Carcere, non è un Paese per donne di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 marzo 2024 Rappresentano il 4-5% della popolazione penitenziaria, con solo 4 istituti dedicati esclusivamente alle detenute. E così numerose sezioni femminili ospitate in istituti maschili si trovano a fronteggiare una serie di ostacoli unici. Oscillano tra il 4 e il 5% della popolazione detenuta, ma sono disperse tra le varie carceri pensate esclusivamente per uomini. Al 28 febbraio, su 60.924 detenuti presenti nelle nostre carceri, vi sono 2.611 donne ristrette. Esistono soltanto 4 istituti penitenziari esclusivamente femminili: Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia. Solo una minima parte di loro è ristretta in tali istituti, mentre il resto delle detenute è disperso nel resto delle carceri maschili. Tale dispersione è anche dovuta al vincolo di vicinanza territoriale ai propri affetti previsto dall’Ordinamento penitenziario: ciò che manca è la riorganizzazione della mappa stessa degli istituti penitenziari, con almeno un carcere femminile per regione. Non solo le donne in carcere sono poche, ma la maggioranza si trova in comunità molto piccole, all’interno di strutture progettate per gli uomini. La bassa incidenza statistica sulla popolazione detenuta totale potrebbe far illudere di una maggiore attenzione istituzionale nel costruire percorsi di reinserimento sociale, ma nella pratica è causa di discriminazione. Il tempo sottratto alla vita esterna per un uomo e per una donna non ha uguale peso, relativamente ai contesti lasciati, agli affetti, alle funzioni esercitate prima che la privazione della libertà li troncasse, alle relazioni da riannodare una volta scontata la pena. Con soltanto quattro istituti penitenziari dedicati esclusivamente alle donne e numerose sezioni femminili ospitate in istituti maschili, le detenute si trovano a fronteggiare una serie di ostacoli unici. La gestione di attività significative come l’istruzione, il lavoro e le attività culturali risulta difficile, dato il basso numero di detenute e le risorse limitate a disposizione. Un altro aspetto da considerare è la composizione dei reati commessi dalle donne, spesso legati a situazioni di marginalità e caratterizzati da pene brevi. Questo solleva la questione della decarcerazione e della de-istituzionalizzazione, con la necessità di esplorare alternative alla detenzione tradizionale. Le esigenze legate al corpo femminile, inclusa l’igiene, l’assistenza medica e la maternità, richiedono attenzione particolare da parte delle istituzioni carcerarie. Il sostegno alle madri detenute e ai loro bambini, insieme alla promozione dei legami familiari, è cruciale per il benessere delle detenute e per il loro futuro reinserimento nella società. La discriminazione di genere si riflette anche nelle opportunità di lavoro e nell’accesso all’istruzione, con le detenute che affrontano maggiori difficoltà nel reinserirsi nella società a causa dei pregiudizi esistenti. Infine, molte donne detenute hanno subito abusi e violenze, il che richiede un approccio sensibile e una rete di supporto adeguata per affrontare le conseguenze di tali traumi. In carcere la parità di genere è ancora più lontana di Maurizio Ermisino retisolidali.it, 8 marzo 2024 “Sbarre di Zucchero”, partita da Verona e diventata in breve una realtà a livello nazionale Un’associazione che si occupa di carcere al femminile formata da chi in carcere c’è stato davvero. L’8 marzo è la festa della donna. E, come ogni anno, continueremo a constare che la parità di genere è ancora lontana dall’essere pienamente realizzata. Ma c’è un mondo dove la parità è ancora più lontana. È il mondo delle carceri, già in sé un mondo dimenticato da tutti, un mondo a sé stante, che nessuno vuole vedere. E, se il mondo fuori è maschilista, all’interno del mondo del carcere le differenze sono tra uomini e donne sono ancora più marcate. In carcere le donne sono dimenticate: sono dimenticati i loro bisogni, le loro esigenze, le loro peculiarità. A una donna, dietro le sbarre, viene annullata completamente l’identità. Per questo, e in seguito a un fatto tragico, è nata l’associazione Sbarre di Zucchero, partita da Verona e diventata in breve una realtà a livello nazionale. È un’associazione che si occupa di carcere al femminile formata da chi in carcere c’è stato davvero. Per cui quello che racconta è la verità, senza alcun abbellimento. Ne abbiamo parlato con la vicepresidente, Micaela Tosato. Sbarre di zucchero: nel nome di Donatela - “Donatela si è suicidata la notte tra l’1 e il 2 agosto 2022. Ha lasciato un biglietto al suo ragazzo dicendogli che aveva paura di tutto e non ce la faceva più”. Sbarre di Zucchero è nata dal basso, da alcune donne che in carcere ci sono state. La molla è stato il tragico suicidio di Donatela, una ragazza giovanissima, un anno e mezzo fa. “Io ero la compagna di cella di Donatela, e le altre ragazze con cui ci siamo ritrovate fuori e fanno parte dell’associazione erano nella sezione con lei” ci racconta Micaela Tosato. “Era una ragazza molto fragile, con un duro vissuto, con problemi già da piccola. A vent’anni era già in carcere, e si è trovata incinta in carcere. Il carcere, scoperto che era al settimo mese di gravidanza, le ha sospeso la pena e l’ha buttata su strada. Ha partorito praticamente in strada, drogandosi, e dormendo in una cartiera abbandonata a Verona. Il bambino è nato con problemi di astinenza. Dopo un mese si è ritrovata in carcere e il bambino è stato affidato ai servizi sociali”. “Io sono stata con lei cinque o sei mesi” ricorda Micaela. “Lei era una persona che aveva semplicemente bisogno di sentirsi considerata, di essere apprezzata, di non essere solo la tossica che sbagliava sempre. Prima di suicidarsi aveva scritto una lettera a Maria De Filippi. Non aveva visto lo Stato, aveva visto Maria De Filippi. Aveva avuto la possibilità di entrare in comunità, aveva conosciuto un ragazzo, ma ha fatto degli sbagli ed è tornata dentro. Siccome sapeva che la cosa era ancora lunga, in un momento di crisi si è trovata sola. E si è suicidata la notte tra l’1 e il 2 agosto 2022. Ha lasciato un biglietto al suo ragazzo dicendogli che aveva paura di tutto e non ce la faceva più”. La cosa ha sconvolto le sue compagne. “Era un’amica” ci confida Micaela. “Siamo rimaste malissimo. Da lì ci siamo sentite tra di noi, stranite da questa cosa. Aveva i suoi momenti di crisi, ma le passavano. Trovarsi da sola e decidere di fare una cosa così significa che questa cosa l’aveva vissuta proprio male”. Siamo partiti dal basso raccontando le nostre esperienze - Il carcere è già un luogo dimenticato da tutti. La sezione femminile del carcere lo è ancora di più. “Essendo poche le donne, sono limitate nelle attività” spiega Micaela Tosato. “Quelli del carcere femminile sono degli spazi rubati al maschile”. “Allora abbiamo deciso di iniziare a parlare” ricorda la vicepresidente. “Il nostro è stato un moto di ribellione, è stato voler dire: ci siamo anche noi, ci dovete ascoltare. Abbiamo aperto un gruppo Facebook, cinque giorni dopo la morte di Donatela, il 7 agosto 2022, raccontando la nostra esperienza al femminile. Ci siamo ritrovate nel giro di pochi mesi ad avere con noi garanti, giornalisti, avvocati, detenuti e non detenuti, associazioni, volontari. C’era tanta gente che si univa a noi”. “Non abbiamo fatto nulla: siamo partiti dal basso raccontando le nostre esperienze” riflette. ““Vuol dire che le persone in noi hanno visto qualcosa di diverso, di vero”. “L’anno scorso ci siamo costituiti associazione e adesso siamo una realtà a livello nazionale, con referenti in quasi tutte le regioni d’Italia” ci spiega Micaela. “Noi siamo operai. Ci scrivono familiari che hanno problemi, bisogni, difficoltà. Aiutiamo queste persone con delle persone che entrano in carcere, con volontari, avvocati, parlando e dando voce ai loro problemi, perché si sentono non considerati. Abbiamo un centro di ascolto specifico per i familiari”. La crescita di questa associazione in tutta Italia ha dei motivi. “Credo che siamo l’unica associazione che ha detenuti che raccontano la propria esperienza” spiega la vicepresidente di Sbarre di Zucchero. “Gli altri sono derivazioni di cose politiche, appassionati che seguono il tema, o volontari. Da noi c’è solo chi ci entra. L’appassionato che fa teoria non ci serve, non ci dice niente. Quello che noi diciamo, anche se è brutto, è vero. Nessuno ci ha mai contestato. Diciamo la verità: là c’è la muffa, c’è lo schifo. E nel carcere femminile ancora di più”. “Per la gran parte, le carceri femminili sono spazi di risulta presi al maschile” - Le prigioni al femminile non sono evidentemente luoghi a misura di donna. “Per la gran parte, le carceri femminili sono strutture non create appositamente per le donne, che avrebbero bisogni e necessità diverse da quelli degli uomini” spiega Micaela Tosato. “Sono spazi di risulta presi al maschile. Ci sono quaranta sezioni femminili e solo quattro istituti prettamente femminili in Italia. E queste quaranta sezioni sono ricavate da spazi maschili”. “Mancano tantissime cose” continua. “Per esempio, una donna ha bisogno di far il bidet, ma non c’è, c’è un lavapiedi. Le donne sono poco più di 2mila a fronte di 70mila detenuti uomini. E quindi non ci sono attività, non ci sono corsi. L’uomo fa delle attività professionali: a Verona c’è l’alberghiero, il corso da odontotecnico. Le donne sono poche e non ce la fanno a mettere in piedi nessun corso di formazione. E lo stesso è per le attività creative. Per fare un esempio, a Verona ci sono un’area cani e un’area cavalli. Ci vanno solo gli uomini”. A una donna in carcere viene tolta l’identità - Ma la cosa più grave è che, nel carcere femminile, ti tolgono l’identità. “Te