Carceri e migranti, i dubbi del Colle sul ddl Sicurezza di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2024 Mattarella chiede modifiche su madri detenute in cella e divieto delle sim agli irregolari. Scontro col governo: FdI-Lega vogliono andare dritto. I voti non sono ancora iniziati. Per il momento le commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato lavorano a rilento. Meglio aspettare. E riflettere. Perché il disegno di legge Sicurezza, già approvato alla Camera in prima lettura il 19 settembre scorso e in discussione a Palazzo Madama, non è più solo oggetto di scontro tra il governo da una parte e le opposizioni, i sindacati e le associazioni dall’altra. Secondo quanto risulta al Fatto da fonti qualificate, infatti, alcune parti del disegno di legge Sicurezza che modifica 30 articoli del codice penale introducendo 20 nuovi reati e colpisce soprattutto chi protesta, non convince il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Sotto la lente del Quirinale ci sarebbero in particolare due norme per cui gli uffici del Quirinale hanno chiesto modifiche alla maggioranza. La prima è quella che riguarda le madri detenute: per colpire le cosiddette borseggiatrici, il governo ha reintrodotto la possibilità che le donne incinte o con figli fino a un anno possano andare in carcere. L’articolo della legge non era piaciuto all’opposizione, alle associazioni e anche Forza Italia aveva provato a modificarla con un emendamento del deputato Paolo Emilio Russo, che aveva chiesto di mantenere lo “scudo” fino a un anno. Niente da fare: alla fine è stato approvato un ordine del giorno, non vincolante, con cui il governo si impegnerà a fare una relazione annuale sul fenomeno. Una sorta di tagliando ogni dodici mesi per capire gli effetti della legge. L’altra norma che non piace agli uffici del Quirinale è quella che vieta ai migranti irregolari che sbarcano in Italia di poter acquistare una sim telefonica per parlare tra loro e con i propri cari nei Paesi d’origine. Una norma duramente contestata dall’Arci che ha ricordato come, con questo provvedimento, un migrante minorenne non potrà comunicare con i propri familiari nel Paese d’origine. Sono queste le due norme che gli uffici del Colle hanno messo sotto la lente di ingrandimento chiedendo modifiche in Parlamento durante la seconda lettura. Anche la nuova stretta securitaria sul diritto di protestare con pene fino a due anni per chi fa blocchi stradali e aggravanti per coloro che protestano nelle carceri, nei centri per migranti e per chi si oppone alle grandi opere, non convince Mattarella, secondo tre fonti di governo a conoscenza della questione. Ma su questo il Quirinale sa che difficilmente la maggioranza di destra potrà fare un passo indietro: significherebbe rinnegare il provvedimento stesso. Sulle madri detenute e sul divieto delle sim per i migranti, invece, la richiesta del Colle sta portando a una riflessione nel governo. Modificare anche solo una virgola del provvedimento, infatti, significherebbe rimandarlo alla Camera per una terza lettura e rinviare di diversi mesi la sua approvazione. Se ne riparlerebbe nel 2025. Così l’ala più dura di Fratelli d’Italia rappresentata dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove e della Lega con il collega di governo Nicola Molteni (Interno) sarebbero per ignorare le richieste del Quirinale e approvare la legge in via definitiva al Senato entro fine anno. Di diverso avviso Forza Italia e anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, che sta dialogando con il Quirinale per modificare qualche norma del disegno di legge. “Qualche piccola modifica tecnica potrebbe esserci”, conferma il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Alberto Balboni. Tra queste potrebbe anche esserci la norma che vieta il commercio della cannabis light, mettendo in ginocchio tutto il comparto e migliaia di lavoratori. Le opposizioni contestano anche l’articolo 31 che potenzierebbe le attività sotto copertura di agenti dei Servizi nelle organizzazioni mafiose e terroristiche senza controllo. Ma su questo Mantovano, che ha seguito i lavori in commissione, non sembra sentire ragioni. Per questo i lavori delle commissioni di Palazzo Madama procedono a rilento: le opposizioni, dopo aver partecipato a manifestazioni di protesta di fronte al Senato, stanno facendo ostruzionismo presentando 1.500 emendamenti. Giovedì le commissioni sono arrivate a metà dell’illustrazione e i voti non inizieranno prima della prossima settimana. Da Santa Maria Capua Vetere a Trapani: quando il carcere diventa luogo di pestaggi e torture di Lorenzo Stasi Il Domani, 24 novembre 2024 C’è un filo rosso che lega gli ultimi episodi con tanti altri casi di violenze nei confronti dei detenuti per opera di agenti della Polizia penitenziaria. Lo scorso aprile 13 arresti per maltrattamenti nei confronti dei minori reclusi al “Beccaria” di Milano, ma la lista delle “mattanze” è molto più lunga. I segni del pestaggio? “Tanto questo è nero e non si vede niente”. “Al detenuto gli si devono dare legnate”. E poi: “Facciamoli coricare. Poi quando sono sul letto prendiamoli a secchiate”. Non di acqua, ma di “pisciazza mischiata con acqua”. E ancora: “Ammazzalo di bastonate, ‘sto pezzo di merda”. Così parlavano gli agenti penitenziari della casa circondariale di Trapani nel nuovo capitolo degli ormai tanti casi di violenze e torture nei penitenziari italiani. Sono 46 in totale gli indagati, quasi un quarto di quelli in servizio nella struttura. 11 di loro sono finiti ai domiciliari, sono stati sospesi in 14, mentre per gli altri 21 il gip non ha emesso misure cautelari. I pestaggi ricostruiti in tre anni di indagini erano sistematici e pianificati: veniva organizzata, come si legge negli atti dell’inchiesta, “la formazione di una squadretta punitiva di poliziotti penitenziari favorevoli all’utilizzo di metodi risolutivi e violenti per la repressione di forme di dissenso da parte dei detenuti”. Fuori dagli occhi ingombranti delle telecamere, in sezioni ad hoc del carcere: il Reparto blu, chiamato anche la “palazzina delle torture”. Un modus operandi che, secondo il procuratore Gabriele Paci, “non era episodico, bensì una sorta di metodo per garantire ordine”. Il tutto con “un intento persecutorio”. C’è un filo rosso che lega i fatti di Trapani con molti altri venuti a galla negli ultimi mesi e negli ultimi anni. Le carceri italiane, spesso veri e propri buchi neri del sistema-giustizia - con un indice di sovraffollamento del 130 per cento, con circa 10 mila detenuti in più, e con 81 suicidi solo nel 2024, l’ultimo il 21 novembre a Poggioreale - diventano in alcune occasioni veri e proprio luoghi di tortura. Dove la “rieducazione del condannato” rimane spesso molto fuori dalle celle. È stata definita un’”orribile mattanza” dallo stesso gip. Pugni, calci, schiaffi, persone nude picchiate con i manganelli, testate con caschi. Quella avvenuta il 6 aprile del 2020 in pieno lockdown, al carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) è stata una violenza in stile sudamericano raccontata in esclusiva da Domani. “Li abbattiamo come vitelli”, “domate il bestiame”, “chiave e piccone”. Così parlavano gli agenti penitenziari che quel giorno - erano 283 - hanno partecipato a quel pestaggio di massa. “Premeditato”, precisano le carte dell’inchiesta. Il giorno prima, come in altre carceri italiane in quei giorni concitati, c’erano state alcune proteste per chiedere dispositivi di protezione per una pandemia, il Covid, che iniziava a correre velocemente e di cui si sapeva ancora molto poco. Una caccia al detenuto - quella del giorno dopo - durata 4 ore in cui una trentina di carcerati vengono portati nella sala socialità, fatti inginocchiare e picchiati. Ma anche fatti sfilare in un corridoio e presi a schiaffi. In un frammento di un video c’è un detenuto in sedia a rotelle che viene colpito dal manganello di un agente. Alla fine della mattanza sono state chiuse in isolamento 14 persone. Tra queste c’era Hakimi Lamine, che è morto ingerendo un mix letale di stupefacenti, è morto. Secondo la procura, la vittima non doveva andare in isolamento, e in quei giorni non ha ricevuto i farmaci per curare la malattia di cui soffriva. Gli indagati in totale erano 111 (poi diventati 105), le misure cautelari 57. Ad alcuni imputati è stato contestato il reato di “tortura”, introdotto nel nostro ordinamento nel 2017 dopo una serie di condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo dopo “macelleria messicana” della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, durante il G8 di Genova del 2001. La prima condanna in Italia per questo delitto c’è stata il 15 dicembre del 2021, inflitta per la prima volta un tribunale italiano, quello di Ferrara, nei confronti di un agente. Il processo per i fatti di Santa Maria Capua Vetere, iniziato il 7 novembre 2022, è ancora in corso, ma intanto lo scorso luglio è stata revocata la sospensione ad altri sei membri della polizia penitenziaria - ora tornati in servizio - dopo che ad agosto 2023 erano stati reintegrati 22 agenti. Il Beccaria di Milano - Scene simili al carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano, dove lo scorso 23 aprile sono stati arrestati 13 agenti della penitenziaria su 25 indagati in totale (la metà di quelli in servizio), indagati per lesioni, maltrattamenti e tortura. Anche qui è venuto a galla un “sistema consolidato di violenze reiterate, vessazioni, punizioni corporali, umiliazioni”, per usare le parole del gip, “un sistema per educare i minori detenuti”. Da carcere modello a esempio di abbandono, il Beccaria è finito negli ultimi mesi al centro delle cronache per le numerose evasioni e per i tanti tentativi di rivolta al proprio interno. Qui per oltre 20 anni non c’è stato un direttore stabile. Lo scorso