Bambine e bambini in carcere, non tacere di Cecilia D’Elia Il Manifesto, 27 novembre 2024 La sera del 19 novembre, a poche ore dalla Giornata mondiale dell’Infanzia, le commissioni riunite affari costituzionali e giustizia del senato discutevano gli emendamenti presentati all’articolo 15 del disegno di legge 1236, “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”. In verità il testo si occupa molto poco di sicurezza delle cittadine e dei cittadini. Quello che disegna, inasprendo pene e prevedendo nuovi reati - ho perso il conto dei reati made by Meloni & co. - è la sicurezza dell’autorità pubblica, incontestabile, visto che anche le forme di protesta o di resistenza non violenta, vengono criminalizzate. Tutte le pratiche che i senza potere hanno per far arrivare al dibattito pubblico le loro istanze diventano reati e loro stessi dei nemici della collettività. In questo contesto normativo si colloca l’articolo 15 che riguarda l’esecuzione penale nei confronti di detenute madri e rende facoltativo e non più obbligatorio il rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età inferiore ad un anno. Nulla strideva di più tra la giornata che ci accingevamo a celebrare, nel nome dei diritti dei minori e quella norma, un passo indietro persino rispetto al Codice Rocco. Poche ore prima in un’altra sala del Senato, una conferenza stampa delle associazioni proponenti, a cominciare dalla Società della ragione, aveva illustrato l’appello “Ogni bambino ha diritto a nascere in libertà. No al carcere per le donne incinte”. Firmato da tantissime realtà e personalità, il testo ricorda che non si possono separare i neonati dalle madri e che il carcere non è luogo adatto a loro, innocenti assoluti, ristretti per colpe che non hanno. Una campagna iniziata non oggi. A maggio, in occasione della Festa della mamma, molti di noi parlamentari hanno scelto di essere nei nidi dei penitenziari. Personalmente sono stata a Rebibbia con altre colleghe. L’iniziativa è nata anche in risposta allo stravolgimento della legge per le detenute madri che si era iniziata a discutere alla Camera, un testo che si ispirava al lavoro fatto nella scorsa legislatura dal deputato Siani, per finanziare finalmente le case-famiglia protette. Un testo subito aggredito e stravolto dagli emendamenti della maggioranza. Lunedì sera ho ascoltato in commissione le stesse chiusure, gli stessi argomenti contro le donne che rimangono incinte apposta per non finire in carcere. Stereotipi e pregiudizi che fanno in ogni caso ricadere sui figli le colpe delle madri. Al fondo è una norma sessista e razzista, come giustamente sottolinea Grazia Zuffa (L’Unità, 20/11/24), pensata per le donne rom, le “borseggiatrici”, stigma che punisce i loro bambini, ignorando il fatto che già oggi donne incinte e neonati vengono portati in carcere subito dopo l’arresto o in attesa del processo. Al 31 ottobre le detenute madri erano 16 e 18 i bambini. Anche uno solo sarebbe uno scandalo. Bisogna andare nei nidi in carcere, andare e vedere, andare e ascoltare. Come si può pensare che sia dignitoso partorire dietro le sbarre, portare avanti serenamente la relazione madre neonata/o, una fase delicatissima della vita di entrambi, in quelle condizioni. Mentre sono solo due le case-famiglia protette, una a Milano e una a Roma, Casa di Leda, dedicata a Leda Colombini, una donna che ha sempre lottato per i diritti delle donne e che ha dedicato l’ultima parte della sua vita a quelli delle detenute madri e dei bambini in carcere. Non c’è dignità in quelle condizioni, per le madri, per i figli. È uno scandalo che ci siano bambini dietro le sbarre, lo ripeteremo fino allo sfinimento. Continueremo la nostra battaglia per abolire questa condizione crudele e continueremo a opporci al ddl sicurezza, emendamento su emendamento. Delmastro non rimpiange niente di Alice Oliverio Il Manifesto, 27 novembre 2024 Il sottosegretario a Napoli rivendica ancora la frase sui soffocamenti. “Non voglio dare tregua alla mafia”. Poi rilancia: “Contrario a ogni svuota carceri”. “Ribadisco che non voglio dare tregua alla mafia”. Così il sottosegretario Andrea Delmastro torna a commentare la sua uscita sull’intima gioia che gli provoca sapere che i detenuti soffocano sul sedile posteriore dei nuovi mezzi della polizia penitenziaria. Di più, da Napoli, a margine dell’incontro organizzato dall’Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria su “Carcere e criminalità 4.0. Sfide e opportunità per la polizia penitenziaria”, Delmastro insiste, aprendo anche squarci sulla sua vita domestica: “Mia moglie, quando mio figlio Giovanni continua a dire che non vuole finire i compiti, che vuole andare a guardare la tv o stare sul tablet, sapete che gli dice? Non ti lascio respirare finché non finisci i compiti. E non ho mai pensato che mia moglie volesse asfissiare mio figlio. Se avesse un senso letterale quella frase, dovremmo desumerne che uno in Italia compra le macchine asfissianti? Allora, dietro quei vetri ci sono i mafiosi al 41bis”. Segue una spiegazione tecnica sull’incredibile novità che questi nuovi mezzi rappresenterebbero. “Mi sarebbe piaciuto che il discorso fosse stato serio chiedendoci cosa c’era prima? Sapete cosa c’era prima? I furgoni. Qualcuno riesce a entrare con un furgone per il trasporto di 20-30 persone nei Quartieri Spagnoli? Io no. Cosa succedeva prima? Si fermava il furgone e si procedeva con la traduzione del camorrista a piedi nei Quartieri Spagnoli. Crede sia sicurezza questa? Penso proprio di no”. Dunque non staremmo parlando delle fantasie sadiche di un esponente del governo, ma di “una risposta di sicurezza alla polizia penitenziaria”. Prosegue Delmastro: “Sono fiero di poter dire che con questi strumenti sarà sempre più impossibile aprire a camorra, a ‘ndrangheta, a mafia, faglie che possano usare per evasioni, per aggressioni alla polizia penitenziaria. Ripeto, non vogliamo dare tregua alla criminalità organizzata. Peraltro non è che abbiamo scoperto l’acqua calda: il primo provvedimento del governo Meloni è stato quello di salvaguardare l’ergastolo ostativo dalla scure di incostituzionalità perché è nelle corde e nel cuore del presidente Meloni contrastare la criminalità organizzata se non altro perché, è fatto notorio, più volte detto dal presidente Meloni, che questa è una generazione che ha cominciato a fare politica sull’onda emotiva delle stragi di via Capaci e di via D’Amelio. Siamo fatti così, questa è la nostra pasta”. Ultimo affondo sul sovraffollamento carcerario. “Sono nato 50 anni fa e c’era già il sovraffollamento e mancavano 10mila posti detentivi - sostiene Delmastro -. Sono arrivato nel mezzo del cammin della mia vita e ci sono ancora il sovraffollamento e mancano 10mila posti detentivi: in mezzo ci sono decine di provvedimenti svuota carceri e mi pare evidente che quella misura abbia fallito”. Carceri, Serracchiani (Pd): “Necessarie alternative per dipendenze o disagi psichiatrici” 9colonne.it, 27 novembre 2024 “Ormai il carcere è una vera e propria emergenza nazionale, e noi riteniamo che ci siano delle persone che non debbano neanche entrare in carcere: sono quei detenuti che hanno un disagio psichiatrico, hanno una dipendenza o addirittura una doppia diagnosi sia psichiatrica che di dipendenza, che in carcere non solo non possono essere curati ma che non riescono neppure a migliorare quelle che sono le loro condizioni”. Così Debora Serracchiani, responsabile Giustizia del Partito democratico, a margine di una conferenza stampa alla Camera sui percorsi per detenuti con dipendenze. A queste persone, spiega Serracchiani, “bisogna fare una proposta alternativa. Ci sono le proposte alternative, dall’affidamento in prova, alle misure alternative all’ingresso nelle comunità terapeutiche. Le comunità terapeutiche oggi ci dicono che hanno opposti a disposizione. Manca la volontà politica però di far sì che queste persone invece di stare in carcere possano andare in quelle comunità. E mi permetto di dire, è un problema di sicurezza anche per noi che siamo fuori: prima op poi quelle persone escono, se escono peggio di come sono entrati è un problema di sicurezza anche per noi”. Nordio: “Un giudice imparziale meno parla e meglio è. La separazione delle carriere non è un attacco alla magistratura” di Carlotta De Leo Corriere della Sera, 27 novembre 2024 Il ministro della giustizia: il magistrato ha il diritto e alle volte anche il dovere di dare un parere tecnico sulle leggi. Ma non di entrare nel merito politico. “Un pubblico ministero ha una libertà di espressione secondo me superiore a quella del giudice perché è parte e questo lo sarà ancora di più dopo la separazione delle carriere che faremo. Un giudice, che deve apparire imparziale, meno parla meglio è perché rischia di esprimersi su argomenti sui quali magari dopo dovrà provvedere in modo giurisdizionale”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, torna a parlare della separazione delle carriere, uno delle riforme istituzionali portate avanti dal governo Meloni. “Io credo che il giudice magistrato abbia il diritto, forse anche il dovere qualche volta, di dare un parere tecnico sulle leggi perché è lui che le deve applicare e poiché talvolta alcune leggi sono state fatte in modo tecnicamente discutibile” afferma Nordio a margine del convegno “Intelligenza Artificiale: il nuovo Rinascimento” organizzato a Roma da Il Sole 24 Ore. “È giustificato che i magistrati dicano `guardate che tecnicamente questa norma è non applicabile´. Quello che non possono e non devono fare è entrare nel merito politico delle leggi cioè nel merito” aggiunge. “Noi la separazione delle carriere la faremo, non si discute su questo, vorremmo che non fosse interpretata come un attacco alla magistratura o come una forma punitiva” afferma ancora il ministro. La riforma, infatti, ha sollevato critiche e polemiche da parte della magistratura: “Abbiamo assicurato che la separazione delle carriere non è un indebolimento della democrazia, ed esiste proprio in Paesi dove la democrazia è nata come gli Usa o l’Inghilterra”. Nordio e Santalucia, l’unità di crisi per scongiurare la guerra toghe-governo di Errico Novi Il Dubbio, 27 novembre 2024 I rapporti già tesi fra magistrati e maggioranza rischiano di essere definitivamente compromessi dalle nuove sanzioni disciplinari per i giudici in arrivo venerdì. Ma il presidente dell’Anm ne ha suggerito una riformulazione corretta. E oggi il ministro ha detto: “Il magistrato ha il diritto di dare un parere tecnico sulle leggi, ma non deve entrare nel merito politico”. Di giorni così tesi, fra governo e magistrati, non se ne ricordano molti, e non solo nella legislatura in corso: è dalla fine dell’era Berlusconi che non si raggiungeva una soglia simile. Non c’è da stupirsi. Il nodo è semplice: per la prima volta dai tempi di Giuliano Vassalli, dall’introduzione del codice accusatorio voluto dal guardasigilli ed eroe della Resistenza, la separazione delle carriere sembra davvero possibile. Nasce tutto da lì. E sarà una campagna referendaria durissima. Di fatto già iniziata. Con il serrate le fila fra giudici e pm, da una parte. E con le iniziative assunte, dall’altra parte, sia dalla maggioranza sia dall’avvocatura, e in particolare dall’Unione Camere penali, che ha avviato la costituzione di un primo, embrionale “comitato per il sì” alla riforma sulle carriere dei magistrati. Di mezzo ci vanno le altre riforme della giustizia. Incluse quelle relative ai migranti. E inclusa l’introduzione, in arrivo nel Consiglio dei ministri di venerdì, di una nuova sanzione disciplinare per i magistrati che, pur in presenza di “gravi ragioni di convenienza”, non si astengono da un certo procedimento, civile o penale che sia. Così recita l’articolo 4 del decreto Giustizia rinviato ieri ma già pronto per la riunione del governo in programma venerdì. È una battaglia di un conflitto più generale. Ma il guardasigilli Carlo Nordio è convinto che quel conflitto non debba degenerare in rissa: “Spero che si abbassino molto i toni da entrambe le parti”, ha detto a un evento sull’intelligenza artificiale organizzato a Roma dal Sole-24 Ore, “quello che viene definito come conflitto diventi solo un confronto di opinioni, anche franco, accesso e polemico ma nel rispetto delle posizioni reciproche”. Il ministro della Giustizia ha aggiunto una puntualizzazione, dal notevole significato politico, a proposito dell’illecito disciplinare messo a punto per i pm e, soprattutto, per i giudici che non si astengono da procedimenti relativi a questioni sulle quali hanno già espresso valutazioni più complessive: “Il magistrato ha il diritto e il dovere di dare un parere tecnico sulle leggi perché le deve applicare: quello che i magistrati non possono e non devono fare è entrare nel merito politico delle leggi”. Sembra una precisazione ininfluente rispetto alle tensioni che il decreto Giustizia ha sprigionato. E invece sono parole che aprono uno spiraglio. Nordio teme che se la situazione degenera, si arriverà al referendum sulla separazione delle carriere in un clima di caccia alle streghe nei confronti dei magistrati. Un’esasperazione che, dal punto di vista del ministro, può compromettere l’esito della consultazione. Venerdì, mentre il Consiglio dei ministri approverà il decreto Giustizia e la stretta sui magistrati che non fanno un passo indietro, inizierà, nell’aula di Montecitorio, la discussione generale sulle “carriere”, sul ddl costituzionale firmato proprio da Nordio. Ecco: quel nuovo illecito disciplinare non dovrà, secondo il guardasigilli, suonare come una vendetta. E per evitare che finisca così, il titolare della Giustizia confida in un interlocutore schierato su posizioni apparentemente inconciliabili con quelle dell’Esecutivo: Giuseppe Santalucia. Il presidente Anm ha già detto cosa pensa della nuova norma che sarà innestata nel codice disciplinare delle toghe (il decreto legislativo 109 del 2006): è partito dalla constatazione che con l’abolizione dell’abuso d’ufficio è venuto meno l’obbligo di astensione, per i magistrati, a fronte di eventuali conflitti d’interesse. “È una cosa molto tecnica”, ha osservato Santalucia. Ma è proprio così: se non c’è il reato che faceva paura ai sindaci, ma che era applicabile pure a giudici e pm, viene meno il presupposto penale dell’ipotesi disciplinare, contestabile a un magistrato, di aver sovrapposto funzione pubblica e interesse personale. Santalucia chiede di limitare il nuovo illecito al “conflitto d’interessi”. E lancia così un assist a Nordio. Il nodo, ricorda il vertice dell’Associazione magistrati, è evocato nel “preambolo del decreto legge”. Ed è vero: nelle premesse dell’articolato c’è proprio un passaggio che recita testualmente: “Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di modificare la disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati in ragione dell’intervenuta abrogazione del reato di abuso d’ufficio, allo scopo di parificare espressamente, a fini di rilevanza disciplinare, i casi di obbligo di astensione tipizzati dalla legge a quelli in cui l’astensione è soggettivamente rimessa alla sussistenza delle gravi ragioni di convenienza...”