la tolgono perché secondo loro puoi fare a meno del parrucchiere, del trucco e così via” spiega Micaela. “Ma una donna rimane una donna anche lì dentro. Sei una donna, hai bisogno di quelle piccole cose che ti fanno sentire donna. E ti viene tolta l’identità. I maschi hanno il rasoio per farsi la barba, le donne non possono avere il rasoio. La protesta della donna viene considerata un capriccio, la protesta dell’uomo fa più paura, perché è un maschio. Alle donne viene insegnato l’uncinetto, e a farsi le unghie, all’uomo fanno una formazione molto più seria. È una mancanza di rispetto verso donna, vuol dire considerarla inutile. Io ho bisogno di uscire preparata e formata per una nuova vita tanto quanto l’uomo. È per una questione di numeri, per un’attività di 20 persone il femminile non ci arriverà mai”. “A Verona ci sono stati 5 suicidi in meno di 3 mesi. Nel 2024 in Italia sono più di 21 e siamo all’inizio di marzo. Lì dentro si muore di disperazione perché non c’è niente” - Proprio per questo discorso dell’identità, e dei bisogni di quelle piccole grandi cose che fanno sentire tale una donna, in occasione dell’8 marzo è stata fatta una raccolta di prodotti di make-up e di prodotti per l’igiene personale che è stata consegnata al carcere di Montorio, Verona, grazie alla generosità di molte persone e del Rossetto Group. L’iniziativa riguarda anche il carcere di Santa Maria Capua Vetere, che è stata possibile grazie a un’importante donazione del negozio LUSH di Napoli e in alcune carceri della Calabria. “Il carcere è ancora un argomento imbarazzante per tanti. Ma noi abbiamo iniziato a fare molti presidi e continueremo a farne” ci spiega la vicepresidente di Sbarre di Zucchero. “A Verona ci sono stati 5 suicidi in meno di 3 mesi. Nel 2024 in Italia sono più di 21 e siamo all’inizio di marzo. Lì dentro si muore di disperazione perché non c’è niente. Uno non ha idea di quanto sia violento il carcere, e di quanto puzzi il carcere. È facile parlarne ma bisogna starci. E la gente muore perché è disperata. Per questo abbiamo iniziato a fare dei presidi. E poi abbiamo delle rubriche on line, gestite da avvocati, dove cerchiamo di fare informazione seria, tramite persone che hanno vissuto anche il 41 bis”. Il carcere non serve a niente, se non a incattivire - “Adesso andremo a spiegare il discorso degli incontri affettivi senza controllo in carcere, perché sul tema c’è un sacco di disinformazione. Tutti parlano di sesso, ma non sono stati creati solo per il sesso: uno può anche mangiarsi un piatto di pasta con la compagna, o fare i compiti con il figlio. Abbiamo magistrati, procuratori che sono con noi e cerchiamo di fare informazione corretta con persone che hanno vissuto queste cose. Il prossimo punto giustizia, ad esempio, lo faremo con la polizia penitenziaria, perché la situazione della polizia è speculare al detenuto”. Parlare di carcere, creare occasioni di confronto, è sempre più importante. “Una persona che è dentro, non vede aiuto, non vede supporto, non vede ricostruzione” spiega Micaela. “E cerca aiuto fuori. Perché il carcere, così come è ora, non ti dà nulla. Non serve a niente, se non a incattivire”. 8 Marzo in carcere, i tanti temi di una ricorrenza di Antonella Barone gnewsonline.it, 8 marzo 2024 Sono uomini, gli autori di omicidi, atti persecutori, stalking e maltrattamenti di donne. Per questo, in occasione dell’8 marzo, Giornata internazionale della donna, nel carcere di Secondigliano (Na) si svolgerà un dibattito sulla prevenzione e il contrasto della violenza di genere, con il coinvolgimento di detenuti condannati per reati di violenza sessuale o maltrattanti. All’incontro, organizzato dal garante regionale delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello, e introdotto dalla direttrice Giulia Russo, partecipa la presidente della Consulta regionale per la condizione della donna Ilaria Perrelli, la psicologa esperta in violenza di genere Marina Izzo e la criminologa Erica Gigante. Al termine, un recital della cantante partenopea Ida Rendano. Anche nell’istituto penitenziario di Cagliari UTA la Giornata internazionale della donna si celebra con un incontro tra detenute, operatrici penitenziarie della sicurezza e volontari dell’associazione Socialismo Diritti e Riforme. Nell’occasione viene anche inaugurato un murales realizzato da detenute in collaborazione con volontari dell’associazione Skizzo. Nella casa circondariale di Castrovillari (Cs), come tema centrale del dibattito - organizzato dall’istituto Alberghiero IPSEOA - si è scelto il tema del lavoro e dell’imprenditoria femminile. Intervengono Anna De Gaio, presidente della Commissione regionale delle pari opportunità, e l’imprenditrice Laura Barbieri. Una cifra diversa per ricordare l’8 marzo sceglie il carcere di Trieste dove, nella sezione femminile, si tiene “Bellezza. Ben-essere anche in carcere”, iniziativa di Soroptimist club di Trieste, Udine e Pordenone, in collaborazione con il distretto Lions 108TA2 e l’Università della terza età di Trieste. Al centro dell’evento, la bellezza come cura di sé anche all’interno di un’istituzione totale. La sfilata di venti detenute con creazioni della costumista Silvia Bartole è stata preceduta da un laboratorio sulla creazione di acconciature e di composizioni floreali. L’evento rientra nel progetto nazionale Soroptimist SI in carcere che ha al suo attivo numerose iniziative di sensibilizzazione sul tema. Hanno scelto la data dell’8 marzo per inaugurare la Libreria rossa i suoi ideatori, il provveditore della Sardegna Mario Antonio Galati, la consigliera di fiducia Daniela Pintor e la referente regionale del Comitato pari opportunità della Polizia penitenziaria Stefania Faggiani. La libreria contiene romanzi, saggi e testi per sensibilizzare sul tema delle violenze contro la donna e delle molestie sessuali, anche sul luogo di lavoro. La libreria, realizzata dai detenuti del laboratorio di falegnameria del carcere di Nuoro, si trova al momento presso il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Sardegna - Ufficio interdistrettuale dell’esecuzione penale esterna - Centro di Giustizia minorile di Cagliari, ma presto altri scaffali troveranno posto in ogni sede lavorativa della Sardegna. In uno dei luoghi simbolo della giustizia italiana, la Scuola di Formazione e Aggiornamento del personale Penitenziario ‘Giovanni Falcone’, nei pressi della teca contenente la Croma della strage di Capaci, sarà invece collocata oggi una panchina rossa. La cerimonia è organizzata dall’associazione Asso Tutela in collaborazione con il Nucleo Investigativo Centrale (NIC) della Polizia Penitenziaria. “Un gesto concreto per sancire l’importanza e la ferma convinzione - dichiarano gli organizzatori - che l’unica impresa contro la violenza in genere, e in particolar modo quella contro le donne, sia l’informazione e la presenza tangibile sempre al fianco di chi ne ha bisogno”. Quel silenzio sugli indennizzi ai carcerati di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 8 marzo 2024 Negli ultimi sei anni lo Stato ha risarcito almeno 23.500 detenuti per le condizioni “inumane” nei penitenziari. Cercasi disperatamente una qualche “Sos” - segnalazione di operazione sospetta - sugli 8 euro al giorno. O uno straccio di “Striano” penitenziario. O quantomeno un surrogato di “Assange” contabil-carcerario. Perché, nel Paese dei finti segreti contrabbandati da veri commerci, sembra invece che, se un dato non è amplificato dalla politica ai propri scopi, ma anzi ne è custodito con parsimonia tale da occultarlo di fatto, allora non esista, e neppure esista la realtà che la sua conoscenza imporrebbe agli occhi dei cittadini. Undici anni fa, con la sentenza Torregiani, la Corte europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo condannò l’Italia giudicando che tenere i detenuti in meno di 3 metri quadrati a testa violasse il divieto di “trattamenti inumani e degradanti” posto dall’articolo 3 della Convenzione. Allora l’Italia escogitò all’art. 35 dell’ordinamento penitenziario un rimedio risarcitorio per evitare l’onta di montagne di condanne europee: 1 giorno di riduzione della pena ogni 10 giorni trascorsi in condizioni “inumane e degradanti”, oppure, se la pena era già stata tutta espiata, 8 euro al giorno di indennizzo. Ma passati 11 anni - e nel silenzio delle pompose inaugurazioni degli anni giudiziari, delle solenni relazioni al Parlamento, e delle statistiche ministeriali così faconde di numeri quando servono a dare finta legittimazione statistica all’abolizione dell’abuso d’ufficio o alla restrizione delle intercettazioni - non si interrompe mai la sfilza di risarcimenti via via nell’attualità. Per accorgersene bisogna fare gli amanuensi. Ma già solo a Milano, ad esempio, dove oggi il Guardasigilli Carlo Nordio farà una toccata e fuga all’Ordine degli Avvocati per “la consegna del Sigillo di San Gerolamo”, l’anno scorso sono stati 300 gli accoglimenti, 124 a Pavia, 154 a Varese, in queste tre sedi già 65 soltanto nei primi due mesi del 2024. E del resto gli accoglimenti a livello nazionale di cui si può essere certi sono stati almeno 3.115 nel 2018, 4.347 nel 2019, 3.382 nel 2020, 4.212 nel 2021, 4.514 nel 2022, e una cifra non altrettanto definita ma comunque superiore a 4.000 nel 2023. Vuol dire che lo Stato italiano, sotto gli occhi del ministero della Giustizia, non solo sta certificando (come niente fosse) che in molte carceri italiane il sovraffollamento reale (non la statistica di Trilussa) continua a infliggere “trattamenti inumani e degradanti”, ma lo fa mettendo a bilancio la tortura (quali essi sono per la Convenzione europea) tramite l’elemosina dei risarcimenti 35 ter, liquidati a 23.500 persone negli ultimi 6 anni. Tocca aspettare uno Striano o un