Carcere e cambiamento climatico, così il caldo fa aumentare le violenze e le morti dietro le sbarre di Prison Insider* L’Unità, 25 novembre 2024 Il caldo ha portato ad un aumento della violenza e delle morti in carcere. Sono aumentate le azioni legali dei detenuti, così come le rivolte e le evasioni. Il clima sta cambiando, l’ambiente si sta deteriorando e le amministrazioni penitenziarie si trovano ad affrontare ostacoli senza precedenti. Se da un lato gli istituti penali incidono fortemente sull’impronta di carbonio, per via delle loro dimensioni e del loro funzionamento continuo, dall’altro sono duramente colpiti dagli effetti devastanti del cambiamento climatico. Benché qualcosa si stia muovendo, lo slancio rimane limitato, ostacolato dagli imperativi securitari. La direzione dell’amministrazione penitenziaria francese ha chiesto a Prison Insider di realizzare uno studio su queste tematiche, dal mese di luglio 2023 al febbraio 2024. Nella sintesi di questo studio, emergono alcuni punti principali. Innanzitutto, il sistema carcerario, su scala globale, è molto vulnerabile agli effetti dei cambiamenti climatici. L’ubicazione delle carceri gioca un ruolo importante. La loro costruzione non ha tenuto conto dei rischi inerenti al cambiamento climatico e altri criteri erano e restano prevalenti, come il contenimento dei costi dei cantieri o la possibilità di creare posti di lavoro in aree economicamente svantaggiate. In caso di emergenza, pensiamo a un’alluvione o a un terremoto, è difficile accedere a questi luoghi di privazione della libertà, spesso costruiti in zone isolate per via delle misure di sicurezza che li circondano. La sovrappopolazione endemica, la mancanza di personale e di risorse assegnate alle amministrazioni per far fronte ai disastri ambientali complicano ulteriormente la situazione nel caso in cui sia necessario evacuare o debba intervenire la protezione civile. Il caldo sta diventando un grave problema in molti paesi. Ciò porta a un aumento degli atti di violenza e del numero di morti in carcere. Le misure volte a mitigare la calura sono insoddisfacenti, il che spinge le persone detenute a mobilitarsi: aumentano le azioni legali, così come le rivolte e, in rari casi, le evasioni. Le forme di liberazione osservate durante il Covid-19 non si ripropongono di fronte ai disastri climatici. Le amministrazioni adottano piani d’azione ambientale, spesso in risposta a un obbligo in capo al Governo stesso. Si stanno formando nuovi gruppi di lavoro, a livello nazionale e locale. Si sviluppano strategie volte a guidare le decisioni e trovare risorse in contesti in cui gli imperativi di sicurezza rimangono comunque una priorità. La ricerca accademica gioca una parte importante nel convincere: spesso vengono utilizzati studi che stabiliscono una correlazione tra la quantità di spazi verdi e il livello di violenza e di atti di autolesionismo in carcere. Altre ricerche sono in corso, in alcuni Paesi, sull’impatto della temperatura eccessiva rispetto a esplosioni di violenza. Nonostante queste ricerche volte al cambiamento, il personale carcerario rimane scarsamente formato e poco consapevole delle questioni ambientali. Alcune amministrazioni stanno adottando nuovi criteri di costruzione e ristrutturazione degli edifici per rispettare gli obblighi di riduzione della propria impronta di carbonio: utilizzo di materiali sostenibili; riduzione dell’uso del calcestruzzo; installazione di pannelli solari, pozzi trivellati, tetti verdi e finestre più isolanti; luci LED; ricambio del parco automezzi in un’ottica di decarbonizzazione nonché messa in atto di sistemi di monitoraggio e controllo dei consumi energetici e idrici. Altre amministrazioni perseguono però piani volti a realizzare nuove carceri che vanno in controtendenza con tutto questo. Rendere più ecologiche le carceri crea opportunità di formazione e lavoro “verdi” per i detenuti. Pensiamo alla gestione dei rifiuti, al giardinaggio, all’orticoltura. Stanno emergendo positivi esempi di autosufficienza nel settore alimentare, del bestiame e delle colture. Ma sono ancora poche le iniziative che coinvolgono una reale consapevolezza ecologica. Pensiamo a come la considerazione delle emergenze climatiche e l’attuazione della transizione ecologica si scontrano con il paradosso di sistemi penali che tendono a creare nuovi reati legati all’ambiente, in fenomeni di carcerazione di massa poco compatibili con il declino ambientale. Anche per questo è significativo che lo stesso Comitato europeo per la prevenzione della tortura e i trattamenti o le punizioni inumane o degradanti (Cpt) abbia deciso di designare, tra i suoi membri, due special rapporteur proprio sulle questioni ambientali. *Piattaforma informativa sulle carceri nel mondo Angelica Musy: “Il mio impegno per reinserire i detenuti. Costruire nuove carceri non serve a nulla” di Filippo Femia La Stampa, 25 novembre 2024 La moglie dell’avvocato ucciso nel 2013: “Insieme alle mie figlie lo ricordiamo sempre con il sorriso”. Non c’è traccia di livore nelle parole di Angelica Musy quando parla dell’uomo che le ha portato il via il marito, privando le quattro figlie di un padre. “Dopo l’uccisione di Alberto avrei incontrato Francesco Furchì (condannato all’ergastolo per l’omicidio del 2012, ndr): forse ne avevo anche bisogno. Lui però si è sempre professato innocente. Ora il tempo è scaduto, ma non provo astio”, sussurra con grande serenità. Da dieci anni, alla guida del Fondo Alberto e Angelica Musy (parte dell’Ufficio Pio di Compagnia di Sanpaolo), si occupa del reinserimento sociale di detenuti. Signora Musy, perché ha scelto di aiutare persone che si trovano in carcere? “Il progetto era inizialmente legato al Polo universitario, il primo nato in Italia per i carcerati: mio marito lo conosceva bene. Per i famigliari delle vittime avere giustizia significa che lo Stato si faccia carico di recuperare i detenuti in quel tempo sospeso che è la pena, convincerli a cambiare strada. Molti ragazzi hanno commesso errori, forse sono partiti da condizioni svantaggiate, ma vogliono farsi perdonare: se non per le vittime, per le proprie famiglie, che pagano un prezzo pesante”. Ha visitato spesso le carceri? “Ci vado un paio di volte all’anno, portiamo spesso gli artisti nei penitenziari. L’esperienza con Malika Ayane è stata toccante: ha condiviso vicende molto personali, senza far sentire i detenuti giudicati”. Cosa l’ha sorpresa del carcere? “Uno dei sentimenti più condivisi dai detenuti è il senso di abbandono. Dentro non sai se la famiglia e gli amici ti hanno dimenticato. Quando qualcuno ti dedica delle attenzioni, anche minime, provi un senso di grande gratitudine”. È il meccanismo che il vostro Fondo innesca con le borse-lavoro ai detenuti? “Esattamente. Abbiamo un protocollo di intesa con l’Unione industriali: le aziende fanno colloqui in carcere e poi impiegano persone che beneficiano di misure straordinarie. Da giugno a settembre 2024 abbiamo attivato un inserimento a lavoro diretto in un’azienda e 12 proposte di attivazione di tirocini”. “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Crede che la situazione delle carceri sia all’altezza dell’articolo 27 della Costituzione? “Il sovraffollamento e la carenza di personale sono drammatici. Spesso l’ambiente è degradante. A Torino i detenuti vedono gli operatori sociali una volta al mese, mentre la situazione sulla formazione è migliore. Non credo che la soluzione del problema sia la costruzione di nuove carceri, ma le misure alternative”. Ci racconta chi era Alberto Musy? “Una persona che guardava il futuro con ottimismo, una cosa non così frequente per un avvocato. Un uomo che mi ha cambiato la vita. Aveva difetti come tutti, ovvio, ma aveva ancora dei sogni: amavo questo di lui. Era un professionista di successo, stavo attenta che non si montasse la testa. Nella mia vita lavorativa mi ha molto incoraggiata: da mamma di quattro figlie, senza di lui avrei avuto molti sensi di colpa”. La vostra figlia più giovane aveva un anno quando Alberto venne ucciso. Cosa le racconta di suo padre? “Tutti cerchiamo di ricordare le cose belle, con il sorriso. Parliamo di Alberto con molta naturalezza, senza tabù. È una lezione preziosa che ho imparato da Mario Calabresi, mi ha aiutato molto quando morì mio marito raccontandomi come visse lui il lutto da bambino insieme alla sua famiglia”. Ha deciso di restare a Torino, la città dove ha vissuto la tragedia più grande della sua vita. Perché? “All’inizio ho pensato di andare via, ma qui c’erano mio padre, mia sorella e la famiglia di Alberto. E poi Torino è una città calda, anche se le persone non lo manifestano molto: la cittadinanza mi ha mostrato molto affetto. Ho però deciso di vendere la casa: passare dal cortile dove mio marito è stato aggredito a colpi di pistola offuscava tutti i ricordi belli”. Ha perdonato l’assassino di suo marito? “Da 12 anni Furchì si professa innocente. Lo avrei incontrato perché avevo bisogno di fare domande, di sapere. Mi sentivo persa. Credo molto nella giustizia riparativa, ma ora il tempo è scaduto. Però non provo astio”. Andrea Delmastro: “Non far respirare i mafiosi: chi travisa è in malafede” di Federico Novella La Verità, 25 novembre 2024 Il sottosegretario alla Giustizia: “Confermo: non lasceremo respirare i mafiosi, cioè non daremo loro tregua. Stiamo anche studiando come schermare i cellulari dei detenuti. Pregiudizi ideologici a sinistra contro chi indossa una divisa”. “Provo gioia all’idea di far sapere che non lasciamo respirare chi sta dietro il vetro oscurato”. Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, dopo la sua frase l’Anpi l’ha definita “macellaio sadico”. “Reazioni fuori luogo. In Italia sono la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra ad aver dimostrato sadismo. L’Anpi crede che il sanguinario sia io? Vada a raccontarlo alle famiglie delle vittime della criminalità organizzata”. Ci spiega meglio la sua uscita? “All’atto della cerimonia di consegna di un mezzo blindato che metterà finalmente in sicurezza la polizia penitenziaria nel trasporto di mafiosi, ho detto semplicemente che mi dava gioia il fatto di incalzare, di “non lasciare respirare” gli esponenti della criminalità organizzata. Posto che in Italia nessuno compra “macchine asfissianti”, va da sé che si trattava di una metafora: intendevo dire che non diamo tregua ai criminali”. Lo ribadisce? “Sì, e mi stupirei del contrario. Sarebbe strano dire in pubblico che “lasciamo respirare” la mafia. Non c’è fine a questa lotta”. Non poteva utilizzare parole diverse? Ripeterebbe ancora quella frase con gli stessi termini? “Il mio livello di scorta è stato innalzato, per ovvi motivi. Eppure qualcuno si domanda chi è il macellaio tra Delmastro e i mafiosi; questo qualcuno, evidentemente, non ha avuto continenza verbale in questa vicenda, e dovrebbe fare attenzione a soppesare le parole”. Come avveniva il trasporto dei reclusi al 41 bis con i vecchi veicoli della polizia penitenziaria? “Con dei furgoni da 20-30 posti. Quando entrava nelle vie strette dei quartieri spagnoli a Napoli, o nell’entroterra calabrese, la polizia era costretta ad abbandonare il mezzo, proseguendo a piedi il trasporto del detenuto, magari per accompagnarlo al funerale di un parente. Vi sembrano queste condizioni di sicurezza?” È vero che state pensando di “schermare” le carceri per impedire ai detenuti di usare cellulari? “Stiamo studiando l’introduzione di una schermatura per i cellulari, di modo che possano funzionare soltanto quelli del personale, mentre quelli dei detenuti diventerebbero niente più che giocattoli. Stiamo lavorando per avere le necessarie garanzie sul piano della salute”. E il sovraffollamento carcerario? “Sono nato 50 anni fa e già c’era carenza di 10.000 posti detentivi. Oggi che sono nel mezzo del cammin della mia vita, il problema rimane esattamente con gli stessi numeri. Anche mio figlio di 10 anni capirebbe che i provvedimenti svuota-carceri hanno fallito: in compenso, mortificano le vittime dei reati, erodono la certezza della pena, rendono insicure le nostre città”. Quindi come pensate di affrontare il problema? “Oggi abbiamo stanziato oltre 250 milioni, per recuperare 7.000 posti che mancano da mezzo secolo. Abbiamo inoltre istituito la figura del commissario speciale, che dovrebbe garantire di impiegare più velocemente le risorse già stanziate. In futuro altre risorse arriveranno. Entro la fine del nostro mandato recupereremo tutti i posti detentivi mancanti”. Amnistia e indulto, come propongono le opposizioni, sono alternative valide? “Sarebbe una resa. Il centrosinistra scomoda sempre la Costituzione, parlando del “fine rieducativo della pena”. Ebbene, non c’è nulla di rieducativo nel colpo di spugna. La rieducazione avviene in carcere o nell’esecuzione penale esterna. Chi propugna il “liberi tutti”, dimentica un piccolo particolare: chi è libero non viene rieducato”. Lei passa per essere contrario alla rieducazione... “Ai buonisti da salotto vorrei ricordare che, per la prima volta nella storia della Repubblica, sono riuscito a riempire le piante organiche dei funzionari giuridico-pedagogici, cioè degli educatori preposti al trattamento dei detenuti. Dunque, c’è chi si limita a pontificare dai salotti televisivi, e chi agisce con concretezza”. Sul progetto Albania pende un ricorso alla Corte di giustizia europea. Il ministro della Giustizia, Nordio, dice basta al “diritto creativo”... “Io parlerei di diritto “pregiudizialmente” creativo. Quando certi magistrati intervengono con sentenze su fatti rispetto ai quali hanno già espresso la loro posizione politico-ideologica, è chiaro che quelle sentenze saranno fortemente influenzate dal loro portato culturale. Diventa difficile immaginare che questi magistrati siano sereni. Ed è per questo che dovrebbero avvertire l’esigenza di astenersi”. Nella nuova proposta del ministro Nordio, si parla per l’appunto di procedimenti disciplinari per i magistrati che prendono una posizione pubblica su un argomento di cui si stanno occupando. Magistratura democratica dice che è l’ennesimo bavaglio per le toghe, che favorirà i dossieraggi nei confronti dei magistrati... “Per il momento faccio notare che il sospetto di dossieraggi si è diffuso altrove, soprattutto intorno alla Direzione nazionale antimafia. Dopodiché, il punto è semplice: quando un giudice esprime ampiamente una legittima opinione politica su un argomento, dovrebbe astenersi dal giudizio sul medesimo argomento? Per me la risposta è sì. E in ogni caso, in base alle nuove regole, su eventuali provvedimenti disciplinari deciderebbe comunque il Csm”. Non pensa che, nella querelle sulla lista dei Paesi sicuri, il diritto europeo debba prevalere su quello italiano? “Il diritto europeo dice che uno Stato non può essere definito sicuro se abbondanti porzioni del suo territorio non rientrano sotto la sua sovranità giuridica. Pensare che lo Stato diventi insicuro sulla base di “categorie” di persone, è per l’appunto