Degli affetti e delle pene di Corrado Marcetti* Fuori Binario, 9 marzo 2024 Una riflessione sulla sentenza della Corte Costituzionale n. 10 del 26 gennaio 2024, che ha riconosciuto il diritto soggettivo all’affettività e alla sessualità delle persone detenute. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 10 del 26 gennaio 2024, ha riconosciuto il diritto soggettivo all’affettività e alla sessualità delle persone detenute sancendo l’incostituzionalità dell’art.18 dell’ordinamento penitenziario che impedisce, con l’imposizione del controllo visivo, qualsiasi carattere di riservatezza nelle sale colloqui. Dopo una lunga serie di interpellanze, tergiversazioni e rimandi, la “questione” delle relazioni affettive in carcere raggiunge finalmente un approdo positivo. Nella grande maggioranza degli ordinamenti penitenziari europei (31 Stati dei 47 che compongono il Consiglio d’Europa) e in diversi altri paesi del mondo, da tempo questo diritto è garantito. È un quadro variegato in cui sono presenti situazioni molto differenziate da paese a paese, da carcere a carcere, da regime detentivo a regime detentivo, da modalità di gestione a modalità di gestione. Ma, tenuto nel debito conto che in alcuni casi il colloquio affettivo è considerato nell’ambito del diritto soggettivo della persona, in altri concesso come beneficio subordinato, e mai dimenticando che le condizioni di detenzione restano comunque duramente afflittive in tanti paesi, le “stanze dell’affettività” e le “case delle visite” rappresentano ormai una realtà consolidata. Accade, ad esempio, in Norvegia, paese con un riconosciuto primato nell’attenzione alla condizione umana nel sistema carcerario. Nel film “Le cattedrali della cultura”, realizzato su progetto di Wim Wenders, con sei registi per altrettanti edifici, è inserito, insieme a Biblioteche, Filarmoniche, Istituti di ricerca, Teatri e Musei, il Carcere di Halden. In questa prigione uno degli elementi chiave è l’edificio chiamato “Casa delle visite”. In California Il Family Visiting Program è esteso a 32 delle 33 prigioni di Stato, talvolta con la disposizione di case mobili per le visite coniugali. In Canada gli incontri nella più completa intimità possono arrivare fino a 72 ore. In Messico, Brasile e Venezuela, varie sono le forme e gli spazi destinati alle visite “indisturbate”. Nelle carceri olandesi le visite non supervisionate (Bezoeken zonder toezicht), non hanno limiti relativi alla posizione giuridica. Camere dotate di servizi e cucina sono previste in Danimarca e Finlandia (in quest’ultimo paese per i detenuti non ammessi ai permessi all’esterno). In Belgio sono previste Visites hors surveillance. In Germania le visite di lunga durata (langzeitbesuche) sono contemplate in alcuni länder per i detenuti condannati a lunghe pene e vi sono destinati appositi appartamentini. Nel penitenziario cantonale de “La Stampa” in Svizzera le visite familiari avvengono in un edificio esterno collocato ai margini del bosco. I detenuti vi sono accompagnati con un pulmino. Spazi per l’affettività sono presenti nelle carceri di diversi cantoni svizzeri. Altrettanto in Austria. In Croazia e Albania sono previsti colloqui non controllati di quattro ore con il coniuge o il partner, con frequenza settimanale. Nelle carceri della Romania, sono predisposte camere per gli incontri coniugali. Le camere per l’intimità in Moldavia, sono chiamate Camere de Întrevederi. Stanze per le visite coniugali sono presenti in diversi paesi dell’Europa dell’Est, talvolta allestite in strutture mobili. Articolata e diffusa è la presenza nelle carceri francesi degli spazi per l’affettività (sans surveillance continue et directe). I Parloirs familiaux sono stanzette per gli incontri della famiglia attorno ad un tavolo, mentre le Unités de vie familiale sono piccoli appartamenti attrezzati, talvolta dotati di uno spazio esterno, per ritagliare un brano di quotidianità affettiva. Buoni esempi di Unité de vie familiale (Uvf) sono quelli del Centre de détention di Montemédy, Salon de Provence, Argentan-Orne. Nel carcere femminile di Rennes un edificio basso con gli appartamentini per le visite familiari, tutti dotati di una piccola area esterna, è collocato in zona discosta dall’area detentiva vera e propria. In Spagna le Comunicaciones íntimas, in spazi spesso spartani, sono previste per tutti i detenuti, quale che sia la loro posizione giuridica e quale che sia il rapporto con la persona ammessa a svolgere i colloqui. In Italia le rare azioni progettuali innovative, promosse da associazioni o università, si sono arrestate sulla soglia del tabù sessuale. Hanno interessato le aree verdi di alcuni istituti, qualche ambiente interno, organizzandoli per un ritaglio di vita familiare. La sentenza della Cassazione interviene su una situazione in generale contradditoria e confusa fino alla sanzione dei comportamenti tra partners considerati eccessivamente affettuosi. Il pieno riconoscimento del diritto delle persone detenute all’affettività e alla sessualità lo rende immediatamente esigibile ma occorrerà superare l’ostilità dei sindacati della polizia penitenziaria e i rimandi continui per le difficoltà derivanti dai tempi e dalle risorse necessarie all’adeguamento degli spazi. Oltre a nuove realizzazioni va considerato che in diversi Istituti penitenziari italiani sono possibili recuperi di edifici e cortili dismessi. In tutti va complessivamente ripensato e riprogettato il sistema degli spazi che interessano i familiari dei detenuti, dall’area d’ingresso a quelli dell’attesa a quelli della relazione. Ciò può favorire azioni progettuali coinvolgenti, inclusive, capaci di incidere positivamente sui processi di esclusione e marginalizzazione sociale. *Architetto, già Direttore e Presidente della Fondazione Michelucci Dossieraggi, l’annuncio di Nordio: “Ora una commissione d’inchiesta sul caso” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 9 marzo 2024 Dopo l’inchiesta di Perugia sui presunti accessi abusivi la politica si mobilita e passa al contrattacco. Il guardasigilli sente Crosetto. I presunti dossieraggi e gli accessi abusivi ai database della procura nazionale antimafia hanno provocato una lunga serie di reazioni politiche. In prima fila gli esponenti del governo. Il guardasigilli Carlo Nordio ha riferito di aver avuto “un informale scambio di opinioni” con il ministro della Difesa, Guido Crosetto, al quale ha espresso l’esigenza di un intervento ben preciso. “Credo che a questo punto - ha detto il ministro della Giustizia - si possa e si debba riflettere sulla necessità dell’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta con potere inquirente per analizzare una volta per tutte questa deviazione che già si era rilevata gravissima ai tempi dello scandalo Palamara e che adesso, proprio per le parole di Cantone, è diventata ancora più seria”. A proposito dell’audizione del procuratore di Perugia, giovedì, davanti alla commissione parlamentare antimafia, Nordio ha aggiunto che “le parole usate da Cantone sono state estremamente forti e, dopo queste valutazioni estremamente severe, io credo che sia necessario fare una riflessione molto, molto profonda su quelle che sono le violazioni dei diritti individuali alla riservatezza”. Secondo il ministro, “queste violazioni sono già state fatte in passato”. “Credo - ha aggiunto Nordio - che adesso abbiamo raggiunto il punto cruciale, forse un punto di non ritorno e che quindi sia necessaria una profonda riflessione che a mio avviso potrebbe e dovrebbe essere non solo normativa, ma anche politica”. Il guardasigilli si è soffermato sul tema degli accessi informatici abusivi anche nel corso della cerimonia di conferimento del “Sigillo di San Gerolamo” che lo ha visto protagonista, svoltasi ieri mattina nell’aula magna del Tribunale di Milano. L’iniziativa è stata organizzata dal Coa milanese presieduto da Antonino La Lumia. “Non sto a ricordare - ha affermato il ministro della Giustizia - quanto sia facile oggi entrare nei sistemi di informazione e quanto altrettanto facile sia manipolarli. Questo renderà molto delicato il lavoro di magistrato e dell’avvocato perché la captazione più o meno lecita di dati ultrasensibili nel cervello elettronico”, come pc, smartphone, banche dati, “darà la possibilità di conoscere ma anche di manipolare”. Un altro esponente dell’esecutivo, il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani rileva l’esigenza di individuare il “regista” dei dossieraggi. Il responsabile della Farnesina non ha escluso l’ipotesi di una attività svolta “per conto di servizi stranieri”: “Il fatto grave è che ci sia un Grande Fratello che cerca di tenere sotto controllo quello che fanno gli italiani”. “Sono molto preoccupato per quello che è accaduto - ha detto Tajani - e mi auguro che non stia continuando ad accadere in questi giorni, in queste ore. Certamente qualcosa di inquietante è successo. Servizi stranieri? Una cupola? Non sappiamo chi è il mandante di questi accessi illegali per scoprire questioni private di migliaia di persone. Dobbiamo scoprire la verità perché è inconcepibile, in una democrazia come la nostra, che la vita privata di tante persone finisca nelle mani dei giornali. È lo scandalo più grave degli ultimi mesi”. Anche il ministro della Difesa, Guido Crosetto, è intervenuto ieri sulla vicenda. “Sono convinto - ha affermato - che sia molto importante portare avanti il percorso di audizioni, di lavoro e di analisi che la commissione antimafia e il Copasir hanno iniziato, a seguito della richiesta di audizione da parte dei magistrati Cantone e Melillo in relazione al “caso dossier” iniziato da una mia denuncia. Penso che il loro lavoro sia il prodromo per cogliere lo spunto di riflessione che il ministro alla Giustizia Carlo Nordio ha offerto al Parlamento e su cui concordo pienamente: valutare se sia necessaria l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta”. La commissione, a detta di Crosetto, “potrebbe approfondire i temi più rilevanti ed oscuri che sono emersi finora, indagando sull’abuso nell’utilizzo delle banche dati, sulle regole che ne possono consentire il controllo, sull’esistenza di un sistema di dossieraggio, su eventuali mandanti o beneficiari, sui poteri necessari per difendere lo Stato e i controlli per evitare l’abuso di tali strumenti”. Dall’opposizione il leader pentastellato Giuseppe Conte chiede che la procura vada fino in fondo e faccia tutte le verifiche necessarie. “Il M5S - ha commentato l’ex premier - non prende sottogamba l’inchiesta. Noi siamo parte lesa, anzi la prima: io stesso quando ci sono stati questi accessi abusivi a tutte una serie di persone che ruotano nella mia sfera personale ero presidente del Consiglio”. Il deputato di Azione, Enrico Costa, si sofferma sulle “lacune normative” e anticipa una proposta in Parlamento per contrastare la diffusione arbitraria di notizie riservate. Dossieraggio, la proposta di Nordio e l’imbarazzo Pd: “Sì a commissione d’inchiesta” di David Romoli L’Unità, 9 marzo 2024 “Violazioni anche in passato ma ora è il punto di non ritorno”, chiosa il ministro. Che pensa a una nuova stretta sulle carte riservate. Imbarazzo nel Pd. È il turno di Nordio. Il guardasigilli dice la sua sul dossieraggio, faccenda i cui contorni e le cui reali dimensioni continuano a essere incerti e offuscati, e ci mette il carico pesante: la commissione d’inchiesta. Nordio parte dall’audizione in effetti fragorosa di Cantone: “Ha usato parole estremamente forti, quindi credo sia necessaria una riflessione profonda sulle violazioni del diritto alla riservatezza. C’erano