Assange “de noantri” per chiederne conto? Licia, insegnante in carcere e ora Commendatore: dai detenuti ho imparato cos’è la vita di Roberta Barbi vaticannews.va, 8 marzo 2024 Ottantotto anni, docente in pensione, per circa 40 anni ha insegnato ai reclusi della casa di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba. Il 20 marzo sarà i tenta cittadini ai quali il presidente Mattarella conferirà l’onorificenza dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana: “Tanta emozione e soddistazione, non per me ma per il volontariato penitenziario. Ci sono tante storie dietro le sbarre, tanto contatto umano... Ho ricevuto più di quanto ho dato”. Non è educato svelare l’età di una signora, ma nel caso di Licia Baldi, quando si viene a sapere che secondo l’anagrafe ha 88 anni si resta a bocca aperta, con quella stessa incredulità che ha provato lei alla notizia che il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, la premierà il prossimo mercoledì 20 marzo al Quirinale con l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica. “Ho provato una forte emozione, e alla mia età le emozioni sono faticose - scherza Licia con Vatican News - ma anche tanta soddisfazione, non per me, mi creda, ma per tutto il volontariato penitenziario”. Sembra non rendersi conto del luminoso esempio di impegno e vitalità che la sua storia restituisce, specie in occasione dell’odierna Giornata internazionale della Donna. “Voglio ringraziare tutti, dal presidente che stimo e ho sempre stimato, al mio cappellano, ai vescovi e alla Chiesa che ci sono stati vicini e ci hanno aiutato in questi anni”. Una storia iniziata quasi quarant’anni fa - Tutto ha inizio nel 1986, quando la professoressa Baldi, insegnante di lettere del Liceo classico Foresi di Portoferraio, viene mandata in carcere a seguire un convegno con il collega docente di religione: “Ci siamo resi conto che anche noi insegnanti potevamo fare qualcosa per quelle persone, le quali, quando chiedevamo di cosa avessero più bisogno, ci rispondevano: studiare”. Così inizia il percorso in carcere: prima come insegnate volontaria per dieci anni, poi, dopo l’intesa tra l’allora Ministero di Grazia e Giustizia e quello della Pubblica Istruzione e l’apertura della sezione distaccata della scuola in carcere, come insegnante di ruolo. Aveva tanta paura di sbagliare, all’inizio, che ha superato con “il rispetto per gli altri e la collaborazione” per portare a compimento il suo compito di insegnante che è quello di “comunicare il senso della vita” e non solo nozioni. Dall’insegnamento al “Dialogo” - A Licia non basta essere la professoressa Baldi per i suoi allievi: promuove un’associazione che si chiama Dialogo - di cui è tuttora presidente - e con questa, grazie all’intervento della diocesi di Massa Marittima-Piombino, nel 2003 riesce ad aprire una casa d’accoglienza per detenuti in permesso premio e destinata all’ospitalità dei familiari che raggiungono l’Elba per i colloqui: “Dobbiamo ringraziare l’allora monsignor Bassetti, oggi cardinale, che ci indicò nell’ambito del Giubileo del 2000 come opera segno di carità che ci ha consentito di ottenere questi locali vicino al Comune e di ristrutturarli”. Ancora oggi che non insegna più - ma comunque entra in carcere una volta a settimana per parlare con i suoi ragazzi - si occupa attivamente della casa d’accoglienza dell’associazione che negli anni ha promosso molte iniziative pregevoli quali la biblioteca, attività teatrali e musicali, un corso di storia delle religioni e molte altre. Dal 2005 Dialogo, inoltre, promuove nell’istituto di pena anche il progetto Universo Azzurro, che offre assistenza ai ristretti che vogliono intraprendere un percorso universitario. Da “prof.” a “comm.” - “Per il suo costante impegno in attività educative e di assistenza ai detenuti nella casa di reclusione di Porto Azzurro”: si legge questo nella motivazione scritta dal presidente Mattarella che tra pochi giorni trasformerà la “prof.”, professoressa, in “comm.”, commendatore. Accanto a lei, altri 29 cittadini distintisi per attività volte a contrastare la violenza di genere, a promuovere l’imprenditoria etica, per l’impegno attivo anche in presenza di disabilità, per la solidarietà dimostrata, per le scelte di volontariato, per attività di inclusione sociale, legalità, diritto alla salute e atti di eroismo. Al capo dello Stato, se ci sarà tempo e le daranno la possibilità, vorrebbe leggere due righe che le ha scritto un detenuto, uno dei tanti che continuano a mandarle lettere: “Voi volontari siete un regalo della vita: siete madri, sorelle, fratelli, e non ci fate sentire soli - legge - vorrei che lei, professoressa, pregasse per me. In cielo dovremmo starci tutti, sennò non ci sarà gioia piena”. Si commuove, Licia, ma si riprende subito: “Ci sono tante storie in carcere, tanto contatto umano, davvero dico che ho ricevuto più di quanto ho dato - spiega - ci vuole tanto ascolto”. Il carcere oggi e allora: uguale ma diverso - Alla domanda su come sia cambiato il carcere da quando ha iniziato ad oggi, la professoressa Baldi risponde così: “Oggi ci sono molti stranieri, prevalentemente arrivano dal Nord Africa o dall’Europa dell’Est, spesso senza punti riferimento. Ci sono molti più poveri e le difficoltà linguistiche sono tante. In più ci sono molte vittime della droga, sia spacciatori che consumatori, che scontano pene brevi che forse sarebbero più adatte a una casa circondariale, perciò il turn over è più veloce e si fa fatica a organizzare progetti a lungo termine, è più difficile oggi essere volontari capaci di incidere nella vita di queste persone”. “Quando ho cominciato io il carcere era molto diverso ­- ricorda - quasi tutti i detenuti erano italiani, molti gli ergastolani o con pene a lungo termine, ma avevano voglia di vivere, non solo di sopravvivere in carcere”. “In tutti questi anni ho insegnato, ma ho anche imparato molto - conclude - ho imparato innanzitutto che i detenuti sono persone e da loro ho imparato che cos’è la vita”. Amministrazione penitenziaria poco attrattiva per i neo assunti di Sandro Gugliotta* Il Dubbio, 8 marzo 2024 Lo rileva l’Associazione Nazionale Funzionari Contabili del Dap. Un dato incontrovertibile riscontrato ormai da anni è che l’età media dei dipendenti della Pubblica Amministrazione è incredibilmente sopra la soglia dei 50 anni. Sebbene sia in assoluto un’età in cui oggi è possibile dare ancora molto in termini di capacità ed esperienza nel mondo del lavoro, appare importante il gap con la media dei paesi Europei. Le cause sono molteplici e vengono da lontano. Ma andiamo con ordine. Il blocco delle assunzioni perseguito con pervicacia da tutti i governi a partire dagli anni 90, giustificato dalla necessità di ridurre la spesa pubblica oltre ogni limite, ha causato un invecchiamento della forza lavoro pubblica, che è poi sfociato, negli ultimi decenni, in una progressiva fuoriuscita dal lavoro di migliaia di risorse per il raggiungimento dell’età pensionabile. I mancati reintegri di personale hanno così portato ad una situazione che definire critica è poco. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non si è sottratto a questo trend negli anni, ed oggi la situazione, in particolar modo delle risorse del comparto funzioni centrali, necessarie per una parte importante al funzionamento degli Istituiti Penitenziari è drammatica. Le piante organiche degli istituti di pena sono allo stato carenti di ogni profilo: mancano gli assistenti amministrativi e tecnici, mancano i contabili risorse preziose per la complessa gestione delle carceri, e mancano le figure direttive ovvero i funzionari contabili dell’area finanziaria e i funzionari giuridico pedagogici dell’area educativa. Con l’arrivo dei fondi del Pnrr gli ultimi due governi hanno investito moltissime risorse sul reclutamento dei dipendenti pubblici, più che per tentare di invertire la rotta, quanto perché costretti da esigenze contingenti e di urgenza legate alla possibilità di un vero e proprio collasso della macchina amministrativa pubblica. Mai come negli ultimi 5/6 anni sono stati banditi così tanti concorsi da tutte le amministrazioni pubbliche. Anche il Dap ha fatto la sua parte cercando di reclutare con numerose selezioni principalmente educatori e funzionari amministrativo contabili. Tuttavia i risultati non sono stati quelli sperati. Nonostante le centinaia di posizioni concorsuali aperte le strutture amministrative del Dap continuano ad avere una endemica carenza di risorse umane. Anche qui le cause di tutto ciò hanno origine da una molteplicità di fattori che contribuiscono a determinare lo stato di cose presente. Sebbene sia una caratteristica comune a tutte le PA, un primo importante elemento che ha influito sul poco successo della strategia di reclutamento è di tipo tecnico- oggettivo, ovvero la scarsa attrattività economica dell’Amministrazione Penitenziaria. Come detto vale anche per altre PA sia di livello centrale che periferico, ma il dato è che gli stipendi sono troppo bassi. I concorsi pubblici sono su base nazionale e con i dati attuali dell’inflazione diventa assai complicato gestire un primo impiego in una qualsiasi città d’Italia come “fuori sede”, con stipendi che oscillano tra 1200, 1400, fino ai 1600 euro al mese dei funzionari. Dunque un primo importantissimo tema è quello del livello delle retribuzioni. In moltissimi casi è accaduto che i candidati vincitori di diverse selezioni pubbliche abbiano abbandonato il Dap optando per altre Amministrazioni che garantivano stipendi migliori. L’altro aspetto che ha determinato lo scarso successo dei concorsi Dap è invece peculiare di questa Amministrazione e ha a che fare con il tipo di lavoro che è richiesto. Sicuramente il contesto lavorativo è speciale