un’interpretazione creativa, frutto dell’ideologia politica. Se fosse valida questa interpretazione, nessun Paese sarebbe sicuro, nemmeno gli Stato Uniti, dove è prevista la pena capitale. E per assurdo, il governo tedesco dovrebbe andare a riprendersi gli afghani che qualche mese fa ha rispedito dai talebani”. Alla fine il progetto Albania verrà davvero realizzato, visti gli ostacoli che spuntano ogni giorno? “Assolutamente sì. Tutta Europa lo sta prendendo come modello. D’altra parte, la fallace interpretazione delle toghe italiane significherebbe “porte aperte” in tutto il continente europeo”. Se la Corte europea dovesse accogliere i ricorsi italiani? “Insisteremmo comunque, perché il contrasto all’immigrazione irregolare è il Dna di questo governo. Tuttavia, credo che la Corte ci darà ragione, perché non sarebbe una scelta di buon senso ritenere tutto il mondo “insicuro”, intervenendo a gamba tesa sulle politiche migratorie di un Paese europeo”. A proposito di tribunali internazionali: dopo il mandato di cattura, il premier israeliano Netanyahu andrebbe arrestato? “Penso che la posizione del presidente del Consiglio Meloni sia coerente ed equilibrata. Le questioni giuridiche internazionali debbono essere attentamente meditate, e nello stesso tempo Hamas non può essere messa sullo stesso piano dello Stato di Israele, che è il bastione democratico in quelle terre”. Intanto in Italia non si placa la protesta contro il ddl sicurezza, che introduce nuovi reati e aumenta le pene per quelli già esistenti... “Mi danno del “liberticida” perché voglio consentire a un giudice di arrestare le madri borseggiatrici? Vorrei tutelare quelle madri che prendono la metropolitana per portare il figlio a scuola e poi andare a lavorare, non quelle che la prendono per rapinare gli altri. Vorrei difendere quegli anziani che dopo un ricovero in ospedale trovano la casa occupata illegalmente. Vorrei tutelare chi prende il treno per andare a studiare e lavorare, non chi si stende sui binari per protesta”. Si riferisce alle pene più pesanti per chi manifesta su strade e ferrovie, anche in modo pacifico? “Un tempo guardavo con raro interesse gli antichi girotondi della sinistra, che erano colorati e divertenti. Ecco, i girotondi si fanno in piazza, non sui binari dei treni”. Le forze dell’ordine italiane sono sotto attacco? “Scontiamo anni di pregiudizio ideologico della sinistra nei confronti delle divise. Come Pasolini, che si rivolgeva ai figli di papà col cuore a sinistra e il portafogli a destra, vorrei dare un consiglio all’opposizione: abbracciate i poliziotti. Perché sono loro i veri figli del popolo, non certi borghesi annoiati. Invece, ogni volta che visito un penitenziario e abbraccio il personale, gli intellettuali della Ztl mi criticano. Perché loro, l’odore del popolo, proprio non lo sopportano”. Catanzaro. Detenuto messinese morto in carcere: denuncia anche alla Procura di Trapani di Nuccio Anselmo Gazzetta del Sud, 25 novembre 2024 “Cella 7. C’è un detenuto, osservato a vista, che di cognome fa Domenico Lauria. È un evidente caso psichiatrico che attende che si liberi un posto nell’Atsm di Barcellona Pozzo di Gotto. È a Trapani da un anno e sei mesi, parla in continuazione ed è pieno di tagli soprattutto sulle braccia. Dice “mi taglio tutti i giorni, mi impicco tutti i giorni, mi vogliono portare alla morte. Sei o sette volte sono riuscito ad andare in ospedale, uscendo da questo inferno. Tutti i reati che ho commesso sono per tossicodipendenza. Da quando sto qua mi hanno fatto almeno 15 Tso. Il metadone che mi danno ha un dosaggio troppo basso e non mi fa niente”. Sono agghiaccianti le parole contenute nell’ordinanza di custodia cautelare del gip di Trapani, epilogo di un’indagine della Procura che ha portato ad indagare su venticinque poliziotti penitenziari del carcere “Cerulli” di Trapani, accusati a vario titolo e in concorso di tortura, abuso d’autorità contro alcuni detenuti e falso ideologico. Parole che costituiscono un focus sulle condizioni carcerarie del 28enne messinese Ivan Domenico Lauria, trovato morto in carcere a Catanzaro venerdì scorso. Lauria era stato a lungo detenuto anche a Trapani. E la famiglia del ragazzo, con il legale che l’assiste, l’avvocato Pietro Ruggeri, nei prossimi giorni dovrebbe formalizzare una denuncia anche alla Procura di Trapani, così come ha già fatto a Catanzaro, dove è stata aperta un’inchiesta sul decesso in cella del 28enne. “Il suo corpo - ha dichiarato nei giorni scorsi il legale che assiste la famiglia, l’avvocato messinese Pietro Ruggeri -, presentava evidenti ematomi e varie e profonde ferite da taglio, ma il referto medico stilato dopo il decesso parla di “abuso di sostanze stupefacenti e arresto cardiaco”. L’inchiesta è stata aperta dalla pm di Catanzaro Francesca Delcogliano, ma questo dopo che i familiari con il loro legale hanno presentato una denuncia ai carabinieri della compagnia di Messina Centro, perché il corpo era già stato restituito ai familiari. L’autopsia è giù stata eseguita. Si aspettano adesso i risultati anche dei vari prelievi effettuati dal medico legale. Lauria da ultimo era detenuto nell’Istituto penitenziario “Ugo Caridi” di Siano, a Catanzaro, per scontare un cumulo di diverse pene: complessivamente 11 anni, 2 mesi e 21 giorni. Venerdì scorso la notizia del decesso è piovuta come un macigno sui familiari che si sono recati nel capoluogo calabrese per riportare la salma a Messina. “Invalido civile al 75% - ha dichiarato l’avvocato Ruggeri - con gravi problemi di salute mentale accertati anche da consulenti d’ufficio nominati nei vari procedimenti, per il quale era stata nominata amministratore di sostegno la madre a causa delle sue invalidità, non gli era stato concesso dal Tribunale di sorveglianza di Palermo in data 7 dicembre 2023 il differimento dell’esecuzione della pena”. Nel tempo, infatti, le condanne si erano accumulate “per lo più riguardavano furti e resistenza a pubblico ufficiale” ha spiegato il legale. Il giovane era quindi finito in carcere per scontare le condanne. Fin dal 2021 il legale aveva presentato istanze per chiedere un avvicinamento, affinché la madre lo potesse accudire, inoltre aveva presentato istanze anche “al Dap e al ministero di Giustizia affinché venisse collocato in una struttura adeguata alle patologie”. “Domani (oggi per chi legge, n.d.r.) alle 9.30 visiterò, con Pino Apprendi, Garante dei detenuti, e Nina Grillo dell’esecutivo di Italia Viva Sicilia, il carcere Pietro Cerulli di Trapani. È il carcere dove hanno arrestato le guardie che torturavano”. Lo ha annunciato ieri Davide Faraone, capogruppo di Italia Viva alla Camera. Trapani. Dall’Ispettorato dei cappellani un appello alla dignità e alla speranza adista.it, 25 novembre 2024 Carcere di Trapani: dove 11 agenti penitenziari arrestati e 14 sospesi con l’accusa di torture e abusi su detenuti vulnerabili. L’Ispettorato dei Cappellani delle Carceri, nella persona dell’Ispettore don Raffaele Grimaldi “esprime preoccupazione per la violazione della dignità umana e ribadisce l’importanza della missione rieducativa del sistema penitenziario. Si affida alla magistratura il compito di fare chiarezza sull’accaduto, mentre si sottolinea l’urgenza di umanizzare le carceri, affrontare il sovraffollamento e sostenere gli operatori attraverso formazione e dialogo. La Chiesa, attraverso i cappellani e il volontariato, ribadisce il proprio impegno per offrire speranza ai detenuti, sottolineando l’importanza di trasformare le carceri in luoghi di recupero e riscatto, come evidenziato dal messaggio di Papa Francesco in vista del Giubileo”. È quanto si legge nel comunicato stampa diffuso dall’Ispettorato il 23 novembre, che seguita: “Ancora una volta, il sistema carcerario italiano è sotto accusa. Le recenti notizie provenienti dal carcere di Trapani ci pongono di fronte a una realtà inaccettabile: alcuni operatori penitenziari avrebbero violato i diritti fondamentali di detenuti vulnerabili, in particolare persone con fragilità psichiatriche o psicologiche. Questi episodi- ha affermato don Raffaele Grimaldi (Ispettore Cappellani delle carceri d’Italia) - rappresentano una ferita profonda non solo per le vittime, ma anche per la missione di giustizia e recupero che ogni istituto penitenziario è chiamato a svolgere. Nessun reato, per quanto grave, può giustificare la negazione della dignità umana. Come ci ricorda la Bibbia: “Nessuno tocchi Caino”. In merito ai gravi fatti emersi dal carcere di Trapani, dove 11 agenti penitenziari sono stati arrestati e 14 sospesi con l’accusa di torture e abusi sui detenuti, l’ispettore dei cappellani delle carceri, Don Raffaele Grimaldi, esprime profonda preoccupazione: “Quanto accaduto non solo viola i principi fondamentali di rispetto della dignità umana, ma tradisce la missione stessa degli operatori penitenziari, chiamati a custodire e rieducare. Questi atti deplorevoli gettano un’ombra sulla professionalità della maggior parte degli agenti, che quotidianamente svolgono il loro difficile compito con dedizione e rispetto.” In questo contesto, ci si affida con fiducia alle indagini della magistratura per fare piena chiarezza sull’accaduto, nella speranza che si possa accertare la verità e ristabilire la giustizia. È fondamentale che eventuali responsabilità individuali siano accertate, affinché situazioni simili non si ripetano e la fiducia nel sistema penitenziario possa essere ripristinata. Chi lavora in un carcere affronta quotidianamente situazioni complesse e stressanti, spesso aggravate dal sovraffollamento e dalla carenza di risorse. Tuttavia, l’istituzione penitenziaria non deve essere solo un luogo di pena, ma un contesto di revisione critica del proprio vissuto, volto al recupero e alla riabilitazione del detenuto. Nonostante le difficoltà strutturali e le limitazioni di personale, molti operatori si impegnano quotidianamente per offrire ai detenuti opportunità di riscatto attraverso attività trattamentali, educative e lavorative. Questo impegno merita di essere riconosciuto e sostenuto, non solo per garantire un ambiente rispettoso della dignità umana, ma anche per evitare che le carceri diventino, come ha detto Papa Francesco, “polveriere di rabbia”. È necessario un cambio di prospettiva: dobbiamo umanizzare le nostre carceri, offrendo percorsi concreti di recupero e formazione- soggiunge l’ispettore dei Cappellani -. La società civile e le istituzioni sono chiamate a sostenere gli operatori penitenziari attraverso una formazione permanente e a promuovere un approccio basato sul dialogo e sul rispetto. Le carceri devono diventare “luoghi di speranza e di riscatto”. La Chiesa, attraverso l’opera dei cappellani e dei volontari, continuerà a tendere la mano ai detenuti, offrendo conforto e speranza. Il prossimo Giubileo, con l’apertura della Porta Santa nel carcere di Rebibbia da parte di Papa Francesco il prossimo 26 dicembre, rappresenta un segno forte di misericordia e vicinanza a chi vive dietro le sbarre. È un richiamo a tutti noi: non possiamo restare sordi o ciechi di fronte alle sofferenze di questo mondo nascosto. L’emergenza attuale è un campanello d’allarme. Servono scelte coraggiose - ha concluso don Grimaldi - per affrontare il sovraffollamento e garantire condizioni di detenzione dignitose. Solo così potremo costruire un sistema che non si limiti a punire, ma che sappia davvero offrire una seconda possibilità”. Catania. “L’ergastolo sociale è inaccettabile”. Progetto sul lavoro agli ex detenuti di Gualtiero Parisi La Sicilia, 25 novembre 2024 Fra carceri e mondo del lavoro si può costruire un ponte di inclusione, ed è questa la sfida che l’Università di Catania vuole portare avanti insieme a Seconda Chance, l’associazione no profit che si occupa proprio del reinserimento dei detenuti nelle attività lavorative. Venerdì per oltre due ore se n’è discusso nell’aula magna di Palazzo di Scienze, davanti a studenti, operatori del settore, rappresentanti dell’associazionismo e dell’imprenditoria catanese. Il tema del convegno era: “Oltre le sbarre: metamorfosi e inclusione. Lavoro, rinascita e dignità nelle carceri”. Il professor Marco Romano, Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese, ha fatto gli onori di casa spiegando il perché di questo progetto finanziato dal GRINS (Generare Resilienza Inclusione e Sostenibilità) per Seconda Chance: “Puntiamo a rendere operativa una sostenibilità sociale tramite dati socioeconomici e demografici curati con algoritmi avanzati. La sintesi di questi concetti sarà poi analizzata con lo strumento della IA per seguire un modello Phygital - che unisce cioè la realtà fisica a quella digitale - in un percorso nel quale la creatività è tutta nostra. Come partner aver trovato un’associazione come Seconda Chance, che vanta un percorso molto qualificato all’interno delle carceri, per il nostro ateneo è garanzia per raggiungere il risultato”. Il professor Roberto Cellini, che del GRINS è il responsabile per l’Università etnea, ha spiegato il senso più generale di un progetto - finanziato dalla UE - che su più campi raggruppa parecchi atenei italiani, mentre la professoressa Teresa Consoli, ha sottolineato l’efficacia del polo didattico universitario - da lei presieduto - all’interno delle carceri della Sicilia Orientale. Maurizio Nicita, responsabile in Sicilia di Seconda Chance ha argomentato: “Non si può condannare all’ergastolo sociale una persona che ha scontato la propria pena: il lavoro è dignità. E in questo progetto la nostra associazione assume per un anno, con regolare contratto, due detenuti, in coerenza con la propria mission”. Uno di questi P.Z. è un sociologo - laureatosi proprio in carcere - e in collegamento video ha spiegato l’efficacia di un progetto: “Capace di guardare le cose dal di dentro per far sì che i detenuti vengano aiutati in un percorso di conversione, che deve essere prima di tutto personale”. Si è parlato di carenze strutturali del sistema carcerario e Giuseppina Irrera, che dirige l’ufficio detenuti e trattamento Provveditorato Sicilia, ha spiegato: “Nonostante le grandi difficoltà si cerca di portare avanti un percorso di istruzione scolastica fondamentale. Scuola e associazioni del terzo settore sono alleati indispensabili per noi”. Il progetto “PriTJP - Prison training for job placement” (Formazione per l’inserimento lavorativo) è stato esposto dal responsabile scientifico, il professor Bruno Antonio Pansera: “Con Seconda Chance siamo entrati in sintonia. Perché io sono uomo di numeri, ma i numeri hanno un’anima. E attraverso la ricerca statistica che faremo all’interno delle carceri, puntiamo a una profilazione delle professionalità tenendo conto di tutte le specificità. Perché il lavoro sia per tutti e di ciascuno”. Gabriella Stramaccioni del Segretariato Cnel per i detenuti ha snocciolato numeri che fanno riflettere: “Su oltre 62 mila detenuti sono circa 18 mila quelli che lavorano ma la stragrande maggioranza svolgono servizi per lo stesso