La resa di Mattia Feltri La Stampa, 26 novembre 2024 Di recente ho firmato un appello indirizzato ai parlamentari affinché prendano in considerazione l’ipotesi di un provvedimento di clemenza, amnistia o indulto, per liberare le carceri dove sono rinchiuse 62 mila persone, in spazi previsti per 51 mila e oggi sufficienti per 48 mila. Ieri il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, ha confermato il prevedibile: lui, e dunque si presume l’intera maggioranza di governo, o ampia parte di essa, sono contrari. Sarebbe una resa dello Stato, ha detto Delmastro, che ha promesso di recuperare entro la fine della legislatura i posti mancanti. Ci si può augurare che Delmastro ci riesca, e ci si può chiedere che succederà nel frattempo. Perché quest’anno, e mancano ancora trentacinque giorni alla fine, i suicidi in carcere sono stati 82, e il record è di 84 del 2022; i morti totali, quindi compreso chi è morto per malattia, sono 223, polverizzato il record di 177 del 2002; bisogna poi aggiungere il suicidio di sette guardie carcerarie: l’anno scorso se ne suicidò una soltanto, nel 2022 si suicidarono in cinque. A me pare che la resa sia quella di uno Stato che costringe alcuni suoi cittadini - colpevoli, presunti tali, innocenti - in condizioni illegali poiché non è in grado di rispettare le leggi che si è dato. Mi pare che la resa sia quella di uno Stato che, pur di non prendere atto delle sue illegalità, lascia che alcuni suoi cittadini - colpevoli, presunti tali, innocenti - si tolgano la vita o la perdano per mancanza di cure. La resa è di uno Stato che non riconosce le proprie responsabilità e il proprio fallimento, di cui peraltro nessuno gli chiederà conto. “Fuoriclasse”. Bando da 5 milioni per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti di Anna Garofalo La Discussione, 26 novembre 2024 Fondo assegnato dalla Repubblica Digitale, con il Cnel e il Ministero della Giustizia. Si chiama “Fuoriclasse”, ed ha un obiettivo importante, quello di sostenere progetti per il reinserimento sociale delle persone detenute attraverso la formazione digitale, per contrastare il fenomeno della recidiva. Il nuovo bando di “Fuoriclasse”, è promosso e sostenuto dal Fondo per la Repubblica Digitale, in collaborazione con il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) e il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Secondo le evidenze emerse nell’ambito dell’iniziativa “Recidiva zero. Studio, formazione e lavoro in carcere: dalle esperienze progettuali alle azioni di sistema in carcere e fuori dal carcere”, organizzata il dal Cnel insieme al Ministero della Giustizia, e in particolare quanto riportato nello studio di The European House - Ambrosetti, solo il 6% del totale dei detenuti risulta coinvolto in percorsi di formazione professionale. “Tuttavia”, si legge in una nota di presentazione del progetto, “in termini di corsi offerti, tra il 2021 e il 2023, è aumentato sia il numero di detenuti iscritti che i corsi attivati, le cui tipologie più frequentate includono settori quali cucina e ristorazione, giardinaggio e agricoltura, edilizia. Infatti, dal report della Fondazione Censis emerge che il digitale è oggetto di meno del 5% dei corsi di formazione professionale offerti in carcere”. Per Martina Lascialfari, Direttrice Generale del Fondo per la Repubblica Digitale Impresa sociale: “Con ‘Fuoriclasse’ il Fondo prosegue nel suo impegno a sostenere iniziative su scala nazionale mirate a favorire l’inclusione digitale e il riscatto sociale delle fasce di popolazione più vulnerabili. Grazie alla collaborazione con il CNEL e il DAP, ci dedicheremo a potenziare le competenze digitali delle persone detenute, facilitando il loro reinserimento sociale e lavorativo: perseguire questo obiettivo deve essere al centro delle policy di uno Stato di diritto. Invitiamo quindi enti pubblici e soggetti privati non profit a presentare proposte progettuali per promuovere azioni formative e di orientamento digitale sia all’interno che all’esterno degli istituti penitenziari”. Secondo il presidente del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, Renato Brunetta: “La formazione digitale è un elemento chiave nei processi di inclusione socio-lavorativa dei detenuti. Non solo in quanto ambito particolarmente ricco di opportunità occupazionali, ma anche perché può fungere da volano per una maggiore informatizzazione degli istituti penitenziari, contribuendo in modo rilevante a gettare un ponte tra carcere e società civile. Sono temi su cui il CNEL ha posto una grande attenzione, avviando d’intesa con il Ministero della Giustizia e il DAP un programma specifico di attività. In questo contesto si inserisce anche la proficua collaborazione con ACRI, coinvolta nel Fondo Repubblica Digitale in un ottimo esempio di partnership tra pubblico e privato”. Per Giovanni Russo, capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria: “I beneficiari diretti delle attività progettuali saranno detenuti con pena definitiva residua non superiore ai tre anni, in carico agli istituti penitenziari o agli uffici di esecuzione penale esterna. Con il Fondo abbiamo la possibilità di individuare buone pratiche utili all’orientamento delle politiche pubbliche”. Fuoriclasse, Il bando “Fuoriclasse” per i promotori, intende sostenere progetti in grado di realizzare efficaci azioni formative in ambito digitale e di valorizzare le potenzialità, attitudini e ambizioni delle persone detenute tramite una presa in carico personalizzata e la costruzione di percorsi integrati che ne facilitino il reinserimento sociale e lavorativo, con il fine ultimo di contrastare il fenomeno della recidiva. I beneficiari diretti delle attività progettuali dovranno essere detenuti con pena definitiva residua non superiore ai tre anni intra o extra moenia, in carico ad istituti di pena o uffici di esecuzione penale esterna”. Come presentare le proposte - ll Fondo per la Repubblica Digitale Impresa sociale ha stanziato in totale 5 milioni di euro. Le proposte potranno essere presentate da partenariati formati da un minimo di due ad un massimo di cinque soggetti. Il Soggetto responsabile dovrà essere un soggetto privato senza scopo di lucro. I partner potranno essere enti pubblici o privati senza scopo di lucro. Inoltre, ciascun progetto dovrà prevedere la partecipazione di almeno una struttura penitenziaria. Il budget a disposizione - Oltre a tali tipologie di enti, potranno essere coinvolti in qualità di partner - nelle sole attività di formazione digitale e di accompagnamento nel percorso di inserimento lavorativo - anche soggetti for profit che potranno gestire una quota di budget complessivamente non superiore al 30% del contributo richiesto. Ogni progetto può essere sostenuto con un minimo di 150 mila e un massimo di 500 mila euro. C’è tempo fino al 7 febbraio per partecipare al bando attraverso la piattaforma Re@dy. Scontro governo-toghe, maggioranza divisa: slitta il Dl Giustizia di Errico Novi Il Dubbio, 26 novembre 2024 Scompare dal Consiglio dei ministri di oggi il provvedimento con il nuovo illecito disciplinare per i magistrati che, pur in presenza di “gravi ragioni di convenienza”, non si astengono. Sullo sfondo, la linea dura di Lega e FdI che Forza Italia non condivide. Che ci sia agitazione, nel governo, per la guerra fredda in corso con i magistrati, è evidente. Ed è a quelle contraddizioni che si è pensato ieri, quando si è saputo che il Consiglio dei ministri aveva deciso di rinviare il via libera al decreto Giustizia e alla norma che introduce un nuovo illecito disciplinare per i magistrati. Il provvedimento, messo a punto a via Arenula di concerto con il ministero dell’Economia, non svanisce nel nulla: sarà “deliberato” a Palazzo Chigi di qui a pochi giorni, nella riunione del governo fissata per le 11 di venerdì. Ma la decisione ha aperto un piccolo giallo. Intanto perché fonti di Palazzo Chigi hanno diffuso, sul punto, una spiegazione ben precisa: lo slittamento del Dl Giustizia sarebbe dovuto all’assenza, dal Consiglio dei ministri di oggi, dei rappresentati di Forza Italia a causa di “una serie di impegni” in virtù dei quali il leader azzurro, nonché vicepremier, Antonio Tajani, avrebbe appunto chiesto di posticipare il decreto. Contemporaneamente, sono circolate voci su una spiegazione meno criptica di questo “rinvio mirato”: Forza Italia avrebbe voluto “tutelarsi”, con lo stop al decreto relativo anche al disciplinare delle toghe, rispetto ad altre partite. In particolare alle trattative in corso sulla Manovra, ancora in discussione nella commissione Bilancio di Montecitorio, e in particolare all’emendamento sostenuto dalla Lega sul canone Rai, emendamento in cui si prevede la proroga di un anno della riduzione da 90 a 70 euro della “tassa” sulla tivù di Stato. Idea che il vertice di maggioranza del fine settimana non è bastato a far digerire a tutti. Altre fonti di governo chiariscono un aspetto che potrebbe spiegare l’incidente in modo più banale e meno “intrigante”: il rinvio del decreto Giustizia sarebbe stato comunque inevitabile, a prescindere dalle assenze e da eventuali obiezioni di Tajani, perché nel testo andavano perfezionati alcuni aspetti tecnici relativi al commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria. L’impressione è che vi sia un combinato disposto fra i due aspetti. D’altronde FI e Lega sono ai ferri corti, e questo si riflette anche in una diversa posizione che i due partiti hanno sul rapporto con le toghe. La linea dura nei confronti dei magistrati, e in particolare di coloro che assumono decisioni sui migranti nel quadro di un preciso orientamento culturale, è condivisa dalla Lega e da Fratelli d’Italia, assai meno dagli azzurri. E che sia così, lo confermano altre indiscrezioni, relative proprio alla norma clou del decreto Giustizia, con cui si introduce un nuovo illecito disciplinare per quei magistrati che non obbediscono all’obbligo di astensione introdotto per la sussistenza di “gravi ragioni di convenienza”. Ebbene, a quanto pare, l’idea di modificare in questo senso il “codice disciplinare delle toghe” non nasce al ministero della Giustizia, ma da un “concerto” fra il Viminale e la Presidenza del Consiglio. Il guardasigilli Carlo Nordio e i suoi uffici si sono limitati a scrivere la norma. Ma a reclamarla sono stati altri. Al ministero dell’Interno c’è un ministro, Matteo Piantedosi, attribuito al Carroccio. E al vertice del governo c’è una premier, Giorgia Meloni, per nulla intenzionata a mollare sui migranti e sulla questione Albania. Slitta il decreto giustizia: Forza Italia divisa sui maggiori poteri alla procura antimafia di Ermes Antonucci Il Foglio, 26 novembre 2024 È slittato al prossimo Consiglio dei ministri l’esame del Decreto giustizia previsto nel Cdm di ieri sera. Ufficialmente, come specificato in una nota, il rinvio è avvenuto su richiesta del vicepresidente del Consiglio e capodelegazione di Forza Italia al governo, Antonio Tajani, vista l’assenza per diversi impegni dei ministri del partito azzurro. Fonti di FI, consultate dal Foglio, restituiscono uno scenario diverso basato sullo scarso coinvolgimento del partito nell’elaborazione dei provvedimenti: “Vorremmo confrontarci prima, e non solo dopo l’approvazione dei testi in Cdm”. La richiesta di far slittare l’esame del decreto giustizia sarebbe dunque un messaggio critico di Tajani al governo per il metodo usato finora. La verità, però, è che dentro Forza Italia si registrano posizioni discordanti su uno dei punti centrali del decreto: il rafforzamento dei poteri della procura nazionale antimafia nelle indagini sugli accessi abusivi ai sistemi informatici. Una delle novità principali previste dal decreto legge giustizia riguarda il contrasto agli accessi abusivi ai sistemi informatici in uso alle forze dell’ordine e alle varie pubbliche amministrazioni. Il pensiero va a quanto emerso dal caso Striano e dalla vicenda della società Equalize. In questo ambito, il decreto pensato dal governo introduce l’arresto obbligatorio in flagranza per gli autori degli accessi abusivi, ma soprattutto rafforza il coordinamento da parte della procura nazionale antimafia delle indagini che rientrano nel perimetro della sicurezza nazionale cibernetica. Secondo il testo, il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo “eserciterà le funzioni di impulso nei confronti dei procuratori distrettuali per il coordinamento delle attività di indagine” sui crimini che riguardano l’accesso abusivo ai sistemi informatici di interesse militare o relativi all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica. Anche se il rafforzamento dei poteri, meramente di “impulso”, della procura nazionale antimafia è sempre stato uno dei pallini di Forza Italia (a differenza del centrosinistra, che ha sempre assecondato la magistratura associata e ha visto questa prospettiva come una menomazione dell’autonomia delle singole procure), la misura è stata fortemente contestata dal presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri: “Dopo il caso Striano, non mi sembra proprio il caso di potenziare nemmeno il potere di impulso di questa procura, sulla quale stiamo indagando nella Commissione Antimafia. Che da Via Giulia si pretenda un aumento di poteri, quando ancora si deve rendere conto dei poteri in mano esercitati negli anni passati, in particolare durante la gestione De Raho, mi sembra stupefacente”. Proprio ieri pomeriggio, pochi minuti prima dell’annuncio dello slittamento dell’esame del decreto, Gasparri era di nuovo intervenuto sull’ipotesi di potenziamento dei poteri della procura nazionale antimafia in materia di reati informatici, con un comunicato molto netto: “La bozza del decreto inerente a questo tema non può passare senza un esame approfondito dell’intero Cdm”. Poco dopo, appunto, la notizia del rinvio del decreto. La posizione di Gasparri non sarebbe in realtà dominante all’interno di Forza Italia. D’altronde, è noto che lo scandalo che ha travolto la procura nazionale antimafia riguarda una lunga serie di accessi abusivi alle banche dati in uso alle forze dell’ordine compiute dal finanziere Pasquale Striano tra il 2019 e il 2022. Dopo il suo insediamento nel giugno 2022, il nuovo procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo, ha profondamente rinnovato la struttura interna, sul piano sia organizzativo che dell’infrastruttura tecnologica, per porre fine a una situazione di colabrodo per la protezione delle informazioni riservate. Il tutto, come spiegato da Melillo in commissione Antimafia, è avvenuto in seguito a un’approfondita ispezione che lui stesso fece svolgere poche settimane dopo la sua entrata in servizio, che rivelò “preoccupanti vulnerabilità” dei sistemi informatici. Con una procura nazionale antimafia rinnovata sia nel suo vertice sia nella sua organizzazione interna nel settore della sicurezza informatica, non si comprende per quale ragione - come sostiene Gasparri - bisognerebbe opporsi a un rafforzamento del coordinamento delle indagini in materia di accessi abusivi ai sistemi informatici più importanti del paese. In fondo, proprio un miglior coordinamento potrebbe evitare che alcuni procuratori conducano iniziative giudiziarie che poi magari finiscono per rivelarsi infondate. Il “caso Striano”, insomma, non può diventare lo slogan per bloccare ogni tentativo di rafforzamento del ruolo della procura nazionale antimafia, in linea proprio con le richieste della magistratura associata e le sue correnti. Un paradosso per Forza Italia. Più che un confronto nella maggioranza, urge un chiarimento all’interno del partito guidato da Tajani. Perché le democrazie “esecutive” hanno paura dei giudici di Mariano Croce* Il Domani, 26 novembre 2024 Sulla scia del modello ungherese, la destra aspira a riabilitare un rapporto primo-novecentesco tra politica e giustizia, che sottoponga a vaglio governativo l’azione dei giudici e restituisca preminenza normativa alla legislazione nazionale. Questa fascinazione nostalgica si traduce sempre più in progetti di riforma illiberale dei sistemi di giustizia. Il governo Meloni vuol ripristinare un’idea piuttosto datata del rapporto tra politica e giustizia: il parlamento sovrano fa le leggi, i tribunali si limitano ad applicarle. Secondo questa concezione d’antan, i giudici, non legittimati dal suffragio popolare, non solo non potrebbero valutare le leggi, ma dovrebbero persino astenersi dal commentarle. Dovrebbero quindi agire da distaccati e macchinici applicatori. A complicare il quadro c’è una delle tendenze tipiche delle democrazie esecutive, quelle cioè che si collocano sulla scia ideale del modello ungherese. Le democrazie esecutive riesumano un concetto mistico del rapporto tra volontà popolare e governo: di contro alla litigiosa frammentazione dei parlamenti, il potere esecutivo saprebbe cogliere le