già state in passato ma ora abbiamo raggiunto un punto forse di non ritorno”. Di qui la proposta di una commissione parlamentare d’inchiesta, ipotesi già discussa la sera prima con Crosetto, il ministro che con la sua denuncia ha dato fuoco alla miccia e che si dice ora “disponibile” a essere audito dal Copasir. Lunedì il cdm affronterà l’argomento ed è evidente che verrà discussa anche l’idea della commissione d’inchiesta, informalmente dato che è di pertinenza non del governo ma del Parlamento. Non si prevedono obiezioni: tutta la maggioranza si è già detta d’accordo con il governatore della Lombardia Fontana aggiuntosi al coro col suo acuto. Le parole di Nordio sembrano però indicare anche la possibilità di nuove misure restrittive sulla pubblicazione di materiale coperto dal segreto d’ufficio. È significativo che una proposta simile non sia stata commentata a caldo da nessun esponente del Pd. Per chiunque conosca i codici della politica l’imbarazzo del Nazareno è evidente, messo a nudo dal silenzio degli ultimi due giorni nonostante la massiccia carica della destra e forse anche più dalla brusca correzione di rotta alla quale è stata costretta la segretaria Schlein. Prima, probabilmente dando voce ai suoi veri umori, aveva gridato allo scandalo. Ma non era quella la posizione assunta fino a quel momento dagli esponenti del Pd, impegnati invece a fare muro in difesa delle testate sotto i riflettori. Schlein ha corretto: scandalo sì ma che non coinvolge né giornalisti né magistrati. Un mariuolo insomma, forse un paio. Ma neanche questa è la posizione degli opinion makers di area Pd, quelli che dettano la linea in tv. Da revocare in dubbio è proprio l’esistenza di uno scandalo. Una montatura destinata a sgonfiarsi presto. Ai pezzi grossi del partito non è rimasto altro che il silenzio, in attesa che i contorni del fattaccio si chiariscano definitivamente. Chi parla in privato lo fa per segnalare che il vero problema sono le falle nel sistema che si sono appalesate, tali che chiunque può fare incursioni a piacimento. Non che sia sbagliato, però è un evidente tentativo di parlar d’altro. Schlein ha solo risposto, nella tarda nottata di giovedì all’affondo della premier, che aveva chiamato direttamente in causa sia il Pd che De Benedetti. La segretaria definisce le accuse “deliranti” e conferma che quanto accaduto è “gravissimo” ma non può essere adoperato per ledere la libertà di stampa. L’imbarazzo evidente del partito di Elly non prova affatto il suo eventuale coinvolgimento. Non è neppure un indizio. Ma il Pd sa perfettamente come funziona in questi casi la giostra mediatica, avendola sfruttata più volte. Commissione d’inchiesta vuol dire trovarsi sotto un fuoco martellante e quotidiano, efficace o letale, a seconda dei punti di vista, indipendentemente dalle conclusioni dell’inchiesta. Tutt’altro stile adottano Conte e il M5s che replicano alla maggioranza con decibel altrettanto alti ma senza sminuire la portata dello scandalo. “La Procura deve andare fino in fondo e io sono la prima parte lesa: quando ci sono stati gli accessi abusivi su una sfera di persone ero premier”. La preoccupazione dei 5S è diversa da quella del Pd, anche se Conte aggiunge sempre il doveroso richiamo alla difesa della libertà di stampa. Ma quel che preme al Movimento è la difesa dell’Antimafia e in particolare del suo ex presidente eletto nelle liste pentastellate Cafiero De Raho. “Contro di lui e contro la Dna sono stati mossi attacchi indecenti. Nel centrodestra c’è chi teme la sua pluriennale esperienza e le conoscenze che mette a disposizione della commissione Antimafia”. In parte Pd e M5s sono certamente preoccupati per le possibili ricadute dello scandalo sul voto in Abruzzo, che però saranno probabilmente inesistenti. I problemi veri e lo scontro realmente all’arma bianca tra maggioranza e opposizione, con l’eccezione di Iv che stavolta è schierata con il centrodestra, inizieranno dopo il voto di domenica. Laudati si difende: “La Dna sapeva tutto dei miei dossier” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 marzo 2024 Il pm della Procura Antimafia pronto a respingere le accuse sulle veline illegali. “Zero abusi, non sono il capo degli spioni”. Due giorni dopo l’audizione del procuratore Raffaele Cantone agli organismi parlamentari - commissione bicamerale antimafia e Copasir - sul presunto dossieraggio a carico di politici e personaggi del mondo dello sport e dello spettacolo, nell’Ufficio giudiziario di Perugia si avverte, come riferito dall’Ansa, un clima di ancora maggiore riservatezza. Assente per altri impegni lo stesso procuratore. Il quale ha spiegato all’agenzia stampa, con cortesia e fermezza, di “non poter e voler aggiungere altro a quanto emerso”. “Dopo aver parlato nelle sedi istituzionali - ha sottolineato ancora Cantone - adesso bisogna ritornare nell’ombra e lavorare. Come è accaduto in questi mesi in cui abbiamo fatto tanta attività senza che nessuno abbia saputo niente”. L’obiettivo dei magistrati sembra quindi essere chiaro. Far abbassare il clamore mediatico sull’inchiesta che ruota intorno al finanziere Pasquale Striano e al sostituto procuratore della Dnaa Antonio Laudati e lavorare spediti per fare piena luce su un’indagine che sembra dover ancora svelare molti e delicati aspetti. Tuttavia, proprio nell’audizione pubblica di due giorni fa davanti ai commissari di Palazzo San Macuto da parte dell’ex presidente dell’Anac, una figura che pare essere evaporata è proprio quella di Antonio Laudati, finito nell’inchiesta insieme al presunto agente infedele, a quattro giornalisti di Domani e ad altre persone. Fino a pochi mesi fa, Laudati era responsabile all’interno degli uffici di via Giulia del gruppo Sos - Segnalazione operazioni sospette - ed ora è in procinto di andare in pensione. Da quanto dichiarato da Cantone, sembra tuttavia che le responsabilità maggiori siano del tenente della Guardia di Finanza e di altri agenti infedeli, considerati altresì i nuovi fascicoli aperti dalla procura capitolina su altri accessi abusivi alle Sos dopo l’allontanamento di Striano. Laudati non è stato ancora interrogato e falsa è la notizia emersa giorni fa secondo la quale si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere. Chi ha avuto modo di parlare nelle ultime ore con il sostituto procuratore antimafia spiega che il magistrato intenderebbe puntare la propria difesa su alcuni particolari aspetti. Tutto avrebbe inizio con una relazione di servizio di Laudati del novembre 2022. Dopo una comunicazione della procura di Roma avrebbe verificato, insieme ai componenti del servizio sos, che nessun accertamento era mai stato effettuato dal suo ufficio nei confronti del ministro della Difesa Guido Crosetto. Quello che veniva invece fuori sarebbe stato un accesso dagli uffici della Guardia di finanza del nucleo di polizia valutaria nell’ottobre 2022, in particolare nella banca dati “Serpico” dell’Agenzia delle entrate, che non è in dotazione alla Dnaa. Sarebbe stato proprio Striano, che in quel periodo lavorava tre giorni presso la Dnaa e tre giorni presso la Gdf, ad effettuare l’accesso dal quale sarebbe stata acquisita la dichiarazione dei redditi di Crosetto, con la indicazione dei compensi ricevuti, poi pubblicata sul quotidiano Domani. Quello che Laudati avrebbe riferito ai suoi confidenti è che è evidente come la Dnaa e lui sarebbero del tutto estranei ai fatti perché la responsabilità sarebbe da addebitare solo a Striano e ai suoi rapporti con un giornalista di Domani. Quindi il magistrato antimafia respingerebbe al mittente le dichiarazioni difensive del tenente della Gdf che lo chiamerebbero in causa. Come responsabile del Gruppo sos, il compito di Laudati era quello di delegare approfondimenti investigativi, di controllare le attività di pre-investigazione e di formulare delle proposte di atto di impulso, ma solo nell’ambito di attività di contrasto alla criminalità organizzata e al terrorismo. Tutti gli atti erano sottoposti al visto del procuratore nazionale antimafia, che poi li trasmetteva alla Dda territoriali. Nulla a che fare quindi con quanto sta emergendo sulla stampa nelle indagini della procura del capoluogo umbro. Laudati avrebbe ricostruito con le persone a lui vicine la cronologia dei fatti ed espresso la sua amarezza per il clamore mediatico che lo sta circondando e che ipotizza attività di spionaggio e ricatti, con il passaggio all’esterno di una copiosa mole di atti che sarebbero coperti da segreto. A Laudati vengono contestati tre episodi ma a suo dire, come avrebbe confidato alle persone a lui vicine in questi giorni, si tratterebbe di normali investigazioni, determinate da esigenze tematiche per il contrasto alla infiltrazione della criminalità organizzata nel sistema economico e finanziario e approfondimenti altamente specializzati solo a perseguire gli obiettivi investigativi del suo ufficio. Da quanto siamo riusciti a capire, in tutte e tre le procedure Striano era stato delegato da Laudati per le indagini il gruppo sos della Dna. Riguardo al primo episodio la questione investigativa assegnata al gruppo sos era quello della infiltrazione dei clan sul litorale romano. In particolare dopo le vicende di Ostia e del clan Spada vi erano notizie sulla presenza di speculazioni mafiose nella zona di Santa Marinella: si trattava, in sintesi, della vendita di un terreno e del Convento della Congregazione per realizzare una speculazione edilizia ed era stata presentata una denuncia alla procura di Civitavecchia; vi era stato anche un incendio doloso di un noto ristorante di proprietà di uno degli acquirenti. A quanto risultava il terreno su cui era stato realizzato il Convento era stato donato dal Comune di Santa Marinella alla Congregazione per realizzare una chiesa che era frequentata dal Presidente Scalfaro e dal Presidente Ciampi che avevano abitazioni nelle vicinanze. Laudati avrebbe chiesto di verificare al gruppo se vi fossero elementi per fare degli approfondimenti. Ne era scaturita la presenza di informazioni reputate interessanti per la loro singolarità. Infatti l’acquisto era stato effettuato da una società costituita al momento del preliminare, la cui amministratrice era una casalinga di 86 anni senza alcun reddito, che tuttavia si impegnava a versare in pochi mesi quasi 5 milioni di euro. Tra i componenti della società vi erano uno o due soci segnalati o condannati per riciclaggio di denaro della ‘ndrangheta. Dato questo quadro Laudati avrebbe deciso di chiedere l’apertura di un dossier per un atto di impulso ed utilizzando gli articoli di stampa che gli sembravano più aderenti ai fatti. Avuta l’autorizzazione, chiese al gruppo di redigere una relazione informativa ed avanzò poi una proposta di impulso al Procuratore nazionale antimafia, che sarebbe stata immediatamente accettata e trasmessa alla Dda competente di Roma. Secondo quanto riportato da alcuni organi di stampa in questi giorni, il magistrato avrebbe avviato a fine maggio 2021 una personale battaglia per fermare quella speculazione immobiliare di fronte alla sua casa, nei pressi del castello di Santa Severa, con la complicità del finanziere Pasquale Striano. Ma Laudati sarebbe pronto a smentire tale circostanza: che fosse proprietario, da anni, di un appartamento a Santa Severa, acquistato con un mutuo, sarebbe una circostanza assolutamente, secondo quanto da lui riferito ai suoi amici, “inconferente e sinceramente offensiva”. Il magistrato non riuscirebbe a comprendere quale sia l’interesse o il vantaggio; se fosse così, avrebbe detto, tutti i pm che possiedono immobili sul