Che cosa c’è dietro l’infantilizzazione del linguaggio in carcere di Stefano Anastasia e Luigi Manconi treccani.it, 18 novembre 2024 Alcuni anni addietro il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (al tempo il magistrato Santi Consolo, oggi Garante dei detenuti della Sicilia) diramò una “lettera circolare”, avente a oggetto le “Ridenominazioni corrette di talune figure professionali e altro in ambito penitenziario”. “In ogni comunità - esordiva il capo del DAP - il linguaggio svolge un ruolo fondamentale”, ma poi - sul punto di aprirsi a una dissertazione di sociolinguistica - tagliava corto, arrivando subito al punto: “soprattutto per il carcere”, perché “le Regole penitenziarie europee prevedono che la vita all’interno del carcere deve essere il più possibile simile a quella esterna e questa “assimilazione” deve comprendere anche il lessico”. Invece, proseguiva l’alto magistrato, i termini attualmente utilizzati nelle carceri riferiti ai detenuti sono spesso avulsi da quelli comunemente adottati dalla collettività [e questo] è causa di una progressiva e deprecabile infantilizzazione, di un isolamento del detenuto dal mondo esterno che crea ulteriori difficoltà per il possibile reinserimento. I lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale, voluti dall’allora Ministro della giustizia Andrea Orlando, avevano evidenziato l’uso di “una scorretta terminologia” nel gergo corrente all’interno degli istituti di pena, proponendo l’eliminazione dei termini “infantilizzanti”. Seguiva, quindi, quella circolare normolinguistica, indirizzata alla ridenominazione di alcune espressioni di uso comune in carcere: la cella diventava camera di pernottamento, il compagno di socialità del detenuto isolato in 41bis smetteva di essere una dama di compagnia, l’addetto alle pulizie finiva di essere chiamato scopino, il portavitto diventava un addetto alla distribuzione dei pasti, i piantoni erano assistenti alla persona, in attesa di riqualificarsi come care givers, i generici lavoranti entravano finalmente nella gloriosa schiera dei lavoratori, ma soprattutto la domandina all’autorità, veicolo di accesso a qualsiasi cosa materiale o immateriale non nelle immediate disponibilità della persona reclusa, assurgeva alla definizione - tanto grigia, quanto burocraticamente ineccepibile - di modulo di richiesta. Se la lingua non cambia per decreto - Gli anni trascorsi da allora e la stolida sopravvivenza dei termini deprecati danno conto di quanto quell’ammirevole esempio di illuminismo linguistico, pur armato delle migliori intenzioni, non sia riuscito a scalfire le regole d’uso della comunità penitenziaria. Non era difficile da immaginare, anche da parte di chi scrive, testardamente ossequiosi del linguaggio “politicamente corretto”, ovvero del rispetto delle persone che ne sono definite. La lingua non si cambia per decreto, né - tantomeno - per circolare, men che meno se la sostanza di cui si parla resta la stessa. E la sostanza del carcere, in questi anni, è rimasta la stessa (se non è involuta). L’infantilizzazione che il capo dell’Amministrazione penitenziaria vedeva come effetto del linguaggio politicamente scorretto, in realtà ne era e ne è la causa, sopravvive oggi come allora ai tentativi di cancellarla per via linguistica e merita, evidentemente, qualche supplemento di riflessione e ben altri intenti emendativi. Il cuore della infantilizzazione detentiva è proprio nella versatile domandina, buona ed essenziale per ogni cosa, dal colloquio con la direzione a quello con un amico o con un parente non convivente, dall’iscrizione a un corso di teatro alla richiesta di un trasferimento: la vita in carcere si svolge per il tramite delle domandine. Non è difficile da immaginare: l’istituzione penitenziaria ha i suoi ritmi e le sue procedure. Come ogni buona istituzione totale, essa disciplina la vita dei suoi ospiti secondo le proprie necessità funzionali: quando far passare i pasti, quando le terapie; quando si può andare all’aria e come al colloquio con i parenti; quando le persone detenute devono stare in stanza e se e quando possono stare nei corridoi o nella “sala della socialità”. Tutto è preordinato secondo necessità generali, fino a quando la vita non eccede, con le sue singolarità: ecco allora che un detenuto o una detenuta ha bisogno di qualcosa la cui soddisfazione non è nella ruota del mansionario quotidiano di qualcuno e quindi ha necessità di essere chiesta per poter essere evasa. In qualsiasi altra pubblica amministrazione (perché in fondo anche il carcere è, semplicemente, una pubblica amministrazione), l’utente troverebbe un ufficio per le relazioni con il pubblico, reale o virtuale, capace di dargli indicazione su quale modulo compilare per le sue necessità (il modulo di richiesta, secondo il vocabolario DAP). In carcere la persona detenuta (l’”utente involontario”, lo chiamava un altro capo dell’Amministrazione penitenziaria appassionato di linguaggio non discriminatorio) chiede al poliziotto della sezione e quello gli dice a chi indirizzare la domandina per ciò di cui ha bisogno. Certo, potrebbe dirgli di compilare il modulo di richiesta, e non è detto che non lo faccia, ma l’uno e l’altro si intendono meglio se continuano a chiamarla domandina. La domandina: le due culture della pena - Nella domandina, infatti, si incontrano due culture della pena, distinte, ma contigue, su cui l’Amministrazione penitenziaria può fare affidamento, offrendo ai suoi operatori l’opportunità di un incedere barcollante: un po’ sull’una, un po’ sull’altra gamba. La domandina, infatti, è la quintessenza della infantilizzazione rieducativa così come della subordinazione autoritaria. Nel carcere prima della costituzionalizzazione (fino al 1975), la subordinazione del detenuto all’Autorità era un elemento essenziale della natura della pena, e in qualche istituto penitenziario la domandina è ancora rivolta alla Signoria Vostra, Direttore del carcere o quel che sia. Nel carcere dopo la costituzionalizzazione, la domandina è il veicolo di comunicazione tra il rieducando e i rieducanti: la disparità gerarchica non è più fine a sé stessa, rituale manifestazione del potere punitivo, di degradazione del condannato, ma sopravvive nell’idea stessa di una persona da ri-educare, perché la educazione che ha ricevuto lo ha indotto in errore: è un mal-educato. Attenzione, che qui non parliamo della pur legittima educazione degli adulti, che si esercita anche fuori dalle istituzioni penitenziarie, a domanda dei suoi destinatari. Qui si parla di una ri-educazione necessitata per legge e sentenza, a cui il condannato può sottrarsi, ma con la conseguenza di aggravare la sua pena. È qui la radice della infantilizzazione dei detenuti, in una degradazione di status che sopravvive anche nel carcere della Costituzione e li porta a essere privati anche della libertà della parola, come i neonati, gli in-fanti, non ancora abili al parlare. Non è un caso che tra le più pervicaci proibizioni illegittime in carcere c’è quella della limitazione e del controllo della libertà di parola dei detenuti, che non possono telefonare a chi vogliono, mandare mail o rilasciare interviste, se non autorizzati, in barba agli articoli 15 e 21 della Costituzione: lo decide l’Amministrazione penitenziaria se, come e quando i detenuti possono parlare di sé e della propria condizione. Dunque, alla persona detenuta non resta che inchinarsi davanti al potere punitivo, che potrà subordinarlo o infantilizzarlo a seconda delle necessità contingenti e la cultura degli operatori, che potranno far emergere la sua antica anima autoritaria o la sua più recente anima rieducativa. Per questo non è bastata una riforma linguistica a mettere un freno alla infantilizzazione dei detenuti. Bisognerebbe piuttosto e innanzitutto ridare letteralmente voce ai detenuti, considerarli persone con tutti i diritti che non sono pregiudicati da una temporanea restrizione della libertà, persone a cui offrire opportunità di reinserimento in condizioni di autonomia e di legalità. Ma questa è un’altra storia. Su un nuovo italiano carcerario di Francesco Kento Carlo treccani.it, 18 novembre 2024 La modernità liquida ha creato una categoria di individui che non servono più: i “rifiuti umani”. Essi vengono espulsi ai margini della società, relegati in spazi invisibili e spesso dimenticati. Tuttavia, anche nei margini si possono creare nuove forme di vita sociale, nuove culture e nuovi linguaggi che non solo danno senso a quelle vite “scartate”, ma sfidano la stessa nozione di scarto (Zygmunt Bauman, “Vite di scarto”). L’assìste, il cellante, la domandina… Quante parole si incontrano e si scoprono durante le prime ore in un penitenziario, quante sillabe si combinano in modo inconsueto. Ormai sono tanti anni che tengo laboratori di scrittura rap all’interno delle minorili, e non smetto di scoprire termini nuovi, o quantomeno usati in modo decisamente lontano dalle abitudini dei liberi. Dopo un po’, arrivi a capire che, per i ragazzi, il gergo carcerario è, in un certo senso, un guscio di sicurezza, una (seppur minima) protezione alla quale raramente rinunciano. Alcune parole, ad esempio, vengono ribaltate: quelle negative diventano rivendicazione positiva. Con una dinamica forse paragonabile a quella con cui parte della cultura afroamericana ha fatto propria la n-word, i ragazzi dei miei laboratori rap si autodefiniscono spesso gli “scarti”, i “cattivi”, i “dimenticati”. E, pur se è evidente lo sberleffo in questo tipo di rivendicazione, chi la guarda con attenzione ne scopre anche uno scopo nascosto: quello di riaffermare la propria forza, la propria determinazione a farcela nonostante ci si senta, appunto, gli scartati e i dimenticati dalla nostra società. In un ambiente spesso teso e ostile, le parole si fanno identità, e servono a distinguersi dal mondo degli adulti, che siano educatori, insegnanti o autorità di qualsiasi tipo. Perfino i termini istituzionali del processo penale e della relativa burocrazia vengono ripresi e rimasticati in modo ironico, de-mitizzandoli e rendendoli così meno spaventosi. Le sfumature del fratello - Allo stesso tempo, il linguaggio diventa strumento orizzontale con cui costruire rapporti di solidarietà e vicinanza con i compagni di pena. Frate, fra, bro, monfrè, frero, khoya: sei modi diversi (e ce ne sarebbe probabilmente un’altra decina) di dire la stessa parola, sei sfumature diverse e molto precise. Ci raccontano un codice contaminato dallo slang del Bronx, e successivamente transitato lungo tutto il bacino del Mediterraneo, raccogliendone gli accenti e i più specifici significati. Ricchezza, in un contesto del genere, è saper cogliere tutte queste sfumature. Capire che chiamare il compagno monfrè sia molto ma molto diverso dal dirgli bro, e come, magari, la prima espressione potrebbe sfociare in un abbraccio e la seconda in una rissa violenta. E poi, ed è il punto focale del mio lavoro, c’è il rap. Forza espressiva dominante dei nostri decenni, catalizzatore di sogni e desideri, custode di segreti, malinconie e profondità a volte inaspettate. Il linguaggio del rap e il linguaggio carcerario sono così strettamente interconnessi che diventa difficile individuare dove inizia uno e dove finisce l’altro. È il rap che incoraggia per definizione la sperimentazione linguistica e comunicativa, è il rap che diventa, in questi contesti, strumento di una mediazione culturale orizzontale, che i ragazzi stessi, più o meno consapevolmente, applicano tra culture, lingue e provenienze geografiche (ma a volte anche sociali) differenti. Tramite il rap, chi è abbastanza sveglio riesce addirittura a imparare una lingua straniera molto diversa dalla propria lingua madre. Tramite il rap, molti riescono a sciogliere i propri gomitoli interiori tirando fuori dei complessi e meravigliosi tessuti di riflessione e spunti per il futuro. Ed è qui, probabilmente, lo spunto più importante che abbiamo da raccogliere: il momento in cui il linguaggio dei ragazzi dietro le sbarre smette di essere strumento di identità esclusiva e si slancia verso l’adulto (educatore, insegnante, giudice, società civile…). Questo è l’istante in cui, se chi li segue è abbastanza bravo a coglierlo, il linguaggio diventa un ponte: non soltanto uno strumento di comunicazione intergenerazionale ma soprattutto un passo nel percorso che auspicabilmente, anche se non spesso, porta il giovane dal carcere all’inserimento nella società dei liberi. L’associazione con cui lavoro più spesso, che ha il bellissimo nome di Crisi Come Opportunità, utilizza il principio del “presidio permanente” per le attività nelle carceri minorili: non andiamo a fare progetti rapidi e temporanei ma, dovunque sia possibile, cerchiamo di accompagnare quanto più a lungo questo tipo di percorso. Da mio a nostro - Ciò che mi capita spesso è che proprio il ragazzo che sembra più indurito, più cinico, più adulto nella sua corazza di cinismo sia quello che, con una penna in mano, tira fuori i contenuti più maturi e profondi. A quel punto, se l’autore me lo consente, cerco sempre di far inserire i testi nel suo fascicolo, in modo che gli stessi possano essere letti sia dall’équipe che lo segue che dal giudice, il quale, magari, ne terrà conto durante la successiva valutazione. Più di una volta mi è successo che proprio i testi rap siano stati uno degli elementi che hanno consentito una valutazione positiva del percorso di un ragazzo, uno che a parole non riusciva ad esprimersi ma, tramite le rime, ha svelato il proprio rammarico per determinate scelte e la voglia di lasciarsele alle spalle. Certo, la soddisfazione lascia sempre un po’ di amaro in bocca quando penso a quanti altri adolescenti rinchiusi hanno la stessa interiorità, la stessa voglia di allontanarsi dalla vita di strada ma meno possibilità di esprimersi e nessun adulto disposto ad ascoltarli. La realtà di tutti i giorni, sia ben chiaro, non è fatta di redenzione tramite il rap. I primi testi di quasi tutti i ragazzi parlano, spesso in temi entusiastici, di violenza, di sopraffazione nei confronti delle donne, di stili di vita improntati al più estremo consumismo ed edonismo. Non dobbiamo ricadere nell’equivoco buonista di ignorare anche questa parte che non ci piace e in cui non ci riconosciamo. Anzi, questo tipo di scrittura è importante da due punti di vista. Il primo è che ci costringe ad affrontare la realtà in cui questi ragazzi crescono, e cioè il mondo che noialtri gli abbiamo consegnato e che, evidentemente, puzza di violenza, sessismo ed esaltazione della superficialità. Il secondo è il potere, che non va mai sottovalutato, di mettere una penna in mano a un ragazzo che non l’ha mai presa, e invogliarlo a mettere sul foglio i suoi pensieri, anche quelli più banali e superficiali. Per adolescenti che non si sono mai sentiti ascoltati, anche sognare il successo personale e urlarlo ad alta voce dentro un microfono è già un enorme passo avanti rispetto al sentirsi nessuno e all’essere trattati come fossero nessuno. Un ragazzo che non ha mai imparato a dire “mio” non imparerà mai a dire “nostro”. Ed è in questa sfida, in questo passaggio difficile e importante, il senso più profondo del mio lavoro. Squarciare il silenzio. Francesco “Kento” Carlo, parole e musica tra barre e sbarre di Margherita Sermonti treccani.it, 18 novembre 2024 Negli Istituti Penali Minorili sono ristretti minori e giovani fino ai 25 anni che abbiano commesso un reato prima del compimento della maggiore età. Più tardi si entra nel carcere dei grandi, meglio è. Non è difficile capire il perché. Attraverso “Barre. Rap, sogni e segreti in un carcere minorile” (Minimumfax, 2021), Kento conduce i lettori in uno di questi IPM con una prosa limpida e coinvolgente. Colpisce l’equilibrio del racconto, che non scade mai in facili ostentazioni di dolore, offrendo piuttosto una descrizione quasi chirurgica dell’esperienza con i giovani reclusi, inframmezzata di sensazioni e considerazioni personali. Il lettore coglie e interpreta, intuisce, scopre, unisce i puntini, imparando, osservando, empatizzando. Il fatto poi che, com’è ovvio, non siano presenti nel libro specifici riferimenti al carcere e ai ragazzi di cui si parla, rende astratti e quindi più universali luoghi e personaggi, come se sfogliassimo pagine di un’opera di finzione. Ne parliamo con l’autore. Quando ho letto “Barre”, mi ha molto colpito l’urgenza da parte tua di restituire la parola ai ragazzi, di offrire loro gli strumenti per dire qualsiasi cosa, dalla rabbia all’amore, dal dolore al sogno di libertà, rispettando però certi canoni. È