esigenze più intime del popolo e saprebbe pertanto fornire l’interpretazione autentica, dunque indisputabile, delle leggi prodotte dal parlamento. Insomma, il vertice della complessa macchina istituzionale sarebbe il governo, vero scrutatore del cuore nazionale. Questa concezione era forse adatta agli stati liberali di inizio Novecento, quando la Corte suprema era vista come una stravaganza tutta statunitense. In Europa, al tempo, non era ammissibile che un potere tecnico-burocratico come il giudiziario potesse giudicare l’azione della sorgente suprema del diritto legittimo, ovvero il potere legislativo. Né era ammissibile che quel potere, puramente applicativo, potesse far da freno alle attività dell’esecutivo, ossia quell’organo vitale che è chiamato a imprimere un indirizzo politico alla vita della comunità. Il potere giudiziario era e doveva rimanere al servizio degli altri organi dello stato. Il “governo dei giudici” - Si dovette attendere il 1920 perché, per la prima volta in Austria, Cecoslovacchia e Liechtenstein, si attuasse l’esperimento di corti con potere di revisione sulla legittimità costituzionale delle attività legislative e amministrative. Ciononostante, i difensori di questo modello, allora innovativo, avevano un gran daffare nel dissipare le angosce della maggioranza dei loro colleghi e concittadini rispetto all’introduzione di tali corti. Dominava il timore che la loro attività di supervisione favorisse l’instaurazione di un “governo dei giudici”, secondo la celebre formula coniata nel 1921 dal giurista francese Édouard Lambert. L’orrore diffuso nella sensibilità politica di quello scorcio di secolo era che il giudiziario potesse farsi arbitro ultimo della legittimità degli altri due poteri dello stato, quindi inibirne l’azione in modo del tutto discrezionale. Questo timore riecheggiò stentoreo persino negli accesi dibattiti dell’Assemblea costituente italiana, e spiega altresì le difficoltà che la Corte costituzionale dovette superare prima che acquisisse appieno i poteri che le spettano per costituzione. Ma, appunto, si parla di un secolo fa - e in un secolo le cose sono cambiate sino a rovesciarsi, con buona pace delle democrazie esecutive. Oggi le Corti, soprattutto quelle più alte e soprattutto nel dialogo tra loro, sono tutrici di una “super-legalità costituzionale”. Si tratta di un complesso insieme di principi e valori affermatisi a livello soprastatale, in modo particolare nelle carte internazionali dei diritti o tramite le sentenze di tribunali come la Corte di giustizia dell’Unione europea o la Corte europea dei diritti dell’uomo. Il lavoro di queste corti richiede certo un esercizio di equilibrio, nel rispetto delle competenze delle legislazioni nazionali e del principio di sovranità parlamentare; eppure, questa superlegalità costituzionale delinea una cornice normativa che limita l’azione dei parlamenti e permette di valutare la legittimità politica e morale dell’attività governativa. Questo reticolato normativo soprastatale consente di fatto e di diritto alle Corti nazionali di giudicare l’azione del legislativo e dell’esecutivo, ben al di là della funzione tecnico-burocratica di applicazione delle leggi. È per questa ragione che le democrazie esecutive aspirano a riabilitare un rapporto primo-novecentesco tra politica e giustizia, che sottoponga a vaglio governativo l’azione dei giudici e restituisca preminenza normativa alla legislazione nazionale. Questa fascinazione nostalgica si traduce sempre più in progetti di riforma illiberale dei sistemi di giustizia. E c’è il rischio che, ben più delle molte messinscena da vaudeville, la vieta retorica della sacralità della volontà popolare giustifichi, agli occhi della cittadinanza, una stretta sul giudiziario potenzialmente letale per qualsiasi regime democratico. *Filosofo Politici contro i magistrati che non assecondano i loro desiderata di Lucio Motta filodiritto.com, 26 novembre 2024 Il Governo cavalca il tema dell’immigrazione esasperando le tensioni sociali che seguono scontri e fatti di cronaca in cui sono coinvolti immigrati, spende 653 milioni di euro per realizzare due hotspot in Albania, dove inviare disperati clandestini che cercano di approdare sulle coste italiane e che il Governo respinge a difesa dei confini nazionali. Sembra una apocalisse, invece è la cronaca di un conflitto sociale essenzialmente figlio di una duplice incapacità di chi ci governa: da un lato l’incapacità di mettere in atto una reale politica sociale di integrazione (il che non significa solo integrazione tra cittadini ed immigrati, ma bensì integrazione tra le classi sociali, tra i soggetti diversi, tra le generazioni, tra le diverse provenienze). Non c’è nell’attuale Governo una visione di società in movimento che deve essere governata attraverso una lettura oggettiva consapevole e critica delle mutazioni sociali e dei bisogni che ne derivano. I Politici inseguono le urla, chi strepita più forte ottiene l’attenzione di un politico incapace di vedere il futuro, preoccupato di conservare il proprio potere e per questo intento a rispondere alle urla di oggi assecondando le pretese in cambio del consenso. Dall’altra una reale incapacità di armonizzare le norme per una congenita ignoranza della legge. I nostri governanti ogni giorno dimostrano di non conoscere la legislazione che sono chiamati ad applicare e di produrre leggi che spesso sono in contrasto con il quadro normativo nazionale e sovranazionale preesistenti e con cui le nuove regole devono interagire. Invero ci si rifiuta di pensare che l’ignoranza normativa sia così forte, in verità è più comodo procedere per slogan, distrarre l’attenzione dal problema che non si vuole risolvere facendo finta di risolverlo demonizzando i soggetti ed i protagonisti. Sentire un Ministro dichiarare che gli immigrati arrivano in Italia per commettere reati, rubare e violentare le nostre donne è orribile, un giudizio prevenuto e razzista atto a discriminare persone creando paura quale deterrente. Immaginare di risolvere il problema dell’immigrazione deportando le persone disperate in strutture di reclusione costate milioni di euro inutilmente, ignorando le leggi e le disposizioni nazionali ed internazionali, pretendendo di raggiungere il proprio misero obbiettivo elettorale propagandistico addirittura cambiando la legge che si reputa di ostacolo, senza comprendere che la legge non è un ostacolo ma una norma da rispettare ed applicare … spaventa. Ancor più preoccupa se si assiste alla accusa verso i Giudici, che la legge sono chiamati ad applicare, se applicando la legge non assecondano i desiderata dei Politici che vedendosi smentiti non si interrogano se qualcosa nel loro progetto non ha funzionato, ma giustificano l’insuccesso addossando la colpa ai giudici che a loro dire sovvertirebbero la democrazia. Questi politici invasati di delirio di onnipotenza, pretendendo che tutti si pieghino al loro fine, a prescindere, senza pudore accusando quanti, neppure pensando diversamente, semplicemente applicano le norme. D’altra parte per il Ministro Salvini l’Egitto sarebbe un paese sicuro solo perché si va in vacanza a Sharm el Sheikh, senza precisare che le località turistiche sono proprietà di immobiliari turistiche occidentali ed americane, mentre in Egitto si vive la persecuzione e l’oppressione: Salvini ha certo dimentica il caso Regeni, e la vicenda di Patrik Zaki solo per citare i più noti. In Egitto le autorità penitenziarie sottopongono i prigionieri di coscienza e altre persone detenute per motivi politici a tortura a condizioni di detenzione crudeli e disumane. Tortura, maltrattamenti e rifiuto di dispensare cure mediche hanno contribuito a morti in detenzione e a conseguenze irreversibili sulla salute dei detenuti. Le autorità egiziane hanno continuato a reprimere il dissenso e a imbavagliare la società civile. Tra le persone finite nel mirino delle autorità egiziane ci sono politici d’opposizione e i loro sostenitori; familiari di dissidenti all’estero; sindacalisti; avvocati; e persone critiche verso le autorità per la situazione dei diritti umani nel paese e la gestione della crisi economica, oltre che per il ruolo dei militari. Ma forse a nessuno di tutto ciò interessa, forse il solo obiettivo dei nostri governanti è e resta quello di creare allarme sociale verso l’immigrazione, allarme a cui poi rispondono superficialmente con la deportazione in Albania, dove qualcuno avrà guadagnato con i 653 milioni di euro spesi per costruire i due avamposti rimasti vuoti. D’altra parte il Presidente del Senato si strappa le vesti perché esisterebbe un dossieraggio sui suoi familiari (figli inclusi) ma non spiega come mail il figlio è caduto in una situazione, certo non ancora giudizialmente accertata, ma sicuramente equivoca e non pari alla cultura ed allo status sociale della famiglia …se poi accerteremo che questa persona si sia resa responsabile di gratuita violenza su una donna…ci augureremo che il padre, facendo revisione critica del proprio ruolo genitoriale, si dimetta da tutte le cariche pubbliche e stia accanto al figlio nel percorso di revisione ed espiazione. I magistrati vengono attaccati perché applicando la legge non assecondano i desiderata dei politici e dei governanti, per questo sono polarizzati e sovversivi, meritano controlli e reprimende, ma non ci si rende conto che così facendo si delegittima un potere dello stato agli occhi dei cittadini i quelli ogni qualvolta dovessero subire una decisione avversa, sono così legittimati a ritenere di parte, faziosi e sovversivi i giudici che hanno giudicato? Un Politico, una carica dello Stato, dovrebbe essere mossa da prudenza, almeno per il ruolo occupato, evitare il conflitto, chiarire nelle sedi opportune, invece sempre più questi nostri politici proclamano dai social, preoccupati di arrivare per primi a far sapere la loro opinione senza preoccuparsi se questa sia rilevante e/o istituzionalmente inopportuna. Siracusa. Muore in carcere a 61 anni dopo una lunga malattia srlive.it, 26 novembre 2024 Lorenzo Vasile lo scorso anno aveva ottenuto dal giudice di sorveglianza il beneficio degli arresti domiciliari per poi tornare alla Casa circondariale di Cavadonna. Il suo caso è stato al centro dell’attenzione del Garante dei detenuti, che aveva constatato che le condizioni di salute di Vasile non fossero più compatibili con la detenzione in carcere. Vasile aveva a lungo collaborato con la giustizia, ottenendo una nuova identità e un lavoro in una località protetta. Poi, a causa di una leggerezza, gli sono stati revocati i benefici della collaborazione. Era stato poi sorpreso a Cassibile in auto con un grosso carico di hashish e per tale motivo condannato alla pena di 3 anni e 4 mesi. Le sue condizioni di salute erano peggiorate fino all’epilogo avvenuto nella giornata di sabato. Firenze. Condizioni “disumane e degradanti”, nel carcere di Sollicciano non è cambiato niente ilpost.it, 26 novembre 2024 Il ministero della Giustizia aveva dato tre mesi di tempo per fare una serie di interventi, multando la direttrice, ma le cose semmai sono peggiorate. Il carcere di Sollicciano è tra i peggiori del sistema penitenziario italiano, già di per sé molto problematico. Ai noti problemi di fatiscenza e sovraffollamento della struttura da mesi si è aggiunta una controversia legale che riguarda la direttrice, Antonella Tuoni: a metà luglio il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) aveva emesso un procedimento disciplinare nei suoi confronti per le pessime condizioni in cui si trova il carcere, compresa una sanzione di 25mila euro, e aveva disposto di rimediare entro 90 giorni con alcuni interventi mirati. Il termine è scaduto e le cose non sono cambiate, anzi. Tra le varie disposizioni del DAP ce n’erano alcune particolarmente rilevanti, come quella di rendere di nuovo agibili i corridoi, le celle, i locali comuni e la stanza dei colloqui telefonici “anneriti a seguito di incendi”. C’era poi quella di “bonificare gli ambienti di lavoro”, soprattutto “le pareti e le scale delle sezioni detentive del reparto giudiziario”, descritte come molto sporche, anche con macchie apparentemente di sangue, o quella di sistemare le infiltrazioni di umidità e muffe nell’impianto elettrico. Anche i bagni hanno bisogno di interventi. Le condizioni di degrado da sistemare non riguardavano solo i detenuti ma anche gli agenti di polizia penitenziaria: era stato per esempio ordinato di mettere impianti di aerazione e ricircolo dell’aria nelle postazioni degli agenti nei reparti detentivi. Il DAP chiedeva inoltre di “incrementare il numero degli addetti al primo soccorso e addetti antincendio per ogni turno di servizio”. Emilio Santoro, professore di filosofia del diritto all’Università di Firenze e membro dell’associazione L’altro diritto, che ha seguito numerosi ricorsi dei detenuti del carcere, ha detto al Corriere che “dopo i tre mesi di tempo che il DAP aveva dato per migliorare Sollicciano in realtà non è stato fatto nulla, c’è da dire che non so se si poteva fare effettivamente qualcosa”. “La cosa certa è che a rimetterci ancora una volta sono i detenuti e i lavoratori del carcere”, ha aggiunto. Il carcere di Sollicciano avrebbe insomma bisogno da anni di grossi lavori di ristrutturazione e risanamento, che però sono fermi per errori e rimpalli continui di competenze. La direttrice Tuoni aveva sostenuto che servissero interventi strutturali su cui il carcere aveva margini di intervento molto limitati, soprattutto dal punto di vista dei soldi che può spendere. Tuoni aveva fatto ricorso contro la sanzione del DAP, ribadendo più volte che le condizioni della struttura non sono attribuibili al suo operato. Da quasi due settimane risulta in malattia e non è chiaro quando tornerà: dovrebbe essere provvisoriamente sostituita nella gestione dall’attuale direttrice del carcere di Pistoia, che però dovrà dividersi tra i due istituti (la decisione comunque non è ancora ufficiale). I problemi dell’istituto sono dunque aggravati da una certa incertezza anche nella gestione quotidiana. Negli ultimi giorni una giudice ha in parte accolto la richiesta di un detenuto di essere trasferito in un altro carcere, viste le condizioni di Sollicciano: il 22 novembre ha dato all’istituto 60 giorni di tempo per intervenire sulle criticità maggiori, altrimenti verrà accordato il trasferimento al detenuto. I problemi del carcere di Sollicciano sono di lungo corso. Come molte altre carceri italiane, è sovraffollato: secondo i dati del ministero della Giustizia a fine ottobre ospitava 531 detenuti, 34 in più rispetto alla capienza massima di 497 posti. Le cose in realtà sono anche peggio di così, perché molti posti letto sono inagibili e quindi la capienza effettiva è ancora minore. La situazione attuale è comunque un miglioramento rispetto al passato, considerando che intorno al 2010 la struttura era arrivata a ospitare oltre mille detenuti. Sollicciano è anche il carcere con la quota di detenuti stranieri più alta d’Italia: sono 339, il 64 per cento del totale. La struttura del carcere, costruito nel 1983, è inadeguata e la situazione igienico-sanitaria è notevolmente peggiorata negli ultimi anni: in molti reparti ci sono cimici e altri insetti sui muri e nei letti. D’estate fa troppo caldo e d’inverno fa troppo freddo, nella struttura ci sono infiltrazioni, perdite d’acqua, umidità, topi e sporcizia. Oltre ai problemi della struttura, all’interno del carcere non ci sono abbastanza spazi da destinare alle attività educative e di formazione e non ci sono iniziative per favorire l’integrazione dei tanti stranieri presenti. I grossi problemi strutturali, igienici e sanitari sono stati rilevati anche durante alcuni sopralluoghi fatti negli ultimi anni dai magistrati di sorveglianza e altri rappresentanti di autorità pubbliche. In vari casi ai detenuti di Sollicciano sono stati riconosciuti sconti di pena a causa della violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che vieta la tortura e i trattamenti “inumani o degradanti”. Da gennaio a luglio di quest’anno ci sono stati 35 tentativi di suicidio, 215 atti di autolesionismo, 80 aggressioni al personale di polizia penitenziaria e 17 proteste. Trapani. Le intercettazioni tra agenti sulle torture in carcere: “A Ivrea davamo legnate ai detenuti” di Andrea Bucci, Giuseppe Legato La Stampa, 26 novembre 2024 L’ombra di un modus operandi nel penitenziario eporediese: “Al detenuto bisogna dire che i colleghi non si toccano”. L’ombra di altre botte ai detenuti avvenute negli anni scorsi nel carcere di Ivrea, tra gli istituti problematici del nostro Paese, si affaccia dalle intercettazioni di un’operazione contro le presunte torture nel penitenziario di Trapani che conta 46 indagati tra agenti e personale interno al carcere. Intercettazioni shock - Nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip siciliano Giancarlo Caruso fa capolino un’inquietante conversazione tra due indagati, sulla quale sono in corso accertamenti da parte dei magistrati eporediesi. Dal compendio degli atti si ricava “che (secondo alcuni agenti) era necessario tornare alle vecchie maniere con un esercizio - scrivono i giudici - punitivo della violenza fisica”. Uno dice all’altro: “Al detenuto bisogna dare legnate e mentre le si danno si dice sempre che i colleghi non si toccano: a Ivrea facevamo così. Appena toccavano un collega li sminchiavamo proprio”. Continuano: “E appena i dottori si mettono in mezzo sminchi pure i dottori perché sono una manica di…”. L’indagine - Gli inquirenti dovranno adesso verificare quando, e se, l’agente intercettato ha prestato servizio a Ivrea. Sono necessari ulteriori approfondimenti. Certo è che - qualora la procura eporediese dovesse aprire un nuovo fascicolo - sarebbe la terza inchiesta su presunte botte e torture in carcere. Un fascicolo sulle presunte botte nella casa circondariale di Ivrea giace ancora sulla scrivania della pm Valentina Bossi. Si tratta di un’inchiesta non ancora conclusa e che vede indagate 45 persone tra cui agenti, direttori e medici. Su questa indagine “pesa” la pronuncia della Cassazione che ha escluso il reato di tortura contestato a otto agenti della penitenziaria raggiunti dal provvedimento interdittivo della sospensione dal servizio. Restano indagati, certo. Ma per la Suprema Corte nel carcere non ci fu “Nessun trattamento inumano” confermando la tesi difensiva degli avvocati Enrico Scolari, Mario Benni e Celere Spaziante. Il processo a Ivrea - Intanto, in tribunale a Ivrea è iniziato il processo avocato dalla procura Generale di Torino per le presunte botte avvenute in quel carcere tra il 2015 e il 2016. Per quattro agenti della penitenziaria il giudice Edoardo Scanavino ha pronunciato la sentenza di assoluzione, a processo con 15 colleghi. Imputati per falso, escono dal processo perché non è stata trovata la frase nelle relazioni di servizio agli atti. Per altri, le lesioni sono andate prescritte e un’accusa di tortura è stata derubricata in lesioni. Reggio Emilia. Tortura nel carcere, la pm: “Agli agenti 46 anni di pena complessivi” di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 novembre 2024 Condanne fino a cinque anni e otto mesi di reclusione, per alcuni dei dieci agenti di Polizia penitenziaria del carcere di Reggio Emilia accusati a vario titolo di tortura, lesioni e falso. È quanto richiesto dalla pm Maria Rita Pantani, al termine di quattro ore di requisitoria, nel processo ai poliziotti accusati del pestaggio di un detenuto tunisino avvenuto il 3 aprile 2023 nei corridoi del penitenziario e nella sua cella. Le prove a loro carico sono contenute nei video registrati dalle telecamere interne al carcere che l’avvocato Luca Sebastiani è riuscito a salvare. Il video choc è stato mostrato durante la requisitoria nell’udienza di ieri nell’aula del Tribunale di Reggio Emilia dove si celebra il processo in rito abbreviato - richiesto dagli imputati - davanti al Gup Silvia Guareschi. I frame immortalano l’uomo incappucciato con una federa bianca stretta al collo e trascinato da un gruppo di agenti che lo colpiscono ripetutamente. Denudato, sgambettato, picchiato con calci e pugni e, una volta a terra ammanettato, calpestato. Un’altra inquadratura riprende il detenuto tornato in cella, di nuovo picchiato e lasciato nudo dalla cintola in giù per oltre un’ora, malgrado fosse ferito e sanguinante. “Un’azione brutale, punitiva preordinata, di violenza assolutamente gratuita”, l’ha definita la pm Pantani che ha anche spiegato come i poliziotti accusati abbiano cercato di costruirsi una linea difensiva inventando il ritrovamento di lamette tra gli effetti personali del detenuto. In particolare per uno dei dieci poliziotti, accusato di tortura, lesioni e falso, la pubblica accusa ha chiesto cinque anni e otto mesi di reclusione. Per altri sette agenti accusati di tortura e lesioni la pena richiesta è di cinque anni mentre la pm ha chiesto due anni e otto mesi per altri due poliziotti penitenziari che rispondono solo di falso ideologico. Stralciata la posizione di altri 4 agenti, non imputati in questo processo che vede anche l’associazione Antigone tra le parti civili. Il detenuto, tunisino di 40 anni, ha ormai pochi mesi di carcere da scontare ancora dei tre anni di reclusione a cui è stato condannato per reati legati allo spaccio. L’uomo, lasciato per oltre un’ora in cella, ha riferito di essersi ferito con dei frammenti di un lavandino fino a inondare il corridoio di sangue, per richiamare l’attenzione del medico che lo ha soccorso. Il giorno dopo ha chiamato il suo avvocato riferendogli l’accaduto e la rapidità di intervento ha permesso di salvare le immagini. Reggio Emilia. Tortura in carcere, video choc in aula: chieste condanne fino a 5 anni e 8 mesi di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 26 novembre 2024 Il pubblico ministero ha descritto un’azione “brutale, punitiva e preordinata”. Il detenuto fu incappucciato, denudato e picchiato con calci e pugni, anche quando era a terra. Il filmato delle telecamere interne ha mostrato la violenza inaudita. Dieci agenti di Polizia penitenziaria sono imputati nel processo sul pestaggio, subito da un detenuto in carcere a Reggio Emilia, il 3 aprile 2023. Al termine di una requisitoria durata quattro ore, il pubblico ministero Maria Rita Pantani ha formulato le richieste di pena per i dieci agenti della polizia penitenziaria accusati a vario titolo dei reati di tortura e lesioni verso un detenuto tunisino, oggi 44enne, che allora si trovava nel carcere della Pulce, oltreché di falso nelle relazioni riguardanti l’episodio contestato, avvenuto il 3 aprile 2023, vicenda anticipata dal Carlino. Tutti quanti hanno scelto il rito abbreviato, che permette lo sconto di un terzo nel caso di condanna. Stamattina nell’udienza preliminare in corso davanti al giudice Silvia Guareschi, il pm Pantani ha chiesto la pena più pesante, 5 anni e 8 mesi, per un 46enne viceispettore della polizia penitenziaria, che deve rispondere di tutte e tre le accuse. Per altri sette agenti sono stati invece domandati 5 anni di condanna. Richiesta più lieve, 2 anni e 4 mesi, per un viceispettore 53enne e un assistente capo 40enne che sono accusati esclusivamente di falso nelle relazioni. Nel descrivere le condotte, il pm ha parlato di “azione brutale, punitiva e preordinata, di violenza assolutamente gratuita”. In aula è stato mostrato e ripercorso il video delle telecamere interne. Secondo la ricostruzione accusatoria, il detenuto uscì dalla stanza del direttore dopo essere stato sanzionato per condotte che violavano il regolamento del carcere. Fu incappucciato con una federa stretta al collo, sgambettato, denudato e picchiato con calci e pugni, anche quando era in terra, e calpestato. Poi fu portato in cella di isolamento, nuovamente picchiato e lasciato nudo dalla cintola in giù per oltre un’ora, malgrado si fosse autolesionato e sanguinasse. Nel pomeriggio si proseguirà con le discussioni delle parti civili: il detenuto è assistito dall’avvocato Luca Sebastiani; il Garante nazionale dei detenuti (avvocato Michele Passione) e quello regionale (avvocato Daniele Vicoli); le associazioni per la tutela di chi si trova in carcere, ovvero Antigone (avvocato Simona Filippi) e Yairaiha (avvocato Vito Daniele Cimiotta). Sassari. Inferno a Bancali per un detenuto, la Garante: “Interventi urgenti, non si può aspettare” di Marcello Zasso sassarioggi.it, 26 novembre 2024 La Garante dei detenuti ha già segnalato i gravi problemi di salute di un ospite di Bancali. “Quando l’ho visto, sono rimasta impressionata”, la Garante dei detenuti ha già segnalato invano i problemi di un uomo a Bancali. In cella da un anno, con altri tre da affrontare, c’è un padre di famiglia con un bozzo in testa che continua a crescere. La moglie ha lanciato l’allarme sulle sue condizioni perché il dolore insopportabile l’ha spinto a tentare il suicidio. Non un gesto simbolico per attirare l’attenzione: è stato rianimato e salvato per miracolo. “L’ho incontrato e mi ha spiegato che quel bozzo cresce e si riempie di liquido pure come muove il capo. Ha sangue nell’occhio e la sua condizione è drammatica”, spiega Irene Testa, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. “Avevo già segnalato il suo caso, anche al Garante comunale, ma la situazione nel carcere di Bancali è drammatica”. Questo detenuto aspetta di essere operato in un periodo di grande crisi e liste d’attesa per la sanità sarda. “Ma dal carcere non può certo ricorrere a cure private o affrontare la sofferenza, può solo stare qui e aspettare”. Non è di certo l’unico caso di chi si trova in cella con gravi problemi di salute. “C’è un altro detenuto che è entrato a Bancali con le sue gambe e, dopo oltre un anno che aspetta l’intervento, ora si muove in sedia a rotelle - spiega Irene Testa -. Sono situazioni insostenibili”. Le segnalazioni si rivelano vane, ma c’è una novità che potrebbe smuovere le acque. “Da un po’ di tempo esiste l’Osservatorio sulla sanità penitenziaria in Sardegna, ma mancava la figura del coordinatore - rivela la Garante regionale dei detenuti -. Ora è appena stato nominato e spero che possa mettere mano alle questioni più urgenti”. Perugia. Un corso di cucina per i detenuti promosso dalla cooperativa Frontiera Lavoro di Lara De Luna ilgusto.it, 26 novembre 2024 “Insegniamo loro non solo un lavoro, ma li accompagniamo verso un reinserimento alla vita”. Sono parole intense quelle con cui Ada Stefani del ristorante perugino Ada Gourmet, racconta un progetto a cui ha aderito in collaborazione con la cooperativa sociale Frontiera Lavoro: un corso di cucina con finalità di reinserimento lavorativo dedicato ai detenuti del Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia. Un corso giunto alla sua ottava edizione che ha come focus quella che è una delle sfide più importanti della società: rieducare e riposizionare nella vita civile un detenuto che ha terminato il suo percorso. “È un progetto in essere da molti anni - spiega la chef - la cooperativa Frontiera Lavoro si impegna da tempo, nell’ambito delle realtà carcerarie, con diverse tipologie di corsi e io sono onorata di far parte di questo progetto. Lavoro con loro da tre anni e mi sono immediatamente innamorata di questo progetto: utilizzare il mio lavoro per un qualcosa di così importante come aiutare una persona detenuta a cambiare - o provare a - il proprio destino, è dopo i miei figli la cosa più bella che sento di aver fatto nella vita”. Corsi di cucina completi per 10 allievi all’anno, che non solo forniscono competenze tecniche spendibili all’esterno, ma diventano quasi delle terapie dell’anima. “Certo, cerchiamo di impartire loro le basi della cucina attraverso una serie di lezioni, ma non è solo questo. Per quanto mi riguarda provo a entrare in sintonia con loro con una grande normalità, oltre quelli che sono i doveri di un insegnante. Ovviamente sono tutte situazioni di vita molto particolari (i detenuti che possono accedere ai corsi sono accuratamente selezionati dai responsabili del progetto, ndr), quelle che portano all’interno della cucina, ma provo a rapportarmi con loro come faccio ogni giorno con i ragazzi della mia brigata, di trasmettergli la mia passione per questo lavoro che è duro, non glielo nascondo, ma anche bellissimo”. Firenze. Prevenzione dei tumori in carcere, screening per detenuti e personale penitenziario ansa.it, 26 novembre 2024 Unità mobile di Ispro a Sollicciano per 4 giorni. Una delle unità mobili di Ispro, l’istituto per lo studio, la prevenzione e la rete oncologica in Toscana, si trova da oggi, lunedì 25 novembre, al carcere di Sollicciano, a Firenze, e vi rimarrà per quattro giorni, fino al 29 novembre per promuovere attività di prevenzione contro i tumori. L’iniziativa, spiega la Regione Toscana in una nota, costituisce un progetto pilota promosso dalla Regione e coordinato da Ispro e Asl Toscana Centro e si inserisce all’interno della manifestazione La Toscana delle donne. La giornata di avvio è stata accompagnata da un momento divulgativo, con professionisti sanitari, dedicato alla prevenzione oncologica. È la prima di iniziative analoghe che in futuro saranno replicate in altri istituti penitenziari, accompagnate anche in quel caso da momenti di sensibilizzazione. Durante i quattro giorni di permanenza saranno fatte mammografie per le detenute, le poliziotte e altro personale del penitenziario. In Toscana gli screening gratuiti per il tumore alla mammella sono riservati alle donne tra 45 e 74 anni, cinque anni prima e cinque anni dopo della copertura nazionale. A Sollicciano sono circa 20 le detenute che potranno avvalersi dell’opportunità e un’altra decina tra le guardie carcerarie. Del laboratorio mobile di Ispro nel carcere si potrà approfittare anche per gli screening per il tumore al colon retto, con il ritiro delle provette del campione di feci per la ricerca di sangue occulto. Gli esami, da effettuarsi ogni due anni, sono offerti a tutti i toscani tra 50 e 69 anni. “La sanità non è fatta solo di cura ed assistenza quando una persona si ammala. Importantissima - sottolinea il presidente Eugenio Giani - è la prevenzione, quella primaria che grazie agli stili di vita riduce i rischi di ammalarsi, e quella secondaria offerta dagli screening, che in Toscana abbiamo allargato ad ulteriori fasce di popolazione rispetto a livelli di assistenza nazionali”. “La sanità pubblica che vogliamo è quella che non lascia indietro nessuno - evidenzia l’assessore al diritto alla salute, Simone Bezzini. È questa la funzione prima di un sistema sanitario universalistico che, come in questo caso, si prende cura anche di fasce di popolazione a volte dimenticate come i detenuti”. Lucera (Fg). La violenza contro le donne “fuori” dal carcere di Riccardo Zingaro luceraweb.eu, 26 novembre 2024 Il carcere è già di per sé un luogo particolare, e nella speciale tipologia quello di Lucera lo è ancora di più, perché la struttura da qualche anno è per buona parte destinata agli autori di reati legati ai maltrattamenti o alle condotte anomale di natura sessuale. È quindi evidente che la Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne assuma in Piazza Tribunali un significato decisamente straordinario. Ma il lavoro di recupero, sensibilizzazione e valorizzazione dei reclusi che viene svolto al suo interno stamattina lo si può vedere anche senza entrarci, perché davanti alla porta sono stati posti dei simboli che intendono quindi dimostrare adesione e impegno sul tema, con l’apposizione di palloncini rossi e un paio di scarpette dello stesso colore, ormai emblema riconosciuto della ricorrenza e di tutte le relative manifestazioni sul tema. E alcuni palloncini sono stati legati anche a una seggiola posta nel corridoio di una delle sezioni del penitenziario, talmente vistosa che è impossibile possa essere ignorata da chiunque passi nelle vicinanze, a partire dagli stessi detenuti che stanno facendo un percorso di reinserimento e riavvicinamento alla società proprio trattando questi argomenti. Lo conferma direttamente la direttrice, Immacolata Mannarella: “Come casa circondariale locale e dunque come operatori e detenuti appartenenti alla comunità - ha spiegato - anche noi desideriamo far conoscere le attività che vengono svolte all’interno dell’istituto per contrastare la violenza contro le donne, sperando di dare il senso del nostro contributo all’impegno collettivo sulla questione. È un contributo doveroso per il nostro mandato istituzionale alla rieducazione, ma anche una sollecitudine sentita e vissuta come apporto di cittadini e professionisti alla società civile. Grazie al progetto denominato ‘Uomini Oltre La Violenza’, gestito in collaborazione con l’Associazione ‘Impegno Donna’ di Foggia e finanziato per tre anni dal Ministero della Giustizia, agli autori di reati contro le donne vengono offerti spazi e tempi di riflessione per decostruire ogni forma di negazione o giustificazione di tali condotte. Nello stesso tempo c’è la possibilità di incrementare le proprie capacità genitoriali onde interrompere, se possibile, la trasmissione verso i figli di quella stessa violenza, e infine si possono acquisire strumenti di gestione emotiva, in particolare della rabbia, anche per riconoscere le conseguenze dei propri comportamenti e assumerne la responsabilità. Anche così si può raggiungere consapevolezza sugli elementi culturali che supportano la violenza. Nell’arco della detenzione sono inoltre varie le occasioni nelle quali si torna sugli agiti violenti contro le donne, da parte di più professionisti, in funzione rieducativa. L’obiettivo è evidentemente quello di prevenire le recidive, comunque alto e difficilissimo da raggiungere - ha concluso - ma ci sembra importante condividere il nostro lavoro e quello degli operatori, e segnalare che passi avanti sono possibili, e ce ne sono stati in molti dei destinatari, tutti aderenti volontariamente alle iniziative offerte, con cui viene assunta nuova consapevolezza culturale e sociale della persona e dell’impatto che ha in caso di reati. Per noi è fondamentale e qualificante per la quotidianità di un presidio nel quale operiamo”. Roma. Il Garante Anastasìa al convegno SEAC sui 50 anni dell’Ordinamento penitenziario garantedetenutilazio.it, 26 novembre 2024 Carcere e Costituzione al centro del convegno del Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario- Seac. Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, è intervenuto alla seconda sessione del convegno del Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario- Seac, dedicata ai 50 anni dell’Ordinamento penitenziario, che si è svolta venerdì 22 novembre, nella sala convegni dell’Istituto suore Maria Bambina a Roma. Coordinata da Elisabetta Laganà del Seac Nazionale, alla seconda sessione del convegno, oltre al Garante Anastasìa sono intervenuti, tra gli altri, Francesco Cascini, pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Roma, Fabio Gianfilippi, il magistrato di sorveglianza di Terni che ha sollevato la questione che ha portato alla sentenza della Corte costituzionale sulla norma che impediva i colloqui riservati in carcere, e, da remoto, Francesco Maisto, ex presidente del tribunale di sorveglianza di Bologna e Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale per il comune di Milano. Anastasìa ha ricordato la legge 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario, rilevando, tra l’altro, che essa è arrivata tardi, con un disegno di costituzionalizzazione del sistema, quando i suoi presupposti di lì a poco sarebbero stati messi in discussione. “L’ordinamento penitenziario per come è stato disegnato - ha rimarcato Anastasìa - è basato su un’idea universalistica della dignità umana: tutte le persone hanno dignità e diritti, anche le persone che hanno commesso i reati più gravi. Invece, a partire dagli anni 70 negli Stati Uniti e a partire dagli anni ‘90 in Italia si afferma un’idea prima individualistica e poi meritocratica della dignità, che in qualche modo bisogna meritarsi, legata al modo e alla capacità di saper stare nella società”. “La riforma penitenziaria - ha proseguito Anastasìa - alla luce della Costituzione, immaginava il carcere come un presidio dello Stato sociale, con cui sostenere e recuperare persone indotte al reato dallo svantaggio sociale, economico e culturale. Quando invece il discorso cambia, e la dignità diventa meritocratica, è ovvio che sono i primi a perdere dignità sono quelli per i quali legalmente è stato certificato che non se lo meritano. È questa - ha concluso a tale proposito Anastasìa - la tensione che viviamo tuttora e vediamo esplicitarsi in proposte e pratiche incostituzionali”. Milano. “Il pianto degli eroi”, dentro Bollate attraverso il mito di Giuseppe Gariazzo Il Manifesto, 26 novembre 2024 Due registi, tre studenti, dieci detenuti, un gruppo di attrici professioniste. Sono le persone coinvolte nel progetto, nato all’interno dell’università Iulm di Milano, dal quale è scaturito “Il pianto degli eroi. L’Iliade e Le troiane nel carcere di Bollate”. Il film di Bruno Bigoni e Francesca Lolli, nuova tappa della loro collaborazione, è stato presentato nelle giornate di Filmmaker e ha rappresentato uno dei lavori più significativi. Per tanti aspetti. C’è una riflessione sulle guerre, sull’oggi, partendo dall’attualità del poema di Omero e della tragedia di Euripide. C’è il pre-testo di coinvolgere chi sta dentro e fuori un penitenziario in un’operazione collettiva, un laboratorio atto a stimolare uno scambio culturale, sociale, artistico. C’è - a tenere insieme tutto ciò - il film, diviso in due parti separate da una dissolvenza a nero che in realtà unisce. Girato in bianconero (tranne le inquadrature finali a colori e l’evidenziazione in rosso di un abito portato in giro come una reliquia), Il pianto degli eroi ci mostra inizialmente il set, i carcerati che parlano dei personaggi da loro interpretati, la troupe, i ciak, le prove, ci fa sentire le voci e le parole, intravedere gesti che poi prenderanno la scena. Un lungo incipit che ci immerge in quello scambio di visioni e pensieri, cui seguirà la “messa in scena” - perché Il pianto degli eroi è co-esistenza di cinema, teatro, performance, danza - dei due classici, una serie di “quadri”, negli spazi interni (con il corridoio come set ricorrente) e esterni (il cortile) del carcere, nei quali Bigoni e Lolli di-segnano, come sempre nei loro lavori contaminati, una con-vivenza sperimentale abitata da sguardi multipli, coraggiosa, che si addentra in un progetto e lo sviluppa in e con tante sfumature. Il corpo è centrale e crea una flagrante dualità fra quello maschile e quello femminile, un contrasto, una collisione che scatena azioni e emozioni, impulsi e reazioni con una macchina da presa che si muove, scruta, segue, agisce in mezzo e con quei due gruppi che per un periodo di tempo producono un sentire e una tensione costante. A vincere il concorso internazionale del festival (terminato domenica) è stato Favoriten di Ruth Beckermann, cineasta austriaca ben nota al pubblico di Filmmaker, che ha filmato per tre anni una classe della più grande scuola elementare di Vienna nel distretto che dà il titolo al film abitato soprattutto da lavoratori immigrati. Un film che parla di integrazione, difficoltà sociali, metodi d’apprendimento, fluido nel rendere il passare del tempo dove esistono sempre nuove relazioni da esplorare. Fra le tante proposte di Filmmaker vanno segnalate Meditazione per l’apocalisse di Irene Dorigotti e Il capitone di Camilla Salvatore. Quella di Dorigotti è una “scheggia” di pochi minuti, un viaggio in treno che termina in un lago ghiacciato di montagna, una “meditazione” sull’esserci e sul perdere, l’andare e il ricordare, l’attraversare spazi mettendoli in relazione spesso ricorrendo alla sovrimpressione, sull’imprimere uno sguardo mai chiuso, in-stabile, che trasmette l’imperfezione del transito. Salvatore, nel suo lungometraggio, compone un film che è il ritratto di tre donne a Napoli: Vanessa, che assume il ruolo principale, trans; la madre; l’amica trans Ciro. Avvolto da una luce ovunque calda (di Bianca Peruzzi), chiuso da una scena meravigliosa che è cinema, teatro, canto, parola, Il capitone è una danza sensoriale, una camminata fiera, la descrizione di una lotta per l’affermazione delle proprie identità, un dialogo “musicale” a tre, a due, solitario, attorno a un tavolo, su un terrazzo, dentro un’auto. Per uno stare al mondo individuale e collettivo. Rieti. Il Teatro Rigodon ha portato un corso di recitazione nel carcere di Lorenzo Quirini Il Messaggero, 26 novembre 2024 Un buon libro arricchisce sempre chi lo legge. È quello che è successo anche nella casa circondariale di Rieti, dove il Teatro Rigodon diretto da Alessandro Cavoli, ha portato un corso di recitazione partendo da “Le Cosmicomiche” libro di Italo Calvino uscito nel 1965. Così nasce una piccola magia tra i detenuti della struttura, che si sono impegnati per mesi nella creazione di uno spettacolo, partendo dagli spunti offerti dal libro: il risultato finale andrà in scena nel carcere, a porte chiuse, il prossimo 28 novembre. “Il processo creativo è stato interessante, bellissimo e gratificante mettere insieme quanto creato dai detenuti”. A raccontare l’esperienza è l’attrice e pedagoga Desiree Proietti Lupi, direttrice artistica del progetto nato in seguito al bando della Regione Lazio “Officine di Teatro Sociale”, per il terzo anno assegnato al Rigodon. Ben 35 detenuti, di età compresa tra i 22 e i 65 anni, hanno partecipato dando il loro contributo creativo nella recitazione, sotto la guida della stessa direttrice artistica e di Barbara Clementini; nella scenografia con gli esperti Arianna Scappa ed Emanuele Mancini e anche nella parte musicale, con le percussioni insegnate da Andrea di Pierro. Ciò che ne deriva è uno spettacolo corale e profondo, intitolato “Comiche e Cosmo - Una metafora dell’esistenza”, nel quale i detenuti hanno dato vita a scene nate da quelle che erano inizialmente delle improvvisazioni ispirate anche a fatti realmente accaduti nella vita degli “attori”, il tutto associato a spunti tematici offerti dall’opera di Calvino. “Alla base del nostro progetto c’è la volontà di far uscire dall’isolamento il sistema carcerario - commenta la direttrice artistica Proietti Lupi -; sempre senza dimenticare che i detenuti fanno parte della nostra comunità e che anche loro sono una responsabilità di tutti”. I preparativi per lo spettacolo sono agli sgoccioli, mentre dal Rigodon arrivano ulteriori novità: la compagnia reatina si è infatti aggiudicata il bando regionale per il Teatro Sociale anche per i prossimi 2 anni Cagliari. “La luna del pomeriggio”: uno spettacolo teatrale racconta la vita dei detenuti in AS sardegnaierioggidomani.com, 26 novembre 2024 Il 28 novembre al Teatro del Segno di Cagliari. Dare voce ai detenuti attraverso i loro testi. Ecco l’obbiettivo dello spettacolo “La luna del pomeriggio - Dal carcere al teatro” in scena il 28 novembre alle ore 20:30 al Teatro del Segno di Cagliari. La pièce, con la regia di Simone Gelsomino, è liberamente ispirata al libro “La luna del pomeriggio” a cura di Giovanni Gelsomino, che raccoglie i testi originali della popolazione detenuta della Casa di Reclusione ad Alta Sicurezza “Paolo Pittalis” di Nuchis. Come si misura il tempo in carcere? Come si dà valore ai luoghi, agli anni che passano, agli odori e ai sapori di una vita, all’immagine che abbiamo di noi stessi, alle colpe che ci portiamo dietro? Come distinguiamo la memoria su chi eravamo nella nostra vita precedente dai nuovi ricordi creati dalla nostra immaginazione, la realtà dal sogno? Si indagano le connessioni umane, il linguaggio che va oltre ciò che si può - deve - dire, si indaga il concetto di carcere come oggetto del quotidiano, come luogo senza tempo: un limbo, che ti tiene congelato per anni e poi ti ributta in strada, nella migliore delle ipotesi, identico a come sei entrato. Il compito di questo spettacolo non è giustificare o mistificare la figura del detenuto, ma piuttosto far sorgere dei dubbi nello spettatore e nella spettatrice: è quando ci scordiamo di ciò che è isolato e messo a margine che occorre riappropriarsene per capire e ricucire le ferite, perché “la luna di pomeriggio nessuno la guarda, ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento, dato che la sua esistenza è ancora in forse”. Grande impegno della compagnia è quello di dialogare con gli studenti attraverso gli incontri nelle sedi scolastiche i giorni precedenti allo spettacolo e con tre repliche in matinée dedicate, al termine delle quali ci sarà un breve confronto con il pubblico. In programma anche incontri con i gruppi scout AGESCI e il corso di Pedagogia Generale UniCa. Lo spettacolo, sostenuto dalla Fondazione Sardegna, vede sul palco Ignazio Chessa, Antonella Masala, Eliana Carboni, Claudio Dionisi, Fabio Masala, Lello Olivieri. Ha già maturato 20 repliche su territorio nazionale. Sondrio. “Uno sguardo da dentro”, il carcere visto attraverso l’occhio fotografico dei detenuti di Elisabetta Del Curto laprovinciaunicatv.it, 26 novembre 2024 Domenica mattina la presentazione della mostra “Uno sguardo da dentro, il carcere visto attraverso l’occhio fotografico dei detenuti” nei corridoi della casa circondariale di via Caimi, a Sondrio, trasformatisi per alcune ore in una vera e propria galleria d’arte, ma non solo, perché le 29 stampe fotografiche saranno visibili a tutti, giovedì pomeriggio, nella sede Enaip (Ente nazionale Acli di istruzione professionale) di Morbegno promotrice dell’iniziativa e la vorrebbe ospitare a palazzo Pretorio, a Sondrio, anche Maurizio Piasini, assessore comunale ai Servizi sociali. “É stato importante il momento di restituzione alla città dentro la casa circondariale del lavoro svolto da Enaip Morbegno su finanziamento di Pro Valtellina onlus - dice Andrea Donegà, direttore di Enaip Morbegno, Lecco e Monticello Brianza -, ma è solo l’inizio di un percorso che porterà la mostra nelle scuole e dentro le nostre comunità. Si è trattato di un lavoro meraviglioso e di una bellissima esperienza di vita per noi di Enaip, Brian Pace, Claudia Del Barba e Andrea Savi, per il docente del corso e Enaip Domiziano Lisignoli e, ultimi, ma non ultimi, i detenuti che vi hanno partecipato. Noi abbiamo appreso molto da loro e loro si sono impegnati a seguire il corso da 60 ore. Ringraziamo la struttura carceraria, il direttore, il comandante della Polizia penitenziaria, l’educatrice, gli agenti per aver supportato questa proposta e, ora, le fotografie giungeranno nella nostra scuola per essere esposte dalle 17 alle 19 di giovedì, con ingresso libero”. Crede molto in questo progetto Donegà ed Enaip tutta, di cui era presente, a Sondrio, domenica, anche Giovanni Colombo, direttore di Enaip Lombardia “anche perché - dice Donegà - siamo impegnati ogni giorno a far vivere a scuola la Costituzione che parla del dovere di contrastare le diseguaglianze e di vedere il carcere come luogo dove provare a rialzarsi dopo aver sbagliato, riprendersi in mano la vita e la dignità e questo percorso va incoraggiato”. Molto soddisfatte di aver appoggiato il progetto anche le referenti di Pro Valtellina onlus, Valeria Garozzo, consigliere, e Lucia Foppoli, segretario generale, presenti all’inaugurazione in via Caimi. “Conosciamo la realtà del carcere, per cui abbiamo potuto dare anche un parere tecnico al progetto e siamo contente di averlo sostenuto anche alla luce di questi risultati - ha detto Garozzo. Noi puntiamo a migliorare la vita e il benessere delle nostre comunità e in queste rientrano anche quelle carcerarie. É giusto favorire la valorizzazione della persona detenuta ai fini rieducativi e questo progetto ci sembra davvero riuscito”. Ed hanno lasciato l’area detentiva per giungere in corridoio e assistere all’esposizione anche i due unici corsisti ancora in carcere. “Per noi è stata una bella esperienza - hanno detto invitati dal loro docente Lisignoli - e abbiamo potuto capire, usando la macchina fotografica, che ci sono più punti di vista”. Anche per Lisignoli si è trattato di trasporre teoria e pratica in un ambiente del tutto nuovo, fuori dagli schemi “e non è stato facile anche per l’andirivieni continuo di detenuti, però, ce l’abbiamo fatta e sono molto soddisfatto”. Enaip ha in essere altri due momenti formativi ed altri ne seguiranno, mentre Maurizio Piasini, assessore in Comune a Sondrio, pure colpito dall’esposizione, ha dato la sua disponibilità ad ospitarla a Palazzo Pretorio, in città. Silvia Avallone: “Le parole vanno curate, gli slogan rendono infelici” di Piero Di Domenico Corriere della Sera, 26 novembre 2024 Bologna, la scrittrice e il dialogo con il linguista Antonelli: “Noi adulti siamo i primi a usare un linguaggio violento”. Alla scrittrice Silvia Avallone le parole sono da sempre molto care, come racconterà anche questa sera, martedì 26 novembre, alle ore 21 al Cubo Torre Unipol, in via Larga 6/b, in dialogo con il linguista Giuseppe Antonelli per “Le vie della parola. Conversazioni sull’italiano di oggi”. L’autrice del recente “Cuore nero” (Rizzoli), bolognese d’adozione, si concentrerà soprattutto sul ruolo delle parole nel romanzo. Avallone, immagino che partirà dalla sua esperienza di narratrice... “Infatti. Ci sono parole chiave in tutti i miei romanzi, quindi anche nell’ultimo. Per me è prezioso parlare del lessico, di aggettivi, sostantivi, verbi. Dobbiamo tornare a prestare grande attenzione alle parole”. In che senso? “Le usiamo in modo troppo frettoloso, violento, superficiale. Il linguaggio invece ha bisogno di essere curato, soppesato. Prendersi cura delle parole è come intraprendere un percorso di consapevolezza”. In “Cuore nero” l’istruzione appare come uno snodo cruciale. “È vero, c’è una forte riflessione sull’istruzione, l’educazione, ma questo è un terreno che prima di tutto richiede un impegno a noi adulti, che dobbiamo fare proposte, indicare letture. Perché se uno ha le parole potrà sviluppare più facilmente un pensiero, se non le ha rischia di rimanere soverchiato”. I modelli che propongono gli adulti sono così inefficaci? “Siamo noi i primi a usare un linguaggio violento, privo di rispetto verso gli altri. Così i ragazzi e le ragazze crescono dentro questa povertà, con poche parole e tanta solitudine nel linguaggio”. Lei ha anche tenuto laboratori nel carcere minorile del Pratello... “Con ragazzi che non hanno potuto scegliere cosa diventare, erano come in gabbia ancor prima di finire