e dipendenza. Per evitare complesse e problematiche crisi di astinenza o disagio psichico con action out pesantissimi serve costruire stabili reti di collaborazioni con il sistema dei servizi e delle realtà del Terzo settore territoriali (comunità terapeutiche, centri diurni, forme di misure alternative e forme diverse di messa alla prova)”. Le carceri parlano da sole - De Facci ha proseguito dicendo che “bisogna aprire un serio confronto stabile con la Magistratura di sorveglianza per utilizzare con una corretta valutazione le varie forme di presa in carico di tale target, sia comunitarie che territoriali. E ancora, occorre costruire spazi intermedi all’interno delle carceri (individuali, centri diurni e spazi specifici) per questa popolazione vulnerabile, gestiti con operatori pubblici e del Terzo settore per l’accompagnamento verso misure alternative alla carcerazione soprattutto per pene lievi, persone in attesa di giudizio e persone con problemi sociosanitari significativi. Malgrado le grandi disponibilità dimostrate dalle strutture territoriali pubbliche e del privato sociale”, ha concluso, “poche ci sembrano le azioni concrete intraprese. Occorre pensare al carcere non più come luogo chiuso, è parte della società. Se vediamo quello che succede nelle carceri (solo per citare gli ultimi accadimenti, ad esempio, negli istituti di Trapani e al Beccaria) ci rendiamo conto che le carceri parlano da sole. Il non ascolto del governo ci sembra una cosa gravissima”. “Vuoti a prendere”. Se cala l’affidamento in Comunità per i detenuti tossicodipendenti di Martina Ferlisi altreconomia.it, 28 novembre 2024 Nonostante la situazione di emergenza in cui versano le carceri italiane dovuta a un tasso di sovraffollamento medio del 120%, solo il 7% dei detenuti con problematiche legate all’uso di sostanze è inserito in comunità terapeutiche. Eppure, le alternative all’ingresso negli istituti penitenziari esistono, denuncia il Cnca, che richiama l’attenzione sulla creazione da parte del governo di comunità private “chiuse”. Nonostante lo stato di cronica emergenza in cui versano le carceri italiane, dovuto soprattutto a un tasso di sovraffollamento medio del 120%, l’applicazione della misura alternativa alla detenzione per persone alcol/tossicodipendenti è in calo rispetto agli anni scorsi. Solo il 7% degli assistiti per problemi di uso di sostanze (26.268 detenuti) ha accesso infatti alle comunità terapeutiche come misura alternativa alla detenzione. Nel 2023 le persone alcol/tossico dipendenti in carico agli Uffici locali per l’esecuzione penale esterna (Uepe) per misure alternative sono state 6.270, di queste la maggior parte proveniva dallo stato di detenzione (47%), il 20% erano persone in misura provvisoria dalla detenzione e solo il 23% si trovavano in stato di libertà. È quanto evidenziato durante la conferenza stampa “Vuoti a prendere. L’affidamento in prova in comunità per i detenuti tossicodipendenti, una pratica in calo mentre il sovraffollamento carcerario aumenta”, organizzata presso la Camera dei deputati lo scorso 26 novembre dal Coordinamento nazionale comunità accoglienti (Cnca), rete che riunisce 240 organizzazioni del Terzo settore. Una contraddizione che il Cnca ha sentito l’urgenza di portare allo scoperto, come riportato dalla presidente Caterina Pozzi. Il Cnca è infatti la realtà più ampia e numerosa di servizi del privato sociale rivolta a persone che usano sostanze e a chi presenta dipendenze da uso non controllato di sostanze e gioco d’azzardo. Allo stesso tempo è attiva da più di 40 anni nell’accoglienza di persone in misura alternativa alla detenzione, ne fanno parte infatti oltre 150 comunità terapeutiche residenziali e semi-residenziali. Le alternative all’ingresso in carcere ci sono: “Esiste già un sistema accreditato e di qualità, che offre formazione, inserimento lavorativo e ricerca di alloggio, accompagnando le persone sul territorio”, ha spiegato Pozzi. Nell’ultima rilevazione le comunità terapeutiche residenziali ospitavano infatti quasi 400 persone in misura alternativa alla detenzione (affidamento) e quasi altrettanti posti sono ancora disponibili nelle comunità della rete sparse per l’Italia. Inoltre, da subito, potrebbero accedere alla misura e quindi uscire dal carcere 220 detenuti in 12 diverse Regioni. Come sottolineato da Lenardo Fiorentini del Forum droghe, l’esperienza della detenzione per le persone dipendenti da sostanze non rappresenta solo una cesura nella loro vita ma anche nei servizi a cui hanno avuto accesso. Per questo, secondo Fiorentini, è importante mettere in rete le differenti istituzioni affinché queste persone possano essere rinviate verso misure alternative e tornare a controllare la propria vita e i propri consumi, accompagnati e in una logica di empowerment. “La depenalizzazione è l’unica e reale soluzione - ha aggiunto. Invece la penalizzazione dei consumi ‘rientra dalla finestra’ con la riforma sul codice della strada”. I detenuti tossicodipendenti presenti negli istituti di pena al 31 dicembre 2023 erano 17.405, la fonte è la Relazione annuale sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, elaborata dal Dipartimento per le politiche antidroga. Un numero che corrisponde al 29% del totale della popolazione carceraria (61.480). “Perché il tasso è così elevato? -è la domanda che ha posto Sonia Caronni, referente area penale adulti del Cnca, riportando un altro dato allarmante della situazione delle carceri italiane, quello dei suicidi che ad oggi tra le persone private della libertà ammontano a 81-. Perché non sta funzionando il dispositivo dell’affidamento terapeutico per i detenuti in comunità”, dove l’accoglienza in housing diffuso presenta diverse proposte per persone con fragilità particolare, con media fragilità e autonome. Alcune soluzioni vengono suggerite da Riccardo De Facci, referente dei rapporti con le istituzioni sulle dipendenze del Cnca: il potenziamento e la messa a regime del personale sanitario ed educativo, così che il carcere diventi un luogo di presa in carico e valutazione delle persone con tossico dipendenza; reti di collaborazione stabili interne ed esterne al carcere che facciano da ponte verso sistemi territoriali esistenti e infine tavoli territoriali con la magistratura di sorveglianza. “Gli invii in comunità di persone in attesa di giudizio sono diminuiti e centri diurni terapeutici sono vuoti”, ha sottolineato De Facci, esortando a pensare il carcere non come un’istituzione totale in cui si viene “rinchiusi per sempre” ma come una parentesi della vita. “Le situazioni nelle carceri, vedi quanto successo alla casa circondariale di Trapani o all’Istituto penale per i minorenni di Milano Beccaria, parlano da sole ma il governo non le ascolta”, ha concluso. Dalle parole dei partecipanti è emersa inoltre la preoccupazione per il decreto legge del 4 luglio di quest’anno, il numero 92, e nello specifico per il comma 8 che prevede “l’istituzione di un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale” presso il ministero della Giustizia. “Questo decreto che ipotizza un elenco parallelo di strutture ci preoccupa - ha affermato la presidente del Cnca. A fine anno si avrà il capitolato con le caratteristiche che queste strutture dovranno presentare, dai requisiti si capiranno le intenzioni governo”. Riprendendo l’argomento, Stefano Anastasia, Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, ha espresso il timore che quello appena citato sia un tentativo da parte del governo di introdurre una forma di finanziamento pubblico a soggetti privati per aumentare il numero delle comunità di tipo chiuso e per esternalizzare l’eccessiva presenza in carcere, prodotto dalle stesse politiche dell’esecutivo (a partire dal cosiddetto “Decreto Caivano”) e da una “tendenza alla sanzione” (riscontrabile perfino a scuola con la riforma del voto in condotta) tanto che, come ha affermato il deputato Riccardo Magi, ribadendo la necessità di agire sulla diminuzione degli ingressi in un sistema al collasso, i numeri sono drammatici e l’impennata riguarda categorie che non si vedevano da tempo negli istituti penitenziari come i casi di minori oppure di reati di lievi entità. “È indispensabile capire requisiti e criteri per l’accreditamento di queste strutture che possono avere ricadute negative sulla qualità del lavoro che è inscindibile dalla qualità servizio - ha aggiunto Denise Amerini, responsabile dipendenze e carceri della Cgil nazionale. Non si può pensare a comunità chiuse dove non siano garantiti sia i diritti delle persone ospitate sia di quelle che ci lavorano”. La situazione delle carceri non riguarda infatti solo i detenuti. In primo luogo, è coinvolta infatti la polizia penitenziaria, tra cui si contano sette suicidi dall’inizio dell’anno: “Il sovraffollamento fa male anche a lavoratori”, ha ribadito Amerini. Altri numeri importanti causati dal sovraffollamento delle carceri li ha riportati Franco Corleone della Società della ragione che ha sostenuto la necessità del numero chiuso: 26mila scioperi della fame, 10.844 atti di autolesionismo, 12mila ricoveri in ospedale, 15.088 casi di isolamento. Inoltre ha sostenuto la necessità di puntare al modello dell’Olanda che ha chiuso gli istituti penitenziari. “Dobbiamo trovare modo per collaborare di più con polizia penitenziaria e con professionisti che lavorano nelle carceri -ha concluso Pozzi- e provare a dire tutti insieme che il carcere è un’istituzione in cui la dignità umana è scomparsa”. Carceri minorili. La strada e la cella: il sistema sconfitto e il peso delle rivolte di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 novembre 2024 Il racconto dall’Istituto penale per minorenni (donne e uomini) Casal del Marmo di Roma. I mutamenti in atto e i contrasti con un mondo che non sa dare risposte adeguate. E un futuro possibile. Julia ha 19 anni appena compiuti, gli ultimi due compleanni li ha passati qui, a Casal del Marmo, l’Istituto penale per minorenni che si sviluppa su quattro palazzine nel mezzo della campagna di Roma nord. E della sua “bella Palermo” ha un ricordo dolce-amaro perché si è sentita “tradita” dalla sua gente: “Prima ero la studentessa brillante, la brava ragazza, l’attivista che aiutava gli altri. Poi dopo il fatto sono diventata un mostro. Dalla scuola all’ospedale, dove mi curavano per gli attacchi di panico, nessuno ha mantenuto le promesse di aiutarmi”. Occhiali da intellettuale sopra i grandi occhi neri e parlantina forbita consolidata negli anni di militanza in un paio di gruppi politici giovanili, passando per Amnesty International e il Wwf. “Sapevo tutto delle carceri degli altri Paesi, nulla di quelle italiane”. Legge il manifesto, studia con profitto all’università per diventare designer e il livello di consapevolezza acquisito lo deve alle sue educatrici e alla psicoanalisi a cui volentieri si sottopone più volte a settimana. “Quando sono arrivata qui pensavo di battermi per le cause degli altri. Non sapevo di essere io ad aver bisogno di supporto”. Ci ha messo un po’ per capire, sempre che ci sia qualcosa di comprensibile nell’omicidio della propria madre, “unico genitore, figlia unica, mio padre non l’ho mai conosciuto”. Da qualche tempo però “faccio fatica a parlare davvero di me, perché i primi 45 minuti con lo psicologo sono assorbiti dallo sfogo sui problemi in sezione, i litigi continui, le urla, le minacce. Una ragazza che tenta di impiccarsi, quell’altra che chiede solo farmaci per poter dormire (e glielo lasciano fare, non come prima quando se non volevi andare a scuola rimanevi in cella senza tv), le rivolte che bloccano le attività”. Sì perché per Julia a volte si può parlare di vere e proprie “rivolte, anche organizzate”, che innescano reazioni a catena di agenti “troppo giovani e inesperte”. Poliziotte che passano il loro tempo a redigere rapporti disciplinari, almeno altrettanti di quanti ne meriterebbero loro stesse, sembra di capire. “Cosa c’è di rieducativo in tutto questo?”, è la domanda senza risposta. Mansour ha 20 anni e gli ultimi tre li ha passati qui. Quando aveva 15 anni è partito dalla Tunisia, spinto da una famiglia che ancora oggi si aspetta aiuti economici da lui, ed è arrivato a Lampedusa su un barcone, da solo, in compagnia di altri tunisini che quasi non conosceva. A Roma, dove è approdato dopo essere scappato dalla comunità di Taranto, quando era ancora minorenne ha lavorato per un po’ in un autolavaggio gestito da un egiziano: “Trenta euro al giorno dalle 8 di mattina alle 8 di sera, senza contratto. Per un mese ho dormito in strada, poi sono andato in questura e mi hanno portato in una comunità”. Ma la strada ha il suo richiamo, come fosse una sirena. “Facevo le cose senza pensare”. Forse lo spaccio, forse altro. Fatto sta che di anni da scontare ne ha sei. A Casal del Marmo qualcuno gli ha insegnato a pregare. “Sono nato musulmano ma prima non pregavo, ora lo faccio e ne trovo giovamento”. Però va anche dallo psicologo, e non se ne vergogna. È solo, non ha amici, nessuno viene mai a trovarlo, neppure un imam. Si era invaghito di una ragazza romena che è stata liberata e ora soffre anche di più. Qui il suo percorso è cominciato con l’alfabetizzazione, in italiano e arabo, perché a scuola non è mai andato e a lavorare ha iniziato a 13 anni. Fuori di qui sogna solo “una vita normale, una famiglia, un lavoro, per mandare i soldi a casa”. Dentro, invece, vorrebbe “una sezione speciale dedicata solo ai detenuti articolo 21”. Strano pensiero. Ma il ragazzo è taciturno ed è l’educatrice a tradurre: “Mansour vorrebbe un lavoro esterno e, una volta ottenuto, vorrebbe proseguire nel suo percorso, senza “tentazioni” interne”. “Ho capito - ammette il giovane - che partecipare alle proteste non porta niente di buono. Gli altri escono e io rimango qui. Non sono vere e proprie rivolte, solo scaramucce. Ma ora ho imparato a pensare prima di agire”. Julia e Mansour sono solo due dei 68 ragazzi reclusi a Casal del Marmo nel giorno in cui si celebra la Giornata internazionale dell’adolescenza e dell’infanzia; 43 sono in attesa di giudizio. Al momento della nostra visita, nelle due palazzine che ospitano i maschi ci sono 56 posti disponibili e 54 ospiti, di cui 38 minorenni (27 sono stranieri di cui 21 minori non accompagnati, soprattutto maghrebini ed egiziani) e solo 5 ultra 21enni. Nessun sovraffollamento, dunque, oggi. Ma il numero dei reclusi cambia di giorno in giorno. “Nell’ultimo anno sono aumentati i ragazzi che fanno uso di sostanze e scontano reati legati all’assunzione di alcol e droghe: più che spaccio, parliamo di rapine, oltraggio, risse”, riferisce la Coordinatrice dell’area tecnica Elisabetta Ferrari, dal 2010 in questo Ipm. “Alla stazione Termini - continua - il Rivotril viene distribuito gratis in cambio di piccoli furti. E loro lo prendono perché arrivano in Italia già in condizioni di grave disagio, provenienti da famiglie povere e disgregate, con alle spalle esperienze troppo dure per la loro età. Lasciati allo sbando, alla ricerca almeno di un nuovo status symbol da esibire, adottano comportamenti delinquenziali difficili da sradicare ma al fondo sono mossi solo da forte disagio esistenziale, con pressioni sociali e culturali incredibili. Una generazione sfasciata. Si rendono poco conto delle conseguenze delle loro azioni e sono particolarmente intemperanti. Difficile capire come si fa a ridargli un’adolescenza sana”. Più affollata invece la sezione femminile (presente solo a Roma e nell’Ipm di Pontremoli): 14 ragazze in 10 posti regolamentari, oggi. Ci sono stati giorni in cui in una stanza da quattro dormivano in sei, con due materassi a terra. Sono quasi tutte italiane, al contrario