territorio dove operano organizzazioni mafiose non dovrebbero condurre le indagini. Laudati si sarebbe confidato, ma con meno dettagli, anche sul secondo episodio che lo interessa e che riguarderebbe ipotesi di riciclaggio nelle società sportive dilettantistiche e del ruolo dei procuratori sportivi. Avrebbe ribadito di aver seguito le consuete procedure ma di escludere categoricamente di aver avuto interesse o di aver voluto arrecare danno ad alcuno. L’ultimo episodio riguarda la Figc. In sintesi occorreva approfondire l’acquisizione della Salernitana e la natura giuridica della Figc ed il ruolo del fondo inglese nelle vicende del calcio italiano. Nelle more degli approfondimenti, secondo quanto riferito da Laudati alle nostre fonti, il procedimento penale era stato trasmesso dalla procura di Salerno per competenza alla procura di Roma, per cui, dopo una discussione tra i componenti del nuovo gruppo sos della Dna, si era deciso di inoltrarlo per unione agli atti al procedimento in corso a Roma. Anche in questo caso la trasmissione è stata disposta dal procuratore nazionale, al quale erano stati sottoposti gli atti. Laudati non avrebbe avuto nessun interesse verso i patron del calcio Gravina e Iervolino. Dietro la giustizia colabrodo: poche risorse ma anche magistrati impreparati di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 marzo 2024 Toghe anziane e con scarsa conoscenza del mondo informatico. A permettere le incursioni nelle banche dati e le fughe di notizie è anche l’impreparazione culturale della magistratura. Il caso di Napoli. È l’unica cosa certa emersa finora dalla vicenda “dossieraggio” e dalle audizioni dei procuratori Melillo e Cantone alla commissione Antimafia: gli uffici giudiziari sparsi per il paese, e non solo la procura nazionale antimafia ai tempi di De Raho e degli accessi abusivi del finanziere Striano, sono un colabrodo in termini di sicurezza delle strutture informatiche e di controllo delle procedure di accesso alle banche dati. “Va sottolineata la straordinaria debolezza delle nostre reti informatiche, soprattutto dell’amministrazione della giustizia”, ha detto Giovanni Melillo all’Antimafia. Concetto ribadito il giorno seguente dal procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, che indaga sugli accessi abusivi alle banche dati della Dna: “Il tema delle infrastrutture informatiche evidenzia che ovunque ci sono accessi abusivi. C’è bisogno di meccanismi contro gli attacchi esterni, ma anche rispetto agli attacchi interni le banche dati sono vulnerabili”. Insomma, anziché strumentalizzare per fini elettorali le risultanze ancora parziali dell’indagine perugina, i partiti farebbero meglio a concentrarsi sull’unico tema per ora certo: servono investimenti urgenti per ammodernare le infrastrutture informatiche del nostro sistema giudiziario. Ma oltre alle infrastrutture, sembra necessario interrogarsi anche sul livello di preparazione professionale degli stessi magistrati, chiamati a coordinare, ma anche a controllare, l’attività svolta dalla polizia giudiziaria da loro delegata alle indagini. Quante toghe sanno cos’è un malware o un attacco backdoor? Quante conoscono il meccanismo di funzionamento di un trojan, a cui ormai si ricorre con sempre maggiore frequenza per intercettare gli indagati? A pesare sulla preparazione dei magistrati al mondo informatico è innanzitutto una questione generazionale: l’età media delle toghe italiane è di 51 anni, mentre a svolgere le attività informatiche sono solitamente ufficiali di polizia giudiziaria poco più che trentenni. Durante l’audizione in commissione Antimafia, Cantone (60 anni) ha ironizzato ammettendo di essere “assolutamente negato sull’informatica”. Melillo (64 anni) si è invece presentato accompagnato da un giovane Maggiore della Guardia di Finanza, nuovo responsabile del gruppo Sos (segnalazioni operazioni sospette), nel caso in cui gli fossero state rivolte domande di particolare complessità tecnica. Nel corso della sua lunga audizione all’Antimafia, Melillo ha illustrato tutti gli interventi organizzativi e relativi all’infrastruttura tecnologica adottati per porre fine alla situazione di colabrodo della procura nazionale antimafia. Proprio Melillo, però, è stato suo malgrado protagonista di una vicenda paradossale quando era procuratore di Napoli, attorno a uno dei casi giudiziari più rilevanti degli ultimi anni: quello su Luca Palamara e le cosiddette nomine pilotate al Consiglio superiore della magistratura. Una volta sgonfiatasi l’attenzione mediatica sul caso, infatti, si è scoperto che negli uffici della procura di Napoli erano presenti - senza che Melillo lo sapesse - i server della società Rcs, che aveva realizzato le intercettazioni tramite trojan nel cellulare di Palamara per conto della procura di Perugia. Una volta scoperta l’esistenza dei server, Melillo ha subito sospeso ogni attività di Rcs e proprio nei confronti della società sono state aperte due inchieste, una a Firenze e una a Napoli, con l’accusa di aver immagazzinato i dati intercettati violando le norme previste dalla legge. In particolare, come già raccontato sul Foglio un anno fa, da consulenze tecniche effettuate da esperti informatici è emerso che i server di Rcs non avrebbero agito soltanto da “transito” delle intercettazioni, ma avrebbero elaborato i dati prima di inoltrarli alla procura perugina. Dalle verifiche effettuate sono emerse anomalie nell’uso del trojan e addirittura manipolazioni dei risultati ottenuti. A proposito di corretta gestione dei nuovi strumenti informatici. Regole e diritti calpestati. Che c’entra la libertà di stampa? di Iuri Maria Prado L’Unità, 9 marzo 2024 Non si creda che la “libertà di stampa”, il “diritto dei cittadini a essere informati” e il “dovere dei giornalisti di dare le notizie” costituiscano solo il fascio di gagliardetti retorici messo a presidiare il giro di veline e i traffici del cosiddetto giornalismo d’inchiesta con le procure della Repubblica e con il mandarinato anonimo dello spionaggio di Stato. Quei presunti valori costituzionali, infatti, sono impropriamente chiamati alla protezione di una cultura più vasta e penetrante, che di quel cosiddetto giornalismo d’inchiesta è semmai l’utilizzatrice finale. Mezza da polizia segreta zarista e mezza da sgherri di una fungibile junta sudamericana, quella pratica giornalistica, che compila liste di nomi da monitorare e fa ricettazione di pezzi di mattinale e abbozzi di indagini che dovrebbero essere riservate, è asservita in realtà al precetto di legalità farlocca della cultura inquisitoria e antimafia che non solo non ripudia, ma anzi promuove, la ricerca della presunta verità facendo piazza pulita delle regole di giurisdizione e dei diritti dei cittadini, le une e gli altri considerati spiacevoli impicci sulla via per perseguire il bene di cui si fanno interpreti, in consorzio, lo strapotere inquirente e il giornalista di complemento. Che lo Stato si munisca persino di una Commissione parlamentare intestata “all’antimafia” e di una apposita Procura Nazionale e che, non casualmente, vengano da lì i sentori di certe nefaste compromissioni, è il segno di quanto poco il fenomeno possa essere attribuito solo ad accidentali malversazioni e a un malcostume poco sorvegliato. Nel giro di pochi giorni abbiamo avuto una condanna in appello di un magistrato, Davigo, accusato di rivelazioni di segreti d’ufficio e pesantissimi indizi circa l’organizzazione dello spionaggio proprio nel ventre dell’antimafia giudiziaria. E tuttavia rimane consegnata all’ineffabile l’immagine del presidente grillino dell’Antimafia che riceve i bisbigli di quel magistrato “nella tromba delle scale” del Consiglio superiore della magistratura, mentre si attribuisce alla presenza di qualche sperduta mela marcia e a inopinate difettosità funzionali quel che sempre più appare come un elemento costitutivo di quelle articolazioni dello Stato, cioè il fatto che siano sistematicamente prestate o almeno esposte al lavoro sporco che affastella “notizie” da riversare nel giacimento ricattatorio da cui pescare al momento buono. È la cultura che ha fatto giustizia in Italia negli ultimi decenni, la cultura in nome della quale si celebra il verbo delle intercettazioni, si sacrificano sino all’annullamento i diritti della difesa e si ordinano ed eseguono i rastrellamenti giudiziari con il magistrato eponimo che annuncia il trionfo della sua rivoluzione in faccia a una foresta di telecamere e tra due ali di carabinieri. A fornire la pasta giustificativa e narrativa di questa cultura è appunto quel presunto giornalismo d’inchiesta, ma esso si limita a mettere in bella copia (si fa per dire) una pretesa che in realtà lo sovrasta e lo comanda, vale a dire che al buon fine del trionfo sulla corruzione e sulla delinquenza organizzata possano essere apprestati mezzi che, col sigillo dello Stato, organizzano un sistema corruttivo e delinquenziale anche più grave rispetto a quello che vorrebbero combattere. Viene dal preteso “bene” dell’antimafia, dal preteso “bene” che la giurisdizione poliziesca persegue abbattendo i diritti che si frappongono al suo lavoro, viene dal nocciolo originario di quella giustizia il male che si fa finta di identificare in una allarmante aberrazione mentre ne è la sistematica premessa e l’inevitabile destinazione. Quel giornalismo è il pus di un’infezione ben più profonda. Noi giornalisti prigionieri di un’insensata sputtanopoli di Errico Novi Il Dubbio, 9 marzo 2024 Da trent’anni direttori ed editori ci intimano di produrre scoop giudiziari che squalifichino la politica. Risultato: rispetto a prima di Mani pulite, i lettori dei quotidiani sono crollati. Forse è ora di sottrarsi a questo perfido incantesimo. Erano i giorni caldi del delirio Consip. Delle accuse ad Alfredo Romeo, oggi editore di Riformista e Unità, indagato per megacorruzione in un presunto intreccio, poi smentito, con Renzi padre. Un collega, che ho sempre considerato un modello, un esempio a cui guardare, mi rivela in un fugace incontro in metro: “Al giornale mi hanno messo in croce perché non avevo la notizia uscita sul Fatto”. Notizia, per inciso, riferita dal quotidiano di Marco Travaglio in violazione, come al solito in questi casi, del reato di cui all’articolo 684 del codice penale che, per chi ancora non conoscesse la barzelletta, punisce chiunque pubblichi illegalmente atti d’indagine con ben 51 euro di ammenda. Resto meravigliatissimo del racconto, sconcertato soprattutto dal dover leggere l’avvilimento dell’impotenza negli occhi di un fuoriclasse della cronaca giudiziaria. Poi naturalmente la febbre da Consip passò. Ci buttammo su altre anticipazioni illecite, finché non arrivammo addirittura al clou dell’hotel Champagne, al corto circuito cognitivo che ha riscritto la storia del giornalismo giudiziario e della magistratura. Ma quell’incontro in metro non mi è mai passato di mente. Ho sempre pensato a quanto sia folle un sistema editoriale che intima ai migliori giornalisti di produrre notizie in violazione della legge, dei diritti degli indagati, della dignità umana e, in ultima analisi, della stessa tenuta democratica. Me lo chiedo perché adesso leggo di altri cronisti di straordinario valore compulsare a loro volta altre fonti perché si affrettino a inviare i file, per esempio, sulle indagini di Perugia, manco fosse l’ordinativo di un fornitore che tarda a consegnare la merce. Pur nel quadro di una magistratura assai meno idolatrata rispetto alla golden age di Mani pulite, pendiamo ancora dal wikileaks giudiziario. Siamo messi male. Ma su di noi incombono direttori