in una struttura di reclusione. Le loro sono storie che non si vedono, eppure bisogna accogliere le vicende degli altri, che altrimenti diventano invisibili”. Che cosa si può fare per provare a raccontarsi? “Intanto bisogna leggere, non ci sono molte altre strade, i libri ampliano l’orizzonte. Quindi si dovrebbe invogliare la passione per la lettura, coltivarla al meglio. Quando si dispone di tanti sinonimi per esprimere un concetto, si può iniziare a lavorare più in profondità, per esprimere la realtà che è sempre complessa. Gli slogan, gli stereotipi, ci rendono invece schiavi degli altri e infelici”. I personaggi del suo “Cuore nero” seguono questa strada? “Il protagonista, Bruno, è un maestro di scuola che le parole le insegna. È una persona che anche attraverso i suoi silenzi dà un peso alle parole. Emilia invece è un’adolescente finita in un carcere minorile, che usa un linguaggio diverso, molto più arrabbiato, ferito, disperato, anche per chiedere aiuto. Nei miei romanzi è più importante come i personaggi parlano che come vestono”. L’ascolto per lei sembra un aspetto decisivo... “La letteratura implica l’entrare nella vita degli altri e la vita reale richiede di rimanere connessi, di ascoltare, di non avere pregiudizi. Non rimanere sordi alle ingiustizie, questo rende la nostra vita sociale più solidale”. La violenza contro le donne non è un problema di sicurezza ma di cultura di Valeria Valente Il Domani, 26 novembre 2024 La violenza maschile contro le donne è un problema degli uomini che ricade sulle donne, le quali subiscono violenza proprio in ragione dei traguardi raggiunti. Siamo più colpite perché più libere. E non è un paradosso perché il patriarcato, superato in teoria dal 1975 con il nuovo diritto di famiglia, è la cultura della supremazia maschile sulle donne e incide ancora nella società, sulle relazioni affettive e di potere, sull’educazione. Si doveva arrivare al 25 novembre 2024, a un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin, per scoprire che in Italia per alcuni, specie al governo, il patriarcato non esiste. I nodi stanno dunque venendo al pettine, e lo sanno bene le manifestanti che anche quest’anno hanno riempito le piazze. Perché le donne vengono (ancora) maltrattate, violentate e uccise? Si sta facendo abbastanza contro la violenza maschile che la Convenzione di Istanbul definisce un “crimine contro l’umanità” e una lesione dei diritti fondamentali di più della metà della popolazione? La violenza maschile contro le donne è un problema degli uomini che ricade sulle donne, le quali subiscono violenza proprio in ragione dei traguardi raggiunti, della maggiore libertà economica e individuale, del fatto che hanno conquistato lo spazio per studiare, fare carriera, decidere se e quando avere figli, viaggiare. In sostanza, siamo più colpite perché più libere. E non è un paradosso perché il patriarcato, superato in teoria dal 1975 con il nuovo diritto di famiglia, è la cultura della supremazia maschile sulle donne e incide ancora nella società, sulle relazioni affettive e di potere, sull’educazione. Moltissimo è stato fatto, non siamo all’anno zero. Anche se qualcuno anche nel governo ancora nega, l’identikit del femminicida è ormai noto, così come le dinamiche dell’escalation, grazie anche alla Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio. In più del 70 per cento dei casi l’uomo che uccide ha le chiavi di casa: è un marito, un compagno, un fidanzato, un ex. Non si può più pensare che “i bravi ragazzi non lo fanno”, né che siano i migranti a uccidere (lo fanno, ma per lo più le loro partner). E se c’è un’incidenza maggiore degli immigrati per quanto attiene alla violenza sessuale, non è vero per gli altri reati cosiddetti di genere. Quindi Giorgia Meloni e Matteo Salvini non cerchino di trovare capri espiatori, perché la violenza contro le donne non è un tema di sicurezza ma di cultura. Che fare dunque? Le leggi ci sono e il sistema di protezione, centri antiviolenza e case rifugio, funziona, ma avrebbe bisogno di risorse in più. È una rivoluzione culturale, ma bisogna squarciare del tutto il velo dell’ipocrisia. Per prima cosa sui dati. Dice bene la professoressa Catherine D’Ignazio, “contare i femminicidi è un atto politico”. In una ridda di dati ufficiali e ufficiosi, aspettiamo ancora l’attuazione della legge sulle statistiche in materia di violenza, la 53/22, che approvammo all’unanimità e su cui si impegnò il governo Meloni. A che servono dati ufficiali, anche e soprattutto sui reati spia? A conoscere, ma anche calcolare il rischio e a fermare l’escalation prima che sia troppo tardi. Poi servono subito tre leggi, non si può più aspettare e agire in modo bipartisan è un imperativo categorico. Va istituito il reato di molestie sessuali (con le aggravanti dei luoghi di lavoro e di studio). È al Senato (tra i vari ddl, anche uno del Pd a mia prima firma). Avevamo l’impegno a portare il testo in Aula per il 25, ma c’è resistenza. Lo stesso alla Camera per la legge che considera stupro ogni atto sessuale carpito senza consenso. Infine una legge sulla promozione dell’educazione all’affettività. È arrivato poi il momento di interrogarsi sulla possibilità di introdurre nel codice penale il reato di femminicidio (oggi è un aggravante dell’omicidio). Contribuirebbe al necessario cambiamento culturale nominare il femminicidio dentro al Codice penale: perché uccidere una donna in quanto donna è un reato di matrice patriarcale o maschilista e ha dunque una sua specificità. La formazione e la specializzazione degli operatori, a partire dalle filiere della giustizia, della sanità, della scuola, della comunicazione devono diventare obbligatorie, per evitare la vittimizzazione secondaria, soprattutto nei tribunali ma non solo. Le docenti devono essere le esperte della rete antiviolenza, in cui le donne vengono aiutate da altre donne nei loro percorsi di fuoriuscita, proprio a partire dallo scardinamento degli stereotipi e dei pregiudizi di genere. L’educazione affettiva è un’idea. Vaga di Alice Dominese L’Espresso, 26 novembre 2024 Centotredici femminicidi dopo quello di Giulia Cecchettin, ciò che altrove fa parte della formazione, in Italia resta affidato a iniziative spontanee ed episodiche. Nulla di istituzionale. A un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin per mano dell’ex fidanzato Filippo Turetta e dall’uccisione di altre 113 donne dopo di lei, il dibattito sull’insegnamento dell’educazione affettiva nelle scuole italiane e? solo ripreso. L’11 novembre, due sindacati studenteschi, l’Unione degli universitari e la Rete degli studenti medi, hanno chiesto di ricordare Giulia Cecchettin nelle aule con un minuto di rumore rivolgendo un appello a introdurre “l’educazione sessuale, affettiva e al consenso in ogni scuola”. Perche?, spiegano: “La didattica che affrontiamo quotidianamente non ci garantisce degli spazi di discussione, cura e formazione per imparare a gestire al meglio i rapporti interpersonali e per affrontare in maniera serena il nostro rapporto con la sessualita?”. Assieme a Bulgaria, Lituania, Polonia, Romania e Ungheria, l’Italia e? tra i pochi Paesi in Europa dove l’educazione sessuale non e? obbligatoria. Non esiste attualmente una legge che permetta di inserire la materia nei programmi scolastici nazionali, ma le scuole, assieme alle associazioni del territorio, portano tra i banchi da alcuni anni operatrici dei centri antiviolenza, psicologi ed educatori per fare formazione sull’affettivita? a insegnanti, studenti e studentesse. La diffusione di queste iniziative dipende tuttavia dall’interesse dei singoli istituti e dalla loro disponibilita? a proporre attivita? di questo tipo. I circa 400 centri antiviolenza attivi in Italia sono in prima linea nel fornire attivita? educative e la richiesta di intervento da parte delle scuole e? in crescita, al punto che in alcuni casi c’e? difficolta? a rispondere a tutte. Lo racconta Celeste Costantino, vicepresidente della fondazione “Una nessuna centomila”, che da un anno e mezzo sostiene i centri antiviolenza nelle attivita? di contrasto alla violenza di genere nelle scuole. “Durante gli incontri si ragiona molto sul tema della gelosia, del controllo, su che cosa significa amore e che cosa non lo e?. Non e? tanto l’aspetto sessuale il focus che viene affrontato, quanto la gestione sentimentale delle relazioni, se e? giusto controllare il telefono, vestirsi in un certo modo e uscire liberamente senza il proprio fidanzato”, spiega Costantino. Ma la mancanza di una normativa che riconosca l’educazione affettiva come materia scolastica, definendone le caratteristiche e le modalita? di insegnamento, comporta diversi problemi, per esempio nello stabilire chi dovrebbe occuparsi di insegnarla. “Oggi ci avvaliamo delle operatrici dei centri antiviolenza e di chi educa alle differenze di genere - osserva Costantino - Nel resto d’Europa invece se ne occupano da tempo gli insegnanti e la formazione e? interna alle scuole”. Il ministero della Salute sta provando a colmare questa lacuna finanziando un progetto di educazione alla sessualità? in senso allargato. Avviato dall’Universita? di Pisa nel 2022 insieme alla Lega italiana per la lotta contro l’Aids, all’organizzazione per i diritti Lgbtq Arcigay, Caritas e Croce Rossa, tra gli altri, consiste in alcuni cicli di incontri nelle scuole medie e superiori. I laboratori coinvolgono anche i docenti e le famiglie e trattano argomenti come la gestione delle emozioni e delle relazioni, l’uguaglianza di genere e la prevenzione delle infezioni sessualmente trasmissibili. Anche in questo caso pero? la diffusione delle iniziative e? frammentata. Le attività? introdotte hanno riguardato finora Lombardia, Toscana, Lazio e Puglia con la volontà di raggiungere entro il prossimo anno anche Campania e Friuli. Se in Italia l’argomento e? in stallo e le attivita? formative vengono realizzate in modo non uniforme, a livello internazionale le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanita? sono chiare. L’educazione affettiva e sessuale o “educazione sessuale estensiva” dovrebbe essere insegnata fin da piccoli, orientata in base alle varie fasi dello sviluppo, e dovrebbe prediligere un approccio multidisciplinare, tenendo conto di conoscenze legate a salute pubblica, pedagogia, antropologia, sessuologia, pediatria e psicologia. Anche la Convenzione di Istanbul, il principale trattato internazionale sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne, sollecita gli Stati ad adottare un approccio olistico nelle scuole e da qualche anno ha riconosciuto l’importanza di integrare l’educazione digitale nel contrasto alla violenza online. A fine 2023, il ministro dell’Educazione Giuseppe Valditara ha proposto di creare gruppi di discussione sulla violenza di genere nelle scuole superiori, senza prevedere ore obbligatorie dedicate. Di questo piano non c’e? ancora traccia, ma di recente Gino Cecchettin, padre di Giulia, tramite la fondazione intitolata alla figlia uccisa ha rilanciato la proposta di istituire un’ora di educazione affettiva nelle scuole “per spiegare la differenza che c’e? tra amore e possesso, tra amore e odio”. Mentre si discute sull’implementazione della materia, in Italia viene commesso un femminicidio ogni tre giorni. La percezione degli stereotipi e della violenza e? tangibile. Secondo le ultime rilevazioni dell’Istat, il 19,7 per cento degli uomini e il 14,6 per cento delle intervistate pensano che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire. La tolleranza verso forme di aggressione fisica all’interno delle coppie diminuisce, ma il 2,3 per cento continua a ritenere accettabile che “un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata perche? ha flirtato con un altro uomo”. Quasi il doppio considera tollerabile che “in una coppia ci scappi uno schiaffo ogni tanto”. Tra i giovani, poi, il 10,2 per cento dichiara di accettare il controllo dell’uomo sulla comunicazione della partner. La dottrina di Meloni sulla violenza di genere: “La colpa è dei migranti” di Daniela Preziosi Il Domani, 26 novembre 2024 La presidente del Consiglio rilancia la tesi di Valditara e Salvini. Roccella annuncia un testo unico da scrivere entro l’8 marzo. Il governo e il parlamento illuminano le facciate delle loro sedi di luci color arancio per aderire alla campagna mondiale dell’Onu “Orange the World”; così è successo a Montecitorio e alla Farnesina. Nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, anche nei palazzi, oltreché nelle strade delle città dove sono tornate le giovani attiviste, si sono svolte decine di iniziative per rinnovare l’impegno, anche delle istituzioni, contro la violenza di genere. Lunedì è stato anche il giorno in cui Alessandro Impagnatiello, barista di Senago (Milano) è stato condannato in primo grado all’ergastolo per l’uccisione della compagna Giulia Tramontano. E il giorno in cui per Filippo Turetta, studente del padovano, reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin, è stata chiesta la stessa pena. Due giovani, bianchi, italiani. Una giornata come questa per la presidente del Consiglio è stata l’occasione giusta per un nuovo affondo contro gli immigrati. “Adesso verrò definita razzista”, premette in un’intervista rilasciata al settimanale Donna Moderna, “ma c’è un’incidenza maggiore, purtroppo, nei casi di violenza sessuale da parte di persone immigrate” soprattutto quelle arrivate “illegalmente, perché quando non hai niente si produce una degenerazione che può portare da ogni parte”. Quest’ultimo passaggio potrebbe suggerire qualche ragionamento sulle condizioni di marginalità, di stranieri o nativi: ma in realtà neanche questo avvicinerebbe la tesi sovranista ai dati reali. Il patriarcato è innocente - Per la premier non c’è un tema culturale, e generale, da affrontare: “C’è un lavoro soprattutto securitario, la dimensione culturale c’entra di meno. Bisogna garantire la presenza delle forze dell’ordine, garantire che ci siano i reati, garantire che quando qualcuno commette un reato paghi per quel reato, che è un altro tema che abbiamo in Italia, e c’è un tema di contrasto all’immigrazione di massa su cui il governo si spende”. È la convinzione della destra italiana. Pochi giorni fa l’aveva già espressa il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, scegliendo anche lui un’occasione speciale, cioè specialmente inadatta: alla Camera, il varo della Fondazione dedicata a Giulia Cecchettin. A stretto giro la premier gli aveva dato ragione. Lunedì Meloni ha scolpito meglio il concetto: la violenza sulle donne è “il tema della sicurezza, soprattutto nelle nostre città”, ed è anche “sempre più evidente”. Poche ore prima che venisse resa pubblica l’intervista a Donna Moderna, il suo vice Matteo Salvini aveva scritto un lungo post su Facebook: “Difendere le ragazze significa anche riconoscere l’inevitabile e crescente incidenza degli aggressori stranieri, un dato preoccupante che non sminuisce in alcun modo i casi italiani ma evidenzia le pericolose conseguenze di un’immigrazione incontrollata, spesso proveniente da paesi che non condividono i principi e i valori occidentali”. Segue elenco di femminicidi, ma scelti ad hoc per dimostrare la colpevolezza dell’”uomo nero”: i selezionati sono più stranieri che italiani. Gli stranieri sono nominati per la loro provenienza, i “fidanzati” italiani no. A meno che la donna in questione non sia stata uccisa, come Sharon Verzeni, “da un italiano” ma “di origini maliane”. I dati però non confermano le tesi governative. Già dopo le parole di Valditara, a cui erano seguite dolorose dissociazioni dalla famiglia Cecchettin, Pagella politica aveva tentato un fact-checking. Esercizio non semplice. Nel caso dei femminicidi, perché in Italia non esiste un database “ufficiale” che annoti e indicizzi le caratteristiche degli omicidi di donne. E nel caso della violenza ufficiale, perché le denunce non rappresentano l’interezza, presumibile ma sconosciuta, del dato reale. I conti non tornano - In ogni caso secondo Pagella politica, intanto non c’è un “incremento di fenomeni di violenza sessuale”, come affermato dal ministro. Per l’Istat nel 2023 - il dato disponibile più recente - sono state denunciate 6.231 violenze sessuali, l’anno prima 6.293. Sempre secondo lo stesso istituto, nel 2022 gli italiani denunciati per stupro sono mille in più rispetto agli stranieri (3.340 contro 2.435). L’unico numero appena riconducibile alle parole della premier e dei suoi ministri è la percentuale di stranieri denunciati o arrestati: il 42,2 per cento, in aumento nell’ultimo periodo in analisi, ma con andamento altalenante negli anni precedenti. Quasi il 60 per cento dei denunciati o arrestati, dunque, è italiano. Ma nella narrazione di palazzo Chigi la realtà reale, o quella ricostruibile, non rileva. L’obiettivo è spostare