. Santalucia suggerisce, di fatto, di richiamare quelle parole nella formulazione della nuova fattispecie disciplinare, cioè all’articolo 4 del decreto legge. Nordio ha lanciato oggi quel primo segnale : “Il magistrato ha il diritto e il dovere di dare un parere tecnico sulle leggi, ma non deve entrare nel merito politico” delle norme. Sembra un primo passo verso una mitigazione del decreto. Paradossalmente, il problema è politico: vanno convinti il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il leader della Lega Matteo Salvini e la stessa premier Giorgia Meloni. Tutti intenzionati a contrastare pronunce sui migranti ritenute politicamente orientate. Non è facile, per Nordio. Ma rispetto all’opportunità di riportare la dialettica con le toghe su un piano più disteso, il ministro sa di poter contare anche su una sponda interna: Forza Italia e il vicepremier Antonio Tajani. Non vuol dire che venerdì, nel decreto, la norma sarà certamente riscritta. Ma magari, nell’iter parlamentare di conversione in legge, gli azzurri potrebbero spingere per una definizione meno vaga e “minacciosa”, per le toghe, del nuovo illecito disciplinare. Non basterà a rendere pacato il confronto sulla separazione delle carriere. Ma magari potrà contribuire a evitare che la politica giudiziaria degeneri, di qui al referendum sulla riforma Nordio, in una guerra senza quartiere. Sulla Consulta è ancora stallo, Forza Italia frena sulla giudice di Daniela Preziosi Il Domani, 27 novembre 2024 Dopo i pali presi dalla maggioranza - che l’ultima volta ha vagheggiato di eleggersi Marini da sola con qualche aiutino, salvo in extremis scoprire di non avere i numeri - stavolta gli sherpa di palazzo Chigi hanno accettato l’invito di Elly Schlein a sedersi a un tavolo a “dialogare” con le opposizioni. L’accordo “di metodo” c’è, ma per eleggere i prossimi quattro giudici costituzionali serve ancora tempo, e pazienza se il Colle ha espresso severi moniti contro il “vulnus istituzionale”. Il Parlamento è convocato giovedì a Montecitorio in seduta comune per il nono voto. Stavolta i parlamentari avranno due schede: una per il successore di Silvana Sciarra, il cui mandato è finito da un anno, l’altra per i sostituti dei tre giudici in scadenza il 21 dicembre, il presidente Augusto Barbera, e i suoi due vice Franco Modugno e Giulio Prosperetti. Per il primo caso servono ormai solo i tre quinti dell’assemblea, per i secondi ancora i due terzi. Ma anche stavolta sarà fumata nera. Per allineare i quorum necessari ai quattro, ci vorranno altre due votazioni a vuoto: fin lì nessun nome verrà messo (a rischio) nell’urna, neanche quello di Francesco Saverio Marini, fortissimamente voluto da Meloni: è il padre del premierato e a sua volta figlio di un presidente della Consulta di solida fede di destra. Una novità c’è: dopo i pali presi dalla maggioranza (che l’ultima volta ha vagheggiato di eleggersi Marini da sola con qualche aiutino, salvo in extremis scoprire di non avere i numeri), stavolta gli sherpa di palazzo Chigi hanno accettato l’invito di Elly Schlein a sedersi a un tavolo a “dialogare” con le opposizioni (leggasi i dem). Per il Pd la partita è in mano al capogruppo del senato Francesco Boccia, in stretto contatto con la segretaria. Il “dialogo” ha partorito un accordo di metodo. La maggioranza sceglierà due nomi, le opposizioni uno, il quarto sarà un tecnico “condiviso”. Uno dei quattro dovrà essere una donna. Ma questo complica il busillis. Per la premier Marini è irrinunciabile; per l’altro nome della destra avanza pretese Forza Italia, che ormai si sente seconda forza della coalizione. Il forzista candidato “naturale” è Francesco Paolo Sisto, combattivo penalista barese, viceministro alla Giustizia. Ma Fi non può ritirarlo dal fronte: è la sentinella della separazione delle carriere, con il compito di ricacciare indietro ogni nemico, interno o esterno. Sale dunque il senatore Antonio Zanettin, avvocato, già Csm. Il tecnico potrebbe avere il curriculum di Roberto Garofoli: sottosegretario di Draghi, segretario generale di Palazzo Chigi con Letta e capo di gabinetto all’Economia con i governi Renzi e Gentiloni. Il che però non rassicura Meloni: da gennaio la Consulta dovrà affrontare alcune questioni politicamente sensibili. E la prima è il vaglio del referendum sull’autonomia differenziata, che Chigi teme come la peste. A sinistra la partita si presenta più ordinata. Ma è tutta apparenza. L’indicazione del nome spetterebbe al Pd (perché, è il ragionamento, i Cinque stelle hanno già “avuto” il loro uomo nel cda Rai). Conte voterebbe il costituzionalista Andrea Pertici, ai tempi civatiano e che Schlein ha portato con sé nel nuovo Pd. Invece fra i democratici salgono le quote di Massimo Luciani, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, gradito anche a Luciano Violante. Ma così manca la giudice. E per il Pd la giudice la deve indicare Fi. Che però recalcitra. In realtà, se rinunciasse a piazzare un famiglio stretto, cartucce ne avrebbe: esclusa la ministra Casellati (Meloni non vuole “cedere” altri ministri, e poi i forzisti hanno già fatto fatica a votarla al Colle), circolano i nomi “d’area” di Ginevra Cerrina Ferroni e Ida Nicotra. Nicotra però è la moglie di Felice Giuffrè, membro laico del Csm in quota Fdi, e la sua elezione attirerebbe a Meloni le consuete accuse di amichettismo. Per riempire le caselle c’è tempo fino a metà dicembre. Qui però le previsioni divergono: per la destra la partita si chiude a dicembre; al Pd sono scettici. In realtà puntano a spingere il voto “vero” a fine di dicembre. Il che rallenterebbe i tempi dell’insediamento dei nuovi quattro giudici. Così la Corte scenderebbe a quota 11 membri, soglia minima per prendere decisioni. E hai visto mai che una Corte così composta decida “meglio” sull’autonomia. Il pessimo affare della cattiva legge di Antonio Rossitto Panorama, 27 novembre 2024 Grandi inchieste che finiscono nel nulla, ma nel frattempo danneggiano interessi economici e reputazioni delle imprese. Il peso di processi e sentenze sulle decisioni della politica. E ancora un’intollerabile numero di errori giudiziari che ogni anno costano centinaia di milioni di euro alla collettività. Il bilancio di una “Giustizia ingiusta” è questo. Da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di perfettamente dritto”. Volente o nolente, una parte della magistratura italiana sembra eternamente incagliata nel severo aforisma kantiano. Bisogna raddrizzare gli alberi, soprattutto i fusti dell’economia e della politica. Anche a costo di epocali cantonate e incalcolabili danni. Elon Musk ha sintetizzato l’inconfessabile con un tweet urticante: “Questi giudici se ne devono andare”. Si riferiva alla tenzone tra il governo italiano e i tribunali sui centri per il rimpatrio in Albania. I magistrati contestano la lista dei “Paesi sicuri” dove rispedire i clandestini. L’uomo più ricco e potente del mondo ama scherzare con il fuoco. Tutti si sono precipitati a sconfessare l’ennesima incontinenza verbale. Ma molti, sotto sotto, non si sono rammaricati. Del resto, già qualche mese fa Musk aveva difeso il segretario della Lega, Matteo Salvini, imputato per aver negato l’approdo sulle coste italiana della nave di Open Arms, indomita ong spagnola: “È scandaloso che sia sotto processo per aver fatto rispettare la legge”. “Non esistono politici innocenti, ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove” assicurava Piercamillo Davigo detto “Piercavillo”: fu eroe di Mani Pulite, consigliere del Csm, tintinnanti schiavettoni e indice ritto, condannato lo scorso marzo a un anno e tre mesi per rivelazioni d’atti d’ufficio in un’inchiesta denominata “falso complotto Eni”. Ecco, a proposito. Alla categoria dei rei immaginari bisogna spesso iscrivere, oltre che i governanti, pure supermanager, grandi imprenditori e poveri cristi: assolti dopo interminabili processi e talvolta incarcerati per ubbie giacobine. E poi ci sono anche i ritardi e le inefficienze dei tribunali civili. Quanto ci costa allora la giustizia ingiusta? Almeno l’1 per cento del Pil, quantifica Bankitalia. Una ventina di miliardi all’anno. Ricordate, per esempio, la scoppiettante inchiesta sulla corruzione in Liguria? Ha terremotato la giunta guidata da Giovanni Toti, sputtanato per mesi su televisioni e giornali. Adesso gli ultimi dati di Unimpresa certificano l’ovvio: l’economia della regione langue. Nei primi nove mesi di quest’anno, rispetto al 2023, il fatturato delle imprese liguri è sceso del 18 per cento: quasi nove miliardi in meno. Per un’inchiesta che s’è conclusa con patteggiamenti poco più che simbolici. Il tribunale di Brescia, intanto, lo scorso 21 novembre deposita le motivazioni della condanna a otto mesi del procuratore aggiunto uscente di Milano, Fabio De Pasquale, mito dei manettari tricolore: unico uomo sulla terra ad aver ottenuto lo scalpo giudiziario di Silvio Berlusconi, per la frode fiscale sui diritti televisivi. Ora invece tocca a lui, assieme al collega Sergio Spadaro: “Hanno utilizzato solo ciò che poteva giovare alla propria tesi” scrivono i giudici bresciani, “tralasciando chirurgicamente i dati nocivi” a favore degli imputati del processo Eni. I manager erano finiti sotto accusa, ingiustamente, per aver versato una presunta colossale tangente: circa 1,1 miliardi di euro pagati per ottenere i diritti di esplorazione nell’oceano Atlantico, al largo di Lagos. Nel 2014, De Pasquale avvia dunque l’indagine. La Nigeria confisca quel giacimento, chiamato Opl 245, da oltre 500 milioni di barili di oro nero. Il 17 marzo 2021 il tribunale di Milano demolisce però l’inchiesta, assolvendo tutti gli imputati, a partire dall’amministratore delegato dell’eni, Claudio Descalzi. I giudici segnalano non solo la mancanza di prove, ma criticano pure le decisioni “irrituali” e “incomprensibili” dei due magistrati, rimasti peraltro in servizio. E a luglio 2022 la procura generale rinuncia a impugnare la sentenza. La megatangente era una megapanzana. Ma quanto sono costati otto anni alla berlina? Almeno cinquanta milioni di euro in spese legali pagati dal colosso energetico, intanto. Da aggiungere alle spese sostenute dalla procura per imbastire il processo. A cui andrebbe sommato, soprattutto, quell’abbondante miliardo investito per non poter estrarre nemmeno una goccia di petrolio. Senza considerare l’incalcolabile danno d’immagine. E la beffarda nemesi: la condanna degli inquisitori arrivata lo scorso ottobre. Sentenza tra l’altro già preceduta, qualche mese prima, da una delibera del Csm, che ha deciso di non confermare De Pasquale nell’incarico di aggiunto: “Risulta dimostrata l’assenza dei prerequisiti della imparzialità e dell’equilibrio, avendo reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo né equo rispetto alle parti, nonché senza senso della misura e della moderazione”. E lo dicono adesso? Dopo un trentennio di rutilanti accuse? L’Eni, poi, è sempre stato il suo pallino investigativo. Nel 2012 il magistrato aveva già coordinato un’inchiesta per una presunta corruzione della controllata Saipem in Algeria, per ottenere commesse petrolifere da otto miliardi di euro. Tra gli indagati, anche questa volta, c’è l’amministratore delegato del tempo: Paolo Scaroni. “Una tangente mai vista” si frega le mani De Pasquale, evocando il solito superlativo assoluto. Peggio di Tangentopoli. Scalmanati politici pucciano le manette nel brodo giustizialista. Beppe Grillo, all’epoca veneratissimo fondatore dei Cinque stelle, assalta: “Eni da molti anni si regge su un sistema corruttivo di portata mondiale, su un’attività criminogena”. La prova decisiva, ovviamente, è l’indagine della procura milanese. Ma che si concluderà, ancora una volta, con l’assoluzione degli imputati. Grillo, però, è scatenato. Si presenta all’assemblea dell’Eni. Chiede la parola da piccolo azionista. Annuncia una commissione d’inchiesta, per investigare sulle magagne di quei felloni planetari: “Saipem era un gioiello, adesso è ridotta quasi in liquidazione con le azioni passate da 40 a 7 euro”. Conseguenza anche del danno reputazionale, però. In quei mesi, Grillo zompa inarrestabile su ogni supposta magagna di Stato. Cavalca pure l’indagine su Finmeccanica, l’altra gloriosa multinazionale. Nel 2013 è arrestato l’allora presidente, Giuseppe Orsi, per presunte tangenti pagate dal governo indiano per l’acquisto di elicotteri Agusta-Westland. Nell’aprile 2016 viene condannato. Un mese dopo, l’india annuncia che avrebbe rescisso contratti con l’Italia per circa due miliardi di euro: elicotteri, cannoni, siluri, radar, missili. Il ministro della Difesa indiano annuncia: “Non faremo più transazioni con le vostre aziende