importante provare a rompere il silenzio intimo della sofferenza, della paura o della solitudine, ingigantito, in alcuni casi, dalla non conoscenza dell’italiano. Raccontando la tua esperienza, cerchi di squarciare anche un altro silenzio: quello che avvolge quei giovani, troppo spesso invisibili… Chi inizia a lavorare in carcere capisce molto presto che le sbarre funzionano in due sensi: tengono i ragazzi fuori dal mondo e, allo stesso tempo, tengono il mondo al di fuori da quello che succede lì dentro. Con le armi del racconto e della musica possiamo abbattere, almeno in un senso, le sbarre di qualunque carcere e quindi ritengo che chiunque abbia queste armi abbia il dovere di usarle nel modo più incisivo possibile. Tanti di questi giovani si sentono inascoltati, e spesso hanno ragione. Per cui qualsiasi spiraglio di ascolto, qualsiasi opportunità in cui la loro voce può raggiungere un destinatario diventa preziosissima, a maggior ragione se il destinatario è una persona che non ha mai lavorato in carcere o non lo ha mai vissuto nemmeno in maniera indiretta. Per i reclusi è sempre motivo di grande orgoglio, spesso accompagnato da un pizzico di incredulità, sapere che la propria storia o addirittura la propria musica, sia arrivata nel mondo dei liberi. Barre e sbarre, il gioco di parole è facile. Ma non lo è affatto insegnare in un carcere, perlopiù ad adolescenti reclusi. Puoi spiegare a grandi linee che cosa sono le barre, perché proprio il rap e che tipo di lavoro fai? Quali competenze devono avere i tuoi discenti per partecipare ai laboratori? La risposta alla prima domanda è facile: le barre non sono altro che i versi della strofa rap, le righe (tipicamente 16, per 8 coppie di rime) che la compongono. Per il resto, parlare di insegnare e di discenti è forse un po’ troppo per l’attività che faccio con i ragazzi in carcere. Ci sediamo insieme, scriviamo, proviamo, registriamo, a volte si riesce a organizzare dei concerti dentro o addirittura fuori dalle mura del carcere. Non è nulla di troppo diverso rispetto a quello che facevo quando avevo la loro età, e mi sedevo al muretto a fare freestyle con gli amici o i compagni di crew. Ecco perché, se mi chiedi che competenze bisogni avere, la risposta è molto semplice: devi avere un cervello e una bocca che funzionano. Basta così. A guardare bene, non serve nemmeno saper leggere e scrivere: mi capita abbastanza spesso di fare rap insieme a dei ragazzi completamente analfabeti, ma fortissimi con le rime. È una forma di espressione diversa rispetto a quella della scolarizzazione classica, ma ti aiuta a capire tanto di quello che passa per la testa dei ragazzi e delle loro potenzialità. Anzi, ti apre delle prospettive di riflessione ulteriori: uno dei ragazzi con cui lavoro, di soli 16 anni, fa rap in tre lingue diverse, parla 5 lingue… ma è analfabeta in tutte e 5 le lingue! E se questo, da un lato, ti fa capire che intelligenza e prontezza straordinarie abba questo ragazzo, dall’altro ti lascia l’amaro in bocca perché capisci quanto gli adulti siano stati assenti nella sua vita, quanto mai nessuno gli si sia seduto accanto quand’era un bimbetto per insegnargli a leggere e scrivere. È facile pensare che, se avesse incontrato degli stimoli più ordinati, adesso non sarebbe rinchiuso dietro quelle sbarre… La considerazione che faccio più spesso è: impossibile guardare il carcere minorile senza riconoscere le responsabilità degli adulti. Che tipo di lingua usi per farti capire da tutti, italiani e stranieri, spesso con basso livello di scolarizzazione? A costo di essere banale, ti devo rispondere che la musica supera ogni tipo di barriera linguistica e culturale. Durante uno dei laboratori condotti per l’associazione CCO - Crisi Come Opportunità, abbiamo creato una canzone che ha un unico argomento ma è scritta in cinque lingue diverse: italiano, inglese, francese, arabo e albanese. Da questo punto di vista, il rap è uno strumento straordinario perché si presta in maniera perfetta a questo tipo di contaminazioni, che anzi lo arricchiscono e rendono più piacevole anche all’ascolto. In realtà molte delle conoscenze dei ragazzi vengono applicate in maniera istintiva, senza dover dare troppe spiegazioni: tutti sanno cosa vuol dire “fare quattro barre di freestyle a testa” senza aver mai studiato la metrica né la tradizione poetica dell’improvvisazione. Tutto nasce dal fatto che la loro generazione è nativa del rap allo stesso modo in cui è nativa degli strumenti digitali: non serve spiegargli quasi nulla. Si attacca la cassa bluetooth al computer, e si inizia. Come lavori con le parole? In che misura intervieni sui testi che compongono i ragazzi? La musica viene prima o dopo? Nel mio metodo, la musica è ben più che il vestito che copre le parole: è ciò che dà identità, intenzione e corpo. Pensa che non di rado capita di passare più tempo a scegliere una base che a scrivere il testo, appunto perché la base racconta già molto delle caratteristiche che vogliamo dare alla canzone finita. I ragazzi che hanno qualche esperienza di scrittura hanno già immancabilmente nei loro lettori mp3 tutta una serie di basi musicali scaricate da internet e, a volte, vorrebbero registrare le canzoni proprio su quelle, che sentono assolutamente perfette per le emozioni che intendono esprimere. Il punto è che, essendo scaricate, sono ovviamente di proprietà di chi le ha composte, e quindi non è possibile utilizzarle ufficialmente! Intervengo allora io, o meglio: intervengono i compositori di mia fiducia, i quali producono una base completamente inedita (e quindi utilizzabile), cercando però di mantenere l’emozione e il ritmo da cui è partita la scrittura, in modo da non stravolgere l’intenzione del giovane autore. Non sempre è facile, ma di solito ci riusciamo. Nel libro racconti del gesto che compi di regalare quaderni con la promessa di rimpiazzarli ogni volta che siano stati usati, all’infinito. Oltre che un gesto simbolico e molto poetico, mi sembra che tu mandi un messaggio potente e allo stesso tempo responsabilizzante: “queste sono le tue pagine bianche, tocca a te riempirle, fallo nel migliore dei modi; io, dal canto mio, proverò ad aiutarti sempre”. Qualcosa del genere? Sarebbe bello se esistesse una sorta di “diritto al quaderno”, un diritto alla scrittura che riconosciamo allo stesso modo in cui riconosciamo i diritti fondamentali della persona. Non tutti, ovviamente, dobbiamo e vogliamo diventare rapper o scrittori, ma scrivere - anche solo per noi stessi - ha un potenziale terapeutico e di salvezza che poche altre forme di espressione possono vantare. Spesso sono i ragazzi più schivi, quelli apparentemente più duri, che superano timidezza e diffidenza tramite un quaderno a righe, ed è per loro che questo strumento è ancora più prezioso che per gli aspiranti rapper, che magari sono già lanciatissimi con rime e barre. Da questo punto di vista ti posso rispondere di sì: finché mi sarà possibile, cercherò sempre di dare una penna e un quaderno a un ragazzo che non ha mai scritto, e che ha disperatamente bisogno di leggersi e ascoltarsi per capire di avere una voce e una dignità. Hai mai pubblicato una raccolta dei componimenti dei ragazzi che hai incontrato negli anni? Parecchi frammenti sono raccolti in Barre, il libro che hai citato all’inizio. Altri, tra cui varie canzoni strutturate e ben scritte, sono disponibili su YouTube. Altri ancora, purtroppo, restano nel mio archivio o nel mio hard disk perché non sono mai arrivate le autorizzazioni alla pubblicazione, e intanto gli anni sono passati, e a questo punto le autorizzazioni non arriveranno mai più. Vuoi aggiungere qualcosa alle considerazioni fatte sinora? Non sono da solo nel lavoro che faccio. Intorno a me c’è un’intera rete, che abbiamo voluto chiamare Keep It Real, e che raccoglie tutto il mondo di artisti, accademici, associazioni che supportano il rap come strumento educativo e pedagogico. Per chi ne vuole sapere di più, il sito è, e presto annunceremo tutta una serie di iniziative aperte a chiunque voglia interessarsi e darci una mano. Giustizia, il fuoco delle parole di Carlo Bonini La Repubblica, 18 novembre 2024 La logica tribale della politica come sopraffazione continua a fare premio su qualunque altra considerazione. E appare sempre più evidente la tentazione che si annida in questa destra di giocare la carta della provocazione permanente. Non più tardi di venerdì 15 novembre, le violenze durante le manifestazioni di Torino e le reazioni che ne erano seguite avevano consigliato un richiamo all’igiene delle parole. L’invito a una moratoria nell’uso di un linguaggio politico d’odio. Lo aveva fatto questo giornale. Ne aveva avvertito l’urgenza il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, alla vigilia e in apertura del sinodo dei vescovi. Se ne era fatto interprete istituzionale il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Ebbene, il risultato è in questo weekend che ci lasciamo alle spalle trasformato dalla destra in un’ennesima e truculenta corrida lessicale. Aveva cominciato sabato 16 novembre il ministro leghista e padre della legge sull’autonomia Calderoli promettendo di mettere a tacere per sempre le opposizioni sul tema dell’autonomia differenziata, nelle stesse ore in cui quello della giustizia Nordio evocava gli esordi del terrorismo in Italia. Ha proseguito la segreteria politica della Lega abbandonandosi a un attacco alla magistratura che è un condensato di disprezzo. Un’invettiva che accomuna chiunque amministri giustizia in un grottesco e monolitico nemico del popolo che “blocca le espulsioni dei clandestini delinquenti” e “libera per errore gli spacciatori”. La logica tribale della politica come sopraffazione, evidentemente, continua a fare premio su qualunque altra considerazione. Nella cinica convinzione che contribuisca a portare qualche dividendo in termini di consenso o persino di identità. Ma quel che è peggio, appare sempre più evidente la tentazione che si annida in questa destra di giocare, nella delicata partita sul presente e il futuro del Paese, la carta della provocazione permanente. Contribuendo a definire un’arena in cui si creino le condizioni che possano giustificare agli occhi del Paese riflessi d’ordine e scorciatoie istituzionali. Ripetere che c’è una parte del Paese, a sinistra, che dà la caccia ai poliziotti, o che a Palermo si sta celebrando non un processo secondo le regole del diritto nei confronti di un ex ministro dell’Interno accusato di sequestro di persona, ma una vendetta politica, è utile solo a tendere fino al punto di rottura la tenuta delle istituzioni e degli apparati dello Stato. E, insieme, a gonfiare di risentimento e rabbia un’area del dissenso che flirta con la violenza. È un canovaccio che chi ha vissuto le stagioni più buie della lotta politica in questo Paese purtroppo conosce bene e di cui non ha perso memoria. E, in qualche modo, ne è testimone anche la decisione inedita assunta dal comitato direttivo dell’Associazione nazionale magistrati di fare appello al Csm a tutela dell’indipendenza e autonomia della magistratura contro gli attacchi del governo. Una decisione che cade, per altro, nella settimana in cui il Parlamento sarà chiamato a discutere e votare sulla separazione delle carriere dei magistrati. Ora, non è necessario essere degli indovini per immaginare che i giorni e le settimane che abbiamo di fronte (il 20 dicembre è attesa la sentenza a Palermo su Salvini) contribuiranno ad alzare ancora di più la temperatura del confronto politico. Per questo, non è più tempo di ambiguità. Chi deciderà di continuare a perseguire la logica del nemico, utilizzando l’arsenale dell’odio o del discredito, chi continuerà ad agitare il fantasma della lotta armata, si assumerà enormi responsabilità di fronte al Paese. È il momento di fermarsi. L’appello dei magistrati al Csm: “Ci tuteli dal linciaggio dei politici” di Giovanna Vitale La Repubblica, 18 novembre 2024 I documenti varati all’unanimità dall’Anm: “Si respira un’aria pesante, attacchi per delegittimarci e assoggettarci”. La replica della Lega: “Meno convegni e più lavoro”. Forza Italia: “Solo un lungo piagnisteo”. Silenzio della premier. Non intendono più restare a guardare, i magistrati. Né subire in silenzio l’assalto contro singoli giudici e l’intera categoria, accusata dal governo di essere politicizzata solo per aver fatto il suo dovere: scrivere sentenze a norma di legge, criticate “perché sgradite all’indirizzo della maggioranza” di turno. In gioco c’è “l’autonomia e l’indipendenza” di una funzione tutelata dalla Costituzione, la stessa “tenuta democratica” di un Paese in cui il potere esecutivo prova a mettere le mani sul potere giudiziario per “assoggettarlo”. Tale da imporre una reazione durissima: quella che il direttivo dell’Anm ha declinato in due diversi documenti, varati all’unanimità, a protezione delle toghe che, assediate come mai prima, si sono ricompattate in fondo a mesi di liti e distinguo. Frutto dell’aggressione ai colleghi che hanno sospeso il trasferimento dei migranti in Albania, del tentativo di eliminare le sezioni speciali presso i tribunali, della riforma sulla separazione delle carriere. Nella delibera inviata al Csm, il vertice del sindacato - che, visto il momento, ha deciso di anticipare al 15 dicembre l’assemblea generale straordinaria prevista a metà gennaio - ha sollecitato “iniziative” a difesa della magistratura, sottoposta ad “attacchi per screditarla” e per “preparare il terreno a riforme che tendono ad assoggettare alla politica il controllo di legalità”. Nel mirino, anche le nuove norme sui migranti, che “metteranno in ginocchio le Corti d’Appello” poiché su di esse graveranno “30mila procedimenti” in più all’anno, “da definire peraltro in tempi strettissimi”. Accuse che la maggioranza rispedisce subito al mittente: “Meno convegni, più lavoro” replica la Lega. Parla di “lungo piagnisteo” il forzista Enrico Costa, mentre Maurizio Gasparri denuncia la “sfrontatezza” dei magistrati, certo che “i valori della giustizia prevarranno sul Ballando con le stelle (rosse) dei soliti noti”. A innervosire il centrodestra, il vibrante j’accuse sul “linguaggio della democrazia” col quale il direttivo dell’Anm ha contestato gli “attacchi sempre più frequenti di una certa politica a provvedimenti resi dai magistrati nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, criticati non per il loro contenuto tecnico-giuridico, ma perché sgraditi all’indirizzo politico della maggioranza governativa”. E ce n’è pure per “il linciaggio mediatico cui un certo giornalismo si è prestato: scrutare la vita delle persone”, ovvero di alcuni giudici, “riportando le loro vicende intime, del tutto prive di rilevanza pubblica, è condotta non in linea con l’etica giornalistica”. Tant’è che un esposto verrà adesso inviato all’ordine nazionale. Tra i principi in ballo c’è uno dei cardini della nostra Carta: “La libertà di manifestazione del pensiero” che, si legge ancora nel documento, “appartiene al magistrato anche quale cittadino che la esercita, anche nel dibattito pubblico, con senso di responsabilità e rispetto dell’elevata funzione svolta. Sostenere che ha adottato un provvedimento per perseguire finalità diverse da quelle proprie dell’esercizio della giurisdizione è un’accusa grave che non può più essere tollerata”, insistono le toghe: “Delegittimare la magistratura è operazione che lede la tenuta democratica del Paese”. Rilievi pesanti, che finiscono per irritare la premier Meloni in trasferta in Brasile. La quale tuttavia preferisce non rispondere, ordinando ai suoi Fratelli di fare lo stesso. Non così gli alleati. “Rassicuriamo l’Anm”, rincara la Lega: “Per screditare la magistratura basta la magistratura che blocca le espulsioni dei clandestini, libera gli spacciatori, chiede la galera per Salvini”. A sostegno di schiera invece Ernesto Carbone, laico del Csm chiamato mercoledì a votare sulla tutela ai giudici di Bologna e di Roma accusati dal governo di aver “liberato” i migranti portati in Albania. Una guerra totale che minaccia di non fare prigionieri. Il viceministro Sisto: “Solo i parlamentari hanno legittimazione popolare, non i giudici” di Gabriella Cerami La Repubblica, 18 novembre 2024 “Ai parlamentari democraticamente eletti spetta il compito di rappresentare il popolo italiano, non ai magistrati”. Il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, interviene nello scontro tra politica e giudici respingendo “le guerre di religione”. E sulla possibilità di spostare alle Corti d’appello alcune competenze in materia di migranti fa