poiché negli istituti di pena si è a contatto con una utenza, i detenuti, che richiede un approccio specifico capace di elaborare la difficoltà di un rapporto con soggetti che sono nella condizione di privazione delle libertà personale e di sicura sofferenza umana. Vale sicuramente e specialmente per i Funzionari giuridico pedagogici spesso a rischio burnout, ma anche per i funzionari ammini-strativo contabili responsabili di una contabilità carceraria che per norma di legge è appunto “speciale”, e di gestioni che riguardano i fondi dei detenuti e il complesso patrimonio mobile e immobile di Istituti che in molti casi hanno numeri e bilanci paragonabili a quelli di aziende medio- grandi. Spesso accade che queste responsabilità sono troppo grandi e spaventino i neo assunti che se possono, scappano verso situazioni più tranquille lasciando purtroppo scoperte posizioni di cui l’Amministrazione Penitenziaria ha grande bisogno. Come è stato già rilevato su queste pagine, è nata l’Associazione nazionale Funzionari contabili del Dap. Un nuovo soggetto che si pone l’obiettivo di dialogare costruttivamente con l’Amministrazione al fine di riconoscere in termini di responsabilità e retribuzioni il ruolo di chi svolge un lavoro speciale, in un contesto speciale, rispettando una normativa speciale e con una utenza speciale. *Capo area amministrativo contabile C.C. Roma Rebibbia Tra Zenit e Nadir: rotte educative per una giustizia riparativa di Riccardo Pavan Città Nuova, 8 marzo 2024 Il progetto dell’Istituto don Calabria e il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca) promuovono in ogni provincia un tavolo permanente per la Giustizia riparativa rivolto a minori e neomaggiorenni coinvolti nel circuito penale. La sfida di una comunità educante. Il settimo rapporto sulla giustizia minorile appena presentato dall’associazione Antigone sottolinea un dato allarmante: all’inizio del 2024 erano reclusi negli Istituti penali minorili (Ipm) quasi 500 ragazzi, un record nell’ultimo decennio. Se guardiamo il totale degli ingressi in carcere per anno, vediamo che sono stati 835 nel 2021 e ben 1.143 nel 2023, la cifra più alta negli ultimi quindici anni. Questo incremento non è casuale, ma dipende da quanto previsto nel decreto Caivano, voluto fortemente dal governo in carica come reazione al terribile stupro perpetrato da un gruppo di minorenni su due bambine avvenuto nel comune napoletano nel 2023. Ancora una volta, la reazione a un evento drammatico è stata quella di aumentare il ricorso al carcere. L’estensione della custodia cautelare in carcere è lo strumento che ha condotto in prigione tanti ragazzi autori di reato: i ragazzi in Ipm in misura cautelare erano 340 nel gennaio 2024, ma solo 243 un anno prima. Inoltre, il decreto Caivano impedisce l’accesso alla messa alla prova per diverse tipologie di reati e ha aumentato la possibilità di trasferire i ragazzi divenuti maggiorenni dagli Ipm alle carceri per adulti, in cui si finisce spesso per cadere nelle maglie dei circuiti criminali. È un deciso passo indietro rispetto agli orientamenti che si erano affermati nella giustizia minorile italiana, nella quale il rispetto del superiore interesse del minore si è concretizzato in un ricorso esteso alle misure alternative alla detenzione. Da alcuni anni, diverse organizzazioni ed esperti che non credono né efficaci né giuste le risposte puramente repressive rispetto ai reati, stanno sperimentando percorsi di Giustizia riparativa. Si tratta di un modello che si è già affermato in altri Paesi europei e che, in presenza di un reato, non si limita a punire l’autore dell’atto, ma tenta di ricostruire una relazione positiva tra il soggetto deviante o a rischio di devianza con la vittima del reato e la comunità all’interno della quale il reato è stato commesso. All’interno del modello riparativo il reato è una ferita, una lacerazione che coinvolge autore del reato, vittima e comunità. L’obiettivo della Giustizia riparativa è quello di aiutare il reo a comprendere le ragioni che lo hanno portato a commettere il reato e i danni che ha causato alla vittima e alla collettività, ad assumersi concretamente la responsabilità di quanto fatto e ad adoperarsi attivamente per ricostituire il suo legame con la comunità. Nello stesso tempo, la Giustizia riparativa sostiene la vittima nell’elaborazione di quanto vissuto, non lasciandola sola, e chiama la comunità locale a ragionare su quello che è accaduto e sui modi per favorire la costruzione di relazioni personali e sociali nuove e positive là dove il reato ha creato una rottura. È un percorso a cui non si può essere obbligati, tutti gli attori possono scegliere se aderire o meno a una proposta così impegnativa, che non risolve tutto buttando una persona in una cella ma che apre domande, suscita emozioni e sofferenze, chiama a difficili rielaborazioni, attiva azioni e reazioni. Proprio il modello riparativo è alla base del progetto “Tra Zenit e Nadir: rotte educative in mare aperto”, che vede l’Istituto don Calabria e il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA) come partner nazionali insieme a un’altra sessantina di partner locali (Comuni, scuole, enti della Giustizia minorile, enti del terzo settore). L’iniziativa, finanziata dall’impresa sociale Con i Bambini, si propone di sperimentare azioni di Giustizia riparativa rivolte a minorenni e neomaggiorenni coinvolti nel circuito penale o autori di atti di devianza. Il progetto è presente in tre regioni - Lombardia, Veneto e provincia di Trento - e finora sono stati presi in carico 420 ragazzi e ragazze. Sono moltissime le esperienze che sono state attivate all’interno del progetto, usando le più diverse occasioni e attività per coinvolgere i ragazzi autori di reato o di atti devianti, le comunità locali e, in alcuni casi, le vittime. Incontri, laboratori, attività culturali, azioni civiche a favore del territorio, agricoltura sociale e cura degli animali, viaggi… tante iniziative per ingaggiare i ragazzi coinvolti rispetto a un mondo lavorativo vario e originale, facendoli lavorare su espressività, desiderio, motivazione, e dove l’attività culturale diventa strumento di inclusione sociale e rigenerazione del territorio. Siamo convinti che per promuovere un’azione riparativa veramente efficace sui territori sia necessario costruire delle “comunità educanti”: non solo gli attori della giustizia minorile, ma tutti i soggetti della comunità - Comuni e scuole in primis - sono chiamati a ragionare e attivarsi per una azione di riconciliazione che, senza fare sconti a nessuno, apra prospettive positive per chi è coinvolto, a vario titolo, nei conflitti e negli atti devianti che avvengono sul proprio territorio. Per questo il progetto sta promuovendo la costituzione in ogni provincia in cui è presente (Milano, Brescia, Cremona, Verona, Vicenza, Treviso, Venezia, Trento) di un Tavolo permanente per la Giustizia riparativa, che dovrebbe essere il motore delle azioni riparative avviate dalla comunità locale. Il nostro auspicio è che l’azione del progetto Tra Zenit e Nadir aiuti quel processo di istituzionalizzazione della Giustizia riparativa iniziato nel 2022, anno in cui la riforma Cartabia ha introdotto la Giustizia riparativa nel nostro ordinamento. Un percorso ancora incompiuto. In particolare, vanno ancora istituiti i Centri per la Giustizia riparativa presso tutte le Corti d’Appello. Il cammino per affermare i principi della riparazione, della riconciliazione e della rigenerazione, invece della mera repressione, è ancora lungo e tortuoso. Il giornalismo si fa da parte: avanti spioni e mestatori! di Paolo Comi L’Unità, 8 marzo 2024 D’Attis (FI): “Sconcertante mancanza di controlli”. Orlando (Pd): “Pericolo di ingerenze. Chi chiedeva tutte queste informazioni?”. Mercoledì il capo della Procura nazionale antimafia, Giovanni Melillo, e ieri il Procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, hanno illustrato le dimensioni del dossieraggio messo in piedi da una associazione di giornalisti e uomini della procura antimafia. Dimensioni paurose. Melillo e poi Cantone hanno anche spiegato che un’operazione così vasta - parliamo di decine di migliaia di atti di spionaggio su cittadini privati - non può essere considerata opera di un sottufficiale della Guardia di Finanza e di tre giovani cronisti. È impensabile. È chiaro. I due magistrati hanno detto che si è messa in moto una macchina molto molto più grande. Cosa possiamo dedurre da queste dichiarazioni-bomba rilasciate in modo ufficialissimo di fronte alla Commissione parlamentare antimafia? Che la politica e la vita pubblica italiana sono inquinate da una attività illegale che le condiziona e le imbarbarisce. Questo è certo. Poi però, se leggete un po’ i giornali, capite un’altra cosa. Che esistono gruppi solidi di giornalisti, che in gran parte controllano molte delle scelte editoriali dei loro giornali, che lavorano con un metodo simile a quello che pare sia stato usato dal Domani. Ottengono informazioni riservate da vari centri di potere della magistratura o dei servizi segreti, le usano per fare degli scoop, o per danneggiare personaggi della politica o dell’economia, oppure le usano per “metterle da parte” e farci qualcosa. Non sappiamo cosa, non sappiamo quando. Il numero delle intrusioni illegali che pare siano avvenute in questi anni - non sappiamo ancora come, e su mandato di chi - fa capire che una grandissima parte di queste informazioni sono state “incamerate” e non utilizzate. Non sappiamo a carico di chi, non sappiamo dove si trovino ora, non sappiamo a quale scopo possano essere usate. Non sappiamo, non sappiamo, non sappiamo. Già. Però una cosa la sappiamo: il giornalismo italiano - diciamo: gran parte del giornalismo, non tutto per