dicembre Claudio Ferrari aveva interrotto la girandola di nomi, ma a breve l’istituto diventerà sorvegliato speciale, insieme al Nisida di Napoli “sede di incarico superiore”, e per guidarlo serviranno almeno dieci anni di anzianità. Quindi ci sarà un ulteriore cambio al vertice. “Sono arrivati sette agenti, mi hanno messo le manette e hanno cominciato a colpirmi”. “Vedevo tutto nero. L’ultima cosa che mi ricordo è che mi sputavano addosso”. Le testimonianze delle vittime hanno fatto ricostruire agli inquirenti quello che il gip definisce senza mezzi termini un “sistema per educare i minori detenuti”. In un caso, “la più grave” tra le violenze, una spedizione punitiva contro un ragazzo che aveva reagito alle molestie sessuali di una delle guardie penitenziarie. Il riferimento ai fatti di Ivrea - Tra i passaggi al centro dell’inchiesta sui pestaggi di Trapani c’è un agente che fa uno specifico riferimento a un altro carcere finito negli scorsi anni al centro delle cronache, quello di Ivrea: “Gli si devono dare legnate. I colleghi non si toccano. A Ivrea noi facevano così, appena toccavano un collega… a sminchiarli proprio”. Per le violenze nell’istituto piemontese il processo è ancora in corso. Quattro imputati, nel frattempo, sono usciti dal procedimento penale, e il reato di tortura è stato derubricato a lesioni, ma non c’è ancora una verità giudiziaria di quanto successo tra il 2015 e il 2016. Le violenze nel carcere “Lo Russo e Cutugno” di Torino - Anche il carcere “Lo Russo e Cutugno” di Torino è finito al centro di episodi di pestaggi contro una quindicina detenuti avvenuti tra il 2017 e il 2019. Il 14 novembre scorso la Corte d’appello del capoluogo piemontese ha assolto tre imputati (l’ex direttore, l’ex comandante della penitenziaria e un agente), ma il processo per gli altri 22 indagati va avanti. Foggia, Bari, San Gimignano - Qualche mese fa, il 18 marzo del 2024, dieci agenti della polizia penitenziaria sono stati arrestati ai domiciliari con l’accusa di aver partecipato a un violento pestaggio contro due detenuti. Tra i vari reati contestati anche quello di tortura. Due giorni dopo, il 20 marzo, a Bari cinque agenti Bari sono stati condannati per aver picchiato e umiliato un detenuto psichiatrico dopo che aveva dato fuoco a un materasso. Il 17 febbraio del 2021, invece, dieci membri della penitenziaria del carcere di San Gimignano sono stati condannati per tortura e lesioni aggravate in concorso. Le rivolte durante il Covid a Modena - Tra procedimenti conclusi e molti altri ancora in corso (l’associazione Antigone è attualmente parte civile in 5 diversi processi) un grande punto interrogativo avvolge quanto avvenuto durante il Covid, dove le proteste dei detenuti - a partire da quelle a Santa Maria Capua Vetere - hanno infiammato le carceri della penisola. In quei giorni concitati del marzo del 2020, quando tutta Italia era appena entrata in lockdown, una grande rivolta nel carcere “Sant’Anna” di Modena si è conclusa con nove detenuti morti. Ufficialmente per aver ingerito metadone e altri farmaci rubati dall’infermeria. Lo scorso settembre il gip, Carolina Clò, non ha accolto la richiesta della procura di archiviare il fascicolo per tortura a carico di 120 agenti della penitenziaria. Le indagini dureranno altri sei mesi e serviranno per chiarire il mancato funzionamento, in quei momenti, di alcuni sistemi di videosorveglianza. Ma anche per studiare meglio i motivi di un incontro tra gli agenti prima della loro convocazione in questura e acquisire ulteriori cartelle cliniche per approfondire le lesioni subite dai detenuti. Firenze. A Sollicciano non cambia mai nulla di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 24 novembre 2024 Sono scaduti i 90 giorni fissati dal Dap per migliorare le condizioni, ma tutte le criticità restano. Dal procedimento disciplinare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria emesso a luglio nei confronti della direttrice Antonella Tuoni per il degrado di Sollicciano, non è cambiato nulla. Il Dap aveva dato 90 giorni per ripristinare condizioni accettabili, ma la situazione di difficoltà del carcere fiorentino è rimasta identica. Intanto la direttrice è in malattia, ed è arrivata una reggente part-time. A Prato il Consiglio comunale sul carcere. Era metà luglio quando dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria venne emesso un procedimento disciplinare nei confronti della direttrice di Sollicciano Antonella Tuoni per il degrado di Sollicciano e in particolare per le condizioni di insalubrità e fatiscenza nelle quali erano costretti a vivere e lavorare sia i detenuti che gli agenti penitenziari. Il Dap aveva prescritto di sanare le inosservanze entro novanta giorni, emettendo anche una sanzione di 25mila euro per la direttrice. Questi novanta giorni sono ormai passati e queste criticità non sono state sanate. “Ma non per colpa mia”, ha ripetuto in questi mesi la direttrice Tuoni, che si è sempre definita una vittima della delicata situazione del penitenziario di Sollicciano, dove i lavori annunciati dalla ministra Cartabia qualche anno fa (dal valore di circa 7 milioni) sono iniziati ma fanno acqua (a volte letteralmente) da tutte le parti, tanto che si sono bloccati e non sono mai proseguiti, con buona pace di chi vive e lavora a Sollicciano. La direttrice ha presentato un ricorso, tramite i suoi legali, nei confronti del provvedimento dell’amministrazione penitenziaria. Nel frattempo ha lasciato provvisoriamente Sollicciano da una decina di giorni, essendo in malattia. Nei giorni scorsi, chi l’ha vista entrare in carcere a prendere alcuni dei suoi documenti, ha parlato di una persona molto provata, scura in volta, visibilmente amareggiata e arrabbiata per l’andamento delle cose all’interno del carcere e per il provvedimento subito dal Dap. Al suo posto, nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, come reggente dell’istituto fiorentino, arriverà Loredana Stefanelli, attuale direttrice del carcere di Pistoia, che quindi dovrà dividersi tra i due penitenziari, non riuscendo probabilmente a dedicare impegno al cento per cento a entrambi i luoghi, visto appunto il doppio incarico. Ma quello che potrebbe accadere nelle prossime settimane, secondo alcuni rumors che provengono dall’interno di Sollicciano, è che la direttrice Tuoni decida addirittura di non ripresentarsi e di rassegnare le dimissioni essendo molto provata per quanto accaduto. Senza una direzione stabile, secondo l’ex cappellano di Sollicciano don Vincenzo Russo, “il carcere di Firenze avrà sicuramente un importante vuoto di potere, spero che questo vuoto sia riempito al più presto da una persona che se ne prenda cura e affronti quei tanti problemi reali che in questi lunghi mesi non sono stati affrontati”. Russo si dice poi sorpreso che la direttrice Tuoni “per tanto tempo con un atteggiamento protettivo del carcere, si sia improvvisamente accorta che la situazione non è più così dignitosa dentro al penitenziario fiorentino”. Secondo Emilio Santoro de L’Altro Diritto, “dopo i tre mesi di tempo che il Dap aveva dato per migliorare Sollicciano, in realtà non è stato fatto nulla, c’è da dire che non so se si poteva fare effettivamente qualcosa perché c’è una controversia sui lavori già effettuati, la direttrice ha sostenuto che non sono stati fatti a regola d’arte, la cosa certa è che a rimetterci ancora una volta sono i detenuti e i lavoratori del carcere”. Prato. Carcere, documento bipartisan: “Governo e Regione si muovano” di Maria Lardara La Nazione, 24 novembre 2024 È nato dal Consiglio comunale straordinario. Gli interventi richiesti: allentare la densità detentiva, potenziare gli organi di polizia penitenziaria, migliorare le condizioni dell’immobile. Nascerà anche una “consulta”. Mai così tanti suicidi come nell’ultimo anno: l’ultimo, il quarto, alla fine di ottobre. Sono la punta dell’iceberg: ormai non si contano più i tentati suicidi. Altro che protocollo del rischio suicidario con l’Asl di cui, a quanto si è appreso ieri durante il consiglio comunale straordinario sul carcere, quello di Prato sarebbe stato uno dei primi a dotarsi in Italia. La cruda realtà non è quella dei freddi protocolli e la politica ieri lo ha denunciato a gran voce dai banchi del consiglio trovando la quadra a livello di maggioranza e opposizione. Nascerà una ‘consulta del carcere’ che faccia da raccordo fra le realtà associative operanti dietro le sbarre e l’amministrazione comunale, sulla base di una mozione proposta da tutti i gruppi consiliari e approvata all’unanimità. Semaforo verde anche per l’ordine del giorno proposto dalla maggioranza ed emendato dall’opposizione per chiedere al Governo e alla Regione una serie di interventi ben precisi: un documento bipartisan in cui si chiede di allentare la densità detentiva, potenziare gli organi di polizia penitenziaria, rivedere le condizioni dell’immobile che ospita La Dogaia. Ma non sono tutte rose e fiori politicamente parlando. Il grande assente tirato in ballo dalla sindaca Ilaria Bugetti e dal presidente del consiglio comunale Lorenzo Tinagli è il ministro Nordio, invitato con il dovuto anticipo. “Ieri era a Firenze - sottolinea la prima cittadina - Mi dispiace che non sia rimasto qualche ora in più per partecipare al Consiglio. Noi non rimaniamo indifferenti alle condizioni intollerabili in cui vivono i detenuti e operano gli agenti di polizia penitenziaria: indifferenza è complicità. Chiedo al presidente Tinagli che tutti gli atti di questa giornata vengano inviati a Roma”. Ma la Dogaia, quindi, visti i numeri importanti del sovraffollamento e sottodimensionamento dell’organico penitenziario, è dunque un carcere al collasso? Per Tinagli non ci sono dubbi - “è il carcere più importante per numero di detenuti e per tipologie di detenzione differenti della Toscana: pretendiamo attenzione e impegno da parte del Governo” - mentre per la parlamentare forzista Erica Mazzetti non è il caso di utilizzare toni allarmistici dopo l’ultimo sopralluogo di pochi giorni fa. “Ci sono criticità importanti dal punto di vista dell’organico e a livello igienico-sanitario si può fare meglio”, ha detto. “La politica deve dare un segnale forte. Possiamo migliorare tante cose ma ho visitato altre carceri: grazie alla generosità di alcune associazioni, qui in estate ogni cella ha il suo ventilatore, cosa che non ho visto in altre città”. La replica, implicita, arriva dal collega dem Marco Furfaro: “Oggi qui parliamo dello Stato, della sua faccia: il tema è la politica carceraria. Le condizioni della Dogaia non sono non allarmanti ma una vergogna per tutti noi”. Durante i lavori in consiglio, l’importanza di una convergenza comune su questi temi è stata sottolineata dalla capogruppo di Forza Italia Rita Pieri che a nome della minoranza ha illustrato la proposta di quattro emendamenti all’ordine del giorno della maggioranza rimarcando le competenze della Regione dal punto di vista dell’assistenza sanitaria, incassando il placet della capogruppo dem Monia Faltoni. Sulla stessa scia anche il capogruppo della Lega Claudiu Stanasel che ha parlato di “esempio di buona e concreta politica al servizio della città”. Tra le righe, piccola stoccata di Stanasel a Mazzetti: “Si chiede alla politica di lavorare e poi chi fa interventi se ne va”. Pisa. “Per il carcere è necessario un tavolo permanente di coordinamento e programmazione” pisatoday.it, 24 novembre 2024 Le problematiche della Casa circondariale pisana sono state affrontate in Seconda commissione grazie all’iniziativa delle consigliere dem Scognamiglio e Ramalli. “Dieci anni: è questo il tempo che è passato da quando è stata segnalata la prima volta l’esigenza di una pensilina esterna per garantire riparo ai familiari in visita ai detenuti, ancora in attesa di essere realizzata. Un anno e mezzo: il tempo che è stato speso per riattivare la presenza dello psicologo”. La Seconda commissione consiliare permanente riaccende i riflettori sulla casa circondariale Don Bosco, attraverso un argomento firmato dalle consigliere Maria Antonietta Scognamiglio e Daria Ramalli (Pd) che arriva a conclusione di un anno di lavoro fortemente voluto dalle minoranze. Al centro della discussione la necessità di coordinamento e monitoraggio per raggiungere risultati concreti, senza lungaggini e dispersione di tempo e risorse: “L’esempio più eclatante è stato l’acquisto dei ventilatori per i detenuti avvenuto, in situazione di emergenza, solo grazie alla raccolta fondi lanciata tra associazioni e privati cittadini. Questo, come molti altri episodi, ci fa capire quanto sia necessario un tavolo permanente operativo istituzionale per affrontare in modo mirato le tante tematiche e criticità, arrivando a una reale programmazione. Un tavolo che veda le associazioni protagoniste. Questo permetterà di mettere al centro, di volta in volta, i vari problemi”. Dal cibo, alla scuola nella casa circondariale, alle aggressioni in carcere fino alla figura dello psicologo: “Finalmente è stato riattivato, un servizio che adesso deve essere monitorato”. E poi la pensilina: “La proposta iniziale arrivata dal Consiglio comunale era qualcosa di facilmente realizzabile, uno spazio protetto esterno con qualche tavolo e qualche seduta per dare sollievo nelle lunghe attese. Poi il progetto è arrivato recentemente sul tavolo dell’assessore Latrofa e si è trasformato, non sappiamo bene come, in tutt’altro con costi e vincoli da rispettare, chiaramente impossibile da realizzare. Il risultato? Tutto fermo, le famiglie sono ancora senza alcun riparo. Aspettare non è più possibile, i cittadini attendono una risposta”. Infine, la questione del reinserimento lavorativo: “Dobbiamo fare di più. L’amministrazione comunale - conclude Scognamiglio - ha un ruolo importante, ha partecipato ad un bando della Regione Toscana che prevede investimenti sulle politiche della formazione e inclusione al lavoro, soprattutto per le persone con fragilità. Seguiremo con molta attenzione questo percorso”. Milano. L’area industriale nel carcere di Bollate riapre: lavoreranno 25 detenuti milanotoday.it, 24 novembre 2024 Riapre l’area industriale all’interno del carcere di Bollate. Il sito sarà gestito da Coimec, azienda attiva nel settore della coibentazione industriale di strutture pubbliche e petrolifere, che ha già formato e assunto 12 detenuti. Il progetto fa parte di una collaborazione tra pubblico e privato per permettere ai detenuti di lavorare ed essere formati. L’area industriale era stata aperta nel 2020 e richiusa pochi mesi fa per mettere in sicurezza i macchinari. A questo punto sarà possibile portare a 25 il numero di lavoratori impiegati. Inoltre, grazie al Programma 2121 in collaborazione con Mind, altri 30 detenuti di Bollate sono statio avviati al lavoro proprio nei cantieri di Mind District. “L’iniziativa odierna rappresenta una delle occasioni più importanti in cui finalmente si può parlare di economia penitenziaria - ha affermato il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo -. Quello che presentiamo oggi è un vero e proprio progetto industriale: la storia di un percorso di crescita e di evoluzione, nato in conseguenza della pandemia e che oggi prosegue grazie alla collaborazione di tanti soggetti coinvolti. Una filosofia molto avanzata, quindi, che pone al centro dell’esecuzione della pena i veri bisogni, anche in prospettiva, dei detenuti”. “L’inaugurazione della nuova sede industriale di Coimec come variante del Programma 2121 per noi rappresenta molto più di una semplice espansione industriale - ha sottolineato Nunzio Perna, Amministratore Delegato Coimec - è un simbolo concreto del nostro impegno come azienda verso una visione di crescita che mette al centro non solo l’innovazione e la produttività, ma anche l’inclusione e la responsabilità sociale. Ci è stato richiesto di entrare a far parte del programma, oggi siamo noi a ringraziare il Ministro Nordio e il capo del Dap Giovanni Russo di questa grande opportunità per il valore umano e culturale che esprime”. Milano. “Sto imparando un mestiere: il mio riscatto” di Roberta Rampini Il Giorno, 24 novembre 2024 Detenuti a Bollate: il lavoro come strada per il riscatto sociale. Pietro Parisi, 44 anni, racconta come l’opportunità di lavorare in carcere lo stia preparando per il futuro al di fuori delle sbarre. “Nella mia vita non ho mai lavorato e non mi vergogno a dirlo. Qui in carcere invece il lavoro è fondamentale, per quanto mi riguarda è la strada verso il riscatto sociale. Quando uscirò potrò dire che so fare qualcosa e bussare alle porte delle aziende”. È la storia di Pietro Parisi, 44 anni, uno dei detenuti che lavora nell’officina di produzione lamierini di finitura aperta lo scorso agosto da Coimec spa nell’area industriale del carcere di Bollate. Lui, insieme ad altri undici detenuti, prima ha frequentato un corso sulla sicurezza negli ambienti di lavoro e poi un corso di formazione professionale noi sui “banchi di scuola” ma nell’officina del carcere, “nessuno di noi sapeva fare questo lavoro, sono venuti alcuni tecnici dell’azienda e ci hanno insegnato a fare tutto in modo artigianale”, racconta Pietro mostrando con orgoglio a fotografi e telecamere il risultato finale. “Per quanto mi riguarda la cosa straordinaria di questo progetto è che ci sono state delle persone che mi hanno dato fiducia e assunto - continua il detenuto. Il fatto di avere un lavoro è un modo per alleviare le mie giornata in carcere, per dare un senso alla detenzione, ma è anche una grande un’opportunità per il mio futuro fuori da qui. Sono all’inizio, devo ancora imparare tante cose, ma a fine pena potrò dire di avere un mestiere in mano”. Lavoro ma non solo, Pietro con altrettanto orgoglio ci racconta che è iscritto al terzo anno della facoltà di Economia, che ha sostenuto 18 esami, “vado fiero anche di questo”. Attualmente sono 182 i detenuti che lavorano nell’area industriale del carcere alle dipendenze di aziende che hanno scelto di portare una parte del lavoro qui. Accanto a loro ci sono cooperative sociali come la “Bee 4 altre menti”. Rovigo. Ex casa circondariale, ancora un anno di lavori per il recupero: diventerà carcere minorile di Luca Gigli Il Gazzettino, 24 novembre 2024 Un anno ancora, forse qualcosa di meno, e la trasformazione della vecchia casa circondariale di via Verdi si concluderà per diventare il carcere minorile previsto. Struttura che ospiterà i minori che sono ospitati al Santa Bona di Treviso. In questi giorni è stato smontato il ponteggio che ha avvolto per lungo tempo la palazzina che dà appunto su via Verdi, quella dell’ingresso alla struttura carceraria e che ospitava gli uffici, cosa che verosimilmente accadrà ancora. Oltre a ciò è stato rifatto il cancello che confinava con il Palazzo di Giustizia, con pure la costruzione di una piccola palazzina dove probabilmente ci saranno impianti tecnici come le caldaie, considerato il tipo di porte sull’esterno che sono state messe, mentre si sta demolendo il vecchio e per decenni non più usato cancello dopo la palazzina uffici, confinante con edifici privati. C’è molto altro, però, ancora da fare e lo si intravede dalla strada, vale a dire degli alti immobili in costruzione completamente al grezzo, ancora senza nemmeno le capriate dei tetti. Il progetto, come tutte le carceri, è segreto, pertanto non è possibile sapere esattamente come saranno utilizzati e come saranno divisi, dalle stanze dei ragazzi detenuti ai vari servizi. Quello che si vocifera, appunto, è che ci vorrà un anno scarso almeno per vedere la fine delle opere, che sono in significativo ritardo. L’appalto, infatti, era stato assegnato ancora nel dicembre 2020, ma i lavori erano cominciati il 15 ottobre dell’anno successivo, con una durata prevista di 645 giorni. In sostanza, sarebbero dovuti finire entro il 2023, mentre l’ipotesi circolante è che si arrivi al secondo semestre del prossimo anno, dunque con due di ritardo. Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, nell’estate del 2023 aveva parlato, non a caso, di un trasferimento dei ragazzi da Treviso a Rovigo nel giro di un paio di anni, verosimilmente nei primi mesi del 2025. In realtà la situazione non depone verso questa ipotesi, come detto. Nel cantiere, oltretutto, si erano anche avuti dei ritrovamenti archeologici che seppure non abbiano creato gravi rallentamenti, qualche effetto l’hanno avuto. Hanno anche permesso, però, di ritrovare le tracce di un passato del centro storico che altrimenti sarebbero rimaste sottoterra, vale a dire quelle dell’ex convento della Santissima Trinità, che fu sede delle monache agostiniane, risalente al 1400 e demolito all’inizio del 1900 proprio per costruire il carcere. Sul mantenimento della casa circondariale a struttura di detenzione, si ricorderà, si sono sommate le polemiche rispetto alla decisione venuta da Roma sulla quale il capoluogo non ha avuto potere di parola o forse non ha mosso le carte giuste per spingere verso altre strade, la principale delle quali era di utilizzare tutta l’area per l’ampliamento del Tribunale adiacente, che alla fine dovrebbe nascere al posto dell’ex questura di via Donatoni, ma sul quale al momento nulla si sa nell’iter progettuale. Reggio Calabria. Viaggio nelle carceri, il cappellano: “Qui c’è tanta speranza” di Davide Imeneo Avvenire di Calabria, 24 novembre 2024 Il progetto del sacerdote. Con “Chiesa in entrata” voglio offrire la possibilità ai parroci e alle associazioni laicali di conoscere da vicino la realtà detentiva. Luoghi cari alla missione della Chiesa. Dentro le mura dei penitenziari reggini: Arghillà e San Pietro. Un viaggio speciale tra dolore, pentimento, ma anche tanta voglia di cambiare davvero. Padre Carlo Cuccomarino, il cappellano delle carceri: “Ecco come il Vangelo può trasformare questi posti di vera sofferenza in spazi di crescita”. Padre Carlo Cuccomarino è il cappellano delle carceri di Reggio Calabria. Ci accompagna in uno speciale viaggio in uno dei luoghi più cari alla missione della Chiesa. Un prete in carcere, come si può ben comprendere, non va a titolo personale. Così come in ogni ambito pastorale, anche il carcere è un luogo di missione. Il cappellano va in carcere a nome di tutta la Chiesa, perché è il vescovo a dare il mandato di esercitare il proprio ministero sacerdotale in un determinato luogo. Il prete, in carcere come in ogni altro contesto pastorale, annuncia la verità del Vangelo, che è la misericordia di Dio per tutti, nessuno escluso. In carcere, in particolare, si annuncia la salvezza, che è un dono di Dio per tutti i suoi figli. In che modo l’ambiente carcerario, se accompagnato da un percorso spirituale, può diventare uno spazio di riflessione e crescita personale per queste persone? Sì, effettivamente il carcere è uno spazio fisico abitato da persone, ognuna delle quali ha il proprio vissuto, il proprio passato e la propria storia. In carcere si vive una vita essenziale, che porta a cercare l’essenziale della vita stessa. Questo favorisce spesso una revisione critica del proprio passato e delle proprie scelte. Attraverso un percorso spirituale e una riflessione personale, si cerca di giungere a quella verità che Gesù Cristo ha portato sulla terra per tutti. Quali strumenti o iniziative utilizzate per permettere ai detenuti di mantenere contatti costruttivi con i propri cari, nonostante le difficoltà legate alla reclusione? È necessario fare una premessa: per i detenuti, il legame con i propri cari è spesso l’unica ragione di speranza e di vita. Purtroppo, il carcerato, recluso dietro le sbarre, soffre molto questo distacco dai contesti familiari e dagli affetti. La maggior parte dei detenuti vive per i propri familiari: sono l’unico motivo di speranza per loro. Esistono già strumenti predisposti dall’amministrazione carceraria per favorire il più possibile il contatto, sia telefonico sia attraverso i colloqui visivi con i propri cari. Inoltre, sto riflettendo sull’opportunità di estendere la pastorale carceraria anche alle famiglie dei detenuti, che vivono anch’esse il dramma della carcerazione dei loro cari. Insieme agli altri volontari, possiamo dare una parola di conforto e offrire un accompagnamento spirituale anche a chi è “fuori” ma vive questa stessa sofferenza. Una volta terminata la pena, i detenuti trovano spesso difficoltà nel reintegrarsi nella società. Quali azioni intraprende la Chiesa per sostenerli in questa fase critica? La difficoltà maggiore che un detenuto incontra dopo aver espiato la pena è quella di superare le “seconde sbarre”: il pregiudizio della società, che spesso è presente anche nella stessa comunità cristiana. Bisogna lavorare molto per abbattere queste barriere, che portano spesso a isolare il carcerato, escludendolo dal contesto sociale ed ecclesiale. La Chiesa interviene fin dal periodo di detenzione, attraverso il “programma per i dimittendi” destinato ai detenuti in procinto di uscire dal carcere, spesso indigenti. Il cappellano collabora con questo programma, offrendo un accompagnamento sia spirituale che psicologico e materiale, per aiutare i detenuti a reintegrarsi. È essenziale coltivare il legame con le famiglie e favorire il ritorno nella propria realtà familiare. Tuttavia, l’ostacolo maggiore resta l’integrazione lavorativa, ostacolata da pregiudizi e vincoli burocratici, come la richiesta di certificati penali per l’assunzione. Anche chi tenta di avviare un’attività privata affronta le stesse difficoltà. Padre Carlo, quale speranza vuole offrire ai detenuti e alle loro famiglie? Paolo VI, in un celebre discorso ai carcerati del Regina Coeli di Roma nel 1964, disse che in carcere non si può commettere un solo peccato: il peccato della disperazione, ovvero di perdere la speranza. La speranza è fondamentale per i detenuti e per le loro famiglie. Si deve restituire loro la dignità umana e cristiana, permettendo a ciascuno di avere una seconda opportunità. Abbiamo il dovere morale, in quanto cittadini e cristiani, di offrirla a questi nostri fratelli. Cosa vorrebbe che la comunità di Reggio Calabria comprendesse del suo lavoro? Vorrei che la comunità di Reggio Calabria, sia quella civile che quella ecclesiale, conoscesse la realtà del mondo carcerario, una realtà spesso sconosciuta. Dietro le sbarre di San Pietro c’è un mondo che vive e spera. A Reggio Calabria esiste una “città dentro la città”. Sto progettando un’iniziativa chiamata “Chiesa in entrata” per dare ai parroci e alle associazioni laicali la possibilità di conoscere il carcere e i detenuti attraverso eventi che si terranno all’interno della struttura. Così chi vive “fuori” potrà comprendere meglio questa realtà, e i detenuti si sentiranno meno soli, più vicini al tessuto sociale ed ecclesiale. Genova. La difficile realtà del carcere minorile raccontata dal cappellano del Beccaria di Francesca Di Palma ilcittadino.ge.it, 24 novembre 2024 Nei giorni scorsi è stato a Genova don Claudio Burgio, Cappellano del Carcere minorile Beccaria e fondatore della Comunità Kayros, che a Vimodrone accoglie minorenni e giovani maggiorenni coinvolti in procedimenti penali. Don Claudio è stato invitato nella nostra città da Emanuel della Libreria San Paolo, che lo ha contattato attraverso il social network Instagram e lo ha invitato a presentare i suoi due libri “Non esistono ragazzi cattivi” e “Il mondo visto da qui”, appena uscito a cura dell’editore Piemme. Don Claudio ha incontrato i lettori lo scorso mercoledì 13 novembre prima all’Oratorio San Filippo, accolto da don Andrea Decaroli, e in serata a Molassana, dove è parroco don Luca Livolsi. Entrambi i momenti sono stati un’occasione unica per ascoltare - da chi ogni giorno vi opera - quale sia la difficilissima realtà delle carceri minorili e delle comunità che accolgono i giovani che hanno commesso reati. Don Claudio in San Filippo ha portato con sé tre dei ragazzi che ha incontrato nel suo servizio. Mario, A. e L. hanno aggiunto la loro voce raccontando in maniera semplice ma diretta la loro storia. Il punto di partenza di don Claudio è uno, così come scrive nell’introduzione a “Il mondo visto da qui”: “ogni ragazzo è e rimane una storia sacra da vivere con immensa gratitudine”. L’altro caposaldo è la fiducia. Fra giovani e adulti esiste oggi un rapporto di fiducia? E la credibilità? Giovani e adulti sono credibili gli uni agli occhi degli altri? Le storie personali che i tre ragazzi hanno voluto condividere in maniera così autentica e sincera fanno capire che le dinamiche fra i giovani e gli adulti spesso sono alla base di vicende tragiche. Anche nelle famiglie all’apparenza “perfette” si innestano meccanismi tossici, che generano rabbia, frustrazione, desiderio di fuga, senso di incomprensione. La cronaca oggi ci restituisce reati gravissimi commessi da giovani anche contro la propria famiglia, giovani che nutrono un malessere interiore spesso tenuto nascosto o non compreso da chi sta intorno. La detenzione in carcere a seguito di reati, nell’esperienza di don Claudio, non consente oggi una rieducazione. Il carcere è carcere, come ci hanno detto i tre giovani, e l’articolo 27 della Costituzione (Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato) è oggi molto lontano. Il malessere della vita carceraria e della privazione della libertà spesso alimenta il senso di rabbia. Il ricorso a farmaci per “addormentare l’anima”, per dormire, per tranquillizzarsi, è un palliativo, anche se usato frequentemente. L’esperienza di Kayros, con la vita comunitaria e la prospettiva