sapere che sono in corso approfondimenti. L’Associazione nazionale magistrati ha messo per iscritto che la politica attacca i giudici per screditarli e assoggettarli. Cosa risponde? “Niente di più lontano dal vero. E mi spiace che si sia giunti a questo punto. Non ho mai creduto nelle guerre di religione fra politica e magistratura, perché le spese le fa sempre e solo il cittadino. Le riforme in materia di giustizia di questo governo sono state scritte esclusivamente con questa filosofia”. Tuttavia l’Anm ha trasmesso un documento al Csm affinché intervenga a tutela dell’indipendenza della magistratura. La maggioranza di cui fa parte continua ad attaccare i giudici. Perché il governo si è intestato questa battaglia? “È indispensabile, come il presidente Mattarella ha ribadito, un passo indietro di tutti, per farne tre avanti insieme, nel rispetto dei ruoli. Nessuno intende sfiorare l’autonomia della magistratura, del pm o l’obbligatorietà dell’azione penale. Ogni fake sul punto va perentoriamente respinta ai mittenti”. Perché allora spostare la competenza sul trattenimento dei migranti dalle sezioni specializzate alle Corti d’appello? È una ripicca perché i tribunali si sono rivolti alla Corte Ue mettendo in sospeso le decisioni del governo? “Si tratta di un emendamento i cui effetti sono allo studio, per verificarne l’effettiva capacità di miglioramento dei meccanismi di politica migratoria. E nelle scelte legittime del governo e del Parlamento c’è quella di optare per soluzioni normative di tale genere”. Le Corti d’Appello però sono già ingolfate, non si rischia di peggiorare la situazione? “È uno dei temi che il ministero sta approfondendo con puntualità, evitando che la scelta possa comportare conseguenze ingiustificatamente gravose per gli uffici giudiziari”. Toghe rosse, magistratura politicizzata, uso politico della giustizia, sono solo alcune delle frasi pronunciate dai suoi colleghi. Non le sembra una violenza verbale? “Esasperare i toni è uno sport che da ogni settore istituzionale va accuratamente evitato. L’agonismo, quello sano, dei contenuti è una componente fondante della democrazia. Trascendere corre il rischio di provocare la rissa e creare quel clima che impedisce il ragionamento fra i poteri. E, tenuto conto che questo governo è solido, è naturale che abbia tutto l’interesse a mantenere le sane e pacate interlocuzioni istituzionali”. Secondo lei, ci sono giudici che fanno politica come dicono alcuni suoi colleghi? “Se qualche sparuta minoranza nella magistratura volesse interpretare il ruolo di “sorvegliante etico” del governo Meloni e del Parlamento democraticamente eletto saremmo di fronte ad una inaccettabile ingerenza negli equilibri costituzionali. I magistrati pronunciano solo sentenze “in nome del popolo italiano”, ma non lo rappresentano. Questa legittimazione spetta ai parlamentari eletti con il voto politico”. I magistrati contestano anche la riforma della separazione delle carriere... “La separazione delle carriere, dna di Forza Italia, rientra nel programma elettorale del centrodestra. A prescindere da ogni legittimo dissenso e critica dell’Anm, sarà un provvedimento la cui efficacia sarà decisa dal popolo con un referendum. O nemmeno ai cittadini sarà consentito dire la loro sulla magistratura?”. “Non siamo noi ad esondare. Vogliono che ci allineiamo” di Giovanni Longo Gazzetta del Mezzogiorno, 18 novembre 2024 Salvatore Casciaro, barese, consigliere di Cassazione, segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati. Si aspettava uno scontro governo-magistratura così acceso sull’immigrazione? “È uno scontro in cui i magistrati sono stati tirati dentro; che non hanno né voluto né cercato: alcuni colleghi sono stati accusati di essere politicizzati, addirittura anti-italiani solo per aver fatto il loro dovere. Se le politiche migratorie non ottengono i risultati sperati, non dipende dai magistrati, ma dal fatto che le norme interne si inseriscono nell’alveo di una disciplina sovranazionale alla quale debbono necessariamente uniformarsi”. Il governo accusa una parte della magistratura di fare politica nei tribunali. Come rispondete? “Si contesta che i magistrati possano interloquire sui requisiti per definire un paese come sicuro, ma la Corte di giustizia ha ricordato, nella sentenza della Grande Sezione del 4 ottobre scorso, che spetta proprio al giudice comunitario dire l’ultima parola sulla sicurezza del paese terzo, a garanzia del migrante destinatario del provvedimento di respingimento. I magistrati si sono quindi limitati ad applicare la legge e, prima di tutto, le norme UE. Non hanno certo “esondato”, come afferma il Ministro Nordio, dalle loro attribuzioni, piuttosto è la politica che sembra in alcuni casi voler influenzare l’attività interpretativa dei giudici o comunque attendersi che essa si allinei con l’azione del Governo, cosa che sarebbe fuori dal perimetro costituzionale”. Alcuni suoi colleghi hanno chiesto alla Corte di Giustizia di interpretare le norme interne sul respingimento di migranti irregolari. Cosa vuol dire in concreto? “Partire dalla constatazione che il diritto dell’Unione ha un indiscusso ruolo di primazia sul diritto interno, le cui disposizioni, se direttamente in contrasto col primo, debbono essere disapplicate o, in caso di dubbio, sottoposte, com’è stato fatto dai giudici di Bologna e di Roma, al vaglio della Corte di Giustizia UE, la quale, in sede di rinvio pregiudiziale, dirà qual è l’interpretazione più corretta della disciplina comunitaria con effetti vincolanti per tutti i giudici dei paesi membri”. Il deputato Sara Kelany (FdO ha proposto di trasferire la competenza sulla convalida del trattenimento di un richiedente protezione internazionale alla Corte d’Appello. Può essere una soluzione valida? “Dopo la reintroduzione, con il decreto flussi del 2 ottobre scorso, dell’appello contro le decisioni del Tribunale dell’immigrazione in materia di protezione internazionale, si presenta ora quest’ulteriore inatteso emendamento. Si tratta di scelte poco meditate, adottate con l’obiettivo estemporaneo di scavalcare i giudici delle sezioni specializzate immigrazione, in quanto ritenuti ostili, scelte oltretutto controproducenti perché renderanno lungo e farraginoso l’iter processuale sulle domande di asilo, con il rischio che il migrante irregolare, che non ha titolo per restare in Italia, continui a soggiornarvi per un tempo indefinito. Sono modifiche che metteranno tra l’altro in ginocchio le Corti d’appello che saranno sommerse da decine di migliaia di fascicoli che, in aggiunta a quelli già pendenti, renderanno illusorio il raggiungimento degli obiettivi di definizione dell’arretrato fissati con il Pnrr, col rischio anche di perdere i finanziamenti Ue”. Cambiamo tema, dossieraggio: vi sentite sotto attacco? “Nel quadro di ripetuti recenti attacchi alla giurisdizione si collocano purtroppo anche le campagne di stampa contro i giudici. Uno “stato” su Whatsapp di un magistrato, visibile solitamente non più 24 ore, viene recuperato a distanza di due anni e trasmesso, non si sa da chi, a una testata giornalistica che lo adopera per dipingere quel magistrato come politicizzato. Altro noto quotidiano nazionale rastrella informazioni, prive d’ogni rilevanza pubblica, sulla vita personale, se non addirittura intima, di un magistrato solo per connotarne ideologicamente la decisione. Iniziative anch’esse funzionali a intimidire i giudici e a turbare l’indipendente esercizio della giurisdizione. C’è di che stare preoccupati”. Oggi si conclude il Comitato direttivo centrale dell’Anm. Quale sarà la sintesi? “L’Anm parla oggi più che mai con una sola voce, ed è quella della difesa dell’assetto costituzionale della giurisdizione, che vede nel magistrato colui che esercita con indipendenza le sue funzioni a garanzia dei diritti fondamentali delle persone. Ove, con il varo della riforma costituzionale in cantiere, questo un domani non accadesse più o si aprisse un varco a condizionamenti esterni della politica, con perdita di indipendenza dei giudici, non esisterebbe più la giurisdizione, almeno come tutti finora la intendiamo. Per questo occorre tenere alta la guardia”. Se le sentenze dei giudici sono sgradite l’equilibrio dei poteri non va compromesso di Mario Chiavario Avvenire, 17 novembre 2024 Non piacciono le sentenze di certi giudici? Presto fatto: si toglie loro la possibilità di pronunciarsi in argomento. Questo, il succo di un emendamento presentato martedì nel corso dell’iter di conversione del “decreto flussi”: se sarà approvato, la competenza a decidere se convalidare o meno il trattenimento di immigrati “irregolari” non spetterà più a sezioni specializzate dei tribunali ma alle corti d’appello. Si dirà: che c’è di scandaloso? Le norme sulle competenze giudiziali non sono giuridicamente intoccabili, sempreché delle nuove regole non si faccia applicazione retroattiva. È vero, ma il fatto è che in questa caso il cambiamento si prospetta nel bel mezzo di un’infuocata polemica sul merito di decisioni, appunto, di qualche tribunale, concernenti la tormentata vicenda dei trasferimenti di persone in Albania e fatti bersaglio da un coro di politici e media. Come non pensare a una ritorsione e a un ammonimento a chi... non lascia lavorare manovratori e manovratrici? Insomma, non siamo (non siamo ancora?) a quella cacciata alla spiccia dei giudici riottosi, suggerita da un sempre più potente tycoon d’Oltreatlantico. Però neppure l’attuale contesto nostrano lascia tranquillo chi abbia a cuore - oltreché la sorte di persone “irregolari” ma pur titolari di dignità e di diritti - delicate esigenze di equilibrio istituzionale: non si tace infatti la pretesa di ottenere dai giudici qualcosa che, come “collaborazione’: vada ben oltre quelle esigenze di “lealtà” e di rispetto reciproco più volte raccomandate dalla Corte costituzionale a tutte le istituzioni rappresentative dei più alti “poteri” pubblici e anche in questi giorni ricordate dal Presidente della Repubblica. Si giunge di fatto a contestare ai magistrati una delle loro prerogative essenziali: il diritto-dovere di interpretare le leggi, in particolare alla luce delle norme costituzionali e sovranazionali. Si bolla poi come eversivo persino l’uso di uno strumento intrinsecamente neutro qual è il “rinvio pregiudiziale” alla Corte europea di giustizia, utilizzato, qui, da un tribunale per avere un punto di riferimento incontestabile sulla legittimità “europea” di quanto definirà del Governo italiano circa i Paesi “sicuri” per un rimpatrio. Orbene, per far valere le sue ragioni il Governo può certo costituirsi davanti a tale Corte, e va benissimo che abbia preannunciato di farlo. E altrettanto legittima è statala sua risoluzione di ricorrere in cassazione per opporsi a un’altra sentenza di tribunale, più drasticamente venuta tout court a disapplicare la normativa italiana in questione. Perché, però, non ci si è fermati a questi passi e da più parti si è imbastita una vera e propria caccia alle streghe sino ad attacchi ingiuriosi e ad in-timida7ioni a singoli magistrati o a gruppi selezionati ad hoc? Vi si scorgono segni preoccupanti dell’accentuarsi di una degenerazione, per vero già largamente in atto e non da una parte sola, del costume comportamentale e verbale del nostro personale politico. Chiamata in causa - e in un senso ben più sostanziale di quello dipinto a giustificazione di quegli attacchi - viene ad essere la stessa distinzione tra i Poteri, connotato basilare dello Stato di diritto. E, per reazione, si è così indotti a mettere in secondo piano persino una convinzione pure a sua volta importante. Quella sul bene che farebbe agli stessi magistrati il rinunciare a loro volta alla pretesa di non incontrare, nell’espressione delle loro opinioni, se non gli stessi limiti dei comuni cittadini, dal momento che i poteri che esercitano sono ben più penetranti. Donde l’opportunità di un’attenzione particolarmente rigorosa, circa il linguaggio usato nelle sentenze e più ancora nelle occasioni in cui (forse troppo spesso) sono chiamati a esprimersi sui più vari argomenti. Proprio sicuri che altrimenti non ne venga scossa la fiducia nella loro imparzialità nel momento delle loro decisioni? “Con le nuove norme 30mila ricorsi”, paralisi delle Corti di Giuliano Foschini La Repubblica, 18 novembre 2024 Il carico di lavoro allontana il raggiungimento del target imposto dal Pnrr: ridurre del 90 per cento le cause civili pendenti entro il 2026. Non sono state le dichiarazioni di queste settimane (da Meloni a Musk, passando per Salvini, ognuno ha avuto una provocazione). E nemmeno l’aver letto la calendarizzazione dei lavori parlamentari: a fine novembre in quattro sedute consecutive, con tanto di prosecuzione notturna, alla Camera si discuterà della separazione delle carriere, un’accelerata che, hanno fatto notare in molti, magari soltanto per caso, o forse no, coincide con la sentenza di Palermo su Matteo Salvini che arriverà il prossimo 20 dicembre. A convincere le toghe che questo muro contro muro scelto dal governo sia inaccettabile perché “per primi punisce i cittadini” sono stati i numeri che l’ufficio statistiche del Consiglio superiore della magistratura ha messo loro a disposizione: la nuova riforma della giustizia in materia di immigrazione paralizzerà le corti di appello italiane. Proprio quelle che grazie al lavoro dei giudici e alle nuove disposizioni organizzative previste dalla riforma della giustizia, erano riuscite a riportare la discussione dei processi in tempi accettabili. E soprattutto a essere a un passo (in alcuni casi sono stati già raggiunti) dal rispettare i target imposti dal Pnrr. E invece ora rischia di saltare tutto. Il decreto flussi e il decreto paesi sicuri hanno infatti reinserito la possibilità (abolita nel 2017) per l’avvocatura dello Stato di impugnare gli accoglimenti delle protezioni speciali decise dai giudici di primo grado. È una scelta politica: un tentativo per annacquare le decisioni dei tribunali speciali che, in ogni caso, ora il governo vuole abolire spostando alle corti d’appello l’intera partita sull’immigrazione. In ogni caso, i soli giudizi di secondo grado, sostiene il Csm, aumenterebbero di quasi il 40 per cento il lavoro delle Corti. Secondo i dati dell’ultimo anno “possibile stimare in oltre trentamila i procedimenti che presumibilmente verrebbero impugnati; ovvero tra 30.611 (38 per cento degli iscritti in primo grado) e 34.639 (43 per cento degli iscritti in primo grado)”. Tenendo presente che in un anno l’ammontare complessivo dei procedimenti iscritti nelle Corti è di 92.514 fascicoli, significa dare il 30 per cento del lavoro in più ai giudici d’appello. A questo andrebbe ad aggiungersi il tema delle convalide: come in questi giorni hanno spiegato diversi presidenti al ministero, per effettuarle servirebbe organizzare tre turni a settimana da 48 ore. Significa impegnare tre magistrati (che tra l’altro dovrebbero prendere decisioni monocratiche quando in appello, invece, si lavora in collegiale) in una situazione endemica di carenza di personale. Di più. Dalla metà del prossimo anno non potranno più esserci i “magistrati ausiliari”, un esercito di un centinaio di persone che in questi anni ha contribuito a smaltire i procedimenti di secondo grado. Ecco perché i presidenti di tutti gli appelli italiani hanno chiesto un aiuto a governo e ministero per bloccare la riforma e non perdere il treno del Pnrr. L’Europa aveva imposto all’Italia di ridurre del 90 per cento entro giugno 2026 il numero di cause civili pendenti alla fine del 2022. Un target che sta per essere realizzato ma che ora, dicono le statistiche del Csm, si allontanerebbe. O comunque costringerebbe i tribunali a registrare nuovi arretrati. E questo solo per una ragione politica. “Ci troviamo di fronte”, spiega uno dei membri laici del Consiglio, Ernesto Carbone, “non a un attacco al singolo magistrato ma a un colpo alla giurisdizione. Siamo in presenza di un disegno che porta solo a ledere la tenuta democratica del paese”. Ivrea (To). Atti di autolesionismo in carcere: 156 episodi, +50% rispetto al 2023 di Lorenzo Zaccagnini La Sentinella del Canavese, 18 novembre 2024 La consigliera regionale Ravinale (Avs) in visita nella struttura di corso Vercelli. Sono ben 156 gli episodi di autolesionismo registrati tra le mura del carcere di Ivrea nel corso dei primi 10 mesi del 2024. Circa uno ogni 2 giorni; un aumento di oltre il 50% rispetto ai 94 rilevati a dicembre dello scorso anno dall’associazione Antigone. È quanto evidenziato dalla consigliera regionale di Alleanza