e a volte editori che ci chiedono essenzialmente una cosa: alimentare la sputtanopoli. Portare notizie che squalifichino la politica, non si sa bene se per vendere copie, compiacere gli avversari della vittima o per un mix tra i due propositi. Dite quel che volete, ma noi giornalisti siamo anche i forzati di un sistema, di una macchina dell’informazione che reclama di continuo infrazioni del segreto istruttorio, soprattutto a danno dei politici, che rincorre le vendite con scoop giudiziari schiacciati sul punto di vista dell’accusa. E mi chiedo una cosa: è davvero un caso se, da quando, con Mani pulite, la cronaca giudiziaria sbilanciata sulle presunte malefatte dei politici ha acquisito in Italia uno spazio mai avuto prima, si è progressivamente aggravata la crisi dei giornali? Siamo proprio sicuri che delegittimare di continuo la politica renda un servizio alla democrazia? E che quando, prima del ‘92, i quotidiani si occupavano soprattutto di battaglie tra i partiti, di lotte sociali, di conquiste del lavoro, oltre che di emergenze come il terrorismo e le stragi, i cronisti fossero dei pusillanimi embedded, al cospetto della nostra fiera autonomia? Siamo davvero convinti che aver consegnato le chiavi della democrazia ai magistrati coincida con l’interesse dei cittadini? Me lo chiedo e ancora una volta dico: confrontiamo le copie, o le visualizzazioni on line, con i lettori che i giornali vantavano fino a trent’anni fa, e cerchiamo di capire fino a che punto tutto questo ci conviene. E se non si tratti di un perfido inganno del quale, dopo trent’anni, sarebbe forse ora di liberarsi. L’informazione è in coma, in mano a un pezzo vasto e corrotto del giornalismo giudiziario di Piero Sansonetti L’Unità, 9 marzo 2024 La grande maggioranza del giornalismo italiano è fatta da gente seria e onesta. Il problema è che il potere è in mano a un pezzo vasto e corrotto del giornalismo giudiziario, che ha reso prigioniero il mondo dell’informazione. Mercoledì il capo della Procura nazionale antimafia, Giovanni Melillo, e ieri il Procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, hanno illustrato le dimensioni del dossieraggio messo in piedi da una associazione di giornalisti e uomini della procura antimafia. Dimensioni paurose. Melillo e poi Cantone hanno anche spiegato che un’operazione così vasta - parliamo di decine di migliaia di atti di spionaggio su cittadini privati - non può essere considerata opera di un sottufficiale della Guardia di Finanza e di tre giovani cronisti. È impensabile. È chiaro. I due magistrati hanno detto che si è messa in moto una macchina molto molto più grande. Cosa possiamo dedurre da queste dichiarazioni-bomba rilasciate in modo ufficialissimo di fronte alla Commissione parlamentare antimafia? Che la politica e la vita pubblica italiana sono inquinate da una attività illegale che le condiziona e le imbarbarisce. Questo è certo. Poi però, se leggete un po’ i giornali, capite un’altra cosa. Che esistono gruppi solidi di giornalisti, che in gran parte controllano molte delle scelte editoriali dei loro giornali, che lavorano con un metodo simile a quello che pare sia stato usato dal Domani. Ottengono informazioni riservate da vari centri di potere della magistratura o dei servizi segreti, le usano per fare degli scoop, o per danneggiare personaggi della politica o dell’economia, oppure le usano per “metterle da parte” e farci qualcosa. Non sappiamo cosa, non sappiamo quando. Il numero delle intrusioni illegali che pare siano avvenute in questi anni - non sappiamo ancora come, e su mandato di chi - fa capire che una grandissima parte di queste informazioni sono state “incamerate” e non utilizzate. Non sappiamo a carico di chi, non sappiamo dove si trovino ora, non sappiamo a quale scopo possano essere usate. Non sappiamo, non sappiamo, non sappiamo. Già. Però una cosa la sappiamo: il giornalismo italiano - diciamo: gran parte del giornalismo, non tutto per fortuna, ma certo quello più attivo e più influente - è devastato da questi metodi e da questa idea di giornalismo che col giornalismo c’entra ormai molto poco. È un problema molto grave, perché mette in discussione il buon funzionamento di una democrazia moderna. Una democrazia moderna non può funzionare in assenza di una struttura dell’informazione, e di un ceto giornalistico, almeno entro certi limiti onesti e liberi. In Italia non è più così. E questa particolarità la rende diversa da gran parte dell’Occidente. La cosa più grave è che il giornalismo è in coma. La causa di questa atroce degenerazione - che mescola e confonde giornalismo e spionaggio - non va trovata nell’oppressione di un potere politico, come in genere succede nei regimi autoritari, ma ha cause interne. Nasce dalle scelte di gran parte del mondo imprenditoriale che controlla l’editoria, e dal degrado nel quale è caduto gran parte del giornalismo che conta. È una china iniziata circa 30 anni fa. E oggi al traguardo. Statene certi: la grande maggioranza del giornalismo italiano è fatta da gente seria e onesta. Anche molto capace professionalmente. Il problema è che questa gente conta niente. Il potere è in mano a un pezzo vasto e corrotto del giornalismo giudiziario, che ha invaso il mondo dell’informazione e lo ha preso prigioniero. Non siete onnipotenti: dalla caduta di Davigo una lezione per le toghe di Tiziana Roselli Il Dubbio, 9 marzo 2024 La tentazione c’è a pensare quanto sia facile oggi stringere virtualmente le manette ai polsi di un ex potente, temuto membro del pool Mani pulite. Ma tutto ciò non dà nessuna soddisfazione, ai cultori dello Stato di diritto. Adesso ce l’hanno tutti con lui. Precipitato nella polvere peggio di Chiara Ferragni, Piercamillo Davigo è stato condannato anche in appello. Proprio lui che è stato sempre contrario ai tre gradi di giudizio, ora attenderà la Cassazione, assistito da un bravo avvocato come Davide Steccanella, abituato più ai “prigionieri politici” che non ai piercavilli. La tentazione c’è, per chi conosce questo mondo della giustizia dove tutto pare più approssimativo che rigoroso e spesso anche vendicativo, a pensare quanto sia facile oggi stringere virtualmente le manette ai polsi di un ex potente, e a quanto sarebbe stato difficile se non impensabile farlo quando il dottor Davigo era il rispettato e temuto membro del pool Mani pulite di Milano. O quando era giudice di Cassazione. O capo del sindacato (Anm) delle toghe. O membro di quel Consiglio superiore della magistratura da cui non avrebbe voluto più staccarsi, tanto da correre e ricorrere in ogni ambito possibile pur di restare incollato lì anche da pensionato. Certo, è un pensiero malizioso. Ma stiamo affogando nella melma dei dossier, delle spiate, degli scoop pelosi e pelosissimi. E della disinvoltura con cui divise e toghe hanno maneggiato la nostra vita, la nostra salute, i nostri risparmi, quasi le nostre lenzuola. Per quale motivo dovremmo essere sereni per una banale sentenza di condanna a un anno e tre mesi di carcere, che casca casualmente in questi stessi giorni, solo perché il condannato si chiama Piercamillo Davigo? Forse solo perché chi la fa l’aspetti, e tiè brutto sbirro beccati questa, e la nemesi storica colpisce sempre, e non esistono innocenti ma solo colpevoli che ce l’hanno fatta, e volevi rovesciare l’Italia come un calzino ed eccoti il calzettone? Tutto ciò non dà nessuna soddisfazione, per noi cultori dello Stato di diritto, un po’ come gli applausi alle sentenze di ergastolo. Cui qualcuno di noi è contrario perché lo ritiene incostituzionale. E anche se il mostro di Londra ci ripugna, se dovesse esser giudicato in Italia vorremmo consentire anche a lui, come a tutti, una via d’uscita. Per questo vorremmo esser tranquillizzati sulla sorte del dottor Davigo. E non vorremmo essere influenzati, nel nostro giudizio sui suoi comportamenti (mai ci permetteremmo di giudicare la persona), in questa stravagante vicenda della loggia Ungheria, dal sospetto che si sia mosso soprattutto in odio al suo collega ex amico ed ex cofondatore di una corrente sindacale, Sebastiano Ardita. Ma non ci piacerebbe neanche sapere che dei giudici bresciani, di primo o secondo grado, abbiano pensato di dare una lezione a uno che li considera dei cretini. E che ha detto che non capiscono niente. Il che, se ci pensiamo bene, non è una stranezza, perché i piercavilli più e meno considerano cretini tutti gli altri. Certo, lui ne ha combinate delle belle. Certo, avremmo preferito che, quando ha cominciato a volantinare a mezzo Csm e oltre, si fa per dire, con la chiavetta che conteneva le dichiarazioni dell’avvocato Pietro Amara, legale esterno dell’Eni, sulla loggia Ungheria, fosse mosso da motivi di alta giustizia. Il pm Paolo Storari, per dire, cioè colui che si era rivolto a Davigo in quanto membro del Csm, qualche buon motivo l’aveva. Un motivo di ribellione nei confronti dei suoi superiori, il procuratore capo Francesco Greco e l’aggiunta Laura Pedio, a suo parere inattivi su quelle dichiarazioni. In aggiunta, con un retropensiero. Che cioè volessero tenere sotto spirito un testimone prezioso per l’accusa nei confronti dei dirigenti Eni che erano in qui giorni processati dal Tribunale. Un teste-chiave la cui attendibilità non andava messa in discussione, cosa che sarebbe invece accaduta se la Procura avesse aperto un fascicolo e lo avessero indagato per calunnia. Il dottor Davigo pareva invece mosso più da problemi personali. Ma non è detto che questo aspetto sia rilevante. Il punto giuridico è se lui tutta questa attività extralavorativa la potesse svolgere. Lui sostiene di sì, i giudici lo hanno ritenuto responsabile del reato di violazione del segreto d’ufficio. Ma c’è un problema di “andazzo”. E la domanda è questa: l’ex pm, quando agiva in questo modo disinvolto, per esempio quando faceva partecipe del segreto un parlamentare, il presidente della bicamerale antimafia Morra, lo faceva perché la sua supponenza giuridica lo ha sempre fatto sentire nel giusto? O invece perché il suo passato nella Procura di Mani Pulite lo aveva abituato a certe disinvolture, a un certo “andazzo”? O perché l’”andazzo” è generalizzato? Quello che si sta rivelando in questi giorni su certi comportamenti all’interno di un luogo delicato come la Direzione nazionale Antimafia non è così lontano dalle vicende più piccole, fatte di beghe, ripicche, vendette e tanta disinvoltura sulle procedure, in cui è finito invischiato il dottor Davigo. Ecco perché ci piacerebbe essere tranquillizzati. E sapere che, se l’ex pm di Milano ha commesso dei reati, ha subito lo stesso trattamento che sarebbe stato destinato a qualunque altro cittadino. Ma anche che, il famoso signor “chiunque” citato negli articoli del codice penale, da adesso, proprio da questo momento della vergogna, in cui tutti i giornalisti e tutti i magistrati e tutti i poliziotti coinvolti dovrebbero vergognarsi e voltare pagina, sarà trattato in un altro modo. E avrà giustizia. E ci sarà sempre “un giudice a Berlino”. E a Brescia. E in Cassazione. Contro il “legalese”. Anche la scrittura giuridica può essere chiara di David Cerri Il Domani, 9 marzo 2024 Le “tre leggi della scrittura”, argutamente delineate da un grande italianista come Claudio Giunta, che si prestano efficacemente ad un’applicazione nell’ambito giuridico, a cominciare dalla “legge di Borg”, ispirandosi al grande tennista. Il tema della scrittura giuridica è tornato prepotentemente d’attualità con la riforma Cartabia del processo civile, in particolare dopo i decreti di attuazione, che tra le altre cose hanno dettato prescrizioni sui