istituto. Soltanto 3200 hanno reali datori di lavoro e ancor meno, 1800, sono autorizzati all’esterno. Il carcere diventa un modo sbrigativo col quale si pensa di risolvere il problema. C’è tanto da lavorare. A proposito di scolarità: solo il 10 per cento dei detenuti ha un diploma. E forse non è un caso che l’unica donna sottoposta al 41 bis sia analfabeta”. Il nostro direttore Antonello Piraneo ha stimolato i relatori con domande e poi ha sintetizzato: “Le competenze dell’associazionismo e degli addetti ai lavori fanno sì che possa nascere un lavoro di squadra efficace. Gli studi statistici sono fondamentali ricordando che dietro un algoritmo ci sono persone. Da questo consesso emerge con ottimismo una strada da poter seguire”. Milano. Fuori dal carcere, a fare i conti con la libertà di Nicola Lipomo chiesadimilano.it, 25 novembre 2024 Uscire di prigione, per fine pena o in misure alternative, talvolta è difficile, tra smarrimento e solitudine, povertà o problemi psichici. Ma i progetti di accoglienza, pur con tanti ostacoli, esistono. “Ieri mi ha contattato una volontaria del carcere di Vigevano per chiedere se possiamo accogliere una donna di circa 70 anni che tra poco finirà di scontare la sua pena. Non ha nessuno che la possa aiutare, non ha una rete di supporto, inoltre non ha più la residenza e questo rende il tutto più complicato”. Quella che racconta Gaia Lauri, assistente sociale della Casa della carità di Milano, non è una richiesta così inconsueta per la storica struttura milanese votata all’accoglienza dei più fragili. Ed è al tempo stesso una vicenda che sintetizza molte delle difficoltà che deve affrontare chi, dopo aver trascorso un periodo in carcere, sta per tornare all’esterno, perché ha terminato di scontare la propria pena o perché può beneficiare delle cosiddette misure alternative. Contrariamente a quanto si può pensare, infatti, l’uscita dal carcere può essere un momento molto difficile, in particolare per chi è più povero, più fragile, è dipendente da sostanze o ha problemi di salute mentale. Perché una volta “fuori” è necessario fare i conti con una serie di problemi che durante la detenzione erano stati “sospesi”. A partire dalla mancanza di una casa, che rappresenta un requisito fondamentale per quei detenuti che hanno diritto a scontare gli ultimi due anni della propria pena in misura alternativa. I numeri - Occorre però fare un po’ di chiarezza. In tutta Italia al 31 dicembre 2023 risultano più di 83 mila i detenuti che beneficiano di diverse forme di misure “alternative e di comunità”: soprattutto uomini (88%) e cittadini italiani (circa 80%) che, invece di scontare la propria pena (in toto o in parte) in carcere, affrontano percorsi di reinserimento sociale sul territorio o a cui vengono applicate misure di comunità. Secondo i dati forniti dall’Ufficio interdistrettuale per l’esecuzione penale esterna (Uiepe), nel 2023 in Lombardia erano 15.839 le persone in misura (di nuovo, soprattutto uomini e con cittadinanza italiana): il 19% impegnati in lavori di pubblica utilità per aver violato il codice della strada, il 28% in messa alla prova e il 47% a scontare la pena secondo una delle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario, ovvero l’affidamento in prova ai servizi sociali, la detenzione domiciliare e la semilibertà. “Sia tra chi arriva a fine pena, sia tra chi ha maturato i requisiti per accedere alle misure alternative, molti non hanno un posto in cui andare. Spesso i genitori o il coniuge non vogliono avere rapporti con il proprio congiunto, e quindi viene meno la possibilità di un ritorno a casa - spiega Alessia Mazzotta, mediatrice familiare dell’associazione di volontariato Il Girasole -. Per questo lavoriamo molto per ricucire i rapporti e prestiamo una particolare attenzione al ruolo genitoriale, quando ci sono figli”. L’associazione, inoltre, mette a disposizione alcuni appartamenti per l’accoglienza dei detenuti in misura alternativa all’interno di un percorso di accompagnamento che coinvolge educatori, psicologi e volontari, e che ha come obiettivo finale il reinserimento sociale. Milano. La piattaforma che permette di donare alle carceri arredi rigenerati di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 25 novembre 2024 Trentamila chilogrammi di arredi in buone condizioni che in modo antieconomico sarebbero stati smaltiti sono stati invece donati da aziende e privati a quattro carceri milanesi. Il tutto grazie all’incontro tra domanda e offerta favorito da una piattaforma tecnologica antispreco. I numeri sono significativi dal punto di vista ambientale: dalla rigenerazione di 70 mila euro di mobili si sono risparmiate 16 tonnellate di anidride carbonica che equivalgono al beneficio potenziale di un “salvataggio” di 650 alberi, calcola la piattaforma Regusto. I “fortunati” destinatari sono Opera, Bollate, San Vittore e Beccaria. “Il carcere dovrebbe essere per definizione il luogo del recupero, della seconda possibilità - spiega Giacinto Siciliano, appena promosso da direttore della casa circondariale di San Vittore alla direzione del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Roma -. Questa collaborazione migliora le condizioni di vita all’interno della struttura e aiuta l’ambiente. Non solo: è una prova di attenzione del territorio alla realtà del carcere e di osmosi virtuosa tra carcere e realtà istituzionali e del Terzo settore”. Il progetto coinvolgerà “tutte le aziende interessate a donare le proprie eccedenze e potrà essere replicato in altre parti d’Italia se ci sarà il supporto delle istituzioni” aggiunge il consigliere comunale pd Alessandro Giungi che ha coordinato l’iniziativa insieme alle aziende Saipem e Tecnomat: “Stiamo coinvolgendo catene di alberghi, multinazionali e realtà più piccole. Le aziende non devono pagare per lo smaltimento e lo stoccaggio di prodotti non più vendibili e godono degli sgravi fiscali previsti dalle leggi anti spreco. Dal lato loro, le carceri devono essere luoghi curati in cui trascorrere il periodo di pena in maniera dignitosa, obiettivo non sempre rispettato”. Oltre alla piattaforma è servita la collaborazione dell’associazione Aiutility, che re- distribuisce quella forma di ricchezza per “riqualificare strutture detentive mentre si aspettano gli interventi importanti che sarebbero necessari per restituire dignità a quei luoghi”. Il raggio d’azione della piattaforma Regusto - nata per evitare lo spreco alimentare - si è allargato via via al riciclo anche in altri campi, e i luoghi di detenzione sono uno degli esempi dove le ricadute di percorsi virtuosi sarebbero visibili anche sotto il profilo dell’occupazione. Meno di un mese fa al carcere Bollate è stato inaugurato ad esempio da A2a il primo impianto in Italia per il trattamento dei rifiuti di apparecchiature elettroniche che funziona grazie all’intelligenza artificiale. In Lombardia vengono raccolte ogni anno circa 5.750 tonnellate di televisori e monitor, e con la nuova linea robotica l’impianto all’interno del carcere potrebbe trattare fino al 17 per cento di quanto raccolto in tutta la regione, dando lavoro a decine di detenuti. Esattamente come potrebbe essere in futuro se il riuso e il riadattamento dei materiali grazie alla piattaforma Regusto diventeranno sistematici. Milano. Il cappellano dell’Ipm Beccaria affiancato da un imam: “Avamposto di dialogo” di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2024 Accanto al cappellano nell’istituto di pena minorile Beccaria di Milano ci sarà anche un imam. L’idea è venuta a don Claudio Burgio che oggi è l’assistente spirituale del carcere e punto di riferimento per i giovani di ogni religione. Un appello che è stato raccolto dall’Arcidiocesi e dal Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale tanto che è già stata individuata una figura che ha già dei rapporti consolidati con la Chiesa metropolitana. Si tratta di una novità in assoluto che per ora non potrà che rivestire il ruolo di volontario perché la normativa italiana prevede solo la presenza istituzionale del cappellano retribuito dal ministero della Giustizia. “La percentuale di migranti non accompagnati, provenienti soprattutto da Paesi di religione islamica, sta crescendo enormemente nelle carceri del Nord Italia. Credo che il dialogo inter religioso in avamposti come questi sia necessario per accompagnare i ragazzi a vivere senza violenza il periodo detentivo. I musulmani non necessitano di spazi pensati come moschea, pregano in cella con il loro tappetino rivolto verso La Mecca. A volte non sono - allo stesso modo dei cristiani - nemmeno così praticanti e formati: una figura di imam riconosciuta dalla diocesi e dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria può servire anche a formare e informare”. Don Burgio conosce bene la realtà del Beccaria che in quest’ultimi mesi è finito sotto i riflettori per gli episodi di cronaca. Il cappellano lavora da anni in quel luogo e condivide le richieste di tutti i ragazzi. “Il rapporto con Dio per i giovani d’oggi è diverso da quello delle generazioni precedenti - racconta ai media vaticani - è molto meno formale e convenzionale e più personale, spesso critico verso le istituzioni e la tradizione, ma comunque c’è ed è per questo che abbiamo bisogno di un approccio diverso con questi ragazzi”. La proposta è piaciuta ai giovani musulmani dell’Ipm: “Sono desiderosi di conoscere questa figura quando arriverà e di portare avanti insieme un discorso formativo e di preghiera - afferma il cappellano - è un modo per convivere e spero diventi anche un modo per spegnere i momenti di fatica e conflittualità che inevitabilmente in carcere si presentano”. In questa prima fase l’imam sarà costretto a entrare in forma volontaria attuando una collaborazione con don Burgio che è, invece, una figura riconosciuta ufficialmente dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un primo passo quello del Beccaria e della diocesi di Milano verso una necessaria riflessione da parte del legislatore per fare in modo che le diverse presenze in cella abbiano una figura spirituale cui far riferimento. L’idea del cappellano milanese dimostra quanto sia vivo il dialogo interreligioso tanto caro a Papa Francesco all’interno della Chiesa: “Nel campo della Pastorale carceraria siamo un po’ indietro, ma è importante avviare questo dialogo - spiega - ci sono diverse esperienze in alcuni istituti italiani, ma non è ancora una prassi consolidata, speriamo lo diventi al più presto”. Salerno. Diritti e dignità per detenuti, protesta contro il ddl “sicurezza” cronachesalerno.it, 25 novembre 2024 A fronte della capienza regolare che non può superare i 376 ospiti, ce ne sono all’interno ben 598, come riporta il sito del Ministero della Giustizia. Da qui, deriva il peggioramento di problemi strutturali dell’edificio quali infiltrazioni di acqua nelle finestre e anche razionamento dell’acqua calda in alcuni settori del carcere. È quanto emerge dall’ispezione parlamentare del deputato Franco Mari che nei giorni scorsi si è recato presso la Casa circondariale - Antonio Caputo a Fuorni per esprimere solidarietà e vicinanza ai detenuti e alle detenute che “vivono condizioni difficili e spesso ai limiti dell’umano”. Parallelamente, dinanzi la struttura si è tenuta una manifestazione di protesta contro il DDl 1660. Dall’ispezione resta confermato il grave problema del sovraffollamento. In particolare, in merito alla situazione delle carceri nel nostro paese, i dati pubblicati dal monitoraggio di Antigone (associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”) evidenziano che il tasso di sovraffollamento nelle strutture carcerarie italiane, al 2023, era del 119%. Nel 2024 sono stati 77 i suicidi avvenuti, mentre i tentativi di suicidio sono in media 2 per ogni 100 detenut?. “Anche la casa circondariale di Salerno, a Fuorni, presenta dati vergognosi. Sono 156 gli eventi di autolesionismo nel 2022, mentre il tasso di sovraffollamento è al 123% (fonte: associazione Antigone)”, hanno dichiarato gli organizzatori. La prossima tappa del coordinamento salernitano per il no al DDL 1660 è l’assemblea pubblica degli operatori del Diritto contrari al DDL 1660, evento che si terrà al circolo Arci Marea, in via Davide Galdi n.10 di Salerno, il giorno 26 novembre 2024 alle ore 20. Infine, l’Assemblea salernitana contro il DDL 1660 chiede: diritti e tutele anche per chi è detenut?; che il problema del sovraffollamento venga affrontato concretamente, non introducendo nuovi reati soffocanti che contribuiscono ad esacerbare questa situazione; cura e supporto psicologico per chi vive situazioni di profondo disagio all’interno del carcere; attività educative e formative per le persone ristrette perché venga rispettata la missione a cui il carcere è chiamato, cioè la rieducazione. Roma. Il carcere e i principi costituzionali imgpress.it, 25 novembre 2024 Si è concluso il 55° Convegno Nazionale SEAC (Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario) tenutosi a Roma in due sedi differenti, la Casa Circondariale Regina Coeli e la sala convegni dell’Istituto Suore Maria Bambina. Il tema centrale: il carcere e i principi costituzionali. Numerosi sono stati gli interventi, utili a farci riflettere su come affrontare la situazione carceraria attuale che, senza alcun dubbio, richiede riforme significative, come maggiori investimenti nelle strutture, l’implementazione di programmi di reinserimento efficaci, l’aumento del personale per quanto riguarda l’area educativa, etc. È stato sottolineato più volte come, la tutela costituzionale e dei diritti umani sia un imperativo morale e legale. Abbiamo ascoltato testimonianze così forti da “scavare” la nostra anima, questo “tempo vuoto” che appartiene al carcere, questo malessere costante che vivono le persone detenute, che troppo spesso definiscono il loro presente “inutilizzabile” quando invece basta solo un minimo di speranza per sentirsi meno soli. L’amore che si dà senza aspettarsi nulla in cambio, “servire gratuitamente”, queste sono solo alcune delle espressioni utilizzate durante il convegno. Ovviamente, solo un impegno costante da parte di tutti può dare vita a un sistema carcerario italiano che rispetti appieno la dignità umana e tuteli i diritti costituzionali e umani dei detenuti. Un ringraziamento speciale va al Cappellano della Casa Circondariale Regina Coeli, Padre Vittorio Trani e alla Presidente f.f. del SEAC, Maria Chiara Niccolai che hanno reso possibile tutto questo. Verbania. Storie di carcere e di riscatto sociale con il “Milanese” di Mauro Pescio di Beatrice Archesso La Stampa, 25 novembre 2024 Mauro Pescio autore di “Io ero il Milanese”, podcast e libro, è oggi a Casa Ceretti a Intra per raccontare la storia vera di un riscatto, una rinascita: un ex rapinatore che ha scelto di cambiare vita a dimostrazione che - pur con fatica - si può fare. Da un podcast a un libro, la testimonianza assume valore di prova che una rivincita sociale è possibile. Pescio nella sala che è una sede