verdi sinistra (Avs) Alice Ravinale che, insieme alla collega Valentina Cera, ha visitato il carcere di Ivrea venerdì 8 novembre. Un indicatore grave di quanto sia critica la situazione all’interno della casa circondariale eporediese, ma non l’unico: circa 160 sono i provvedimenti disciplinari da inizio anno, 50 le proteste, con anche scioperi della fame o della sete, e 50 gli episodi di resistenza a pubblico ufficiale. Un problema la cui causa la consigliera fa risalire, tra le altre cose, anche a un ricorso troppo frequente a trattamenti psichiatrici. Un problema già saltato fuori altre volte quando si parla del carcere di Ivrea, ma comune alla maggioranza delle strutture detentive. “L’uso di psicofarmaci tra la popolazione carceraria è 5 volte maggiore rispetto alla media delle persone fuori - ha affermato Ravinale durante l’ultimo consiglio regionale, quando si è parlato delle condizioni della polizia penitenziaria -. L’utilizzo prescritto di psicofarmaci ha creato un’epidemia di dipendenza indotta nella popolazione carceraria; ci si chiede se per sedare dei disturbi o dei disturbanti. Da qui hanno avuto origine diverse rivolte, da parte di chi vuole farsi prescrivere il Rivotril o il Lyrica, farmaci prescritti con molta cautela perché ritenuti troppo forti e di cui invece in carcere si abusa. Tutto questo nell’annus horribilis dell’universo carcerario italiano, con un livello di sovraffollamento mai raggiunto dalla sentenza Torregiani e 87 persone morte suicide, di cui 7 agenti. Se miglioreranno le condizioni di detenzione, allora miglioreranno anche le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria”. Una criticità che si assomma alla perenne carenza di organico che affligge tutti i reparti, dagli agenti di sicurezza al personale medico ed educativo, finanche ai magistrati di sorveglianza. Questo forse l’aspetto più incisivo sulla condizione mentale dei detenuti, i quali spesso devono attendere tempi lunghissimi per vedersi accolte anche le richieste più semplici. Tempi che in carcere diventano un’eternità. “I comportamenti autolesivi sono un’espressione di malessere, causato soprattutto dal sovraffollamento e dalle difficoltà nei trasferimenti - commenta il garante dei detenuti di Ivrea Raffaele Orso Giacone -. Il problema è che a oggi molte strutture sono impraticabili. Infatti da poco vi sono stati diversi trasferimenti dalla Liguria verso il carcere di Ivrea. Questo crea un forte rallentamento e molto stress. Posso fare l’esempio di un detenuto che attende risposta a un trasferimento richiesto per stare più vicino alla famiglia da ormai 20 mesi”. “In carcere si sta sempre peggio - racconta Armando Michelizza, presidente dell’associazione dei volontari penitenziari Tino Beiletti -. Le richieste di aiuto di ogni tipo che intercettiamo non fanno che aumentare e ogni sera passa un carrello a distribuire enormi quantità di psicofarmaci. In carcere ci si fa male per essere ascoltati. Credo anzi che una parte dei suicidi siano casi finiti male di persone che tentavano di attirare l’attenzione. Oggi abbiamo 3 educatrici su una popolazione carceraria di 270 persone circa, le persone fanno di tutto per avere un colloquio”. Per cercare di dare risposta a tutti questi problemi, circa 25 Comuni canavesani hanno risposto al recente appello lanciato dalle associazioni che svolgono attività di volontariato in carcere, impegnandosi a trovare attività esterne volte al reinserimento dei detenuti. Previsto per questa settimana un primo incontro con il comune di Ivrea, per definire in che modo quest’ultimo possa fare da sostegno ai Comuni più piccoli in questo compito. Alessandria. Malato e a fine pena, dovrà scontare al Don Soria l’ultimo mese di carcere di Adelia Pantano La Stampa, 18 novembre 2024 L’avvocato di un detenuto valenzano racconta le vicissitudini dell’assistito, obbligato a tornare in cella nonostante continui ricoveri in ospedale. Finirà di scontare la sua pena a fine dicembre ma, nonostante i gravi problemi di salute, dovrà trascorrere le prossime settimane in carcere. È la vicenda di Alexander Ricci, detenuto di 48 anni di Valenza, su cui pende la decisione del giudice di Sorveglianza di Alessandria che contesta all’uomo diverse violazioni tali da non permettergli di usufruire ancora dei domiciliari. La condanna - Ricci sta scontando una condanna per diversi reati e ha la fine pena il 23 dicembre. Nell’ultimo anno ha però ricevuto diverse diffide da parte del magistrato. Tra queste, una riguardava l’essersi assentato dall’abitazione senza avvisare le forze dell’ordine, l’altra era relativa a una serie di minacce e offese rivolte tramite social a un parente. Motivi ritenuti gravi, che hanno portato a una sospensione dell’attuale misura di detenzione per il successivo spostamento in carcere. La malattia - Senonché, sono sopraggiunti problemi di salute che hanno portato Ricci a vari ricoveri in ospedale, anche dopo l’ordine di carcerazione. A evidenziare la situazione dell’uomo è il suo legale, l’avvocato Silvio Bolloli, che ha già presentato istanza contro il provvedimento di sospensione dei domiciliari, arrivato a un mese dalla fine della pena. “Non c’è contestualità tra le violazioni contestate e la richiesta di carcerazione - afferma Bolloli -. Nelle sue condizioni e con un quadro clinico compromesso, dovrebbe scontare i giorni di pena rimasti in una struttura terapeutica o anche a domicilio senza permesso d’uscita”. Il 3 dicembre è stata fissata l’udienza al Tribunale di Sorveglianza di Torino. “Confidiamo nel buon esito della decisione dei giudici - chiosa Bolloli -. Passeranno altri giorni in cui il mio assistito resterà in carcere a meno che non ci siano ulteriori aggravamenti dello stato di salute”. Chiavari (Ge). Visite mediche con il visore: così il carcere sarà più umano di Alessandro Ponte Il Secolo XIX, 18 novembre 2024 L’iniziativa sarà presentata nei prossimi giorni al Forum Sistema Salute di Firenze. Allontanare, seppur virtualmente, un detenuto dal carcere. Portarlo nel metaverso e lì, nella realtà ricostruita con l’intelligenza artificiale, permettere alla persona di incontrare i medici. Di essere visitata, consigliata e ascoltata. Sarà presentata nei prossimi giorni al Forum Sistema Salute di Firenze la nuova iniziativa di Asl4 insieme al ministero di Giustizia e al carcere di Chiavari che rivoluzionerà le visite e le consulenze sanitarie in telemedicina. “Un carcere è pur sempre un carcere. Trovare il modo, anche virtualmente, di far sentire un detenuto, che nella circostanza è un paziente, in un ambiente più confortevole dove possa sentirsi a suo agio è importante - sottolinea il direttore generale dell’Asl4, Paolo Petralia - All’estero, dove questo modo di interagire con i detenuti è stato già testato, sono state ottenute risposte importanti anche per la cura dei casi di depressione. Il paziente è più tranquillo nel parlare con i medici, si confida di più. E permette un miglior approccio”. Di fatto si tratta di una evoluzione della telemedicina. E non è la prima volta che Asl4 si rivolge al mondo dell’Ia e del metaverso tra l’altro, in tempo di ristrettezze, a costo zero. Perché l’unico strumento necessario, oltre alla connessione internet che collega in linea diretta l’azienda sanitaria e il carcere chiavarese da tempo, due visori di realtà virtuale (come quelli utilizzati da piattaforme di gioco). “Nel metaverso è stato ricostruito l’ambiente dell’infermeria del carcere - spiegano ancora dai vertici di Asl4 che hanno messo a punto il progetto insieme al dottor Elio Menicocci, responsabile della medicina in carcere a Chiavari - Ma è stato migliorato, reso più vivibile, meno freddo. E durante l’incontro nel metaverso, al paziente così come al dottore, sarà possibile interagire direttamente. Si tratta di un approccio che consente di elevare gli standard sanitarie di sicurezza contenendo i costi”. Il progetto, che sarà lanciato nei prossimi giorni, sarà testato per le specialità di psichiatria e fisiatria. Non è un caso. All’estero, dove i visori sono utilizzati da tempo, i sanitari hanno avuto ottime risposte anche nel prevenire casi di suicidio in detenzione, una piaga che sta affliggendo anche gli istituti italiani e di cui, il carcere di Chiavari, non è rimasto esente. Poco più di un anno fa, un detenuto modello di 39 anni, appassionato di canto e che avrebbe finito di scontare la sua pena fino a inizio anno prossimo, si è tolto la vita. “L’utilizzo del metaverso e dei visori è un grande passo avanti anche sul fronte del diritto alla salute in ambiente detentivo”, hanno sottolineato ancora da Asl4. Sono tre gli istituti penitenziari italiani in cui verrà lanciato il progetto. Come a Chiavari, i visori saranno utilizzati anche nel carcere di Nuoro e, in parte, in quello di Cagliari. Nel dettaglio, gli ambienti in cui si troveranno ad interagire medico e paziente a Chiavari, sono stati ricreati nel metaverso con l’intelligenza artificiale da una infermiera di Asl4, grande appassionata dell’argomento: Francesca Ducato. “Lei ha studiato gli spazi da ricreare nel metaverso - spiegano dalla Asl 4 - poi lo ha ricreato ricostruendolo digitalmente. Il paziente sarà sì nell’infermeria del carcere, ma lo spazio in cui interagirà con il nostro medico sarà totalmente nuovo, capace di mettere maggiormente la persona al centro e a proprio agio”. Non è la prima volta, dicevamo, che Asl4 si rivolge alle nuove tecnologie. Già in occasione della realizzazione dei progetti per il nuovo pronto soccorso di Lavagna e delle case di comunità che nasceranno sul territorio, l’azienda sanitaria chiavarese, in collaborazione con Microsoft, aveva studiato gli spazi delle nuove strutture ricreandole appositamente nel metaverso. “In questo spazio virtuale è stato possibile studiare gli spazi come li abbiamo concepiti e metterli alla prova, per capire la loro utilità in anticipo, prima che vengano realizzati dei cambiamenti. Il rodaggio delle strutture, non sarà più effettuato una volta costruito l’edificio. Ma prima. E potrà confrontarsi con le altre strutture all’avanguardia del Paese”. Ma il futuro della telemedicina di Asl4 è cominciato addirittura due anni fa. Quando l’azienda sanitaria chiavarese, insieme a Microsoft, ha aperto i propri orizzonti all’intelligenza artificiale. Il progetto è stato lanciato per i pazienti polipatologici, ossia che soffrono di più patologie e che seguono, di conseguenza, più terapie. “Abbiamo raccolto le cartelle cliniche dei pazienti polipatologici in cura nelle nostre strutture, abbiamo così analizzato tutti i dati storici del paziente con l’IA. Questa ha restituito un’analisi enorme e approfondita, in grado di predire l’evoluzione e il miglior metodo di intervento su ogni paziente”. Questo influisce su tutto il resto: sulla richiesta di esami, sulle terapie da seguire e quali parametri monitorare costantemente e potrà anche aiutare a colmare in parte l’assenza di personale oltre a ridurre le liste d’attesa. Napoli. “Un chicco di speranza”, diploma di barista a 10 detenuti del carcere di Secondigliano di Elena Scarici Corriere del Mezzogiorno, 18 novembre 2024 Dieci detenuti del carcere di Secondigliano in attesa di libertà riceveranno questa mattina il diploma di barista professionista grazie al progetto “Un chicco di speranza”, promosso dall’azienda Kimbo in collaborazione con la diocesi partenopea. A ricevere il titolo dalle mani di Giulia Russo, direttrice della casa circondariale di Secondigliano, e di Mario Rubino, presidente di Kimbo, saranno Enzo, Davide, Raffaele, Roberto, Giuseppe, Antonio, Ciro, Francesco, Felice, Salvatore... napoletani, casertani e salernitani, di età comprese tra i 27 e i 63 anni, che hanno seguito i corsi di formazione con i docenti “caffesperti” formatori. Il conseguimento del diploma da parte dei 10 detenuti rappresenta la conclusione del primo ciclo di attività previsto dal progetto. I dieci detenuti hanno svolto, nell’arco di due mesi, un’attività di training funzionale alla formazione professionale di barista quale opportunità di reinserimento sociale e lavorativo che li ha visti studiare tra i banchi del Kimbo Training Center, dove gli esperti di caffè, hanno condiviso le loro esperienze e i loro piccoli “segreti”. Strutturato in due aree didattiche - un’area tecnica con dieci postazioni altamente professionali ed un’area teorica per l’alta formazione con cinquanta posti a sedere e con i necessari servizi audiovisivi - il Training Center è dotato anche di un vero e proprio bar dedicato alle diverse metodologie di estrazione del caffè, esperienza preziosa per i detenuti che hanno potuto fare pratica con le varie miscele. Il cappellano Giovanni Russo si è adoperato per stimolare l’interesse dei detenuti nei confronti del progetto, accompagnando e sostenendo moralmente i destinatari nello sviluppo di una dimensione personale positiva rispetto alla scelta professionale, nella prospettiva di costruzione di un nuovo progetto di vita. “Un Chicco di Speranza” proseguirà nel 2025 per sviluppare i due successivi segmenti del progetto: saranno allestiti all’interno dell’istituto penitenziario, in aule già individuate, un laboratorio ed un magazzino per la riparazione e la rigenerazione delle macchine bar di proprietà di Kimbo da utilizzare nel settore Ho.Re.Ca.; a questa attività saranno destinati sei detenuti in regime di art. 20 ter o 21, nonché beneficiari della misura alternativa della semi-libertà, che saranno preventivamente formati attraverso un corso tenuto nelle aule della casa circondariale da personale altamente specializzato. Infine con il coinvolgimento della Facoltà di Agraria della “Federico II”, sarà sperimentata la coltivazione di una piccola piantagione di caffè in un percorso di sostenibilità, sfruttando le potenzialità organolettiche di un appezzamento di terreno, dell’estensione di 10.000 mq, ubicato nel perimetro dell’istituto penitenziario. Firenze. Spazio Reale assume detenuto di Sollicciano: “Tutti meritano una seconda possibilità” di Andrea Guida firenzetoday.it, 18 novembre 2024 Ricostruirsi una vita dopo il carcere. È la missione a cui puntano Spazio Reale e un ragazzo marocchino di 24 anni detenuto di Sollicciano. Ad Alaa mancano ancora nove mesi per scontare la sua pena, ma da quest’estate ha cominciato a ricostruirsi una vita nel polo d’integrazione multiculturale dell’area fiorentina, che lo ha assunto per sei mesi con l’obiettivo di allungare il rapporto lavorativo. L’iniziativa è il risultato di un percorso cominciato circa un anno fa tra la direzione dello spazio campigiano e l’associazione Seconda Chance che si occupa di inserimento lavorativo di persone detenute. Spazio Reale, peraltro, ha costituito il centro logistico dei soccorsi e degli aiuti durante l’alluvione che ha colpito un anno fa la Piana Fiorentina, ospitando per oltre 15 giorni nei propri spazi circa 500 persone, tra sfollati e volontari. “L’associazione Seconda Chance si occupa proprio di questo, far incontrare detenuti ed ex detenuti con le aziende per creare delle opportunità per queste persone - spiega Stefano Ciappelli, presidente di Spazio Reale Group -. Spazio Reale nasce proprio con questo obiettivo, ovvero l’idea di essere inclusivi”. Alaa è stato assunto con un regolare contratto di lavoro e attualmente si occupa della manutenzione degli impianti sportivi e della palestra. Per lui si tratta non solo di una prima presa di contatto con un lavoro vero, ma soprattutto di una seria seconda possibilità per la costruzione di un futuro che rischiava di essere compromesso anche una volta scontata la condanna. Basti pensare infatti che sei condannati su dieci sono già stati in carcere almeno una volta, ma per i detenuti che hanno avuto una possibilità di inserimento lavorativo la percentuale di rischio di recidiva scende al 2%. “Alaa ci ha fatto subito una bella impressione e comprende quella che è la sua situazione. È arrivato in Italia che aveva solo 14 anni. Il nostro paese doveva essere di transito, perché doveva raggiungere il padre all’estero, invece è rimasto invischiato in realtà che di certo non favorivano per un minore non accompagnato buoni modelli di riferimento. Ha avuto un buon percorso in carcere ed è ben conscio di quella che è la sua realtà, sa che questa è un’occasione che non può perdere”. Andare contro i pregiudizi è la sfida più difficile per Spazio Reale, ma Stefano Ciappelli spera che il loro esempio possa essere replicato anche da altre aziende. “Se succedesse qualcosa di brutto purtroppo gli occhi ricadrebbero subito di lui. Per questo gli abbiamo detto di stare attento e di collaborare