di qualche anno fa quando la maggioranza delle recluse era rom, e di solito scontano pene per reati molto gravi. Di questi ragazzi e ragazze si occupano 12 educatori, due pedagogisti, una mediatrice culturale di lingua araba, 3 psicologi e 3 medici in pianta stabile. Presenti invece solo una volta a settimana, i sanitari del Serd e uno psichiatra. Più raramente, all’occorrenza, vengono chiamati altri mediatori culturali. Spiega Elisabetta Ferrari: “Gli educatori e i funzionari non hanno grandi possibilità di carriera mentre nella polizia penitenziaria c’è grande mobilità e negli ultimi anni le loro carriere si sono più attivate. Con il risultato che gli agenti sono spesso poco più grandi dei reclusi, e questo non aiuta”. Dal suo punto di vista se il sistema degli Ipm è meno efficace di prima è dovuto soprattutto al fatto che “la figura dell’adulto è molto in crisi in questo momento, e i ragazzi si insinuano nelle fragilità di un sistema che, rispetto a qualche anno fa, ha perso coerenza ed eccede in burocrazia. E così molti ragazzi invece di crescere più sani, qui dentro accumulano reati su reati. Prima, fino a qualche anno fa, era diverso: le intemperanze erano trattate come tali. E gli adulti erano capaci di gestirle”. Senza paure e senza ripicche. Carceri minorili. Agenti inesperti e poco lavoro per i giovani detenuti di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 novembre 2024 Intervista al direttore dell’Ipm di Roma, Giuseppe Chiodo, e al Comandante della polizia penitenziaria, Saulo Patrizi. I dirigenti dell’Istituto: “Arrivano qui perché hanno accumulato tanti piccoli reati”. Era il fiore all’occhiello dell’Italia in Europa o lo è ancora, il sistema penale minorile che solo in ultima analisi dovrebbe destinare ai suoi istituti di reclusione i giovani criminali non intercettabili dai servizi? E sono vere le voci sempre più insistenti dei sindacati di PolPen sulle “rivolte” che sembrano improvvisamente sconvolgere le carceri come mai prima, e pure quelle minorili? Se lo si chiede a Giuseppe Chiodo, dal 1° dicembre 2023 direttore dell’Ipm di Roma Casal del Marmo, 37 anni, un passato da attivista in associazioni a tutela della libertà personale e vincitore “insieme ai colleghi di Milano, Torino, Catania e Airola del primo concorso indetto nel 2021 per direttori di Ipm”, la risposta è più articolata di quanto si possa immaginare. “La narrazione dei sindacati di Polizia penitenziaria merita attenzione - esordisce Chiodo - Spesso si parla di presenza massiccia dei giovani adulti negli Ipm e della necessità di interrompere la loro permanenza qui. E invece in questo periodo abbiamo solo 5 ultra 21enni, e in ogni caso con loro non abbiamo grossi problemi”. Le cose sono molto cambiate negli ultimi anni, fa notare Chiodo: “Questo è un sistema che era tarato sul ragazzo difficile italiano, mentre oggi la maggior parte dei reclusi è straniero. Non più rom, come qualche anno fa, ma prevalentemente tunisini ed egiziani che arrivano in Istituto quando hanno accumulato tanti piccoli reati. Al contrario delle ragazze, che per l’80% sono italiane e di solito si macchiano di reati gravissimi ma che rispondono molto bene ai percorsi scolastici e professionali proposti, con i giovani migranti non accompagnati la nostra offerta formativa non è conforme alle loro aspettative. Perché questi ragazzi devono fare i conti con un progetto migratorio che ha subito uno stop e al contempo un mandato preciso dei familiari che da loro si aspettano un reddito”. La pressione è troppo forte, le possibilità troppo poche. Ecco che quindi, continua Chiodo, “aumenta l’ansia del ritorno in libertà: all’esterno non hanno nessuna speranza, nessun futuro”. Il numero dei suicidi lo conferma. Per quanto riguarda le “rivolte”, Chiodo non sa dire se ad aumentare siano effettivamente gli eventi o l’attenzione. “Il Dipartimento di giustizia minorile è nato nel 2015, quindi i dati sugli eventi critici sono ancora scarsi. Ma da quando sono qui le proteste non sono mai state mosse da uno scopo o da una finalità. Di certo, questi giovani stranieri avrebbero bisogno di un lavoro che dia senso alla loro migrazione. Mentre i detenuti che lavorano all’interno dell’Ipm ricevono solo una sorta di gettone di presenza perché per il Dipartimento minorile non c’è il capitolo di bilancio delle Mercedi, come nel carcere per adulti”. La tensione dunque è praticamente endemica. Negli ultimi 5 anni nell’Ipm di Roma si sono avvicendati 7 direttori e 8 comandanti: basterebbe questo per motivare la difficoltà di riattivare corretti rapporti tra il dentro e il fuori. In più, come spiega il Comandante della polizia penitenziaria Saulo Patrizi, “il salto generazionale negli arruolamenti ha contribuito alla crisi: le classiche buone prassi che venivano tramandate si sono interrotte, e sono venuti fuori alcuni deficit nella formazione degli agenti”. Da un lato, spiega Patrizi, la giovane età dei poliziotti è un handicap nel confronto con i detenuti. E dall’altro c’è una sorta di burocratizzazione dei rapporti, un’incapacità nuova di capire come e in che misura intervenire, anche fisicamente, per i “77 agenti effettivi al momento, su 88 della pianta organica”. Che poi, tra distacchi, missioni e altro, “in carico, reali, sono 59. Di notte, in tutto ci sono soltanto 5 agenti nell’Ipm”. Eppure, perfino in queste condizioni, “c’è stato un solo episodio davvero critico: a settembre”. Agenti “impauriti” che ricorrerebbero perfino al taser, se fosse dato loro in dotazione, ma per il momento un’unica certezza: “Bisogna - conclude Patrizi - lasciare bassi i numeri dei reclusi negli Ipm, è l’unico modo per far funzionare il percorso”. Le donne in carcere, dove il tempo si è fermato e il patriarcato è (ancora) l’unico sistema sociale possibile di Manuela D’Argenio tgcom24.mediaset.it, 28 novembre 2024 Le sezioni femminili restano inadeguate, le attività professionali sono poco variegate, l’accesso agli studi non è uguale per tutti: la discriminazione di genere, di fatto, è rimasta immutata. Il carcere come istituzione totale è una struttura pensata per uomini in cui si riscontra, anche nei documenti ministeriali, un’incapacità di rielaborarlo al femminile. Complice la bassa percentuale di detenute (il 4,2%) rispetto ai maschi, ancora oggi si fa fatica a tener conto dei problemi che affrontano le donne in un regime di reclusione: dalla privazione della genitorialità e dell’affettività all’adattamento all’ambiente. E soprattutto si innescano meccanismi di sottomissioni e “assegnazioni” di ruoli, anche inconsci, che cristallizzano il tempo, rendendo il patriarcato l’unico modello di società possibile, anzi pensabile, per le donne recluse. È quanto emerge a oltre un anno dalla pubblicazione del primo rapporto di Antigone sulle donne detenute in Italia, facendo un focus su istruzione, formazione e lavoro all’interno delle carceri. Quei numeri sono stati snocciolati accuratamente durante una tavola rotonda alla presenza di Paolo Aleotti, giornalista ex Rai, docente presso la Scuola di Giornalismo e la Limed (Un. Cattolica Milano) e presso la Scuola di giornalismo della “Fondazione Basso” (Roma) Direttore di Radio Bollate; Susanna Ripamonti, giornalista, direttrice della rivista “carteBollate” redatta dai detenuti della casa circondariale di Bollate; Renato Rizzi: medico e psicologo, consulente presso il carcere di Bollate; Donatella Codonesu, giornalista, collabora con l’Università Roma Tre e la Libera Università IULM a Milano e Patrizia Pertuso, giornalista e antropologa. Una società contadina degli anni ‘30 - Il filo conduttore delle cifre e delle esperienze raccontate è lo stesso: in carcere ci si è fermati alla società contadina degli anni ‘30. Dalla pubblicazione di quel rapporto nel 2023 a oggi nulla è cambiato, nonostante la acclarata discriminazione all’interno delle strutture detentive e nonostante i tanti tentativi di “normalizzazzione” portati avanti da associazioni e “addetti” ai lavori. Tutto fermo. Le sezioni femminili restano inadeguate, le attività professionali sono poco variegate, ii percorsi scolastici sono diversi per uomini e per donne e la mancanza di tutele per madri e figli in carcere è rimasta immutata. Le donne devono fare cose da donne - Dalle detenute sembra siano attesi comportamenti “tipici delle donne”, in tutti gli ambiti, ha spiegato bene Rizzi. Spesso vengono escluse dalla già carente offerta lavorativa e trattamentale, che si tende a proporre alla popolazione carceraria più numerosa, ovvero quella maschile. In alcune sezioni vige il vuoto di proposte: assenza di lavoro, di progetti, di laboratori e talvolta anche delle stesse attività scolastiche, per la mancanza dei numeri minimi per comporre una classe. “Ristrette in piccole sezioni, spesso si devono accontentare di fare piccoli lavori a maglia o all’uncinetto per riempire in qualche modo il tempo vuoto del carcere”. Attività figlie di una visione stereotipata per cui le donne possono solo fare questi tipi di lavoro. Anche per gli standard di pulizia ci sono aspettative diverse a seconda del genere, dalle donne ci si aspettano livelli più elevati. “Al femminile in molte strutture non c’è possibilità di usufruire del teatro - racconta una detenuta - o non c’è possibilità di fare corsi di musica”. I dati ufficiali disponibili in relazione alle attività culturali, ricreative e sportive organizzate all’interno delle carceri non permettono di distinguere nel dettaglio il tipo di offerta né di comprendere dove si orienti quella rivolta alle donne detenute. Si nota tuttavia, guardando all’ultimo dato disponibile che è relativo all’anno 2021, uno scarto percentuale nella presenza di donne nelle attività sportive. Del resto, ci sono il ricamo o l’uncinetto. Percorsi di studi discriminati- Uno sguardo ai dati sugli studi universitari testimonia il forte gap tra uomini e donne. Alla fine del 2021, ultimo dato disponibile, erano 1.093 i detenuti iscritti all’Università (di cui 517 in istituti sede di Poli Universitari). Di questi, le donne erano solo 36. Tra i 19 detenuti che hanno conseguito la laurea nel corso dell’anno vi era una sola donna. Il senso di colpa e la sottomissione - Spesso la discriminazione non nasce da una volontà istituzionale, ma dalla mancanza di un pensiero sulla differenza di genere. Quando una donna finisce in carcere, fuori ci sono sempre i figli, un padre, un marito che restano abbandonati e senza sostegni. E così la detenuta, oltre al peso della carcerazione, si sente colpevole di averli lasciati soli, si sente responsabile per non poter far nulla per loro. Per colmare questo vuoto, racconta ancora lo psicologo Rizzi riguardo al carcere di Bollate, molte detenute chiedono di poter fare il bucato o le pulizie, innescando un meccanismo di sottomissione e di “ruolo” non richiesto, ma assimilato. Suicidi, autolesionismo e abuso di psicofarmaci - Guardando al tasso di suicidi si riscontra un valore molto più alto per le donne che per gli uomini. Il primo corrisponde a 2,2 suicidi ogni 1000 persone, il secondo a 1,4. Si tratta in ambedue i casi di cifre altissime, considerando che nella popolazione libera il tasso è pari a 0,07 suicidi ogni 1000 abitanti (i numeri si riferiscono al 2022). Il dato sull’autolesionismo merita inoltre grande attenzione quando parliamo di donne detenute. Rivolgendo un breve sguardo ai dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone, vediamo come dalle visite effettuate emerga una media di gesti di autolesionismo significativamente più alta tra le donne rispetto alla popolazione detenuta totale: tra le donne sono stati registrati 30,8 atti di autolesionismo ogni 100 presenti, contro i 18,6 del totale dei presenti. Il disagio in carcere si combatte sempre di più con gli psicofarmaci. Una pratica confermata anche dallo psicologo Rizzi, che quantifica (numeri alla mano) in oltre due milioni di euro la spesa in questo tipo di farmaci nel 2022. Il 60% di essi sono antipsicotici (utilizzati fino a cinque volte di più di quanto si misuri per la popolazione in generale) e per il trattamento di disturbi gravi come schizofrenia e disturbo bipolare. Per quanto possano servire a curare patologie psichiatriche gravi come quelle appena citate, a seconda del dosaggio possono anche avere effetti sedativi rilevanti, al posto degli ansiolitici evitati per rischio di abuso e dipendenza. Secondo Antigone, a fronte di un utilizzo tanto diffuso di psicofarmaci, i carcerati con diagnosi psichiatrica grave sono meno del 10% del totale dei reclusi. Quindi il punto è capire se si sta cercando di guarire il problema clinico o di contenere le persone incarcerate, sedandole. I numeri non aiutano - La causa maggiore di questo sistema patriarcale sono i numeri, essere minoranza non aiuta. Erano 2.392 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani al 31 gennaio 2023, di cui 15 madri con 17 figli al seguito. Le quattro carceri femminili presenti sul territorio italiano (Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) ospitano 599 donne, pari a un quarto del totale. L’Istituto a custodia attenuata di Lauro ospita 9 madri detenute e altri tre piccoli Icam ospitano 5 donne in totale. Le altre 1.779 donne sono sostanzialmente distribuite nelle 44 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri pensate esclusivamente al maschile. Le detenute oscillano sempre tra il 4 e il 5% della popolazione carceraria. Non solo le donne in carcere sono poche, ma la maggioranza è in comunità molto piccole, all’interno di strutture disegnate per gli uomini. La bassa incidenza statistica sulla popolazione detenuta totale, potrebbe far illudere di una maggiore attenzione istituzionale nel costruire percorsi di reinserimento sociale, ma nella pratica è una delle cause principali di discriminazione. Nordio difende Delmastro: “Le sue parole sui detenuti che non lasciamo respirare? Giustificate se si parla di mafiosi” di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 28 novembre 2024 Il sottosegretario alla Giustizia, alla presentazione di un mezzo blindato, aveva detto: “Non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato”, parlando dei detenuti. Venerdì il dl Giustizia in Consiglio dei ministri. “Quando si parla di un nemico mortale come i mafiosi queste espressioni dure sono giustificate”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio rispondendo al question time della Camera, ad un’interrogazione sulle frasi del sottosegretario Andrea Delmastro sul “non lasciar respirare” i detenuti che si trovano sui mezzi della polizia penitenziaria. “È singolare - ha spiegato Nordio - che si debbano spiegare le motivazioni per cui lo Stato non lascia respiro alla criminalità organizzata anche dotando la Polizia penitenziaria di mezzi efficienti. Quando si parla di un nemico mortale nelle democrazie più avanzate sono state sempre adottate formule estremamente crudeli”. Tra due giorni, ha ricordato, “commemoriamo la nascita di Winston Churchill, che disse `non daremo tregua ai nemici, toglieremo loro il fiato. Alcuni vanno curati ed altri uccisi´. Sono parole forti, ma vengono usate contro un nemico mortale. Anche un nostro straordinario presidente della Repubblica intimò ai nazifascisti di arrendersi o perire”. Il caso era scoppiato una settimana fa, quando il sottosegretario alla Giustizia con delega al dipartimento delle carceri, Andrea Delmastro Delle Vedove, mercoledì scorso, alla cerimonia di consegna di una specie di auto robocop per il trasporto dei detenuti in regime di 41-bis e di Alta sicurezza, la “SsangYong Rexton Dream e-XDi220, nuova autovettura blindata con cellula detentiva, unica nel suo genere”, aveva detto: “L’idea di vedere sfilare questo