fortuna, ma certo quello più attivo e più influente - è devastato da questi metodi e da questa idea di giornalismo che col giornalismo c’entra ormai molto poco. È un problema molto grave, perché mette in discussione il buon funzionamento di una democrazia moderna. Una democrazia moderna non può funzionare in assenza di una struttura dell’informazione, e di un ceto giornalistico, almeno entro certi limiti onesti e liberi. In Italia non è più così. E questa particolarità la rende diversa da gran parte dell’Occidente. La cosa più grave è che il giornalismo è in coma. La causa di questa atroce degenerazione - che mescola e confonde giornalismo e spionaggio - non va trovata nell’oppressione di un potere politico, come in genere succede nei regimi autoritari, ma ha cause interne. Nasce dalle scelte di gran parte del mondo imprenditoriale che controlla l’editoria, e dal degrado nel quale è caduto gran parte del giornalismo che conta. È una china iniziata circa 30 anni fa. E oggi al traguardo. Statene certi: la grande maggioranza del giornalismo italiano è fatta da gente seria e onesta. Anche molto capace professionalmente. Il problema è che questa gente conta niente. Il potere è in mano a un pezzo vasto e corrotto del giornalismo giudiziario, che ha invaso il mondo dell’informazione e lo ha preso prigioniero. Quali sono state le coperture dell’ex maresciallo della guardia di finanza Pasquale Striano? Chi gli ha garantito per anni la completa “impunità”? E chi, ancora adesso, continua a coprirlo all’interno delle Fiamme gialle? Conosce segreti indicibili che potrebbero compromettere la carriera di politici ed imprenditori e quindi è meglio lasciarlo stare? Al termine dell’audizione di ieri da parte del procuratore di Perugia Raffaele Cantone alla Commissione antimafia, sono queste le domande che molti commissari andavano ripetendo nei corridoi di Palazzo San Macuto. Cantone sulla vicenda dei dossieraggi che vede indagato Striano e i giornalisti della squadra investigativa del Domani, aveva infatti poco prima raccontato uno scenario ben diverso da quello, già gravissimo, del quale si era a conoscenza. “Da gennaio del 2019 al novembre del 2022 - ha affermato Cantone Striano all’interno della banca dati Siva ha consultato 4.124 Sos, un numero spropositato. All’interno di queste ha consultato 171 schede di analisi e 6 schede di approfondimento che sono seguite digitando il nominativo di 1.531 persone fisiche e 74 persone giuridiche”. E poi: “Ha ricercato 1.123 persone sulla banca dati Serpico, ha effettuato 1.947 ricerche alla banca dati Sdi. Siamo oltre 10 mila accessi”. Come se non bastasse, Striano ha scaricato 33.528 file dalla banca dati della Direzione nazionale Antimafia. “Questo numero enorme di dati, di informazioni, di atti scaricati che fine ha fatto?”, ha aggiunto Cantone, senza però fornire una risposta. Le indagini ad oggi hanno soltanto consentito di appurare che qualche centinaio di questi file furono consegnati ai giornalisti del Domani che li avevano richiesti e che si erano poi tradotti in articoli sul quotidiano di Carlo De Benedetti. Si trattò di articoli, come nel caso di quelli sul ministro della Difesa Guido Crosetto, che determinarono l’avvio del procedimento penale. Ma le altre decine di migliaia di file della banca dati della Dna dove sono? Sono file che riguardano importanti procedimenti penali, coperti dal segreto, per reati gravissimi come mafia, eversione e terrorismo. Cantone ha aggiunto che non si trovano in quanto potrebbero essere stati inviati da Striano via chat o tramite wetransfer. Il senatore Pierantonio Zanettin (FI) sul punto ha però ricordato la sua esperienza di presidente della Commissione d’inchiesta sulla morte di David Rossi durante la quale, con l’aiuto dell’ex pentastellato Luca Migliorino, riuscì a recuperare tutto il contenuto del pc del manager di Mps che era stato addirittura formattato. Alla risposta sul perché Striano sia ancora in servizio, anche se in un altro ufficio, e non sia stato sottoposto ad un provvedimento cautelare di alcun tipo, Cantone ha invece preferito non rispondere. “Da garantista ritengo che le misure custodiali debbano rappresentare l’extrema ratio, ma mi chiedo come mai in una vicenda gravissima come questa, che ha come obiettivo la delegittimazione di ministri ed esponenti politici del centrodestra ed in relazione alla quale è evidente il pericolo di inquinamento della prova, non si è ritenuto di richiedere misure custodiali. I fatti sono gravi e rischiano di minare lo stesso ordine democratico”, ha dichiarato il parlamentare di Forza Italia Pietro Pittalis, capogruppo in Commissione Antimafia e vice presidente della Commissione Giustizia del partito azzurro. “E’ davvero sconcertante apprendere che Striano abbia fatto ciò senza controlli. Chi comandava la Dna è possibile che non se ne sia accorto? E se così è, è ancora più preoccupante”, ha dichiarato invece il deputato forzista Mauro D’Attis vicepresidente della Commissione Antimafia, aggiungendo che “il procuratore nazionale antimafia che dovrebbe assicurare la lotta alla mafia non controlla i suoi uffici. La coincidenza è con il periodo di reggenza del collega vice presidente De Raho. Tutto ciò fa emergere un quadro preoccupante e inquietante”, Che qualcosa comunque non torni in questa vicenda lo ha ricordato ieri Luigi Bisagnani, manager e giornalista, che nel suo libro I potenti al tempo di Giorgia, scritto insieme a Paolo Madron (Chiarelettere) e pubblicato a maggio 2023, rivelava l’esistenza di una maxi inchiesta su intercettazioni illegali. Bisignani, intervistato ieri, ha fatto intendere che si trattava proprio dell’inchiesta su Striano. “Mi faccio una domanda”, ha esordito Bisignani, “come mai Striano che è sotto inchiesta dalla scorsa estate, resta assolutamente invisibile? Non ne esiste una foto, nessuna troupe lo ha inseguito sotto casa, non ha ricevuto neanche mezzo tapiro, sui giornali non è stato fatto il solito articolo ‘la ragnatela di Striano’ con un’infografica che racconta tutti i suoi contatti. Come mai questo signore è intoccabile? È chiaro che è coperto da qualcuno’’. “Chi pensa che il Pd sia collegato a questa vicenda è semplicemente un cretino. Tra gli spiati “ci sono anche esponenti non del centrodestra”, è stato il commento del deputato del Pd Andrea Orlando. Per l’ex ministro della Giustizia “chi sono coloro che chiedevano queste informazioni di dimensioni così copiose è la domanda fondamentale che dobbiamo porci. Si pone la questione non della polemica tra centrodestra e centrosinistra ma della vulnerabilità del nostro Paese rispetto alla possibilità di ingerenze interne ed esterne”. In attesa che qualcuno risponda, Striano, come se nulla fosse, è stato assegnato dal comandante generale della finanza Andrea De Gennaro, nominato lo scorso anno da Giorgia Meloni, alla Scuola marescialli de L’Aquila. C’è da augurarsi, visto ciò che sta emergendo, che non faccia lezione agli allievi su come fare gli accessi alle banche dati. Cantone alza il velo: “Spioni alla Dna, numeri mostruosi” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 marzo 2024 Dopo Melillo, è il capo dei pm di Perugia, titolare dell’indagine sui presunti dossieraggi, ad allertare la commissione antimafia: “Scaricati più di 30mila file, non sappiamo se sono in mani straniere. Striano era a capo di un pool”. I numeri degli accessi abusivi realizzati dal finanziere Pasquale Striano sono “mostruosi, con oltre 30mila file scaricati”, anche se al momento non sono emersi “elementi che ci facciano pensare a finalità economiche”. “Sappiamo che Striano operava in pool, non abbiamo al momento fatto approfondimenti” su chi agisse con lui, tuttavia “lui era il coordinatore”. E ancora: “Il mercato delle Sos (le segnalazioni di operazioni sospette di Bankitalia, ndr) non si è mai fermato: mentre si indagava su quel sistema, c’era qualcuno che continuava a vendere sottobanco le Sos”. Sono le dichiarazioni più importanti rese dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone dinanzi alla commissione bicamerale Antimafia in merito al presunto dossieraggio attribuito al finanziere e al sostituto procuratore della Dna Antonio Laudati nei confronti di politici, personaggi del mondo economico, dello sport e dello spettacolo. In circa tre ore il vertice della Procura del capoluogo umbro - competente sulle vicende che coinvolgano magistrati in servizio a Roma, come Laudati - ha fornito ulteriori dettagli sull’indagine in corso, e l’audizione ha assunto indirettamente anche la valenza di una conferenza stampa, nata d’altra parte, a parere di Cantone, dalla “esigenza di ripristinare la verità sui fatti che sono stati detti in questa fase, alcuni riportati in modo generico, non avendo conosciuto gli atti, e per intervenire a tutela di un’istituzione sacra come la Procura nazionale, tra i lasciti più importanti di Giovanni Falcone. Ogni magistrato ha il dovere di difendere questa istituzione”. Il procuratore di Perugia è poi passato a elencare i numeri della vicenda: “Gli accessi sono più degli 800 di cui si è parlato. Dal primo gennaio 2019 al 24 novembre 2022, Striano, all’interno della banca dati Siva, ha consultato 4.124 Sos, un numero spropositato. Ha digitato 171 schede di analisi e 6 schede di approfondimenti, seguite digitando il nominativo di 1.531 persone fisiche e 74 persone giuridiche. Ha cercato 1.123 persone sulla banca dati Serpico, ma potrebbero essere pure 3mila, le ricerche, io mi limito al conteggio delle persone. Ha effettuato 1.947 ricerche alla banca dati Sdi. Siamo a oltre 10mila accessi, e il numero è destinato a crescere in modo significativo”. Si è poi posto la domanda: “Questo numero enorme di atti scaricati dalla Procura nazionale Antimafia che fine ha fatto? Quante