affinché tutto vada per il meglio. Però dobbiamo dare fiducia a queste persone. Se nessuno comincia rimarranno sempre delle barriere, e noi vogliamo abbatterle. Dare una seconda opportunità ad Alaa, e magari ad altri dopo di lui, rende tangibile la nostra idea di inclusione.” Milano. Castellano: “In Italia manca una cultura sul carcere che non sia preda delle emozioni” varesenews.it, 18 novembre 2024 L’ex direttrice del carcere di Bollate che trasformò in un istituto modello ha riflettuto insieme a don David Maria Riboldi sulla situazione italiana: “Basterebbe applicare le leggi che ci sono per migliorare la situazione”. “In Italia manca una cultura del carcere che non sia preda delle emozioni”. Lucia Castellano, già direttrice del carcere di Bollate e attualmente provveditrice dell’amministrazione penitenziaria della Campania, è intervenuta venerdì sera all’osteria del buon essere La Tela di Rescaldina (bene confiscato alla ‘ndrangheta) in occasione della serata dedicata al tema carcere nell’ambito della settimana della legalità che si conclude stasera con una cena dedicata ai prodotti delle terre confiscate alla mafia. Insieme a don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio e anima della cooperativa La Valle di Ezechiele, ha dialogato su un tema preda di un dibattito polarizzato che paralizza qualsiasi tipo di azione volta a migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Lucia Castellano è considerata tra i dirigenti più illuminati in Italia grazie all’esperienza di Bollate che ha fatto diventare un carcere modello: “Sono stati anni in cui si è potuto aprire il carcere alla città e questo ha portato importanti benefici che si sono riversati poi nella società grazie ad un abbassamento del tasso di recidiva da parte degli ospiti, una volta scontata la loro pena. È bastato cercare di far rispettare la Costituzione e mirare alla rieducazione del detenuto”. Durante la serata, alla quale hanno preso parte in collegamento anche le responsabili di due cooperative (Le Lazzarelle di Pozzuoli e la Banda Biscotti di Verbania) che hanno raccontato i grandi risultati ottenuti grazie all’incessante e prezioso lavoro portato avanti negli anni coi detenuti e le detenute che hanno avuto la possibilità di lavorare in queste realtà. Don David, ormai personaggio noto in tutta la provincia di Varese e oltre per il suo impegno, ha raccontato del modello portato avanti in questi anni ma anche della difficile situazione che si sta vivendo all’interno dell’istituto penitenziario bustese dove sono recluse 440 persone in una struttura che ne dovrebbe contare 240: “C’è una frustrazione enorme perchè, semplicemente, non si riescono ad ottenere le risposte. I quattro operatori che lavorano nella struttura non riescono a far fronte alla mole di domandine che vengono presentate. A questo si aggiunge l’insofferenza per il pochissimo spazio disponibile”. Diversi gli episodi in cui questa rabbia è sfociata in violenza con conseguenze sia per i detenuti che per gli agenti della Penitenziaria e per gli operatori stessi: “Una situazione che si trascina da ben prima di questo governo ma che questo governo cavalca in modo strumentale. Basta andare a sentire le dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia Delmastro all’inaugurazione di un nuovo mezzo per il trasporto dei detenuti della Penitenziaria”. Proprio venerdì, infatti, il politico di Fratelli d’Italia già finito in vari scandali tra pistolettate alla festa di Capodanno e dossier secretati passati ai colleghi, aveva dichiarato di aver provato “intima gioia nel togliere il respiro ai detenuti che verranno trasportati”. Lucia Castellano si è tenuta a distanza dalla polemica politica e ha provato a far riflettere la platea: “In Italia abbiamo le leggi ma non le applichiamo. Lo abbiamo fatto solamente durante il covid, quando si rischiava davvero che il virus potesse creare grossi problemi in una situazione di sovraffollamento. Abbiamo oltre 61 mila detenuto a fronte di poco più di 47 mila posti in carcere (130% di riempimento). Se applicassimo l’attuale normativa si potrebbe far uscire dagli istituti circa 5 mila persone con le misure alternative e con la liberazione anticipata”. Don David ha ricordato che anche il Papa è tornato a chiedere, per l’anno giubilare, una forma di indulto o amnistia, “cosa che non accade dal 2006” ha ricordato il religioso che poi ha spiegato come, grazie alla sua cooperativa, “abbiamo dato lavoro a 30 persone e solo uno è tornato in carcere per aver commesso altri reati”, una percentuale che è molto simile in tutte le realtà che riescono a “organizzarsi fuori dal carcere per aiutare nel reinserimento sociale attraverso il lavoro. Sono realtà che devono essere riconosciute e devono stare sul mercato per dare un senso vero al lavoro dei detenuti” - ha concluso Lucia Castellano al termine dell’incontro. Colletta alimentare, 8mila tonnellate da 5 milioni di donatori (compresi i detenuti di 40 carceri) di Paolo Foschini Corriere della Sera, 18 novembre 2024 Cinque milioni di donatori e donatrici, quasi ottomila tonnellate di cibo da destinare a persone in difficoltà e raccolto in 12mila supermercati grazie all’aiuto di 155mila volontari. Sono solo alcune delle cifre che riassumono la 28esima Giornata nazionale della colletta alimentare svoltasi sabato 16 novembre, con l’alto patronato del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che vi ha contribuito a sua volta con una donazione di beni alimentari, un gesto che testimonia la sua vicinanza a chi è in difficoltà. La Colletta Alimentare, che da 28 anni si ripete senza interruzioni, è una vera e propria festa del dono, dove ogni contributo, piccolo o grande, diventa segno di una solidarietà concreta che unisce le persone e rafforza il senso di comunità. L’iniziativa è stata anche il gesto con il quale la Fondazione Banco Alimentare aderisce alla odierna Giornata Mondiale dei Poveri, seguendo il messaggio di Papa Francesco che invita ad aprire il cuore e le mani per accogliere e condividere, riconoscendo nei più fragili un bisogno che interpella ciascuno di noi. Nel corso della giornata i supermercati e i centri di raccolta e stoccaggio si sono trasformati in luoghi di speranza e condivisione animati da migliaia di volontari: tra questi tantissimi giovani e studenti di ogni età, che hanno vissuto un’esperienza preziosa per crescere come cittadini responsabili, capaci di fare la differenza per il bene comune. Tra i tanti donatori anche i detenuti di 40 Istituti Penitenziari, a testimonianza che nessuno è troppo povero per non poter donare o troppo ricco per non aver bisogno di ricevere: un gesto di condivisione è sempre possibile. I prodotti donati saranno distribuiti nelle prossime settimane alle 7.632 organizzazioni partner territoriali, tra mense per i poveri, case-famiglia, comunità per i minori e centri d’ascolto, raggiungendo così 1,8 milioni di persone in difficoltà. La Colletta Alimentare continua online fino al 10 dicembre su alcune piattaforme dedicate: per conoscere le modalità di acquisto dei prodotti è possibile consultare il sito colletta.bancoalimentare.it. La Colletta Alimentare è stata resa possibile anche grazie alla collaborazione di Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli OdV, Cdo Opere Sociali, Esercito, Aeronautica Militare, Associazione Nazionale Alpini, Associazione Nazionale Bersaglieri, Lions Club International. Contrastare la violenza sulle donne significa agire su più livelli. Ma dal governo tutto tace di Stefania Ascari* Il Fatto Quotidiano, 18 novembre 2024 È trascorso un anno dalla tragica morte di Giulia Cecchettin, un femminicidio che ha scosso profondamente l’opinione pubblica, innescando una rabbia collettiva e una forte richiesta di cambiamento sociale, soprattutto sul piano culturale. Tuttavia, da allora, la violenza maschile sulle donne non ha accennato a fermarsi e altre 96 donne sono state uccise da uomini. Poche settimane fa, a Piacenza, Aurora, di appena 13 anni, è morta precipitando dal terrazzo di un palazzo. Secondo le accuse, la giovane sarebbe stata spinta dal suo fidanzato, un ragazzo di 15 anni, già noto per comportamenti violenti. Questo episodio segna l’ennesima tragica testimonianza di una violenza che coinvolge sempre di più anche i giovanissimi, sia come vittime che come carnefici. Il 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, si attende poi la sentenza sul caso di Giulia Tramontano, uccisa insieme al figlio che portava in grembo, Thiago. Questo processo, che ha attirato l’attenzione dei media, è emblematico della necessità di una riflessione collettiva su come affrontare il fenomeno criminale e strutturale della violenza sulle donne, che non è solo una questione femminile, ma che riguarda l’intera società, e che necessita di una risposta che coinvolga tutti i contesti -familiare, scolastico, lavorativo e sociale - affinché diventi un impegno costante e collettivo in termini di prevenzione e azioni concrete. Oltre al drammatico aumento dei femminicidi, si registra anche una crescita preoccupante degli episodi di violenza sessuale, spesso perpetrata anche tra minorenni. A ciò si aggiunge, nel 2024, un incremento altrettanto allarmante dei crimini online, come l’estorsione sessuale (circa 1.200 casi), il revenge porn e lo stalking, fenomeni che contribuiscono a una cultura della violenza diffusa in tutti gli ambiti della vita quotidiana. Nonostante il lavoro instancabile delle associazioni antiviolenza, molte donne continuano a non denunciare, per paura di non essere credute o di perdere i propri figli. E, mentre la società civile chiede a gran voce interventi concreti, il governo Meloni non ha ancora adottato misure sufficienti ed efficaci per contrastare la violenza di genere, che non è soltanto fisica, ma anche verbale, psicologica, economica, digitale. È giunto il momento di un cambiamento profondo, che parta dall’educazione e dalla prevenzione e che coinvolga innanzitutto gli uomini. Non si deve parlare di misure che limitano la libertà delle donne, come se fosse loro responsabilità evitare l’aggressione. Non dobbiamo insegnare alle donne a difendersi, ma impedire agli uomini di agire in modo violento. L’Italia, purtroppo, è ancora uno dei pochi Paesi dell’Unione Europea dove l’educazione affettiva e sessuale non è obbligatoria nelle scuole. In commissione Cultura giace da tempo una mia proposta di legge per l’introduzione di percorsi di educazione affettiva e sessuale nelle scuole, fin dalle prime classi, per garantire che le future generazioni crescano con una visione di rispetto reciproco e capacità di gestire le emozioni e di costruire relazioni sane. Le vittime di violenza poi non vanno abbandonate ma sostenute anche economicamente, perché l’indipendenza economica è una via per la libertà, perciò ho depositato alla Camera altre due proposte di legge: una per l’inserimento delle donne vittime di violenza nelle categorie protette al fine del collocamento obbligatorio al lavoro e un’altra per l’estensione della durata del congedo per le vittime. Necessario poi introdurre il salario minimo, riformare il sistema degli affidi dei minori, modificare la legge n. 54 del 2006 in tema di bigenitorialità “a tutti i costi” e favorire la parità di genere in tutti gli ambiti. Affrontare la violenza contro le donne significa agire su più livelli. Un intervento legislativo isolato non basta. È necessario un approccio che coinvolga più ambiti: dal piano penale a quello culturale ed economico. Ma dal nostro governo tutto tace e intanto, ogni tre giorni, una nuova vittima si aggiunge e quel “mai più” urlato nelle piazze dopo la morte di Giulia Cecchettin, restando una promessa non mantenuta. *Avvocata e deputata Braithwaite: “Istruzione, lavoro e assistenza sanitaria, così gli esseri umani diventano buoni” di Francesco Rigatelli La Stampa, 18 novembre 2024 Il criminologo Premio Balzan: “Non esistono soluzioni miracolose, la democrazia incoraggia gli individui”. Il criminologo John Braithwaite, 72 anni, docente all’Australian natonal university di Canberra ed esperto di giustizia riparativa, riceverà giovedì al Quirinale a Roma uno dei quattro Premi Balzan da 700mila euro l’uno, da investire in progetti con giovani ricercatori. Cosa le ha insegnato la criminologia in tutti questi anni? “Non esiste una soluzione miracolosa per prevenire la criminalità. Se vogliamo una società onesta c’è una lunga lista di cose che dobbiamo fare meglio: un’istruzione di qualità, un mondo del lavoro inclusivo, un’assistenza sanitaria adeguata, compreso l’aiuto alle tossicodipendenze, e molto altro”. E cosa ha capito della natura umana attraverso la criminologia? “Abbiamo tutti un sé irresponsabile e indifferente, e un sé consapevole e premuroso. Una buona democrazia incoraggia gli individui a dare il meglio”. Ma l’essere umano di natura è buono oppure l’occasione lo rende ladro o violento? “Credo ci sia del vero in entrambe le affermazioni, ma si ottengono risultati migliori trattando gli altri come persone essenzialmente buone, anche se a volte commettono un terribile errore”. È possibile prevenire crimini e conflitti? “La criminologia moderna se ne occupa molto, ad esempio suggerendo come ridurre le occasioni di criminalità o come rendere gli obiettivi più sicuri: complicare ai ladri il rubare una macchina o rapinare una banca è semplice ed efficace”. Con le carceri sovraffollate è ancora possibile credere alla funzione rieducativa della pena? “Non penso che le carceri possano essere abolite del tutto, ma il 90% dei prigionieri potrebbe essere collocato altrove, in luoghi dove le opportunità di riscatto siano maggiori”. Perché in alcuni stati esiste ancora la pena di morte? “I politici preferiscono il populismo alla scienza dei dati. Statisticamente la pena di morte non riduce i crimini e quando vengono commessi errori di giudizio non c’è modo di riparare il danno subito da una persona giustiziata”. Come si può affrontare il problema che i poveri, in particolare immigrati, commettono più crimini peggiorando la loro reputazione sociale? “Lavorando a una società che riesca a ridurre povertà ed emarginazione”. Negli ultimi conflitti in Ucraina e Israele abbiamo assistito a crimini terribili da entrambe le parti, come vanno considerati? “In entrambi i casi la priorità immediata per imparare dagli insensati fallimenti di tutte le parti nel prevenire la guerra è un cessate il fuoco con un processo di pace in cui ciascuno ascolti le lamentele dell’altro. Per il conflitto tra Israele e Palestina bisogna provare un’ultima volta la soluzione del processo di pace a due stati e, se fallisse, a uno stato unico”. La sua specializzazione è la giustizia riparativa, di cosa si tratta e come si applica in questi casi? “Si tratta di un processo in cui le parti interessate in un crimine o in un conflitto possono sedersi in cerchio per discutere chi è stato danneggiato e come riparare soddisfacendo le esigenze di tutti. Questo principio è applicabile al miglioramento dell’istruzione, delle famiglie, della protezione dei bambini, delle conseguenze della criminalità e della guerra”. E nel caso disperato del rapporto tra israeliani e palestinesi vede una vera via d’uscita? “Molto difficile, non impossibile”. La giustizia riparativa si applica anche al cambiamento climatico? “Se si verifica un crimine climatico si può invitare l’azienda coinvolta a fare un’offerta ai danneggiati, a lavorare per prevenire futuri danni e magari a piantare degli alberi come compensazione”. Lei ha scritto, tra gli altri, un libro sulle regole del capitalismo. Oggi in molti pensano a modelli economici più collaborativi, che ne pensa? “Il capitalismo ha vizi e virtù. Forse servirebbe un ibrido tra di esso, un welfare state aggiornato e una grande dose di società civile, famiglie e luoghi di lavoro premurosi ed educativi”. In generale, il diritto sta vivendo un momento di crisi come molte istituzioni? “Un momento di critica, forse più che di crisi. Non vedo una difficoltà delle istituzioni giuridiche maggiore di quella della generazione dei nostri genitori o nonni. Tutti credono che il tempo dei propri figli sia più fuori controllo del loro, ma di solito è una convinzione sbagliata”. Come considera la presidenza Trump a questo proposito? “Un cattivo esempio di scarsa aderenza allo stato di diritto per i giovani”. Lei ha studiato molto anche la situazione cinese, vede qualche segnale diverso a Oriente? “In Cina regna un crescente autoritarismo, ma il sistema industriale sta funzionando meglio di quello occidentale nello sviluppo di tecnologie