potente mezzo che dà prestigio, con il Gruppo operativo mobile sopra, l’idea di far sapere ai cittadini chi sta dietro a quel vetro oscurato, come noi incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è sicuramente per il sottoscritto una intima gioia”. Le opposizioni, di fronte al video che riprendeva le sue dichiarazioni, erano partite all’attacco, chiedendo le dimissioni del sottosegretario. Ma Delmastro era stato subito difeso dal responsabile organizzazione di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, per il quale “la sinistra solleva polemiche surreali per indebolire la difesa del 41-bis da parte del governo Meloni”. Lo stesso Delmastro, intervenendo qualche giorno fa a Napoli al convegno Uspp su ‘Carcere e criminalità 4.0’, non aveva fatto marcia indietro: “Non devo fare chiarezza, io devo semplicemente ribadire che non voglio dare tregua alla mafia. O, dato che siamo a Napoli, che non voglio dare tregua alla camorra. Per farmi comprendere da tutti, non voglio dare tregua alla criminalità organizzata”. E oggi arriva anche la difesa in Aula del titolare della Giustizia, che sottolinea: quelle “espressioni dure”, parlando “di un nemico mortale come i mafiosi”, sono giustificate. Non a caso, per mantenere la stretta sui mafiosi, e non solo, “il governo ha potenziato il sistema carcerario occupandosi in modo organico e incisivo non solo dei detenuti, ma anche di chi si occupa della loro sicurezza: sono state previste mille nuove extra-assunzioni della Polizia penitenziaria- ha spiegato Nordio- Oggi, a fronte di una dotazione organica complessiva di 42mila unità, quelle effettivamente presenti sono 37mila, con una carenza del 13,45% che sarà colmata il più presto possibile”. Nordio ha sottolineato “l’importanza dell’istituzione del commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, con il compito di realizzare nel più breve tempo possibile un piano nazionale di interventi in grado di recuperare 7mila dei 10mila posti di detenzione mancanti per detenzione”. E di fronte all’ennesima notizia di un suicidio in carcere, Nordio ha ricordato che sono stati istituiti “nuovi percorsi di comunità per detenuti affetti da disagi psichico o tossicodipendenti”: “Molti tossicodipendenti più che essere criminali da punire sono sono ammalati da curare”. Mentre “per contrastare il fenomeno dei suicidi” si è investito “molto sul potenziamento della rete di assistenza psicologica e sull’opera di reclutamento di adeguato personale specializzato”. Lo stesso sostegno “fornito al Corpo di polizia penitenziaria: ricordo che nell’ambito della Manovra è stato stanziato”, con un milione di euro in Manovra “da destinare al supporto psicologico di questo benemerito corpo di polizia”. Tra due giorni, intanto, il maxi provvedimento dedicato alla giustizia andrà in Consiglio dei ministri, dopo essere slittato due volte: “Non credo ci saranno ulteriori slittamenti- ha assicurato Nordio - venerdì mattina il dl giustizia sarà all’esame del Consiglio dei ministri”. Diritto di cronaca e diritti delle persone private della libertà a cura di Davide Pelanda* Ristretti Orizzonti, 28 novembre 2024 Una lettera di giovani detenuti del carcere Lorusso e Cutugno. “Raccontare il carcere: diritto di cronaca e diritti delle persone private della libertà” è stato il tema di un recente evento organizzato a Torino dall’Opera Barolo in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti del Piemonte. Tra i relatori, il Garante dei detenuti della regione Piemonte, Bruno Mellano, e la Garante dei detenuti del Comune di Torino, Monica Gallo. E proprio Monica Gallo ha letto una lettera di un gruppo di ragazzi detenuti, che hanno analizzato le cronache dei quotidiani di Torino sui “fatti di Via Roma” dell’ottobre 2020 (saccheggi ai negozi, vetrine sfasciate, reati per i quali quei ragazzi sono stati arrestati). La loro ricerca faceva parte di un progetto pensato da alcuni educatori e da un operatore del servizio civile assieme alla Garante dei detenuti del Comune di Torino e all’Università. L’idea finale, ha spiegato la Garante, dopo l’analisi dei quotidiani, era quella di fare un faccia a faccia tra i detenuti che avevano aderito al progetto e i giornalisti tramite l’Ordine dei giornalisti del Piemonte. Tutto il progetto è stato inviato al ministero della Giustizia a Roma per avere l’autorizzazione per poter far partecipare i detenuti e i giornalisti dentro la Casa circondariale Lorusso e Cutugno. La risposta di Roma è stata che il progetto si poteva fare, ma il confronto doveva avvenire solo tra i giornalisti e gli agenti della Polizia Penitenziaria e non invece con le persone detenute. Sarebbe stato davvero interessante poter vedere i risultati del lavoro fatto in un serio faccia a faccia tra i giornalisti piemontesi e i detenuti della Casa circondariale Lorusso e Cutugno che spiegavano le loro reali condizioni di vita in carcere, con una narrazione la più onesta possibile, senza veli, senza pregiudizi, ma di questo progetto non si è fatto più nulla, è rimasta però questa lettera profonda, interessante e molto reale! * Insegnante e giornalista ----------------------- La lettera dei ragazzi detenuti Siamo un gruppo di ragazzi detenuti alle Vallette di età compresa tra i 18 ed i 25 anni. Da alcuni mesi stiamo partecipando ad un progetto che si chiama “Lettere dal carcere”, che ci ha portato ad unirci e a confrontarci su diversi temi di attualità e legati alle nostre esperienze (detentive e non). Qualche tempo fa, all’interno del nostro percorso, abbiamo avuto modo di leggere alcuni articoli comparsi sui giornali torinesi, i quali raccontavano degli arresti successivi ai fatti di via Roma. In quei pezzi, abbiamo notato alcuni elementi critici ricorrenti nella rappresentazione mediatica che si dà di alcuni fatti e di alcune persone. Ci piacerebbe, quindi, dire la nostra, per provare a contribuire al dibattito ed alla costruzione di una prospettiva diversa su questi temi. Ci siamo resi conto che, nel raccontare i fatti di reato commessi dai giovani della nostra città, si fa sempre riferimento all’etnia delle persone coinvolte, come se questa rappresentasse l’elemento che ha influenzato direttamente la commissione del crimine. Questa prassi, invece che contribuire ad una migliore comprensione di ciò che è successo, finisce per produrre odio razziale nei confronti di alcuni gruppi sociali che fanno pienamente parte della comunità cittadina. Chiamare i gruppi di ragazzi coinvolti “bande etniche” significa non riconoscere pienamente l’identità di giovani nati e cresciuti in Italia e che, perciò, sono pienamente cittadini del nostro Paese. Anche molti di noi fanno parte di questa categoria di persone e si sentono concretamente discriminati dalla costruzione di una narrazione che pare dire: “Non sei italiano, sei uno straniero e per questo sei un criminale”. Ancora, troppo spesso, sui media, viene riportato il nome ed il cognome delle persone coinvolte nel fatto che si racconta. Questo aspetto ci pare di particolare gravità: mettere alla gogna, sulla pubblica piazza, una persona, indicandone tutte le generalità, rappresenta una violazione della sua privacy e del diritto alla riservatezza che sarebbe bene gli garantisse il completo anonimato. Secondo quanto previsto dalla nostra Costituzione, le persone che commettono un reato e che scontano una pena per quello, ancor più se giovani, hanno il diritto di potersi ricostruire una vita nella legalità, possibilità che viene loro di fatto negata dalla pubblicazione dei nomi e dei cognomi, che amplificano lo stigma della detenzione e rendono difficilissimo il reperimento di un lavoro. Chi assumerebbe, infatti, un delinquente apparso su tutti i giornali? Nel caso di specie (i fatti di via Roma), questo fenomeno si è riscontrato nei confronti di persone ancora presunte innocenti perché semplicemente soggette all’applicazione della custodia cautelare in carcere, che nulla ha a che vedere con una condanna passata in giudicato. Confrontandoci, ci siamo convinti che quanto fin qui descritto sia stato reso possibile dal grandissimo allarme sociale che si è prodotto intorno al fenomeno delle c.d. “baby gang”, sulle quali le notizie riempiono troppo spesso le pagine dei giornali torinesi. In questo caso, infatti, al nome e cognome viene aggiunto un elenco di precedenti penali, stile “lista della spesa”, che ci pare violi il loro diritto all’oblio e finisca esclusivamente per tracciare un preciso profilo criminale dei ragazzi. “L’autorità loro non la considerano”; “Fare casino, che, in fondo, sembra essere la loro filosofia di vita”; “Sono ragazzi, è vero. Ma vogliono essere boss”; “Le regole? Inutili. La legge? Un ostacolo da raggirare. L’autorità? Un fastidio da sfidare”; “Un colpo da poco, è vero, ma che riassume il modo di pensare: in giro faccio quello che voglio”. Queste sono solo alcune delle frasi che si possono ritrovare in un articolo di giornale a cui abbiamo fatto particolare riferimento, e che costruiscono uno specifico immaginario: i giovani delle periferie (o “banlieue”, come si suole ormai chiamarle) sono pericolosi criminali con nessun rispetto per le regole di convivenza. Ci sembra chiaro come, a fare le spese di questo tipo di narrazione. siano tutte le persone che vivono nelle zone periferiche della nostra città, che, perciò, finiscono per essere ancor più ghettizzate e marginalizzate. L’immaginario collettivo delle periferie che si costruisce è quello di luoghi degradati e violenti, i cui abitanti si dividono tra poveri ignoranti e incalliti criminali. Questo modo di raccontare le persone, inoltre, finisce per definirle con l’etichetta del reato che hanno commesso, senza indagare chi davvero siano e che vissuti abbiano. Ancora, invece che generare una società più sicura, questa narrazione produce allarme sociale e contribuisce a diffondere paura nei confronti di tutti i componenti di determinati gruppi sociali. Questa paura, poi, parte dalla società civile e arriva fino a chi ricopre ruoli di responsabilità (come rappresentanti politici e giudici), che rischiano così di cominciare ad interpretare la loro funzione in maniera sempre meno garantista. Tutto ciò crea un paradosso: noi, che prima di fare ingresso in carcere avevamo paura di entrare, oggi ci scopriamo ad avere paura di uscire, in un mondo che tende a giudicare, invece che a dare opportunità. In primo luogo, per noi è davvero importante aver deciso di prendere la parola e rompere quella dinamica odiosa che porta qualcuno a parlare di e/o per qualcun altro. Confrontandoci, ci siamo resi conto che avevamo la possibilità di contribuire a cambiare la narrazione che di noi viene fatta, agendo le piccole quote di potere che ognuno di noi possiede e che ci definiscono pienamente come cittadini della nostra società. In secondo luogo, volevamo evidenziare l’importanza di percorsi di riflessione ed azione collettiva, che contribuiscono a riempire di significato il tempo della pena e che permettono di acquisire nuove consapevolezze. Rileviamo, però, come tale opportunità abbia costituito un’eccezione nel nostro percorso detentivo, che troppo spesso si caratterizza per essere una reclusione totalmente intramuraria e che termina solo col fine pena. Ci sembra di poter dire, allora, che l’esclusione sociale inizia con l’articolo di giornale e continua col tempo vuoto “dalla branda al carrello” (ovvero, con la mancata applicazione delle misure alternative alla detenzione, nonostante la pena dovrebbe mutare nel corso della sua esecuzione). Speriamo che le nostre parole possano davvero entrare a far parte del dibattito pubblico, perché rappresentano la testimonianza attiva di una partecipazione che batte l’indifferenza e produce cambiamento. Come si dice qui dentro: buona! I ragazzi delle Vallette Dani, Amza, Giuseppe, Sami e Amin Nordio, il supercensore che esternava su tutto di Antonio Massari Il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2024 Minaccia sanzioni per i magistrati che parlino di temi “politici”, ma quando era pm non si asteneva mai: capitasse oggi si metterebbe sotto inchiesta tutti i giorni. I magistrati subiranno sanzioni disciplinari se non si asterranno “quando sussistono gravi ragioni di convenienza”. A rischiare, con la nuova norma voluta dal guardasigilli Carlo Nordio, che potrebbe passare già nel Consiglio dei ministri di domani, sono giudici e pm che prendono pubblicamente posizione su argomenti di attualità politica (vedi le toghe che criticano le scelte del governo sull’immigrazione e poi devono gestire fascicoli sugli immigrati). Ora, poiché sarà il ministro della Giustizia a esercitare l’azione disciplinare, è istruttivo ripercorrere alcune tappe delle esternazioni del Nordio magistrato, che in base al pensiero del Nordio ministro avrebbe dovuto depositare richieste di astensione a raffica. D’altronde, come vedremo, può capitare che i due Nordio si trovino agli antipodi. Partiamo dal settembre 1992. All’epoca i pm potevano permettersi addirittura il lusso di farsi intervistare senza dover chiedere l’autorizzazione del Procuratore. Siamo in piena “tangentopoli”. Nordio a Venezia indaga sul Psi. E dichiara aL’Espresso: “Noi partiamo dalla convinzione che tutti gli appalti sono stati affidati con sistemi illeciti”. Oggi dovrebbe mollare qualsiasi fascicolo che riguardi appalti e Pubblica amministrazione. Si sbilancia persino sul futuro delle indagini: il troncone dell’inchiesta sulle tangenti nel Veneto, quello che riguarda i politici, “deve ancora venire. E sappiamo benissimo dove andare a parare. Gli imprenditori debbono convincersi che non hanno più scelta. Non ci sarà più un appalto sul quale non arriverà l’occhio della magistratura”. Nei mesi successivi, la Commissione bicamerale per la riforma costituzionale vaglia la proposta di separare le carriere tra giudici e pm. Un gruppo di magistrati milanesi (guidati dal procuratore Francesco Borrelli) scrive un documento: “L’indipendenza del pm rispetto all’esecutivo ha rappresentato in concreto una garanzia per l’affermazione della legalità”. Lo firma anche Nordio. È lo stesso che Nordio che 48 ore fa ha dichiarato: “Noi faremo la separazione delle carriere e su questo non si discute”. 1993, il pm Nordio avvia un’inchiesta su una serie di appalti regionali. L’accusa: abuso di atti d’ufficio. Luglio 2024, in un dibattito organizzato da FdI, spiega perché il reato deve essere abolito: “L’abuso d’ufficio è un reato evanescente, vago e generico, nel quale, in 40 anni, in Italia, sono incappati migliaia di sindaci, assessori, consiglieri, pubblici ufficiali”. Ah, saperlo prima. Sempre 1993, Festa dell’Unità: Nordio auspica di consentire ai politici di uscire da tangentopoli, evitando carcere e addirittura il processo, a condizione che confessino i reati, restituiscano le tangenti e abbandonino la vita politica. Luglio 2024, l’ex governatore ligure Giovanni Toti viene arrestato per corruzione. Nordio: “Ho letto l’ordinanza e non ci ho capito nulla”. Settembre 2024, Toti patteggia. 1994, il governo Berlusconi annuncia il decreto Biondi (che abolisce la custodia cautelare, limitandola ai casi di omicidio, mafia e terrorismo). Nordio insorge: “È un brutto giorno per la giustizia, ma anche per la libertà di stampa. Stando alla norma sulla segretezza dell’avviso di garanzia, potrebbe cadere un velo su inchieste importantissime come quelle sul Sisde o su Ustica”. Luglio 2024: “L’informazione di garanzia s’è trasformata in una garanzia d’informazione, visto che chi la riceve finisce immediatamente sui giornali”. 