della rieducazione e del reinserimento, offrono ai ragazzi che vi afferiscono la possibilità, in primo luogo, di non essere giudicati e di trovare risposte sulle proprie emozioni. Assumersi delle responsabilità, avere cura degli altri, avere delle cose da fare, potersi esprimere… anche da qui passa per loro la strada della ripartenza. L’obiettivo da raggiungere è la capacità di perdonare, ossia la possibilità di dare all’altro una nuova fiducia nonostante il male e il tradimento subiti. Torino. La forza del silenzio: donne, violenza e speranza nel carcere di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 24 novembre 2024 “Sapete cosa non dice nessuno? Che le donne che intraprendono un determinato stile di vita spesso sono vittime. Sono abituate a una cultura di violenza”. All’ingresso del carcere, ben visibile da lontano, una panchina rossa, una distesa di scarpe rosse e un totem con una frase che non lascia indifferenti: “Nessuno sa il silenzio quanto rumore fa”. Sono questi i simboli di una giornata che non vuole essere solo un atto di ricordo, ma un grido di speranza, di denuncia e di cambiamento. E poi dentro la biblioteca del braccio femminile, dove l’aria è carica di emozioni contrastanti. Qui si sta preparando un evento speciale legato alla lotta contro la violenza sulle donne. La giornata è stata organizzata dalla polizia penitenziaria, dietro il coordinamento della sovrintendente Monica Sardo. In questa stanza piena di libri ci sono donne ristrette, donne volontarie, donne agenti di polizia penitenziaria e tre uomini: un poliziotto, un musicista e un bambino di tre anni. È lì con sua madre, Aria. Sono in attesa di essere trasferiti all’Icam, la struttura del Lorusso e Cutugno dove si trovano le mamme detenute con i loro bambini. C’è anche la direttrice della Casa Circondariale, Elena Lombardi Vallauri. Aria racconta la sua storia, fatta di anni di soprusi, minacce e violenze da parte del padre del suo bambino. “Ho denunciato dopo otto anni di botte. Se non facevo le cose che voleva lui...Mi mandava all’ospedale. Ora lui è lontano ma io pago le conseguenze e mi trovo qui. E quando la sera si chiude la cella, mi sento una nullità”. La voce bassa, le mani strette tra loro “E adesso ho paura della gentilezza delle persone”, confessa. Denunciare per Aria non è stato solo di un atto di coraggio: è una dichiarazione di lotta per se stessa e per suo figlio. “Mi ripetevo che sarei stata la ‘prossima Giulia’”, aggiunge, riferendosi al tragico femminicidio che ha scosso l’Italia. “L’ho denunciato per il bene di mio figlio”, spiega, mentre il bambino, ignaro del peso delle parole della madre, disegna forme colorate di blu su un foglio bianco. Nel frattempo, dall’altra parte della stanza, le docenti dell’istituto Gobetti di Rivoli, Erica Sini e Gabriella Nembo, leggono lettere di donne che sono sopravvissute alla violenza. Sono loro, insieme alla polizia penitenziaria, a organizzare questa giornata che vuole essere un atto di consapevolezza e di resistenza. “Non c’è mai una fine alla violenza fisica, psicologica ed economica”, dice Erica Sini, mentre il dolore delle parole lette risuona forte nell’aria. “Ogni anno, lo stesso discorso in televisione: numeri sempre più alti, sempre lo stesso augurio ‘che sia l’ultimo’, ma non è mai l’ultimo”. Il musicista Aurelio Mancon e la voce di Mia Martini riempiono l’atmosfera, mentre il suono delle note si intreccia con le parole di chi, come Mara, sente il peso di un fenomeno sempre più allarmante. “I femminicidi in aumento fanno parlare, parlare e basta”, dice Mara, con il tono deciso di chi ha visto troppo e non intende più tacere. “La vera emergenza è la violenza sulle donne, ma pensano solo a punire e non a educare”, aggiunge, mentre si chiude nella sua giacca rossa. I capelli scuri legati, la schiena dritta, Mara guarda dritto negli occhi: “Sapete cosa non dice nessuno? Che le donne che intraprendono un determinato stile di vita spesso sono vittime. Sono abituate a una cultura di violenza”. Torino. Carcere, un titolo può far più male di una sentenza di Mauro Gentile La Voce e il Tempo, 24 novembre 2024 Opera Barolo: ciclo di incontri sui temi della detenzione. Esistono un “mondo fuori” e un “mondo dentro”. Il primo è quello dove la stragrande parte delle persone trascorre la propria giornata tra lavoro, scuola, momenti di svago e mille altre attività di vita quotidiana. Il secondo, quello “dentro”, è chiuso dietro le sbarre, spesso in edifici di cemento ai margini delle periferie urbane: è quel microcosmo le persone che hanno commesso reati, e per questo sono state giudicate, punite e recluse per mesi o anni. Due mondi, da una parte quello “fuori”, ogni giorno sotto gli occhi di tutti e che in modo più o meno corretto, può essere raccontato. Mentre quello “dentro” è ignoto ai più e molto spesso appare impenetrabile, difficile da narrare se non per i fatti più eclatanti, che descrivono una visione parziale e non sempre corretta della vita dietro le sbarre, nonostante l’attenzione e la serietà richiesta a chi per mestiere è chiamato a scrivere di quella realtà, regolamentata dalla Carta di Milano, un protocollo deontologico per giornalisti che trattano notizie su carceri, detenuti ed ex detenuti. E proprio al tema “Raccontare il carcere: tra diritto di cronaca e diritti delle persone private della libertà”, è stato dedicato il quinto appuntamento del ciclo di conferenze sul carcere organizzato dall’Opera Barolo, in collaborazione con il settimanale diocesano La Voce e Il Tempo e l’Ordine dei Giornalisti del Piemonte, nell’ambito delle iniziative per il 160° anniversario della morte della ven. marchesa Giulia Falletti di Barolo. Qualche mese fa, un gruppo di giovani detenuti del carcere torinese “Lorusso e Cutugno”, partecipando a un progetto chiamato “Lettere dal carcere”, aveva scritto una missiva aperta in cui - come ha spiegato la garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, Monica Cristina Gallo, intervenuta all’incontro insieme al garante regionale Bruno Mellano - tra i temi trattati hanno affrontato quello delle conseguenze legate all’identificazione delle persone coinvolte in fatti di cronaca giudiziaria. “Spesso” hanno scritto i giovani reclusi “sui media viene riportato il nome e il cognome dei soggetti coinvolti nel fatto raccontato. Un aspetto ci pare di particolare gravità, cioè il mettere alla gogna, sulla pubblica piazza, una persona indicandone tutte le generalità”. Secondo gli autori della lettera, ciò è grave e non senza conseguenze perché “i cittadini che commettono un reato e che scontano una pena, ancor più se giovani, hanno il diritto di potersi ricostruire una vita nella legalità, possibilità che viene loro di fatto negata dalla pubblicazione dei nomi e dei cognomi, che amplificano lo stigma della detenzione e rendono difficilissimo il reperimento di un lavoro. Chi assumerebbe un delinquente apparso su tutti i giornali? Dai ragazzi, nella lettera, una triste considerazione unita a un auspicio. La conseguenza è una forma di espulsione sociale “che inizia con l’articolo di giornale e prosegue col tempo vuoto dalla branda al carrello” (ovvero, con la mancata applicazione delle misure alternative alla detenzione); l’auspicio coincide invece con la speranza che le loro parole “possano davvero entrare a far parte del dibattito pubblico, perché rappresentano la testimonianza attiva di una partecipazione che batte l’indifferenza e produce cambiamento”. Una percezione diversa di quel “mondo dentro” che può essere favorita approfondendone la conoscenza attraverso l’impegno di scuole e atenei, come ricordato da Claudio Sarzotti, docente di Sociologia del Diritto all’Università di Torino e direttore della rivista Antigone, che ha invitato a partecipare all’incontro i giovani del suo corso, e da Tommaso De Luca, presidente dell’Associazione delle Scuole autonome del Piemonte. O quella diretta attraverso l’incontro con chi vive o a vissuto quella realtà, come nel caso dell’iniziativa curata da Valentina Albertella, oggi insegnante alla Scuola Europea A. Spinelli, che lo scorso anno con i suoi studenti della Sacra Famiglia aveva organizzato un faccia a faccia con una persona che aveva vissuto l’esperienza del carcere e le sue conseguenze, anche una volta scontata la pena e tornata in libertà. Ma c’è anche un modo diverso di scrivere di carcere al di là della cronaca nera, come ha spiegato Marina Lomunno, caporedattore de “La Voce e il Tempo”, il settimanale della diocesi che, grazie alla generosità di 50 abbonati entra ogni settimana nelle sezioni del carcere torinese ed è letto dai detenuti, e dedica ogni 15 giorni una rubrica “La Voce dentro” alle tematiche carcerarie dando spazio anche alle “buone notizie” e a storie di reinserimento. Dobbiamo “rinunciare alla durezza del giudizio inappellabile, purtroppo diffuso nella società, nei confronti di chi sbagliato e sta pagando per il proprio errore” ha scritto l’Arcivescovo mons. Roberto Repole, presidente dell’Opera Barolo, in un messaggio indirizzato ai giornalisti, agli studenti della facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo torinese e ai numerosi presenti all’incontro. “Bisogna rispettare il corso della Giustizia, ma soprattutto combattere perché i detenuti siano riconosciuti nella loro dignità e siano amati come uomini e donne. Nostro compito è aiutare ogni uomo e ogni donna a risollevarsi dalla propria condizione di fatica, anche quando ha commesso gravi errori. Questa, in ultima istanza, è la civiltà. E questo è il comandamento di Gesù”. Con questo l’incontro si è chiuso, per quest’anno, il ciclo di conferenze sul carcere organizzato dall’Opera Barolo con “La Voce e Il Tempo”. “Un anno fa” ha ricordato mons. Repole “quando lanciammo l’iniziativa speravamo di aiutare Torino ad accendere i riflettori sulle condizioni