il fuoco dell’attenzione sugli immigrati; rimuovere il fatto che il fenomeno della violenza contro le donne attraversa trasversalmente tutte le classi sociali; e, come corollario, negare la sopravvivenza del “patriarcato”, abolito per legge secondo Valditara. “La violenza di genere nel nostro paese è un fenomeno strutturale, affonda le radici nella cultura patriarcale di cui è ancora imbevuta la nostra società. Il patriarcato lo nega solo chi ha il privilegio di poter fingere di non vederlo”, ha detto la segretaria del Pd Elly Schlein. Ma sono molte le democratiche che accusano Meloni e di andare a caccia di un capro espiatorio per allontanare una realtà che piace poco ai sovranisti: e cioè che, sono ancora numeri, la stragrande maggioranza delle violenze e dei femminicidi si consumano in famiglia e in contesti affettivi, bianchi e nostrani. Numeri “allarmanti”, per il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “è un comportamento che non trova giustificazioni, radicato in disuguaglianze, stereotipi di genere e culture che tollerano o minimizzano gli abusi, che si verificano spesso”, appunto, “anche in ambito familiare”. Per il presidente non si è fatto abbastanza. La ministra della Famiglia Eugenia Roccella annuncia “un tavolo di lavoro per redigere un testo unico contro la violenza sulle donne”, da consegnare l’8 marzo, “un passo molto innovativo”. Non ci saranno “innovazioni di tipo legislativo” ma “disposizioni su tutti i fronti in cui si esprime la violenza”. “Le donne italiane non possono davvero scegliere per colpa delle scelte della politica” Ristretti Orizzonti, 26 novembre 2024 Filomena Gallo (Associazione Coscioni): “Oggi, più che mai, è fondamentale chiedere con forza l’aggiornamento delle leggi italiane che riguardano la libera scelta, il diritto alla salute e i diritti riproduttivi. Le donne non possono più subire una discriminazione che ne limita la libertà di scelta in ogni fase della vita. L’Italia deve rispettare le donne nelle loro scelte, non poggiarsi sul loro tempo e sul loro lavoro di cura a causa di politiche inadeguate di welfare, garantire l’accesso alla contraccezione gratuita, eliminare gli ultimi divieti sulla PMA (legge 40) e regolare la gravidanza per altri in una forma solidale. È tempo di un cambiamento che rispetti pienamente i diritti fondamentali di tutte le donne”. Accanto alla violenza fisica, c’è una violenza silenziosa e meno visibile che si manifesta nella negazione e nella limitazione dei diritti fondamentali delle donne: dalla libertà di scegliere sul proprio corpo alla possibilità di costruire una famiglia. La condizione delle donne in Italia è segnata da leggi inadeguate, restrizioni arbitrarie e divieti ideologici, che impediscono loro di esercitare pienamente la propria autodeterminazione. Aborto: un diritto negato dalle strutture - Nonostante la legge 194 sia in vigore da oltre 40 anni, l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) non è garantito in modo uniforme. Dati vecchi (gli ultimi definitivi sono del 2021) e per media regionale non permettono di capire davvero com’è applicata la 194 e dove sarebbe necessario intervenire per migliorare il servizio di IVG. Le ultime risposte (Mai Dati 2 saranno pubblicati lunedì 25 novembre) alla richiesta di dati per struttura evidenzia, ancora una volta, che: non è chiara l’importanza dei dati dettagliati, quello che sarebbe un diritto (cioè l’accesso alla informazione) è garantito in modo non uniforme, manca la volontà politica di rendere più facile un diritto e per evitare che rimanga solo sulla carta. Stando a un’indagine commissionata da Associazione Luca Coscioni a SWG il 55% degli italiani chiede di aggiornare la legge, agevolando l’aborto farmacologico e consentendo l’autosomministrazione dei farmaci a domicilio, una prassi già adottata in molti Paesi avanzati. L’accesso alla contraccezione gratuita, fondamentale per prevenire gravidanze indesiderate, è sostenuto dal 35% della popolazione, ma resta ancora largamente inattuato. Fecondazione assistita: persone singole e coppie discriminate - La legge 40 continua a escludere le donne singole e le coppie dello stesso sesso dall’accesso alla procreazione medicalmente assistita (PMA), un divieto ingiusto e discriminatorio. Un divieto che è anche impopolare, visto che solo il 16% degli italiani (dati SWG 2024) si oppone a questa possibilità. Il tema sarà affrontato presto dalla Corte costituzionale, che deciderà sul ricorso presentato da Evita, donna singola che a causa del divieto della legge 40 non può accedere alla PMA. Gravidanza per altri: cittadini italiani a rischio - Sono già oltre 50 le coppie italiane che si sono rivolte al team legale dell’Associazione Luca Coscioni preoccupate per le conseguenze della nuova legge che estende la punibilità anche per i cittadini italiani che vanno in un altro paese e rispettano le leggi di quel paese. Coppie eterosessuali con donne che non possono portare avanti una gravidanza per gravi motivi di salute e che verranno trattate come criminali, coinvolte in procedimenti penali che metteranno a rischio soprattutto il futuro dei bambini, allontanati dalle proprie famiglie. Coppie di uomini o persone singole che vogliono un figlio. Migranti. Il decreto flussi a sorpresa torna in Commissione. E il Governo pone la fiducia di Valentina Stella Il Dubbio, 26 novembre 2024 “La gatta frettolosa fece i gattini ciechi” dice il famoso proverbio napoletano che si addice perfettamente alla maggioranza di Governo. Incredibilmente ieri, infatti, il decreto flussi, dopo essere sbarcato nell’Aula della Camera, già con una compressione dei tempi di discussione nella Commissione Affari costituzionali, è tornato indietro proprio su richiesta del presidente della Prima di Montecitorio, Nazario Pagano: “purtroppo è emersa l’esigenza di adeguare la disposizione transitoria di cui all’articolo 19 alla luce delle modifiche introdotte in sede referente al Capo IV del testo medesimo”. In pratica si sono scordati di prevedere la norma transitoria che concede alle Corti di appello civili 30 giorni, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, per adeguarsi al fatto che saranno loro, e non più le sezioni immigrazione dei tribunali, ad occuparsi dei ricorsi contro le convalide dei trattenimenti dei migranti. Modifica che era stata introdotta con un emendamento della relatrice di Fratelli d’Italia Sara Kelany, probabilmente su impulso del Viminale. Ancora non si comprende bene se la norma sarà retroattiva. Il pasticcio legislativo è stato poi risolto quindi con un emendamento del deputato di Fratelli d’Italia, Alessandro Urzì, recepito in Commissione. Secondo quanto riferito dall’Agi dietro questo mutamento repentino ci sarebbe una moral suasion del Colle che avrebbe informalmente sostenuto la richiesta dei presidenti delle Corti d’Appello che con una lettera al Capo della Stato e alla stessa premier aveva lanciato l’allarme in merito all’aggravio che ricadrà sui loro uffici. Comunque le tutte le opposizioni - Pd, M5S, Avs, + Europa - hanno abbandonato la discussione in Commissione per protesta. “Il rinvio in commissione - ha detto Simona Bonafè, capogruppo democratica in Commissione Affari Costituzionali - evidenzia il caos normativo generato dal governo nel tentativo di difendere il protocollo con l’Albania sull’immigrazione. Si è trattato dell’ennesima forzatura su un decreto nato male, dove è stato inserito come innesto il provvedimento ‘ paesi sicuri’ già in discussione al Senato. Le norme intervengono in modo disordinato sull’organizzazione della giustizia, sottraendo alle sezioni speciali immigrazione dei tribunali competenze rilevanti per attribuirle alle Corti d’Appello, già sovraccariche”. Hanno aggiunto Enrica Alifano e Alfonso Colucci del M5S: “Di fronte a iniziative legislative di tale importanza serve evidentemente un serio approfondimento e garantire alle opposizioni la possibilità di presentare sub- emendamenti e discuterli nel merito. Se pensano di procedere con gravissimi strappi che annullano le corrette procedure democratiche, faranno da soli”. “Maggioranza e governo - ha dichiarato altresì il deputato Riccardo Magi di + Europa - sono in confusione sul decreto flussi e la loro confusione si riflette nelle norme raffazzonate che approvano, salvo poi cercare di uscirne comprimendo le funzioni parlamentari. Pretendono di avere un canale normativo sempre aperto sull’immigrazione e sbagliano. Non è possibile continuare a lavorare così, non ci sono le condizioni e abbandoniamo lavori in commissione”. Mentre, al contrario, Urzì ha provato a sminare: “si tratta di un emendamento quasi formale. Non posso che ritenere strumentale questa levata di scudi da parte delle opposizioni, finalizzata a gettare ancora una volta discredito sulla legge”. Dopo la bagarre, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, a nome del governo, ha posto in Aula la questione di fiducia sul provvedimento. Oggi alle 16 avranno inizio le dichiarazioni di voto, a seguire le votazioni per appello nominale a partire dalle 17.45. Non si esclude una seduta notturna. Il via libera finale potrebbe arrivare domattina. C’è infatti necessità che il dl, all’interno del quale è confluito anche il dl Paesi sicuri, venga approvato quanto prima per passare poi al Senato. Va convertito entro il 10 dicembre. Appunto perché occorre velocizzare i tempi, ieri la relatrice Kelany non aveva illustrato neanche tutto l’articolato, rimandando ad una relazione scritta. La parola era passata poi alla sottosegretaria all’Interno Wanda Ferro per la quale “l’appello dei presidenti delle corti d’appello e dell’Associazione nazionale magistrati è stato frutto di una lettura poco attenta” e per cui “l’interpretazione della sentenza del 4 ottobre della Corte europea fatta dai giudici italiani nei provvedimenti di mancata convalida dei trattenimenti dei migranti nei centri in Albania, che non trova riscontro in altri Paesi europei, vedi ad esempio la Germania che rimpatria anche in Afghanistan, rischia di comportare la paralisi del meccanismo dei rimpatri, perché non ci sarebbero più Paesi considerati sicuri”. Peccato però che la Germania non abbia designato l’Afghanistan come Paese sicuro. Insomma, la confusione regna dappertutto. Migranti. Più tempo alle Corti d’appello. L’input del Quirinale di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 26 novembre 2024 Fiducia sul decreto Flussi, protestano le opposizioni. Modificato all’ultimo momento utile dal governo, su segnalazione del Quirinale, il decreto Flussi. Rinviato ad altra data, in Consiglio dei ministri, il decreto Giustizia. L’Anm denuncia: “Il magistrato rischia di non poter parlare più di niente”. Ma il ministro Carlo Nordio insiste: “Se commenta un settore non si pronunci”. È ancora alta tensione sulla giustizia. E lo scontro si allarga alla coalizione di governo. Ieri l’assenza di vari ministri è stata utilizzata da Forza Italia per ottenere il rinvio dell’esame del decreto Giustizia che contiene anche la norma anti-dossieraggi: “C’è qualcosa da chiarire sul potere di impulso e di coordinamento affidato di nuovo all’Antimafia. Non vogliamo più casi Striano”, ha spiegato Maurizio Gasparri. Ma secondo alcune fonti il rinvio era mirato anche a non infiammare troppo le polemiche in vista dell’arrivo in aula della madre di tutte le battaglie forziste: la separazione delle carriere calendarizzata per venerdì a Montecitorio. Per farcela dovrebbe avere il via libera della Commissione Affari costituzionali entro domani. Altra accelerata. Altre tensioni. Ieri sono culminate nell’uscita delle opposizioni, quando sul decreto Flussi già in aula, sul quale il governo ha posto la fiducia, è stato presentato in corner l’ultimo emendamento. “L’ennesima forzatura su un decreto nato male”, ha protestato il Pd. In realtà la norma aggiunta dal governo è stata suggerita dal Colle. Motivi tecnici, nessun aut aut politico sottolineano dal Quirinale. Anche se di “buon senso” è stata ritenuta dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, la richiesta venuta proprio dalle Corti d’appello di concedere un mese in più di tempo per organizzare il lavoro, visto che il decreto Flussi trasferisce a loro le competenze delle convalide dei trattenimenti dei richiedenti asilo: novità voluta dal governo per bypassare le sezioni immigrazione dei Tribunali che hanno finora sempre bocciato le convalide dei migranti portati in Albania. Da lì la retromarcia del governo, che con la sottosegretaria all’Interno Wanda Ferro aveva ritenuto “frutto di una lettura poco attenta” l’allarme delle Corti. Aggiunto anche l’ordine del giorno di Paolo Emilio Russo (FI) che — a proposito della possibilità per la polizia di accedere ai dispositivi elettronici dei migranti in caso di mancata collaborazione all’identificazione — invita a maggior cautela: “La libertà di comunicazione rappresentano un diritto dell’uomo in quanto tale, prescindendo dalla qualifica di cittadino, straniero o apolide. Serve un bilanciamento tra la sicurezza e il diritto alla riservatezza delle comunicazioni costituzionalmente garantito”. Oggi si vota, ma il ministro della Giustizia Carlo Nordio dice che “la questione migranti va risolta a livello europeo”. Dal Guardasigilli arriva anche una critica al processo Open Arms a carico di Matteo Salvini: “C’è un’anomalia. A fronte di tre casi identici, in uno non c’è stata autorizzazione a procedere, in un altro c’è stata, nel terzo è stato assolto”. E poi aggiunge: “C’è una legge costituzionale che dice che se un reato, ammesso che si tratti di un reato, fosse commesso nell’interesse dello Stato l’autorizzazione a procedere non può essere concessa”. E conclude: difficile pensare che, ammesso vi sia reato, “sia stato commesso nell’interesse di Salvini e non di quello che in quel momento si pensava fosse l’interesse dello Stato”. Migranti. Rapporto choc del Garante sul Cpr di Caltanissetta: “Accampati dietro al cemento” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 novembre 2024 Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha reso pubblico un rapporto dettagliato sulla visita effettuata l’11 maggio scorso presso il Centro di Permanenza per i Rimpatri (Cpr) di Caltanissetta, evidenziando una situazione preoccupante di stallo nelle condizioni della struttura. La delegazione del Garante, composta da Mario Serio e Massimiliano Bagaglini, ha rilevato con particolare preoccupazione che, nonostante gli interventi di ristrutturazione del 2020, non si siano registrati miglioramenti significativi nelle condizioni materiali della struttura rispetto all’ultima visita effettuata il 24 novembre 2019 sotto la presidenza di Mauro Palma. Gli interventi del 2020, infatti, si sono limitati principalmente alla costruzione di alti muri perimetrali in cemento armato, che hanno diviso i tre padiglioni precedentemente collegati, riproducendo di fatto un modello logistico tipico delle strutture carcerarie. I lavori hanno incluso anche il rinforzo della recinzione perimetrale esterna per prevenire le fughe, ma le condizioni interne sono rimaste sostanzialmente invariate. I padiglioni A, B e C hanno ricevuto solo interventi superficiali di pulizia e pittura, mantenendo una struttura interna priva di suppellettili e caratterizzata da murature grigie. La situazione è particolarmente critica nel padiglione A, dove i muri risultano scrostati e i bagni sono in condizioni di grave deterioramento, necessitando di urgenti interventi di riparazione e pulizia. Un elemento particolarmente degradante evidenziato nel rapporto è l’assenza totale di porte, sia nelle stanze da sei posti letto - costituiti da semplici blocchi di cemento con materassi in gommapiuma - sia nei servizi igienici. Le porte sono sostituite inadeguatamente da coperte di lana, compromettendo gravemente la privacy degli ospiti, molti dei quali hanno espresso il proprio disagio durante i colloqui con la delegazione. Il rapporto sottolinea come le persone trattenute sembrino più “accampate che ospitate”, con oggetti personali sparsi per mancanza di spazi e vani adeguati dove riporli. Nonostante sia consentito trascorrere gran parte della giornata nel cortile antistante, le principali lamentele riguardano proprio le condizioni strutturali generali, l’assenza di attività ricreative e la scarsità di risorse per comunicare con i familiari. Al momento della visita, il Centro ospitava 52 persone su una capienza massima di 74 posti, con una popolazione prevalentemente costituita da persone sbarcate a Lampedusa, in maggioranza di nazionalità tunisina. Il tempo medio di permanenza nel 2023 è stato di 14 giorni, significativamente inferiore alla media nazionale di 36 giorni. Il Garante nazionale ha emesso diverse raccomandazioni, tra cui la necessità di dotare urgentemente i bagni e le docce di porte che garantiscano la privacy, il