1995, viene attaccato da alcuni politici del centrosinistra per le sue indagini sulle “cooperative rosse”, l’Associazione nazionale magistrati prende le sue difese. Ottobre 2024, giudica “abnorme” la sentenza del tribunale di Roma che fa rientrare in Italia i migranti trasferiti in Albania. Poi aggiunge che la magistratura “esonda dai propri poteri”. Il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia: “Sono fortemente preoccupato perché noto toni di aggressione al lavoro giudiziario che non hanno precedenti”. 1997, in un dibattito organizzato da Forza Italia, Nordio si esprime sulle norme che riguardano i pentiti: “Due cretini non fanno un intelligente, così due pentiti non fanno una prova. Occorre che le loro dichiarazioni abbiano un riscontro oggettivo esterno”. Condivisibile, ma con le norme volute dal Nordio ministro, il Nordio pm dovrebbe mollare qualsiasi fascicolo che riguarda collaboratori di giustizia. In alternativa, volendo incarnare entrambi i suoi pensieri, dovrebbe auto denunciarsi in sede disciplinare, auspicando una giusta punizione. L’anno seguente avrebbe poi dovuto astenersi pure dai fascicoli sulla corruzione: “Aboliamo il reato di corruzione per punire solo l’amministratore che prende il denaro, perché in fondo l’imprenditore altera solo le leggi economiche, e lo si può punire in via amministrativa”. 2008, il Nordio magistrato interviene a un incontro di formazione promosso dall’Ordine dei giornalisti del Veneto: “Se un giornalista pubblica le intercettazioni fa solo il suo dovere”. Febbraio 2024, la maggioranza di cui Nordio è espressione vieta ai giornalisti di pubblicare il testo delle ordinanze di custodia cautelare (per “esteso” o per “estratto”) fino al termine dell’udienza preliminare. Aprile 2015, in un dibattito sulla corruzione: “Più la Repubblica è corrotta, più produce leggi: siamo fermi a 2000 anni fa e non si vedono spiragli di novità. Inoltre più la Repubblica produce leggi più fornisce strumenti di corruzione”. E ancora: “Mai magistrati in politica. Un magistrato non deve mai fare politica né prima né durante né dopo aver cessato la carica. Quando si candida si può sempre pensare che voglia sfruttare la sua popolarità facendo una sorta di concorrenza sleale nei confronti degli altri concorrenti, questa è l’ipotesi benevola. L’ipotesi malevola è che si avvicini a una formazione politica magari perché nei tempi precedenti ha usato nei suoi confronti un occhio di riguardo, questo non è mai accaduto e mai accadrà, ma la gente lo potrebbe pensare”. Nel 2024 Nordio è un ministro del governo Meloni. La maggioranza ha varato 48 nuovi reati. In soli due anni. Stando ai suoi parametri, il Governo che più fa proliferare la corruzione, negli ultimi 2mila anni, è proprio quello in cui governa lui. Intercettazioni, i procuratori contro la legge Zanettin: “Indagini a rischio” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 novembre 2024 Lo Voi e Cantone criticano la proposta di limitare a 45 giorni la durata delle captazioni: “Un divieto a perseguire reati complessi e gravi”. La nuova stretta sulle intercettazioni, prevista nella proposta di legge “modifiche alla disciplina in materia di durata delle operazioni di intercettazione”, rischia di diventare “un divieto a indagare” : lo ha detto ieri il procuratore di Roma Francesco Lo Voi, nel corso della sua audizione davanti alla Commissione Giustizia della Camera, in merito alla pdl a prima firma del senatore di Forza Italia, Pierantonio Zanettin, già approvata a Palazzo Madama. “Qual e è lo scopo di questa riforma?”, si è chiesto il magistrato che ha aggiunto: “Perché, potendo protrarre le indagini fino a 18/ 24 mesi in alcuni casi, devo privarmi di un mezzo essenziale” se ho il potere e “quindi anche il dovere di indagare su una notizia di reato” che è stato commesso? “Mi è difficile comprendere le ragioni di una riduzione così drastica del periodo delle intercettazioni tenendo presente che spesso gli audio carpiti nei primi mesi di indagine vengono realmente compresi sulla base di altre attività investigative o di altre intercettazioni fatte nei mesi successivi”. Ha spiegato ancora Lo Voi: “Già oggi è prevista all’articolo 267 terzo comma la possibilità per il giudice di autorizzare la proroga delle intercettazioni in corso solo se permangono i presupposti del primo comma, tra cui l’indispensabilità, che deriva da quanto già acquisito dalla pg su delega del pm”, quindi la riforma sembrerebbe quasi una “ripetizione” e fissare a 45 giorni il limite diventerebbe “una limitazione non al regime delle intercettazioni in generale - lo è anche -”, ma anzi “una eliminazione di un potere che non è del pm, ma del giudice”, potere che è “quello di valutare i risultati delle intercettazioni fino a quello che si è raccolto al momento della richiesta di proroga, cosa che non potrà essere più fatta dal giudice una volta trascorsi i 45 giorni”. Previsione per Lo Voi che quindi “è molto più grave”. Poi l’allarme: “Non esistono soltanto il terrorismo, la criminalità organizzata, il cybercrime, ci sono reati gravissimi per cui 45 giorni di intercettazioni, in realtà, non basteranno mai e tutto questo si trasforma in una specie di divieto ad indagare”, ha proseguito il procuratore della Capitale. “Le intercettazioni sono un mezzo investigativo temuto da tutti coloro che commettono reati, sia che si tratti di organizzazioni criminali sia che siano coinvolti in reati contro la pubblica amministrazione, tutto ciò non mi fa comprendere perché dovremmo andargli a fare questo regalo”, ha concluso. Audito ieri anche il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, per il quale il limite dei 45 giorni è un “termine non corretto dal punto di vista metodologico in relazione a qualunque tipologia di reato”, benché “si debba dare atto al legislatore” di aver escluso dalla novità normativa “i reati di criminalità organizzata, terrorismo, ma indirettamente anche quelli contro la pubblica amministrazione”, rispetto ai quali la modifica “non dovrebbe avere alcuno effetto deleterio”. Si è poi augurato che il limite di durata delle intercettazioni “non incida su reati che possono essere di particolare delicatezza e gravità come quelli del codice rosso” in quanto “soprattutto in riferimento a questi la necessità a volte di protrarre le indagini può essere in qualche modo collegata all’esigenza di dover monitorare i soggetti che commettono questa tipologia di reati”, ha aggiunto. Ma questo è già stato previsto in un vertice di maggioranza di fine ottobre. Cantone ha poi difeso i giudici per le indagini preliminari, spesso accusati di essere appiattiti sulle richieste della magistratura requirente: “Il gip, a differenza di quello che si crede, in molte occasioni ritiene di non dover prorogare le indagini e, quindi, questa attenzione ad evitare il prolungamento delle intercettazioni sine die, che è una attenzione che il legislatore correttamente prende in considerazione e correttamente si tratta di una esigenza di cui bisogna farsi carico, spesso è già oggetto di valutazione da parte dei giudici”. Per Cantone, “la legge nasce dall’idea in qualche modo anche di una sfiducia di quelli che sono i controlli che vengono effettuati dai gip sulle proroghe delle indagini”. Parlando di reati come quelli legati allo spaccio e al traffico di droga, il procuratore ha spiegato che “va dato atto al legislatore di aver previsto una sorta di clausola di apertura, cioè la possibilità comunque di superare il termine dei 45 giorni, sia pure in presenza di una specifica valutazione che riguarda sia l’emergere di elementi specifici e concreti ma soprattutto richiedendo una motivazione rafforzata”. “Io credo che questa sia una possibilità oggettivamente significativa e importante - ha concluso - anche se renderà sicuramente più problematica la necessità di motivarlo, ma consentirà con riferimento soprattutto a reati che richiedono una attività continuativa di svolgimento delle intercettazioni, di utilizzare anche oltre i termini dei 45 giorni”. La consegna della Sim al detenuto non integra il reato di “accesso indebito a dispositivi” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2024 Per la Cassazione, sentenza n. 42941/2024, si tratta di una estensione analogica rispetto alla nozione di “dispositivo” non consentita all’interprete. L’introduzione in carcere di una scheda Sim da parte di una persona ammessa ai colloqui - nel caso la compagna - col fine di consegnarla al recluso, non configura il delitto di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte dei detenuti, reato previsto dal Dl Immigrazione e sicurezza del Governo Conte II. Per la Suprema corte, sentenza n. 42941/2024, non è infatti consentita un’interpretazione analogica della norma incriminatrice, l’ articolo 391-ter cod. pen., in ragione dei principi della riserva di legge e di determinatezza della fattispecie. La Corte di appello di Campobasso aveva assolto l’imputata dal reato, inserito nel Codice penale dal Dl 13/2020 (convertito dalla legge 173/2020), per aver occultato nel reggiseno a poi consegnato al compagno una scheda telefonica. Contro questa decisione ha proposto ricorso il procuratore generale della CdA sostenendo che nella nozione di “dispositivo idoneo alla comunicazione” rientra anche la scheda SIM senza la quale un dispositivo mobile non potrebbe funzionare. Una diversa interpretazione renderebbe prive di sanzione l’introduzione in carcere, in tempi diversi, di parti di dispositivi mobili che, una volta ricomposti, permetterebbero di comunicare con l’esterno. Il ragionamento, approvato anche dal Pg della Cassazione, è stato però bocciato dalla Suprema corte che si è concentrata sulla formulazione letterale e sui lavori preparatori. La norma prevede che al di fuori dei casi previsti dall’articolo 391-bis, chiunque indebitamente procura a un detenuto un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni o comunque consente a costui l’uso indebito dei predetti strumenti o introduce in un istituto penitenziario uno dei predetti strumenti al fine di renderlo disponibile a una persona detenuta è punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni. La questione, dunque, riguarda la possibilità di considerare anche la sola scheda Sim un “apparecchio telefonico” o “altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni”. Operazione ermeneuticamente non possibile per la Cassazione secondo la quale l’ampliamento del significato “al fine di ricomprendervi anche la sola scheda SIM si risolve non in una interpretazione estensiva di tali locuzioni, bensì in una non consentita operazione di estensione analogica della fattispecie incriminatrice e, dunque, nella violazione dei principî di riserva di legge e di determinatezza della fattispecie”. Il termine apparecchio, infatti, si riferisce a dispositivi che consentono la comunicazione a distanza, mentre l’altra locuzione “si riferisce agli altri dispositivi, che, pur diversi dai primi, sono a questi accomunati dalla medesima destinazione funzionale”. Del resto, prosegue se il Legislatore avesse voluto sanzionare anche condotte aventi ad oggetto parti o accessori di apparecchi telefonici, arretrando la soglia di rilevanza penale, lo avrebbe fatto esplicitamente; come accaduto, per esempio, in materia di armi. Senza considerare che il termina “dispositivo” indica di per sé un “apparecchio destinati a svolgere una specifica funzione”. La previsione di “altri dispositivi”, spiega la decisione, risponde all’esigenza tecnica legislativa di ricomprendere tutti i dispositivi in un’unica locuzione, evitando una lunga elencazione. Inoltre, proprio la natura del carattere istantaneo del reato rende necessario che l’apparecchio o il dispositivo oggetto della condotta incriminata sia completo e già di per sé idoneo a consentire la comunicazione. Tali considerazioni, precisa però la Corte, non si estendono alla ipotesi in cui, ad esempio, contestualmente alla introduzione di una scheda SIM, venisse rinvenuto nella disponibilità del detenuto un dispositivo dove inserirla. Oppure venisse accertato che il detenuto era in grado di fare “affidamento” su un dispositivo di un operatore penitenziario “compiacente” o corrotto. Esulano, conclude la decisione, dal confine della norma le condotte connotate dal frazionamento del dispositivo o, ad esempio, dall’introduzione in tempi diversi di singole parti. E questo perché “l’oggetto materiale delle condotte alternativamente incriminate dall’art. 391-ter cod. pen. si riferisce non a singole parti materiali e/o accessori, ma al solo dispositivo immediatamente utilizzabile per la comunicazione con l’esterno”. Spetta unicamente al legislatore una diversa valutazione. Cagliari. In cella anziché in comunità: un altro ragazzo muore suicida in carcere di Francesco Insardà Il Dubbio, 28 novembre 2024 Il numero di detenuti che si sono tolti la vita in cella sale a 82 dall’inizio dell’anno. Appello della Garante sarda al guardasigilli, che insiste: “Nuovi percorsi di comunità per detenuti con disagi psichici o tossicodipendenti”. Ha donato tutti i suoi organi, dimostrando di avere una umanità che gli è stata negata dallo Stato e dal sistema penitenziario. È stato l’estremo gesto di G. O., un ragazzo di 27 anni, che si era impiccato nella sua cella a Cagliari la settimana scorsa, morto questa notte in ospedale. Era un tossicodipendente in attesa di andare in comunità, segnalato dai genitori e costretto in una cella nella quale non doveva stare. Parliamo della Casa Circondariale “Ettore Scalas” che, dice Maria Grazia Caligaris presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, “registra la presenza di 765 detenuti (32 donne) a fronte di 550 posti disponibili e una forte carenza di agenti penitenziari e operatori”. La morte di G. O. fa salire a 82 il numero dei detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno, ai quali bisogna aggiungere i 7 agenti della penitenziaria. Irene Testa, garante delle persone private della libertà personale della Sardegna e tesoriere del Partito Radicale, non si dà pace. Conosceva bene quel ragazzo e ha scritto una lettera al ministro della Giustizia Nordio per esprimere tutto il suo disappunto. “Da giorni penso e ripenso a quella visita, a cosa avrei potuto fare. Lo avevo incontrato due giorni prima che compisse il gesto disperato. Aveva catturato la mia attenzione perché a differenza di altri non chiedeva niente. Quando si entra nelle sezioni le richieste d’aiuto sono interminabili e si levano disperate da tutte le celle come fossero gironi infernali. Ma lui no, non aveva chiesto niente. Era seduto pensieroso davanti alla finestra della sua cella. Gli ho domandato se stava bene. Sembrava spaesato, come se quella dimensione non fosse per lui. Occhi azzurri e volto pulito, lo facevano apparire come un corpo estraneo all’interno di un contenitore di dolore. Mi ha detto che stava leggendo un libro che teneva sulla branda e che aspettava il nulla osta per poter andare in comunità. Il compagno di cella si preoccupava per lui, ripeteva in continuazione che non stava bene e che aveva già tentato il suicidio. Doveva essere curato non custodito. In tanti in questi giorni ci siamo sentiti in colpa, ci siamo domandati se ognuno di noi avesse potuto fare di più”. La garante Testa pensa alla madre del ragazzo e aggiunge: “Abbiamo fallito tutti ed è inaccettabile che noi operatori a vario titolo dobbiamo sentirci in colpa a causa di un sistema che non funziona. Di un sistema che fa strage di diritto e di vite umane. Di un sistema che induce alla morte più che a riprendersi la vita. Non si può continuare ad assistere a questa carneficina quotidiana. E non dobbiamo essere noi operatori a chiedere scusa ma uno Stato assente e cinico che ha deciso di nascondere il disagio all’interno di contenitori oramai illegali che