verdi”. Che ruolo potrebbe svolgere l’Onu nel limitare i conflitti? “Il mantenimento della pace da parte dell’Onu è spesso inefficace o controproducente, ma statisticamente riduce la durata e l’inizio delle guerre. Lo stesso vale per i processi sponsorizzati dall’Onu che portano a un accordo pacifico. Detto questo, si tratta di un’organizzazione che va molto criticata e riformata, ad esempio nel Consiglio di sicurezza e nel modo in cui le grandi potenze abusano del potere di veto”. Per quali ricerche utilizzerà i fondi straordinari del Premio Balzan? “Sosterrò giovani studiosi in venti paesi africani per lavorare sulla giustizia riparativa e sulla costruzione della pace. Ora per esempio in Etiopia sto costruendo dei gruppi riparativi delle tradizioni indigene per prevenire il ripetersi di guerre come quella avvenuta nella regione del Tigrè nel 2020-’22”. Serve una rivolta culturale per curare la malattia della guerra di Maurizio Maggiani La Stampa, 18 novembre 2024 La Costituzione sancisce che nel ripudio del conflitto c’è un giudizio definitivo. Un concetto che ministro e capo di stato maggiore della Difesa mettono in discussione. Una domenica all’inizio del mese verso sera ho incontrato una lepre. Se dico che l’ho vista, mezzo cieco come sono, è perché ha voluto proprio farsi vedere. Se ne stava sul ciglio del fosso alla vigna di Paolo, poco discosto dalla grande quercia che il figlio ha disegnato sulle etichette del suo vino. Se ne stava lì, posata eretta sulle zampe di dietro, quelle sue orecchione dritte e tese neanche volesse da dov’era auscultarmi il battito del cuore. Prima di guizzare nel fosso e sparire nei meandri del suo universo, nella quinta dimensione dove ai leprotti è consentito di governare le sfere celesti, è passato un po’ di tempo. Tempo del mio universo, tempo bastante a farmi domande umane del tipo: cosa c’è di più bello, ora, di questa lepre in ascolto di un cuore alieno in questa vigna autunnale appena dorata dal sole calante, e di quest’uomo che ascolta la lepre ascoltarlo a un passo dal fosso che segna un confine benignamente pattuito tra un vignaiolo e il resto del mondo? Cosa c’è di più struggente, ora, al mondo, di quelle lunghe orecchie che vorrei poter anche solo sfiorare, per sentire quanto sono calde, e vibranti di accondiscendente attesa di vita? Ora che i cacciatori se ne sono tornati a casa con le cartuccere vuote, la bisaccia gonfia delle sue consorelle, pum pam per tutta la mattina nei campi qui attorno. Una carneficina, eppure lei è salva, almeno fino a domenica prossima, e io con lei almeno fino domani, che di più non ha senso sperare. Io e lei, salvi. Anch’io ho avuto i cacciatori alle calcagna, pum pam senza giorno stabilito, senza orario, dal giornale radio del primo mattino alla prima occhiata notturna ai quotidiani dell’indomani. Ma mi basta spegnere la radio, chiudere il giornale, accortamente selezionare le chiamate in arrivo, e posso con calma spuntare via dalla mia carne pallettoni e mitraglia, e infine nella mia casa sono al sicuro. I due gelsi gemelli nel giardino si prendono cura del mio umore, questo giornale prende le mie parole e le semina per mare e per monti, domani dovrò cucinare alla svelta una pasta e comprerò non dico del caviale ma della non certo economica bottarga, aspetto da Amazon un nuovo e splendido gingillo per ascoltare la musica come mai non è stata udita prima da orecchio umano, nel frattempo mi sono attrezzato di apparecchiature idonee a tollerare la torrida estate prossima ventura, ieri era notte di luna buona, la sua luce lambiva un inconscio sorriso sulla bocca della mia sposa addormentata e in quel sorriso c’era così tanta dolcezza da farmi ancora una volta innamorare. Salvo, nonostante tutto sono salvo, posso spingermi con fiducia per tutta la campagna qui attorno, per Borgo Tulipano salutare della gran brava gente, persino i cacciatori di lepri in fondo non sono che vecchi, bonari sbevazzoni che segnano un colpo su dieci, perdono i cani che se ne vanno a giocherellare con le capre di Giorgio, e ho la ragionevole certezza che gli altri, quelli cattivi, qui arriveranno un po’ dopo che da ogni altra parte, e intanto chi mi ammazza a me? Eppure mi sto ammalando. E ho chiesto al mio medico e lei dice che la sua scienza non arriva a curare il mio male. Ho preso a patire di una nausea perenne, un continuo e straziante stimolo di rigetto, costante da mattino a notte e oltre, salvo qualche momento di sonno profondo verso mattino, quando sogno che la nausea mi è passata. Mi curo con pastiglie e sono scrupoloso con la mia dieta, faccio attività fisica e tutto il resto, e anche se il medico stenta a crederlo, è piombo, sono i pallettoni ficcati nelle mie interiora, laggiù dove nessuna pinza può togliere, nessuna cura sciogliere. Guardate che non vi sto rifilando una metafora, non sto parlando di nobile disgusto per l’andazzo delle cose del mondo, il disgusto è storia passata, ora la nausea è una reazione pratica, affatto fisica, e alle leggi della fisica risponde, è come il troppo pieno dello sciacquone del wc che ha smesso di funzionare. E io sono troppo pieno, pieno di mitraglia fin dentro l’anima, e finché c’era il disgusto la valvola funzionava, bastava anche solo andarmene per i campi a incontrare una lepre superstite e dirmi, ecco anch’io lo sono; ma ora la valvola è rotta e la pressione aumenta e spinge dalle budella in su e finirà che scoppierò e mi troverò in mezzo a un lago di vomito grigio di piombo. Questa è la mia malattia, e anche se il medico stenta a crederlo, e annuisce intanto che compila una ricetta per un potente ansiolitico, io ne conosco l’origine, l’infezione. Il fatto è che io credo, io sono un credente abitato da una fede adulta e dunque estrema e irrevocabile, non ho più i mezzi intellettuali e neppure la forza fisica per convertirmi a una nuova. Il mio credo è un’idea e se l’idea appartenesse al trascendente dall’oggi sarebbe un ideale, la mia fede è così estrema che sì, la posso ben chiamare ideale, posso pensarla l’avvenire. E posso chiamare questo mio credo democrazia universale, pace perpetua nella giustizia e nella dignità, accettazione della responsabilità dell’umano verso il proprio destino e il destino di ogni essere. L’avvenire; il futuro non è niente, forse è una fantasia, di certo un’illazione, ma l’avvenire è ciò che è a venire, che accadrà per intenzione che già oggi è materia per domani, pensiero e azione, il lavoro dell’idealista. E eccolo lì davanti ai miei occhi il mio ideale incatenato in una sorta di sinedrio in mondovisione e senza orario, sotto giudizio per bestemmia, sputo dopo sputo, frustata dopo frustata, spina dopo spina, ingiuria dopo ingiuria, infamia dopo infamia, scherno dopo scherno, abominio dopo abominio. Piombo conficcato nella mia anima, giorno per giorno ogni istante di veglia. Io credo, credo ad esempio, e nel farlo so che ne sacrifico altri cento, nel candore della verità iscritta nella carta costituzionale del mio Paese e ho fede nell’ideale che incarna. Ho fede che i padri e le madri che l’hanno dettata abbiano scelto con attenzione e dedizione parola per parola; per questo so che si potevano scegliere altre parole ed è stata preferita la più drastica, ripudio; il ripudio della guerra è un giudizio definitivo, non declinabile, e universale perché condiviso da tutti i paesi reduci da quella che decisero essere l’ultima guerra. E la guerra è ora declamata dai giudici del sinedrio come la condizione ovvia e naturale della condizione umana, promotrice di sviluppo economico e culturale, unica fonte di sicurezza. E proprio qui, in questo mio Paese, senza un filo di pudore il capo di stato maggiore della difesa ha declamato che “la sicurezza è come l’aria, ci si accorge che manca solo quando non c’è”, stuprando senza ritegno una ben nota frase del padre del ripudio costituzionale Piero Calamandrei, nel suo discorso non c’era la parola sicurezza ma la parola libertà. Ha chiarito il concetto il ministro della difesa Crosetto, conficcando la sua daga nel cuore del ripudio, “Il villaggio Difesa serve a costruire una cultura della difesa. Le forze armate sono il nostro principale presidio di libertà e democrazia. Il presupposto della pace sono la forza e la deterrenza”. La Costituzione sancisce che il presupposto della pace è nella convivenza pacifica, nell’universale promozione dei diritti individuali e sociali. In Val Sesia, su un muro accosto alla strada è ben leggibile il famoso motto di Benito Mussolini, “noi non vogliamo la guerra ma non la temiamo”, è questa la fede che informa ministro e comandante. Proprio qui a un passo da casa mia. Intanto nell’altrove che pur sempre dovrebbe essere casa mia, niente pone limite al massacro e al sopruso, allo spregio del diritto e alla sete di vendetta, all’ovvietà, alla naturalezza del potere che li esercita. E quando sento “ripreso il lavoro diplomatico per arrivare a un cessate il fuoco”, mi induce a un conato di vomito la sfacciataggine dell’ipocrisia, della cinica menzogna che gli soggiace. Intanto il popolo d’America, defraudato del sogno che pure gli era stato venduto per generazioni come l’unica moneta buona per pagarsi un avvenire, un popolo che non dispone neppure della certezza di arrivare a sera sano e salvo, un popolo che non ha più che degli incubi in cui annegare la miseria di corpo e anima, si è risolto all’estremo, a una straordinaria colletta di voti elettorali per assoldare il killer che ha giustiziato il sistema che ha tradito il suo mandato e dissolto il sogno, e se lo ritrova ora il killer come padrone. Padrone dico, perché il proprietario è un altro, l’uomo più ricco del mondo che intende essere anche il più potente, anche lui un idealista, e il suo credo si fonda su un impellente imperativo, seppellire per l’eterno a venire il mio credo. Voglio bene a quel popolo, ma ne può volere lui a me, che non ho che da offrire un’ideale, inservibile per nutrirsi oggi e salvarsi dai debiti prima di sera? E quanti abitatori di questo mio Paese possono permettersi il lusso di dedicare qualche energia al pensiero di un avvenire? L’avvenire è un privilegio di pochi, aggiunge un’ulteriore divisione in classi tra chi se lo può coltivare e chi no, tra me e l’operaia in cassa integrazione che in questo momento sta facendo la fila alla Cucina del Sorriso. So chi è, so dei suoi figli, so del suo tormento per loro, so della sua fatica disumana per non seppellirsi nella disperazione e so che nella sua casa non c’è modo di sentirsi salvi, ma non so del suo ideale, se ce l’ha, se lo coltiva o se le è morto nel cuore. Non lo so perché non glielo ho mai chiesto, e non l’ho fatto per vergogna. Che me ne faccio io del mio ideale se non lo spartisco, se non ne faccio lo strumento per essere parte, per fare la mia parte e onorarlo nell’azione? Forse la nausea ha un’altra origine ancora, e è nel troppo pieno della mia inanità, del mio diniego. Perché è possibile oltreché dovere rispondere al sinedrio, e ha ragione Maurizio Landini, è la rivolta. Solo che non basta una rivolta sociale, ma anche culturale, politica. E armata, naturalmente. Armata mai di cosa? Dell’unica arma che ci è data a noi credenti, la resistenza attiva al dominio del presente come destino, resistenza di popolo, la costruzione di un ideale di comunità. Negli atrii muscosi, nei Fori cadenti, nei boschi, nell’arse fucine stridenti, nei solchi bagnati di servo sudor sono accesi cento, mille piccoli fuochi di resistenza. Nelle scuole dove ancora si discute liberamente sia o no consentito dalle vigenti disposizioni ministeriali, nelle buone pratiche che provano a riparare i torti, nella cooperazione sociale che prova a dare dignità e rispetto al lavoro, nel volontariato che prova a sanare le esclusioni e gli abbandoni, nei circoli dove si legge assieme un libro che ha ancora da dire una cosa importante, nelle chiese dove si praticano solidali fraternità, negli ospedali dove si cura senza speranza di compenso, e, e, e… Non è un popolo solo perché nessuno si è curato di farne un popolo, nessuno tra coloro che godono del privilegio dell’avvenire si è messo per strada tra campi, fori e officine a farsene testimoni. Attendibili testimoni perché ne sono l’immagine incarnata, militanti un sacrificio senza speranza di ricompensa, per dirla con Carlo Pisacane, un credente della mia stessa fede, perché una comunità di popolo promettente non si fonda in una legislatura e forse nemmeno in una vita. Sarà una nuova generazione a poter constatare “ben scavato vecchia talpa”. O arriverà ineluttabile il momento che l’ideale sarà trascinato sul Golgota e crocifisso al cospetto del ludibrio generale. E nemmeno la mia lepre avrà più scampo. Minori detenuti, se ne parla poco ma sono tanti e spesso condannati a ergastolo e pena di morte La Repubblica, 18 novembre 2024 Sebbene i dati non sia facile reperirli, soprattutto nelle nazioni africane, il fenomeno è assai più diffuso di quanto si pensi. Succede anche nei Paesi industrializzati come gli Usa. In tutto il mondo, il tasso di minorenni in stato di detenzione è, in media, di 28 ogni 100.000. E secondo un esperto incaricato dall’ONU, Manfred Nowak - sarebbero oltre sette milioni nel mondo che vivono in centri di detenzione per profughi, in luoghi di custodia come commissariati, in prigioni o altri luoghi di detenzione. Lo studio di Nowak - di qualche anno fa - rileva inoltre come ogni anno 300.000 bimbi entrano nei centri per migranti di 80 Paesi. Bambini privati della libertà che diventano invisibili alla stragrande maggioranza della società e il cui destino rappresenta una grave violazione della Convenzione sui diritti del fanciullo. Sono ragazzini che appartengono a gruppi vulnerabili, discriminati, esclusi e dimenticati nelle nostre società contemporanee. Provengono dai livelli più poveri della società, appartengono a minoranze etniche e religiose, popolazioni indigene, famiglie di migranti o rifugiati, sono bambini con disabilità mentali o fisiche, spesso separati o abbandonati dai genitori e costretti a vivere per strada. L’ingresso nei sistemi giudiziari. I minori entrano in contatto con il sistema giudiziario in modi diversi: come vittime, come testimoni o perché in conflitto con la legge o come parti di processi civili o amministrativi. Il loro incontro con il sistema giudiziario, assieme alle informazioni sulle circostanze che formano l’ambiente nel quale vivono, vengono solitamente registrati dalle autorità e dai fornitori di servizi che fanno parte del settore giudiziario. Si tratta di informazioni essenziali per monitorare e valutare le prestazioni del sistema giudiziario e per comprendere il profilo dei bambini che entrano in contatto con esso. Stime globali e regionali. Se in tutto il mondo, si stima che mediamente ci siano 28 bambini ogni 100.000 in stato di detenzione, in un dato giorno nel 2023, nel Nord America si registra il tasso più alto di minorenni reclusi: 72 ogni 100.000: nell’Asia orientale e il Pacifico il tasso sale a 20 ogni 100.000 bambini. La stima mondiale si basa su 160 Paesi, con dati relativi al decennio 2013 - 2023, che coprono l’80% della popolazione globale di minorenni-adolescenti. Si tratta di informazioni che provengono dal database dell’UNICEF, basati su United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC) Eurostat, database TransMonEE e registri delle istituzioni nazionali di giustizia penale. I tumulti di piazza e gli arresti di adolescenti. Recentemente, il sito di Nigrizia ha pubblicato un articolo - a firma di Antonella Sinopoli - su un caso in Nigeria che, se non altro, ha avuto il merito di attrarre l’attenzione dei media (sebbene non proprio di tutti) sulla pesantissima violazione del diritto internazionale rispetto al trattamento dei minorenni in carcere. La notizia riportata da Nigrizia si riferiva al rilascio di 29 adolescenti - tutti tra i 14 e i 17 anni - arrestati durante le proteste dello scorso agosto contro le politiche economiche del governo di Abuja. I tumulti di piazza - sia nella capitale Abuja che nella popolosissima Lagos (16 milioni di abitanti) - erano rivolti contro il presidente nigeriano Bola Ahmed Tinubu che, pubblicamente, aveva assunto atteggiamenti di apertura verso i manifestanti, mentre però la polizia ha invece mostrato il volto duro della repressione, arrivando al coprifuoco di 24 ore. Le ragioni delle proteste in Nigeria. Le regioni principali delle proteste erano (e sono ancora) legate alla difficile situazione economica del Paese più popoloso dell’Africa (230 milioni di abitanti) e il modo in cui il governo ha cercato di risolverla. Nell’ultimo