pubbliche fino a quando Finmeccanica resterà nella lista nera”. Anche per fare dimenticare l’onta subita, Finmeccanica cambia nome: diventa Leonardo. Tre anni dopo, la Cassazione proscioglie però Orsi da ogni accusa, che commenta avvilito: “In nessuna parte del mondo si sognano di mettere in galera il presidente della più importante industria del Paese se non si hanno motivazioni più che provate”. Da noi, invece, si parte sempre in quarta. La lista è sterminata. E non ci sono solo multinazionali. Lo scorso settembre, tanto per limitarci all’ultimo caso, sono stati assolti gli otto imputati dell’inchiesta sull’impianto biogas di Verdi Praterie, società del gruppo Marrelli di Crotone. È guidato da Antonella Stasi, ex vicepresidente della Calabria per il Pdl. L’indagine per traffico illecito di rifiuti era stata coordinata da Nicola Gratteri, venerato paladino antimafia, adesso procuratore capo a Napoli. Tre anni e mezzo dopo, rivela Stasi, l’azienda è distrutta: impianto chiuso, licenziamenti e debiti. Chi paga? Nessuno. Il nostro ordinamento non contempla il risarcimento dei danni a un’azienda. Esiste invece una norma per l’ingiusta detenzione. In trent’anni, lo Stato ha sborsato quasi un miliardo di euro in risarcimenti, per oltre 30 mila casi. La relazione in parlamento del guardasigilli, Carlo Nordio, non conferma solo l’irreversibile, ma pure l’ineluttabile: nessuna toga viene mai punita. Dal 2018 al 2023 sono state indennizzate ben 4.368 persone, con quasi 194 milioni di euro. Negli stessi cinque anni sono state avviate 87 azioni disciplinari contro magistrati, un numero irrisorio se paragonato al numero degli errori giudiziari. Gli esiti, per giunta, sono sconfortanti: 44 archiviazioni, 27 assoluzioni, 8 censure, 1 ammonimento e 7 procedimenti ancora in corso. Insomma, le toghe non sbagliano mai. E vengono pure ben risarcite nei rarissimi casi in cui sono loro le vittime. Il 24 settembre scorso la Corte d’appello di Milano ha riconosciuto un indennizzo di 48 mila e 800 euro a Pasquale Longarini, attuale giudice civile di Imperia, per aver trascorso 61 giorni agli arresti domiciliari da innocente. Nel 2017 lo accusano di pressioni indebite su un imprenditore di Courmayeur, per far affidare a un amico le forniture alimentari di un lussuoso albergo. Seguono domiciliari, gogna, processo, assoluzione. Una sequela di ingiustizie che lo accomuna a tanti cittadini, che però sono stati meno fortunati. Ogni giorno ai domiciliari viene risarcito con 117 euro, raddoppiati in caso di carcere. Nel caso dell’ex pm aostano, la cifra è stata moltiplicata per sette. Totale: quasi cinquantamila euro, appunto. Sia chiaro: nessuna cifra può ripagare un infamante arresto, che sia di un pm o di un povero diavolo. Però è l’ennesima dimostrazione: la legge non è sempre uguale per tutti, specie se ci sono di mezzo le toghe. Stefano Binda, assolto lo scorso settembre dall’accusa di avere ucciso Lidia Macchi, ha ricevuto 212 mila euro per 1.286 giorni dietro le sbarre. Qualche mese prima, era stato invece quantificato il primo indennizzo del più eclatante errore giudiziario della storia: 28 mila euro, per aver scontato l’ingiusta pena in celle minuscole e sovraffollate. Beniamino Zuncheddu, ex pastore di Burce, è rimasto in carcere 33 anni da innocente, dopo essere stato condannato all’ergastolo per la strage del Sinnai. È stato assolto lo scorso gennaio. Tornato nel suo paesino sui monti del Sarrabus, adesso tenta di ricominciare una vita interrotta nel 1991. Non c’erano i telefonini, allora. E nemmeno l’euro. Musk, futuro dileggiatore delle toghe italiche, studiava all’università. Ora il pastore sardo aspetta il vero risarcimento per la sua interminabile detenzione. Sarà milionario, dicono. Intanto, s’accontenta di giocare a carte con i ritrovati amici del bar: “Speriamo solo che non mi facciano aspettare altri trentatré anni”. Schedati a vita, quelle banche dati dalle quali è impossibile sparire di Simona Musco Il Dubbio, 27 novembre 2024 Nonostante assoluzioni e archiviazioni, basta una denuncia per rimanere 20 anni nelle liste “Interforze”. E ottenere la cancellazione è ormai una corsa a ostacoli. Schedati a vita, anche se la notizia di reato era infondata. È il paradosso denunciato dall’avvocato Nicola Canestrini, del foro di Rovereto, che nelle scorse settimane ha chiesto la cancellazione dei dati di tre suoi assistiti dalla banca dati del Centro elaborazione dati (Ced), istituito con l’articolo 8 della Legge / 1/ 4/ 1981, n. 121, un calderone che contiene i dati e le informazioni ricavati da indagini di polizia o nell’attività di prevenzione o repressione dei reati. Basta, dunque, anche una semplice querela per essere registrato in quella particolare lista, dalla quale, però, non è così semplice uscire. Tali dati, infatti, non vengono aggiornati d’ufficio: è l’interessato a doverne chiedere la cancellazione e nemmeno una sentenza di assoluzione assicura il diritto di essere depennati. E ciò nonostante una sentenza della Corte di Giustizia, che il 30 gennaio 2024 ha emesso una decisione interpretativa relativa alla Direttiva (UE) 2016/ 680, che stabilisce norme per il trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti in ambito penale ( prevenzione, indagini e sanzioni). La Direttiva impone che i dati vengano conservati solo finché strettamente necessari per lo scopo per cui sono stati raccolti, garantendo il diritto alla cancellazione o limitazione del trattamento quando gli stessi non sono più necessari. La Corte, in relazione ad una legge nazionale della Bulgaria che consentiva la conservazione permanente di tali dati, anche a seguito di riabilitazione, ha stabilito che una normativa del genere viola il diritto europeo, perché non rispetta il principio di necessità, non garantisce il diritto alla cancellazione o limitazione dei dati, negando la possibilità di tutela effettiva all’interessato e compromette il bilanciamento tra le esigenze di sicurezza pubblica e la protezione dei dati personali. Servono, dunque, verifiche periodiche sulla necessità di conservare i dati, garantendo al soggetto “registrato” il diritto alla cancellazione o limitazione dei dati se non più necessari. Proprio in virtù di tali principi Canestrini ha chiesto l’aggiornamento e la cancellazione dei dati di alcuni suoi assistiti, ottenendo dal ministero dell’Interno risposta negativa. Il Viminale, infatti, si è richiamato all’articolo 10, comma 3, della legge 1° aprile 1981, n. 121, secondo il quale “la richiesta di cancellazione o trasformazione in forma anonima dei dati personali trattati nel Ced del Dipartimento P. S. può essere valutata solo se i dati risultassero trattati in violazione di vigenti disposizioni di legge o regolamento. A seguito dell’abrogazione dell’articolo 57 del codice per la protezione dei dati personali ad opera dell’articolo 49, comma 2, del D.lvo 18 maggio 2018, n. 51, i trattamenti non occasionali di dati personali per finalità di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati, tra cui rientrano quelli del Ced interforze, devono essere regolati con il decreto del Presidente della Repubblica, al momento non ancora adottato, di cui all’art. 5, comma 2, del menzionato decreto legislativo 51/2018”. Inoltre, si legge in un’altra risposta alle istanze di Canestrini, “l’aggiornamento dei dati” sarebbe “di esclusiva competenza dell’Ufficio di Polizia che ha a suo tempo iscritto la prima segnalazione nella predetta Banca dati”, come si evincerebbe sempre dalla legge 121/ 1981”. La legge, spiega però Canestrini, prevede che sia il Dipartimento della Pubblica sicurezza “a curare l’aggiornamento dei dati, salva la richiesta fatta al Tribunale”. Il regolamento menzionato dal Viminale, spiega ancora il legale, “non menziona affatto l’esclusiva competenza dell’ufficio polizia all’aggiornamento su richiesta dell’interessato, che invece si deve attivare perché tale aggiornamento non è purtroppo automatico ed anzi è sempre pretermesso”. Tanto che, appunto, i dati possono rimanere conservati, nonostante non ve ne sia più la necessità, per un periodo lunghissimo, ovvero 20 anni: il che significa che le denunce ricevute (e poi archiviate o a seguito delle quali è arrivata una sentenza di assoluzione) continueranno a risultare ad ogni controllo e nelle informative di polizia all’autorità giudiziaria, “alimentando la cultura del sospetto, che - si sa può essere peggiore di ogni certezza”, si legge sul sito dello stesso avvocato Canestrini, che ha dedicato un approfondimento al tema. Quella del Viminale, secondo cui è l’Ufficio che per primo ha effettuato l’iscrizione a dover procedere, dunque, sarebbe un’affermazione che pare erronea, dato che a norma di legge “la persona alla quale si riferiscono i dati può chiedere all’ufficio di cui alla lettera c) del primo comma dell’articolo 5 la conferma dell’esistenza di dati personali che lo riguardano, la loro comunicazione in forma intellegibile e, se i dati risultano trattati in violazione di vigenti disposizioni di legge o di regolamento, la loro cancellazione o trasformazione in forma anonima” (art. 19 l. 121/ 1981)”. E l’articolo 5 individua alla lettera c) del primo comma proprio la direzione centrale della polizia criminale e non l’Ufficio di polizia della prima segnalazione, come conferma la Cassazione con la sentenza 21362 del 29 agosto 2018. Un vero e proprio corto circuito. Anche i non pentiti hanno diritto ai permessi premio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 novembre 2024 C’è una recente pronuncia della Cassazione sulla preclusione assoluta dei benefici previsti dall’articolo 4 bis, che non riguarda solo chi è stato condannato all’ergastolo. Infatti, la riforma voluta dalla pronuncia della Corte Costituzionale riguarda tutti i reati ostativi. Come sappiamo, il 4 bis non si applica soltanto ai reati di mafia o terrorismo, ma nel corso del tempo, da misura eccezionale, è diventato la norma per quei reati che, a seconda delle stagioni, vengono considerati di particolare allarme sociale. Addirittura - e ci sono nostalgici della legge “spazza-corrotti” tra le fila del M5S - l’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede estese il 4 bis anche ai reati contro la Pubblica Amministrazione. La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza numero 42794 firmata dal Presidente Vito Di Nicola e dal Consigliere relatore Raffaello Magi, ha accolto il ricorso di Klodjan Veizi, smantellando l’impostazione restrittiva del Tribunale di Sorveglianza di Genova, che aveva respinto il reclamo in tema di permesso premio. I giudici sono netti: “La collaborazione con la giustizia non è necessariamente sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento”. Citando la sentenza della Corte Costituzionale n. 97 del 2021 e la giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo, la Cassazione ricorda il superamento dell’automatismo che per anni ha impedito l’accesso ai benefici penitenziari. La vicenda riguarda Veizi, arrestato nel novembre 2014 durante un’operazione di importazione di droga dall’Albania e condannato per un reato associativo ai sensi dell’articolo 74 del DPR 309/ 1990, commesso tra il 2011 e il 2013, attraverso l’importazione dall’Albania di ingenti quantitativi di droga leggera. Veizi è detenuto dal novembre 2014 e non ha collaborato con la giustizia. Nonostante dieci anni di detenzione, il Tribunale gli aveva negato il permesso premio a causa della mancata collaborazione. I giudici evidenziano un passaggio cruciale: “La condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione”. Questo concetto è ripreso dalla sentenza Viola contro Italia della Corte Europea, che ha sottolineato come “la dissociazione dall’ambiente criminale può esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia”. La Cassazione distingue nettamente il contesto mafioso da quello del traffico di stupefacenti. Richiamando la sentenza della Corte Costituzionale n. 231 del 2011, i giudici sottolineano che, nel caso delle associazioni per droga, non si può enucleare “una regola di esperienza” che giustifichi un trattamento uniforme, proprio per l’eterogeneità delle fattispecie. La sentenza introduce un nuovo paradigma valutativo: “È necessario realizzare un’adeguata comparazione tra l’avvenuta emersione di indicatori positivi sull’evoluzione della personalità del detenuto e le ragioni della mancata collaborazione”. Non è più sufficiente la semplice regolarità carceraria, ma servono “altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata”. Nel caso specifico, la Cassazione ha valorizzato una serie di elementi: 10 anni di detenzione con percorso trattamentale positivo, declassificazione dal circuito di Alta Sicurezza, attività lavorativa interna, recisione dei collegamenti con i correi, e il parere favorevole della Direzione carceraria. La pronuncia si colloca nel solco della sentenza della Corte Costituzionale n. 97 del 2021, che ha definitivamente scardinato il meccanismo dell’ostatività assoluta. I giudici richiamano il principio secondo cui “il carattere assoluto della presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata impedisce alla magistratura di sorveglianza di valutare - dopo un lungo tempo di carcerazione, che può aver determinato rilevanti trasformazioni della personalità del detenuto - l’intero percorso carcerario del condannato”. Un passaggio cruciale ribadisce la funzione rieducativa della pena: “Non può essere la mancata collaborazione il dato “decisivo” per negare la fruizione del permesso premio, pure a fronte di una pluralità di indicatori favorevoli circa i comportamenti tenuti dall’istante in molti anni di detenzione”. L’ordinanza è stata annullata con rinvio, obbligando il Tribunale di Sorveglianza a una rivalutazione della posizione di Veizi. Una decisione che ribadisce le nuove prospettive nell’esecuzione penale, imponendo una valutazione caso per caso, attenta ai progressi individuali e al reale percorso di recupero sociale. No all’espulsione prevista dal “Dl Cutro” quando lo straniero è integrato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2024 Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza n. 43082 depositata oggi, chiarendo che l’espulsione, in alternativa al carcere, deve rispettare i criteri Cedu sulla vita privata e familiare. Il “Decreto Cutro” non rende possibile, in alternativa alla detenzione, procedere all’espulsione dello straniero irregolare che abbia commesso un reato, se la misura si risolve in una ingerenza nella vita privata, che è tutelata dalla Cedu. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 43082 depositata oggi, accogliendo il ricorso di un tunisino contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Catania che aveva confermato il decreto di espulsione a titolo di sanzione alternativa alla detenzione. Il ricorrente, tra l’altro, aveva lamentato che la conferma della decisione era avvenuta a prescindere dalla “dimostrata integrazione nel tessuto sociale ed economico italiano” e del “ragionevole timore di essere sottoposto a persecuzione in caso di rimpatrio”. E la prima sezione penale gli ha dato ragione affermando il principio di diritto per cui “l’espulsione dello straniero a titolo di sanzione alternativa alla detenzione, prevista dall’art. 16, comma 5, stesso Dlgs, non può essere disposta, al pari di ogni altra forma di espulsione di natura penale, quando tale misura si risolva in un’ingerenza nella vita privata e familiare dell’interessato, vietata dall’art. 8 della Convenzione EDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo”. E ciò “anche dopo l’approvazione del Dl 10 marzo 2023, n. 20, conv. dalla legge 5 maggio 2023, n. 50, al cui art. 7 si deve, tra l’altro, la riscrittura dell’art. 19, comma 1.1, Dlgs n. 286 del 1998 e l’abrogazione del suo terzo e quarto periodo”. Per la Corte di Strasburgo, infatti, la totalità dei legami sociali tra gli immigrati radicati e la comunità in cui vivono costituisce parte del concetto di vita privata, e pertanto l’espulsione di un immigrato radicato costituisce un’ingerenza nell’esercizio di tale diritto, giustificata solo se proporzionata all’esito del bilanciamento tra il coefficiente di pericolosità del soggetto e il suo livello di integrazione nel consorzio sociale del Paese di accoglienza. Principi questi ultimi prima recepiti dalla giurisprudenza di legittimità e poi tradotti in puntuali enunciati normativi che tuttavia, come visto, il Dl Cutro ha abrogato. Nella Relazione illustrativa al Ddl di conversione si legge che l’intervento mira a “una complessiva rivisitazione della disciplina della protezione speciale”. È però da escludere - argomenta la Cassazione - che tale abrogazione “abbia la forza e rivesta il significato di scongiurare l’applicazione di norme e principi di valore sovraordinato e quindi di limitare l’incondizionata osservanza, nel diritto interno, degli obblighi nascenti dall’art. 8 CEDU”. Si tratta, prosegue la decisione di una conclusione avvalorata dal quadro d’insieme che disciplina l’immigrazione. Il comma 1.1 dell’art. 19 d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte superstite dopo l’intervento abrogativo, infatti, continua a vietare il respingimento, l’espulsione o l’estradizione di una persona verso altro Stato, “qualora ricorrano gli obblighi di cui all’articolo 5, comma 6” del medesimo d.lgs. (nel testo risultante dal d.l. n. 130 del 2020, conv. dalla legge n. 173 del 2020), che sono gli obblighi “costituzionali o internazionali dello Stato italiano”. Tra questi ultimi risaltano, come si notava, gli obblighi di conformazione ai precetti della Convenzione EDU. È poi tuttora pienamente vigente, l’art. 2, comma 1, Dlgs n. 286 del 1998, a mente del quale “(a)llo straniero comunque presente nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti”. E allora, continua la Cassazione, l’abrogazione disposta dal Dl Cutro “assume portata riduttiva, incidendo solo e piuttosto sulla selezione dei criteri di valutazione che presiedono al bilanciamento (imposto dall’art. 8 CEDU) degli interessi in gioco, posto che quelli esplicitati dal legislatore del 2020 (durata della presenza dello straniero sul territorio nazionale, effettività dei vincoli familiari, suo effettivo inserimento sociale, esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il Paese d’origine) sono stati espunti dal sistema”. Quest’ultimo perde così, in proposito, i tratti di tipicità, ma anche di inevitabile rigidità, che era venuto ad assumere. E allora l’interprete “dovrà, d’ora innanzi, fare diretto riferimento ai criteri - largamente sovrapponibili, ma soggetti alla flessibile mediazione giudiziale - elaborati dalla giurisprudenza sovranazionale, già richiamati e fatti propri dagli arresti di questa Corte di legittimità”. Non è inutile allora ribadire che, secondo la Corte di Strasburgo, se l’art. 8 della Convenzione non prevede un diritto assoluto di non espulsione per nessuna categoria di stranieri, “esistono circostanze in cui l’espulsione medesima si dimostra non necessaria in una società democratica e non proporzionata al legittimo obiettivo perseguito, comportando così la violazione di tale disposizione”. Ed è altresì importante ricordare, conclude la Corte, che tra i criteri, considerati dalla Corte EDU pertinenti per valutare se una misura di espulsione sia lecita rispetto al parametro convenzionale, vanno annoverati, tra l’altro, la natura e la gravità del reato commesso dal richiedente, la durata del soggiorno del richiedente nel paese dal quale deve essere espulso, la situazione familiare del richiedente, la gravità delle difficoltà che il richiedente potrebbe incontrare nel paese verso cui deve essere espulso. Cagliari. Tentò gesto estremo: detenuto muore in ospedale cagliaripad.it, 27 novembre 2024 Il giovane, un 27enne del Medio Campidano, era stato salvato da un medico e una guardia penitenziaria: dopo tre giorni, il suo cuore ha smesso di battere. Non ce l’ha fatta il detenuto che lo scorso fine settimana era stato ricoverato in ospedale dopo esser stato salvato da un gesto estremo in carcere a Uta. Il giovane, un 27enne residente nel Medio Campidano, era in carcere per aggressione. Lo scorso sabato era stato trovato in cella da un medico e da una guardia penitenziaria mentre tentava di togliersi la vita. Era stato soccorso e trasportato con urgenza in ospedale, date le condizioni molto gravi. Dopo tre giorni di agonia, il suo cuore ha cessato di battere. Catanzaro. Detenuto messinese morto in carcere, la tragica vicenda di Domenico Lauria di Francesca Achito calabrianews24.com, 27 novembre 2024 La vicenda di Domenico Lauria, un giovane messinese di 28 anni trovato senza vita nella sua cella del carcere “Ugo Caridi” di Siano a Catanzaro, ha portato nuovamente l’attenzione sulle difficili condizioni nelle carceri italiane. Lauria, con un passato segnato da tossicodipendenza e problemi psichiatrici, stava scontando un cumulo di pene per reati legati prevalentemente a furti e resistenza a pubblico ufficiale. La sua morte, avvenuta venerdì scorso, ha sollevato interrogativi sulla gestione dei detenuti con fragilità psichiche e sulle responsabilità istituzionali. Il racconto di un detenuto: parole agghiaccianti. Lauria, detenuto a lungo nel carcere “Pietro Cerulli” di Trapani, aveva descritto in modo drammatico le sue condizioni durante la detenzione. Secondo quanto riportato in un’ordinanza giudiziaria, il giovane lamentava un trattamento disumano, tagli autoinflitti quotidianamente e un’assistenza inadeguata, in particolare riguardo alla somministrazione del metadone. Queste dichiarazioni emergono all’interno di un’indagine della Procura di Trapani, che ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di 25 agenti penitenziari accusati, tra gli altri reati, di tortura e abuso di autorità. Un quadro che getta ombre pesanti sulla gestione del carcere trapanese, dove Lauria aveva trascorso un lungo periodo di detenzione prima di essere trasferito a Catanzaro. La morte di Lauria: una famiglia in cerca di giustizia. La notizia della morte di Lauria è arrivata come un fulmine a ciel sereno per i familiari. Il giovane, invalido civile al 75% e con accertati disturbi psichiatrici, era affidato alla madre come amministratore di sostegno. Nonostante le ripetute richieste del legale della famiglia, avv. Pietro Ruggeri, per ottenere il trasferimento in una struttura adeguata, il Tribunale di sorveglianza di Palermo aveva negato il differimento della pena. Secondo il legale, il corpo di Lauria presentava evidenti segni di ematomi e ferite da taglio, ma il referto medico ufficiale avrebbe attribuito il decesso ad abuso di sostanze stupefacenti e conseguente arresto cardiaco. La famiglia ha sporto denuncia sia alla Procura di Catanzaro che a quella di Trapani, chiedendo di fare luce sulle cause e sulle responsabilità della morte. Un percorso giudiziario travagliato - Lauria stava scontando una pena complessiva di oltre 11 anni per reati commessi principalmente a causa della sua tossicodipendenza. Fin dal 2021, il legale aveva avanzato istanze per un avvicinamento alla famiglia e per il trasferimento in una struttura specializzata. Tuttavia, queste richieste non hanno trovato accoglimento, lasciando il giovane in un contesto carcerario che non sembrava adatto alle sue necessità. Le condanne accumulate riguardavano principalmente reati non violenti, ma la mancanza di un’adeguata rete di supporto ha trasformato le sue fragilità in un percorso penale segnato da continue difficoltà. L’inchiesta della Procura di Catanzaro - Dopo la denuncia della famiglia, la Procura di Catanzaro, guidata dalla pm Francesca Delcogliano, ha avviato un’inchiesta per chiarire le circostanze della morte. L’autopsia è stata già eseguita e si attendono i risultati dei prelievi effettuati dal medico legale per ottenere risposte più dettagliate sulle cause del decesso. Questo caso si intreccia con un quadro più ampio di problematiche relative alla gestione dei detenuti con patologie psichiatriche e dipendenze, sottolineando la necessità di interventi sistemici per evitare il ripetersi di simili tragedie. Le indagini a Trapani: agenti penitenziari sotto accusa - Il carcere “Pietro Cerulli” di Trapani, dove Lauria era stato detenuto per oltre un anno e mezzo, è al centro di un’indagine che ha portato all’accusa di tortura, abuso d’autorità e falso ideologico nei confronti di 25 agenti penitenziari. Le testimonianze dei detenuti, raccolte nell’ambito dell’inchiesta, descrivono un ambiente caratterizzato da abusi e violenze sistematiche. Le condizioni di detenzione di Lauria, così come raccontate dal giovane stesso, costituiscono un elemento chiave per comprendere la complessità del caso e il contesto in cui si sarebbe consumata una parte significativa della sua pena. La visita ispettiva al carcere di Trapani - Davide Faraone, capogruppo di Italia Viva alla Camera, ha annunciato una visita ispettiva presso il carcere di Trapani insieme al Garante dei detenuti Pino Apprendi e Nina Grillo dell’esecutivo di Italia Viva Sicilia. L’obiettivo è verificare le condizioni di detenzione e accertare eventuali responsabilità istituzionali nell’ambito delle accuse mosse agli agenti penitenziari. Questa visita rappresenta un ulteriore passo verso la trasparenza e il controllo di una realtà che sembra aver fallito nel garantire il rispetto dei diritti umani. Un sistema penitenziario sotto accusa - La morte di Domenico Lauria e le accuse di abusi nel carcere di Trapani evidenziano le gravi carenze del sistema penitenziario italiano, in particolare nella gestione dei detenuti con problemi di salute mentale e dipendenze. Il mancato riconoscimento delle specificità di questi casi rischia di trasformare la detenzione in una punizione disumana piuttosto che in un percorso rieducativo. Le richieste della famiglia - La famiglia di Lauria, assistita dall’avvocato Ruggeri, chiede giustizia e verità sulle cause del decesso. L’accumularsi di segni di malessere fisico e psicologico durante la detenzione solleva dubbi sulla capacità del sistema di proteggere i detenuti più vulnerabili. “Non si tratta solo di conoscere le cause della morte - ha dichiarato l’avvocato Ruggeri - ma di accertare se siano state messe in atto tutte le misure necessarie per garantire la sua sicurezza e salute durante la detenzione”. Il caso di Domenico Lauria non è solo una tragica vicenda personale, ma un monito sulle profonde lacune del sistema carcerario italiano. La necessità di una maggiore attenzione alle condizioni di detenzione, al rispetto dei diritti umani e alla gestione dei detenuti con fragilità è oggi più che mai evidente. Mentre le inchieste proseguono, il caso Lauria resta un simbolo delle battaglie che devono essere condotte per garantire un sistema penitenziario più giusto e umano. La speranza è che tragedie simili possano essere evitate in futuro attraverso riforme concrete e un maggiore impegno istituzionale. Roma. Cibo avariato in carcere, l’interrogazione di Ilaria Cucchi: “Il ministero si costituisca parte civile” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 27 novembre 2024 L’inchiesta è quella sulla Ventura, la ditta di Napoli che somministrava cibo scaduto ai detenuti e gestiva anche lo spaccio interno. Il ministero benché parte offesa non si è costituito. Frodati ma, apparentemente, indifferenti. I vertici del ministero della Giustizia, curiosamente, non hanno (fin qui) manifestato l’intenzione di costituirsi parte civile al processo nei confronti di Domenico Ventura e Achille Ventura, responsabili della ditta che, negli ultimi anni, avrebbe gestito in maniera truffaldina la fornitura di cibo ai detenuti nelle strutture di Lazio e Abruzzo. La frode sugli alimenti - S’interroga la senatrice di Alleanza Verdi Sinistra Ilaria Cucchi nella sua formale richiesta di risposta rivolta al ministro Carlo Nordio: “Quali azioni intende intraprendere per scongiurare il verificarsi di episodi di illecite speculazioni su vitto e sopravvitto ai danni di chi è ristretto negli istituti penitenziari?”