producono morte e disperazione. Mi rifiuto di accettare che il carcere produca morte anziché riabilitazione. Mi appello ancora al ministro della Giustizia affinché comprenda che ogni giovane che evade dal carcere togliendosi la vita è anche e soprattutto un suo fallimento”. E sui social Irene Testa ha voluto sottolineare l’ultimo gesto di G.O.: “Era una sua volontà scritta da tempo. Lo scrivo perché voglio che si sappia di questo suo importante gesto. Voglio che si sappia che la sua vita non valeva meno di altre anche se detenuto”. Denunce quotidiane che arrivano da più parti, ma il governo è granitico sulle proprie convinzioni e sordo a qualsiasi sollecitazione. Il decreto Carceri, convertito in legge all’inizio di agosto, è diventato un vero e proprio mantra. Da mesi, sia il ministro Nordio sia il sottosegretario Del Mastro, ripetono che le misure previste nel provvedimento serviranno a ridurre la popolazione carceraria, i suicidi in carcere e affrontare il problema dei detenuti tossicodipendenti. Purtroppo i mesi passano e al 25 novembre, secondo i dati pubblicati dal Garante nazionale, i detenuti sono 62.410, rispetto ai 46.771 posti regolarmente disponibili, per l’inagibilità di 4.478 posti. Il che significa il 133,44% di sovraffollamento medio, con San Vittore che è al 231,49. Ancora ieri il ministro Nordio lo ha ribadito nel question time alla Camera, rispondeva a Roberto Giachetti di Italia viva: “Sono stati previsti nuovi percorsi di comunità per detenuti affetti da disagi psichico o tossicodipendenti. Abbiamo più volte ripetuto che molti tossicodipendenti più che essere criminali da punire sono ammalati da curare”. E il guardasigilli ha aggiunto: “Per contrastare il fenomeno dei suicidi abbiamo investito molto sul potenziamento della rete di assistenza psicologica e sull’opera di reclutamento di adeguato personale specializzato per rispondere a queste crescenti esigenze. Il Dap sta monitorando con costanza l’esistenza e l’adeguamento dei piani locali e regionali per la prevenzione dei suicidi. Lo stesso sostegno è stato fornito al Corpo di polizia penitenziaria”. Peccato che Caterina Pozzi, presidente del Coordinamento nazionale comunità accoglienti, nella conferenza stampa di martedì scorso alla Camera, abbia fatto un quadro della situazione che è molto lontano da quello rappresentato dal governo: “Ci sono 400 persone con problemi di dipendenza patologica in misura alternativa alla detenzione, ma quasi altrettanti posti sono disponibili nelle comunità della rete sparse per l’Italia”. Durante la conferenza “Vuoti a prendere. L’affidamento in prova in comunità per i detenuti tossicodipendenti, una pratica in calo mentre il sovraffollamento carcerario aumenta”, sono stati sottolineati altri aspetti: negli istituti di pena italiani ci sono 17.405 detenuti tossicodipendenti, pari al 29%, ma solo il 7% che ha problemi legati all’uso di sostanze ha accesso a un percorso alternativo alla detenzione nelle comunità terapeutiche, come riportato nella “Relazione al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia 2024”. La Spezia. Detenuto muore in ospedale dopo essersi impiccato in cella Il Secolo XIX, 28 novembre 2024 Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato Uilpa della polizia penitenziaria: “Carcerari sovraffollati, il governo intervenga: le parole non bastano”. Un uomo di 46 anni detenuto nel carcere della Spezia è deceduto in ospedale. L’uomo era in attesa di giudizio e il 12 novembre scorso si era impiccato nella sua cella: era stato soccorso e portato all’ospedale in fin di vita. Le sue condizioni erano moto gravi. “Sono 83 i detenuti che dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita, mentre 7 sono gli appartenenti alla polizia penitenziaria, in una spirale di morte a cui, evidentemente, non si vuole porre concretamente argine”, denuncia Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato Uilpa della polizia penitenziaria. “Sono ormai 16mila i detenuti in più rispetto ai posti disponibili e più di 18mila le unità mancanti al fabbisogno della polizia penitenziaria, peraltro mal organizzata e scarsamente equipaggiata - dice il sindacalista - Solo questo dovrebbe indurre il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e l’intero Governo ad assumere provvedimenti tangibili e immediati. Invece, assistiamo ai soliti teatrini della politica e, al più, alla lettura di compitini con numeri fuorvianti in occasione di interrogazioni parlamentari, come da ultimo ieri pomeriggio a Montecitorio”. “Nel 2022, anno tristemente record, i suicidi furono 84. Mancano 33 giorni alla fine dell’anno e, nostro malgrado, il periodo delle festività natalizie è spesso connotato dalla recrudescenza dei fenomeni autolesionistici e autosoppressivi. Temiamo che presto si supererà quel record già di per sé vergognoso per un paese civile. Auspichiamo un sussulto di coscienza nella Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e in tutto l’esecutivo”. Bologna. Suicidi in carcere, il Comune chiede ai cittadini di scendere in piazza di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 28 novembre 2024 La manifestazione al Navile con avvocati, associazioni e Bergonzoni. Ottantadue suicidi dall’inizio dell’anno (numero vicinissimo al record negativo di 85 del 2022), a cui si aggiungono sette agenti di Polizia penitenziaria che si sono tolti la vita; 62.110 detenuti contro i 51.234 posti di capienza regolamentare (nel carcere di Bologna si va verso le 850 presenze a fronte di 500 posti); 14.000 detenuti che vivono in spazi di 3-4 metri quadrati e 10.000 atti di autolesionismo. Sono i numeri dell’emergenza “drammatica” delle carceri italiane, snocciolati in conferenza stampa dall’assessore comunale al Welfare di Bologna, Luca Rizzo Nervo, che ha lanciato la mobilitazione pubblica di sabato in piazza Lucio Dalla (ore 10.30) “per dire basta alla grave violazione dei diritti umani in corso nelle carceri italiane”. L’obiettivo, spiega, è “chiamare a raccolta i cittadini per dire che questo non è più sopportabile” e lanciare una rete di città italiane che si facciano promotrici di una campagna politica nei confronti del governo su alcune proposte: il carcere come strumento residuale di espiazione della pena; misure deflattive e di clemenza urgenti per ridurre il sovraffollamento, come provvedimenti di amnistia o indulto e ampliamento dei giorni di liberazione anticipata; più risorse per i tribunali di sorveglianza, per i servizi socio-educativi, per il contrasto al disagio psichico, per i percorsi di reinserimento lavorativo e di studio. L’iniziativa è organizzata dal Comune con l’Ordine degli avvocati. “Per parlare di carceri oggi ci vuole coraggio - ha spiegato il legale Ettore Grenci, del Consiglio dell’Ordine bolognese - è molto più facile parlarne per slogan, dicendo che bisogna gettare le chiavi, far mancare l’aria a chi ci sta dentro. Ma questo linguaggio non è degno di un Paese civile e neanche di chi ha giurato sulla Costituzione”. Il riferimento è alle ultime polemiche scatenate dalle parole del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. “Questi slogan non risolvono i problemi di sicurezza sociale del Paese - ha proseguito Grenci -. I padri costituenti hanno pensato l’articolo 27 della nostra Carta perché avevano conosciuto le carceri fasciste e sognavano un’altra cultura del carcere”. Alla manifestazione hanno aderito trenta associazioni, tra cui Cgil, Caritas, Antigone, Cefal, Anpi, e l’attore Alessandro Bergonzoni che ha annunciato con una lettera: “Sabato lancerò “il movimento dei rivoltosi fuori” indossando giacche e cappotti rivoltati per manifestare contro tutto quello che di rivoltante avviene nella galere di una nazione democratica”. Presenti ieri anche le consigliere Antonella Di Pietro, Rita Monticelli (delegata del sindaco ai diritti umani) e il garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, Antonio Ianniello. “Chiediamo al mondo del lavoro di investire su percorsi di inserimento lavorativo. Il carcere non può diventare deposito delle numerose povertà”, ha detto Monticelli. “Se nel prossimo futuro non interverranno misure deflattive del sovraffollamento toccheremo quella soglia di detenuti che nel 2013 comportò la condanna dell’Italia da parte della Cedu per le condizioni inumane e degradanti in cui erano costretti a vivere” ha ricordato il garante. Modena. Studi universitari in carcere, inaugurato l’anno accademico al Sant’Anna modenatoday.it, 28 novembre 2024 Per la prima volta Unimore ha organizzato una speciale cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico presso la Casa Circondariale Sant’Anna di Modena, dedicata agli studenti detenuti regolarmente iscritti all’Ateneo di Modena e Reggio Emilia. Sulla base della convenzione tra Unimore, la Casa Circondariale Sant’Anna ed ER.GO - Azienda regionale per il Diritto agli Studi Superiori dell’Emilia Romagna, stipulata nel 2022, che consente alle persone detenute nella struttura di accedere ai percorsi di studio di Unimore, si è tenuta questa mattina, per la prima volta, una speciale cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2024/2025 proprio presso la Casa Circondariale di Modena. Gli attuali 9 studenti detenuti sono iscritti ai Dipartimenti di: Giurisprudenza, Scienze della Vita, Educazione e Scienze Umane, Comunicazione ed Economia e Scienze Chimiche e Geologiche. Hanno preso parte all’evento il Magnifico Rettore Prof. Carlo Adolfo Porro, il Direttore della Casa Circondariale Sant’Anna Dott. Orazio Sorrentini, il Comandante della Polizia Penitenziaria Massimo Bertini, la Prof.ssa Susanna Pietralunga, docente di Criminologia di Unimore e referente per la convenzione tra l’Ateneo e la Casa Circondariali, che ha tenuto la prolusione “Evoluzione storica della pena: dal pubblico supplizio alla risocializzazione. Il ruolo dell’Università”. Prima di lei ha preso la parola anche uno degli studenti Unimore detenuti presso la Casa Circondariale Sant’Anna. Erano presenti inoltre due docenti togati per ogni Dipartimento Unimore coinvolto, un gruppo di studenti della Prof.ssa Pietralunga che svolgono la funzione di tutors degli studenti Unimore che sono detenuti presso la Casa Circondariale Sant’Anna, un gruppo di circa trenta di persone detenute coinvolte nei percorsi di studio e numerose autorità locali e regionali. “L’Università rappresenta un luogo dove la cultura non conosce confini e dove le persone, indipendentemente dalle loro condizioni, possono accedere a strumenti concreti di emancipazione. La partecipazione di studenti, docenti e autorità istituzionali a questa cerimonia è testimonianza di un impegno comune nel promuovere un modello inclusivo di formazione, che riconosca la dignità e il valore di ciascun individuo. Un percorso, questo, che non riguarda solo l’accesso al sapere, ma la possibilità di costruire un nuovo senso di sé attraverso il confronto con le discipline e con la comunità. La formazione può essere una chiave per trasformare una condizione difficile in un’occasione di cambiamento autentico e duraturo” - ha commentato il Rettore Prof. Carlo Adolfo Porro. Grazie alla convenzione in vigore i detenuti ristretti presso la Casa Circondariale, in possesso di idoneo titolo di studio, possono richiedere l’iscrizione ai corsi di studio attivati presso l’Università di Modena e Reggio Emilia e, dopo aver sostenuto le prove di verifica delle conoscenze o superato i test di ammissione previsti, intraprendere gli studi universitari. In base alle caratteristiche dei corsi di studio, alle risorse disponibili ed ai vincoli logistici e di sicurezza, l’Università individua i percorsi compatibili con la condizione detentiva per i quali fornire forme specifiche di assistenza e supporto per lo studio, compresa l’organizzazione delle prove di ammissione all’interno dell’Istituto. La convenzione prevede inoltre agevolazioni economiche tese a favorire l’iscrizione ai corsi di studio dell’Ateneo di Modena e Reggio Emilia di 1° e 2° ciclo e ciclo unico delle persone in stato di detenzione e del personale dell’Amministrazione Penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale. Unimore applica nello specifico, per le persone in stato di detenzione, l’esonero totale dal pagamento delle tasse universitarie (ad eccezione del contributo regionale, dell’assicurazione e del bollo) nonché delle indennità e contributi con specifiche finalità (es. iscrizione a selezioni e prove di ammissione) fatte salve le imposte di bollo. Pisa. Come evolve l’ordinamento penitenziario in Italia: convegno a Palazzo Gambacorti La Nazione, 28 novembre 2024 Si terrà venerdì 29 novembre dalle 15 alle 17, in sala delle Baleari presso palazzo Gambacorti, l’incontro “De iure condito e de iure condendo”, un convegno sull’ordinamento penitenziario. All’evento parteciperanno l’assessore alla partecipazione e ai rapporti col cittadino Gabriella Porcaro, il direttore della casa circondariale “Don Bosco” Tazio Bianchi, il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Pisa Paolo Oliva e il garante delle persone private della libertà del Comune di Volterra Ezio Menzione. L’incontro sarà moderato dal garante delle persone detenute del Comune di Pisa, Valentina Abu Awwad, e interverranno l’ex garante Alberto Marchesi e il consigliere dell’Ordine degli avvocati di Pisa, referente della Commissione carcere, Roberto Nocent. “Abbiamo deciso di promuovere questo importante momento di confronto e riflessione - dichiara l’assessore ai rapporti con il cittadino Gabriella Porcaro - che ci permette di analizzare l’evoluzione del nostro ordinamento penitenziario e di ascoltare le voci di chi, ogni giorno, vive la realtà delle carceri italiane. L’incontro, fortemente voluto insieme all’avvocato Valentina Abu Awwad, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Pisa, rappresenta un’occasione importante per promuovere una visione di giustizia che non si limiti solo alla pena, ma che metta al centro la dignità e la riabilitazione degli individui”. “Consapevoli delle sfide che il nostro ordinamento penitenziario è chiamato ad affrontare, questa tavola rotonda che coinvolge le istituzioni e gli esperti, vuole essere la sede in cui i rappresentanti delle istituzioni e gli esperti del settore possano interrogarsi e individuare soluzioni per migliorare le condizioni delle case circondariali, garantendo il rispetto dei diritti umani e favorendo il reinserimento sociale dei detenuti. L’evento ci permetterà di rafforzare l’impegno delle istituzioni verso un ordinamento penitenziario che, pur nel rispetto della legge, consideri il detenuto come soggetto di diritti e non solo doveri”. Per l’incontro, aperto a tutti, è previsto un massimo di 90 posti a ingresso gratuito. Sono invitati gli esperti del settore, per i quali è possibile iscriversi tramite la piattaforma “Albosfera” e per cui l’evento è accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati per due crediti non frazionabili. Roma. Oggi presentazione del libro “I volti della povertà in carcere” agensir.it, 28 novembre 2024 Si tiene oggi, giovedì 28 novembre, alle ore 18, nella Sala dei Parlamentari - Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini” di Palazzo Minerva a Roma, la presentazione del libro “I volti della povertà in carcere”, scritto da Rossana Ruggiero e Matteo Pernaselci. La casa editrice “Dehoniane Bologna” e la Società San Vincenzo De Paoli - Consiglio Centrale di Roma Odv - presentano questo testo nato dal bisogno di raccontare un’umanità spesso dimenticata, quella racchiusa nei luoghi di detenzione. Dalle pagine emerge una condizione di povertà umana e sociale che viene comunicata attraverso le fotografie in bianco e nero di Matteo