anno il governo ha fatto riforme che non hanno affatto migliorato la situazione: ci sono infatti ancora 84 milioni di nigeriani (cioè il 37% della popolazione) che vivono al di sotto della soglia di povertà, secondo i dati diffusi dal World Food Programme. Va anche ricordato che la Nigeria si trova al 158° posto dell’Indice dello sviluppo umano su 188 Paesi presi in esame La situazione delle carceri minorili a livello mondiale. In molti Paesi, spesso, i ragazzi e i ragazzini vengono tenuti in celle assieme agli adulti. Un’informazione davvero allarmante, questa, che è però quasi impossibile riportare con maggiori dettagli proprio perché la ricerca di notizie ufficiali a riguardo è complicatissimo averli. Una ragione di più per essere sospettosi sul modo in cui bambini e adolescenti, in molti Paesi del mondo, vengono trattati una volta che entrano in contatto con i sistemi giudiziari. Le cifre che riguardano il sistema carcerario USA. C’è dunque soltanto l’ultimo rapporto dell’Unicef che l’anno scorso ha fornito appunto la stima di 28 bambini o adolescenti reclusi ogni 100.000 abitanti, a livello mondiale. Stando alle informazioni fornite dall’Office of Juvenile Justice and Delinquency Prevention, ormai quasi 4 anni fa, (nel 2021) nelle carceri USA c’erano circa 25mila ragazzi (tra maschi e femmine) di età inferiore ai 18 anni. Dieci anni prima, nel 2011, pare fossero 60mila. A questo proposito va segnalata la denuncia di alcune ONG per la difesa dei minori secondo le quali fino all’85% dei ragazzi e ragazzini detenuti erano (e forse sono ancora) detenuti in prigioni per adulti e che una percentuale altissima dei giovani dietro le sbarre è nero. Il destino degli adolescenti africani detenuti. Diverso sembra invece il destino dei bambini e degli adolescenti africani ai quali il destino riserva l’esperienza del carcere. Dal rapporto dell’UNICEF non emergono dati di nessun genere a riguardo, per cui - al momento - è legittimo ritenere che i ragazzi ai quali è riservato il carcere, in molti Paesi africani sembrano destinati a precipitare in un pozzo nero dal quale pochi di loro riusciranno ad uscire. E, semmai vi riuscissero, per loro la vita sarà ancora più difficile e impervia dei loro coetanei che quell’esperienza non hanno vissuto. Un report di Human Rights Watch sottolinea quanto i sistemi giudiziari delle 54 nazioni africane agiscano in modo arbitrario, tenendo ad esempio in carcere i minori per periodi di tempo assolutamente spropositati rispetto ai crimini contestati che richiederebbero ben altri trattamenti. In Zambia, ad esempio, l’assenza di una giurisprudenza applicata alla giustizia minorile fa sì che i bambini possono attendere mesi o addirittura anni prima che i loro casi vengano conclusi. I “buchi” del sistema anagrafico: i bambini trattati come adulti. Un altro grande problema nella gestione della pubblica amministrazione in numerose nazioni africane è quella della certificazione delle nascite. Ci sono insomma bambini che non sono registrati quando nascono e che quindi non appena, per qualche ragione, varcano la soglia del sistema giudiziario penale, vengono trattati come se fossero adulti. Le detenzioni a tutte le età per la “sicurezza nazionale”. A tutto questo va aggiunto anche un altro elemento aggravante: quello secondo il quale molte detenzioni vengono imposte per ragioni di sicurezza nazionale. Gli arresti effettuati in Nigeria nell’agosto scorso - ricordati dall’articolo di Nigrizia - sono tra questi. Di più: non si conosce affatto il numero dei bambini e degli adolescenti che, sempre in nome della sicurezza nazionale, vengono tenuti in carcere in Afghanistan, nella Repubblica Democratica del Congo, in Iraq, in Somalia, in Siria, con le accuse di appartenere a gruppi eversivi armati. Ergastoli e pena di morte per minorenni. In 73 Stati nel mondo - secondo stime di alcuni anni fa - ci sono state condanne all’ergastolo di persone per reati commessi quando avevano meno di 18 anni; altri 49 Stati hanno consentito condanne a 15 anni o più e 90 Stati a 10 o più anni. Per quanto riguarda la pena di morte, questi ultimi anni hanno registrato in Africa progressi costanti verso l’abolizione: Ciad (maggio 2020), Sierra Leone (luglio 2021), Repubblica Centrafricana (maggio 2022), Guinea Equatoriale (agosto 2022), Zambia (dicembre 2022), Ghana (luglio 2023), Zimbabwe (febbraio scorso). Le cifre delle pene capitali. Ma ci sono Paesi in cui viene ancora oltre che sentenziata anche eseguita. Tra questi c’è la Somalia. Secondo Amnesty International nel 2023 a livello globale ci sono state 1.153 esecuzioni, un aumento del 31% rispetto alle 883 del 2022. I paesi con il numero più alto di esecuzioni sono la Cina (dove comunque il numero esatto rimane un segreto di Stato) Iran, Arabia Saudita (con i numeri più alti), Somalia e USA. Alla fine del 2023 si contavano almeno 27.687 persone nel braccio della morte in tutto il mondo. E dal 1990 al 2022, l’ONG ha registrato 163 esecuzioni di bambini in 10 paesi. Tra questi Repubblica Democratica del Congo (eseguita nel 2020 su un ragazzo di 14 anni), Nigeria, Sud Sudan, Sudan. I ragazzini reclusi negli Stati Uniti. Gli Stati Uniti - a quanto risulta - sono al primo posto nel mondo industrializzato per numero e percentuale di bambini rinchiusi in istituti di detenzione minorile, con oltre 60.000 bambini in tali strutture, secondo dati risalenti però al 2011. Dati raccolti dalla Annie E. Casey Foundation, che si occupa di giustizia minorile e altre questioni relative ai diritti dei bambini. Gli Stati Uniti inviano anche un numero straordinario di bambini in carceri e prigioni per adulti, più di 95.000 nel 2011, secondo le stime di Human Rights Watch e dell’American Civil Liberties Union, con poche opportunità di istruzione o riabilitazione significative. Amnesty: le esecuzioni di minorenni. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici, uno dei tre trattati internazionali collettivamente denominati Carta internazionale dei diritti umani, stabilisce che la pena di morte “non deve essere imposta per crimini commessi da persone di età inferiore ai diciotto anni”. Nonostante tale requisito esplicito, diversi paesi in tutto il mondo continuano a giustiziare prigionieri per crimini che si dice abbiano commesso prima dei diciotto anni. L’Iran è il più prolifico esecutore di minorenni al mondo. Il rapporto dell’agosto 2015 del Segretario generale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Iran ha espresso preoccupazione continua “per la frequenza delle esecuzioni, in particolare per reati legati alla droga e di minorenni”. Il rapporto delle Nazioni Unite ha affermato che, sebbene non fossero disponibili dati ufficiali al pubblico, 160 minorenni sarebbero stati condannati a morte nel paese nel 2014. Ma non è l’unico Paese che manda a morte minori. Amnesty International segnala che i tribunali militari nella regione semi-autonoma del Puntland in Somalia continuano a eseguire esecuzioni di bambini. Cinque ragazzi, tutti di età compresa tra 14 e 17 anni, sono stati giustiziati l’8 aprile 2017 per il loro presunto coinvolgimento nell’uccisione di tre alti funzionari governativi da parte del gruppo armato Al-Shabaab. Michelle Kagari, vicedirettrice regionale di Amnesty International per l’Africa orientale, il Corno d’Africa e i Grandi Laghi, ha affermato: “Questi cinque ragazzi sono stati giustiziati a seguito di un processo fondamentalmente imperfetto durante il quale sono stati torturati per confessare, è stato negato loro l’accesso a un avvocato e alle protezioni aggiuntive concesse ai minorenni, e processati in un tribunale militare”. E in Arabia Saudita... L’organizzazione per i diritti umani Reprieve riferisce che l’Arabia Saudita ha giustiziato almeno quattro minorenni nel gennaio 2016 durante un’esecuzione di massa di 47 persone. Secondo Reprieve, uno dei quattro, Ali al-Ribh, era stato arrestato a scuola, torturato per confessare falsamente il suo coinvolgimento in proteste antigovernative e giustiziato. L’organizzazione riferisce che altri tre minorenni sauditi, arrestati in seguito alle proteste pro-democrazia del 2012, rischiano l’esecuzione dopo essere stati “torturati per firmare false ‘confessioni’, che sono state utilizzate in un tribunale segreto antiterrorismo per condannarli e condannarli a morte”. Stati Uniti. Biden commuti le condanne a morte federali prima che Trump riprenda la mattanza di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 novembre 2024 Il presidente-eletto Trump lo aveva detto in campagna elettorale e lo ha ribadito di recente uno dei primi atti successivi all’inaugurazione, il 20 gennaio 2025, del suo secondo mandato sarà autorizzare la ripresa delle esecuzioni delle condanne a morte federali, in piena continuità con la mattanza passata atrocemente alla storia di 13 esecuzioni negli ultimi sei mesi del suo primo mandato: una cosa che non si era mai vista nei precedenti 120 anni. Per questo, si stanno moltiplicando (da Amnesty International all’American Civic Liberties Union) gli appelli al presidente uscente Biden affinché, nelle ultime 10 settimane che gli restano prima di lasciare la Casa bianca, commuti le condanne alla pena capitale dei 40 detenuti che si trovano attualmente nel braccio della morte di Terre Haute, nello stato dell’Indiana: il 38 per cento di loro sono neri, nella metà dei casi condannati a morte da giurie composte di soli bianchi. Al momento vige una moratoria sulle esecuzioni federali, proclamata dall’amministrazione Biden nel 2021. Turchia. Processi sommari, arresti e studi legali devastati. Avvocati turchi nel mirino di Erdogan di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 18 novembre 2024 È in corso in Turchia il processo a carico delle avvocate Betül Vangolü Kozagaçli e Seda Saraldi, in carcere dall’inizio di quest’anno. La loro vicenda giudiziaria dimostra il momento difficile che vive l’avvocatura turca, in modo particolare quella impegnata nella difesa dei diritti umani. Come in Russia, anche in Turchia molto spesso si assiste all’assimilazione dell’avvocato al proprio cliente, soprattutto, quando si parla di oppositori e dissidenti politici. Il 6 febbraio scorso tre persone sono state uccise dalla polizia nel corso di un attacco armato al tribunale di Çaglayan. La polizia ha concentrato una serie di sospetti su un uomo e una donna ritenuti vicini al “Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo” (Dhkp-C). In merito all’episodio di febbraio non c’è mai stata una rivendicazione ufficiale anche se la polizia e l’autorità giudiziaria hanno considerato i due attentatori appartenenti al partito Dhkp-C, classificato in Turchia come “organizzazione terroristica’ (la terza vittima era un passante). La smentita del “Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo” è arrivata subito: non si è trattato di un attentato nel tribunale. La reazione della polizia è stata sproporzionata, dato che sono stati colpiti a morte due componenti dell’organizzazione nonostante fossero disarmati. A questo punto le indagini prendono una piega molto particolare. Vengono tirati in ballo, con l’accusa di complicità, gli avvocati che in passato hanno difeso i soggetti coinvolti nei fatti di Çaglayan. La sede di Istanbul dell’”Ufficio legale del Popolo” - si tratta di uno studio in cui lavorano decine di avvocati - è stata perquisita dalla polizia e distrutta. Sono stati sequestrati computer e numerosi fascicoli in violazione del segreto professionale che caratterizza qualsiasi mandato professionale. Tra gli avvocati arrestati poche ore dopo l’attacco al tribunale figurano Didem Baydar Unsal, Berrak Çaglar, Seda Saraldi e Betül Vangölü Kozagaçli, tutti appartenenti all’Associazione degli avvocati progressisti (Chd). Le accuse mosse nei loro confronti hanno riguardato l’attività professionale in difesa di alcuni membri del Dhkp-C. L’azione della polizia contro gli avvocati non è stata casuale. Selçuk Kozagaçli, Barkin Timtik, Aytaç Ünsal e Oya Aslan sono stati in carcere per anni, insieme ad altri 18 colleghi. L’impegno professionale dei legali ha portato all’incredibile accusa di essere complici dell’organizzazione politica. Dopo l’arresto, avvenuto la notte del 6 febbraio 2024, Didem Baydar Unsal, Berrak Çaglar, Seda Saraldi e Betül Vangölü Kozagaçli non hanno potuto parlare con i loro difensori. Betül Vangolü Kozagaçli e Seda Saraldi sono ancora in carcere in attesa di giudizio. Ad ottobre una delegazione dell’Oiad (l’Osservatorio degli avvocati in pericolo), composta da Barbara Porta (del Foro di Torino in rappresentanza del Consiglio nazionale forense), Antonio Fraticelli (Foro di Bologna) ed Elise Arfi (Foro di Parigi), ha partecipato alle udienze del processo in corso a Caglayan. L’accusa formalizzata nei confronti delle due avvocate è di “appartenenza a un’organizzazione terroristica illegale”, così, infatti, è stata definita l’Associazione degli avvocati progressisti (Chd). Vangolü Kozagaçli è iscritta all’Ordine di Ankara da oltre 25 anni, esercita la professione a Istanbul e in tutta la Turchia. Anche il marito è stato arrestato e gli è stata inflitta una condanna a 11 anni e tre mesi di carcere dalla Corte Suprema turca nel settembre 2020. Seda Saraldi è avvocata del Foro di Istanbul ed è stata tirocinante di Ebru Timtik (avvocata di origine curda accusata di terrorismo, morta dopo uno sciopero della fame durato 238 giorni). Il giorno dell’attentato Betül Vangolü Kozagaçli non si trovava in tribunale, stava visitando il marito e altri assistiti in carcere, mentre Seda Saraldi era in aula per alcune udienze. Nel processo a carico delle due professioniste, come evidenziano gli osservatori Oiad, non mancano le anomalie. Alla fine di aprile 2024, quasi tre mesi dopo il giorno dell’attentato, sono spuntati due testimoni le cui generalità non sono state mai fornite dall’autorità giudiziaria. Entrambi hanno detto di trovarsi all’esterno degli uffici giudiziari e fornito dichiarazioni contro Betül Vangolü Kozagaçli e Seda Saraldi, sostenendo di averle riconosciute nelle immediate vicinanze del tribunale. Lidentità dei testimoni oculari è tuttora avvolta nel mistero. A luglio l’accusa ha contestato formalmente alle avvocate l’appartenenza ad un’organizzazione terroristica con la richiesta della condanna a 7 anni e mezzo di carcere. “L’arresto delle due colleghe - rileva Barbara Porta - non si basa, come è stato osservato in casi analoghi, su alcuna prova concreta conclusiva e, pertanto, costituisce, come spesso accade in Turchia, una chiara violazione del diritto internazionale a tutela degli avvocati, che vieta qualsiasi assimilazione con i loro clienti”. Da più parti è stato rilevato che l’Associazione degli avvocati progressisti è finita ancora una volta nel mirino delle autorità giudiziarie per il lavoro svolto in difesa dei diritti umani e degli oppositori politici. Le udienze del 2 ottobre scorso, alle quali hanno partecipato Porta, Fraticelli e Arfi sono state caratterizzate da momenti di tensione. Le udienze sono state celebrate in aule piccole, tanto da provocare il disappunto delle difese e del pubblico accorso. I presidenti dei collegi giudicanti hanno tentato di celebrare il processo in presenza del minor numero di persone, a riprova della scarsa attenzione che si vuole dare nei confronti di personaggi ritenuti scomodi dall’establishment. “Data la gravità delle accuse rivolte alle due colleghe e la mancanza di prove concrete - evidenziano gli osservatori Oiad -, l’udienza è stata breve. Particolarmente grave appare il problema, già evidenziato in molti processi in Turchia, di basare le accuse su testimoni anonimi che vengono ascoltati solo durante i procedimenti di polizia, quando l’imputato non ha avuto la possibilità di conoscere il testimone e replicare alle sue dichiarazioni. Il team di difesa dubita infatti della veridicità delle testimonianze raccolte due mesi e mezzo dopo i fatti. È prassi consolidata che le autorità ottengano regolarmente una serie di dichiarazioni in cambio dell’impegno a rinunciare al procedimento penale contro la persona che le ha rese, nell’ambito di una procedura di ‘pentimento’. I fatti che hanno portato al procedimento penale contro le avvocate riguardano la loro pratica professionale, in quanto sono accusate di essere associate a organizzazioni terroristiche solo ed esclusivamente sulla base della loro attività di consulenza legale in favore di clienti che sarebbero membri di tali organizzazioni”. Giova ricordare che l’Oiad ha presentato di recente alle Nazioni Unite il rapporto sulla situazione complessiva in cui versa