distaccata del museo del Paesaggio di Verbania presenta alle 18,30 “Io ero il Milanese” (che è possibile acquistare sul posto grazie alla libreria Libraccio) sulla vita di Lorenzo, ex rapinatore che ha saputo trasformare il passato in opportunità. Lorenzo ha soltanto 10 giorni quando per la prima volta entra in carcere: il padre è un rapinatore detenuto a San Vittore. Quando esce, il genitore riporta la famiglia in Sicilia, e lì Lorenzo impara le regole della strada e la “carriera” criminale assume le sembianze di un vanto agli occhi della comunità. Ha 12 anni quando compie il primo furto, poi è un’ascesa continua in un vortice di violenza e rapine, ormai un’impostazione di vita che termina con arresti e una lunga condanna al carcere. È qui, quando inizia ad arrendersi all’idea di passare una vita in cella, che avviene il cambiamento. Quando esce di prigione Lorenzo incontra Mauro Pescio e gli affida la sua storia, che diventa libro. Pescio, diplomato alla Civica scuola di teatro Paolo Grassi di Milano, ha lavorato dieci anni in una compagnia da lui fondata a Roma e dal 2013 è autore per Radio24, Radio2, Radio3, Audible, Chora, Raiplaysound. Tra i podcast ci sono “La piena”, “Genova per tutti”, “La cattura” e “Io ero il Milanese”. Quest’ultimo, in cui Lorenzo racconta errori giovanili e detenzione fino alla trasformazione, è diventato il libro presentato oggi (l’autore dialoga con Riccardo Brezza) a Casa Ceretti scelto come luogo significativo dell’incontro perché a sua volta ha all’attivo, nella Caffetteria omonima adiacente, progetti di economia carceraria curati dalla cooperativa “Il Sogno” che coinvolgono persone che stanno affrontando la detenzione e sono alla ricerca di un riscatto sociale. Forlì. Il carcere si trasforma in un palcoscenico con lo spettacolo “Un rumoroso silenzio” forlitoday.it, 25 novembre 2024 Lunedì 25 alle 15.00 e in replica martedì 26 novembre alle14.30, il festival “Trasparenze” di Teatro carcere arriva in Romagna e precisamente a Forlì, dove la Casa Circondariale di via della Rocca si trasforma in palcoscenico per accogliere “Un rumoroso silenzio”, una produzione di Contatto Odv e Malocchi e profumi Aps e Coordinamento teatro carcere Emilia-Romagna. Lo spettacolo, che ha la regia di Sabina Spazzoli, Michela Gorini e Davide Zagnoli, che firmano anche la drammaturgia, vede in scena attori detenuti della Casa Circondariale forlivese, sezioni maschile, femminile e protetti e allievi del Liceo classico Monti di Cesena. Così nelle note di regia: “Un rumoroso silenzio chiude il percorso triennale “Miti e utopie”. In una continuità ideale con Città sul filo, spettacolo presentato lo scorso anno, si volge ancora una volta lo sguardo verso un mondo ideale, un mondo utopico, dove protagonisti involontari sono i libri rinchiusi nella biblioteca di un carcere. Nessuno li legge più, impolverati, abbandonati all’oblio, vengono privati della loro funzione vitale: trasmettere conoscenza, emozioni, storie. Vivono un’esistenza statica e malinconica, chiusi negli scaffali, privi di lettori. Accade allora che, in un atto di ribellione, i protagonisti dei romanzi decidano di spezzare le catene metaforiche e rivendichino la loro libertà. Non si ribellano all’autore, ma al silenzio. Vogliono essere letti, vogliono avere voce, essere ascoltati, riscoperti. Vogliono dire chi sono, affermarsi. Il tema centrale dello spettacolo diventa allora una riflessione sul valore della cultura, la necessità di mantenerla viva e la pericolosità di un mondo che se ne dimentica.” La quarta edizione del festival Trasparenze di Teatro carcere che si tiene in sette Istituti Penitenziari della regione Emilia-Romagna è un percorso tra gli spettacoli del coordinamento Teatro carcere Emilia Romagna, formato delle compagnie che operano con progetti teatrali nelle carceri della regione Emilia-Romagna e organizzato dal Teatro del Pratello. Nove le città coinvolte: Bologna, Castelfranco Emilia, Ferrara, Pontelagoscuro, Forlì, Modena, Parma, Ravenna, Reggio Emilia. Per info e prenotazioni teatrodelpratello@gmail.com - 3331739550. Ingresso unico 10 euro. Prenotazione consigliata. È possibile accedere anche senza prenotazione fino a esaurimento posti. Rileggere la storia delle mafie con gli occhi della memoria di Mariachiara Rafaiani Il Domani, 25 novembre 2024 “L’inferno ammobiliato. Di ‘ndrangheta, di memoria e di Calabria” (Blonk 2024, pp. 176, euro 14) è un libro di Anna Sergi. “Se la ‘ndrangheta rende la Calabria un inferno, come fanno i calabresi a viverci?”, si è chiesta Anna Sergi. Per rispondere la criminologa ha scritto un libro originalissimo, che parte dal suo sguardo intimo e personale. Una montagna immensa, antica, che tutto vede e tutto sa, che incorpora amore, sofferenza e crudeltà. Una montagna muta ma piena di gole e di boschi, dove regna un silenzio squarciato solo dalle litanie ancestrali delle donne, dalle voci assordanti dei torrenti e dal rumore mortifero della ‘ndrangheta. Una montagna insanguinata ma che per la piccola Anna è più di un’amica; è un luogo magico e senza tempo che le regala frutti preziosi come le more e la solitudine. La montagna è l’Aspromonte, il massiccio che delimita il confine più meridionale della Calabria nelle cui viscere centinaia di persone, tra gli anni Settanta e Novanta, sono state tenute prigioniere dalla ‘ndrangheta; la “bambina” è Anna Sergi, cosentina, docente di Criminologia all’università di Essex, nel Regno Unito e studiosa tra le più importanti al mondo di ‘ndrangheta e crimine organizzato transnazionale. È lei che in un libro di 176 pagine uscito per Blonk con il titolo L’inferno ammobiliato, riavvolge il nastro dei ricordi d’infanzia, maturati soprattutto tra l’Aspromonte, Capo Vaticano e Cosenza, per tentare di spiegare, in primis a sé stessa, la complessa anima della propria terra e quella della ‘ndrangheta che lì è nata e cresciuta. L’inferno - Partendo dalle spensierate estati trascorse nel paesino dei nonni “mezzo addormentato” sulla montagna, dai pellegrinaggi alla Madonna di Polsi insieme con l’amata nonna Mimma e le altre anziane della ruga recitando novene e cantando canzoni che la riempivano di stupore e dalle strane parole come “mafia”, “‘ndrangheta”, “faida” carpite dai discorsi dei grandi, Sergi descrive e analizza ciò che in quegli stessi anni si svolgeva intorno a lei per mano della ‘ndrangheta: nella sua Montagna, con i sequestri di persona; nella sua Calabria, con la costruzione del porto di Gioia Tauro e dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e con l’avvelenamento sistematico delle terre e dei mari. Mentre Anna cresceva, la ‘ndrangheta si espandeva: smetteva di essere un “ronzio di fondo (…), una di quelle cose che esistono e stanno là, fanno parte dell’arredamento”, per diventare un rumore fortissimo. Esasperato. “Non passa giorno che non ci sia sui giornali, sui social, online, in tv, una notizia legata alla ‘ndrangheta, a torto o a ragione ovviamente. Che si tratti di appalti, politica, traffico di stupefacenti, violenza, la ‘ndrangheta oggi - spesso al singolare, spesso astrattamente - è chiaramente identificabile come nemico dei calabresi, degli italiani, e del mondo intero”, scrive in questo libro nato dalla volontà di mettere “un po’ d’ordine in un guardaroba stracolmo di ricordi di infanzia” nel tentativo di capire come si è formata la sua percezione del “fenomeno ‘ndrangheta”, come nascono i pregiudizi sui calabresi e anche la mitologia che circonda questa organizzazione. Esiste infatti, secondo la studiosa, una serie di discrasie tra il modo in cui il fenomeno viene descritto fuori dalla Calabria e come viene invece percepito dentro. “Se la ‘ndrangheta rende la Calabria un inferno, come fanno i calabresi a viverci?”, è l’interrogativo che si pone. Perché, anziché riconoscerlo come tale e combatterlo, continuano ad ammobiliarlo? È con la rimozione, con lo scivolamento del ricordo e con il silenzio che molte comunità di questa “Italia estrema” hanno potuto e ancora possono continuare a vivere nell’”inferno”. Pensiamo a quel che è accaduto con i sequestri di persona: “Nonostante la mole di conoscenza disponibile, c’è qualcosa, nella crudeltà di quegli anni, che viene cancellato nelle menti di molti calabresi (…) perché qualsiasi tipo di verità è intrinsecamente divisiva per le comunità locali. Laddove è innegabile che molti calabresi, soprattutto reggini, conoscano e ricordino il periodo dei sequestri, non c’è stato probabilmente un riconoscimento adeguato delle violenze inflitte”, osserva. “Quella violenza (…) è rimasta e rimane ancora sullo sfondo, come se non si riferisse proprio a quei paesi, a quella gente, alla terra, agli alberi e ai cieli dell’Aspromonte. Come se riguardasse un altrove. La violenza che non viene apertamente riconosciuta e affrontata tende a rimanere intrappolata all’interno (…) fino a quando non diventa normalità. Forse (…) una normalità edulcorata, ma pur sempre normalità. Un inferno ammobiliato, appunto”. Figlia dello scrittore e giornalista di Repubblica Pantaleone (“Lullo”) Sergi, autore nel 1991 di uno dei primi libri sulla ‘ndrangheta pubblicati nel nostro paese, La Santa violenta: storie di ‘ndrangheta e di ferocia, di faide, di sequestri, di vittime innocenti ed ex sindaco di Limbadi, nel Vibonese, roccaforte del clan Mancuso, Anna Sergi rammenta che un tempo la ‘ndrangheta era “lontana e impercettibile, probabilmente perché era così vicina e ovunque intorno a me, intorno a noi, soprattutto durante i sequestri” e che, paradossalmente, ha potuto vederla davvero solo una volta allontanatasi da lì. È in Australia, dove ha vissuto e lavorato, che ha cominciato a capire il suo Aspromonte, ed è stato solo inseguendo fuori dalla Calabria le intricate rotte dei cognomi aspromontani che ha scoperto come Sergi (non il “ramo” paterno bensì quello di Platì, legato alla famiglia della madre e divenuto parte anche del gruppo reggente a Buccinasco, in Lombardia) fosse profondamente associato con i mammasantissima locali, i capi storici Sergi-Barbaro, e quanto nell’immaginario pop aussie questo cognome sia divenuto un sinonimo di mafia italiana grazie a una serie tv. L’inferno ammobiliato si differenzia nettamente dagli altri testi sulle mafie: il suo approccio intimistico, empatico, in prima persona - “inusuale per chi abitualmente scrive saggi accademici”, ha evidenziato nella prefazione Enzo Ciconte, il massimo esperto in Italia di criminalità organizzata - impreziosiscono un lavoro di ricerca dal criminologico, sociologico e storico puntuale e rigoroso. Impressiona più di tanti numeri il ricordo di uno strano tardo pomeriggio di primavera del 1991 raccontato nel libro. Aveva sei anni, era in viaggio con il suo papà e un po’ sonnecchiava e un po’ giocava con la Barbie sul sedile posteriore dell’auto. Ad un certo punto, arrivati in una piazza di un paese tra le luci di altre macchine, Lullo si era fermato, si era raccomandato con lei che non scendesse ed era uscito in fretta: dal finestrino Anna aveva potuto vedere tante luci, tante persone agitate, i carabinieri. Aveva intuito che qualche cosa era successa lì fuori. Quando il papà era rientrato, le aveva chiesto la Barbie: “La diamo a quella bimba” che piange perché “ha appena perso suo padre”. Anna non voleva dargliela, quella bambola era sua, ma Lullo le aveva detto: “Tu hai un sacco di bambole. Questa la diamo alla bambina, magari la fa sorridere un po’” ed era uscito con la Barbie in mano. Una volta tornato in auto, lo aveva sentito dire al telefono: “‘ndrangheta... Sì, la faida... No... È morto, c’è la sua testa qui, stavano giocando a calcio con la testa in piazza, mi dicono”. Anna Sergi allora non lo sapeva ma quel giorno di maggio, un venerdì, una mattanza si era consumata nella piana di Gioia Tauro: la “mattanza di Taurianova”, con quattro persone ammazzate per vendetta nel giro di poche ore. Una di loro era stata ritrovata con il corpo mutilato: era Giuseppe Grimaldi, la cui testa, tagliata, era diventata per i suoi assassini un macabro pallone da prendere a calci. Le storie bastarde degli ex ragazzi nella Ostia “de lama e de fero” di Davide Desario Il Domani, 25 novembre 2024 La Avagliano editore ristampa “Storie Bastarde, quei ragazzi cresciuti tra Pasolini e la Banda della Magliana” di Davide Desario. Con la prefazione di Francesca Fagnani. A quattordici anni di distanza, dopo due ristampe, la Avagliano editore ha deciso di pubblicare una nuova edizione del mio libro Storie Bastarde, quei ragazzi cresciuti tra Pasolini e la Banda della Magliana. La prefazione questa volta l’ha scritta Francesca Fagnani cogliendo a perfezione lo spirito di questa raccolta di racconti, storie vere. Che hanno un’anima amara, romantica, ironica, tragica. Come solo le storie vere sanno essere. Siamo a Ostia, estrema periferia di Roma. In quegli anni a cavallo tra i 70 e gli 80. Un far west di marane, baracche, palazzoni in riva al mare, dove il confine tra vita e malavita è sottilissimo. Un gruppo di ragazzini vive qui, dove è stato ucciso pochi anni prima Pier Paolo Pasolini, attraversa la pineta dove capita di giocare con il cadavere di un morto impiccato, incrocia più volte i “bravi ragazzi” della Banda della Magliana e la primula rossa delle Br, Barbara Balzerani che si “nascondevano” lontano dagli occhi e dai controlli del centro della Capitale. Ma in realtà, come in questi quattordici anni mi hanno scritto per mail e sui social tantissimi lettori, potrebbe essere un posto qualunque della periferia italiana di ieri e di oggi. Come Caivano, Tor Bella Monaca, Quarto Oggiaro, Scampia o lo Zen di Palermo: una terra dove sopravvivere tra speranza e frustrazione. Ma a differenza di molti film e di tante serie lanciate sulle piattaforme streaming in questo libro i protagonisti non sono né i grandi eroi, i super poliziotti e magistrati, né i famigerati criminali. No, in questo libro ho voluto invertire la messa a fuoco. In primo piano ci sono le persone normali, noi. Quelli che la mattina si alzano e combattono per andare a lavorare, per studiare, per farsi curare, per essere genitori, figli, studenti, impiegati o commercianti. E solo sullo sfondo scorre la cronaca dell’epoca, come la tragedia di Vermicino, il sequestro di Aldo Moro. Risse, pestaggi tra rossi e neri, fionde e motorini rubati, scippi e scommesse, rivalità tra bande nemiche, le storie d’amore diventano lenti d’ingrandimento su una gioventù che cerca un futuro. “I racconti di Storie Bastarde - scrive Francesca Fagnani - ci consentono di sfogliare un album di foto, ingiallite dal tempo ma capaci di risvegliare emozioni potenti”. Una giovinezza, che parla la lingua della strada, malinconica e ruvida allo stesso tempo. Pagine dove si riassaporano i sapori e le musiche di anni che hanno visto gli adolescenti di allora vivere un’introduzione al mondo dei grandi senza le protezioni che riversiamo oggi in figli che accompagniamo in macchina anche all’università. D’improvviso i pischelli si sono ritrovati uomini. Ma hanno