Pernaselci e i testi di Rossana Ruggiero - si legge in una nota della Società San Vincenzo De Paoli -. Occhi, storie, volti si susseguono attraverso il potente mezzo della fotografia che ha strappato momenti vissuti e ha restituito silenzi, solitudine, sprazzi di convivialità e il senso pieno di un’umanità affranta, in bilico tra la consapevolezza e il dolore di ciò che è stato e la speranza ciò che sarà”. “Il carcere è un posto lasciato spesso nel buio dell’indifferenza. Attraverso gli scatti ci siamo voluti avvicinare all’altro, riconoscendo e rispettando la dignità di ogni uomo. Andando oltre la condizione di ‘carcerato’. Bisogna avvicinarsi a queste realtà con uno sguardo compassionevole per comprendere e cogliere la sofferenza di chi è privato della libertà”, dichiara Matteo Pernaselci. Un approccio fotografico che trova fondamento nella “rivoluzione della tenerezza”, tanto cara al Santo Padre, che conduce a sperimentare cosa significhi “sentirsi amati e accolti proprio nella nostra povertà e nella nostra miseria” perché “Dio è Padre, è amore” e vuole che chi ha peccato torni sulla strada del bene. (Papa Francesco all’Udienza generale del 19 gennaio 2022). “La condanna peggiore è il nonsenso. Il carcere non è l’altro mondo in terra, il luogo dove vogliamo mandare la parte cattiva del nostro mondo, non può essere l’inferno ma, semmai, sempre il purgatorio. Il contrario dell’inferno non è il limbo, attesa senza speranza e quindi inutile indugio”: scrive il card. Matteo M. Zuppi, nella presentazione del volume. Nei luoghi di detenzione le persone sono alla ricerca di un senso. Nel lento trascorrere del tempo, i ristretti si interrogano, riflettono e sentono il bisogno di sentirsi capiti. In questo lento processo di cambiamento “hanno bisogno di una mano tesa, di vedere una luce di speranza, di pensare che anche la vita vissuta all’interno di un carcere può continuare ad avere un senso”, afferma Rossana Ruggiero. L’evento sarà introdotto dai saluti istituzionali di Carlo Nordio, ministro della Giustizia, e Juan Manuel Buergo Gomez, presidente internazionale della Società di San Vincenzo de Paoli. Interverranno Riccardo Turrini Vita, Francesco Bonini, don Dario Acquaroli, Francesca Danese, Andrea Monda. Concluderà Giacinto Siciliano, con gli autori Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero. Nell’ambito dell’evento è prevista anche la mostra fotografica nel chiostro di Santa Maria Sopra Minerva. Il progetto ha visto la collaborazione della casa circondariale “F. Di Cataldo” - Carcere di San Vittore di Milano, de L’Osservatore Romano, de L’Osservatore di Strada e della Società San Vincenzo de Paoli - Consiglio centrale di Roma Odv. Trani (Bat). Un libro di favole scritto dalle detenute del carcere di Rosarianna Romano Corriere del Mezzogiorno, 28 novembre 2024 La Meridiana ha presentato ieri nell’istituto penale di Trani il volume “Autrici!” Firmano nove detenute che hanno dato una forma speciale alle loro storie di vita Aiutate dagli operatori di “Senza Piume”, hanno anche immaginato il lieto fine. Margherita, detta Rita, ha tre figli e si racconta come una colomba dalle piume bianche. Ma con un problema: se commette qualcosa di sbagliato, le sue belle e candide ali diventano nere. Alla fine della storia, però, tornano a essere chiare, come quando era bambina. Lei è una delle nove detenute del carcere femminile di Trani che ha preso parte al progetto “Autrici!”, curato dall’associazione culturale “Senza Piume”, in collaborazione con la casa editrice La Meridiana e la cooperativa Crisi, finanziato dall’ufficio del garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà Regione Puglia. Il progetto è poi diventato un libro dall’omonimo titolo, in cui ognuna di loro ha riscritto la propria storia personale sotto forma di favola, associando ogni emozione vissuta a un elemento fantastico. È così che un uomo crudele si trasforma in un serpente o in un mago cattivo, le donne protagoniste in personaggi magici e le sostanze stupefacenti in farina appena macinata. “Per me è stato molto difficile esporre il mio vissuto, però ho trovato il coraggio, grazie ad Anna e Damiano. Ero chiusa ancora in quell’inferno. Oggi ringrazio di aver realizzato questo libro, perché sono rinata e cambiata in meglio”. È Rita a parlare, l’autrice del racconto Le piume bianche. Anna de Giorgio e Damiano Francesco Nirchio, invece, sono i curatori del volume e fondatori della compagnia Senza Piume. “Perché ho scelto questo titolo? Perché ero felice quando uscivo dal tunnel della tossicodipendenza. Quando rientravo, invece, tornavo grigia - continua Rita -. Questo progetto è stato molto utile, come anche la condivisione con le altre. Ora sono una donna diversa e l’ho capito anche grazie a questo lavoro”. Oltre a questo testo, ci sono altri sette racconti, scritti da Nicoletta, Nunzia, Lucia, Donatella, Silvana, Pina e Ada. Erano quasi tutte presenti alla presentazione del libro, ieri nel carcere di Trani, insieme al direttore Giuseppe Altomare, all’editrice Elvira Zaccagnino e ai curatori del volume. “La parola “autrici”, in luoghi come questi, è legata al termine reato - sottolineano i curatori -. Noi, con questo libro, abbiamo cambiato questo significato con la forza della fantasia, per dare il diritto di riscrivere la propria vita e diventare autrici del proprio percorso”. Il peso delle parole è infatti al centro del volume: “Combattiamo anche una battaglia semantica - aggiungono -. Di solito si tende a sminuire quello che si fa in carcere. Quello che abbiamo costruito è invece un vero e proprio libro, realizzato grazie a una casa editrice che ha abbracciato questo progetto”. E Zaccagnino lo conferma: “Un libro del genere significa anche dare dignità al lavoro di queste persone. Questa è stata l’intenzione fin dall’inizio del progetto e con questo spirito abbiamo collaborato a tutte le fasi, soprattutto quelle che hanno riguardato direttamente la casa editrice, facendo in modo che tutto il lavoro fatto in carcere con le detenute diventasse un prodotto editoriale: Autrici! è un vero e proprio libro e questo serve a riconoscere loro la dignità di persone, che non viene smarrita mai. E anche a rimettere in piedi i pezzi della loro vita”. Il libro, in versione eBook, è scaricabile gratuitamente sul sito (https://www.lameridiana.it/autrici.html) e presto sarà disponibile anche in formato cartaceo, per consentire la sua diffusione anche all’interno delle celle delle carceri. Tra i racconti ce n’è poi uno, l’ultimo, che si differenzia dagli altri. E per questo costituisce l’appendice del volume. È la storia di Maria, da tutti chiamata Mary. È l’unica che ha scelto di raccontare la sua storia senza l’intermediazione della favola. “Ho raccontato in breve la storia della mia vita, da quando ero bambina. Ho sempre cercato la volontà di andare avanti, però non è stato facile. Non è stato facile per niente. Dopotutto, sono ancora in carcere: non c’è ancora una fine”. Così Maria, con la voce rotta dall’emozione, racconta quello che ha scritto in “Autrici!”. E, incrociando lo sguardo di suo marito e sua figlia presenti all’incontro di ieri, guarda con speranza al 2026, l’anno in cui probabilmente sarà libera. Come le altre, aspetta il suo lieto fine. Che l’esercizio della scrittura ha permesso quantomeno di immaginare: “Il lieto fine era il grande assente nelle prime bozze affidateci dalle nostre autrici - concludono i curatori -. Ma ci siamo fidati del fatto che in letteratura come in matematica possa esistere una sorta di proprietà commutativa: se ciò che è stato può diventare racconto, allora il racconto può anticipare ciò che sarà. Le ospiti del laboratorio sono state così invitate a inventare ciò che ancora manca”. Rieti. “Comiche e Cosmo”, il teatro per i detenuti. Un’opportunità per riconnettersi con la società rietinvetrina.it, 28 novembre 2024 “Comiche e Cosmo - una metafora dell’esistenza”: un progetto di Teatro Sociale e di formazione professionale “Un universo parallelo”, dove le storie di Italo Calvino diventano spunto di riflessione sulle relazioni umane. È in questo scenario che nasce Comiche e Cosmo, una metafora dell’esistenza, un progetto innovativo che, attraverso il teatro, offre ai detenuti del Nuovo Complesso di Rieti l’opportunità di riconnettersi con se stessi e con la società. Attraverso laboratori di drammaturgia collettiva e recitazione, scenografia e musica, i detenuti potranno sviluppare le proprie capacità creative e artistiche, acquisendo competenze spendibili nel mondo del lavoro. Il progetto si distingue per l’approccio integrato, che unisce l’arte alla formazione professionale, e per la stretta collaborazione con realtà territoriali esterne, creando un ponte tra il carcere e la comunità. Unendo le diverse discipline artistiche, il progetto offre un’opportunità unica per sperimentare la creazione teatrale a 360 gradi. Di fondamentale importanza la collaborazione con il laboratorio, interno alla casa circondariale, Libera Espressione condotto dalla dott.ssa Eleonora Iampieri, attraverso il quale si è potuto sviluppare un ulteriore approfondimento sulle tematiche scelte per la rappresentazione; Dalla scrittura alla messa in scena, i partecipanti saranno guidati da professionisti di alto livello: Desirée Proietti Lupi e la Prof.ssa Barbara Clementini per la drammaturgia collettiva e la recitazione, gli scenografi Arianna Scappa ed Emanuele Mancini per la creazione degli spazi scenici, e il musicista Andrea di Pierro per il laboratorio di total percussion. L’obiettivo è quello di favorire il reinserimento sociale dei detenuti, offrendo loro gli strumenti necessari per ricostruire un futuro che vede il teatro come un potente strumento di cambiamento e la possibilità di diventare parte di una comunità creativa per ritrovare un senso di appartenenza. Pavia. Salvarono pedone in strada, premio civico ai soccorritori di F.M. La Provincia Pavese, 28 novembre 2024 Ringraziamento pubblico alla cerimonia di San Siro. Nel corso della cerimonia prevista per il prossimo 9 dicembre non verranno assegnate solo le dodici benemerenze decise dal Consiglio comunale. Un ringraziamento pubblico andrà anche a quattro persone che, lo scorso 14 novembre, hanno prestato i primi soccorsi a un uomo colpito da un grave infarto tra corso Mazzini e la piazza del Municipio. Si tratta di due dipendenti comunali, Andrea Villani e Mauro Gramegna (che è anche volontario della Croce verde di Pavia), un assistente capo coordinatore di polizia penitenziaria, Enzo Di Tota e una volontaria della Croce rossa di Pavia che però non ha lasciato le proprie generalità e quindi sarà rappresentata dal presidente della Cri di Pavia. Intorno alle 12 di giovedì 14 novembre, mentre a palazzo Mezzabarba era in corso una conferenza stampa sulla colletta alimentare alla presenza della direttrice del carcere, un 58enne di Linarolo si è accasciato al suolo tra corso Mazzini e la piazza del Comune. Subito sono intervenuti i dipendenti comunali e le altre due persone che hanno prestato i primi soccorsi utilizzando il defibrillatore che è in uso a palazzo Mezzabarba. Le manovre rianimatorie sono proseguite sino all’arrivo dell’ambulanza e dell’auto medica del 118, quando dell’uomo si sono presi cura il medico rianimatore e lo staff degli infermieri. Trasportando al pronto soccorso del Dea, l’uomo ha purtroppo cessato di vivere due giorni dopo a causa della gravità dell’infarto. Il consigliere comunale di Cittadini per Pavia (e medico rianimatore), Roberto Rizzardi ha quindi deciso di proporre ai consiglieri comunali di ringraziare pubblicamente, nel corso della cerimonia, le quattro persone che si sono prodigate per prestare i primi soccorsi al 58enne colpito da infarto. L’assistente capo coordinatore della polizia penitenziaria si trovava davanti al municipio avendo accompagnato la direttrice del carcere di Torre del Gallo. Non è stato possibile, invece, identificare la volontaria della Croce rossa che ha preso parte all’intervento di soccorso. Sono stati anche pubblicati appelli sui social network per avvisarla del fatto che la sua condotta sarebbe stata premiata dal comune ma non è servito. Al suo posto vi sarà il presidente della Cri. Generazione maranza, chi sono le bande che infiammano il Corvetto di Francesco Moscatelli La Stampa, 28 novembre 2024 Disagio sociale, TikTok, estetica neo-proletaria. Gli esperti: “Se il sistema non accoglie la situazione esplode. Ma non demonizziamo le periferie”. “Il punto di ritrovo il sabato pomeriggio è davanti alla stazione Garibaldi. Ci sono quelli del Corvetto, della Bovisa, di San Siro, e altri come noi che vengono da fuori. Poi la sera ci si sposta in corso Como, in Duomo o a City Life”. Abed e Hassan sono di Bollate. Fanno le scuole superiori e quasi ogni giorno vengono in piazza Gae Aulenti, ai piedi della torre tutta specchi di Unicredit, per incontrare i loro amici. “Ammazziamo il tempo, stiamo insieme”, raccontano. Alla domanda su chi siano per loro i maranza rispondono senza troppi dubbi: “Sono ragazzi un po’ più grandi di noi, intorno ai 20 anni, che fanno sempre quello che gli passa per la mente. Sono quelli che magari se guardi la loro tipa ti spruzzano in faccia lo spray al peperoncino, o tirano fuori la lama. Qualcuno gira anche con il “ferro”, anche se noi non ne abbiamo mai visto uno”. A dar retta ad Abed e Hassan i maranza, termine con il quale in queste ore vengono etichettati anche i protagonisti delle proteste che stanno infiammando il Corvetto, non sarebbero poi molto diversi da quelli cantati da Fabio Rovazzi: “Un maranza con la tuta del Barça/che gira per Milano sopra un Sh/per la gente è un criminale/col borsello per le strade/ma se passa la locale, scappa/come un maranza”. Online il cliché è descritto fin nei minimi dettagli. Si parte dal look: un maranza indossa Nike Tn o Air Max, tute e t-shirt delle squadre di calcio, borsa a tracolla, passamontagna, in inverno piumino smanicato. Usa tantissimo i social, Instagram ma soprattutto Tik Tok, e ascolta rap, in particolare i sottogeneri trap e drill. Gli artisti più amati sono Simba La Rue, Baby Gang, ma pure Rondodasosa, Central Cee e Paky. Si muove con i mezzi pubblici, treni suburbani e metropolitana, oppure in sella a uno scooterone. “Parlare di maranza al singolare non ha senso, i maranza si muovono sempre in gruppo, sono bande di ragazzini che nascono dopo il Covid per stare insieme - spiega lo scrittore Giovanni Robertini, che li ha scelti come protagonisti per il suo Morte di un trapper -. La loro estetica non è italiana ma europea ed è un’estetica low cost, neo-proletaria”. Per quanto riguarda il background socio-economico, invece, si parla di immigrati di seconda generazione e di contesti familiari sfavorevoli. Qualcuno, facendo forse della psicologia spiccia, registra in particolare l’assenza di figure paterne. L’altro aspetto ricorrente è la violenza: risse fra bande rivali, furti, rapine, spaccio. “La violenza non è un tratto caratteristico, ma c’è anche quella - continua Robertini -. Quello che sta succedendo al Corvetto era prevedibile. In una città sempre più divisa fra ricchi e poveri è normale che la rabbia possa esplodere e che si riversi contro le forze dell’ordine, l’alter più prossimo”. “Se il sistema non è disposto ad accoglierti certe situazioni stagnanti emergono in modo estremo - rincara la dose John Nicolò Martin, urbanista e autore insieme al libraio anarchico Primo Moroni del celebre saggio sulle controculture milanesi La luna sotto casa -. In Lombardia accadde negli anni Cinquanta con la prima immigrazione dal Veneto, e poi con i meridionali. Chi viene da fuori ha una marcia in più che andrebbe incanalata