di queste informazioni possono essere utili anche, per esempio, ai Servizi stranieri e a soggetti che non operano nel nostro territorio nazionale? Fra l’altro, tra i dati scaricati ci sono informative banali ma anche atti coperti dal segreto”. Nel rispondere alle domande dei parlamentari, Cantone ha quindi aggiunto: “Sulle finalità eversive non ho elementi. La pericolosità dei documenti è anche in relazione a chi è in grado di valutarli. Non ho elementi, non ci risulta assolutamente che Striano abbia avuto rapporti con agenti segreti stranieri”. E allora perché Striano avrebbe fatto tutto questo? È un semplice spione che “interrogava il sistema spesso perfino per se stesso, la moglie, probabilmente per vedere se c’erano delle Sos che lo riguardavano? Certamente - ha proseguito il capo della Procura di Perugia - la maggior parte degli accessi ha riguardato esponenti del centrodestra”. Sarebbe dunque un agente infedele al servizio di una parte dela stampa? L’ipotesi è al vaglio, essendo indagati quattro giornalisti: “Nessun attacco da parte nostra alla libertà di stampa, fondamentale in ogni democrazia”, ma “quella che non si tratti di notizie date dalla stampa, ma di attività di informazione commissionate dalla stampa a un ufficiale di polizia giudiziaria è un’ipotesi investigativa in merito alla quale saremmo felici di essere smentiti”. Poi una critica alla normativa in discussione al Senato sul sequestro dei cellulari: in quello di Striano “abbiamo trovato tantissime prove: questo è importante da sottolineare nel momento in cui ci sono delle proposte di legge che limitano le indagini sui cellulari”. Tuttavia le indagini si sono complicate anche perché qualcuno dalla Procura di Perugia ha fatto uscire degli atti ancora coperti da segreto: “Questa è la seconda fuga di notizie in questa inchiesta, però ancora non abbiamo capito chi e come questa notizia l’ha fatta uscire, danneggiando l’indagine”. Ha poi replicato indirettamente alle polemiche sollevate dal centrodestra in questi giorni: “Il commissariamento della Procura Antimafia è una boutade: un organo giudiziario non può essere commissariato”. Nel pomeriggio Cantone è stato sentito, insieme al vertice della Dna Giovanni Melillo, anche dal Copasir, in un’audizione stavolta secretata, in cui si è discusso dei profili di sicurezza nazionale della questione. Mentre ancora non arriva la convocazione da parte del Csm: “Il Consiglio superiore valuterà se e quando sentirci: noi ci siamo messi a disposizione”. Numerose le reazioni dei partiti alle parole dell’ex presidente dell’Anac. “Chi pensa che il Pd sia in qualche modo collegato a questa vicenda è semplicemente un cretino”, ha detto il deputato dem, e membro della commissione Antimafia, Andrea Orlando. Per l’ex guardasigilli “si pone la questione non della polemica tra centrodestra e centrosinistra ma della vulnerabilità del nostro Paese rispetto alla possibilità di ingerenze interne ed esterne. Sarebbe matura una maggiore unità delle forze politiche. Evidentemente non sempre siamo in grado di dare questa prova di maturità”. Mentre Pietro Pittalis, capogruppo di FI in commissione Antimafia, pur ritenendo la custodia cautelare una extrema ratio si è chiesto “come mai in una vicenda gravissima come questa, che ha come obiettivo la delegittimazione di ministri ed esponenti politici del centrodestra e in relazione alla quale è evidente il pericolo di inquinamento della prova, non si è ritenuto di richiedere misure custodiali. I fatti sono gravi e rischiano di minare lo stesso ordine democratico. Confidiamo nell’azione della magistratura perché venga fatta piena luce”. Ancora più duro il commento del vicepresidente della Camera Fabio Rampelli (FdI): “Primo: trovare i mandanti e sbatterli in galera. Secondo: togliere la toga e la divisa ai servitori infedeli dello Stato. Terzo: chiedere ai 4 giornalisti di svelare il segreto professionale in base agli articoli 200 e 204 del codice di procedura penale e rintracciare i messaggi cancellati tra loro e Striano. Quarto: demansionare tutti i giudici che utilizzano il loro potere per perseguire finalità politiche destabilizzatrici delle istituzioni”. Sul dossier di Striano sui fondi della Lega, è intervenuto direttamente il leader del Carroccio Matteo Salvini: “Da anni la Lega subisce una campagna diffamatoria che poi viene smontata in tribunale dopo anni di fango e vite rovinate: lo scandalo spioni conferma che si tratta di un vero e proprio attacco alla democrazia. Faremo di tutto per andare fino in fondo”. Mentre per il segretariodi Sinistra Italiana e deputato di Alleanza Verdi-Sinistra Nicola Fratoianni e il co-portavoce di Europa Verde Angelo Bonelli “c’è un gigantesco problema di cybersicurezza e di protezione dei dati che va affrontato, e questo vale per ieri, per oggi e per domani. Se ci sono informazioni che dovrebbero essere protette e che non lo sono e che arrivano nelle mani dei giornalisti, non possiamo prendercela con loro: bisogna prendersela con chi le ha fatte uscire, con chi ha stampato 33mila pagine di file”. L’Antimafia non serve più, intanto ha ucciso il diritto di Filippo Facci Il Giornale, 8 marzo 2024 L’apparato che tutta Europa invidia (e non adotta) è diventato un “mostro giudiziario” fuori controllo. Finirà in niente, diranno che il Parlamento si limitò a recepire una direttiva di Bruxelles (2018/843) e che il governo si limitò a trasformarla nel Decreto legislativo sull’antiriciclaggio (n.90) con l’applauso dei Cinque Stelle del Partito Democratico: da qui l’articolo 1 che dà la possibilità al Dipartimento nazionale antimafia (Dna, via Giulia, Roma) di chiedere e ricevere informative da Bankitalia e da altre banche dati: questo su qualsiasi cittadino italiano, non importa se sia indagato o no, perché l’Antimafia si muove a prescindere sulla base delle “misure di prevenzione” che esistono solo in Italia. È così dal 19 giugno 2018, quando prese forma quando il potere del Gruppo Sos retto sino a pochi mesi fa dal luogotenente della Finanza Pasquale Striano, ora indagato a Perugia. È da quel giorno che la Dna “in forma preventiva” ha assunto una serie di prerogative tra le quali essere il terminale di segnalazioni di ogni operazione che ritenga: 155mila nel 2022 con 800 accessi abusivi certi, una centralizzazione che monìtora tutti i politici e che il guardasigilli Alfonso Bonafede (Governo Conte) difese e confermò per com’era: un mostro con competenza illimitata. Se ne accorsero le procure di Milano, Roma e Napoli secondo le quali la Dna esulava dai propri limiti, ma nulla accadde, tranne che le fughe di notizie si fecero regola, e certi giornalisti rincorsero “notizie” come i cani con gli ossi gettati loro. Uscì di tutto, soprattutto su personale di centrodestra, ma anche sulla compagna di Giuseppe Conte e sul fidanzato di Rocco Casalino. Una sconcezza. La Dia doveva essere un “organismo servente” (funzione immaginata da Giovanni Falcone nel suo discorso al Csm del 24 febbraio 1993, osteggiatissimo a sinistra) ma la Superprocura divenne un luogo di transito per magistrati in attesa di accedere a un incarico direttivo (in qualche procura, se le correnti avessero collaborato) o addirittura aspettando uno scranno da parlamentare del Pd, come fu per gli ultimi tre procuratori nazionali. Il discorso non valse per Pierluigi Vigna (1997-2005) ma in seguito, dopo la mancata nomina di Gian Carlo Caselli, cominciò la politicizzazione: a partire dall’ottimo Pietro Grasso, che diverrà presidente dopo un passaggio da senatore del Pd. Lo stesso varrà per Franco Roberti, eurodeputato del Pd nel 2019. Intanto le procure tendevano a trasformarsi in granducati autonomi, per buona pace della “colleganza” auspicata da Falcone, mentre la Superprocura, e tutta l’Antimafia, presero i contorni del mostro che è oggi. Passaggio chiave ne fu la Legge Orlando, che nel settembre 2017 tese a equiparare i corrotti ai mafiosi e fece largo a un “Codice antimafia” senza che esistesse neppure più la mafia propriamente detta, ma solo una criminalità simile o meno pericolosa di quella presente in tanti altri paesi. Restava l’Antimafia, un sistema burocratico e giudiziario cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito, un’eterna emergenzialità che spazzava via le garanzie e la presunzione d’innocenza, con sequestri e confische “preventive” che rovinavano un’infinità di cittadini (e sindaci) perché figuravano estese anche a reati come il semplice peculato mentre furoreggiava anche una versione estesa del “trojan”, un virus informatico in grado di intercettare dal telefono anche password, messaggi, immagini e insomma tutto. Era questa la legislazione “che tutta l’Europa ci invidia” ma che tu guarda, nessuno (nessuno) ci ha mai copiato, nessun altro Stato ha adottato, anche se i traffici e il riciclaggio, altrove, sono peggio dei nostri. C’è un racconto che Alessandro Barbano, ex direttore del Mattino e neo del Riformista, ha scritto nel suo libro “L’inganno” (2022) dedicato proprio agli “usi e soprusi del professionisti del bene”: era a un dibattito cui partecipava anche Federico Cafiero de Raho, ex capo della Dna e della procura di Reggio Calabria, tirato in ballo proprio in questi giorni; capitò che lui, Barbano, chiese a de Raho se non fosse preoccupato della deriva giustizialista che stava prendendo il Paese; la risposta: “Non c’è nessun allarme, poiché la garanzia per ogni cittadino è il processo, sede in cui può accertarsi l’innocenza di chiunque”. Ancora Barbano: “Gli feci notare tuttavia che, se la garanzia per il cittadino diventa il processo, fuori dal processo questi è un presunto colpevole. Tutti siamo presunti colpevoli. Ma non raccolse l’obiezione, poiché il processo, abituato a viverlo da protagonista, doveva sembrargli il migliore