limiti dimensionali e le caratteristiche anche formali degli atti, sia per gli avvocati che per i giudici. Di qui l’iniziativa della Scuola Superiore dell’Avvocatura - Fondazione del Consiglio Nazionale Forense - di attivare un primo corso di formazione, che ha visto l’inizio il 1 marzo in Roma. Programmato per svolgersi in altre tre giornate, l’intento è in primo luogo quello di presentare le novità normative come un’opportunità, e non come una “punizione” per l’avvocatura, destinata comunque e certamente a dover affinare la propria preparazione per la tutela di quegli interessi del cliente e della stessa collettività che le sono affidati dall’ordinamento. Nella riunione romana seguita a distanza da altri 250 professionisti in tutto il Paese, ho posto le basi per una riflessione, che parte da lontano, sulla necessità di un linguaggio chiaro e semplice. L’immediata comprensibilità, intanto, degli elaborati dell’avvocato è infatti la chiave per un successo: riprendendo un giurista statunitense, si può condividere l’opinione che “un documento ben scritto significa semplicemente che la scrittura consente al documento di raggiungere lo scopo previsto dall’autore”; conclusione peraltro non diversa dall’insegnamento della retorica tradizionale e della nuova retorica novecentesca. La considerazione stessa della figura dell’avvocato ha da lungo tempo risentito di quella sorta di handicap costituito da un linguaggio che Dostoevskij faceva descrivere da un personaggio di Delitto e castigo come “curialesco, burocratico...Non proprio sgrammaticato del tutto, ma neppure molto letterario; burocratico”. La constatazione della grave difficoltà della comprensione del linguaggio iniziatico proprio del sistema giustizia, ben nota a scrittori che sono stati presenti in parlamento, come Natalia Ginzburg, e a linguisti che hanno studiato a fondo il diritto, come Francesco Sabatini e Bice Mortara Garavelli, esige un rinnovamento della formazione forense anche sotto questo profilo. Rinnovamento peraltro già promosso dalla riforma ordinamentale del 2012, e successivamente precisato dalla disciplina per i corsi di formazione per l’accesso, che fanno un riferimento espresso alle “tecniche di redazione degli atti giudiziari in conformità al principio di sinteticità”, ed alla “teoria e pratica del linguaggio giuridico”. Più che un rinnovamento potrebbe anzi dirsi di un ritorno alla migliore tradizione classica; non è forse necessario ricordare la brevitas di Cicerone (il cui significato è in realtà assai più complesso di quanto il termine possa far intendere). La Scuola Superiore, già dalla conduzione del rimpianto Alarico Mariani Marini, ha sempre dedicato importanti energie a questi temi, diffondendo sul territorio la peculiare attenzione per l’argomentazione e la scrittura giuridiche. Le tre leggi della scrittura - L’intervento si è concluso col richiamo alle “tre leggi della scrittura”, argutamente delineate da un grande italianista come Claudio Giunta, che si prestano efficacemente ad un’applicazione nell’ambito giuridico, a cominciare dalla “legge di Borg”. Questa prima indicazione si traduce nel precetto: bisogna sempre impegnarsi. Il grande tennista rispondeva infatti al giornalista che gli aveva chiesto se ritenesse più impegnativo prepararsi per un match con l’uno o l’altro dei più famosi tennisti dell’epoca: “Mi impegna tutto, anche un set con mio nonno”. La seconda legge, quella del mafioso Silvio Dante - da un episodio della serie televisiva dei Sopranos - chiede semplicemente di scrivere chiaro; interpellato in un certo frangente da altro mafioso, che gira inutilmente intorno a una comunicazione presumibilmente sgradevole, Silvio risponde “Wanna say something? And say it then, Walt fucking Whitman, over here!”, che si potrebbe tradurre per noi italiani, in “Ma vuoi dire qualcosa? e allora dillo, maledetto Alessandro Manzoni che non sei altro!”. Forse la più importante, per i giuristi pratici, è l’ultima legge, quella di Catone il censore, cui è attribuito il detto “Rem tene, verba sequentur”, che Giunta traduce per noi in questa indicazione: per scrivere bene di una cosa, bisogna averla studiata seriamente. Il richiamo al retore latino ed alla sostanza della terza legge chiude, per così dire, il cerchio. Non solo infatti ricorda la tradizione culturale del giurista ed i principi fondamentali della sua formazione, ma collega direttamente i due momenti inscindibili dell’attività dell’avvocato (e del magistrato): l’argomentazione e la sua espressione, che dev’essere chiara e sintetica. Oggi c’è - finalmente - una norma generale che sul punto non potrebbe essere più esplicita: l’art.121 riformato del codice di procedura civile, nella cui rubrica possiamo leggere oggi anche la frase “Chiarezza e sinteticità degli atti”, che oltre a costituire un criterio interpretativo è la prova del recepimento di un indirizzo affermatosi già da molti anni nella giurisprudenza della Cassazione (per la quale il dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali già fissato dall’ art.3, c.2, del Codice del processo Amministrativo esprime un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile”) e favorito senza riserve dalla dottrina. D’altro lato, sono ingiustificati i timori per le conseguenze delle violazioni di quelle prescrizioni tecniche, visto che è espressamente esclusa dalla nuova normativa la previsione di sanzioni di inammissibilità o improcedibilità, mentre gli unici riflessi si potranno avere nella liquidazione delle spese (in diversi casi, forse, non senza ragione). Perseguibili d’ufficio le lesioni al coniuge inflitte in occasione dei maltrattamenti di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 9 marzo 2024 Anche se viene ritirata dalla parte offesa la querela contro il coniuge presentata per il delitto di maltrattamenti in famiglia compiuto anche con lesioni personali, non viene meno l’imputazione del responsabile. In quanto la remissione della querela non travolge la procedibilità del reato di maltrattamenti commesso contro il coniuge. E ciò anche dopo la Riforma Cartabia. A seguito della novella, infatti, a determinate condizioni, le lesioni personali contro il coniuge sono perseguibili a querela di parte, mentre il reato di maltrattamenti in famiglia si conferma perseguibile d’ufficio: la rimessione della querela non dispiega, perciò, alcun effetto sulla responsabilità penale dell’agente, che con comportamenti abituali anche se non continui abbia messo in uno stato di prostrazione il familiare attraverso l’uso di violenza fisica e psicologica. Così la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 9849/2024 - ha respinto il ricorso di un marito che pretendeva di far valere la remissione della querela da parte della moglie come mancanza della condizione di procedibilità dell’azione penale a suo carico. In effetti, dopo la condanna in primo grado la moglie dell’imputato aveva rimesso la querela con cui aveva espresso di essere stata vittima di lesioni personali e maltrattamenti per mano del coniuge. La condanna di primo grado, confermata in appello, in realtà distingueva le condotte imputabili al ricorrente in diversi capi, di fatto separando illogicamente le lesioni personali dai maltrattamenti. La Corte di cassazione precisa che, invece, appurata l’esistenza di un’abituale condotta maltrattante del ricorrente ai danni della moglie, le lesioni personali in tal caso erano il reato commesso “in occasione” del delitto previsto dall’articolo 572 del Codice penale. E specificatamente chiarisce, nel rigettare il ricorso, che le lesioni personali anche lievissime rimangono perseguibili d’ufficio se agite nell’ambito della condotta penalmente rilevante dei maltrattamenti in famiglia. Firenze. Sollicciano, detenuta incinta perde la sua bambina: “Ora vogliamo capire i motivi” di Stefano Brogioni La Nazione, 9 marzo 2024 Complicazioni nella gravidanza dietro le sbarre: la ventiseienne tunisina ha dovuto sottoporsi a un intervento di interruzione. La piccola Angela tenuta in grembo per 4 mesi. Il legale: “Chieste le cartelle cliniche”. Boschra, la tunisina che dopo il suo ingresso a Sollicciano ha scoperto di essere incinta, ha perso sua figlia. Sono sorte complicazioni nel corso della gravidanza e ieri la donna, 26 anni, all’ospedale di Torregalli si è sottoposta a un intervento di interruzione della gravidanza. Forse non è colpa di nessuno, ma è una sconfitta per tutti. Il suo legale, l’avvocato Sabrina Del Fio, non ci sta: “In questo otto marzo anche nascere è diventato un diritto per pochi - dichiara -. Ho fatto richiesta delle cartelle cliniche, vogliamo capire cos’è successo”. Nei primi giorni di marzo, Boschra ha cominciato ad avvertire i primi problemi. All’ospedale hanno visto una rottura nella placenta. La situazione è andata via via aggravandosi. Giovedì scorso, è stata riscontrata anche una perdita di liquido amniotico. Al suo legale, ieri, la tunisina, con il morale a terra, ha parlato anche di un’infezione vaginale. Sempre nei giorni scorsi i sanitari avevano informato la detenuta dei seri rischi che stava correndo il feto. La donna, a malincuore, avrebbe preso la decisione di interrompere la gravidanza. Si poteva evitare questo dramma? È la risposta che rimbomba nella testa di Boschra, dimessa ieri all’ora di pranzo da Torregalli e adesso di nuovo nella sezione femminile del penitenziario. Boschra è stata arrestata a novembre dell’anno scorso. È stata trovata in viale Europa con una valigia piena di droga. Una settimana dopo il suo ingresso in carcere, dai valori delle Beta affiorati in un esame, ha scoperto di essere incinta. È così cominciato un tortuoso percorso per cercare una custodia cautelare alternativa alla cella. Ma tra ostacoli e dinieghi, Boschra è sempre rimasta dentro. A fine gennaio, l’avvocato Del Fio era riuscita a trovare una collocazione per porla agli arresti domiciliari. Un primo controllo della polizia presso l’abitazione aveva fatto fare retromarcia al giudice: a quell’indirizzo risultava domiciliato un’altra persona con precedenti per droga. Nel frattempo, Boschra si era lamentata anche con le assistenti sociali di quanto fosse difficile far convivere gravidanza e detenzione. Quando il nostro giornale parlò di questa situazione, la Asl rispose con una lunga precisazione che smentiva la carenza di assistenza e puntava il dito anche sull’atteggiamento poco collaborativo della donna, che “più volte si è rifiutata di sottoporsi alle visite per poi cambiare idea”. Fatto sta che Sollicciano, il carcere di cui si parla spesso per le sue condizioni poco umane, ha fatto un’altra vittima. Di appena quattro mesi. Napoli. 