delle carceri, sulla vita dei detenuti e sull’atteggiamento dell’opinione pubblica rispetto a questo mondo di sofferenza, a tratti drammatica. Mi sembra che stia accadendo quello che desideravamo: a piccoli passi (e naturalmente non solo grazie a noi) l’attenzione sul carcere sta crescendo”. Cremona. Alla Casa circondariale incontro tra detenuti e studenti di Mauro Maffezzoni cremonaoggi.it, 24 novembre 2024 Nell’ambito del “Festival dei diritti”, è andata in scena la performance “Freed un time. Tempo liberato. Dalla Casa Circondariale di Cremona alla comunità”. Un appuntamento che ha permesso di incontrare e incontrarsi. A partire dal mondo della scuola fino a giungere agli spazi interni alla Casa Circondariale di Cremona, dove alcuni ragazzi hanno parlato mettendosi a nudo, per far sentire la loro voce, per far vedere con i loro occhi e conoscere il mondo a modo loro. Protagonisti dell’evento alcuni detenuti e gli studenti del Romani di Casalmaggiore e del Torriani, con scambio di domande e di esperienze. Nel corso della mattinata è stato proiettato anche un video in cui i detenuti hanno raccontato le attività che svolgono. Rossella Padula, Direttrice della Casa Circondariale di Cremona, ha spiegato: “Il progetto è nato da una proposta che mi è stata fatta da una professoressa dell’Istituto Romani di Casalmaggiore. Questa professoressa, Sara Pisani, è anche presidente delle Acli di Casalmaggiore e proprio le Acli, sia di Cremona che di Casalmaggiore, sono coinvolte nel Festival dei Diritti. Quindi la professoressa Pisani ci ha proposto quest’anno, per la prima volta, di entrare anche noi, come Casa Circondariale, in questa progettualità. Da qui è nato l’evento di oggi, in cui i protagonisti saranno i detenuti, peraltro presenti con i loro familiari, oltre agli studenti”. Entusiasta dell’evento Milton Castellucchio, studente dell’Istituto Romani di Casalmaggiore: “Mi fa veramente piacere vedere un mondo che appartiene alla nostra società, anche se magari viene un po’ trascurato. Partecipo all’iniziativa con molto interesse, con molta curiosità di conoscere i detenuti, conoscere l’ambiente, conoscere delle vite che fanno parte della società”. Sulla stessa linea anche Aurora Cadar, studentessa dell’Istituto Romani di Casalmaggiore: “Il fatto di avere la possibilità di entrare qui dentro, ascoltare l’opinione delle persone, sentire quella che è la testimonianza e fare delle domande, è veramente una cosa molto preziosa, perché ci arricchisce, ci arricchisce molto, almeno per poter avere uno sguardo anche positivo di questa realtà”. Volterra (Pi). “Qui è altrove”, un altro carcere è possibile grazie al teatro di Antonia Fama collettiva.it, 24 novembre 2024 In sala il documentario di Gianfranco Pannone, che segue il regista Armando Punzo nel suo lavoro all’interno del carcere di Volterra con i detenuti-attori. A Volterra un altro carcere è possibile. A Volterra, anche dietro le sbarre, puoi intravedere il cielo. Qui è nata, ormai diversi anni fa, la Compagnia della Fortezza, sotto la guida di Armando Punzo. Si trova nell’istituto di detenzione collocato all’interno della Fortezza Medicea, dove il regista allestisce i suoi spettacoli. Insieme ad altre compagnie teatrali che operano in vari istituti di pena italiani, la Compagnia della Fortezza anima il Progetto Per Aspera ad Astra, promosso da Acri (Associazione di fondazioni e casse di risparmio) e sostenuto da dodici fondazioni di origine bancaria, che vede allievi giovani e meno giovani conoscere da dentro il lavoro di Punzo e delle altre compagnie, confrontandosi su un altro teatro possibile. L’obiettivo è quello di provare ad entrare in carcere attraverso la cultura offrendo, al contempo, ai detenuti l’opportunità di seguire percorsi di formazione nei mestieri del teatro. A questa incredibile esperienza è dedicato il film Qui è altrove: Buchi nella realtà, per la regia di Gianfranco Pannone, distribuito da Bartlebyfilm, uscito in sala negli ultimi giorni. Il documentario arriva al cinema dopo la prima mondiale alla 65esima edizione del Festival dei Popoli e il passaggio al MedFilm Festival e al Parma Film Festival - Invenzioni dal vero. L’opera ha anche il patrocinio di Associazione Antigone, impegnata nella tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. Gianfranco Pannone segue con la sua camera, fino al debutto, le prove di Armando Punzo con i suoi attori nell’ambito del progetto teatrale Atlantis cap. 1 - La permanenza. Qui, con altri registi provenienti da diverse esperienze di teatro-carcere, la Compagnia della Fortezza organizza la masterclass, riunendo tutte queste realtà nel segno di un’utopia possibile. “Qui è altrove - dice Gianfranco Pannone - non è un film sul carcere, ma sul teatro in carcere che si fa linfa vitale. Tuttavia, non si può essere insensibili alla condizione dei nostri istituti di detenzione, che quest’anno hanno registrato al loro interno una sessantina di suicidi, oltre che un po’ ovunque diverse sollevazioni per le condizioni assai difficili all’interno delle celle, per i detenuti come per le guardie carcerarie”. Armando Punzo ha creato, in questi 35 anni di lavoro, un gruppo teatrale composto da detenuti-attori e professionisti del teatro, che è una specie di isola felice in un panorama molto triste. “Questo ci dice una cosa semplice e chiara: - prosegue Pannone -: un altro carcere è possibile. Possibile nella misura in cui i detenuti sono anzitutto persone che condividono con altre persone un’esperienza unica perché fortemente umana”. Nonostante alcuni casi virtuosi, come quello della Compagnia Fortezza, nella maggior parte delle situazioni si fa fatica a superare i cancelli con progetti che vadano davvero nella direzione della rieducazione, della costruzione di un’alternativa. E, non ultimo, di un lavoro sulle emozioni e sul mondo interiore dei detenuti. Quello che si portano dentro, e sul quale, grazie a esperienze simili, possono provare a lavorare, per intraprendere un percorso di cambiamento. “Per Aspera ad Astra: attraverso sentieri impraticabili, raggiungere la luce - dice Armando Punzo - E la luce, le stelle, sono quelle di un’utopia concreta che si realizza lì dove è impensabile. All’inizio, forse, nessuno avrebbe scommesso su questo progetto di teatro in carcere. Eppure, a distanza di sette anni, è evidente a tutti che dalla nostra particolare postazione, attraverso un agire prettamente artistico, trascendiamo il carcere reale per parlare dei limiti e della prigione più ampia in cui tutti siamo rinchiusi”. Dopo la prima del 22 novembre a Volterra, dove tutto è iniziato, il film proseguirà il suo viaggio nelle sale italiane. Violenza di genere, migliaia di donne in piazza. Bruciata l'immagine di Valditara di Valeria Costantini Corriere della Sera, 24 novembre 2024 Da Roma a Milano e Parigi: adesione enorme ai cortei. Lunedì 25 giornata internazionale di denuncia. Lunghi minuti di intenso silenzio e poi l’urlo di liberazione. Parte così, dalla quiete e dalla ribellione, la manifestazione promossa nella Capitale da “Non una di meno”. Nel nome delle 106 donne uccise nel 2024, contro la violenza di genere e contro il patriarcato, con manifestazioni gemelle anche a Milano, Palermo, Udine, Parigi. Nel nome di Giulia Cecchettin,la ventiduenne veneta massacrata un anno fa dal fidanzato Filippo Turetta: un femminicidio che ha scatenato una lunga onda di emozione e rabbia. “Siamo il grido feroce delle donne che non hanno più voce” - Non l’ultima vittima però, non l’ultimo atto di violenza. Solo ieri notte a Napoli una donna si è dovuta lanciare da un’auto in corsa per sfuggire al suo violentatore. Denunciato per stalking da tre donne diverse, invece, un uomo di Ceccano (Frosinone), postava foto sui social immortalando una padella e una pistola: “La ricetta della nonna” scriveva minacciando l’ennesima donna per poi essere arrestato dalla polizia. Alla vigilia del 25 novembre, Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne, la marea fucsia ha voluto rompere le ritualità e, già ieri, ha infiammato le piazze. “Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce” tuona più volte l’inno di battaglia dei manifestanti, giovani, anziani, tanti uomini, famiglie con bambini che sfilano da piazzale Ostiense, dopo un flash-mob carico di significati. Alcune attiviste, passamontagna di paillettes sui capi, si sono denudate dietro lo striscione che grida “Il corpo è mio decido io”, per ricordare Ahoo Daryaei, la studentessa iraniana che si è spogliata nell’università di Teheran come protesta contro il regime. Slogan contro Valditara che ha dichiarato “estinto” il patriarcato - Mentre il corteo muove i primi passi, a qualche chilometro di distanza, davanti al ministero dell’Istruzione, brucia una foto del ministro Giuseppe Valditara, ad opera del collettivo femminista Aracne. E sono tantissimi i cartelli nel corteo contro il ministro che ha definito “estinto” il patriarcato e collegato i femminicidi all’immigrazione clandestina. Davanti alla sede della Fao al Circo Massimo si alzano dalla folla i mazzi di chiavi, simbolo delle case rase al suolo delle donne palestinesi. Poi la lunga onda danzante si snoda fin davanti al Colosseo, illuminato dai fumogeni viola, davanti al quale si srotola il lungo striscione con i 106 nomi delle donne uccise quest’anno, mentre dai camion in testa le organizzatrici annunciano: “Siamo 250 mila”. Momenti di tensione davanti alla sede di Pro Vita - Qualche momento di tensione su viale Manzoni, davanti la sede di Pro Vita: lo spazio dell’associazione anti-abortista è blindato, camionette e agenti a impedire ai manifestanti di avvicinarsi. Insulti e grida contro la polizia, poi alcuni attivisti lanciano vernice rosa contro la vicina sede dell’assessorato comunale al Sociale, contro la carenza di case rifugio per le donne vittime di