dei mondi possibili”. La superprocura antimafia non serve più a niente: è solo il grimaldello per scardinare lo stato di diritto e mettere l’intera società sotto tutela giudiziaria. È un’emergenza fattasi istituzione, e dirlo è difficile: perché occorre resistere all’accusa di offendere chi, per combattere la mafia, sacrificò la vita. Ma basta niente per confiscare aziende e immobili assai prima di una sentenza, basta la discrezionale “pericolosità sociale” per mandare in malora patrimoni e famiglie, basta sfogliare i giornali per apprendere di imprenditori (assolti) cui l’antimafia frattanto ha ucciso tutto. La netta sconfitta di Cosa Nostra non ha fermato questo sistema, non l’ha ridimensionato o adeguato alla realtà: c’era un sistema di potere che andava mantenuto. Quelle audizioni senza difesa sono un’altra picconata alla presunzione d’innocenza di Davide Varì Il Dubbio, 8 marzo 2024 Sì, da questa storiaccia emerge il ritratto di un giornalismo “engagé” che diventa potere. Ma quel che sta accadendo in commissione antimafia è il trionfo del processo mediatico-giudiziario. Lo abbiamo detto e lo ribadiamo: la storiaccia del presunto dossieraggio impacchettato negli uffici dell’antimafia e consegnato ai giornalisti “amici” è solo l’ultimo atto, l’evoluzione finale del Frankenstein mediatico-giudiziario. È l’esito inevitabile di un “processo” iniziato con Tangentopoli, quando stampa e procure marciavano unite per affondare una intera classe politica, e finito col Sistema descritto Palamara, ovvero con la creazione di un contropotere politico-giudiziario che decideva nomine e carriere sulla base della dialettica amico-nemico. Oggi scopriamo però un terzo soggetto che è implicato ben più di quanto immaginassimo: i giornali. Quel Sistema poteva e può ancora contare su una rete di giornalisti “engagé” ai quali passare informazioni in cambio del silenzio, della rinuncia alla funzione di controllo del potere giudiziario. Emerge dunque il ritratto di un giornalismo che non solo va a braccetto con pezzi di establishment, ma diventa esso stesso potere, Sistema. C’è però, in tutta questa storia, un problema, una contraddizione che un giornale come il nostro non può far finta di non vedere. Quel che sta accadendo in commissione antimafia è il trionfo del processo mediatico-giudiziario. Mentre si denuncia il clamoroso dossieraggio partito dagli uffici della Dna, in quello stesso momento, si celebra un vero e proprio processo a carico di agenti, magistrati e giornalisti, senza possibilità alcuna di difesa, senza contraddittorio. Intendiamoci, non siamo ingenui: sappiamo bene che questa storia tocca i fondamentali della nostra democrazia e siamo certi che sia il procuratore antimafia Melillo che il procuratore di Perugia Cantone non agiscono per tutelare se stessi ma per proteggere e custodire le istituzioni democratiche. Di più: il Parlamento, ovvero la casa di vetro dei cittadini italiani, è il luogo ideale nel quale denunciare quel sistema. Eppure non possiamo chiudere gli occhi di fronte al corto-circuito che questo processo pubblico rischia di provocare: ovvero un nuovo massacro dei diritti degli indagati, una involontaria fuga di notizie, una ennesima picconata alla presunzione di innocenza. Quella audizione andava fatta, certo, ma a porte chiuse. Anche perché, nel frattempo, nuovi poteri e nuovi “sistemi” stanno raccogliendo questa massa di informazioni per riorganizzarsi e sostituire chi oggi è alla “sbarra”. Cosa c’è prima della notizia. I giudici di fronte al diritto di cronaca di Vitalba Azzollini* Il Domani, 8 marzo 2024 Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, si possono pubblicare anche informazioni di “origine opinabile” se, per le circostanze del caso concreto, il diritto di cronaca prevalga su doveri e responsabilità del giornalista. La giurisprudenza della Corte di Cassazione non è univoca sul punto. L’interesse che in questi giorni l’opinione pubblica manifesta per i limiti del diritto di cronaca induce a verificare come i giudici europei e nazionali, in particolare quelli di ultima istanza, valutino gli atti che i giornalisti talora pongono in essere per procurarsi le notizie. Una premessa. La libertà di informazione - intesa come diritto di informare e di essere informati (art. 21 Cost.) - è uno dei cardini degli ordinamenti democratici. Perciò l’attività giornalistica gode di un regime derogatorio alla disciplina ordinaria a tutela della privacy delle persone, specie se note o se esercitano funzioni pubbliche, nel rispetto della essenzialità dell’informazione e di altri principi. Inoltre, nel bilanciamento tra il diritto di cronaca - che non è mai assoluto - e altri diritti è necessario rispettare talune condizioni: che la notizia sia vera o verosimile; che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti; che l’esposizione sia continente. In questi casi, il diritto di cronaca può costituire una scriminante - cioè una giustificazione - per gli eventuali reati commessi con la pubblicazione della notizia, escludendo la punibilità di chi li ha posti in essere. La Corte europea dei diritti dell’uomo - La Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), all’art. 10, tutela la libertà d’espressione, intesa come libertà di opinione e informazione, senza ingerenze da parte delle autorità pubbliche, salvo quanto previsto dalla legge. Una sentenza che si segnala riguardo all’art. 10 è quella della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu) del 1999 (Fressoz et Roire c. Francia). Il caso riguardava il direttore e un giornalista di un settimanale francese che per la pubblicazione di un articolo avevano utilizzato documenti ottenuti da un terzo su cui gravava un obbligo di segreto. La Corte ha osservato che la fase del procacciamento delle notizie è solo formalmente distinta dalla fase di diffusione delle stesse. La prima è presupposto indefettibile della seconda. Di conseguenza, quando - a seguito di bilanciamento - il diritto di cronaca prevalga su doveri e responsabilità del giornalista che entrano in gioco sia nella fase del procacciamento delle notizie che in quella della loro diffusione, l’effetto “salvifico” della scriminante del diritto di cronaca esclude la punibilità del giornalista pure per gli atti con cui si è procurato l’informazione. In questi casi, sarebbe consentita la pubblicazione anche di informazioni di “origine opinabile”. Nel caso del 2019, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che non andassero condannati i giornalisti che si erano procacciati informazioni con un atto di ricettazione, anche tenuto conto che le stesse informazioni erano disponibili ai cittadini in base alla legge francese. Va tuttavia detto che, nella maggior parte dei casi, la Corte Edu ha risolto il bilanciamento in senso favorevole all’interesse contrapposto a quello di cronaca (ad esempio, ordine pubblico o buon andamento delle relazioni diplomatiche). Parimenti, resta escluso dall’esimente del diritto di cronaca il caso in cui il giornalista partecipi della condotta criminosa di chi gli procuri la notizia, ad esempio mediante istigazione. La Cassazione - Fino al 2019 la Corte di Cassazione ha ritenuto pacificamente che la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca operasse “solo in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia, e non anche rispetto ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima” (n. 27984/2016). Ma nel 2019, in una importante pronuncia, la Corte ha mutato orientamento e, richiamando i principi espressi dalla Corte Edu nella sentenza citata, ha deciso - in un caso di ricettazione - che la scriminante del diritto di cronaca può operare riguardo agli illeciti commessi non solo con la pubblicazione della notizia, ma anche per acquisirla, qualora tale diritto pesi di più di altri coinvolti (n. 38277/19). Lo stesso principio è stato ribadito nel 2022 (n. 49113), sempre per un caso di ricettazione, ma nel 2023 una nuova pronuncia (n. 36407/23) è tornata all’orientamento precedente: la scriminante del diritto di cronaca non giustifica le condotte illecite poste in essere dal giornalista per procacciarsi la notizia. In concreto, se sull’ipotesi di ricettazione sono stati aperti dei varchi per la scriminante, essa non opera mai ad esempio in casi di minacce, violazioni di domicilio e similari. Detto ciò, una cosa è certa: il diritto di cronaca va maneggiato con cura, da ogni parte. E serve parlarne con cognizione di causa, sulla base di principi di diritto, nonché al di sopra di qualunque connotazione politica. Insomma, l’opposto di ciò che spesso accade. *Giurista Smettiamola col mito fasullo dei giornalisti dalla “schiena dritta” di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 8 marzo 2024 La retorica del cronista libero e indipendente? La vedo naufragare negli articoli di chi si fa strumento dei centri di potere. Che senso ha gridare al “bavaglio”? Due colpi d’accetta sarebbero necessari oggi, per dare una svolta a questo meccanismo che intreccia spiate e scoop, gogne e bersagli da colpire. Primo: decidiamoci ad abolire l’Ordine dei giornalisti. Secondo: chiudiamo i battenti della Direzione nazionale Antimafia. Facciamolo nel nome di Einaudi e di Falcone. Con questi due provvedimenti si potrebbe cominciare a prosciugare l’acqua in cui nuotano i pescecani. Pescecani di Stato e pescecani da tastiera. Tutti i soggetti complici del passato e oggi indagati dalla procura di Perugia diretta da Raffaele Cantone. Il quale ieri, come già il giorno precedente il capo della Dna Giovanni Melillo, ha usato parole di grande severità nei confronti di uomini e sistemi. Imputati e imputandi, come disse un giorno il preveggente Giulio Andreotti. L’Ordine dei giornalisti è il grande assente di questi giorni. E