8 marzo in carcere, visita alle detenute di Pozzuoli: una vera comunità penitenziaria di Andrea Aversa L’Unità, 9 marzo 2024 Diverse delegazioni del Partito Radicale, in occasione della Festa della donna, sono andate a trovare agenti, educatori e recluse, presso alcune delle case circondariali femminili d’Italia. “Prima o poi usciremo tutte da quel portone, non siamo fatte per stare qui dentro”, a dirlo è stata Teresa (nome di fantasia, ndr), prima dei nostri saluti. Prima che lasciassimo il reparto nel quale è detenuta. Oggi, 8 marzo, in occasione della Festa della donna ho fatto parte di una delegazione del Partito Radicale. Con Marco Cerrone membro del Consiglio Generale del partito e Ciro Cuozzo giornalista de Il Riformista, siamo andati a fare visita alle recluse che vivono nel carcere di Pozzuoli, in provincia di Napoli. Siamo stati accolti benissimo. A guidarci, con grande disponibilità, sono state la vice Comandante e dirigente della Polizia Penitenziaria Giovanna Grimaldi e la Funzionaria pedagogica Responsabile delle attività trattamentali dell’istituto, Adriana Entilla. Visita alle detenute del carcere di Pozzuoli in occasione della Festa della donna - Nel carcere femminile di Pozzuoli si respira un’aria diversa rispetto a quelle annusate, ad esempio, nei penitenziari di Poggioreale e Secondigliano. L’aver visitato una casa circondariale per le donne, è stata un’esperienza completamente diversa e molto significativa. Innanzitutto, le recluse hanno parlato - tutte - di almeno un aspetto: quello familiare. Quest’ultimo è ovviamente caratterizzato dal distacco tra madre e figlio. L’obiettivo delle detenute e mamme è quello di continuare a badare ai figli, di riabbracciarli il prima possibile, di garantire loro un futuro. Quello che abbiamo percepito, è stato l’essere entrati in contatto con una vera e propria comunità penitenziaria. Il carcere femminile di Pozzuoli - Solidarietà tra le recluse, rispetto con le agenti, ottimi rapporti con le educatrici, dialogo e confronto costante e proficuo, tra l’amministrazione penitenziaria e l’esterno, ovvero con il mondo del lavoro, il terzo settore e soprattutto la magistratura di sorveglianza. Tutta l’attività è focalizzata sul tenere quanto più impegnate possibile le detenute, attraverso attività ricreative e lavorative, cercando di proiettarle verso la vita fuori dal carcere. Quello di Pozzuoli è un penitenziario aperto alla società. A dimostrarlo, la presenza di otto tirocinanti, giovani studenti dell’università Suor Orsola Benincasa che stanno svolgendo un tirocinio per la facoltà di Scienze della Formazione. I numeri del carcere femminile di Pozzuoli - Il carcere femminile di Pozzuoli non è molto grande. Ex convento del 1580, è composta da tre sezioni, rispettivamente quella di accoglienza, quella di transito e quella dedicata alle detenute con problemi psichici. L’istituto penitenziario è composto da recluse di media sicurezza. Nella casa circondariale vige il regime di celle aperte. Le detenute semi libere possono trascorrere gran parte della giornata fuori dalla cella. Le altre godono di quattro ore d’aria al giorno, divise in due parti, al mattino e al pomeriggio, di due ore ciascuna. In carcere vi sono 160 detenute per una capienza regolamentare di 98 posti. Vi è, dunque, anche qui il problema del sovraffollamento. Ma quest’ultimo è più gestibile, sia per le piccole dimensioni della struttura che per l’esiguo numero di recluse. Soprattutto, la maggior parte di esse, è impegnata in attività ricreative e lavorative. Ciò consente di avere le celle, composte anche da 8-10 detenute, non sempre piene (tranne quando si dorme). Poi ci sono celle da 4 detenute, ma anche da 6-7 detenute. 96 di loro sono definitive, 19 sono straniere, 8 sono sotto controllo psichiatrico. Il personale della Polizia Penitenziaria e degli educatori non è in sottorganico (mancano solo alcuni ispettori). Diverse le attività trattamentali. C’è la famosa torrefazione di caffè che ha dato vita alla cooperativa delle Lazzarelle. Abbiamo conosciuto la vice Presidente e responsabile Paola Pizzo. Le Lazzarelle, la sartoria e la cioccolateria nel carcere femminile di Pozzuoli “Abbiamo assunto tre detenute - ci ha spiegato - Due sono impiegate nel bistrot che abbiamo aperto nella Galleria Principe (a Napoli, ndr), una lavora qui in carcere”. La dottoressa Pizzo sta parlando di Assunta, per tutti Susi: “Sono molto felice di lavorare qui - ci ha detto - È un modo per tenermi viva, responsabilizzarmi e darmi un obiettivo per il futuro”. Dal 2010 la cooperativa ha formato 70 ‘lazzarelle’. Ci sono poi una cioccolateria e una sartoria. Qui le signore Dora e Brigida coordinano e formano le detenute impiegate. Il progetto ha avuto inizio nel 2021 grazie alla ditta locale Palingem. In totale, le recluse che lavorano (tra quelle assunte e quelle in fase formativa), sono 18. L’orario lavorativo è dalle 8.30 alle 14.30, tutti i giorni. Teatro, fitness e manutenzione nel carcere femminile di Pozzuoli C’è il teatro, un’area fitness (sette detenute sono state formate come istruttrici, grazie alla collaborazione con il Centro Sportivo Italiano), la possibilità di lavorare come imbianchine (la struttura è un pò fatiscente ed essendo colpita da umido, muffa e salsedine, ha bisogno di una manutenzione costante), come giardiniere, negli orti. Le aree esterne sono anche utilizzate per i colloqui con le famiglie. C’è un negozio, una boutique gestita dalla Caritas, dove chiunque può portare vestiti e beni di prima necessità per le detenute che più hanno bisogno. C’è una biblioteca con 4mila libri, piccola ma che riesce a contenerli tutti. Ci sono, ovviamente, una cucina e una lavanderia, dove sono impegnate le detenute. Sanità, scuola e università nel carcere femminile di Pozzuoli Gli accessi sono piuttosto liberi e basati sul principio di rotazione tra le recluse. Poi c’è la scuola, un ‘presidio’ di cultura e inclusione aperto dalla mattina fino alle 8 di sera, “questo ci permette di coinvolgere quante più detenute possibili”, ha affermato un’insegnante. Sono iscritte 90 recluse, “ad oggi senza scuola non potrei stare”, ha dichiarato Vita. Vengono organizzati, a cadenza settimanale, laboratori di lettura e scrittura, con la partecipazione della scrittrice Maria Rosaria Selo. C’è anche il Polo Universitario della Federico II con tre detenute iscritte. Infine, il capitolo sanità. Secondo il responsabile per l’Asl Napoli 2, Luigi Liccardi, “siamo migliorati tantissimo, sia in termini di organico - che ad oggi è completo - che di macchinari a disposizione. Carcere femminile di Pozzuoli: cosa non va - Riusciamo a limitare al massimo le uscite delle detenute, consentendo loro l’assistenza sanitaria all’interno del carcere. Possiamo fare, ad esempio, radiografie, visite odontoiatriche e ginecologiche. I farmaci sono garantiti dall’ospedale di Pozzuoli. C’è una psichiatra in pianta stabile e ruotano quattro psicologhe”. Nel carcere femminile di Pozzuoli non ci sono donne incinte o madri con figli. Ma non è tutto oro ciò che luccica. “Io potrei già stare fuori ed avere accesso alle pene alternative - ci ha confidato Maria - e invece sto ancora qua dentro”. Ma qui il sistema penitenziario conta poco, il problema è a monte: nella burocrazia che caratterizza il sistema-giustizia. Usciamo dal carcere femminile di Pozzuoli - E c’è il fenomeno sismico del bradisismo: durante il terremoto del 1980 le detenute furono sfollate a Nisida. Oggi, la struttura, è nel cuore della zona rossa individuata dal governo e rientra tra gli edifici di prima evacuazione. “Siamo abituati e lo sono anche le detenute - ha precisato la dottoressa Entilla - Ora più nessuno fa caso alle scosse e dopo l’esperienza del 1980, siamo pronte a tutto”. Al termine del nostro giro, la Comandante Grimaldi ci ha salutate con un annuncio: “In occasione della festa della mamma abbiamo organizzato una giornata per le famiglie. Verranno qui dei clown, versione ‘Patch Adams’, così i figli delle detenute potranno giocare e divertirsi”. Magari, un giorno, molte di queste donne potranno essere madri che giocano liberamente con i propri figli. Perché Teresa ha ragione, nessuno è fatto per stare dentro un carcere. Palermo. Otto marzo, il Garante dei detenuti in visita all’istituto Pagliarelli livesicilia.it, 9 marzo 2024 La visita alla sezione femminile. Il garante regionale per i detenuti Santi Consolo, accompagnato dal dirigente e da una funzionaria del suo Ufficio, Pietro Valenti e Adriana Scaccianoce, si è recato per la festa della donna all’istituto Pagliarelli di Palermo al fine principale di visitare la sezione femminile. Nel corso della visita, l’ufficio si è recato presso un’area destinata ad attività sportiva; coperta, ampia circa 77 metri quadri, in ottimo stato di manutenzione, dotata di due tavoli di ping-pong e due tavoli di biliardino. Il garante ha incontrato molte delle 86 detenute presenti nella sezione femminile e ha chiesto loro le ulteriori attività sportive che, compatibilmente con la disponibilità degli ambienti, gradivano svolgere. Si è concordato anche con la coordinatrice Caterina Montedoro che si potrebbe attrezzare l’area sportiva con un tapis roulant, due cyclette e una panca per gli addominali. Soprattutto per il periodo estivo, l’area dovrebbe essere dotata di almeno tre ventilatori da soffitto Milano. Poesie per rompere il silenzio: “Mi sento un uccello in gabbia...” di Violetta Fortunati Il Giorno, 9 marzo 2024 Detenute a San Vittore celebrano l’8 marzo con poesie e trucco. Emozionante evento organizzato da volontari e istituzioni per donare un momento di libertà alle carcerate. “Mi sento come una farfalla cui vengono tarpate le ali, come un uccello chiuso in gabbia. La libertà è la cosa più preziosa. Nessuno potrà mai ridartela ma la potrai riconquistare”, con questa poesia si apre l’evento in occasione della festa donna all’interno del carcere di San Vittore. La poesia recitata da Alessia, una delle detenute che hanno preso parte all’evento nel quasi surreale giardino all’interno della casa di reclusione, è stata seguita da altri versi recitati da una decina di carcerate della sezione femminile. Perché anche in carcere è l’8 marzo, e le detenute per quest’occasione si sono truccate con tanto di rossetto. L’evento è stato organizzato da Federica Berlucchi, della cantina Fratelli Berlucchi, che da anni fa la volontaria al carcere di San Vittore, in collaborazione con il Centro Europeo Teatro e Carcere, e con la fondazione Fo Rame. Presenti all’evento anche Mattea Fo, nipote di Dario Fo e Franca Rame e presidente della fondazione a loro dedicata, Donatella Massimilla, direttrice artistica dello spazio Alda Marini, Daniele Nahum, presidente della sottocommissione carceri del Comune di Milano e Alessandro Giungi, consigliere comunale. “È stato un evento emozionante”, racconta Berlucchi. “Emozionante soprattutto vedere la partecipazione e percepire che i miei incontri del giovedì stanno diventando sempre più belli ed emotivamente più ricchi. Mi sono veramente commossa - sottolinea - nel sentire i ringraziamenti delle mie ragazze, così le chiamo io, per quello che io faccio per loro. Le loro parole dettate dal loro cuore sono arrivate dritte al mio. Il carcere, si sa, è un concentrato di emozioni, ma ormai qui ho imparato a non piangere più. Però quando ho ricevuto in dono le loro mimose non sono riuscita a trattenere le lacrime”, racconta Federica Berlucchi. “Sappiamo bene quale sia la qualità di vita all’interno del carcere: una situazione che grida vendetta e quindi in un certo senso tutte le detenute sono delle vittime”, afferma Daniele Nahum. “Stare in carcere è una sofferenza per tutti, ma soprattutto per le donne perché questa struttura è stata progettata per gli uomini e ci sono molte cose che creano disagio alle carcerate. Alda Merini era stata rinchiusa in un ospedale psichiatrico che era come un carcere. E da lì è come se fosse risorta perché da quella casa di cura è partita la sua rinascita. Ed è questo l’augurio che faccio a tutte le detenute il giorno della loro festa”, conclude Alessandro Giungi. Cagliari. Nel carcere di Uta inaugurato il murale della libertà: l’8 marzo delle donne detenute di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 9 marzo 2024 Anche nel carcere di Uta è stata celebrata ieri mattina 8 marzo la ricorrenza della Giornata internazionale della donna, stavolta con un evento particolare: l’inaugurazione di un murale realizzato dalle detenute della sezione femminile in una parte di parete del corridoio