violenze. Ampia partecipazione anche al corteo di Palermo, dove in testa hanno sfilato alcune vittime di violenza, con donne disabili, e a Udine dove le Donne in Nero, una rete di attiviste per la pace, hanno chiesto il cessate il fuoco in Palestina. A Milano è apparsa un’opera della street artist Laika dal titolo “Smash the patriarchy”: un’immagine raffigurante Giulia Cecchettin e Gisele Pelicot, sopravvissuta a uno stupro perpetrato in Francia da suo marito insieme a decine di altri uomini. Una marea femminista anche nelle le principali città francesi come Parigi, tutte e tutti uniti per dire basta alla strage di donne. Basta silenzi, qui serve tanto rumore di Gennaro Tortorelli L’Espresso, 24 novembre 2024 Lo invocano i familiari di Giulia Cecchettin, mentre il ministro Valditara squaderna un campionario di segno esattamente contrario agli intenti della Fondazione. A un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin, il preside del liceo Tito Livio di Padova, lo stesso che ha frequentato la ragazza, ha vietato il “minuto di rumore” che gli alunni avevano organizzato in ogni classe. Chiavi, borracce e righelli sbattuti all’unisono contro i banchi in una protesta diventata simbolo della lotta alla violenza di genere. “Per interiorizzare un anno di riflessioni, dibattiti, esternazioni, credo che la nostra strada debba essere il silenzio”, ha scritto in un comunicato il dirigente dell’istituto. La stessa circolare invitava gli studenti ad accendere di sera una candela sui balconi delle loro case. L’appello a vivere in maniera privata e silenziosa un evento che ha segnato coscienze e riempito piazze non e? solo in contraddizione con la volonta? dei familiari della vittima, ma testimonia lo scollamento dalla realta? di alcune istituzioni. Il ricordo di Giulia Cecchettin e? un fatto pubblico e politico. Pensare, un anno dopo, di riportarlo nel silenzio delle case, di “interiorizzarlo” aspettando che la notte spenga tutte le candele, e? come illudersi di fermare il vento con le mani. I ragazzi, alla fine, hanno fatto ancora piu? rumore. Non potevano fare altrimenti, il messaggio e? stato chiaro fin da subito. “Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto”, scriveva un anno fa sui suoi social Elena Cecchettin. “L’assassino di mia sorella”, continua il post, “viene spesso definito come mostro, invece mostro non e?. Un mostro e? un’eccezione, una persona della quale la societa? non deve prendersi la responsabilita?. E invece la responsabilita? c’e?. I “mostri” non sono malati ma figli sani del patriarcato e della cultura dello stupro”. La forza di Elena e Gino Cecchettin e? stata quella di rendere pubblico un dramma personale e far si? che la loro diventasse la lotta di tutte e di tutti. Con lo stesso obiettivo e? nata la Fondazione Giulia Cecchettin, presentata con una conferenza alla Camera dei deputati. Si occupera? di contrasto alla violenza di genere attraverso campagne di sensibilizzazione, sostegno alle vittime, supporto alla ricerca scientifica e progetti di educazione nelle scuole. Un’idea che nasce dalla volonta? di “trasformare il dolore in significato, la perdita in impegno”. “In questo ultimo anno”, ha detto Gino Cecchettin, “ho ricevuto messaggi strazianti di donne intrappolate nella paura. Questa fondazione e? un richiamo collettivo, che spinge a guardare oltre noi stessi”. L’incontro e? stato introdotto dal vicepresidente della Camera Giorgio Mule?, che ha ricordato come “in questa sala non ci sono differenze ideologiche”. Da li? in poi, pero?, e? stato proprio un susseguirsi di differenze ideologiche, di approcci divergenti e a tratti inconciliabili. Da un lato i membri della Fondazione, impegnati a sottolineare la natura strutturale della violenza di genere. Dall’altro un esponente del governo che liquida la lotta al patriarcato come “una visione ideologica”. Curiosamente, l’ideologia e? sempre quella degli altri. Se per Gino Cecchettin i femminicidi “non sono una questione privata o isolata, ma sempre un fallimento collettivo”, il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara fa delle scelte lessicali opposte: “Il patriarcato e? finito. Piuttosto, ci sono ancora nel nostro Paese residui di maschilismo. Occorre non far finta di non vedere che l’incremento di fenomeni di violenza sessuale e? legato anche a forme di marginalita? e di devianza in qualche modo discendenti da un’immigrazione illegale”. Tralasciando le ambiguita? linguistiche nascoste dietro formulazioni vaghe come “non far finta di non vedere” o “in qualche modo discendenti”, cio? che salta all’occhio e? l’uso di parole come “residui”, “marginalita?” e “devianza”. Nella visione di Valditara la violenza di genere e? un incidente di percorso, dovuto a delle eccezioni da sanzionare, a degli outsider da allontanare. Il contrario di cio? che aveva scritto Elena Cecchettin e che ha dovuto ribadire in risposta al ministro: “Se si ascoltasse, invece di fare propaganda alla presentazione della fondazione che porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e “per bene”, forse non continuerebbero a morire centinaia di donne nel nostro Paese ogni anno”. Sembra quasi che per un anno la famiglia Cecchettin abbia sprecato fiato. Sul patriarcato, poi, se e? vero, come ha ricordato Valditara, che sulla carta la riforma del diritto di famiglia del 1975 ha riconosciuto alla donna una condizione paritaria, guardare solo al significato giuridico del termine e? quantomeno limitante. A testimoniarlo e? l’intervento di Anna Fasano, presidente di Banca Etica: “Il 37 per cento delle donne in Italia non possiede un conto corrente. Il 47 per cento non ha un’autonomia finanziaria, di queste il 49 per cento denuncia di essere soggetta a violenza economica”. Di fronte a queste cifre, diventa davvero difficile sostenere che il sistema patriarcale appartiene solo al passato. Anche sul tema che piu? dovrebbe essergli familiare, quello dell’istruzione, il ministro ha trovato un valido contraddittorio in una delle relatrici scelte dalla Fondazione. “Abbiamo inserito il contrasto alla violenza contro le donne nell’ambito dell’educazione civica e al rispetto verso ogni persona”, ha detto Valditara. Una soluzione che non sembra affrontare la questione alla radice. Lo sostiene Irene Biemmi, docente di Pedagogia di genere all’Universita? di Firenze: “Le differenze di genere sono dei costrutti sociali, non hanno niente a che fare con la natura e la biologia, ma fin dai primi anni di vita determinano squilibri di potere. Senza una formazione adeguata alle educatrici e agli educatori, il rischio e? di trasmettere gli stessi stereotipi sessisti con cui siamo cresciuti”. Un’altra grave inadempienza riguarda i libri di testo: “Dai testi di scuola primaria emerge una societa? patriarcale in cui gli uomini hanno il potere economico e le donne hanno un ruolo subalterno. Un messaggio istituzionalizzato dalla scuola”. In uno degli interventi conclusivi della conferenza, Stefano Ciccone, presidente dell’Associazione “Maschile Plurale”, ha raccontato il solco che i Cecchettin hanno creato tra chi vede nella violenza maschile contro le donne un problema sistemico e chi, spesso tra istituzioni e media, preferisce affrontarla attraverso la repressione: “Abbiamo visto una famiglia che ha scelto di non stare nel mero ruolo della vittima. Si sono presi la responsabilita? di denunciare le radici della tragedia che li aveva colpiti. E? un gesto di rottura con la cultura dominante, che a molti ha dato fastidio”. Spesso patriarcato e cultura dello stupro vengono rappresentati come il vertice di una piramide che ha alla base pensieri sessisti, stereotipi e altri piccoli fallimenti quotidiani dai quali nessuno puo? credersi assolto. La famiglia Cecchettin ha preso a picconate le fondamenta di questo colosso. A poco a poco crollera? e crollando fara? sempre piu? rumore, con buona pace di presidi e ministri. Nuovo Codice della strada, patente a rischio anche se il consumo di stupefacenti è avvenuto giorni prima del test di Matilda Ferraris Il Domani, 24 novembre 2024 Se prima era necessario verificare lo stato di alterazione psicofisica del conducente, adesso non lo sarà più: per la revoca della patente sarà sufficiente un test salivare positivo. L’avvocato: “Norma a rischio di costituzionalità”. Ecco come funzioneranno i controlli. Secondo il nuovo codice della strada, approvato mercoledì 20 novembre in Senato, basterà essere positivi a un test per le sostanze stupefacenti per incorrere nella revoca della patente, che si potrà riacquisire dopo tre anni. L’articolo 187 del codice della strada, prima della modifica, prevedeva che la revoca avrebbe riguardato una “guida in stato di alterazione psicofisica per uso di sostanza stupefacenti”, la dicitura attuale elimina il riferimento allo “stato di alterazione psicofisica” lasciando soltanto quello all’uso delle sostanze. Le implicazioni, dunque, riguardano le modalità di accertamento. Come spiega l’avvocato Lorenzo Simonetti, “con il vecchio codice bisognava certificare la condizione alterata del conducente. Di norma gli agenti scortavano la persona fermata al pronto soccorso per fare un controllo e in quell’occasione il personale medico sanitario poteva verificarne l’alterazione”, a quel punto l’agente disponeva la revoca della patente. “Anche con il vecchio codice c’erano dei problemi perché è difficile accertare uno stato alterato”, continua Simonetti. Infatti in Italia non esistono dei livelli soglia di thc oltre i quali si possa stabilire l’alterazione psico-fisica di un individuo, come accade invece con l’alcol. Con il nuovo codice della strada ora invece basterà effettuare il test salivare a disposizione degli agenti - prima meno diffuso - e se risulterà positivo gli agenti di polizia stradale potranno predisporre il ritiro della patente. “I risultati