lasciato troppi amici per strada: tra overdose, morti ammazzati e destini infami. Sfide innocenti e giochi pericolosi, una umanità “de lama e de fero”, la metropoli e la città. E ti chiedi che cosa è successo? Perché, come si domanda lo scrittore Giancarlo De Cataldo, allo sparo dello starter tutti si mettono a correre di gran lena e poi solo pochi fortunati arrivano al traguardo? Perché qualcuno ha sbagliato strada? Perché qualcuno si è perso? Perché qualcuno ha deciso di fermarsi e farla finita? È il mistero della vita, ti rispondi. E sai benissimo che non potrai essere tu a svelarlo. Oggi oltre alla nuova edizione l’attore Fabio Avaro ha deciso anche di farne uno spettacolo teatrale, con la regia di Ariele Vincenti. Uno spettacolo che rende ancora più vive quelle storie e rende ancor più evidente il mistero della vita. E allora lasciamolo stare il mistero e teniamoci stretta la vita. Quella di oggi e quella di ieri. Senza rimpianti per quei sogni che sono rimasti là: sul muretto di una piazza, attaccati a un pallone finito sotto un camion o incisi sul tronco di un albero in pineta. Le Storie bastarde, le mie e quelle di chiunque (perché sono certo che ognuno ha le sue), ci ricordano come eravamo. E ci aiutano a comprendere come siamo. Perché con i compagni di Storie Bastarde hai riso, hai pianto, hai avuto paura, hai scoperto, hai osato, hai lottato, hai fatto a botte, hai rubato, hai amato, hai consumato dischi e sigarette, hai incrociato le guardie, hai corso, hai fatto gol, hai detto “vengo anch’io”. E se oggi sei quello che sei è perché c’è un po’ di loro dentro di te. Se sei come sei è anche grazie a loro. “La mia Milano meticcia dal Beccaria al Bosco Verticale, i giovani fanno scoprire la città” di Gianni Santucci Corriere della Sera, 25 novembre 2024 Eraldo Affinati, lo scrittore vincitore del premio Flaiano che ha fondato la scuola gratuita per l’insegnamento dell’italiano agli stranieri: “Passo vicino al Bosco verticale e vedo pezzi di New York. In ogni città vedo altre città”. Eraldo Affinati, nel suo ultimo libro (Le città del mondo, Gramma Feltrinelli) lei scrive di trecento città (“conosciute, sognate, inventate”). Il passaggio su Milano si conclude così: “Quel giorno Milano mi sembrò il fossato dell’Europa”. Perché? “Accadde dopo una visita al carcere minorile Beccaria. Quei ragazzi mi sembrarono destinati all’eterna ronda dei prigionieri immortalata da Van Gogh”. Come nacque l’immagine? “Sono sempre stato un insegnante negli istituti professionali. Vado verso gli adolescenti. Al Beccaria me li ritrovai tutti intorno. Chiesi loro: “Usciti da qui, cosa farete?”. Mi risposero: “Prof, torneremo a rubare. Non abbiamo speranza”. Questo è il fossato: lo vidi a Milano in quanto la più europea delle città italiane”. Cosa altro è Milano? “Passo vicino al Bosco verticale e vedo pezzi di New York. In ogni città vedo altre città”. E poi? “In piazza Gramsci ho assistito a partite a pallone interminabili tra ragazzini, alcuni di prima e seconda generazione. Avevano un’intesa trasversale, oltre tutti i possibili confini. Soprattutto: vivevano lo spazio urbano come il proprio giardino condominiale. Una sorta di magia, che ricordava l’Italia degli anni Sessanta”. Dunque, cosa è la città? “Ognuno dovrebbe trovare la sua città. Avere la possibilità di trovarla. Ce ne sono tante del mondo, riunite in ogni città, a seconda degli sguardi. È una scommessa”. Cosa significa sguardi? “La città meticcia cambia sotto i nostri occhi in modo talmente veloce che stentiamo a vederla. Cambia in modo rapido, a volte impercettibile. Le mutazioni più evidenti sono quelle edilizie. Però ci sono trasformazioni più interne”. Come si possono vedere queste città nella città? “Sono i ragazzi che ti fanno vedere la città in movimento. Ti sorprendono, disorientano. Ribaltano le immagini”. Lei ha fondato le scuole “Penny Wirton”. Italiano per ragazzi stranieri. Totale gratuità: sia per chi insegna, sia per chi apprende. In Italia ce ne sono ormai 65. Una anche a Milano, seguita dalla scrittrice Laura Bosio. Cosa accade in queste scuole? “Il meticciato presenta attriti. Non sempre le persone sono disponibili a superarli. Scattano tensioni legate a identità diverse. A scuola tutto è più semplice”. In che senso? “Alla Penny Wirton capita che durante la lezione un ragazzo si interrompa e cerchi un posto per la preghiera. Punta la bussola del cellulare in direzione della Mecca e si inginocchia a recitare la sura”. Cosa racconta l’esempio? “Che se nelle città pensiamo solo al colore delle nostre magliette, all’essere con o contro, si crea attrito. Se invece si punta su un’azione da fare insieme, persone diverse fanno la stessa azione oltre gli ostacoli. Nelle città dovremmo trovare più azioni da fare insieme. Nel nostro caso abbiamo scelto la didattica”. È comunque una scelta politica. “L’obiettivo invece è cercare azioni, campi liberi, dove tutti si possano muovere oltre la politica”. Perché insegnate l’italiano? “Perché crediamo che la lingua non sia solo un mezzo di comunicazione. La lingua è la casa del pensiero. Senza una lingua strutturata il pensiero non è maturo, non si riescono a elaborare emozioni ed esperienze”. Che ragazzi vengono da voi a Milano? “Gli stessi che altrove: ragazzi laureati e ragazzi analfabeti nella loro lingua madre. Per loro l’italiano diventa così la prima lingua per capire chi sono e cosa hanno fatto nella loro vita. Insegnare italiano non significa insegnare i verbi, ma ricostruire personalità, magari con traumi, e trovare una lingua comune”. Chi sono i vostri insegnanti? “Tutti volontari, alcuni sono giovani che arrivano dall’ex alternanza scuola lavoro. Fanno i docenti dei loro coetanei immigrati. Tra adolescenti si creano rapporti straordinari”. “Giurato numero due” è l’amaro testamento di Clint Eastwood: il miraggio di una giustizia giusta di David Romoli L’Unità, 25 novembre 2024 A 94 anni suonati Eastwood racconta la storia di un giovane accusato d’aver ucciso la compagna, con un passato violento che si è messo alle spalle. La verità dell’aula non è la verità, e forse la verità semplicemente non c’è. Non ci sono cattivi in “Giurato numero due”, il grande film sulla giustizia che Clint Eastwood ha diretto a 94 anni dimostrando di non aver perso un colpo con l’avanzare degli anni. Non ci sono polizotti razzisti o colmi di pregiudizi, giudici prevenuti, giurati pigri, pubblici ministeri pronti a tagliare teste senza farsi troppe domande pur di fare carriera, avvocati difensori poco interessati perché poco pagati. Sarebbe troppo facile. Vorrebbe dire che la giustizia c’è, la bilancia potrebbe davvero trovarsi in perfetto equilibrio se a falsarla non fossero gli interessi, le passioni e gli errori del materiale umano. Ma qui di quelle deviazioni c’è poca traccia. L’imputato accusato di aver ammazzato la compagna ha un passato violento ma se lo è chiaramente lasciato alle spalle e si capisce bene che amava davvero la vittima, pur in un rapporto manesco e violento da entrambe le parti. Il colpevole non è turpe: è un bravissimo ragazzo onesto, con una bella famiglia, un futuro davanti che meriterebbe in pieno di vivere, colpevole in realtà solo di essersi trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato. L’avvocato difensore sarà pure d’ufficio ma conosce il mestiere e lo fa con perizia e passione. Il pubblico ministero è una donna in carriera, pronta a buttarsi in politica, ma non al punto di dimenticare che il suo mestiere è cercare la verità prima e più dei voti. Se la giustizia sfugge, se appare impossibile raggiungerla, se si configura come un dilemma senza sbocchi solari che costringe a scegliere tra diversi vie oscure nessuna della quale neppure somiglia alla giustizia è perché la giustizia stessa forse non esiste, o se esiste è molto più complessa di quanto la retorica degli altissimi princìpi non faccia credere. In un certo senso Juror 2 racconta una realtà opposta a quella che metteva in scena 12 Angry Men, il capolavoro di Sidney Lumet del 1957 rimasto da allora e sino all’uscita del film di Eastwood insuperato come film sulla giustizia e sulle dinamiche che la inceppano. Lì 11 giurati prevenuti, condizionati dalle loro esperienze o dalla temperie culturale forcaiola, conformisti o semplicemente pigri erano pronti a condannare a morte un innocente. Il dodicesimo è l’unico a insistere sull’esistenza di un ragionevole dubbio. Pretende un supplemento di riflessione e insiste sino a convincere uno dopo l’altro tutti gli altri. Quella di Lumet era una denuncia dei limiti della giustizia americana in un’epoca ancora fortemente condizionata dal clima isterico della caccia alle streghe. Le indagini erano state superficiali. Il caso era stato dato per risolto e chiuso con fretta eccessiva. I giurati, soprattutto, non assolvevano al loro compito, tutti tranne uno, col dovuto e necessario rigore. Eppure era un film fondamentalmente ottimista. Una vera e perfetta giustizia c’era, si trattava solo di inseguirla con determinazione e onestà e seguendo quella barra anche un solo giurato su 12, dunque anche una piccola minoranza animata da buona volontà e forza interiore, può rovesciare la situazione, impedire che al delitto faccia seguito una anche peggiore forma di ingiustizia operata da chi dovrebbe invece garantire l’opposto esatto. Qualcosa di simile c’è anche nel film di Clint Eastwood: le indagini sbrigative, il peso del pregiudizio. Ma qui l’elemento è secondario perché quel che interessa il regista non sono tanto gli errori che impediscono alla giustizia di funzionare ma la possibilità stessa di una giustizia giusta. Juror 2, sceneggiatura originale di Jonathan Abrams, giovane ed emergente, è una storia di dilemmi morali che Clint gira ed esalta con uno stile anche più minimalista del solito e rinunciando a qualsiasi spettacolarità. Funziona anche grazie ad attori tutti perfettamente nella parte, con l’inglese Nicholas Hoult protagonista nella parte del giurato che si trova alle prese con un caso che lo riguarda sin troppo direttamente, Zoey Deutch, sua moglie, e soprattutto una strepitosa Toni Collette nella parte della procuratrice, con ruoli minori ma essenziali di Kiefer Sutherland e di un veterano come J.K. Simmons. Ma funziona soprattutto perché riesce perfettamente, proprio grazie alla normalità dei personaggi, a restituire in pieno l’enigma di una giustizia impossibile. Il finale resta aperto proprio perché qualsiasi risoluzione il regista avesse scelto di adottare avrebbe implicato una indicazione che Eastwood invece voleva evitare di fornire. Sarebbe stato suggerire cosa è giusto e cosa non lo è o almeno cosa è più giusto e cosa meno, e questo avrebbe comunque comportato una valenza rassicurante. Ma Clint, in uno dei prodotti migliori di una lunghissima carriera, tutto voleva essere tranne che rassicurante. Il premio Balzan alla giustizia riparativa. “Per curare le guerre, si può ripartire dalle scuole” di Marta Serafini Corriere della Sera, 25 novembre 2024 Il riconoscimento all’australiano John Braithwaite: “Investirò in borse di studio in Africa e in Ucraina”. John Braithwaite, professore emerito e fondatore di RegNet (Regulatory Institutions Network), ora School of Regulation and Global Governance (RegNet) presso l’Australian National University, racconta spesso una storia. Parla di una donna che smette di andare al mercato perché ogni volta ci incontra un negoziante che indossa l’orologio di suo figlio ucciso in guerra. Braithwaite, in queste ore a Milano per una guest lecture all’Università Cattolica ospitata dall’Alta Scuola Federico Stella sulla giustizia penale, continua: “La donna era convinta che quell’uomo fosse l’assassino di suo figlio. Ma quando lui decide di incontrarla dopo essere stato convinto da un gruppo di abitanti del posto, le spiega di aver comprato l’orologio rubato durante un saccheggio da un altro uomo. Il commerciante decide di restituire l’orologio alla donna scusandosi per aver indirettamente contribuito alla sua sofferenza. E così la donna torna a fare la spesa al mercato”. Quindi è questo il concetto di giustizia riparativa, di cui lei è considerato il padre, tentare di porre di rimedio e risarcire le vittime anche in modo indiretto? “Innanzitutto, chiariamo che si parte da un concetto: poiché il crimine fa male, la giustizia dovrebbe guarire sempre. È un processo in cui tutti gli attori che hanno vissuto o commesso un’ingiustizia hanno l’opportunità di riunirsi per discutere di chi è stato danneggiato, di cosa si potrebbe fare per riparare quel danno e di soddisfare le esigenze di tutti gli attori coinvolti. Parliamo delle vittime, dei trasgressori e dell’intera comunità. Perché stiamo parlando di giustizia relazionale”. Chi decide? “A volte è il circolo riparatore, ma non è per forza una decisione sanzionatoria. Quella riparativa è una giustizia meno punitiva di quella dei pubblici ministeri e dei tribunali e implica un profondo ascolto di tutti i punti di vista. Un’altra differenza fondamentale è che tiene insieme le due parti, la vittima del crimine e il presunto autore del crimine, e ciò crea una dinamica molto diversa perché porta al tavolo tutti”. Lei è stato attivo nel movimento per la pace, nelle politiche di sviluppo, nel movimento sociale per la giustizia riparativa, nel movimento sindacale e nel movimento dei consumatori, intorno a queste e altre idee per 50 anni in Australia e a livello internazionale. La giustizia riparativa funziona anche per le guerre? “La Corte penale internazionale ha la capacità di perseguire solo un numero molto piccolo di persone. Inoltre raramente riesce ad arrivare a quelli che torturano le persone, che abusano dei diritti umani, che sparano a civili innocenti senza una buona ragione, solo per razzismo, ad esempio, o pregiudizio religioso. Un buon punto di partenza sono le scuole in un contesto post bellico. Se ci saranno scolari disposti, ad esempio, a unirsi ai compagni che vengono cacciati o bullizzati per motivi politici, religiosi o di altro tipo ma legati al conflitto perché sentono che queste mette in pericolo la loro capacità di apprendimento allora questo sarà un buon punto di partenza perché un giorno quegli scolari saranno magari politici, magistrati, giornalisti…I bambini non nascono democratici. Devono imparare a essere democratici e quel tipo di attività in classe può aiutarli ad affrontare le conseguenze della guerra nella loro società mentre crescono”. Un caso pratico? “Pensiamo anche alle donne di conforto dalla Corea della seconda guerra mondiale per le quali il Giappone si rifiutò di fare giustizia di transizione per decenni e decenni e decenni. Elaborarono forme alternative di giustizia guidate dai cittadini, ma con giuristi internazionali illustri che emettevano giudizi indipendenti finché per la prima volta un tribunale ha dato ragione a queste costrette a prostituirsi per i soldati dell’esercito occupante costringendo il Giappone a risarcire alcune di loro”. Lei ha vinto il premio Balzan 2024 per il suo