nel modo migliore. In passato ci si riuscì”. La stessa parola “maranza” ha una storia tutta sua. Trent’anni fa nel Nord Italia veniva utilizzata come sinonimo di “tamarro” (l’equivalente del romano “coatto”) per indicare in modo dispregiativo chi si vestiva in modo appariscente e ascoltava musica disco. A Milano, successivamente, è stata usata come sinonimo di “nordafricano” e “marocchino”, con una sfumatura più o meno razzista, mentre la sua fama più recente è legata ai social e poi ai media tradizionali che l’hanno rilanciata associandola ad alcuni fatti di cronaca: i maxi-raduni abusivi durante il lockdown e i disordini di Peschiera del Garda nell’estate 2022. Fermarsi al cliché, però, serve a poco. “La tendenza a demonizzare i giovani dei quartieri periferici, i folk devil, esiste fin dal Rinascimento - racconta Alessandro Gerosa, docente di Sociologia culturale all’Università Statale di Milano -. È la logica della barbarie che minaccia il quieto vivere del centro civilizzato, un’operazione che serve a scatenare un’ondata di panico morale e a individuare un facile capro espiatorio”. La pensa in modo simile Fabio Bertoni, ricercatore all’Instituto Ciências Sociais dell’Università di Lisbona e co-autore del saggio Le strade della teppa. “Parlare di maranza al Corvetto svia l’attenzione, relativizza un problema di violenza strutturale e altre questioni sociali che interrogano tutti noi - spiega. Piuttosto è interessante come questi ragazzi si siano riappropriati del termine maranza trasformandolo in uno stile che restituisce le loro condizioni di vita. Il loro stile ruvido e crudo, che a volte sfocia nella microcriminalità, è il modo in cui esprimono la durezza delle loro vite”. Per Marco Philopat, fondatore della casa editrice underground “Agenzia X” e profondo conoscitore delle periferie milanesi, c’è poi un tema di comunicazione fra generazioni. Per quello che è successo al Corvetto Philopat cita Amelia C., la diciassettenne che ha scritto un atto d’accusa contro gli adulti intitolato Vigliacchi: “Voi adulti non sapete ascoltare, non fate mai le domande giuste e quando parlate siete un mix fra il milanese imbruttito e Massimo Recalcati”. Il padre di Ramy, il ragazzo morto domenica notte: “Basta violenza” di Monica Serra La Stampa, 28 novembre 2024 “Abbiamo il cuore spezzato. Ma ho piena fiducia nei carabinieri, nella polizia e nella giustizia”. Guarda le foto sul cellulare e fa fatica a crederci. C’è Ramy vicino a una piramide, in Egitto, Ramy che sorride in posa coi fratelli, Ramy a Montecarlo a vedere una partita di tennis, ci sono lui e Ramy davanti al Duomo di Milano. Papà Yehia Elgaml è nell’ufficio dell’avvocata di famiglia, Barbara Indovina. Fatica un po’ a spiegarsi: “Mi fa piacere che i miei figli invece parlano un italiano perfetto. Oggi sto un poco meglio di ieri. Mia moglie invece no, ha il cuore spezzato, piange e piange. La mamma è così”. Sono trascorsi quattro giorni dalla morte di Ramy, che avrebbe compiuto vent’anni il 17 dicembre. Erano le 3,20 di domenica notte quando si è schiantato in scooter su un muretto all’incrocio tra viale Ripamonti e via Quaranta, dove oggi ci sono fiori, foto, messaggi per lui. Il suo amico tunisino Fares Bouzidi, 22 anni, guidava quel TMax senza patente. Non si è fermato a un posto di blocco dei carabinieri. Tra rossi bruciati e strade contromano, lo scooter ha attraversato la città, inseguito da una pattuglia dei carabinieri fino a quell’incrocio. Dall’unico video agli atti dell’inchiesta aperta dal pm Marco Cirigliano per omicidio stradale non si riesce a capire con certezza se, prima dell’impatto, ci sia stato un contatto con la gazzella. Non si sa se abbia visto qualcosa, ma sarà raccolta a breve la testimonianza del titolare di un chiosco di panini che era proprio a un passo da quel muretto. La procura stessa invita chiunque abbia un video utile di farsi avanti. Nel frattempo però ci sono state rivolte al Corvetto, il quartiere dove Ramy è cresciuto, alla periferia sud della città. Ci sono stati cassonetti bruciati, estintori svuotati, bottiglie lanciate sulla polizia, l’assalto a un bus della linea 93, per cui è stato arrestato un ventunenne montenegrino. C’è stata rabbia e fuoco, tra polemiche politiche e discussioni sulla sicurezza, con il ministro Matteo Salvini che parla di “emergenza nazionale”. A tutta questa violenza ora papà Yehia vuole dire: “Basta! Il Corvetto è casa mia, la mia zona, ci vivo io, ci vive la mia famiglia. Neanche Ramy avrebbe voluto questo, era un ragazzo buono. Quelli che fanno casino non conoscono Ramy, non facevano parte della sua vita”. Signor Elgaml, ha fatto un appello per chiedere di mettere fine alla rivolta... “Non mi sono piaciute tutte quelle violenze. Ho parlato con gli amici di Ramy, gli ho mandato un messaggio, ma non sono loro le persone che hanno protestato” Che cosa gli ha detto? “Quelle violenze sono contro la verità per Ramy, non vanno bene. Gli ho detto basta casino contro la polizia italiana. Io ho fiducia nella polizia, nei carabinieri, nella giustizia, nel mio avvocato. So che la verità verrà fuori. Ho sempre rispettato la legge italiana e quando vado al letto dormo tranquillo”. Che ricordi ha di Ramy? “Gli dicevo che è il mio cuore: Voglio bene a tutti i miei figli ma a lui di più. Ho vissuto con lui molti più anni rispetto agli altri miei figli. Ne avevo quattro. Due hanno famiglia e sono rimasti in Egitto”. Da quanto tempo è in Italia? “Sono arrivato nel 2007, 17 anni fa. All’inizio ero andato a vivere con mia cognata a Torino. Lavoravo come operaio nell’edilizia. Sognavo di venire qui da quando avevo 10 anni, per me è il Paese più bello del mondo”. Quando l’ha raggiunta la sua famiglia? “Nel 2013, avevo paura per le rivolte in Egitto e li ho fatti venire qui. È venuta mia moglie, mio figlio Tarek e Ramy che aveva 8 anni. Da quando ci sono loro, siamo sempre stati al Corvetto”. Ramy era felice qui? “Molto. Lui si sentiva più italiano che egiziano. Parlava benissimo l’italiano, non tanto bene l’arabo. Mi chiedeva sempre la traduzione delle parole: “Come si dice mele? Come si dice anguria?”“ Che figlio era? “Rideva sempre, era un ragazzo simpatico. Si attaccava al cellulare anche quattro ore, quando c’era la partita Inter-Milan la vedevamo insieme. Lui tifava la Juventus e giocava a calcio con gli amici. Era bravo”. Quando ha deciso di lasciare la scuola? “Dopo la terza superiore mi ha detto io vado a fare l’elettricista con Giovanni. Noi lo conoscevamo, gli ho detto va bene. Era contento di lavorare e di avere i suoi soldi”. Oggi le ha telefonato il sindaco, Giuseppe Sala? “Si, ha parlato con mio figlio Tarek, ci ha fatto le condoglianze e ci ha ringraziati per aver chiesto di smetterla con le violenze. Ci ha invitati in Comune. Io non voglio proteste, per mio figlio voglio organizzare una manifestazione pacifica. L’ho detto ai suoi amici”. Cosa è successo domenica notte? “Davvero non lo so. Ramy per me era tutto il mondo. Era un ragazzo sorridente, si vestiva bene, con i pantaloni, le scarpe firmate. Era simpatico e gentile con la mamma”. Secondo lei perché lui e il suo amico sono scappati dai carabinieri? “Non guidava lui, ma il suo amico. Aveva fatto un ultimo video alla fidanzata, quella sera era il suo compleanno. Rideva e aveva il casco. Forse il suo amico è scappato perché non aveva la patente, si è preso paura. Anche io voglio sapere cosa è successo”. Come ha saputo dell’incidente? “Alle 5 del mattino domenica hanno suonato alla porta due amici di Ramy. Mi hanno detto che era in ospedale, al Policlinico. Quando sono arrivato c’era tanta gente che piangeva. Ho chiesto: “Ramy è morto?” Quando mi hanno detto di sì, sono caduto, non avevo la forza. Quando l’ho visto non capivo niente”. Quali sono le ultime parole che le ha detto Ramy? “Sabato sera, prima di uscire era contento. Mi ha detto: papà vado con gli amici. Gli ho detto per favore non tornare tardi. Mi ha detto certo, alle due, le tre torno a casa. E alle tre stava tornando. Non è ancora arrivato. Non arriva più”. In Italia 5 milioni di stranieri, dieci anni di immigrazione: “L’invasione che non c’è” di Giulio Sensi Corriere della Sera, 28 novembre 2024 Sono stabili i numeri dei migranti che arrivano nel nostro Paese. Resta il problema della difficoltà di integrarsi senza la cittadinanza. Patriarca: “Sono una risorsa per i territori”. I dati statistici sull’immigrazione in Italia parlano chiaro: l’emergenza “invasione” non esiste, la presenza degli immigrati ormai è stabile e chi non ha la cittadinanza italiana, specialmente se donna, ha sempre più difficoltà a lavorare e integrarsi. Una realtà che emerge chiaramente dal Rapporto Immigrazione 2024 di Caritas e Fondazione Migrantes. “I dati ci dicono che da almeno 10 anni ci muoviamo intorno ai 5 milioni di cittadini stranieri. La cifra - spiega Simone Varisco, curatore del rapporto per Migrantes - non ha variazioni significative. Ma non sono numeri che possono far parlare di un’invasione. Sui percorsi di integrazione c’è molto da fare. Ci sono situazioni positive di integrazione lavorativa, culturale, sociale e linguistica. Ma dall’altro lato ci sono ancora molte forme di esclusione. Aumenta la resilienza e si crea costantemente un senso di accettazione, di comunità”. Le criticità riguardano soprattutto la scuola e il lavoro. L’abbandono precoce degli studi è diffuso fra i giovani di origine immigrata. “Anche se la maggioranza di loro - aggiunge Varisco - è nata in Italia. Un fenomeno che è dovuto all’ingresso precoce nel mondo del lavoro: lavorare prima può essere positivo, ma lo fanno anche su richiesta della famiglia in difficoltà”. La situazione contrattuale degli immigrati è precaria. “Più insicurezza - spiega ancora Varisco - anche in termini contrattuali. Trovano lavoro facilmente, ma lo perdono altrettanto facilmente. Le loro competenze non vengono valorizzate perché, ad esempio, non sono riconosciuti i titoli di studio conseguiti all’estero. Alcuni hanno titoli importanti, ma in Italia sono costretti a svolgere mansioni non qualificate. L’esclusione femminile è più accentuata. Le donne faticano ad entrare nel mondo del lavoro, con conseguenze anche culturali e linguistiche”. Nel rapporto emerge anche una criticità sugli aspetti sanitari. Manca la cittadinanza sanitaria in una popolazione più giovane che gode di una salute migliore, ma l’iscrizione al sistema sanitario costa molto e grava sulle famiglie e gli studenti che hanno redditi bassi. “Il nostro rapporto - dice ancora Varisco - non vuole combattere l’ideologia securitaria con un’altra ideologia. Partiamo dai dati oggettivi, da un’Italia che si è trasformata e continua a cambiare. I 5 milioni di immigrati salgono a 7 se consideriamo anche coloro che hanno la cittadinanza o i rifugiati. L’Italia è cambiata verso una maggiore multi-culturalità, inter-culturalità e inter-religiosità. Andrebbe valorizzata la presenza giovanile nel mondo del lavoro e anche quella femminile. Rischiamo di sprecare un’opportunità”. Temi e sfide al centro di incontri e dibattiti al Festival delle Migrazioni (26-30 novembre) a Modena, Carpi, Bologna, Ferrara e Forlì. Il titolo è “Europa-Africa andata e ritorno: i cammini e le storie che rigenerano l’Italia”. “Un Festival diffuso - commenta il portavoce dell’evento Edoardo Patriarca - legato a due pensieri: il primo è il Piano Mattei per l’Africa. Il valore del continente africano è inscindibile per l’Europa, vogliamo toccarlo in modo diverso, non per contrapporci al governo e alla sua proposta attuale ma per recuperare l’ispirazione che lo aveva attivato ai tempi di Mattei. Vorremmo, poi, che fosse un’ispirazione non legata solo ad aspetti economici, ma un’andata e ritorno nella reciprocità fra due continenti, uscendo da logiche coloniali e di superiorità occidentali”. Secondo gli ideatori del Festival le persone che provengono da altri continenti stanno già contribuendo a cambiare l’Italia a cui danno altre prospettive. “Sono portatori di competenze e storie di cui il nostro Paese ha bisogno se si vuole rigenerare - aggiunge Patriarca -. L’Italia è sempre stata multietnica e non dobbiamo spaventarci, ma cogliere una speranza di futuro importante”. Al Festival è prevista la presenza del ministro Antonio Tajani e ci sarà anche il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Commissione Episcopale. “La questione è politica. Il Festival - riprende Patriarca - propone un’agenda di azione a ogni Governo. Ci pare che ancora una volta il tema dell’immigrazione sia trattato in termini securitari con politiche che non portano a niente. Le migrazioni sono strutturali e lo saranno sempre di più. Ci sono ancora troppi stereotipi che vengono sbandierati anche da alcuni ministri”. In Italia ci sono più di 5 milioni di immigrati a fronte di 6 milioni di italiani che sono andati all’estero. “Siamo un Paese che si sta disabitando, sta invecchiando - conclude Patriarca - e in cui si spopolano le aree interne. La narrazione della paura non ha senso anche per questo. Le famiglie che arrivano da altri Paesi possono rigenerare il nostro, che può essere un luogo aperto, dei diritti, delle convivenze e delle diversità. L’Europa è questa e non va tradita”. Migranti. Così il decreto Flussi può affondare le Ong di Giansandro Merli Il Manifesto, 28 novembre 2024 Una modifica al decreto Piantedosi di gennaio 2023 rischia di mettere la parola fine al soccorso civile nel Mediterraneo centrale. La recidiva scatterà quasi automaticamente portando alla confisca dei mezzi. Per le navi delle ong c’è una bomba nascosta nella stiva del disegno di legge che converte il “dl flussi”. È una modifica al decreto Piantedosi di gennaio 2023 e stabilisce che la recidiva di una determinata violazione non scatta solo in base al soggetto che materialmente la compie, ovvero il comandante, ma anche in base all’armatore. È tra quelle “fuori sacco” presentate dalla relatrice Sara Kelany (FdI). Quando entrerà in vigore renderà automatico il passaggio alle sanzioni superiori: i livelli sono tre e l’ultimo prevede la confisca dell’imbarcazione. funziona così. Quando a una nave viene contestata un’irregolarità è disposto il sequestro e la multa. Il primo è immediatamente esecutivo e viene subito impugnato. La seconda lo diventa se l’ong sceglie di pagare un importo ridotto, accettando di fatto di dichiararsi colpevole, oppure dopo che l’autorità amministrativa notifica un’ordinanza ingiuntiva. Quando ciò avviene anche questo secondo provvedimento diventa impugnabile davanti al giudice che può sospenderlo oppure no. Se non lo fa rimane in piedi l’esecutività che determina, nel momento di un’ulteriore violazione, la recidiva. Alla seconda il sequestro passa da 20 giorni a due mesi. Alla terza il mezzo è confiscato dallo Stato. Finora, nonostante tantissimi fermi, le condizioni per la reiterazione si erano date solo un paio di volte, per la Sea-Eye dell’omonima ong e la Geo Barents di Msf. Adesso cambierà tutto. Sarà come se, ad esempio, infrazioni realizzate da persone diverse con la stessa macchina, anche a distanza di tempo, si sommino determinando punizioni più severe. O come se un’azienda che dispone di un parco auto sia ritenuta colpevole per quello che fanno due diversi guidatori a bordo di mezzi differenti e così venga sanzionata con maggiore durezza. L’armatore non viene considerato una specie di garante economico della nave, ma responsabile diretto della condotta al pari del soggetto che la realizza concretamente. La nuova legge, infatti, dice che ci sarà reiterazione tutte le volte che una “nuova violazione commessa con l’utilizzo della medesima nave, contestata anche soltanto a uno degli autori o degli obbligati in solido