del test saranno sviluppati da laboratori convenzionati”, spiega l’avvocato. Qualora il risultato non dovesse essere disponibile immediatamente, gli organi di polizia stradale potranno in ogni caso predisporre il ritiro della patente fino all’esito degli accertamenti. Questi test però non necessitano di una visita in un pronto soccorso: il personale sanitario specializzato non potrà dunque verificare lo stato di alterazione del conducente e l’unica discriminante per la sanzione sarà il test. C’è un problema però: i test salivari non sono accurati e possono rilevare un consumo antecedente anche di molti giorni al momento della guida. “Inoltre - spiega l’avvocato - la norma penalizza chi assume cannabis a scopo terapeutico, infatti al momento non è prevista alcuna distinzione tra chi ha una prescrizione e chi non la ha”. C’è poi un’altra questione legata alla cannabis terapeutica: “Chi la consuma per motivi curativi tende a sviluppare più assuefazione. Nelle analisi del sangue dunque potrebbe registrarsi un alto livello di thc che non corrisponde per forza a uno stato psico fisico alterato”. Tutto ciò con la nuova legge non potrà essere argomentato. Simonetti pensa che la Corte costituzionale potrebbe esprimersi su questa misura: “Anni fa la Corte si era interessata a questo caso, ma aveva salvato la norma proprio perché nell’articolo 187 c’era un riferimento all’accertamento dello stato di alterazione”. Ora che questa specifica è stata soppressa l’avvocato pensa che la norma potrebbe essere giudicata incostituzionale. L’Occidente ora difenda la Cpi. Il doppio standard è pericoloso di Maurizio Delli Santi Il Domani, 24 novembre 2024 La Corte penale internazionale va sostenuta, anche per le accuse contro Israele, per fermare le atrocità delle guerre. Il diritto internazionale deve valere per tutti: soprattutto per le democrazie, che riconoscono le Convenzioni di Ginevra. La Corte Penale Internazionale (CPI) era consapevole che non le sarebbero state risparmiate polemiche: l’accusa è di aver messo sullo stesso piano il mandato d’arresto emesso nei confronti di un’organizzazione terroristica responsabile del massacro deliberato del 7 ottobre e quello rivolto ai rappresentanti dello Stato di Israele, che ha reagito all’oltraggio eccedendo nella reazione. Le critiche sono arrivate puntuali e pronte a strumentalizzare la decisione della Corte, persino con l’accusa di antisemitismo: era già accaduto nel 2019 alla ex procuratrice Bensouda, quando sostenne che c’era “una “base” per indagare per supposti crimini di guerra” commessi in territorio palestinese da Israele nell’estate del 2014, procedimento che quindi si è arenato. Stavolta il prosecutor Karim Khan è andato a fondo, anche per il referal, una formale richiesta di avvio di indagini presentata da diversi Stati: Sudafrica, Bangladesh, Bolivia, Comore,cu Gibuti, Cile, e Messico. A maggio il prosecutor ha formulato le richieste di arresto presentandole alla Pre Trial Chamber, che il 21 novembre scorso ha quindi annunciato l’emissione dei mandati d’arresto. Per il massacro del 7 ottobre, tra i destinatari dei provvedimenti ci sarebbero stati anche i capi di Hamas Ismail Haniyeh e Yahya Sinwar, ma il loro decesso ne ha estinto l’esecutività; rimane dunque operante per ora il mandato emesso nei confronti di Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri, comunemente noto come “Deif”, uno dei capi sopravvissuti indicato come comandante delle Brigate al-Qassam. I provvedimenti riguardanti le responsabilità di Israele sulle stragi tra la popolazione palestinese di Gaza hanno invece riguardato il premier Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant. Le accuse riguardano dunque gravissime violazioni al diritto internazionale umanitario, “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità” ai sensi dello Statuto della Corte penale: le norme sono inderogabili, e non ammettono eccezioni per nessuno, né per aggressori né per gli aggrediti se questi abusano nel diritto di difesa, né persino per capi di stato e di governo che in questi casi non godono di alcuna immunità. Già a maggio il Prosecutor Khan aveva reso noto la richiesta di arresto formulata alla Pre Trial Chamber, attirandosi ovviamente gli strali di Israele, ma anche di diversi Stati occidentali. Lo stesso presidente Biden aveva dichiarato: “Vorrei essere chiaro: qualunque cosa il procuratore possa indicare, non esiste alcuna equivalenza - nessuna - tra Israele e Hamas. Saremo sempre al fianco di Israele contro le minacce alla sua sicurezza”. L’Occidente non si rende conto che attaccando la Corte di fatto la delegittima ponendo in discussione anche i mandati d’arresto emessi per il trasferimento forzato di minori ucraini nei confronti di Putin e per i bombardamenti indiscriminati sull’Ucraina di cui sono imputati l’ex ministro della difesa e tre generali russi. Più in generale lo scenario del conflitto in Medio Oriente oggi appare alquanto incerto, e tuttavia le situazioni potrebbero evolvere: un giorno sussulti democratici potrebbero indurre gli organi della giustizia interna, ancora sostanzialmente indipendenti, a riaffermare i principi di diritto anche contro il governo oggi in carica di Israele. I fondamenti della giurisdizione della Corte - Il Procuratore ha precisato di essersi avvalso di una molteplicità di testimonianze, prove documentali in video, audio e fotografie, nonché di immagini satellitari, e “come ulteriore garanzia” di avere consultato anche un “gruppo imparziale” di giuristi di alto profilo, esperti nel diritto internazionale umanitario e nel diritto internazionale penale, tra cui figurano Adrian Fulford avvocato già giudice alla Corte penale internazionale, Helena Kennedy presidente dell’Associazione internazionale degli avvocati, l’avvocata internazionalista araba Amal Clooney, l’autorevole Theodor Meron, avvocato e giudice israeliano naturalizzato statunitense già presidente del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, e il senegalese Adama Dieng, già consigliere speciale delle Nazioni Unite per la prevenzione del genocidio. Il Procuratore richiama i principi dell’effettività della giurisdizione della Corte sui territori palestinesi e il principio di “complementarietà”: la Corte è intervenuta perché le giurisdizioni nazionali (di Israele e Palestina) di fatto, almeno fino ad ora, non hanno dimostrato di essersi impegnate in procedimenti giudiziari “indipendenti e imparziali”: ricorrono quindi il “difetto di volontà” o il “difetto di capacità” che impongono l’intervento della Corte. Le responsabilità di Hamas e di Israele - Le accuse del Procuratore Khan si sviluppano in primo luogo sulle gravi responsabilità dei capi di Hamas, in particolare dell’ala militare delle Brigate al-Qassam, per crimini contro l’umanità (articolo 7 dello Statuto della CPI) e crimini di guerra (articolo 8), anche per la cattura degli ostaggi. Il prosecutor dell’Aja delinea un quadro specifico molto serio delle gravi responsabilità anche dei leader israeliani: i crimini commessi da Israele sono stati compiuti “nell’ambito di un attacco diffuso e sistematico” contro la popolazione civile palestinese, e “in base alla politica dello Stato”. L’accusa è per la “imposizione di un assedio totale su Gaza che ha comportato la chiusura completa dei tre valichi di frontiera, Rafah, Kerem Shalom ed Erez”, nonché al blocco arbitrario di aiuti essenziali, tra cui cibo e medicine, e risorse elettriche e idriche per periodi prolungati. Il procuratore rimarca dunque un “piano comune per usare la fame come metodo di guerra” e per “punire collettivamente la popolazione civile di Gaza”, ancorché finalizzato ad “assicurare il ritorno degli ostaggi”. Da qui l’indicazione sui motivi su cui si basa la richiesta di arresto per il leader israeliani:1) Israele, come tutti gli Stati, ha il diritto di agire per difendere la sua popolazione, tuttavia “tale diritto non esonera Israele o qualsiasi altro Stato dall’obbligo di rispettare il diritto internazionale umanitario”; 2) indipendentemente dall’obiettivo militare, “i mezzi che Israele ha scelto per raggiungerli a Gaza - vale a dire, causare intenzionalmente morte, fame, grandi sofferenze e gravi lesioni al corpo o alla salute della popolazione civile - sono illegittimi”. Le conclusioni della Pre Trial Chamber ora sono giunte nette con la conferma del mandato d’arresto: sussistono “ragionevoli motivi” per ritenere che il Primo Ministro di Israele Netanyahu, e Yoav Gallant, Ministro della Difesa di Israele all’epoca dei fatti, abbiano ciascuno la “responsabilità penale in qualità di co-autori per aver commesso gli atti congiuntamente ad altri: il crimine di guerra della fame come metodo di guerra; e i crimini contro l’umanità di omicidio, persecuzione e altri atti disumani”, e ancora per “aver diretto intenzionalmente in qualità di ‘superiori’ civili attacchi contro la popolazione civile”. Lo Statuto di Roma - Si può rimanere sconfortati e manifestare solidarietà a Israele, che ancora una volta non va identificato nelle irresponsabili scelte dell’attuale leadership. E tuttavia non è il momento di offrire altri argomenti a quanti accusano l’Occidente di “doppio standard” quando si tratta di affermare i diritti umani e i principi fondamentali del diritto internazionale. La Corte penale internazionale va sostenuta se si vogliono fermare le atrocità delle guerre e le derive del disordine globale. A questo dovrebbe tenere soprattutto l’Italia, che a suo tempo è stata principale sostenitrice della Corte penale internazionale: lo Statuto della Corte, la più importante opera di codificazione del diritto internazionale anche di questo nuovo millennio, è stato approvato e aperto alla firma in Campidoglio nel 1998, ed è ancora indicato dai giuristi dei 124 Stati che lo riconoscono come lo “Statuto di Roma”.