contributo allo sviluppo teorico e alla diffusione della prassi della giustizia riparativa contemporanea, per il suo impegno a servizio delle istituzioni e della costruzione sociale, per il suo lavoro di alta divulgazione scientifica ed editoriale, per la sua dedizione alla crescita culturale delle più giovani generazioni nei valori della giustizia riparativa. Che significato attribuisce a questo riconoscimento? “È un premio così importante e prestigioso. Ma sento di essere solo un piccolo ingranaggio nel movimento sociale per la giustizia riparativa e nella comunità di ricerca internazionale per garantire che questa sia una pratica basata sulle prove. Quindi, sono onorato del premio e userò i soldi proprio per rafforzare questo punto attraverso borse di dottorato per lo studio della giustizia riparativa, principalmente in Africa ma anche in posti come l’Ucraina”. Non è l’ipocrisia linguistica a valorizzare la dignità del lavoro di Letizia Pezzali Il Domani, 25 novembre 2024 L’uso di un linguaggio elaborato non nasce dal desiderio di rispettare la dignità del lavoro, ma da un bisogno di sentirsi moralmente superiori. Etichettarli zuccherosamente “lavori utili” rischia di confondere il problema: non è la natura del lavoro a essere sbagliata, ma il modo in cui valorizziamo il lavoro. Oggi mi occupo delle persone che pagano una donna delle pulizie, ma che non vogliono usare l’espressione “donna delle pulizie”. Questo nonostante la lavoratrice che pagano sia quasi sempre una donna e faccia le pulizie al posto loro, nel loro appartamento. Però niente, queste persone usano altre definizioni, diranno per esempio “la persona che mi aiuta in casa” o simili frasi elaborate, o etichette che suggeriscano una collaborazione, sentendosi così più buoni, come se pulissero i pavimenti in compagnia di questa persona che chiacchiera mentre porge loro uno straccio. Fra un po’ per far mostra di non dire “donna delle pulizie” diranno “la persona che mi sostiene nel delicato compito di far sì che i bagni esprimano la migliore versione di loro stessi”. Negli anni, il linguaggio utilizzato per descrivere certi lavori ha subito trasformazioni. Un’evoluzione apparentemente motivata da un desiderio di rispetto e inclusione, ma che in realtà cela dinamiche sociali e psicologiche più complicate, e rivela i dilemmi della nostra storia economica. Il termine “donna delle pulizie” forse non piace perché evoca immagini chiarissime: una persona, quasi sempre una donna (ma ci sono anche gli uomini, in tal caso il termine semplice sarebbe “uomo delle pulizie”) che si dedica a un lavoro considerato dalla società umile, necessario, ma marginale. Oggi il lavoro manuale - e quello domestico in particolare - è svalutato, benché sia indispensabile. Evitare di chiamare questa figura per quello che è sembra riflettere il desiderio di non guardare in faccia la realtà del “servizio”. La donna (uomo) delle pulizie non è un’amica o una collega “che ti dà una mano” per simpatia: è una lavoratrice pagata per svolgere un servizio. “Eh ma è un rapporto molto intimo, mi piega le mutande!” (Ho sentito anche questa). Vi svelo un segreto: questa persona non prova sentimenti nei confronti della vostra biancheria. Mascherare la realtà In molti casi, l’uso di un linguaggio elaborato non nasce dal desiderio di rispettare la dignità del lavoro, ma da un bisogno di sentirsi moralmente superiori. Il test: provate a esprimere delle perplessità sul tema, subito arriverà qualcuno a dirvi che voi, proprio voi che chiamate le cose col loro nome, siete classisti. Il risultato è un’ipocrisia linguistica. Si maschera la realtà con formule che suonano più accettabili, per evitare il disagio che il termine “pulizie” sembra generare. Non accettiamo di essere così orrendi da chiedere ad altri di gestire la nostra sporcizia, eppure questo è ciò che facciamo. La questione non riguarda solo il linguaggio, ma anche il rapporto che abbiamo con il lavoro manuale e con la nostra stessa immagine: chi utilizza questi eufemismi vuole dissociarsi dalla sensazione di essere privilegiato. Ma privilegiato ci sei e ci rimani. Fra l’altro lo sei anche rispetto a chi non può permettersi di pagare chi gli lucidi il parquet. Solo che combattere i privilegi (e rinunciare in parte ai propri) costa fatica. Parlare in modo soave no. Il vero focus - Se l’obiettivo ultimo fosse una reale equità, allora diremmo: è giusto che esistano lavori umili? Ed è giusto che alcune persone, solo perché hanno i soldi, paghino altri per svolgerli? Potremmo immaginare un mondo in cui ogni individuo si occupa autonomamente di tutti i propri bisogni, come una piccola repubblica autosufficiente. Oppure un mondo in cui lo stipendio è uguale per tutti, indipendentemente dal lavoro svolto (ma in questo secondo mondo certi lavori sarebbero comunque considerati migliori di altri, non basta togliere la variabile economica). Tuttavia sappiamo abbondantemente che gli umani non auspicano l’esistenza di simili mondi. La realtà va da un’altra parte. Tornando al concreto. Alcuni lavori sono utili al funzionamento di una comunità. Etichettarli zuccherosamente rischia di confondere il problema: non è la natura del lavoro a essere sbagliata, ma il modo in cui valorizziamo il lavoro. Come riconoscere il valore di una professione senza relegare chi la svolge a una condizione sociale di inferiorità, economica ma anche sociale? Durante la pandemia abbiamo riflettuto sul merito etico delle professioni essenziali, che spesso sono professioni umili o precarie (che scoperta, eh?). Abbiamo speso belle parole cercando di capire come si possa creare una nuova idea di società che riconosca appieno il contributo di tutti i lavoratori. Finita la pandemia, siamo tornati a essere i soliti stronzi. Perché come sempre anche oggi ce la faremo domani. Femminicidi, quando il rosso dell’indignazione sbiadisce in fretta di Simona Musco Il Dubbio, 25 novembre 2024 Nonostante aumenti la consapevolezza sul tema, l’emergenza non finisce. Il fenomeno così diventa sistemico. Novantasette donne uccise. Anche nel 2024, la violenza di genere non è passata di moda. Tanto che una donna su tre dichiara di averne subito almeno una volta nella propria vita. E mentre le facciate dei palazzi e le panchine si tingono di rosso e le piazze si riempiono di striscioni, il colore dell’indignazione sbiadisce, giorno dopo giorno. Ne è prova il fatto che per il 30 per cento dei giovani la gelosia è una dimostrazione d’amore, percentuale che sale al 45 per cento tra i 14-15enni, secondo la ricerca “Giovani Voci per Relazioni Libere”, condotta da Differenza Donna tra ragazzi e ragazze tra i 14 e i 21 anni. Il sintomo di una deriva culturale ed educativa che rende il problema tutt’altro che superato. Nel 2023, i femminicidi hanno costituito quasi il 36 per cento di tutti gli omicidi, con 17.789 casi di maltrattamenti familiari, 12.061 atti persecutori e 5.421 violenze sessuali. I dati mostrano che la violenza avviene principalmente nell’ambito familiare e della coppia, con il 41% degli omicidi compiuti dai partner attuali e il 12,8% da ex partner. Gli uomini sono responsabili del 93,3% degli omicidi, mentre le donne rappresentano solo il 6,7%. In Italia, le donne sono uccise dai partner o ex partner nel 51,5% dei casi, mentre le straniere nel 68,7%. I femminicidi costituiscono l’82% degli omicidi delle donne. Per quanto riguarda la sicurezza, le donne si sentono significativamente più insicure rispetto agli uomini, con una maggiore propensione a evitare di uscire di sera per paura. Nel 2023, l’omicidio di Giulia Cecchettin ha scosso profondamente l’Italia, riaccendendo un dibattito che si ripete con una preoccupante frequenza: ogni circa tre giorni, statistiche alla mano, una nuova tragedia familiare riporta la violenza di genere all’attenzione pubblica. Senza alcun esito, se non quello di inneggiare alla gogna, alla castrazione chimica, alle torture fisiche e all’inutilità del processo, che tanto non serve. Un dibattito impregnato, per buona parte (e in buona fede, per una certa percentuale), della stessa cultura paternalistica che lo genera: le donne non si toccano nemmeno con un fiore. Perché diverse, fragili, da proteggere. Ovvero, ancora una volta, subalterne. E quando gli uomini sono violenti, se non sono dei mostri (dunque un’eccezione), la colpa è delle madri, che non li hanno saputi educare. Copyright della deputata leghista Simonetta Matone. La violenza di genere è vista come un problema eccezionale, legato a individui devianti, piuttosto che come un fenomeno sistemico. Ad ogni nuovo fatto di cronaca capace di suscitare l’indignazione collettiva e non tutti hanno questa dignità -, la proposta è sempre la stessa: “pene più dure”. È un mantra tutto italiano, qualunque sia il fenomeno da debellare, dai furti in casa alle botte agli infermieri. Un antidoto a costo zero che sembra risolvere il problema, ma che in realtà non cambia nulla. Studi scientifici hanno dimostrato infatti che l’aumento delle pene non riduce la violenza. Ad esempio, uno studio condotto da Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, professori di criminologia dell’Università Bicocca, ha mostrato che la “tolleranza zero” non riduce i crimini violenti, anzi, in alcuni Paesi con pene severe, come quelli che ricorrono alla pena capitale, gli omicidi sono addirittura più frequenti. Negli undici Paesi che hanno abolito la pena di morte, invecem gli omicidi sono diminuiti significativamente. La conclusione di questi studi è chiara: l’aumento delle pene non ha alcun impatto positivo sulla sicurezza, ma solo sul sovraffollamento carcerario. Eppure, il dibattito politico resta ancorato a queste soluzioni inefficaci, a dimostrazione di quanto sia difficile affrontare la violenza di genere in modo serio e profondo. La verità è che l’educazione e la prevenzione sono l’unica vera risposta al problema. E come ha recentemente sottolineato Carla Garlatti, Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, l’educazione all’affettività dovrebbe essere una priorità, come stabilito dalla Convenzione di Istanbul, che la inserisce nei programmi scolastici sin dai primi anni di scuola. Nel 2013, l’Italia ha ratificato questo trattato, ma oltre dieci anni dopo i progressi sono minimi. La Convenzione prevede l’inserimento nei programmi scolastici di materiali che promuovano la parità di genere, il rispetto dei diritti delle donne e la non violenza. Tuttavia, forze politiche come la Lega e Fratelli d’Italia hanno ostacolato o addirittura votato, in Europa, contro l’adozione di misure volte a integrare questi principi nella scuola. Il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, non è solo una data simbolica, ma un invito a riflettere su un fenomeno che ancora oggi segna la vita di molte donne in tutto il mondo. Sono 21.842 le donne accolte dai Centri della Rete D.i.Re (Donne in rete contro la violenza) nei primi 10 mesi dell’anno. Numeri che, proiettati sui 12 mesi, arrivano a 26.210, con un incremento potenziale rispetto al 2023 di 3.125 donne. Il che significa 2.184 richieste di aiuto ogni mese, contro le 1.924 del 2023. “Anche quest’anno i numeri crescono e sempre più donne ripongono fiducia nell’esperienza e nella competenza delle nostre attiviste, rispondendo alle nostre sollecitazioni - dichiara Antonella Veltri, presidente D.i.Re -. Sono sempre di più, infatti, le donne che decidono di uscire da situazioni di maltrattamento o violenza rivolgendosi a uno dei nostri centri, dove sanno di trovare un’accoglienza non giudicante e sicura, che garantisce l’anonimato, con la gratuità dell’affiancamento nel percorso di uscita - continua Veltri -. Questo dato ci spinge a proseguire con determinazione e tenacia la nostra azione per il contrasto alla violenza maschile, cercando anche di rinforzare le attività di prevenzione che portiamo nella società tutta, dalla scuola dell’infanzia alle piccole e grandi aziende del territorio italiano”. Secondo il “Rapporto ombra” 2024, frutto del lavoro di più di trenta tra esperte di diritti delle donne, associazioni, organizzazioni sindacali e internazionali coordinate da D.i.Re, “lo Stato italiano non ha seguito un approccio sistemico e strutturale nel colmare il gender gap. Non ha implementato politiche o strategie di investimento riguardanti il caregiving, il lavoro, l’empowerment, lo status economico, la segregazione verticale e orizzontale delle donne, gli stereotipi e la violenza contro le donne”. Persiste l’inesorabile tendenza a reinterpretare e ridefinire le politiche di pari opportunità come politiche di famiglia e maternità, spiegano le esperte. Un approccio limitato che non risolverà mai il problema. “Cultura, linguaggio, prevenzione: solo così riusciremo a costruire una società davvero paritaria” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 25 novembre 2024 “Il femminicidio non è solo un omicidio, ma un atto di violenza di genere che ha profonde radici culturali e sociali. Utilizzare il termine corretto ci permette di comprendere meglio la complessità del fenomeno e di adottare misure più efficaci per prevenirlo”. Parte dalle parole Lucia Secchi Tarugi, avvocata e coordinatrice della Commissione pari opportunità del Consiglio nazionale forense. Che quest’anno, insieme alla Fondazione dell’avvocatura italiana e il Dubbio, ha promosso il concorso di cortometraggi “NO aMORE - Oltre il tunnel” per lanciare un messaggio positivo in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Un anno fa il Paese era sotto choc per la morte di Giulia Cecchettin. E mentre si cercava di analizzare le ragioni di quanto è successo, risuonava forte lo slogan “mai più”. Ma dall’inizio di quest’anno, secondo i dati del ministero dell’Interno, si contano già 97 femminicidi. Nulla è cambiato? Non voglio essere così pessimista, non credo che nulla sia cambiato. Ma per cambiare una cultura ci vuole tempo ed impegno costante. Mi piace pensare che un impegno a più livelli, dalla prevenzione della violenza di genere nelle scuole, nelle famiglie e nelle comunità ad una più efficace assistenza alle vittime, possa davvero cambiare la cultura. La strada è ancora lunga, ma è fondamentale non arrendersi e continuare ad impegnarsi per un futuro in cui ogni donna possa vivere libera dalla paura della violenza. Anche le parole sono importanti, per riconoscere la violenza. Cosa distingue un femminicidio da un omicidio? È vero, le parole sono importanti, perché sono strumenti per comprendere e definire la realtà ed è importante chiamare le cose con il loro nome, è un passo fondamentale. Utilizzare il termine “femminicidio” significa riconoscere la specificità di questi crimini e la loro radice nella violenza di genere. Il termine “femminicidio” non è solo una parola, ma un concetto che racchiude in sé una complessità di significati e implicazioni sociali. Mentre ogni omicidio è un atto tragico e violento, il femminicidio è un sottoinsieme specifico di omicidi che si caratterizza per il suo movente principale che è