della zona riservata alle attività educativa. A organizzare l’iniziativa artistica è stata l’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, sempre presente nell’istituto penitenziario “Ettore Scalas” con molteplici attività di recupero e rieducazione sociale di reclusi maschi e femmine. “L’evento - ha precisato Maria Grazia Caligaris Referente carceri di SDR - è anche occasione per rinnovare l’annuale appuntamento di solidarietà della nostra associazione dell’8 marzo, che con le sue iniziative “Un sorriso oltre le sbarre” è giunta al 15° anno di presenza nell’istituto di Uta. L’appuntamento intende sensibilizzare l’opinione pubblica ed esprimere la vicinanza delle istituzioni e del volontariato alle donne private della libertà e alle operatrici penitenziarie, agenti della polizia penitenziaria e funzionarie giuridico-pedagogiche”. All’iniziativa, che ha registrato da sempre l’apprezzamento della direzione dell’istituto di pena e dell’area educativa, è intervenuto il muralista Riccardo Pinna, che con Giulia Serra dell’associazione culturale Skizzo di San Gavino, hanno guidato le recluse nella realizzazione dell’opera artistica muraria. Il murales, lungo oltre quattro metri e alto 2,50, ha come componente principale la scritta in caratteri bianchi “Oltre”, che campeggia su decine di frasi che le otto realizzatrici hanno espresso “dal profondo del cuore”. Rappresentano nell’insieme un inno alla vita, alla speranza e alla libertà da riconquistare presto. “Questa opera di street poetry - ha detto il Riccardo Pinna -, è l’urlo di donne private della loro libertà rivolto verso l’esterno. Nelle frasi scritte c’è tutta la loro sofferenza, ma anche un sollievo e un segnale di desiderio di libertà”. “La presenza della società civile e delle persone che operano in veste di volontarie nella nostra realtà detentiva - ha detto il direttore dell’istituto penitenziario, Marco Porcu - acquista un particolare significato in occasione della Giornata Internazionale della Donna. Si rinnova un’occasione di socialità all’insegna della solidarietà che offre momenti di riflessione e di condivisione di esperienze umane. Un momento utile per tutti”. “L’8 marzo - ha aggiunto Paola Melis, presidente di SDR - è una giornata speciale per conoscere luoghi di umanità e realtà spesso trascurati. Per la nostra associazione è l’occasione per richiamare, con un gesto simbolico di vicinanza solidale, quel riguardo verso l’universo femminile degli istituti penitenziari poco indagato sia per il numero fortunatamente molto contenuto di donne in stato di detenzione sia per la tipologia di reati che le vede il più delle volte vittime-protagoniste. Un’occasione però anche per valorizzare il lavoro delle agenti di polizia penitenziaria e dell’area educativa”. Durante la breve e semplice inaugurazione del murale, coordinata da Maria Grazia Caligaris, sono stati consegnati alle detenute alcuni prodotti per la cura personale “che vogliono sottolineare l’attenzione della società nei confronti di persone che stanno affrontando un’esperienza difficile e dolorosa per ripristinare un positivo patto con la vita sociale”, ha detto Caligaris. Le donne ospiti dell’istituto hanno offerto al personale penitenziario in servizio un ramoscello di mimose, fiore simbolo della Giornata della donna. Cosenza. La Festa della donna nel carcere di Castrovillari strettoweb.com, 9 marzo 2024 Il garante Muglia: “In passato paura e poca conoscenza hanno pesato troppo. E’ giunto il momento di voltare pagina, di scrivere una nuova storia”. In occasione dell’8 marzo il Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Luca Muglia, ha partecipato all’incontro-dibattito “La festa della donna come momento di riscatto” tenutosi nell’aula didattica della sezione detentiva femminile della Casa circondariale “R. Sisca” di Castrovillari. Nel corso dell’evento è stato presentato il progetto “Con le Mani in Pasta” finalizzato alla realizzazione di prodotti gastronomici all’interno delle mura dell’istituto, che vede il coinvolgimento dell’Istituto alberghiero Ipseoa “K. Wojtyla” di Castrovillari e di Laura Barbieri, imprenditrice nel settore della ristorazione e Presidente della Fipe Cosenza. All’incontro, moderato e introdotto dalle docenti Rossana Barone e Simona Verta, hanno partecipato, oltre alla ristoratrice, la Presidente della Commissione regionale per l’uguaglianza dei diritti e delle pari opportunità, Anna De Gaio, il Cappellano della Casa Circondariale, Don Francesco Faillace, il Sindaco di Castrovillari, Domenico Lo Polito, la Dirigente dell’IPSEOA “K. Wojtyla”, Immacolata Cosentino, e il Direttore della Casa Circondariale, Giuseppe Carrà, che ha sottolineato il valore e il significato del progetto per le detenute della sezione femminile di Castrovillari. Il Garante regionale ha rimarcato come “l’iniziativa “Con le Mani in Pasta” rappresenti un esempio virtuoso che mette insieme scuola, formazione e lavoro, con il supporto di una imprenditoria sensibile e di qualità. Per le donne detenute a Castrovillari può aprirsi, oggi, un ciclo importante. Troppo spesso è mancato in Calabria un dialogo fattivo tra il carcere e il mondo del lavoro, la paura e la mancanza di conoscenza hanno precluso l’avvio di progettualità con il territorio e le imprese. È giunto il momento di voltare pagina, di scrivere una storia nuova e diversa”. “Quanto alla detenzione femminile - continua l’avvocato Muglia - il sistema carcerario non fa distinzioni di sesso, le regole detentive non presentano alcuna caratterizzazione di genere. Ciò, paradossalmente, finisce per recare danno alle donne detenute in quanto il circuito penitenziario è pensato e costruito “a misura di uomo”. La tutela dei diritti delle donne recluse presuppone, quindi, che vengano riconosciute e valorizzate le peculiarità che contraddistinguono la condizione detentiva. Quali sono i bisogni o le esigenze della donna detenuta? Di quali strumenti necessita per elaborare il suo vissuto? In quale contesto si consuma la sua carcerazione? Si tratta di domande aperte. Nella Casa circondariale di Castrovillari, ad esempio, i bagni delle camere detentive sono sprovvisti di docce, a differenza degli altri istituti. Le persone detenute, in altre parole, sono costrette ad utilizzare le due o tre docce presenti nello spazio comune situato nel corridoio dei padiglioni. E’ evidente come tale condizione, nel caso delle donne, sia maggiormente lesiva della privacy e della dignità personale. Mi auguro che le reiterate richieste di intervento che ho rivolto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria possano sortire effetto e si ponga fine a tale inaccettabile deprivazione”. “Rivolgo, da ultimo, un ringraziamento particolare al Sindaco Lo Polito - ha concluso il Garante regionale - poiché, grazie alla sua sensibilità, la città di Castrovillari potrà formalizzare a breve l’istituzione del Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, nonché alla Presidente De Gaio per l’instancabile impegno della Commissione regionale per le pari opportunità da lei presieduta, sempre attenta ai temi della detenzione femminile”. Cosenza. Libri che camminano: la scrittura torna in carcere di Lory Biondi vita.it, 9 marzo 2024 I detenuti di alta e media sicurezza potranno partecipare ai laboratori di scrittura creativa e autobiografica proposti dall’associazione LiberaMente. Per il Garante regionale dei diritti dei detenuti, Luca Muglia, grazie ai percorsi introspettivi, la persona in conflitto con la legge può maturare una nuova e diversa percezione di sé. “Non so di preciso com’ero da bambino; di quei pochi ricordi che ho, i più nitidi sono dove mia nonna mi chiamava disgraziato, imprecando perché ero entrato in casa con le scarpe sporche di terra oppure perché non chiudevo il cancello al cane. Non so fino a che punto mia nonna mi amasse ma sono sicuro che in quel modo non potrei amare nessuno”. È Cesare che scrive, un detenuto della casa circondariale di Cosenza che ha partecipato ai percorsi di scrittura creativa e autobiografica organizzati dall’associazione di volontariato penitenziario LiberaMente e tenuti dalle giornaliste Rosalba Baldino e Carla Chiappini e dalla scrittrice Elena Giorgiana Mirabelli. Il racconto di Cesare è contenuto nel libro Controluce, pubblicato da Luigi Pellegrini Editore, che racchiude i lavori degli allievi e delle allieve dei laboratori che si sono svolti nelle carceri di Cosenza e Castrovillari tra il 2022 e il 2023 e che hanno avuto il sostegno economico della Fondazione Con il Sud e del Movimento Lavoratori Azione Cattolica. L’attività, a Cosenza, sta per ripartire grazie ad un altro progetto dal titolo “Libri che camminano”, presentato dal Comune di Cosenza e finanziato da Centro per il Libro e la lettura del Ministero della Cultura, a seguito del titolo di “Città che legge 2022” riconosciuto alla città dei Bruzi. Il progetto consiste nella diffusione capillare del libro e della pratica della lettura in tutte le sue forme attraverso la trasformazione, in luoghi di lettura, di spazi convenzionalmente destinati ad altro: parchi, piazze, mercati rionali, mezzi pubblici, musei, sale consiliari, teatro, residenze per anziani e case famiglia, ospedale e carcere. L’idea dell’amministrazione comunale è quella di attuare una vera e propria invasione culturale per raggiungere e contaminare aree emarginate che, attraverso la lettura, riceveranno stimoli diversi per una riqualificazione socio-culturale. “Abbiamo aderito con entusiasmo a questo nuovo progetto”, ha dichiarato il presidente di LiberaMente, Francesco Cosentini, “soprattutto per dare continuità al nostro lavoro. I laboratori di scrittura sono molto apprezzati dai detenuti. Uno di loro ha addirittura affermato che la scrittura dovrebbe essere obbligatoria in carcere”. L’iniziativa non prevede solo la realizzazione di laboratori di scrittura, ma anche otto incontri con l’autore e un concorso letterario. “Per la prima volta porteremo gli autori in carcere”, continua Cosentini, “ognuno di loro presenterà il proprio libro e avrà modo di dialogare con i detenuti di alta e media sicurezza. Tutto ciò è reso possibile grazie alla disponibilità della direttrice dell’istituto penitenziario, Maria Luisa Mendicino”. L’associazione celebra, quest’anno, i suoi 20 anni di attività. In particolare, nella casa circondariale Sergio Cosmai di Cosenza ha realizzato una biblioteca per consentire ai detenuti di leggere e studiare. Ultimamente sta portando avanti due progetti di inserimento lavorativo attraverso la coltivazione di erbe aromatiche ed ortaggi. “Partiamo sempre dal presupposto che l’uomo non è il suo errore, come ci ricorda don Oreste Benzi”, sottolinea Cosentini, “siamo convinti che riempire di contenuti validi e di proposte significative il tempo, breve o lungo, della detenzione sia il modo migliore per rispettare la funzione rieducativa della pena, così come ci chiede la nostra Costituzione ed è per noi un privilegio poter collaborare, con i nostri progetti, ad un obiettivo tanto delicato e complesso”. Cosentini è stato nominato da poco Garante della Provincia di Cosenza dei diritti dei detenuti proprio per la sua lunga esperienza in ambito carcerario, un ruolo che gli consente, ancor di più, di operare a tutela delle persone private della libertà personale e a favore di un loro reinserimento nella società. In Calabria, nelle strutture penitenziarie, si registrano, ad oggi, diverse criticità. Le mette in evidenza il Garante per la Regione Calabria dei diritti dei detenuti, l’avvocato Luca Muglia: “Alcuni fenomeni riflettono la situazione