nei cui confronti, nel quinquennio precedente, sia stata accertata, con provvedimento esecutivo, una precedente violazione delle disposizioni del presente comma”. Unica eccezione se “il medesimo autore od obbligato in solido provi che la condotta illecita è avvenuta contro la sua volontà”. Questa norma, di dubbia legittimità visto che fa carta straccia del dettato costituzionale per cui le sanzioni penali o amministrative sottostanno al principio della responsabilità personale, rischia di mettere la parola fine alle missioni delle navi ong nel Mediterraneo centrale. O comunque a bloccarle per lungo tempo, almeno fino a una pronuncia dei tribunali sovraordinati. Già al secondo livello di recidiva sarà difficile che un’organizzazione torni a salvare vite umane avendo sulla testa la spada di Damocle della confisca del mezzo. Per reagire a uno dei punti della questione di costituzionalità sollevata nei confronti del decreto Piantedosi dal tribunale di Brindisi, poi, il governo ha inserito delle modifiche affinché i giudici abbiano il potere di graduare le sanzioni nei sequestri precedenti alla confisca. Adesso il primo potrà durare tra 10 e 20 giorni, il secondo tra 30 e 60. Questa modifica, insieme ad altre minori, mostra che l’esecutivo ha studiato a fondo le tante pronunce sfavorevoli dei tribunali contro il provvedimento firmato dal ministro dell’Interno un anno e mezzo fa e sia intervenuto sul testo per continuare a perseguire il suo reale obiettivo: non regolare il soccorso civile, come più volte dichiarato, ma fermarlo per sempre. Intanto ieri la Camera ha dato il via libera alla conversione del decreto flussi, su cui lunedì il governo aveva apposto la fiducia. Adesso il provvedimento passa al Senato, dove è atteso tra il 3 e il 5 dicembre. Si ripeterà la stessa storia e diventerà legge senza possibilità che i parlamentari possano votare eventuali modifiche. Cosa c’è nel decreto Flussi, in una legge tutte le ossessioni di Meloni: profughi, toghe e Ong di Angela Stella L’Unità, 28 novembre 2024 Polemiche per la compressione del dibattito. Mauri (Pd): “È una matrioska, si criminalizza il fenomeno migratorio”. Nel testo anche il dl paesi sicuri e misure riconducibili ai centri in Albania tra cui una clausola di segretezza. Magi (+E): “Che ha da nascondere il governo? Si rischia un nuovo caso motovedette libiche”. Via libera alla Camera al cosiddetto decreto flussi che contiene misure urgenti “in materia di ingresso in Italia di lavoratori stranieri, di tutela e assistenza alle vittime di caporalato, di gestione dei flussi migratori e di protezione internazionale, nonché dei relativi procedimenti giurisdizionali”. L’esito finale era apparso scontato, così come lo sarà al Senato dove il provvedimento è atteso al più presto, dovendo essere convertito entro il 10 dicembre. L’Aula di Montecitorio si è espressa con 152 “sì” a fronte di 108 voti contrari, dopo che ieri sera era già stata votata la maggior parte del provvedimento con l’approvazione della mozione di fiducia. La previsione ha destato però molte polemiche tra le opposizioni per la compressione della discussione in Commissione e per il fatto che all’interno vi sia stato inserito il dl Paesi sicuri e una norma ritenuta punitiva per le toghe che hanno preso decisioni sgradite all’Esecutivo rispetto ai migranti portati in Albania. Abbiamo raccolto un po’ di voci prima della discussione in Aula. Secondo il responsabile nazionale sicurezza del Pd, il deputato della Commissione Affari costituzionali, Matteo Mauri, “dal punto di vista metodologico siamo davanti a un decreto matrioska” perché “nel testo iniziale del dl flussi ne hanno inserito un altro, quello sui Paesi Sicuri. Oltre ad aver aggiunto in corsa altre norme attraverso emendamenti della relatrice di maggioranza (Kelany di Fd’i, ndr). Con cui hanno tolto ad esempio alle sezioni specializzate dei Tribunali la competenza sulle convalide dei trattenimenti disposti dal Questore per darla alle Corti d’Appello”. A giudizio del parlamentare dem, questi sono, “dal punto di vista strettamente politico”, “gli aspetti più gravi” in quanto “emergono le due ossessioni principali di questo governo: i migranti e la magistratura”. Il decreto, per Mauri, “potrebbe essere chiamato anche Albania 2: la maggior parte degli interventi normativi che vengono fatti sono riconducibili all’immigrazione e alla vicenda assurda dei centri in Albania”. Innanzitutto “l’accusa del Governo ai giudici di cercare un protagonismo politico va ribaltata: sono loro che fanno propaganda, i giudici fanno semplicemente il loro lavoro e fanno rispettare le norme, non solamente quelle italiane, ma anche quelle europee” e poi questo provvedimento “porta con sé proprio il segno della destra che vuole criminalizzare il fenomeno migratorio”. Basti pensare che “prevedono la possibilità di entrare nei telefonini dei migranti per capirne la provenienza: una cosa che non si è mai fatta, soprattutto se fatta senza l’autorizzazione preventiva da parte della magistratura”. Infine “diventa più difficile per un migrante sfruttato sul lavoro denunciare il proprio aguzzino” ma si “rende ancora più facile la confisca delle Navi ONG che salvano le vite in mare”. Per Filiberto Zaratti, capogruppo di Avs nella commissione Affari costituzionali della Camera, “il complesso fenomeno migratorio non può essere governato a colpi di voti di fiducia parlamentare, come fa il Governo Meloni azzerando l’impalcatura giuridica italiana, europea e internazionale”. Ha aggiunto il deputato: “L’immagine del loro fallimento è l’Albania dove sono stati buttati via soldi e dignità: un enorme scandalo nazionale al quale si aggiunge l’umiliazione delle professionalità dei tribunali specializzati a cui viene sottratta la competenza per darla alle Corti d’appello. Avremo più migranti illegali, più caos, più marginalità. Un capolavoro di incompetenza e cinismo”. “Cosa ha da nascondere il governo italiano in Albania?” si è chiesto invece il segretario e deputato di +Europa Riccardo Magi, che ha precisato: “Nel dl flussi è stata infatti inserita una clausola di segretezza per quanto riguarda i contratti di fornitura a Paesi Terzi di mezzi e materiali da destinare al rafforzamento delle capacità di gestione e controllo delle frontiere e dei flussi migratori, nonché per le attività di ricerca e soccorso in mare”. Il rischio per Magi è quello di “trovarci di fronte a un nuovo caso ‘motovedette libiche’: i rapporti di organizzazioni non governative e di organizzazioni internazionali hanno più volte dimostrato che le realtà istituzionali estere alle quali sono stati ceduti mezzi e strumenti si sono costantemente macchiate di violenze inaudite e di pesantissime violazioni dei diritti umani. Il governo non può non tenere conto della necessità di garantire al nostro Paese il rispetto delle convenzioni internazionali, in particolare per quanto riguarda la tutela e - conclude Magi - la difesa dei diritti umani”. Ha dichiarato invece in Aula l’esponente di Azione, Valentina Grippo: “il decreto flussi affronta in modo frammentato il problema dell’immigrazione e manca l’obiettivo di regolare i flussi migratori alimentando irregolarità e precarietà: è il frutto di un’ideologia miope che vede l’immigrazione come minaccia da contrastare attraverso misure punitive, anziché considerarla come una risorsa da gestire con lungimiranza”. “Al Paese - ha aggiunto Roberto Giachetti di Iv- servirebbe un sistema strutturale di accoglienza delle risorse umane già presenti sul nostro territorio, ma ci si è limitati al tentativo di rimediare agli errori commessi nei precedenti otto decreti sull’immigrazione. Eppure, a parte alcuni interventi microscopici su aspetti burocratici, questo tentativo è fallito”. Migranti trasferiti in Albania, il giudizio Ue in primavera. Il Governo ferma tutto fino ad allora di Giansandro Merli Il Manifesto, 28 novembre 2024 La Corte di giustizia Ue deciderà sui rinvii a tema “paesi sicuri” con l’iter accelerato. La sentenza non arriverà prima di sei/otto mesi. Si spiega così il rimpatrio degli operatori italiani dai centri di Shengjin e Gjader deciso la scorsa settimana. La Corte di giustizia Ue ha disposto la procedura accelerata per due rinvii pregiudiziali a tema “paesi sicuri” partiti dal tribunale di Roma e ha sospeso quelli di Bologna e Palermo sulla stessa materia. Le cause che andranno avanti sono state accorpate, per entrambe l’udienza sarà il 25 febbraio. I giudici del Lussemburgo hanno dunque rifiutato l’applicazione dell’iter d’urgenza che era stato richiesto dalle toghe capitoline, optando comunque per quello rapido. Nel primo caso la sentenza sarebbe arrivata in due mesi, in questo ce ne dovrebbero volere tra sei e otto. La selezione dei “paesi sicuri” è decisiva per il progetto Albania: solo l’appartenenza del migrante a uno di essi legittima l’applicazione delle procedure speciali d’asilo, da svolgere in detenzione, per cui sono nati i centri d’oltre Adriatico. Tra governo e magistratura, però, è emerso un conflitto interpretativo sul tema. Lo scioglierà la Corte Ue. Attraverso quattro quesiti i giudici romani della sezione specializzata in immigrazione chiedono in sostanza se il decreto legge “paesi di origine sicuri” varato dal governo Meloni a fine ottobre rispetti il diritto europeo. In particolare se, in base alla “direttiva procedure”, la lista contenente tali Stati può essere una norma di rango primario e se il legislatore può fare a meno di indicare quali fonti ha utilizzato per arrivare alla designazione di sicurezza. Chiedono poi quali sono i poteri di controllo del giudice su tale definizione e se questa è valida anche quando in un paese esistono delle eccezioni per determinate categorie di persone. Le cause trasmesse in Lussemburgo nascono dalle domande d’asilo presentate dai primi 12 cittadini di Bangladesh ed Egitto trasferiti nel centro albanese di Gjader. La Commissione territoriale aveva respinto a tempo di record, in appena 24 ore, la dozzina di richieste di asilo. Gli avvocati dei migranti hanno fatto ricorso. Prima della decisione di merito il tribunale della capitale è stato chiamato a decidere sulla sospensiva del decreto di espulsione. In due casi ha mandato le carte in Lussemburgo, negli altri ha congelato l’efficacia esecutiva del rigetto in attesa della decisione della Corte. Ancora non si sa, invece, cosa accadrà con gli altri sette rinvii pregiudiziali partiti da Roma in occasione del secondo round albanese, ovvero quelli relativi alle non convalide dei trattenimenti (nel primo giro i richiedenti asilo erano stati liberati seguendo una strada diversa, la disapplicazione della norma nazionale a favore di quella Ue). Verosimilmente saranno sospesi anche quelli. Vista l’omogeneità della materia, il tema è sempre lo stesso e le richieste di interpretazione sono molto simili, la Corte sembra orientata a pronunciarsi su un singolo caso e mettere in stand-by gli altri. La decisione varrà comunque per tutti. La scelta di applicare la procedura accelerata è stata presa dalla seconda sezione della Corte del Lussemburgo martedì scorso. E infatti subito dopo è partito l’ordine di rimpatriare gli operatori italiani dai centri di Gjader e Shengjin, notizia anticipata dal manifesto nell’edizione di venerdì. La scorsa settimana il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva ribadito l’”attesa” per l’udienza in Cassazione del 4 dicembre, quando saranno esaminati i ricorsi del Viminale contro le prime non convalide nei centri albanesi, ma tutto suggerisce che il governo è ben consapevole che la partita si giocherà nel tribunale europeo. L’iter rapido regolato dall’articolo 105 del regolamento procedure della Corte non prevede una scadenza tassativa per la sentenza, a differenza di quello d’urgenza. I sei/otto mesi costituiscono una stima in base alla tempistica media, poco meno della metà di quella ordinaria. Vanno calcolati dall’iscrizione a registro della causa, avvenuta nella prima metà di novembre. Dei centri in Albania, insomma, se ne riparlerà in primavera. Il ministro degli Esteri albanese sui Cpr: “Il progetto di Meloni è troppo grande per fallire” di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 28 novembre 2024 “Abbiamo detto chiaramente che siamo disposti a portare avanti il progetto solo con l’Italia. Per il resto non so cosa faranno gli altri stati dell’Ue”, ha detto il ministro Igli Hasani. Per ora, secondo lui, non c’è dubbio che il progetto dei centri italiani proseguirà. Ma dall’Albania è iniziato il rientro di agenti e di dipendenti che gestiscono le strutture costruite dal governo. Igli Hasani, classe 1976, è il ministro scelto dal premier Edi Rama nel settembre del 2023 per occuparsi della candidatura del paese a diventare un futuro stato membro dell’Unione europea. Hasani, ministro per l’Europa e degli Esteri è stato il relatore di alcuni panel ai Mediterranean dialogues 2024 organizzati da Ispi a Roma. A margine dell’evento ha risposto a Domani ad alcune domande sui centri per migranti inaugurati in Albania e sul processo di integrazione europeo. I centri per migranti di Shengjin e Gjader sono stati inaugurati ormai un mese fa. Ma non sembra che il progetto stia procedendo come vuole il governo Meloni... È qualcosa che è gestito interamente dalle autorità italiane. Noi seguiamo con attenzione e abbiamo dimostrato tutta la nostra disponibilità. Siamo pronti a supportare il governo italiano in tutto. Ci sono giudici che non hanno convalidato il trattenimento dei migranti nei cpr, agenti di polizia e personale delle strutture che stanno rientrando in Italia. Se il protocollo con l’Albania dovesse naufragare le strutture che sono costate all’Italia decine di milioni di euro che fine faranno? Le utilizzerete voi per gestire il flusso interno di migranti? Non penso che progetti grandi come questi collasseranno, sono sicuro che proseguirà. È un impegno importante per affrontare una questione chiave per l’Unione europea e i suoi stati membri come la politica migratoria. Quindi pensate di replicare il progetto anche con altri paesi membri? Avete ricevuto qualche richiesta simile? Per ora le nostre relazioni sono solo con Roma. Abbiamo detto chiaramente che siamo disposti a portare avanti il progetto solo con l’Italia. Per il resto non so cosa faranno gli altri stati. Lei si occupa in prima persona anche del dossier per l’ingresso dell’Albania nell’Unione europea. A che punto siete? Abbiamo aperto un round di negoziazioni lo scorso mese. Siamo pronti ad aprire tutti i capitoli da discutere entro il 2025, per poi proseguire le analisi tecniche fino al 2027. Quali sono gli ostacoli principali, oltre al fenomeno corruttivo pervasivo nel paese? In una maniera o nell’altra l’Albania soffre le stesse difficoltà degli altri paesi dei Balcani. Non facciamo parte di una realtà differente. Per questo motivo dobbiamo continuare a lavorare e impegnarci con tutte le istituzioni. Siamo contenti della collaborazione degli italiani e di altri attori della regione. Quale ruolo gioca il governo Meloni nella vostra partita per entrare in Ue? Ci dà un grandissimo supporto. L’Italia è la forza motrice per l’integrazione europea dei Balcani occidentali. Non solo da oggi però, già in passato il vostro paese è stato aperto all’ingresso di nuovi membri e possibilità. Siamo felici di questo. Italia e Albania storicamente hanno ottimi rapporti. Anche tra i due governi c’è una buona intesa... Abbiamo eccellenti relazioni. I nostri rapporti sono basati su una vera comprensione dei governi a cui capo ci sono due persone (Rama e Meloni ndr.) che sono molto vicine tra di loro. Lavoriamo insieme, c’è un ottimo legame sia qui a Roma che a Tirana.