l’odio e la violenza contro le donne, proprio in quanto donne. Ed allora il femminicidio non è solo un atto individuale, ma un atto sociale che riproduce e rafforza disuguaglianze di genere e modelli culturali patriarcali. In sostanza, il femminicidio non è solo un omicidio, ma un atto di violenza di genere che ha profonde radici culturali e sociali. Utilizzare il termine corretto ci permette di comprendere meglio la complessità del fenomeno, di adottare misure più efficaci per prevenirlo e di costruire una società più equa e giusta per tutte le donne. L’ultimo report dell’Istat ci conferma che è ancora l’ambito familiare, e in particolare quello della coppia, a registrare l’incidenza più alta di femminicidi... Il dato fornito dall’Istat è allarmante e conferma una triste realtà: l’ambito familiare, in particolare quello della coppia, rimane il luogo più pericoloso per le donne. Questa statistica sottolinea l’importanza di analizzare più a fondo le dinamiche relazionali che sfociano in atti di violenza estrema e di mettere in atto strategie di prevenzione e contrasto sempre più efficaci. Dagli stessi dati arriva invece un segnale incoraggiante: nei primi mesi del 2024 sono aumentate le richieste di aiuto delle donne al numero antiviolenza e stalking 1522, anche come effetto positivo di una migliore attività di comunicazione... L’aumento delle richieste di aiuto è indubbiamente un segnale positivo. Significa che sempre più donne si sentono in grado di denunciare le violenze subite, superando la vergogna e la paura. Questo dato è effettivamente il frutto di una maggiore consapevolezza e di una migliore comunicazione intorno al tema della violenza di genere. La comunicazione, la formazione e la cultura svolgono un ruolo fondamentale nella lotta alla violenza di genere. Proprio in questa direzione, quest’anno la Fai, con la Commissione pari opportunità del Cnf e il Dubbio, ha promosso un’iniziativa dedicata alla violenza di genere in occasione del 25 novembre. Ce la racconta? Abbiamo promosso un concorso di cortometraggi dedicato alla lotta contro la violenza di genere, il festival “NO aMORE - Oltre il tunnel”. L’iniziativa è frutto di una riflessione su come poter aumentare la consapevolezza sul tema, attraverso un linguaggio accessibile e coinvolgente. Perché è importante promuovere campagne di sensibilizzazione per combattere gli stereotipi di genere e far comprendere l’importanza del rispetto reciproco. Il concorso ha avuto proprio questo obiettivo: trasmettere un messaggio di cambiamento attraverso l’utilizzo di un mezzo di comunicazione potente come l’immagine. Il linguaggio artistico è più inclusivo e meno giudicante e può raggiungere un pubblico più ampio rispetto a quello di convegni o seminari. Le storie raccontate attraverso un video di pochi minuti hanno un forte impatto emotivo e stimolano una riflessione profonda sulle cause e le conseguenze della violenza di genere, sfidando gli stereotipi e promuovendo modelli di relazione sani e rispettosi. L’iniziativa è in relazione con quella promossa nel 2023... Lo scorso anno abbiamo pensato a una installazione, un tunnel buio, che ricordava tutte le vittime di femminicidio del 2023. Quest’anno, con i corti, volevamo lanciare un messaggio: da quel tunnel si può uscire. I Comitati Pari Opportunità presso gli Ordini degli Avvocati pensarono alla creazione di un video. L’idea ci è piaciuta per la sua immediatezza, e abbiamo pensato che un concorso di corti potesse offrire anche l’occasione per creare una raccolta di immagini non stereotipate della violenza di genere, da utilizzare nelle varie attività di formazione nelle scuole che i CPO portano avanti con grande impegno. Migranti in Albania, arriva il dietrofront di Meloni? di Luigi Bisignani Il Tempo, 25 novembre 2024 Il piano B della premier sarebbe quello di trasformare gli hotspot in carceri per i 2.800 mafiosi albanesi reclusi in Italia. Sull’Albania: “Indietro tutta!” ma senza l’orchestra di Renzo Arbore. Stretta tra la magistratura ordinaria e quella contabile, Giorgia Meloni sta esplorando nuove strade, anche quella di trasformare gli hotspot albanesi in carceri per ospitare i detenuti affiliati alla “mafja shqiptare”, la mafia albanese, che in Italia sono circa 2.800. Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica di Napoli, ha avvertito: “La mafia del futuro, non solo in Italia ma anche in Europa, sarà quella albanese”. Alla Premier va riconosciuto che, in questi due anni di governo, ha dimostrato un’apprezzabile capacità di adattamento pragmatico agli scopi prefissati. Emblematico è stato il recente capolavoro di realpolitik nell’aver portato il suo ministro più fidato, Raffaele Fitto, a vicepresidente esecutivo della Ue contro tutto e tutti. Ma con l’immigrazione clandestina, tema identitario di FdI arriva un duro banco di prova. La posta in gioco è alta: al centro di tutto, il suo “Piano Mattei” per il contenimento degli sbarchi in Sicilia e di cui i presidi in Albania sono un tassello. L’intenzione era quella di trasferire i disperati provenienti dall’Africa, salvati in acque internazionali dalle navi della Marina e della Finanza direttamente a Shengjin e Gjadër, in attesa delle procedure burocratiche del loro destino. Oggi la visione è cambiata, infatti le recenti notizie riferiscono che quasi tutto il personale dei centri è stato richiamato in Italia. Ora resta da stabilire come questi luoghi possano essere impiegati in un rapporto costo/utilità che finora pende a favore del primo. La cooperazione tra Roma e Tirana ha radici profonde, basti ricordare l’esodo biblico del 1991 - immortalato nel film di Gianni Amelio “L’America” - con i 20mila migranti in fuga dall’Albania post-comunista stipati sulla nave Vlora che attraccò a Bari. Fu uno shock, all’epoca il governo Andreotti, senza troppi complimenti, li rimpatriò qualche giorno dopo, salvo poi concordare sostegno e assistenza con la missione “Pellicano”. Negli anni successivi, si è andati avanti con missioni italiane come “Alba”, nel 2017, e gli interventi post-terremoto nel 2019, in cui l’Italia fu la prima ad intervenire. Attualmente la collaborazione è ancora più stretta, coinvolge Forze Armate, dirigenti dell’intelligence e personalità albanesi. Tra queste spicca un uomo chiave per i rapporti bilaterali come Ilir Kulla, ex ministro per gli Affari Religiosi, consigliere di sicurezza internazionale di premier e presidenti e grande amico dell’Italia, dove si è laureato. Gli scambi tra le due nazioni risalgono addirittura al XV secolo, con la nascita delle comunità arbëreshë nell’Italia meridionale. Forti di questa cooperazione, i colloqui riservati in corso riguardano l’ipotesi di riqualificare i centri per migrati in prigioni, così da alleggerire il nostro sistema penitenziario, sempre più affollato e sempre meno gestibile. L’idea si basa su un efficace protocollo già in uso dai tempi degli esecutivi di Fatos Nano e Silvio Berlusconi, senza contare che l’Italia e l’Albania sono da anni impegnate in accordi ministeriali e nel reparto penitenziario, tanto che il nostro Paese già in passato finanziò due carceri in Albania. Di fronte al sovraffollamento delle patrie galere, con percentuali che superano il 130% e con sempre più suicidi di detenuti, emergono sensate proposte di utilizzare il sito di Lezha, a nord del paese delle due aquile, per quei reclusi albanesi condannati in Italia. Il porto di Shengjin, invece, potrebbe ospitare migranti lungo la tratta balcanica, in collaborazione con l’Unione Europea. Questi interventi rappresenterebbero un “win-win” per entrambi i Paesi sulle sponde opposte dell’Adriatico. Le autorità albanesi vorrebbero sfruttare questa occasione anche per posizionarsi al centro dell’attenzione europea, probabilmente in vista del processo di adesione all’Ue. L’idea di trasferire migranti in Albania nasce dalle conversazioni tra Giorgia Meloni e l’allora primo ministro britannico Rishi Sunak, che le illustrò il progetto di “deportare” migranti in Ruanda. Tuttavia, mentre il Ruanda si trova a migliaia di chilometri da Londra, l’Albania è proprio di fronte all’Italia, rendendo il progetto apparentemente più attuabile. L’idea è stata poi perfezionata nell’estate 2023, durante la vacanza di Meloni in Albania nelle conversazioni con il premier Edi Rama, che ha messo a disposizione il suo territorio. In parallelo, l’Ue ha trovato un accordo sul nuovo Patto di Migrazione e Asilo, approvato dal Parlamento e dal Consiglio europeo lo scorso maggio, che prevede centri come quelli italiani in Albania, da applicare a partire dal 2026. Nonostante le molte critiche, anche interne, in Europa i centri albanesi sono considerati un modello da studiare, tuttavia, il piano italiano sembra essere arrivato troppo presto per essere compreso. Tra gli errori fatti l’assenza di una solida struttura organizzativa - in grado di gestire dettagli importanti - e una task force giuridica che blindasse le decisioni, fermo che l’esiguità dei numeri dei migranti coinvolti non ha aiutato. L’accordo firmato l’anno scorso tra Roma e Tirana prevedeva infatti che l’Albania ospitasse fino a tremila migranti a fronte di una spesa di almeno 670 milioni di euro in cinque anni. La nave semivuota che trasportava meno di 20 migranti, i costi elevati, il sito prescelto a rischio di inondazioni, la battaglia giuridico-politica mal gestita hanno fatto sì che i media si scatenassero. Con una migliore gestione, coordinando più parti in causa e una pianificazione più incisiva, i centri avrebbero potuto essere pienamente operativi e dare una risposta concreta. Il governo ha servito la polemica su un piatto d’argento, sia alla magistratura che all’opposizione. Ora si può solo cercare di correggere il tiro, evitando che un progetto ambizioso e coraggioso, si trasformi in un Titanic politico. Migranti. La Corte di giustizia europea sospende la causa di Bologna di Giovanni M. Jacobazzi Libero, 25 novembre 2024 La Corte di giustizia dell’Unione europea ha sospeso ogni decisione circa il destino dell’ormai celebre cittadino del Bangladesh a cui la Commissione territoriale di Bologna aveva negato qualche settimana fa la protezione internazionale. Il procedimento, da quanto si è appreso, è sospeso fino alla pronuncia di una sentenza su altre due cause pregiudiziali, pervenute da altri tribunali italiani su analoghe tematiche e che sono state così riunite. Ad aver proposto il rinvio pregiudiziale ai giudici del Lussemburgo nel caso del cittadino del Bangladesh era stata a fine ottobre la sezione immigrazione del Tribunale di Bologna. La Commissione territoriale del capoluogo emiliano, come detto, aveva dichiarato la richiesta di asilo del migrante manifestamente infondata in ragione della sua provenienza da un Paese di origine ritenuto sicuro e della mancata indicazione di gravi motivi per poter affermare il contrario. Il giudice del tribunale di Bologna Marco Gattuso, poi balzato agli onori delle cronache per le sue posizione in tema gender, aveva allora rinviato gli atti alla Corte di Lussemburgo per chiedere quale fosse il parametro su cui individuare i cosiddetti Paesi sicuri e se il principio del primato europeo imponesse di ritenere che in caso di contrasto fra le normative potesse prevalere quella comunitaria. La decisione presa da Gattuso aveva innescato fortissime polemiche tra il governo e l’Associazione nazionale magistrati, sfociate questa settimana nel voto da parte del Consiglio superiore della magistratura di una pratica a sua tutela. Contrari soltanto i cinque laici di centrodestra. Domani mattina, comunque, per cercare di uscire da questo gorgo che rischia di bloccare il piano migranti del governo e quindi il centro per il trattenimento per i successivi rimpatri in Albania, l’aula della Camera voterà il “dl Flussi”. Fra le principali novità introdotte vi è quella di aver tolto la competenza per le convalide dei trattenimenti alle sezioni specializzate in materia di immigrazione dei Tribunali per trasferirla alla Corte d’appello in composizione monocratica. “Sgraviamo sostanzialmente le sezioni specializzate in materia di immigrazione di una delle tante competenze che posseggono e facciamo sì che si possa velocizzare il lavoro delle pratiche quotidiane. E poi innalziamo ad un giudice superiore la cognizione rispetto ad una materia che tratta anche di diritti umani”, ha affermato ieri in un’intervista alla Voce del Patriota Sara Kelany, deputata di Fratelli d’Italia e responsabile del dipartimento Immigrazione del partito, nonché relatrice del “dl Flussi”. I presidenti delle Corti d’appello, all’indomani della presentazione di questo emendamento, avevano inviato una lettera alle più alte cariche dello Stato, ad iniziare dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in cui parlavano di un “disastro annunciato” che paralizzerà il loro lavoro, impedendo anche il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr. Nulla di vero per Kelany. “Non è così. I giudici, nell’esaminare questo emendamento, hanno fatto anche un errore marchiano”, ha commentato la parlamentare meloniana di origini egiziane. Un italiano su due boccia i giudici che dicono no ai migranti in Albania di Alessandra Ghisleri La Stampa, 25 novembre 2024 Oltre il 50% degli intervistati non è d’accordo con i tribunali che hanno sospeso i trasferimenti. Per il 45,5% si tratta di sentenze politiche contro il governo. L’indice di fiducia nei magistrati è al 31,2%. I conflitti tra magistratura e politica in Italia derivano da una tensione che si può definire storica tra i poteri dello Stato: da una parte la magistratura deve essere indipendente, dall’altra la politica ha un ruolo nelle nomine e nelle riforme. Una questione che, oltre a creare tensioni profonde tra il potere giudiziario e quello politico (esecutivo e legislativo), ha generato incertezza tra i cittadini e anche tra le istituzioni stesse, a cominciare dal Quirinale che, spesso, si è trovato coinvolto in pesanti conflitti che riguardavano le prerogative del governo e l’autonomia della magistratura. Questo paradigma spesso genera conflitti di interesse, che scaturiscono soprattutto quando i giudici si occupano di indagini che coinvolgono la politica. Questi scontri, che sono molteplici e su diversi livelli, riflettono spesso anche tensioni profonde sulle modalità di interpretare e applicare le leggi, nonché su chi detiene il potere decisionale rispetto a questioni che gli elettori considerano critiche come, nel caso dei centri di accoglienza in Albania, l’immigrazione e i diritti civili. Nelle ultime settimane, infatti, questi temi si sono intrecciati a seguito di alcune sentenze di tribunali italiani che hanno sospeso i trasferimenti di diversi migranti nel centro albanese di Gjader. Una decisione che non è stata condivisa dalla maggioranza della popolazione italiana (50,3%) e sostenuta invece da un cittadino su 3 (28,9%). Tra l’elettorato del Partito Democratico e Avs (Alleanza verdi e Sinistra) la sospensione della convalida dei trattenimenti