. In effetti, benché indicato in calce al provvedimento con il quale la pm Giulia Guccione formalizza la richiesta di rinvio a giudizio per Ventura, il ministero, parte offesa, non si è presentato all’ultima udienza davanti al gip, utile per costituirsi parte civile. L’inchiesta aveva verificato che il cibo somministrato ai detenuti era per la maggior parte avariato, annacquato, surrogato. E che la contestata frode nelle pubbliche forniture portava acqua al mulino della stessa Ventura. Lo spaccio interno coi prezzi alle stelle - Non solo perché, in questo modo, la ditta risparmiava sulla qualità dei prodotti ma perché spingeva i detenuti ad acquistare i prodotti attraverso il sopravvitto, ossia lo spaccio interno gestito dalla medesima Ventura. Scrive Ilaria Cucchi: “Secondo la richiesta di rinvio a giudizio la ditta aggiudicatrice dell’appalto guadagnava con il meccanismo del sopravvitto, ossia lo spaccio interno al penitenziario i cui prodotti lievitavano di prezzo artatamente”. La questione della costituzione di parte civile è in primis politica secondo Cucchi. I vertici ministeriali intendono tutelare i diritti dei detenuti oppure comprimerli? L’inchiesta aveva avuto il via con la denuncia della garante capitolina dei diritti dei detenuti Gabriella Stramaccioni in epoca Raggi. Milano. Emergenza freddo nel carcere di San Vittore: “Impianti obsoleti, servono vestiti” di Sara Tirrito Il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2024 Nella Casa circondariale di San Vittore è emergenza freddo. Lo denunciano gli avvocati che dopo decine di segnalazioni ricevute negli scorsi giorni durante i colloqui e l’attività di sportello legale hanno lanciato un appello ai milanesi affinché facciano arrivare vestiti pesanti ai detenuti. La struttura, che ha aperto per la prima volta i battenti nel 1879, soffre da sempre di inefficienze dovute ai sistemi di riscaldamento, malfunzionamenti a cui la direzione cerca di porre rimedio, ma il problema è duplice: da un lato gli impianti sono troppo antichi e richiederebbero interventi strutturali, dall’altro le persone non hanno vestiti adatti al freddo degli ambienti. A rendere urgente la necessità di un sostegno è il fatto che oggi la popolazione che affolla le celle di San Vittore è in gran parte straniera. Su un totale di circa 1.180 detenuti, il 70% non è italiano e quindi per lo più è solo, senza familiari né affetti che facciano arrivare pacchi con abbigliamento invernale. “C’è carenza di vestiario maschile in particolare - scrive in un post Linkedin Antonella Calcaterra, avvocato penalista nella segreteria dell’associazione Osservatorio carcere territorio e membro di Antigone - mancano maglioni e giubbotti senza cappuccio, pantaloni tipo tuta, felpe senza cappuccio, calze e boxer, in taglie piccole e medie, scarpe sportive da 40 in su, ma anche asciugamani grandi”. Oltre all’Osservatorio carcere territorio, tra i promotori dell’appello ci sono organizzazioni come Cantiere San Vittore, Sesta Opera, Consorzio via dei mille, Comunità nuova, la Camera penale e la Casa della carità. “Vogliamo andare al di là di ogni polemica - spiega Calcaterra a ilfattoquotidiano.it - ci rivolgiamo alla Milano solidale per aiutare il prima possibile i detenuti, questo è più incombente che discutere delle cause o del peggioramento delle condizioni di detenzione”. Con una capienza regolamentare di circa 700 posti letto, oltre a essere in grave sovraffollamento, San Vittore è uno dei primi istituti penitenziari in Italia per numero di ingressi relativi ai nuovi arresti. Sono per lo più persone in custodia cautelare in attesa di giudizio, in prevalenza in condizioni di vulnerabilità, marginalità sociale e tossicodipendenza. Il problema per loro in effetti è duplice. Da un lato la struttura è oggettivamente antica e ha da sempre problemi di riscaldamento in diverse aree. Ora, per esempio, in un ramo dell’edificio i caloriferi funzionano a intermittenza. “Si tratta di impianti obsoleti che vanno in difficoltà in certi periodi dell’anno, soprattutto quando fa freddo. La direzione sta provvedendo con interventi mirati ma l’edificio è troppo datato e andrebbero messe in misure strutturali”, dice a ilfattoquotidiano.it il garante delle persone detenute e private della libertà di Milano Francesco Maisto. Dall’altro, senza vestiti adeguati è quasi impossibile proteggersi. “In quel carcere, come in tante altre strutture d’Italia, siamo già fuorilegge per la sentenza Torreggiani, perché non è garantito lo spazio di 3 metri quadri a detenuto - spiega a ilfattoquotidiano.it Paolo Oddi, avvocato della clinica legale per stranieri dell’Università degli studi di Milano - evitare il freddo a persone che non riescono bene a comunicare in italiano e che sono in sofferenza per patologie, è una misura piccola ma indispensabile per garantirne la dignità”. La richiesta è per lo più di abbigliamento nuovo e non di abiti usati, perché i capi di seconda mano richiederebbero verifiche più lunghe rispetto a quelli nuovi. Chi vuole fornire assistenza può recapitare gli indumenti a due enti, Consorzio Viadeimille o Comunità nuova. Incaricata della distribuzione è Sesta Opera San Fedele, associazione che fa volontariato in carcere e a cui si può anche donare direttamente una somma per l’acquisto di nuovi indumenti. Firenze. “Tutto fermo a Sollicciano, ecco i fatti” di Antonella Tuoni* Corriere Fiorentino, 27 novembre 2024 Egregio direttore, considerato che il Corriere Fiorentino, in questi ultimi giorni, ha ripetutamente fatto cenno alla mia persona quale direttrice di Sollicciano riportando meri rumors nemmeno corrispondenti al vero - per esempio non mi è stata applicata alcuna sanzione pari a 25 mila euro - che poco interessano ai lettori e riportando addirittura virgolettati di persona estranea all’amministrazione penitenziaria, ritengo necessario fare un po’ di chiarezza e cercare di ristabilire l’oggettività dei fatti. L’unica vera notizia non riguarda la mia vicenda, rispetto alla quale nutro piena fiducia nei magistrati del Tribunale amministrativo regionale toscano che si occuperanno del ricorso che, peraltro, deve ancora essere depositato, ma riguarda la circostanza che i lavori affidati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per il risanamento dell’intera struttura, nel lontano 2020, anno in cui mi sono insediata a Sollicciano nel mese di novembre, sono fermi dal febbraio del 2023 perché io ho evidenziato che le infiltrazioni di acqua piovana persistevano. E questo non è un sentito dire o una semplice “controversia” ma è un dato di fatto inoppugnabile perché documentato; inoltre, tutti gli ordini impartiti dalla magistratura di sorveglianza non sono diretti al direttore del carcere ma all’amministrazione centrale, che è l’unica deputata a preoccuparsi degli interventi di manutenzione straordinaria necessari per restituire un decoro minimo alla struttura. E anche questo è inoppugnabile perché così prevede la legge: il direttore di un carcere si occupa solo della manutenzione ordinaria, compatibilmente con i soldi che gli vengono dati. Sottolineo infine che non ho alcuna intenzione, allo stato, di dimettermi, perché forte di avere lavorato, credo bene e sicuramente sodo, per l’interesse collettivo. Ciò che ho fatto, detto e scritto, anche in maniera a volte impopolare o non allineata con i diktat del capo di turno, ma sempre ossequiando la Costituzione, nel corso di trentuno anni di carriera e consultabile sul web, incluso il mio curriculum, parla per me. *Direttrice del carcere di Sollicciano Reggio Emilia. Detenuto pestato in carcere: “Immagini inconfutabili, ci fu tortura” di Francesco Galli reggionline.com, 27 novembre 2024 Queste le parole dell’avvocato Michele Passione, legale del Garante nazionale dei detenuti, che auspica che la sentenza attesa per il 20 gennaio 2025 confermi le richieste fatte dalla procura. “Un’azione brutale, preordinata e di violenza assolutamente gratuita”. Sono durissime le parole con cui la Pm Maria Rita Pantani ha chiesto di condannare tutti i dieci agenti di polizia penitenziaria ritenuti coinvolti nel pestaggio dell’aprile 2023 nel carcere di via Settembrini. Pesanti anche le pene richieste da 5 anni e 8 mesi a 2 anni e 4 mesi, sulla base dei diversi reati contestati tra tortura, lesioni e falso. Che quel lunedì 3 aprile si sia verificato un episodio di tortura ne è convinto anche l’avvocato Michele Passione, che nel processo in corso in tribunale rappresenta il Garante nazionale dei detenuti. “Le immagini del video sono inconfutabili, in carcere c’è stata tortura”, le sue parole. I legali delle parti civili, ammesse al procedimento, nei loro interventi seguiti alla richiesta della Pantani, hanno evidenziato come le immagini delle telecamere di sorveglianza, fatte vedere in aula dal magistrato colpiscono per la violenza ma anche perché appare evidente che chi poteva intervenire per fermare gli agenti, non lo abbia fatto. Il processo riprenderà lunedì 9 dicembre con gli interventi dell’avvocato Luca Sebastiani, che assiste il detenuto tunisino picchiato, e di alcuni difensori degli imputati. Il 13 gennaio toccherà alle restanti difese mentre la sentenza, dopo le repliche, è attesa per il 20 gennaio. Volterra (Pi). Da detenuti a installatori di fibre ottiche, prima applicazione intesa con le aziende ildenaro.it, 27 novembre 2024 Hanno preso ufficialmente il via le attività operative legate formazione dei detenuti, previste dal protocollo d’intesa siglato dal Dipartimento per la trasformazione digitale, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) del Ministero della Giustizia, Infratel Italia, il Consorzio Asi Caserta, Anie Sit e gli operatori Tlc Fastweb, Fibercop, Intred, Inwit, Open Fiber, Telecom Italia, Vodafone Italia, interessati all’attuazione dei Piani previsti nell’ambito dell’Investimento 3 “Reti ultraveloci e 5G” della Missione 1, Componente 2 del Pnrr, per favorire il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro e nella società civile. Un progetto pilota di grande rilevanza sociale è già stato avviato in diversi istituti di pena, tra cui l’Istituto di Volterra, dove si parte dalla formazione dei detenuti per lo sviluppo di competenze tecniche utili nel settore della posa e giunzione delle reti in fibra ottica. “Il nostro obiettivo è chiaro: formare persone capaci di contribuire alla società una volta reinserite, riducendo le possibilità di recidiva attraverso un’opportunità concreta di lavoro - ha dichiarato Alessio Butti, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’innovazione tecnologica - Questo progetto rappresenta un esempio di cooperazione virtuosa tra istituzioni e aziende per un impatto sociale positivo e duraturo”. Il progetto nasce dalla volontà del Dipartimento per la Trasformazione Digitale di offrire alle persone detenute un’opportunità concreta di reinserimento, unendo l’esigenza di qualificare nuove risorse, per un settore a domanda di lavoro crescente, con l’importanza del recupero sociale. Studi dimostrano infatti che i detenuti che ricevono formazione professionale in carcere hanno minori probabilità di recidiva rispetto a coloro che non accedono a tali percorsi formativi, favorendo così un ritorno positivo per l’intera collettività. Firenze. “Futuro prossimo: nessun ragazzo in carcere”, l’evento dedicato ai minori reclusi arci.it, 27 novembre 2024 “Futuro prossimo: nessun ragazzo in carcere”: questo il titolo della seconda edizione di “Liberare il carcere”, l’evento organizzato da Arci che quest’anno si terrà a Firenze, il 28 novembre, e sarà dedicato ai minori reclusi. Una giornata realizzata in collaborazione con Arci Firenze e Novaradio. Dopo il primo appuntamento nazionale dell’Arci sul carcere e le donne dello scorso anno, vogliamo approfondire un tema sensibile, che riguarda un pezzo del nostro futuro: i ragazzi e le ragazze di questo Paese che si sono trovati ad avere a che fare con la Giustizia. La situazione nelle carceri italiane continua ad essere drammatica. Il sovraffollamento non accenna a diminuire. È di pochi giorni fa la notizia dell’ennesimo suicidio. Una situazione insopportabile, che rischia di peggiorare con la prossima approvazione del decreto legge 1660, il cosiddetto “decreto sicurezza”, che criminalizza il dissenso e le forme nonviolente di protesta. In questo quadro si inserisce la situazione dei minori in carcere, reclusi negli Istituti Penali Minorili (IPM). È importante sapere che gli IPM ospitano minorenni o ultradiciottenni, fino ai 25 anni, qualora il reato cui è riferita la misura sia stato commesso prima del compimento della maggiore età. La giustizia minorile italiana è stata per anni un esempio virtuoso a livello europeo, con un calo costante dei minori reclusi e una condizione di vita dignitosa, con percorsi di inclusione strutturati ed efficaci nella maggior parte degli istituti. Ma negli ultimi anni la situazione è cambiata. Dai recenti dati raccolti da Antigone, i reati commessi da minori sono diminuiti, ma sono aumentati i detenuti degli IPM principalmente per effetto delle nuove norme, come il decreto Caivano, che ha introdotto anche reati lievi, che prevedono la carcerazione. “Al 15 settembre del 2024 erano 569 i ragazzi detenuti nei 17 istituti penali per minorenni, il numero più alto mai fatto registrare. In 22 mesi, dall’insediamento dell’attuale governo, sono cresciuti del 48 per cento”, afferma Susanna Marietti, direttrice di Antigone. Purtroppo anche negli IPM si registra spesso sovraffollamento, strutture fatiscenti, un rallentamento delle attività professionalizzanti e ricreative all’interno del carcere, e un conseguente aumento dell’uso di psicofarmaci. Insomma, un sistema che non funziona. È arrivato il momento di