l’avvocatura in Turchia. Il quadro è desolante. “Da diversi anni - evidenzia l’Osservatorio degli avvocati in pericolo -, molti avvocati sono vittime di persecuzioni di massa, detenzioni arbitrarie e arresti per l’impegno nella difesa dei diritti fondamentali dei loro clienti. Inoltre, la mancata attuazione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo sottolinea il crescente disprezzo per gli standard internazionali sui diritti umani. Le accuse di tortura e i maltrattamenti in detenzione evidenziano le condizioni disumane alle quali sono sottoposti gli avvocati, con la compromissione non solo della loro sicurezza, ma anche dell’integrità del sistema giudiziario nel suo complesso. Il nostro rapporto mira a esaminare una preoccupante realtà e a evidenziare le sfide affrontate dagli avvocati in Turchia nell’esercizio della professione forense. Per affrontare questa situazione, lo Stato deve adottare misure concrete per proteggere gli avvocati, garantire l’indipendenza dell’avvocatura e rispettare gli impegni internazionali sui diritti umani”. La situazione si è via via aggravata ed è precipitata otto anni fa, dopo il tentato colpo di Stato del 15 luglio 2016 che ha generato norme liberticide (si pensi alla legge antiterrorismo). A farne le spese migliaia di legali. Un esempio su tutti: il presidente dell’Ordine degli avvocati di Konya è stato arrestato. Dal 2016 sono stati perseguiti più di 1.700 avvocati, 700 sono stati sottoposti a custodia cautelare in carcere. Più di cinquecento professionisti sono stati condannati a un totale di 3.380 anni di carcere. La legge di contrasto al terrorismo è una nota dolente, una sorta di clava con la quale le autorità turche sono in grado di colpire indiscriminatamente cittadini e avvocati critici nei confronti del governo. Nel silenzio, più o meno generale, della comunità internazionale. Turchia. Chi attacca gli avvocati attacca lo Stato di diritto e il cuore stesso delle nostre democrazie di Leonardo Arnau* Il Dubbio, 18 novembre 2024 In Turchia almeno 553 avvocati sono stati condannati a un totale di 3.380 anni di carcere. Tenere accesi i riflettori sulle più gravi violazioni dei diritti umani nei diversi scenari internazionali. Un compito di per sé difficilissimo, reso quasi impossibile in questo periodo storico tenuto conto dell’aumentare dei conflitti armati, sia quelli tra stati nazionali, sia quelli, di più difficile lettura, che si svolgono all’interno di territori statali dove non vi è più un governo capace di garantire il controllo del territorio all’interno dei confini internazionali riconosciuti. Conflitti etnici, religiosi, spesso fomentati per garantirsi l’accaparramento di territori ricchi di rari quanto preziosi minerali. Tale situazione non può e non deve esimerci dal continuare a monitorare, moltiplicando gli sforzi, le situazioni di rischio che affrontano i colleghi che operano in stati dove sono calpestati i principi dello stato di diritto e del giusto processo, di cui reclamano comunque il pieno rispetto quando difendono oppositori politici, dissidenti, giornalisti, attivisti dei diritti umani, esponenti della società civile. Tra i Paesi dove maggiore è la repressione del dissenso ed è molto pericoloso esercitare in maniera libera ed indipendente la professione di avvocato vi è, come noto, la Turchia. Gli avvocati da molti anni sono vittime di intimidazioni, minacce, arresti arbitrari e processi condotti in spregio alle più elementari regole del contraddittorio. Tanti gli episodi di violenza e di aggressione, alcuni hanno pagato con la vita l’attaccamento alla toga e l’impegno indefettibile per garantire il rispetto delle regole processuali riconosciute dalle convenzioni internazionali. Secondo i dati pubblicati nell’ultimo rapporto annuale dell’Associazione Arrested lawyers initiative dopo il tentativo di colpo di stato del 2016 più di 1.700 avvocati sono stati incriminati, circa 700 sottoposti a custodia cautelare, almeno 553 avvocati sono stati condannati ad un totale di 3.380 anni di carcere. Aridi e drammatici numeri, dietro ognuno dei quali vi sono una persona, una storia umana e professionale, intere famiglie. Il Consiglio Nazionale Forense e l’Osservatorio degli avvocati in pericolo (OIAD), di cui il CNF è cofondatore, continuano a monitorare da anni alcuni dei principali processi in Turchia che vedono imputati avvocati accusati di complicità, perché assimilati ai clienti che assistono, secondo un triste copione, che spesso vede le presunte prove di accusa fondarsi su testimoni segreti, la cui identità è sconosciuta alle parti. Missioni di osservazione processuale e visite ai colleghi detenuti in carcere molto apprezzate da chi vive situazioni di detenzione severissime, in completo isolamento, subendo trattamenti inumani e degradanti, documentati dalle organizzazioni internazionali e dai report delle diverse missioni succedutesi nel tempo. Per denunciare le terribili condizioni di detenzione nelle carceri turche e per richiedere alle Autorità il rispetto dello stato di diritto e dei principi dell’equo processo la valorosa avvocata Ebru Timtik intraprese uno sciopero della fame di 238 giorni, che la condusse alla morte, in stato di detenzione, il 27 agosto 2020, a seguito del rigetto di tutti gli appelli e le istanze per la sua liberazione. Gli osservatori internazionali svolgono un’attività preziosa, che spesso costituisce l’unica e fondamentale fonte di informazione su vicende che altrimenti resterebbero sconosciute, e mantiene costante la pressione esercitata sui Governi e le istituzioni internazionali affinché agiscano per garantire il rispetto dei diritti fondamentali. D’altronde, difendere la libertà dell’esercizio della professione forense in qualunque Stato e contesto sociale equivale a salvaguardare lo Stato di diritto. E senza Stato di diritto non può esserci vera democrazia. Riaffermare questo principio non è mai superfluo, se solo si considera che, secondo una recente ricerca commissionata dal settimanale britannico Economist, solo il 5,7% della popolazione mondiale vive in Stati di democrazia compiuta o completa. Non possiamo dimenticare che lo stato di diritto vive sempre in un precario equilibrio ed il nostro non fa eccezione. Per questo motivo dobbiamo seguire con attenzione ciò che succede nel mondo, perché le spinte autoritarie travalicano facilmente le frontiere. Il modo in cui vengono rappresentati e trattati gli avvocati ed i difensori dei diritti umani è una spia della circolazione del virus autoritario. Gli avvocati, a qualunque latitudine, difendono la libertà e i diritti delle persone, ne sono portatori e chi calpesta i diritti umani, in primo luogo, aggredisce l’avvocatura che ha il compito di tutelarli. Mettere sotto osservazione i luoghi dove questa patologia si manifesta non vuol dire ficcare il naso in questo o quello Stato straniero: significa occuparsi di sé stessi e preservare la democrazia. *Coordinatore della Commissione diritti umani e protezione internazionale del CNF Turchia. Ebru Timtik, il corpo come arma: il digiuno mortale contro il digiuno dei diritti di Simona Musco Il Dubbio, 18 novembre 2024 La battaglia di Ebru Timtik è durata 238 giorni. Giorni in cui ha scelto di non mangiare, usando il suo corpo come arma contro la giustizia turca, che di diritti non vuol sentir parlare. È morta così, dopo esser stata arrestata insieme a altri 18 colleghi per il suo impegno nella difesa dei diritti civili in Turchia. Il 14 agosto 2020, la Corte costituzionale turca aveva respinto la richiesta di rilascio a scopo precauzionale sia per lei sia per il collega Aytaç Ünsal (ora di nuovo in carcere), entrambi in sciopero della fame, nonostante le loro condizioni di salute fossero già molto critiche. Per la Corte, però, non c’erano “informazioni o reperti disponibili in merito all’emergere di un pericolo critico per la loro vita o la loro integrità morale e materiale con il rigetto della richiesta per il loro rilascio”. Ebru Timtik e Aytaç Ünsal avevano avviato lo sciopero della fame a febbraio 2020 e non sono stati rilasciati nonostante siano stati dichiarati non idonei alla reclusione dall’Istituto di medicina legale. Nemmeno una denuncia alla Corte costituzionale turca di Ankara ha avuto successo. I due avvocati, trasferiti sotto osservazione contro la loro volontà in diversi ospedali di Istanbul, avevano deciso così di trasformare lo sciopero in un “digiuno mortale” il 5 aprile - la “Giornata degli avvocati” in Turchia. Nel complesso dei procedimenti contro presunti membri del Dhkp-C, gli avvocati sono stati condannati a lunghe pene detentive in base alle leggi sul terrorismo, a causa delle dichiarazioni contraddittorie di un testimone chiave. Con la loro protesta, i due avvocati invocavano un processo equo. Timtik è la quarta vittima del processo Dhkp-C: Helin Bölek, solista del gruppo musicale Grup Yorum, è morta il 3 aprile 2020. Si era rifiutata di mangiare per 288 giorni in segno di protesta contro l’imprigionamento di altri membri della band e il divieto di concerti per i Grup Yorum. Il 7 maggio, il bassista della band, Ibrahim Gökçek, è morto dopo uno sciopero della fame durato 323 giorni. In precedenza, il prigioniero politico Mustafa Koçak era morto il 24 aprile a causa di un digiuno di 296 giorni. La “colpa” degli avvocati era quella di aver difeso gli oppositori politici di Erdogan, ma non solo: tra loro ci sono anche i difensori delle famiglie espropriate delle loro case a Istanbul, abbattute per far posto ai grattacieli, o di donne che sono state picchiate dai mariti perché rifiutavano di portare il velo. Tra i volti più noti della protesta Selcuk Kozagacli, (presidente del Chd), condannato a un totale di 13 anni per aver fondato e gestito un’organizzazione internazionale di matrice terroristica, mentre gli altri (tra i quali Barkin Timtik, sorella di Ebru, condannata a 20 anni e sei mesi) per averne fatto parte. Il capo di imputazione si regge sull’aver suggerito ai propri clienti di avvalersi della facoltà di non rispondere, con una percentuale statistica considerata superiore al dato nazionale, ma anche a colloqui con le famiglie troppo lunghi e frequenti. La storia è iniziata con le purghe contro gli accademici, messa in atto da Erdogan dopo il mancato golpe, tra i quali Nuriye Gulmen e Semih Ozakca, imputati per “terrorismo” per presunti legami con il gruppo di estrema sinistra Dhkp. L’arresto di tutti e venti gli avvocati del collegio difensivo è avvenuto due giorni prima dell’inizio del processo a loro carico, diventato di colpo un processo politico per contrastare l’opposizione. Solo sei mesi dopo l’arresto, a marzo 2018, agli avvocati è stato concesso di prendere visione dei capi d’imputazione, secondo i quali l’associazione degli avvocati progressisti costituirebbe una branca del partito rivoluzionario messo fuori legge da Erdogan. La riforma costituzionale ha poi segnato in via ufficiale una vera e propria fusione tra potere governativo e sistema giudiziario: con la legge antiterrorismo del 25 luglio 2018 è stata infatti istituita una costola del potere che monitora gli istituti pubblici e che ha pieno e completo accesso a tutti gli elementi sensibili di tutti gli ordini degli avvocati della Turchia. Ma nemmeno le carceri- lager del Sultano sono riuscite a zittire Timtil e Ünsal. “Abbiamo fatto della nostra vita uno strumento di difesa - ha sottolineato dal carcere quest’ultimo, ricordando il prezzo pagato da Timtik -. Stiamo ancora resistendo con le nostre vite e i nostri denti. Difendiamo le nostre vite tra le macerie. Facciamo la guardia alle prove sotto il cemento. Seguiremo le cause che difenderanno le vite che costruiremo insieme alla nostra gente, che sta lottando per questo”. Libia. Arriva la “Polizia morale”: le libertà sotto attacco di Lorenzo Vita Il Riformista, 18 novembre 2024 Controlli su abiti, acconciature, comportamenti in pubblico e utilizzo dei social. La Libia rimane un punto interrogativo. Per molti, qualcosa di più: un vero e proprio buco nero strategico. Dalla caduta di Muhammar Gheddafi, il paese nordafricano non si è mai riuscito a riprendere e a ricostituirsi davvero come un’entità unica e consolidata. La guerra civile, di fatto, non si è mai interrotta. Est e ovest - ovvero Cirenaica e Tripolitania - sono entità di fatto autonome e in competizione tra loro, anche con potenze esterne che le sponsorizzano pensando a un futuro della Libia completamente diverso l’uno dall’altro. Vere e proprie città-Stato rappresentano ormai centri di potere a sé stanti. E se la Cirenaica e parte del sud del paese sono sotto il pieno controllo del maresciallo Khalifa Haftar, a ovest, a Tripoli, il governo di unità nazionale (e l’unico riconosciuto ufficialmente dalla comunità internazionale) vede un Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh che lotta per un ruolo unitario e per un processo elettorale in tutte le zone del paese. Il primo tentativo di normalità - Oggi c’è un primo tentativo di “normalità”: 176mila elettori si sono registrati per votare in 58 consigli municipali sparsi in varie zone dello Stato. Per Dbeibeh, che ha diffuso un video su Facebook, si tratta di “un giorno storico”. “Rifiuteremo sempre le proroghe e le fasi transitorie. Abbiamo sempre detto che possiamo arrivare alle elezioni parlamentari e presidenziali in qualsiasi momento, e la comunità internazionale, così come chi sta ostacolando il processo, deve rispettare la volontà del popolo libico e approvare leggi elettorali giuste per poter entrare in questa fase stabile”, ha continuato il primo ministro ad interim. Ma la situazione è difficile. E in questo caos, la Libia rimane una domanda a cui nessuno sa dare una risposta. La vita politica va avanti senza ricevere l’attenzione del mondo, nemmeno della vicina Europa, concentrata necessariamente sulla guerra in Ucraina e sul caos mediorientale. Il caos calmo e la polizia morale - E in questo caos calmo a due passi dall’Italia, la quotidianità continua a scorrere in un’apparente paralisi. Apparente perché alcuni processi politici riaccendono le luci dei riflettori su quanto accade dall’altra parte del Canale di Sicilia. Uno su tutti, quello che è stato denunciato da alcune importanti organizzazioni non governative e da media sia locali che internazionali, e cioè la scelta di Tripoli per attivare la “polizia morale”. Il ministero dell’Interno avrà infatti una “Direzione generale per la protezione della morale pubblica” che servirà a controllare “il rispetto dei valori sociali e morali nelle aree pubbliche”. Occhi puntati sugli abiti e sulle acconciature, sui comportamenti in pubblico, ma anche sull’utilizzo dei social network. Tutto per monitorare il rispetto della morale e dei “valori” della Libia. Il modello della “Gast-e ersad” iraniana - Dal momento che il paese è ormai da anni preda di un’anarchia dove dominano anche gruppi islamisti o movimenti molto attenti alla religione come strumento politico, non è da escludere - secondo gli esperti - che questa mossa di Dbeibeh e del suo ministro Emad Al-Trabelsi sia un modo per avvicinare clan e fazioni di questo stampo. Ma gli osservatori non mancano anche di vedere il lato molto più pragmatico della faccenda: quello di dare più spazio alla repressione. Jalel Harchaoui, esperto di sicurezza nordafricana del Royal United Services Institute for Defence and Security, ha detto al Telegraph che l’istituzione della polizia morale porterebbe a “semplificare gli arresti” senza la “formalità delle procedure legali”. E per molti critici, la polizia morale sul modello della “Gast-e ersad” iraniana andrebbe contro a tutto ciò che si è immaginato per la Libia post-Gheddafi. “Main sponsor” della Tripolitania - Tripoli non è una Repubblica islamica, certo. Molti chiedono ancora a Dbeibeh di ripensarci. Tuttavia questo provvedimento rischia ancora di più di sganciare il paese dall’orbita occidentale, mentre si fanno largo - a livello geopolitico - partiti e fazioni che vorrebbero una Libia (o le Libie) sempre più orientata verso altri blocchi geopolitici. La Russia ha ormai pieno controllo della Cirenaica attraverso Haftar e la sfrutta per spostare uomini e mezzi verso il Sahel o come spina nel fianco della Nato nel Mediterraneo. La Turchia è a tutti gli effetti il “main sponsor” della Tripolitania. E per molti non è da escludere che il governo di unità nazionale guardi con un certo interesse ai Brics. La scorsa settimana, a Sochi, la Russia ha riunito i ministri africani per rafforzare i suoi legami con il continente. E la Libia, per lo zar, è una pedina fondamentale. Anche in chiave Brics.