nel centro albanese supera ampiamente il 70%. Tra le file di Azione e Italia Viva emerge una mancanza di indirizzo politico e una generale reticenza a rispondere: entrambi, infatti, registrano più del 40% tra coloro che non sanno o non desiderano rispondere. Il 45,5% del campione intervistato da Euromedia Research in un sondaggio pubblicato nella trasmissione Porta a Porta di Rai 1, ritiene che queste decisioni della magistratura siano applicate volontariamente per una condotta politica contro il governo, mentre il 38.4% è convinto che sia stata un’azione prettamente giuridica. Sotto questi aspetti l’elettorato si divide nettamente su due barricate contrapposte tra sostenitori di partiti di maggioranza e di opposizione. Considerando questo scenario e il contesto di questi fatti, poco meno della metà della popolazione italiana (46,5%) ritiene giusto un ricorso in Cassazione da parte del governo contro queste sentenze che respingono i trasferimenti di alcuni migranti nei centri di trattamento e di permanenza in Albania. Da questo sondaggio emerge come alcuni italiani percepiscono che la magistratura, pur essendo indipendente, sia influenzata dalla politica. In particolare, ci sono stati casi mediatici in cui i magistrati sono stati accusati di essere troppo vicini o di avere un’agenda politica, soprattutto nelle inchieste che coinvolgono personaggi politici o istituzionali. Tutte queste inchieste hanno avuto un impatto profondo sull’immagine della magistratura, suscitando anche dubbi sul suo atteggiamento nei confronti delle forze politiche. È evidente che anche questa vicenda, come molte altre, mostra aspetti difficilmente comprensibili dalla pubblica opinione che, in maggioranza, non possiede competenze giuridiche adeguate in grado di poter esprimere con piena consapevolezza un parere proprio e non solo un giudizio politico. Di sicuro alcuni casi di errori giudiziari - come condanne sbagliate o processi annullati - anche le sentenze come quella del caso Eni-Nigeria, dove sono stati condannati i due magistrati milanesi per aver omesso tutti gli atti a favore della difesa favorendo e consegnando solo le prove a sostegno delle loro accuse, minano fortemente la fiducia nell’indipendenza e nell’imparzialità del sistema giudiziario. Di certo il grande successo dei libri-confessione di Luca Palamara ha posto sotto la lente di ingrandimento l’intero sistema diventando un argomento di discussione. Anche “da bar”. Oggi l’indice di fiducia della magistratura è al 31,2% il che significa che i 2/3 del Paese esprimono un giudizio molto severo su un pilastro fondamentale delle nostre Istituzioni. La percezione che alcune indagini siano condotte in modo superficiale o che certe cause vengano “trascurate” porta ad avere dubbi sul fatto che la giustizia possa raggiungere la verità o punisca adeguatamente i colpevoli. Il sistema appare lento, inefficace, talvolta eccessivamente complicato e non sempre in grado di offrire risposte concrete alle esigenze dei cittadini. Oggi con la vicenda dell’Albania ancora in sospeso e alcune cause giudiziarie legate all’attività di alcuni ministri del governo, tutto fa immaginare che - purtroppo - lo scontro che divide l’Italia dai tempi di Tangentopoli sia solo all’inizio. Se la politica è impotente di fronte al dilagare delle guerre di Massimo Cacciari La Stampa, 25 novembre 2024 Ogni leader deve interpretare la volontà dell’opinione pubblica di porre fine ai massacri. La strada per l’armistizio: Ucraina sovrana e un modello Alto Adige per il Donbass. Il recente voto in Emilia-Romagna e Umbria significa più di un campanellino d’allarme per la caravella del governo Meloni. Secondo un’ottica meno minimalista esso andrebbe letto anzitutto dal precario cantiere del “campo largo” delle opposizioni. Che in regioni di tale consolidata partecipazione alla vita pubblica e di impegno politico si precipiti a un astensionismo superiore al 50%, con un crollo intorno al 20% rispetto alla precedente tornata, dovrebbe indurre tutti a qualche riflessione di lungo periodo. Non può trattarsi soltanto di generica sfiducia nei confronti dell’”offerta” politica. Tantomeno di semplice indifferenza (come potrebbero restare indifferenti lavoratori e pensionati davanti a un costante peggioramento dei loro redditi e della condizione in cui versano sanità, scuola, ecc.?). L’astensionismo rivela ormai un male più profondo. Alla semplice denuncia dell’incapacità dei vari governi ad affrontare i problemi strutturali del Paese, subentra ora come un senso dell’impotenza dell’intera classe dirigente. Un disinganno prossimo alla disperazione. In fondo, si sono provate tutte, dai governi tecnici ai Renzi, dai Renzi ai Salvini, ai governi tecnici di nuovo, alla Meloni. Non sarà che proprio la politica, o almeno la nostra politica, non ce la fa fisiologicamente a reggere la barca nel salto d’epoca che attraversiamo e che nessuno può dire quale nuovo ordine produrrà? Se lo stesso presidente degli Stati Uniti appare ormai un “rappresentante” dei Musk, come potrebbe il governo di un singolo Stato dell’antica Europa confrontarsi con le grandi potenze globali economico-finanziarie che possono determinarne il destino? Eppure, alcune cose, nella coscienza dei propri limiti, anche questo singolo Stato le potrebbe fare. Sì, certo, nessuno da solo può affrontare l’immane catastrofe rappresentata dai 100 milioni di persone che sono state negli ultimi anni costrette a abbandonare la propria casa, esule 1 persona ogni 8 abitanti del pianeta. Ma non è perciò necessario fingere di combinare qualcosa gettando faccia e soldi con operazioni tipo Albania. Sì, certo, né Italia, né Francia, né Germania potrebbero avere parola decisiva in Ucraina o in Palestina. E nessun singolo Paese può impedire l’esponenziale crescita del potere dei Musk, non solo nell’attuale Occidente. Ammesso col necessario realismo tutto ciò, alcuni segni di vita potrebbero pure essere dati. Ricordiamone qualcuno. Sul tassare i mostruosi profitti realizzati dalle grandi corporations e da molte banche in questi anni di crisi si è fatto davvero tutto quello che si sarebbe potuto? No, è stata una linea politica ben precisa a non volerlo. Sull’uso dei debiti - ricordiamocelo - del PNRR si è mirato a opere infrastrutturali davvero indispensabili, tipo far viaggiare i treni lungo Adriatico e Tirreno o tra Milano e Genova? Vogliamo continuare? È strategicamente vitale per il benessere italico la spinta giustizialista che emerge dai recenti provvedimenti in materia di sicurezza? Una sorta di terribile bulimia punitiva, al di là di ogni logica preventiva, che fa stracci del principio fondamentale, il favor libertatis. Esempio eclattante, su cui altre volte ho richiamato invano l’attenzione dell’ex-garantista Nordio: il caso Cospito. Questo pericolosissimo comandante dell’esercito anarchico in Italia, è da tre anni in regime di 41 bis, per 23 ore al giorno chiuso da solo in cella, senza poter neppure appendere una foto di sua madre. L’ alta Corte di Giustizia europea dovrebbe svegliarsi anche su questi esempi di barbarie, e non solo per le tragedie del conflitto israeliano-palestinese. Possibile che su casi così clamorosi tacciano i nostri illustri giuristi? Sileant iuristi in munere alieno? E poi ci sono le guerre. È oramai evidente che esse rappresentano un fattore fondamentale nelle scelte dell’elettorato e per le stesse politiche interne. Non ci interessano i “diritti umani”? Che ci interessino almeno quelli economici. Le guerre in corso rappresentano costi sempre più difficili da sostenere, non solo per noi europei. La vittoria di Trump si spiega anche per questo - e la vicepresidenza Vance ne è chiara dimostrazione: l’America vuole finirla con le guerre imposte dall’ondata neo-conservatore di inizio millennio, dei Bush jr., dei Rumsfeld, dei Cheeney. Ci sono colossali problemi di indebitamento (350% del Pil) a rendere sempre meno praticabile la linea neo-con (3.000 miliardi di dollari è costata la guerra in Iraq). Si va rafforzando un’opinione pubblica, ben oltre il “mondo” trumpiano, che è indotta a riflettere seriamente sul “Project of a new American Century”, progetto contro cui si erano levati da subito gli appelli di alcuni tra i maggiori politologi e consiglieri politici, come George Kennan. L’America ha contato 10.000 morti (e 15 feriti per ogni morto) per Golfo, Iraq, Afghanistan. L’America è stanca di essere, ha detto qualcuno, un Paese di reduci di guerra. L’opinione pubblica europea è forse più convinta di quella americana a continuare il confronto Nato-Russia sulla pelle degli ucraini fino alla più improbabile delle vittorie? E allora non potrebbe ogni governo europeo, con tutta la necessaria coscienza dei propri limiti, anche nel drammatico latitare di una volontà politica comune, farsi interprete della volontà di porre termine ai massacri e dichiarare la propria idea su come giungere almeno a un armistizio? Non essere l’attore decisivo rende succubi, esonera dal dire la propria? E non è forse chiaro quale idea dovrebbe esprimersi? Quella perfettamente in linea con tutto ciò che gli stessi leader europei avevano cercato di realizzare con i vari trattati di Minsk. Per chi voglia davvero capire ragioni e responsabilità del loro fallimento, legga il “diario” di Alessandro Cassieri, Tra Russia e Ucraina - è da quei punti che è necessario ripartire, dai punti indicati da Hollande e ribaditi da Macron, da Merkel, da Steinmeier: piena sovranità ucraina sugli attuali confini, statuto di autonomia sul modello Alto Adige per il Donbass. Il nostro governo crede o no in questa prospettiva? O pensa invece a come promuovere l’escalation? Forse i nostri concittadini sono abbastanza maturi da sapere che questo dramma incide sulle loro vite assai più delle elezioni in Emilia. E altrettanto il conflitto israeliano-palestinese. Non si tratta di prender posizione sul mandato di cattura per Netanyahu, si tratta, anche qui, di dichiarare se la nostra linea è rimasta quella dei Craxi come degli Andreotti, dei Mitterand come dei Kohl: non c’è soluzione a questa tragedia senza la costituzione di un vero Stato palestinese. Stati Uniti. Noterelle dal carcere: il convegno dei matematici detenuti di Tazio Brusasco volerelaluna.it, 25 novembre 2024 Il carcere è, per la “società libera” un’isola sconosciuta: per disinteresse, per mancanza di informazioni da parte dei media, perché è una “istituzione totale” per eccellenza, priva di contatti con l’esterno. E poi perché, per i più, i suoi ospiti - i detenuti e le detenute - non meritano alcuna attenzione e anzi, dopo il loro ingresso in carcere, si dovrebbe semplicemente “buttare la chiave”. Neanche l’ormai interminabile sequenza di suicidi e di atti di autolesionismo basta a rompere l’isolamento di una realtà che accoglie e rinchiude, ogni giorno, 62.000 persone, in gran parte senza diritti e senza speranza. Per contribuire a uno sguardo diverso e alla considerazione del carcere come un “pezzo” della società ospitiamo (e lo faremo periodicamente) le noterelle di un insegnante in un istituto penitenziario del Paese, non importa quale. Sono affreschi di vita quotidiana finalizzati a restituire dignità e umanità a una condizione che spesso non ce l’ha. (la redazione). A un incontro pubblico sullo stato delle carceri conosco Umberto Fugiglando, un giovane ricercatore del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che racconta una vicenda curiosissima. Stati Uniti, 2013. Alla redazione della rivista Annals of Mathematics giunge una lettera insolita. La firma Christopher Havens, detenuto in un carcere dello Stato di Washington. Racconta che, mentre scontava 25 anni per omicidio, la pena si è inasprita con un anno di isolamento. Nel momento più buio, la solitudine forzata, Chris scopre interesse per la matematica. Il tempo non manca, calcoli e funzioni divengono àncora di salvezza: “numbers have become my passion” scrive nella lettera. La sua preparazione cresce, i problemi che affronta si fanno man mano più complessi. La missiva si conclude con un appello: in carcere non ci sono insegnanti che possano aiutarlo, avrebbe bisogno di un docente col quale confrontarsi per non restare mesi impantanato di fronte a passaggi troppo complessi. Presso la redazione della rivista lavora il genero di Luisella Caire, docente di matematica al Politecnico di Torino: la lettera finisce rapidamente tra le sue mani e il contatto si attiva. Seppur a distanza, la docente coglie in fretta le potenzialità dell’allievo. Prende vita un singolare tutoraggio scientifico epistolare che presto, per saziare la fame onnivora del detenuto matematico, coinvolge Umberto Cerruti, marito della Caire, anch’egli matematico di professione. Chris pone quesiti e chiede lumi, talvolta azzarda soluzioni. Dotato di buone capacità artistiche, spesso arricchisce le sue lettere con ritratti di matematici celebri o illustra graficamente i problemi sui quali si arrovella. La corrispondenza d’algebrici sensi continua e nel 2020 porterà addirittura alla pubblicazione di un articolo scientifico firmato da Chris con il prof. Cerruti e altri due ricercatori italiani. Intanto la sua passione contagia altri detenuti e vengono formandosi in struttura piccoli nuclei di matematici reclusi. Nasce così il Prison Mathematics Project (PMP), che divulga la matematica nei penitenziari trovando approvazione e finanziamenti dal Dipartimento di Giustizia e presto si estende ad altre prigioni federali. Nel 2017 Chris e i matematici detenuti decidono di organizzare il loro primo convegno. Scelgono di tenerlo il 14 marzo che, secondo la forma della datazione statunitense, altro non è che il 3.14, ?. È un successo, che si ripete l’anno dopo, questa volta il 28 giugno, 2?. In quest’occasione, per suggellare l’amicizia e potersi finalmente stringere la mano, partecipano anche la prof.ssa Caire e altri accademici del Politecnico di Torino, accompagnati dallo stesso Umberto Fugiglando. L’avventura di Chris, dei suoi colleghi e del PMP dura tuttora. Il sito internet del progetto sottolinea con orgoglio che i membri della comunità sono seguiti - non solo scientificamente - anche una volta espiata la pena e invita nuovi volontari interessati a farsi avanti. Di questa vicenda dai tratti quasi romanzeschi, ciò che colpisce maggiormente chi insegna in carcere è che Chris ha creduto davvero in una speranza. A livello statistico, la possibilità che qualche accademico gli rispondesse era piuttosto bassa, ne era certamente consapevole, però ha lanciato lo stesso l’appello al di là del muro, sperando che fosse accolto. La matematica è stata catalizzatore e terreno d’incontro tra una domanda sincera e appassionata e la generosa disponibilità a condividere il sapere da parte di chi ha consapevolezza che la natura distribuisce i propri talenti senza considerare le condizioni sociali. Chi ha a cuore l’educazione può dunque brindare al Prison Mathematics Project, in attesa del prossimo convegno. A questo punto, dentro o fuori, poco importa.