rafforzamento delle attività ricreative attraverso il coinvolgimento delle organizzazioni della società civile del territorio e l’implementazione di un sistema più efficace di comunicazione con l’esterno. Le osservazioni del Garante si focalizzano anche sul discorso sanitario. Particolare attenzione è stata posta sulle procedure di ingresso nel centro. Le certificazioni di idoneità, rilasciate dai medici dell’ASL, sono state oggetto di critiche da parte del Garante, che le ha definite come semplici “nulla osta” privi di un’adeguata valutazione qualitativa. L’autorità ha sottolineato la necessità di una valutazione più approfondita che consideri non solo le malattie infettive, ma anche i disturbi psichiatrici e le patologie croniche. L’organizzazione dell’assistenza sanitaria nel centro prevede una presenza infermieristica continuativa sulle 24 ore e un servizio medico modulato in base al numero di ospiti: tre ore giornaliere per una popolazione fino a 51 persone, otto ore per numeri superiori. Il supporto psicologico è garantito da due professionisti per 16 ore settimanali complessive. I dati relativi al periodo 12 aprile - 11 maggio 2024 mostrano un’intensa attività ambulatoriale interna, con 105 visite di primo ingresso e quasi 2.000 accessi per consultazioni mediche. Le prestazioni specialistiche esterne, facilitate da un accesso preferenziale al Sistema Sanitario Nazionale, hanno incluso visite ortopediche, chirurgiche e accessi al pronto soccorso. Un elemento di preoccupazione emerso dall’ispezione riguarda l’approccio alla salute mentale. Il Garante ha espresso perplessità sull’utilizzo della telemedicina per le consulenze psichiatriche, ritenendola una modalità non ottimale per persone private della libertà. Inoltre, l’assenza di visite psichiatriche nel periodo monitorato ha sollevato interrogativi sulla gestione di una popolazione che presenta significative problematiche in questo ambito. Il Garante, nel contempo, riconosce un approccio positivo nella gestione farmacologica: lo staff medico ha sviluppato un protocollo che privilegia l’uso di integratori naturali rispetto agli ansiolitici tradizionali, con l’obiettivo di prevenire fenomeni di dipendenza. Una scelta particolarmente rilevante considerando la presenza di ospiti con storie di tossicodipendenza. Il Garante ha anche evidenziato criticità nella gestione dei fascicoli sanitari dei trattenuti provenienti dal sistema carcerario, sottolineando la necessità di migliorare il flusso documentale tra le strutture. Nel rapporto viene evidenziato un interessante aspetto positivo: il protocollo siglato nell’agosto 2022 tra la Prefettura di Caltanissetta e la Cooperativa Antitratta “Cooperativa Sociale Proxima”, che ha già permesso di far emergere un caso di sfruttamento lavorativo nella zona di Ragusa, portando alla liberazione della persona coinvolta e all’ottenimento di un permesso speciale per motivi di giustizia. Il rapporto conclude sottolineando che ogni visita rappresenta un elemento di collaborazione con le istituzioni e richiede risposte concrete alle raccomandazioni formulate, come previsto dall’articolo 22 del Protocollo opzionale alla Convenzione ONU contro la tortura (Opcat). Migranti. “I ghetti dei braccianti nel foggiano saranno eliminati in 18 mesi” di Antonio Maria Mira Avvenire, 26 novembre 2024 Il governo e i sindaci hanno definito un piano per superare la situazione scandalosa degli “insediamenti” informali, ma senza sostituirli con “campi container”. Case vere e integrazione. Diciotto mesi per eliminare i ghetti dei braccianti migranti. Ma senza l’obbligo di sostituirli con “campi container”. È quanto stabilito ieri nell’incontro a Roma tra i sindaci del Foggiano e i responsabili del Dipartimento per la coesione territoriale e per il Sud, sui fondi previsti dal Pnrr per superare i cosiddetti “insediamenti” informali. Tempi stretti, dunque, nessuna proroga rispetto al 30 giugno 2026, e quindi i Comuni dovranno rimodulare i propri progetti, in stretta collaborazione con la Regione Puglia che ha assicurato il proprio sostegno anche economico. Sembra riannodarsi così un rapporto costruttivo dopo settimane di contrasti che avevano portato i sindaci dei nove comuni del Foggiano che sui propri territori ospitano la maggior parte dei ghetti a esprimere “profonda delusione e preoccupazione” per come il Governo intendeva procedere. Il Pnrr ha destinato 200 milioni di euro a 29 Comuni in 8 Regioni (3 al Nord, 4 al Centro, 22 al Sud) e di questi ben 114 erano destinati proprio alla provincia di Foggia, tristemente famosa per luoghi come “Borgo Mezzanone”, il “Gran ghetto di Torretta Antonacci”, “Borgo Tre Titoli”, dove vivono circa 8mila braccianti immigrati. La scelta di destinare più del 50% delle risorse è giustificata dal fatto che nella provincia vive il 90% degli immigrati beneficiari della misura. Questa prevede il recupero di “soluzioni alloggiative, di trasporto, di assistenza sanitaria e d’istruzione, dignitose per i lavoratori del settore agricolo”. Dunque non solo case vere, ma progetti di integrazione e inclusione. Così i Comuni si sono dati da fare, hanno realizzato progetti e li hanno inviati a Roma per il finanziamento. Ma tutto si è bloccato per un anno e mezzo. “È seguito il nulla”, denunciano i sindaci. Fino al 4 giugno quando il Governo ha nominato un commissario straordinario (l’ex prefetto di Latina, Maurizio Falco), già previsto da marzo, proprio per accelerare i tempi. Ma le prime indicazioni non sono piaciute ai sindaci. Così i primi cittadini di Foggia, Manfredonia, San Severo, Cerignola, San Marco in Lamis, Lesina, Poggio Imperiale, Carpino e Carapelle, hanno inviato una lettera al commissario denunciando che “il lavoro svolto dai Comuni per la strutturazione dei Piani di azione locale (Pal), redatti in conformità alle Linee Guida ministeriali, sembra essere vanificato dalle nuove direttive. Queste ultime, pur mirate a velocizzare la realizzazione delle soluzioni abitative, non affrontano adeguatamente il tema centrale dell’integrazione dei migranti”. E qui era arrivata l’accusa più grave. “L’installazione di moduli prefabbricati - denunciavano i sindaci in riferimento alle intenzioni del Governo - rischia infatti di ridursi a un semplice trasferimento fisico dei ghetti, senza risolvere le problematiche strutturali e sociali che affliggono il territorio”. Ghetti di “scatoloni” di metallo invece degli attuali di baracche. Invece, scrivevano, i piani dei comuni “sono stati concepiti per rispondere alle esigenze specifiche di ciascun contesto, puntando non solo a fornire soluzioni abitative, ma anche a promuovere l’integrazione dei migranti nel tessuto sociale, attraverso la cooperazione tra istituzioni locali, organizzazioni sociali ed economiche”. Un approccio che, secondo i sindaci, “rappresenta l’unica via efficace per affrontare il fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori agricoli e le complesse problematiche legate agli insediamenti abusivi”. I sindaci ricordavano di aver presentato i propri Pal entro il 10 gennaio 2023 ma “a fronte della mancata sottoscrizione delle convenzioni necessarie con il Ministero del Lavoro, i progetti sono rimasti fermi per oltre un anno”. E ora dal Governo arrivava la proposta dei container. Una scelta vista dai primi cittadini come “una deviazione sostanziale rispetto agli obiettivi iniziali e rischia di compromettere il raggiungimento degli obiettivi prefissati”. I comuni, invece, chiedevano che i Pal venissero esaminati e approvati e concesse le proroghe necessarie per la realizzazione. Inoltre, sollecitavano un intervento più deciso da parte del commissario straordinario e una maggiore collaborazione tra i vari enti coinvolti, inclusa la Regione, per assicurare la sostenibilità finanziaria e operativa dei progetti. Ricordiamo che il Pnrr prevede che siano realizzati entro il 30 giugno 2026. “Quello per Borgo Mezzanone richiede molto più tempo - ci spiega, Domenico La Marca, sindaco di Manfredonia (destinataria di 53 milioni), a lungo operatore a fianco degli immigrati -, perché prevede accoglienza diffusa, con case vere, il recupero degli ex borghi agricoli. Ma i tempi sono ormai molto stretti”. Per questo assieme alla sindaca di Foggia, Maria Ida Episcopo, Comune partner del progetto, il 5 novembre aveva inviato una nuova lettera di sollecito al commissario. Come risposta il 20 novembre a tutti i 29 comuni è arrivata una lettera del Commissario che confermava di privilegiare la scelta di “moduli abitativi”, con l’aggiudicazione degli appalti entro il 30 giugno 2025, escludendo progetti con tempi più lunghi. Inoltre si invitava ad affidarsi alla centrale di committenza Invitalia per la fornitura e l’installazione dei moduli. Ieri l’incontro di chiarimento. “Non abbiamo ottenuto la proroga dei tempi ma vanno avanti i nostri progetti col sostegno della Regione - commenta La Marca -. Hanno fatto un passo indietro. Noi abbiamo ribadito che non ci tiriamo fuori perché sarebbe una sconfitta per tutti. È un’opportunità che non possiamo perdere”. Migranti. Le stragi in mare che non ci turbano più di Eleonora Camilli La Stampa, 26 novembre 2024 L’ultima strage dei bambini, che allunga la contabilità tragica delle morti in mare dei migranti, si è consumata ieri nel silenzio davanti all’isola greca di Samos. Nel tratto di costa che la separa dalla Turchia, il mar Egeo ha restituito i corpi di sei bambini e due donne. Di loro non sappiamo quasi nulla, solo che viaggiavano su un gommone semi sgonfio. In tutto circa 50 persone, 36 delle quali sono riuscite a mettersi in salvo raggiungendo l’isola a nuoto. Una volta arrivati hanno acceso un fuoco per scaldarsi davanti alla piccola chiesa di Agios Antonios. Non c’erano soccorsi, non c’erano navi di ong. Quando la guardia costiera greca è arrivata sul posto, allertata dagli S.o.s., ha potuto solo constatare il numero dei morti, otto, e dei dispersi, almeno tre. Non conosciamo la nazionalità dei naufraghi, le informazioni sono ancora frammentate. Quello che sappiamo però è che negli ultimi mesi i viaggi della disperazione dalle cose turche a quelle greche sono aumentati. Secondo un monitoraggio compiuto dall’Aegean Boat report da agosto a oggi sono soprattutto gli afghani a tentare la via del mare per paura di essere rimandati indietro nel regime dei talebani. Ma stanno aumentando anche le famiglie che scappano dai conflitti in Medio Oriente. E insieme ai viaggi, aumentano i morti e i naufragi fantasma in quel tratto di mare, diventato sempre più pericoloso. Ma per una strana assuefazione all’orrore di tragedie del mare parliamo sempre meno. Qualche anno fa quando il corpo del piccolo Aylan Kurdi fu ritrovato privo di vita sulla spiaggia di Bodrum abbiamo pensato, almeno per un po’, che le cose potessero cambiare. Che la politica potesse dar seguito all’onda emotiva suscitata dall’immagine del corpo senza vita di quel bambino con la maglia rossa affrontando il tema dell’immigrazione con soluzioni in grado di contrastare realmente i viaggi della morte. Oggi, invece, nove anni dopo, nulla è cambiato in un’Europa che si fa sempre più fortezza per tenere fuori gli ultimi del mondo. Quei corpi che galleggiano tra le onde non ci indignano neanche più, non muovono l’opinione pubblica, non interessano la politica. Qualcuno dirà (lo hanno fatto) che è colpa dei genitori che li hanno messi sul quel gommone. Qualcuno dirà (lo hanno fatto) che per evitare queste tragedie bisogna bloccarli al di là del Mediterraneo, facendo accordi coi peggiori autocrati e dittatori, in Libia come in Turchia o in Tunisia. Qualcuno dirà (lo hanno fatto) che bisogna dissuaderli evocando lo spauracchio di deportazioni, nei fatti irrealizzabili, in Albania o Ruanda. Nessuno si interroga, invece, su come realizzare quelle vie legali e sicure, a oggi pressoché inesistenti, ma evocate nei summit dei capi di stato europei solo per fare da contraltare alle peggiori pratiche di chiusura delle frontiere. Intanto noi continuiamo a contare i morti. Ne abbiamo già contati 28 mila negli ultimi dieci anni. E oggi davanti ai corpi di quei bambini torniamo a chiederci con amarezza e disillusione: quanti ancora? Maysoon Majidi: “Fuggita dall’Iran, in carcere ho conosciuto il dolore delle donne italiane” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 26 novembre 2024 Intervista con l’attivista curdo-iraniana accusata (sulla base di testimonianze false) di essere una scafista: “In galera ho visto tante donne accoltellate, picchiate, vittime di matrimoni precoci, violenza e analfabetismo. Donne che hanno ucciso il marito in una lite domestica e quindi condannate. Il loro corpo raccontava la loro storia di sofferenza”. Quando ha deciso di partire verso l’Europa, Maysoon Majidi, fuggendo dall’Iran, sperava di trovare un posto sicuro, dove poter continuare la sua vita di artista e attivista curdo iraniana, in prima linea per il suo popolo e per i diritti delle donne. Non avrebbe mai potuto immaginare che la prima cosa che avrebbe conosciuto dell’Occidente (e dell’Italia) sarebbe stato il carcere. Con un’accusa pesantissima, quella di essere una scafista. Un’accusa basata su testimonianze che si sono rivelate false, ma che le è costata mesi di galera e di sofferenza. Maysoon ora è libera e consapevole di non aver commesso reati, ma di essere scappata dall’oppressione. Sostenuta da tante realtà, tra cui A buon diritto di Luigi Manconi - aspetta di sapere cosa deciderà il tribunale. Nella giornata contro la violenza sulle donne, e a due giorni dalla sentenza di primo grado nei suoi confronti, ci racconta la sua storia e quella delle donne detenute che ha incontrato in cella. Il suo sguardo spazia dall’Italia all’Iran, al Kurdistan iracheno. Forte di un vissuto complesso e della conoscenza di realtà molto diverse tra loro, non ha dubbi quando dice che, pur nell’abissale differenza tra le varie realtà, i problemi delle donne sono globali. Lei è andata via dall’Iran per sfuggire alla repressione del regime che la perseguitava come attivista, arrivata in Italia la prima cosa che ha conosciuto è stato il carcere. Quando è partita, cosa sperava di trovare in Europa? Chiedere asilo è una scelta imposta, che una persona fa a causa della mancanza di sicurezza e delle minacce alla sua vita. Speravo di trovare un posto sicuro in Europa, dove i diritti umani fossero rispettati in modo da poter continuare la mia lotta e le mie attività in sicurezza e senza censura. Quando e perché ha deciso di partire per l’Italia? L’ho deciso tra il settimo e l’ottavo mese del 2023, a causa dell’insicurezza del luogo in cui vivevamo, cioè il Kurdistan iracheno. (Mio fratello ed io abbiamo lasciato l’Iran per sempre nel 2019 e abbiamo iniziato a combattere e a lavorare nel Kurdistan iracheno). Nel 2023, dopo l’incontro Iran-Iraq, è stato firmato un accordo secondo cui tutti gli attivisti politici iraniani avrebbero dovuto lasciare il territorio. Tutto questo mentre la macchina del terrore della Repubblica Islamica è stata lanciata nelle strade di Sulaymaniyah ed Erbil e, contemporaneamente all’ondata di proteste, il quartier generale dei partiti curdi è stato preso di mira da un attacco missilistico. Mio fratello ed io abbiamo ricevuto messaggi minacciosi e simili. Non ci hanno rinnovato la carta di soggiorno, abbiamo dovuto seguire la strada della richiesta di asilo. La sentenza nei suoi confronti arriverà tra pochi giorni. L’accusano di essere una scafista. Lei, con il suo avvocato Giancarlo Liberati, si è difesa con forza, soffrendo in carcere. Che ricordi ha del carcere italiano? Il ricordo del carcere italiano e legato a oggi, che è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, è che ho visto tante donne vittime di matrimoni precoci, povertà e analfabetismo. C’erano mamme che desideravano rivedere i propri figli, nonne che hanno festeggiato con rammarico da dietro le sbarre la nascita dei nipoti. Ho incontrato donne vittime della violenza domestica e o che avevano ucciso il marito in una lite domestica e subito condanne a venti o trent’anni di carcere. Sono tutti dolori che tocchi in ogni secondo e con tutto il cuore, anche se quel dolore non è tuo. Ho tanti ricordi, nessuno dei quali può essere bello! Ma è stata un’esperienza che ho avuto. La sua storia è un simbolo di criminalizzazione dell’immigrazione. In Italia, come saprà, c’è un governo che spende molto tempo ad additare i migranti irregolari un pericolo da allontanare. La sua storia, e quella di tanti altri, però, dimostra che chi scappa dalla propria terra non lo fa a cuore leggero. Cosa pensa delle politiche migratorie del governo italiano? In realtà non sapevo davvero nulla della politica italiana e, come il 90% delle persone, non avevo mai sentito la parola scafista. La migrazione può avere ragioni economiche, educative, matrimoniali, ecc. Il rifugiato, invece, ha