chiederci se il carcere per i minori, così come lo conosciamo, ha ancora senso, se non sia invece arrivato il momento di investire con forza nelle pene alternative, nei percorsi educativi e professionalizzanti, nelle comunità educative residenziali già oggi presenti in tutto il Paese. L’appuntamento con ‘Futuro prossimo: nessun ragazzo in carcerè è giovedì 28 novembre, presso la storica sede dell’Arci a Firenze, in Piazza dei Ciompi 11, dalle ore 10.30 alle ore 16.30. A coordinare i lavori Marco Solimano, referente nazionale Arci persone private della libertà. Tra gli interventi ricordiamo, tra gli altri, Vincenzo Scalia, docente di Sociologia della devianza all’Università di Firenze, Alessio Scandurra, responsabile dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni dei detenuti dell’Associazione Antigone, Katia Ponetti, dell’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, Sara Corradini, referente settore carcere di Cat Coop. Sociale di Firenze e componente CNCA Area Penale Minorile, Sofia Ciuffoletti, presidente Altro Diritto e Garante dei detenuti di San Gimignano. Le conclusioni saranno di Carlo Testini, coordinatore nazionale Arci Lotta alle Disuguaglianze, Libertà e Diritti Sociali. Pavia. Nel carcere l’evento “Maestre di speranza, donne che trasformano il mondo” di Bruno Romani informatorevigevanese.it, 27 novembre 2024 Interverrà la scrittrice Anna Pozzi nell’ambito della giornata mondiale contro la violenza sulle donne. L’evento è stato programmato nel teatro della Casa Circondariale di Pavia oggi, mercoledì, alle 15,30. Si chiama “Maestre di speranza, donne che trasformano il mondo” e sarà tenuto dalla scrittrice Anna Pozzi, che collabora con diverse testate giornalistiche (l’Avvenire, Jesus, Africa, la Lettura del Corriere della Sera, Vita e Pensiero) e con la trasmissione “Uomini e Profeti” di Radio3 Rai. Durante l’evento, organizzato per le persone detenute del circuito protetti, la scrittrice racconterà le storie di alcune donne da lei stessa conosciute e vittime di contesti difficili quali il genocidio in Ruanda, la guerra in Siria, l’apartheid in Sud Africa, con l’intento di dar voce alle loro testimonianze di resistenza, coraggio, pace e riconciliazione. “La giornata mondiale contro la violenza sulle donne - spiega un comunicato della stessa casa circondariale diretta da Stefania Mussio - non è solo un momento di riflessione ma un richiamo all’azione e una responsabilità collettiva per le Istituzioni, le comunità e i singoli cittadini, affinché ogni forma di violenza venga riconosciuta, contrastata e sradicata. Per questo, l’evento organizzato per le persone detenute vuole essere un momento di sensibilizzazione e di riflessione all’interno del contesto penitenziario per promuovere una maggiore coscienza sulle conseguenze che la violenza genera. Proprio per quelle persone detenute per gravi reati sulla persona, la sensibilizzazione e l’informazione divengono strumenti fondamentali per superare stereotipi, favorire il rispetto e promuovere una cultura di parità”. Novara. Messaggio di pace dell’autrice Arisi Rota a studenti e detenuti per “Scrittori&Giovani” di Barbara Cottavoz La Stampa, 27 novembre 2024 La rassegna a Novara con gli appuntamenti di oggi, martedì, e dei prossimi giorni. Parla di pace agli studenti e ai detenuti la professoressa e autrice Arianna Arisi Rota che dopo la mattinata al liceo classico sarà oggi, martedì, alle 14 alla casa circondariale di via Sforzesca. Gli appuntamenti rientrano nell’intenso festival “Scrittori&Giovani” che questa mattina aveva anche un altro docente universitario, Roberto Carnero, a colloquio coi ragazzi di un liceo di Novara. Giovedì, invece, la rassegna apre le porte alla città con due eventi pubblici alla biblioteca Negroni. I prossimi protagonisti - Arisi Rota, insegnante di Storia delle rivoluzioni del Mediterraneo nell’Ottocento e History of diplomacy nell’Università di Pavia, nel primo pomeriggio entra in carcere per raccontare ai reclusi il suo libro dedicato alla risoluzione dei conflitti: “Oggi, circondati da molte guerre tradizionali e non, può essere ancora utile ancorarsi all’idea che la pace prima si pensa, poi si fa”, si legge nel suo volume. La mostra con Fondazione Mondadori - Fra i protagonisti di oggi anche il professor Roberto Carnero mentre giovedì mattina l’autore novarese Alessandro Barbaglia incontra alle 9 gli studenti del Musicale e alle 11 quelli dell’Istituto professionale Bellini. Giovedì alle 17,30 in corso Cavallotti 6 viene inaugurata la mostra “Copy in Italy. Autori italiani nel mondo dal 1945 a oggi” a cura della Fondazione Mondadori con il suo presidente Paolo Verri. L’esposizione fa il punto sull’import-export del libro e degli scrittori: quanto sono amati e richiesti gli italiani all’estero? Alle 18, sempre in biblioteca, c’è la presentazione di “Per un’Unione europea coesa, forte e sicura. Valori, sfide e scelte” a cura di Vincenzo Cesareo; partecipano Giovanni Cerutti, Nicola Pasini, Luciano Fasano e Marta Regalia. I due appuntamenti alla Negroni sono aperti al pubblico con ingresso gratuito. Bari. La mostra “Saltando Respiro. Fotografia fuori e dentro il carcere” baritoday.it, 27 novembre 2024 Sabato 30 novembre alle ore 11.00, nell’ambito delle celebrazioni del Centenario di Uniba, si inaugura la mostra “Saltando Respiro. Fotografia fuori e dentro il Carcere” con scatti di Daniele Notaristefano e a cura di Claudia Attimonelli nella hall dell’Ex Palazzo delle Poste, il Centro Polifunzionale per gli Studenti. La serie di immagini esposte sono il frutto di un anno di attività e ricerca del gruppo di lavoro coordinato dal prof. Ignazio Grattagliano (Delegato Uniba del Magnifico Rettore per le azioni progettuali con le amministrazioni penitenziarie) in sinergia con la direttrice del Carcere di Bari, dott.ssa Valeria Piré, i quali hanno reso possibile l’ingresso in carcere del fotografo Notaristefano e della prof.ssa Attimonelli per la realizzazione delle fotografie con un gruppo di detenuti a cui sono anche state affidate delle macchine fotografiche. All’evento inaugurale prenderanno parte: il Magnifico Rettore Prof. Stefano Bronzini, il Dott. Liberato Guerriero (Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria di Puglia e Basilicata), la prof.ssa Loredana Perla (Direttrice del Dipartimento ForPsiCom di Uniba), la dott.ssa Valeria Piré (Direttrice della Casa Circondariale Bari), il prof. Ignazio Grattagliano (delegato del Rettore per le azioni progettuali con le amministrazioni penitenziarie), la prof.ssa Attimonelli (docente di Studi visuali e cultura digitale), Daniele Notaristefano (autore delle fotografie) e per l’occasione l’attrice e regista Licia Lanera (compagnia Licia Lanera) che si esibirà in un reading. La mostra, della durata di un mese, intende rappresentare e presentare alla città un’insolita immagine dei detenuti: sin dal titolo si evoca il movimento di un salto catartico, posizione in cui sono stati ritratti molti di loro durante lo shooting avvenuto in più sessioni di una giornata, preceduta da incontri preliminari per riflettere insieme sulle tematiche che avrebbero nutrito l’immaginario delle persone coinvolte. Il sogno, i desideri, l’altrove, gli spazi chiusi, il cielo aperto hanno generato una rara serie di ritratti in cui il volto, anche con gli occhi serrati, sembra poter attraversare la pelle della fotografia per avventurarsi altrove. I luoghi concessi per gli scatti all’interno del braccio maschile sono stati tre: il cortile, la biblioteca e un corridoio, a cui si aggiungono immagini spettrali del reparto femminile inutilizzato da anni. La curatela dell’esposizione rispecchia i criteri dell’allestimento site specific che ha richiesto la necessità di adattarsi all’architettura razionalista con tratti futuristi dell’Ex Palazzo delle Poste, occupando 5 delle navate della balconata superiore che precedono la cupola con fotografie pendenti dall’alto, mentre, in basso, nella sala circolare sono esposte lungo le 3 pareti esterne di una “cella” gli scatti ad opera di Notaristefano accanto a quelli realizzati dai detenuti, che continuano all’interno di questo ambiente ricreato per ospitare dettagli che rappresentano la quotidianità del carcere. L’effetto immersivo è dato non solo dallo spazio riprodotto all’interno delle tre pareti arredate da immagini ma soprattutto dalla prospettiva dello sguardo verso l’alto, sprigionata dalle fotografie e dai selfie scattati dai detenuti. Notaristefano ha scelto per molti scatti trasparenze e sovrapposizioni che colgono i soggetti nella complessità di un movimento come accade con gli anaglifi, le immagini tridimensionali viste da occhiali preposti, da cui il rinvio al colore azzurrino e rosso delle sagome, con lo scopo di ampliare l’immaginario dato da un singolo scatto lasciando intendere la molteplicità di sensi che esso contiene. Il progetto. La finalità è quella di illustrare la condizione carceraria attraverso i luoghi della quotidianità penitenziaria in un’ottica di trattamento e rieducazione delle persone ristrette, rendendole non passive fruitrici delle progettualità previste in ambito accademico, bensì protagoniste e interpreti di un proprio sguardo sulla condizione individuale e collettiva. L’intero progetto, infatti, si colloca tra le attività promosse dal Polo Didattico Universitario Penitenziario dell’Università degli Studi Aldo Moro di Bari, del quale ricordiamo la fase che l’ha preceduto costituita dalla realizzazione del cortometraggio “Il Cielo stellato sopra di me”, realizzato subito dopo la fine della pandemia da Covid, con la regia di Claudia Attimonelli e protagonista Roberto Corradino. Girato nel cortile del carcere di Bari il corto vede l’attore pronunciare un monologo le cui frasi sono tratte dal lungo e disperato carteggio dei detenuti durante il periodo delle restrizioni che rendevano ancora più angosciante la vita detentiva a causa dell’interruzione di visite e lezioni in carcere e della paura della morte. La seconda fase del progetto sfociata nell’attuale mostra già presentata la prima volta nella stessa Casa circondariale di Bari al cospetto dei detenuti il 14 ottobre 2024, va in direzione di una resilienza e di una ricostruzione di sé come persone e attori sociali, capaci di poter stupire e dare un contributo a sé stessi ma anche a chi si occupa di loro: la comunità accademica tramite ricerca e insegnamento. Si tratta, dunque, di un vero e proprio lavoro di resilienza a livello personale, di gruppo e istituzionale reso possibile allorché un gruppo di detenuti, coadiuvati da professionisti ed esperti, realizza quanto è ora visionabile in mostra. La resilienza come riscoperta del sé e del proprio mondo attraverso un registro diverso da quelli usuali, adottando cioè l’arte, in questo caso il linguaggio fotografico, persegue un’idea di giustizia restauratrice e ricostruttiva che consente di superare la visione unilaterale propria delle tradizionali riflessioni sul senso e sulla funzione della pena. La resilienza, infatti, consolida e favorisce il legame organico che tiene insieme una comunità umana, rendendo conciliabile la pretesa esclusività di ciascuna delle finalità attribuite alla pena, che sono la retribuzione per l’infrazione della legge, la riabilitazione del colpevole, la riparazione della vittima. Restaurare e ricostruire significa, propriamente, re-includere avviando un processo potenzialmente in grado di ridurre il rischio di ricaduta nel reato. Praticare “resilienza” rispetto alla recidiva, ai conflitti, al rischio di cronicizzazione, reiterazione e perseverazione di carriere criminali con esiti infausti, terribili e con grandi costi materiali per lo Stato, per la collettività e per gli stessi soggetti designati come criminali, le loro famiglie, il sistema relazionale e il contesto in cui sono inseriti e a cui appartengono. In altre parole, creare condizioni di sistema che consentano finalmente di considerare la risposta di giustizia come tesa a responsabilizzare in vista del futuro, più che a porre rimedio al passato, garantendo una qualità della vita non solo decente, ma idonea all’attivazione di un processo di autodeterminazione, significa permettere al singolo di riappropriarsi di una esistenza altrimenti alienata. Daniele Notaristefano - Daniele Notaristefano è un artista, fotografo e teorico della fotografia. Autore di pubblicazioni accademiche, è stato membro dell’agenzia Art+commerce. I suoi lavori si intersecano alla sua attività di teorico della fotografia attraverso la produzione di libri fotografici su temi sociali quali l’inquinamento, la censura, i diritti umani. Tra le sue esposizioni: “Fotografie per Ferlinghetti” a cura di Letizia Battaglia, Expo 2021 Milano; “B4 Roma- Paranoid unlivable cities” a cura di Orsola Severini, giugno 2016/ maggio 2017 Centro Internazionale di Fotografia di Palermo; “Serendipia” a cura di Alfredo Giacchetto e Serena Leonardi “Splashlight Studio”, New York City, Best of Show a cura di IPA, 2015. Tra le sue pubblicazioni: “Microplastiche geometriche”, 2023; “Linguaggio e narrazione visiva nella decorazione. Teorie e strumenti”, Ediz. illustrata, Quorum edizioni, 2023; “LUX abitare la luce, IQdB Edizioni, 2021; Les cahiers européens de l’imaginaire n°10: La Nuit, CNRS editions, 2021; RECycle: fotografia ecosostenibile”, ediz. Illust, prefazione di Marco Spagnoli, 2020. Licia Lanera - Licia Lanera è regista, attrice ma soprattutto una capocomica. Ha studiato presso il Centro Universitario Teatrale dell’Università degli Studi di Bari e in seguito si è formata con Carlo Formigoni, la Compagnia Ricci/Forte, Massimo Verdastro, Marco Sgrosso, Eimuntas Nekrosius. Nel 2006 ha cofondato la Compagnia Fibre Parallele, poi diventata Compagnia Licia Lanera, che in 15 anni di attività si è imposta nel panorama teatrale riscuotendo successi di critica e pubblico e che in questi giorni ha debuttato a Bari al Teatro Piccinni con lo