generale del paese, e cioè il sovraffollamento, che in Calabria coinvolge nove istituti su dodici, le inadeguatezze strutturali, la sanità penitenziaria e le carenze di organico, dalla polizia penitenziaria agli educatori. Le criticità, nel nostro caso, si estendono anche alla mancanza di mediatori culturali, all’insufficienza delle offerte formative o lavorative e alle difficoltà di reinserimento. Tra gli aspetti positivi i laboratori artigianali di diversi istituti”. Ci sono, però, delle azioni che possono essere messe in campo per arginare queste criticità. Per Muglia bisogna integrare al più presto gli organici e potenziare gli strumenti che favoriscono la riabilitazione, come la formazione, il lavoro, la scuola e l’università; facilitare il più possibile l’accesso alle misure alternative e i percorsi di inclusione sociale e stimolare maggiormente l’interazione con il territorio. Il Garante regionale sottolinea il valore della presenza del volontariato in carcere. “I progetti delle associazioni di volontariato sono importanti. Esiste un mondo, spesso invisibile, di persone che si spendono per il pianeta carcere e che hanno a cuore le sorti delle persone detenute. Oltre ai corsi professionalizzanti, sono soprattutto i percorsi introspettivi, musica, scrittura, teatro, poesia, pittura, a rappresentare occasioni uniche. È in questi contesti che la persona in conflitto con la legge può maturare una nuova e diversa percezione di sé”. Una nuova percezione che emerge, con forza, dalle parole di Pasquale, contenute in Controluce: “preferisco avere una vita diversa da quella attuale, fare cose diverse, riuscire a stare più tempo con le mie figlie e la mia compagna, preferisco dedicarmi di più alla mia casa - cosa che non ho mai fatto. Preferisco tutto quello che non ho mai fatto prima, ho voglia di ricominciare”. Potenza. Presentazione progetto “In_Out - Libertà aumentata” sassilive.it, 9 marzo 2024 Rassegna di teatro-danza dedicata ai detenuti e all’uso delle nuove tecnologie della compagnia Petra a Potenza. Sabato 9 marzo 2024 alle ore 11,30 nella sede della Fondazione Potenza Futura è in programma l’incontro di presentazione del progetto In_Out - Libertà aumentata, rassegna di teatro-danza dedicata ai detenuti e all’uso delle nuove tecnologie, a cura di Compagnia Teatrale Petra, che fonde due progettualità: In_Out, finanziato dal Bando Tocc - Transizione Digitale Organismi Culturali e Creativi dei Ministeri della Cultura e dello Sviluppo Economico e Teatro oltre i Limiti, finanziato da 8×1000 dell’Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi. L’iniziativa è realizzata con la collaborazione della Casa Circondariale di Potenza, in sinergia con il Provveditorato di Puglia e Basilicata, all’interno del Carcere di Potenza dove da oltre dieci anni la Compagnia Teatrale Petra porta il proprio linguaggio artistico per superare il “limite” della condizione detentiva favorendo una nuova visione: da luogo di vergogna a luogo di cultura. Il progetto In_Out nasce proprio da tali riflessioni e risponde alla volontà della compagnia di allargare l’esperienza pluriennale nella Casa Circondariale di Potenza agli istituti di pena di Puglia e Basilicata, sperimentando l’utilizzo dei media, la realtà aumentata e i virtual tour per lo sviluppo di progetti culturali, di educazione e formazione: un’occasione di cambiamento, un modo nuovo di relazionarsi per i detenuti-attori in un luogo capace di includere, promuovere e valorizzare le differenze. Il titolo della rassegna racchiude una doppia valenza progettuale che si muove fra In e Out, ossia dentro e fuori le mura degli istituti penitenziari, un confine reale e tangibile che si amplifica ulteriormente se accostato alla trasformazione digitale degli ultimi anni. In carcere il rapporto spazio-tempo appare completamente rovesciato rispetto alla società esterna: gli spazi limitati sono caratterizzati dalla ripetitività dell’esperienza e il corpo del recluso e le sue facoltà relazionali si trovano compresse all’interno di un luogo che ritualizza comportamenti e possibilità di scelta; risulta dunque molto difficile per i detenuti conoscere il progressivo avanzamento del reale e lo sviluppo delle nuove tecnologie che lo caratterizzano. L’obiettivo del progetto è quello di INtrodurre il tema della transizione digitale all’interno delle realtà carcerarie - avulse da sperimentazione e apprendimento tecnologico - attraverso l’elaborazione di input creativi e momenti di confronto sulla repentinità del cambiamento. Il ricorso alla realtà aumentata, risorsa preziosa che accorcia le distanze e rende fruibili nuovi mondi, appare dunque decisivo e funzionale: dopo un percorso di formazione dedicato all’utilizzo di visori vr, i detenuti potranno accedere a diversi contenuti multimediali, spettacoli teatrali, musicali, video-danza, visite di musei, siti archeologici e molto altro, in una rassegna che partirà dalla Casa Circondariale di Potenza e si sposterà negli istituti di Matera, Melfi, Bari, Lecce, Brindisi e Trani. Previsti un laboratorio di teatro-danza a cura della Compagnia Teatrale Petra, un corso per operatori di teatro sociale e un workshop intensivo Artisti in transito, rivolto a detenuti e studenti/studentesse delle scuole secondarie di secondo grado. Le competenze acquisite durante i numerosi momenti di formazione saranno fondamentali per la realizzazione di un progetto finale, diretto dal regista Matteo Maffesanti. I detenuti produrranno un contenuto digitale fruibile attraverso visori vr, un’opera originale realizzata all’interno del carcere da offrire al contesto culturale. Dall’IN iniziale si procede verso un OUT: il risultato finale esce fuori, oltrepassa i confini e diviene OUTput inedito dell’intero processo sperimentale. A moderare l’incontro del 9 marzo sarà Ornella Rosato di Theatron 2.0 e interverranno Antonella Iallorenzi, direttrice artistica della Compagnia Teatrale Petra, il Direttore della Casa Circondariale di Potenza Paolo Pastena, Giuseppe Palo Funzionario di Staff del Provveditore, Simone Arcagni Professore di nuovi media e nuove tecnologie dell’Università di Palermo e Rossella Menna, giornalista. Il progetto vede il partenariato dell’Ordine Regionale degli Assistenti Sociali di Basilicata, del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, di Ateneo Musica Basilicata, dell’Associazione Culturale L’Albero, dell’Associazione Culturale Multietnica, di Fondazione Potenza Futura e di La Nuova TV ed è sostenuto dal Fondo Etico di BCC Basilicata. Migranti. C’è un giudice a Catania: “Minori fuori dall’hotspot” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 marzo 2024 Nell’ombra dei procedimenti amministrativi, si cela spesso la vulnerabilità di coloro che, per circostanze tragiche, si trovano a essere protagonisti involontari di un sistema che, in teoria, dovrebbe proteggerli. È quanto emerso dall’ultima pronuncia del giudice del tribunale di Catania, la cui recente ordinanza ha scosso le fondamenta delle politiche di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati in Italia. L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha promosso una causa civile cautelare, rappresentando i diritti dei minori stranieri non accompagnati ospitati nella struttura di Contrada Cifali. L’Asgi ha denunciato la violazione sistematica dei diritti fondamentali dei minori, sottolineando come la struttura di accoglienza non fosse conforme alla normativa nazionale e sovranazionale. L’ordinanza ha svelato un quadro allarmante: durante i sopralluoghi effettuati dall’Asgi, sono emersi gravi abusi nella gestione dell’accoglienza. Oltre 100 minori e 6 neomaggiorenni erano trattenuti in condizioni precarie, privati della libertà personale senza alcuna giustificazione legale. La permanenza media nella struttura era di oltre 50 giorni, in netto contrasto con i limiti temporali previsti dalla legge. La difesa del ministero dell’Interno ha tentato di giustificare le violazioni sostenendo problemi di capacità delle strutture di accoglienza e l’eccezionalità dell’afflusso di minori non accompagnati. Tuttavia, la corte ha respinto tali argomentazioni, ribadendo la violazione dei diritti umani fondamentali sanciti dalla Costituzione italiana e dalle normative europee. L’ordinanza ha sollevato questioni cruciali sulla legittimità delle azioni dell’amministrazione pubblica nei confronti dei minori stranieri non accompagnati. Ha confermato che, nonostante le difficoltà operative, il rispetto dei diritti fondamentali deve essere garantito in ogni circostanza, senza deroghe. Ricordiamo che l’hotspot di Contrada Cifali, considerato un’estensione di quello di Pozzallo, è stato inizialmente istituito durante la Primavera Araba per gestire gli arrivi dal Nord Africa e successivamente utilizzato come luogo di quarantena durante la pandemia di Covid- 19. A partire da gennaio 2023, è diventato un centro per minori stranieri non accompagnati, identificati e trasferiti principalmente da hotspot come quelli di Lampedusa e Pozzallo. Il progetto Inlimine di Asgi ha rivelato, tramite sopralluoghi, che più di 100 minori stranieri non accompagnati erano trattenuti nell’hotspot di Contrada Cifali, confermato anche dalle autorità pubbliche. Durante una visita nel giugno 2023, una delegazione della scuola di Asgi ha scoperto che circa 100 minori non avevano il permesso di lasciare la struttura, con una permanenza che poteva protrarsi fino a 120 giorni, anche oltre la maggiore età. Questa detenzione, non autorizzata dalla normativa italiana, ha portato all’avvio di un ricorso d’urgenza da parte di Asgi presso il Tribunale di Catania, che ha quindi dichiarato illegittima la condotta del Ministero e ha riconosciuto il diritto di Asgi ad agire a tutela dei minori. Il giudice ha sottolineato l’importanza di consentire alle associazioni di agire anche in casi simili a quelli previsti dalla legge, purché abbiano come scopo istituzionale la tutela di interessi diffusi e che vi sia coerenza tra gli scopi dell’associazione e la causa legale intrapresa. “Ammettere il potere di azione delle associazioni anche in casi analoghi a quelli previsti dalla legge risulta coerente con la Carta costituzionale sempre che l’Associazione de qua abbia (ed è il caso dell’Asgi) nel suo oggetto sociale l’effettivo e non occasionale impegno a favore della tutela di determinati interessi diffusi o superindividuali e abbia detta protezione come compito istituzionale ed inoltre sempre che vi sia conseguenza tra gli scopi dell’associazione e la lezione che si intende contrastare con l’azione giudiziaria”, scrive il giudice nell’ordinanza. Questo principio ha permesso di proteggere i minori stranieri detenuti illegalmente, anche quando si trovavano in condizioni di totale isolamento e privazione della libertà personale, senza accesso adeguato alla tutela legale. Un principio importante che permette di tutelare i minori stranieri detenuti illegittimamente anche laddove si trovino in una condizione, forzata, di totale isolamento, di privazione della libertà personale e di difficoltà di contatto con il mondo esterno e di accesso alla tutela legale. Da sottolineare che già prima della decisione, a seguito della notifica del ricorso e del decreto di fissazione udienza, l’Avvocatura ha comunicato di aver spostato tutti i minori nell’hotspot di Pozzallo “al fine di garantire loro migliori condizioni di accoglienza”. Tant’è che quando la delegazione Asgi ha fatto nuovamente ingresso nell’hotspot di Contrada Cifali il giorno 17 gennaio 2024 la struttura è risultata vuota e chiusa per lavori di ristrutturazione.