una ragione ancor più importante: la sua vita è in pericolo. È per questo che prende la strada più pericolosa: non ha scelta. Le persone politiche come noi non hanno passaporti, non hanno possibilità di movimento legale, e i governi europei hanno annunciato il sostegno ad organizzazioni di rifugiati basate sui diritti umani per dare rifugio a queste persone. Ciò che ho vissuto e ciò che sta accadendo mette tutto questo in discussione. Ha ricevuto tanta solidarietà in Italia nei mesi di carcerazione. Chi le è stato maggiormente vicino? Sono così tanti che non posso raccontarli tutti. È molto difficile per una persona che è in carcere ascoltare la voce e le notizie fuori dal carcere e ringrazio tutti coloro che mi hanno espresso solidarietà e mi hanno sostenuto. Mio fratello e sua moglie, i miei amici, il Comitato free Maysoon, il mio avvocato Giancarlo Liberati, Parisa Nazari, attivista del movimento “Donna, vita, libertà”. Ancora, i signori Laghi e Francesco e i loro amici, Laura Boldrini e l’Associazione di coordinamento della diaspora curda e Mimmo Lucano (nel weekend le è stata conferita la cittadinanza onoraria a Riace, ndr). Sono loro grata. Il 25 novembre, giornata contro la violenza sulle donne. In Iran le donne continuano a scendere in piazza per essere libere e il regime continua a reprimerle. Di quelle proteste è stata protagonista anche lei. Dove si trova la forza per protestare, quando si sa che c’è il rischio di finire in prigione e subire violenze? Combattere la tirannia e gli aggressori è un grande ideale che dà questa forza a ogni libertario. Naturalmente, il nostro sangue non è più colorato di quello dei nostri compagni che sono morti sulla strada verso la libertà, quindi sulla strada per raggiungere questo grande obiettivo, che è il rovesciamento del dittatore e dell’aggressore. Nonostante fossimo a conoscenza della prigione, della tortura e della pena di morte, la speranza diventa la nostra luce. Come vive una donna in Iran? Nella legge della Repubblica Islamica, le donne sono considerate la metà degli uomini in termini di diritti. In alcuni casi non hanno diritti, come il divorzio, il diritto alla custodia di un figlio dopo i sette anni. Le donne non sono autorizzate a svolgere alcuni lavori come giudice, presidente, ecc. Se un bambino viene ucciso dal padre, secondo l’articolo 301 del codice penale islamico, il padre in quanto tutore forzato non può essere condannato a morte, ma può essere condannato solo al carcere e a pagare una multa. Questo problema ha causato un aumento dei delitti d’onore. Se, invece, un bambino viene ucciso dalla madre, la condanna è possibile la condanna a morte. Questi sono piccoli esempi di insulto e umiliazione della Costituzione nei confronti di tutte le donne! Donne che hanno un’alta percentuale di istruzione superiore, donne che rompono con la tradizione e guidano rivolte, le donne che sono note per influenzare il mondo ma che nelle loro terre sono le prime vittime. Lei solo è un’artista e un’attivista per i diritti delle donne, ma anche per i diritti del popolo curdo. Qual è la condizione del suo popolo in questo momento? Come sono trattati dal regime iraniano? La popolazione di 65 milioni di curdi è divisa in quattro paesi, ma questa nazione non è una minoranza in nessuna di queste regioni. Sbaglia chi la definisce tale. Distorcono la nostra storia, hanno occupato le nostre città con genocidi e massacri, cercano di assimilare la nostra lingua e identità e, in caso di protesta, di appropriarsi dei nostri diritti o di dire la verità con parole come separatisti e rivoltosi, ecc. Siamo attaccati e il maggior numero di persone uccise nelle rivolte e nelle esecuzioni proviene dalle regioni del Kurdistan. Il Kurdistan fu l’ultima regione che la Repubblica Islamica riuscì ad occupare. Dall’avvento del regime occupante fino ad oggi, la lotta del popolo contro la Repubblica Islamica continua ininterrottamente, ecco perché il regime mantiene questa regione priva di strutture, nonostante la sua natura unica e le sue ricche risorse. In Italia si discute spesso (anche a causa dei tanti femminicidi) della condizione della donna italiana e del fatto che neanche qui il patriarcato è stato ancora sconfitto. Lei da un po’ di mesi vive nel nostro Paese, che idea si è fatta di questo argomento? Come ho accennato prima, le situazioni che ho visto e ascoltato dimostrano il fatto che i problemi delle donne sono globali. Ho sentito di femminicidi al telegiornale quasi ogni giorno, nei primi mesi in cui stavo lentamente imparando a comprendere la lingua e mentre incontravo, in cella, donne che avevano segni di coltellate e percosse. Il loro corpo raccontava la storia di questo dolore. Quando il suo calvario giudiziario finirà, le piacerebbe restare in Italia? Quali sono i suoi progetti? Il mio futuro e i miei obiettivi hanno subito cambiamenti in cui non ho avuto alcun ruolo o potere. Io e mio fratello non puntavamo a restare in Italia, ma ora che siamo entrambi qui, dopo quello che ho vissuto, ho capito che la vita è sorprendente e imprevedibile. Per questo motivo non posso rispondere adesso a questa domanda, ma sarà più chiaro in futuro Ora voglio solo essere in un luogo dove, come esseri umani, il nostro rispetto e la nostra dignità siano preservati, in modo da poter perseguire i nostri obiettivi e continuare a lottare, in un posto sicuro. “Nessuno deve ridicolizzare la Corte dell’Aja” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 26 novembre 2024 “Nessuno può ridicolizzare o strumentalizzare il lavoro di chi si dedica alla missione della Corte penale internazionale. Nessuno Stato parte può cercare di sfuggire ad obblighi pregnanti di eseguire le decisioni della Corte”. Silvana Arbia, magistrata dalla grande esperienza internazionale - ha ricoperto, tra i vari incarichi, quello di Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda -, sottolinea il ruolo fondamentale della Cpi, dopo i mandati di arresto nei confronti del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, dell’ex ministro della difesa israeliano, Yoav Gallant, e dell’esponente di Hamas, Mohammed Al- Masri. I mandati di arresto della Corte penale internazionale hanno suscitato reazioni tra le più diverse. Nel profluvio di dichiarazioni è stato trascurato il ruolo della Cpi? Vorrei partire da alcune premesse. La richiesta iniziale di mandato d’arresto del Procuratore, risalente al 20 maggio di quest’anno, riguardava anche altri due leader di Hamas, Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh, il cui decesso successivo ha comportato la fine della procedura nei loro confronti. Ricordo anche che l’esercizio della giurisdizione penale internazionale sui crimini internazionali di competenza della Cpi, che si ipotizzano essere stati commessi e che si commetteranno nei Territori palestinesi, vale a dire Gaza, West Bank e Gerusalemme Est, è una naturale conseguenza dell’adesione della Palestina allo Statuto di Roma, trattato istitutivo della Corte penale internazionale. Tutti coloro che commettono tali crimini nel territorio di uno Stato parte sono perseguibili e punibili dalla Cpi, come sono perseguibili e punibili i crimini medesimi commessi ovunque da cittadini dello Stato membro. Richiamo l’attenzione sul lungo lasso di tempo, quasi sei mesi, intercorso tra la richiesta del Procuratore e l’emissione dei mandati di arresto da parte della I Camera preliminare, che ha esaminato le questioni sollevate da Israele contro la richiesta del Procuratore. Dunque, un lavoro molto attento? Si tratta di decisioni prese dopo approfondita considerazione degli elementi di prova presentati dal Procuratore a sostegno delle accuse formulate, e che necessariamente hanno dovuto emettere mandati di arresto e non altri ordini, per esempio ordine di comparizione, in presenza delle condizioni previste nell’articolo 58 dello Statuto ovvero: sussistenza di motivi ragionevoli per ritenere che la persona ha commesso un crimine di competenza della Corte. L’arresto della persona è necessario per assicurarne la comparizione nel processo e per assicurare che non ostacoli o non pregiudichi le indagini o le procedure avanti la Corte, ove necessario, per prevenire che la persona non continui a perpetrare i crimini di cui è accusata o crimini collegabili ad essi o risultanti dalle circostanze addotte, se di competenza della Corte. Si deve inoltre ricordare un altro aspetto. Quale? La giurisdizione della Cpi è complementare alle giurisdizioni nazionali e opera quando la giurisdizione nazionale competente non vuole o non può perseguire e punire i crimini in questione. L’esecuzione dei mandati di arresto e di altre decisioni della Corte penale internazionale richiede la cooperazione degli Stati, non disponendo di autonoma enforcing authority. Tale cooperazione è obbligatoria per gli Stati parte secondo inequivocabili disposizioni dello Statuto. Gli Stati non parte possono cooperare con la Corte in base ad accordi ad hoc. L’obbligo degli Stati parte di cooperare è ripetutamente richiamato dall’Assemblea degli Stati parte, che nelle sue risoluzioni richiama l’impegno a rafforzare l’efficienza del funzionamento della Corte e di recente ha stabilito delle misure che mirano a eliminare o ridurre gli impedimenti oggettivi, si pensi alla mancanza di strumenti a livello nazionale. Si è anche creata una rete di esperti per facilitare scambi e sinergie con particolare focus sull’esecuzione dei mandati di arresto, senza la quale le procedure innanzi alla Corte non potranno continuare non essendo consentito il processo in contumacia o in absentia. Con frustrazione del diritto delle vittime ad un uguale ed effettivo accesso alla giustizia. Qualcuno ha ridicolizzato il ruolo della Cpi, definendo i recenti provvedimenti inutili. Cosa ne pensa? Parlare di “inutilità” non ha senso e denota una grave carenza di informazioni sulla Corte, sulla giustizia penale internazionale e sui principi generali di diritto internazionale, tra cui la necessaria ottemperanza degli obblighi assunti firmando e ratificando un trattato. Rivela anche indifferenza inaccettabile di fronte a decisioni che considerano sussistenti ragionevoli motivi per ritenere le accuse di crimini di guerra, tra cui usare la fame di civili come strumento di guerra, e crimini contro l’umanità, oltre all’imputazione di crimini di guerra commessi da subordinati e non impediti e o puniti. La gravità del quadro fa sì che il ridicolo ricada sui responsabili di espressioni di ignoranza. Tentare di delegittimare la Corte, quando le sue decisioni non servono finalità politiche, è un grave attacco alla sua indipendenza. Arabia Saudita. Nel 2024 oltre 270 prigionieri messi a morte: più di un terzo erano stranieri di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2024 Nei record negativi sulla pena di morte che l’Arabia Saudita non si stanca di battere ce n’è uno che riguarda i cittadini di altri stati impiccati o decapitati. Secondo l’Organizzazione europea saudita per i diritti umani, un’associazione della diaspora che ha sede a Berlino, degli almeno 274 prigionieri messi a morte dall’inizio del 2024, oltre 100 (101 alla metà di novembre, per l’esattezza) erano cittadini stranieri. Sia nel 2022 che 2023 i cittadini stranieri impiccati erano stati 34. L’aumento riflette solo in parte quello complessivo delle condanne a morte eseguite: il record precedente risaliva al 2022, quando erano state 196. A fine anno, con ogni probabilità, verranno superate le 300 esecuzioni. Questa terribile escalation si deve anche, ma non solamente, alla fine della moratoria sull’uso della pena di morte per reati di droga. Questo il macabro dettaglio del numero dei cittadini stranieri messi a morte per stato di provenienza: 21 Pakistan, 20 Yemen, 14 Siria, 10 Nigeria, 9 Egitto, 8 Giordania, 7 Etiopia, 3 Sudan India e Afghanistan, 1 Sri Lanka Eritrea e Filippine. I processi nei confronti degli imputati stranieri sono ancora più iniqui di quelli celebrati contro gli imputati sauditi: atti giudiziari non messi a disposizione o scritti in lingua incomprensibile, servizi di interpretariato assenti e minima o inesistente assistenza consolare. È importante notare infatti che, a parte Sri Lanka e Filippine, tutti gli stati di origine mantengono e applicano la pena capitale. Non si spendono dunque molto per chiedere la grazia dei loro connazionali all’estero, dato che li mettono più o meno regolarmente a morte tra i confini domestici. E poi, perché protestare, magari per la sorte di un piccolo spacciatore, col rischio di perdere finanziamenti e donazioni del generoso regno saudita? *Portavoce di Amnesty International Italia Algeria. Lo scrittore Sansal, candidato al Nobel, arrestato per le sue posizioni antigovernative L’Unità, 26 novembre 2024 Non si è saputo niente per giorni di Boualem Sansal, scrittore franco-algerino di fama mondiale. È stato arrestato lo scorso 16 novembre e da allora non si avevano sue notizie. Il suo avvocato François Zimeray ha dichiarato alla radio francese RTL che oggi il suo assistito “vedrà un procuratore”. Il legale ha comunque ammesso di non avere “nessuna notizia precisa”. L’arresto era stato confermato dall’agenzia governativa algerina APS. Alcuni Premi Nobel per la Letteratura hanno lanciato un appello per l’”immediata liberazione”. Lui stesso era stato candidato al Nobel nel 2014. “Finora - ha aggiunto il legale - non ha avuto accesso a una difesa. Un avvocato gli dovrebbe essere assegnato dal procuratore di Algeri, con il quale ho parlato ieri. È molto importante che venga difeso da un avvocato algerino e se possibile un avvocato di sua scelta” affinché abbia “un processo equo”. L’episodio giunge in un momento di tensione diplomatica fra Parigi e Algeri dopo l’appoggio della Francia al piano di autonomia marocchino per il territorio conteso del Sahara occidentale. Chi è Boualem Sansal Sansal è noto per le sue posizioni anti fondamentaliste e anti governative, “noto per il suo coraggio e il suo impegno, è sempre stato una voce critica contro l’oppressione, l’ingiustizia e il totalitarismo islamico” come si legge nella descrizione allegata all’appello pubblicato sul quotidiano belga Le Point. È nato nel 1949 in Algeria e vive a Boumerdès, vicino alla capitale. È stato alto funzionario del ministero dell’Industria algerino fino al 2003 (incarico da cui fu allontanato per i suoi scritti e le sue prese di posizione politica), ha vinto il Prix du premier Roman e il Prix Tropiques 1999 con il suo primo romanzo Le serment des barbares, il Grand Prix RTL-Lire 2008 con Le Village de l’Allemand, e il Grand Prix du roman 2015 de l’Académie française con 2084. La fine del mondo. All’appello per la sua liberazione si sono aggiunti, oltre agli altri scrittori, Annie Ernaux e Jean-Marie Le Clézio (Nobel per la Letteratura rispettivamente nel 2022 e nel 2008) il turco Orhan Pamuk (Nobel 2006) e il nigeriano Wole Soyinka, primo africano insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1986. L’appello - figurano anche i nomi di Salman Rushdie, Roberto Saviano e Giuliano da Empoli - su Le Point è partito dall’iniziativa dello scrittore algerino, Kamel Daoud, vincitore dell’ultima edizione del prestigioso Premio Goncourt ed editorialista del quotidiano. “Chiediamo la liberazione immediata di Boualem Sansal e di tutti gli scrittori imprigionati per le loro idee. Non possiamo rimanere in silenzio. Sono in gioco la libertà, il diritto alla cultura e la vita di noi scrittori presi di mira da questo terrore”. L’arresto di Boulam Sansal - Preoccupazione espressa anche dalla casa editrice francese Gallimard e da quella italiana Neri Pozza. “Apprendiamo con sgomento e viva preoccupazione la notizia dell’arresto ad Algeri di Boualem Sansal, di cui siamo con grande orgoglio editore italiano. Non si hanno notizie di Boualem Sansal da alcuni giorni”, aveva scritto in una nota l’editore italiano che ha pubblicato i romanzi 2084.La fine del mondo e Il treno di Elingen e il saggio Nel nome di Allah. Origine e storia del totalitarismo islamista. Stando alle ricostruzioni lo scrittore sarebbe stato arrestato all’aeroporto di Algeri al rientro dalla Francia. Era il 16 novembre. L’agenzia algerina non ha aggiunto altri dettagli. “Lo scrittore - ha riferito l’emittente Europe 1 - è stato descritto come un revisionista e un utile fantoccio della lobby anti algerina in Francia”. Secondo Le Monde, le autorità algerine potrebbero non aver gradito le dichiarazioni rilasciate da Sansal al media francese Frontières, considerato di estrema destra, in cui ribadiva la posizione marocchina secondo cui il territorio del Paese sarebbe stato tagliato durante la colonizzazione francese a favore dell’Algeria. Circa un mese fa il governo Meloni ha aggiornato la lista dei “Paesi Sicuri” per il rimpatrio dei migranti salvati in mare. E tra queste figura anche l’Algeria.