spettacolo “Altri Libertini”. Nel 2015 riceve numerosi premi della critica come attrice, in particolare il Premio Ubu miglior attrice under 35 e nel 2019 Licia Lanera è stata candidata come miglior attrice al Premio Ubu con lo spettacolo “Cuore di cane”. Da dieci anni conduce laboratori di formazione in Italia. A dicembre 2020, è coinvolta nel progetto Zona Rossa da Fondazione Teatro di Napoli - Teatro Bellini insieme ad altri cinque artisti: un lockdown da vivere in teatro senza poter uscire, con le telecamere che riprendono il processo creativo e le prove in diretta. Ingresso libero, sia all’inaugurazione che alle visite successive. Pistoia. La speranza nel domani dopo il carcere di linda meoni La Nazione, 27 novembre 2024 Al Polo Puccini Gatteschi nuova tappa del lungo viaggio del libro “Senza pregiudizio” nato dallo “Stabat Mater” di Electra Teatro. L’onda lunga di un successo del tutto spontaneo, come si confà a quei lavori che nascono dall’anima e che a questa combinano sensibilità e professionalità. Nuova tappa venerdì 29 novembre alle 18.30 al Polo Puccini-Gatteschi (vicolo Malconsiglio a Pistoia), del lungo viaggio iniziato ormai anni fa per il libro “Senza pregiudizio” di Giuseppe Tesi, ‘figlio’ del cortometraggio “Stabat Mater” a cura di Electra Teatro. Un lavoro di grande struttura la cui genesi è da ritrovarsi nell’esperienza di laboratorio teatrale condotto con i detenuti del carcere di Santa Caterina in Brana che ha poi portato alla realizzazione del cortometraggio “Stabat Mater” liberamente tratto dall’opera di Grazia Frisina. A interpretarlo, diretti da Giuseppe Tesi, gli attori Melania Giglio e Giuseppe Sartori e un gruppo composto da una decina di detenuti, con riprese che per la maggior parte si sono svolte in carcere, a Pistoia, con scene girate anche in esterna alla fontana di Buren a Villa La Magia, nella saletta anatomica e del Ceppo, lungo la Brana e sulla spiaggia della Lecciona. Il film, ricordiamo, mette insieme riflessioni e testimonianze di vita che qui s’intrecciano in un sincretismo di voci unito a parole poetiche per far udire quel grido spesso soffocato di uomini che, nonostante le cadute, ancora vogliono sperare nella vita e camminare nella possibilità di un riscatto personale. Al centro c’è il dolore di una madre, nella cui drammaticità c’è un’idea di “universale”, qualcosa cioè che non conosce barriere di nessun tipo e che dunque è immediatamente condivisibile oltre che comprensibile. Nato come un’opera collettiva da un’idea di Tesi e di Electra Teatro, l’opera è stata sostenuta anche da un crowdfunding oltre che da risorse di associazioni, fondazioni, realtà di vario tipo che si sono riconosciute in questo progetto. “Quel che in questo lungo tempo è arrivato per Stabat Mater - commenta Giuseppe Tesi che al momento sta lavorando a un lavoro sulle vittime di violenza e i loro maltrattanti - è stato qualcosa nato in maniera del tutto naturale e spontanea. Abbiamo portato questo lavoro persino in Senato e alla Filmoteca Vaticana e, ultima tappa, al Lucca Film Festival. ‘Stabat Mater’ è diventato un po’ il figlio di tutti. Piace perché probabilmente si è dimostrato capace di aprire una riflessione profonda sulla compassione, sentimento che tutti abbiamo bisogno di ritrovare. Il mio ringraziamento va a tutti, in particolare agli ex detenuti senza i quali non avremmo avuto lo stesso, bellissimo rumore”. L’evento di venerdì vedrà la partecipazione dello storico Claudio Rosati, della giornalista Lucia Agati e di uno degli allievi del laboratorio di teatro in carcere, Federico Boccardi. Modera Paola Fagnani. L’ingresso è libero, per informazioni: 366.9912228. Verona. “Carceri, emergenza diritti”. Daria Bignardi ospite in ateneo del Gruppo Radici dei diritti L’Arena, 27 novembre 2024 Ogni prigione è un’isola. Un’isola remota, con pochi contatti con il mondo circostante. Un’isola sovraffollata, però, dove tensioni, rivolte e, purtroppo, suicidi, sono all’ordine del giorno. Un tema su cui riflettere, senza pregiudizi ideologici, che verrà approfondito venerdì 29 novembre, nell’aula magna del Polo Zanotto, a partire dalle 8.30, nell’incontro promosso dal Gruppo Radici dei diritti dell’ateneo, “Carceri. Emergenza diritti”. Saranno oltre 700 i giovani delle scuole superiori veronesi che parteciperanno all’incontro, convegno annuale, giunto alla 17esima edizione, del Gruppo Radici dei diritti Univr, che vede coinvolti sette dipartimenti e il Comitato unico di garanzia dell’ateneo, oltre a numerosi insegnanti delle scuole superiori veronesi, per offrire a studentesse e studenti analisi e testimonianze in materia di diritti politici, sociali e di cittadinanza. “Il tema di quest’anno è di particolare attualità in quanto si discuterà della situazione carceraria nel nostro Paese - spiegano gli organizzatori - Quest’estate, in particolare, si sono verificati suicidi, rivolte, abusi e la tensione nelle carceri ha raggiunto livelli di estrema drammaticità. Esiste un problema, da tutti riconosciuto, di sovraffollamento, così come di carenza del personale carcerario. Questo può portare, quasi inevitabilmente, alla negazione dei diritti delle persone incarcerate. Non si tratta di garantire privilegi ma di garantire la dignità e i diritti fondamentali dell’uomo a chi sta scontando la sua pena. Questo deve valere in ogni parte del mondo e a maggior ragione in Italia, patria di Cesare Beccaria che ha indicato quale deve essere il significato e lo scopo della carcerazione”. Il convegno, organizzato in collaborazione con le associazioni “La Fraternità”, “Panta Rei”, “Microcosmo” e “Osservatorio di Comunità”, inizierà alle 8.30 nell’aula con i saluti di Olivia Guaraldo, delegata del rettore al Public Engagement, e con un breve ricordo dello storico Maurizio Zangarini, uno dei fondatori del Gruppo Radici dei Diritti, scomparso di recente e a cui è dedicato il convegno. Porteranno, inoltre, i loro saluti Francesca Gioieni, direttrice della Casa circondariale di Montorio, e don Carlo Vinco, garante dei detenuti del Comune di Verona. La prima relazione, che fornirà i dati relativi all’attuale quadro dell’emergenza carceri in Italia, sarà tenuta da Ivan Salvadori, docente di Diritto penale dell’università di Verona. Seguirà l’intervento di Vincenzo Semeraro, magistrato del Tribunale di sorveglianza di Verona, che affronterà il delicato tema di come garantire i diritti dei detenuti. Paola Tacchella, dell’associazione “Microcosmo” insieme a studentesse e studenti dell’Ipsia Giorgi, terrà una relazione dal titolo “Il doppio versante: storie che curano”, in cui si darà conto degli interventi in carcere dell’associazione e delle esperienze fatte dagli studenti. Seguirà, alle 11, l’intervento della nota scrittrice e giornalista televisiva Daria Bignardi, che presenterà il suo libro “Ogni prigione è un’isola”, in cui racconta il suo viaggio nelle prigioni italiane. Elena Brigo, dell’associazione Panta Rei, interverrà per sottolineare l’importanza del lavoro per i detenuti sia durante la carcerazione che per il reinserimento nella società. Infine, l’insegnante dell’Itis Marconi Paola Sofia Baghini, con la sua classe, riferirà sul ruolo formativo delle esperienze svolte all’interno del carcere di Montorio. Vercelli. “Lib(e)ri dentro. Licenza di leggere”, l’ex procuratore in carcere nella veste di scrittore di Maria Francesca Rivano La Stampa, 27 novembre 2024 Vitari dialoga con il giornalista Enrico De Maria sul suo giallo “Il Procuratore e l’Isotta Fraschini”. L’ex procuratore Giorgio Vitari entra in carcere nelle vesti di scrittore, per inaugurare il progetto “Lib (e)ri dentro. Licenza di leggere”, nato dalla collaborazione tra la Casa Circondariale e il Comune di Vercelli. Oggi Vitari sarà al Billiemme per dialogare con il giornalista Enrico De Maria sul suo recente romanzo giallo “Il Procuratore e l’Isotta Fraschini”. L’incontro è dedicato a detenuti, assistenti volontari e ai docenti del carcere e apre gli appuntamenti di un progetto che vede l’istituto di pena e la Biblioteca Civica di Vercelli lavorare insieme in un piano di promozione della lettura e di valorizzazione e catalogazione del patrimonio librario del carcere. “Il progetto vuole potenziare e valorizzare il patrimonio delle biblioteche presenti all’interno della Casa Circondariale e promuovere la lettura come strumento per migliorare il benessere dei detenuti e delle detenute, fornendo loro un’importante fonte di riscatto culturale”, spiegano dal Comune. A cura della Biblioteca Civica c’è anche un intervento di catalogazione, svolto al Billiemme, del patrimonio librario del carcere. L’incontro con Vitari, invece, si concentra su uno dei romanzi che vedono come protagonista il procuratore Ròtari - in questo libro ancora sostituto. Si torna alla Torino del 1995 per un omicidio avvenuto alla presenza di due testimoni oculari e con un colpevole reo confesso. Eppure in aula, di fronte a una tenace avvocata, che porta il nome della storica autovettura, il procuratore Ròtari capirà che il processo penale è uno strumento imperfetto, dal quale non sempre emerge la verità. Cesena. Libri per essere liberi. Studenti e detenuti, attori assieme di Francesco Zanotti corrierecesenate.it, 27 novembre 2024 È andato in scena ieri uno spettacolo proposto dagli studenti del liceo “Monti” di Cesena con i reclusi del carcere di Forlì. Sotto la regia di Sabina Spazzoli e con il sostegno del gruppo consorti del Rotary club Cesena è stato dato vita a uno spettacolo ricco di messaggi per chi è dentro e per chi è fuori. Si tratta di un progetto di alternanza scuola-lavoro. Libri e liberi. Oppure: liberi grazie ai libri. Il messaggio arriva forte. Ha la potenza di un pomeriggio trascorso nella gelida palestra della casa circondariale di Forlì. Si arriva per seguire la drammatizzazione messa insieme dagli studenti del liceo “Monti” di Cesena e i detenuti della Rocca, un carcere di cui da lungo tempo si invoca da più parti la chiusura, mentre il nuovo è in costruzione da ormai vent’anni. Tempi biblici quando si parla di carceri e di detenuti. Tempi che si scontrano con le intenzioni di chi si trova a gestire oggi situazioni a limite del gestibile. “Leggere è l’atto più rivoluzionario” - Le mura sembrano non esistere, quando si ascoltano gli attori nei loro monologhi che riprendono o si ispirano a brani di libri famosi letti durante la fase del progetto che è anche un’esperienza di alternanza scuola-lavoro, ora Pcto. “Leggere è l’atto più rivoluzionario che possiamo compiere. Leggere rende consapevoli”, che recitato dietro quelle inferriate ha il sapore della beffa per chi tra poco dovrà rientrare in cella. Il progetto è portato avanti da anni dai docenti e dagli studenti del liceo cesenate. Viene realizzato in collaborazione con il coordinamento Teatro carcere Emilia Romagna e si avvale della regia, sapiente e precisa, di Sabina Spazzoli. L’ultima edizione è stata possibile grazie al sostegno del Gruppo consorti del Rotary club Cesena. “Vi parlo non per chiedere perdono, ma per farvi riflettere” - “Chi sono io? Sono il peso che trascino o la leggerezza che cerco?”, dice uno che non si sa se è uno studente o un detenuto. Gli fa eco un altro, difficile da incasellare per chi non conosce volti e nomi. “Voi che mi giudicate senza comprendermi…”. E ancora: “Vi parlo non per chiedere perdono, ma per farvi riflettere”. E chi può rimanere indifferente a queste parole che giungono come frecce scagliate sul perbenismo che permea tanti. “Mi ricordo di essere sopravvissuto. Per farlo ho dovuto piangere, urlare, implorare pietà”. Si scalda l’atmosfera nonostante il freddo che la direttrice Carmela De Lorenzo cerca di giustificare al termine del pomeriggio quando ringrazia, quasi commossa, per l’obiettivo raggiunto. Ma le procedure burocratiche sono impietose e rischiano di imbrigliare anche i funzionari più solerti. “Tra qualche giorno dovrebbero sistemarcelo - dice la De Lorenzo -. Comunque grazie per quanto è stato reso possibile che ha come fine ultimo un percorso di consapevolezza, per restituire alla società persone migliori”. I giovani non vedono le sbarre che separano - I ragazzi hanno dato vita ai libri, sottolinea la regista Spazzoli. Li hanno resi presenti. Non parole vuote, ma dense di significato, di sofferenza, di vita. “Ho perso tutto, ma ho guadagnato me stesso. Voi cosa scegliereste?” è il quesito che rimane nell’aria, sospeso tra la sorpresa di chi entrava per la prima volta in carcere e chi cercava di distinguere, tra i numerosi presenti, tra chi ha sbagliato e chi no. Aver messo in relazione studenti e detenuti, come accaduto con questo progetto sostenuto dal ministero della Cultura e dalla Regione Emilia Romagna, in uno spazio d’arte come il teatro è un gesto che merita attenzione. Questa volta la lezione viene dai giovani che, privi dei pregiudizi degli adulti, non temono il confronto. Anche dietro le sbarre che loro non vedono. Trent’anni di Terzo settore: Amato, Pallucchi e l’attualità della “marcia dei 50mila” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 27 novembre 2024 Oggi a Roma la celebrazione per il trentesimo anniversario della grande manifestazione “La solidarietà non è un lusso” che il 29 ottobre 1994 segnò in pratica la nascita del Forum nazionale Terzo settore. “In trent’anni la società è profondamente cambiata, ma rimangono più che validi i principi e le istanze che videro nascere il Terzo settore italiano: pace, tutela dei diritti e dell’ambiente, protagonismo della società civile e un modello di sviluppo economico sostenibile e inclusivo. Molto è stato fatto, ma molto resta da fare: e anche la Legge di Bilancio ora in discussione non risponde in modo sufficiente”. Così Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Terzo Settore, attualizza la celebrazione con cui oggi - 27 novembre, dalle 10 alle 13, all’Eurostars Roma Aeterna (Piazza del Pigneto 9a) - viene ricordata la grande manifestazione nazionale “La solidarietà non è un lusso” che il 29 ottobre 1994 portò oltre 200 realtà sociali e 50mila persone a sfilare nella capitale per chiedere una riforma dello Stato sociale e maggiore protagonismo del mondo associativo, del volontariato e della cooperazione sociale. È a partire dal ricordo di quella manifestazione, inizio del percorso per la costituzione del Forum Terzo Settore tre anni dopo, che quest’ultimo organizza l’appuntamento di oggi guardando al percorso fatto ma soprattutto alle sfide future. L’evento (anche in streaming su questo link) vedrà tra gli altri gli interventi del presidente emerito della Corte costituzionale Giuliano Amato con una lectio magistralis sull’evoluzione del Terzo settore in Italia e il viceministro al Lavoro e Politiche sociali, Maria Teresa Bellucci. “Molti passi in avanti sono stati compiuti da allora - riprende Vanessa Pallucchi - ma la strada è ancora in salita: anche oggi chiediamo che la politica investa di più nel welfare e sia più attenta alle istanze sociali e, di conseguenza, alle necessità di chi vi dà risposta attraverso servizi e attività sui territori, senza ricercare il proprio profitto. La legge di Bilancio, da questo punto di vista, non risponde in modo sufficiente. Il Terzo settore stesso deve rafforzare la consapevolezza del proprio ruolo nel costruire coesione sociale, essenziale per il Paese, e nel contribuire, collaborando con le istituzioni, alla definizione delle politiche pubbliche”. Dopo l’intervento della portavoce il dibattito prosegue con gli interventi di Walter Massa (Presidente Arci), Tiziano Pesce (Presidente Uisp), Roberto Speziale (Presidente Anffas), Silvia Stilli (Presidente AOI), Eleonora Vanni (Presidente Legacoopsociali). Quindi Annarita Cossu (Presidente Cittadinanzattiva), Stefano Granata (Presidente di Confcooperative Federsolidarietà), Emiliano Manfredonia (Presidente Acli), Domenico Pantaleo (Presidente Auser), Stefano Gheno (Presidente Cdo Opere Sociali). Nel corso della mattinata anche un video inedito con le interviste ai protagonisti della Manifestazione “La Solidarietà non è un lusso”, realizzato da Paolo Mancinelli e Ivano Maiorella. Così è esplosa la rabbia del quartiere milanese Corvetto: il paradosso dell’integrazione di Laura Zanfrini Avvenire, 27 novembre 2024 L’uccisione del 19enne di origine egiziana durante un inseguimento dei carabinieri, con le violente proteste che ne sono seguite, accende i riflettori sugli immigrati di seconda generazione. La morte di un 19enne, avvenuta durante un inseguimento dei Carabinieri nel quartiere milanese Corvetto, ha spinto decine di giovani di origine straniera a protestare con atti di vandalismo, roghi e perfino assalti alle forze dell’ordine. Un film già visto, troppe volte, in altre città europee e che ci pone di fronte al carattere sfidante di quella che le scienze sociali hanno definito la seconda generazione proprio per indicare come le biografie di questi giovani siano inevitabilmente inscritte nella storia migratoria familiare. Introdotta agli inizi del 1900 nell’America, meta della grande migrazione d’origine per lo più europea, l’espressione “seconda generazione” era evocatrice del sogno americano e delle aspettative di mobilità sociale proiettate dalle famiglie migranti sui propri discendenti. Aspettative che, per molti, si sono effettivamente realizzate nel quadro di società dove ancora l’ascensore sociale non si era bloccato e la voglia di fare e il desiderio di riscatto potevano bastare per guadagnarsi un posto al sole. Diversa l’esperienza dei Paesi europei che, proprio a ridosso della crisi degli anni Settanta e poi nella fase di declino dell’economia fordista e dei sistemi di welfare, si sono trovati a fare i conti con la presenza di tanti giovani “issues de l’immigration”: così li hanno definiti i sociologi francesi, sottolineandone il carattere di fenomeno inatteso e indesiderato. Figli dei “lavoratori ospiti” importati in misura copiosa negli anni del boom e retaggi degli imperi coloniali, i giovani cresciuti nelle famiglie immigrate si sono trovati a riflettere tutta l’ambivalenza del rapporto tra società europee e immigrazione. Società che, nell’efficace espressione di A. Sayad, avevano voluto l’immigrazione per la loro prosperità per poi dover fare i conti con la sua posterità. Appartenenti a famiglie spesso povere di risorse culturali ed economiche, non di rado segregati nei quartieri difficili e nelle banlieues, questi giovani hanno finito col simboleggiare i temi dell’insuccesso scolastico e della marginalità sul mercato del lavoro, i fenomeni di inquietudine identitaria e di disagio familiare, il problema della devianza e della criminalità urbana, le sollevazioni violente e il conflitto con le forze dell’ordine investite dell’accusa di razzismo istituzionale e erette ad emblema di uno Stato che aveva tradito le sue promesse di uguaglianza. E poi finanche a simboleggiare questioni quali i matrimoni combinati e la radicalizzazione su base religiosa, assurte a emblema della distanza culturale - o addirittura della incompatibilità culturale - tra “noi” e “loro”. Tanto da decretare il declino di un po’ tutti i “modelli” di integrazione, dall’assimilazionismo alla francese al multiculturalismo inglese, a dispetto dei milioni di giovani d’origine immigrata che, grazie ai sacrifici dei genitori e al proprio impegno a scuola, nel lavoro e nella vita sociale sono riusciti a farsi strada e perfino a proporre una versione “generativa” della loro religiosità. Simile l’esperienza dei tanti giovani protagonisti, in Italia, di traguardi scolastici e lavorativi, impegnati nel volontariato e nella vita associativa, talvolta campioni sportivi, artisti, cantautori di fama, attivisti che portano nuova linfa anche nella sfera politica, per esempio rivendicando quel diritto alla cittadinanza troppo spesso sottovalutato da chi lo ha sempre avuto. Non si deve però trascurare come molti bambini e ragazzi con background migratorio portino la pesante eredità dello svantaggio strutturale di cui sono vittime le loro famiglie. In oltre quattro casi su dieci, i nuclei stranieri vivono in povertà assoluta: ciò non deve stupire se si considera che l’Italia è tra i Paesi che attraggono gli immigrati meno istruiti e ne apprezza soprattutto la disponibilità a fare i lavori che “noi” non vogliamo più fare. Visto che le diseguaglianze tendono a trasmettersi intergenerazionalmente, è chiaro che il loro percorso sia tutto in salita. Ed è intuibile che, specie per chi abbandona precocemente i sistemi formativi (il 26,9% dei 15-29enni stranieri, tre volte tanto gli italiani), la microcriminalità possa costituire un viatico di affrancamento e di riconoscimento identitario più allettante di un lavoro poco pagato e magari precario; un lavoro, appunto, “da immigrato”. L’esperienza di altri Paesi insegna, anzi, come la frustrazione per la mancanza di opportunità e la percezione di essere discriminati sia alimentata proprio da un’assimilazione culturale riuscita: è quello che gli studiosi definiscono il paradosso dell’integrazione, che porta con sé il rischio di condotte devianti e identità reattive. Di questa consapevolezza occorre fare tesoro. Tanto più ora che si è finalmente riaperto il dibattito per la riforma della legge sulla cittadinanza. Giacché la cittadinanza è certamente uno strumento di inclusione, dal punto di vista materiale e da quello simbolico. Ma è anche una promessa di uguaglianza, non solo formale, che poi non va disattesa. Medio Oriente. Gli Usa si schierano contro la Corte penale internazionale di Andrea Molle Italia Oggi, 27 novembre 2024 La (non) posizione dell’Italia rispetto al mandato di cattura emesso dalla Corte Penale Internazionale (CPI) nei confronti di Benjamin Netanyahu può non sorprendere, data la storica ambiguità del nostro paese e l’incapacità istituzionale di assumere una posizione netta e chiara nelle crisi internazionali. Ma il fatto che anche la Germania abbia fatto retromarcia sulla possibilità di arrestare il Primo Ministro Israeliano, dopo un formale iniziale assenso, è la riprova che il tanto decantato Diritto Internazionale, alla fine della favola, si piega sempre alle politiche realiste volte a preservare l’interesse nazionale. In questo caso il rischio di perdere il favore degli Stati Uniti. L’American Service Members Protection Act (ASPA), promulgata nel 2002, protegge il personale militare statunitense dalla CPI. Esprime lo scetticismo degli Stati Uniti verso la CPI e simili organismi, criticati per esercitare giurisdizione sui cittadini americani senza il consenso del Congresso. L’ASPA vieta alle agenzie statunitensi di collaborare con la CPI in indagini, arresti o estradizioni e consente la sospensione dell’assistenza militare ai paesi membri della CPI, salvo accordi che garantiscano l’immunità dei cittadini americani (es. accordi ex articolo 98). La clausola più controversa autorizza gli Stati Uniti a usare “tutti i mezzi necessari” per liberare personale detenuto dalla CPI. Pur simbolica, questa clausola dimostra la determinazione USA a contrastare la CPI, soprattutto in caso di procedimenti ritenuti politicamente motivati. Israele, come gli Stati Uniti, non ha aderito al Trattato di Roma. Ha criticato la CPI per presunti pregiudizi, in particolare verso Hamas. Gli Stati Uniti, che difendendo spesso Israele, potrebbero applicare i principi dell’ASPA in caso di arresto del Primo Ministro israeliano Netanyahu, recentemente destinatario di un mandato d’arresto della CPI. Gli USA potrebbero agire diplomaticamente o imporre sanzioni economiche/militari contro il paese che eseguisse l’arresto. Accordi bilaterali più solidi potrebbero garantire protezione futura, sul modello degli accordi ex articolo 98. Se l’arresto fosse percepito come minaccia strategica, l’ASPA permetterebbe persino interventi militari. Ciò rifletterebbe il peso geopolitico delle decisioni della CPI, rischiando di minarne l’autorità e aumentando le tensioni internazionali. L’ASPA dimostra quindi come il confronto tra giustizia internazionale e sovranità statale possa influenzare profondamente le relazioni globali, ponendo questioni sulla legittimità e sugli interessi strategici delle grandi potenze e dei loro alleati. L’Egitto è un paese sicuro. Per Salvini di Valeria Parrella Il Manifesto, 27 novembre 2024 Alaa e gli altri La storia di Alaa Abd El Fattah, come altre, prova l’indifferenza dell’Italia alla tortura. Cerca di opporsi Laila Soueif con lo sciopero della fame: la sua lotta si può sostenere. Salvini tuonò contro le decisioni dei giudici che non autorizzavano un migrante al rimpatrio verso l’Egitto, dal suo Facebook, con una bella grafica pubblicitaria per ricordare, forse al suo elettorato, e sicuramente ad al-Sisi, lui da che parte sta: dalla parte dei turisti. Quei milioni che vanno e vengono. Non da quella di chi potrebbe ritirare l’ambasciatore, mettere un paese confinante - ché il mare è ponte, non separazione - davanti alla propria sanguinosa responsabilità: negare continuamente i diritti civili. Tenere più di sessantamila detenuti politici in stato di pre-detenzione. Torturare nelle carceri. Come lo sappiamo? Anche grazie al doloroso lavoro di Alaa Abd El Fattah, agito per la maggior parte del tempo da una prigione. Qualche giorno fa da queste pagine Patrick Zaki ricordò quanto gli sia stata di conforto e ispirazione la sua militanza, qualcuno lo paragona a Gramsci e il suo libro tradotto in italiano - e pubblicato grazie a una rete di attivisti da Hopefulmonster - Non siete ancora stati sconfitti certo brilla di quella luminosa speranza che vive anche in certe Lettere dal carcere. Animatore della primavera araba, i suoi capi d’imputazione sono poveri e pretestuosi: protestare a favore dell’indipendenza giudiziaria, un articolo critico nei confronti dell’esercito egiziano, un post su Facebook sugli abusi in carcere. Cosa che noi che indossiamo il braccialetto giallo sappiamo bene. Perché se vuoi andare a vedere le piramidi pagando di stramacchio un cammelliere, vai e vieni. Diverso se vuoi studiarci, in Egitto, esprimerti, fare il ricercatore, il giornalista, avere idee, disegnare vignette, difendere una minoranza religiosa con un post sui social. Lì cambia il livello di sicurezza, a volte non c’è manco bisogno di esprimersi, basta passarci, per il paese, per essere considerato suo nemico, essere arrestato, tenuto senza diritti, senza vedere un avvocato, senza vedere parenti, senza sapere che capo d’imputazione hai, per mesi. È accaduto due settimane fa a Elanain Sharif cittadino italo egiziano arrestato al suo arrivo al Cairo davanti a sua madre e a sua moglie. La signora, che vive a Foligno, ha ottenuto che oggi il console italiano avesse un primo abboccamento con suo figlio. A dare solidarietà a questa donna però, prima delle autorità italiane è arrivata un’altra madre: la madre, sfinita, di Alaa Abd El Fattah. E mi dispiace dire che è “madre di” perché Laila Soueif è una bravissima docente di matematica all’Università del Cairo, attivista per la democratizzazione delle università nel 2000, ha partecipato alla rivoluzione del 2011 ed è una donna amata e ascoltata da un grande movimento popolare. E però è anche la madre di Alaa, è anche la moglie di un uomo morto in carcere: la si trova facilmente in rete in una recente intervista alla Bbc, mentre racconta del suo sciopero della fame. Si è convinta a usare, infine, il suo corpo, come ultima ratio possibile difronte a ciò che di razionale non ha nulla perché Alaa avrebbe finito la sua pena 54 giorni fa: se le autorità non avessero escluso dal computo i due anni di carcerazione preventiva. “Ho visto abbastanza”, ha detto. Non è una consolazione e non è una soluzione, ma è qualcosa sapere che a questo sciopero si può partecipare, per aiutare Laila Soueif a tenere viva l’attenzione, per aiutarla a ricordare che a credere che l’Egitto sia un paese sicuro è rimasto solo Salvini.