meno male, visto che, ormai sovrapponibile al sindacato, sa emergere solo quando deve strillare contro le “leggi bavaglio”, cioè quelle norme che, come nell’ultimo caso in ordine di tempo, dovrebbero tutelare i diritti dei cittadini su principi fondamentali come la presunzione di non colpevolezza. Cioè principi costituzionali. Ma sulle costanti attività di dossieraggio, violazione del segreto investigativo, pubblicazione di dati sensibili che puntano il mirino su bersagli individuati con cura da giornalisti politici, ben prima che ce lo segnalasse Raffaele Cantone, l’Ordine è sempre stato afono. Seguiamo dunque il suggerimento del presidente Luigi Einaudi (“giudice della dignità o indegnità del giornalista non può essere il giornalista”) e poi di Ugo La Malfa e dei radicali di Marco Pannella, che fecero prima la disobbedienza civile e poi il referendum per l’abolizione dell’Ordine. Che fu sottoscritto anche da Silvio Berlusconi e votato, in dissenso con la sinistra, da Massimo D’Alema. Con dodici milioni di cittadini, ma senza ottenere il quorum (a proposito: a quando una legge per abolire il quorum?). Se volessimo aggiungere le iniziative di Pinuccio Tatarella e poi le dichiarazioni di Matteo Renzi e di Beppe Grillo, magicamente troveremmo una maggioranza parlamentare. E allora facciamolo. Così forse si potrebbe cominciare ad accantonare espressioni come “giornalisti con la schiena dritta”, “noi diamo solo notizie”, “se ho una notizia la devo dare”. E poi la regina di tutti gli imbrogli, la cosiddetta “libertà di stampa”. Perché che cosa c’è di libero e doveroso per informare i cittadini, nel mercato delle Sos, le segnalazioni di operazioni sospette di Bankitalia, con cui vengono resi noti addirittura i conti correnti dei cittadini? Stiamo parlando di qualcosa che si è prolungato nel tempo e che esiste ancora, non di qualche caso isolato. Stiamo parlando di giornali, di “inchieste” che sono state alimentate per anni da soggetti, come il finanziere di fiducia di alcuni quotidiani Pasquale Striano, attraverso la violazione costante, e infinita nel numero, delle banche dati esistenti nella Direzione nazionale Antimafia. Non solo le Sos, ma gli eventuali precedenti giudiziari, le dichiarazioni dei redditi e qualunque informazione di tipo economico e finanziario di ogni cittadino-bersaglio. Queste informazioni sono migliaia e migliaia. Ma solo una parte è stata utilizzata. Dove sono finite le altre? Sono in qualche cassetto, o computer, da cui usciranno un giorno o l’altro a scopo ricattatorio o come merce di scambio? Questi giornalisti la devono piantare di tenere questi comportamenti. Lasciamo perdere per un attimo quelli che oggi sono soggetti a indagini giudiziarie, dobbiamo loro quel rispetto che loro non avrebbero nei nostri confronti. Ma non si può sentir dire dal direttore di un giornale che sulle violazioni, sui buchi di permeabilità e sull’assemblamento di atti giudiziari campa ogni giorno come Marco Travaglio, che la soluzione è una sola, “male non fare paura non avere”. Vada avanti lui, che a noi viene da ridere. E neanche da un altro campione di “giornalismo d’inchiesta” come Lirio Abbate, che “occorre compiere un’azione di responsabilità”, perché le fonti del giornalista non sempre sono disinteressate e spesso usano i quotidiani come buca delle lettere. Azioni di responsabilità, certo. Un po’ come quella dell’Espresso di cui Abbate era direttore quando nel 2014 pubblicò il famoso articolo “Il business segreto della vendita dei virus che coinvolge aziende e trafficanti”, con bersaglio la virologa Ilaria Capua. Che naturalmente fu assolta. Ma con la vita violata e massacrata. Ah, le fonti da tutelare e proteggere! Ogni giornalista sa che al cospetto del magistrato può sempre citare il magico articolo otto della legge sulla stampa che gli impedisce di rivelare la fonte della notizia che ha pubblicato. Già, ma qui non si sta parlando di singoli fatti e singole occasioni, ma di rapporti continuati e sistematici. E di più, pare che fossero i giornalisti a sollecitare le fonti. Essendone consapevoli, ci dice il procuratore Cantone. E attingevano in un luogo come la Direzione nazionale Antimafia che avrebbe dovuto tutelare il massimo di riservatezza e che invece si è dimostrato di grande permeabilità, come ci ha spiegato il procuratore Melillo, molto critico sull’eredità ricevuta dal predecessore Cafiero de Raho. Ed eccoci dunque al necessario secondo colpo d’accetta, suggerito del resto da un personaggio insospettabile come Sabino Cassese. Eliminare la Dna. Quella voluta da Giovanni Falcone era un’altra cosa, era un semplice strumento di coordinamento delle diverse procure sparse in tutta Italia. Ed era stata molto criticata dal sindacato dei magistrati e dagli stessi procuratori. Ma poteva avere un senso. Oggi non lo ha più. Soprattutto dopo che, su iniziativa prima del presidente Franco Roberti e poi di Cafiero de Raho, è diventata il centro di potere assoluto sui cittadini nella gestione delle segnalazioni della Banca d’Italia. Il potere assoluto accompagnato da massima permeabilità di ogni segreto ne ha fatto un organismo fragile e pericoloso. Sciogliamolo subito, insieme all’Ordine dei giornalisti. Facciamolo in nome di Einaudi e di Falcone. Se abbiamo ancora a cuore non diciamo uno Stato liberale, ma almeno democratico. Davigo condannato anche in appello: l’unico dossieraggio per ora è il suo di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 marzo 2024 L’ex pm di Mani pulite si fece consegnare verbali coperti da segreto e ne rivelò il contenuto a una decina di soggetti, danneggiando la reputazione del consigliere Sebastiano Ardita e portando al suo isolamento al Csm. Se per dossieraggio si intende raccogliere notizie coperte da segreto su qualcuno e poi utilizzarle a danno di quest’ultimo, bisogna dire che l’unico a essere stato condannato in questi giorni per dossieraggio è Piercamillo Davigo. L’ex magistrato, pm simbolo di Mani pulite, è infatti stato condannato dalla Corte d’appello di Brescia a un anno e tre mesi di reclusione per rivelazione di segreto d’ufficio nella vicenda dei verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria. La stessa pena era stata stabilita dal tribunale in primo grado lo scorso giugno, compreso il versamento di 20 mila euro alla parte civile Sebastiano Ardita. Nel marzo 2020 Davigo - all’epoca consigliere del Csm - convinse il pm milanese Paolo Storari a consegnargli i verbali di Amara sulla fantomatica loggia Ungheria (in seguito rivelatasi inesistente) e poi ne rivelò il contenuto in maniera informale a una decina di soggetti, tra cui il pg della Cassazione Giovanni Salvi, il vicepresidente del Csm David Ermini, cinque componenti del Csm, il senatore Nicola Morra, la sua segretaria e la sua assistente giuridica. Storari si era mosso con l’intenzione di tutelarsi dall’inerzia a suo dire praticata dai vertici della procura attorno all’inchiesta. Nel corso del processo Davigo ha riferito di aver detto a Storari che, essendo all’epoca consigliere del Csm, nei suoi confronti “non era opponibile il segreto” e che non poteva inviare al Csm un plico riservato, come richiedevano le circolari del Csm, perché dopo il caso Palamara ci poteva essere una nuova fuga di notizie. “Pensavo di poter riferire io per far tornare la vicenda nel binario della legalità”, ha detto Davigo, sentendosi un po’ come Batman. Davigo, però, andò ben oltre i suoi stessi propositi. Dopo aver ricevuto i verbali da Storari, l’ex pm di Mani pulite ne rivelò infatti il contenuto a cinque consiglieri del Csm e a un senatore (Nicola Morra). “Ad alcuni dissi che il nome di Ardita (allora membro del Csm, ndr) era tra quelli inseriti nella presunta loggia Ungheria. Ritenevo di doverlo fare”, ha detto Davigo nel processo, ammettendo quindi di aver usato dei verbali segreti contenenti dichiarazioni non ancora verificate per delegittimare il suo ex amico e compagno di corrente Ardita. Non solo. Davigo vagliò anche l’affidabilità dello stesso Amara. A raccontarlo è stato il consigliere Giuseppe Cascini lo scorso novembre: “Mi ero occupato di un’indagine per la procura di Roma in cui compariva anche l’avvocato Amara. Davigo voleva sapere se fosse affidabile o meno”. Le rivelazioni di Davigo, come evidenziato anche nella sentenza di primo grado, ebbero come effetto proprio quello di danneggiare la reputazione di Ardita e isolarlo al Consiglio superiore della magistratura. Il procuratore generale di Brescia, Enrico Ceravone, aveva chiesto la conferma della condanna nei confronti di Davigo sottolineando che, in caso di assoluzione, si sarebbe dovuta accettare la trasformazione del Csm in una centrale di dossieraggio: “Diciamo pure che la si pensi diversamente, e cioè che ogni singolo consigliere possa attivarsi per ricevere notizie riservate o addirittura di atti secretati. All’indomani ci si ritroverebbe in una sorta di futuro distopico. Si dovrebbe affermare il potere di ogni pm di svelare notizie o addirittura consegnare atti a un qualsiasi consigliere, sia esso togato o non togato, che si assumerebbe dunque impropriamente il compito di veicolare informalmente al di fuori dei previsti canali istituzionali notizie altamente riservate. Con il rischio di trasformare il Csm da strumento di tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura in un luogo di immediata amplificazione di qualsiasi pur vaga notizia di reato, con un allargamento esponenziale dei possibili destinatari dei segreti istruttori”. Per la prima volta in maniera chiara, insomma, la pubblica accusa aveva posto l’attenzione su ciò che c’è davvero in ballo nella vicenda Davigo, cioè non tanto (e solo) la liceità della condotta dell’ex pm, quanto l’equilibrio tra le istituzioni del nostro paese. Come ben evidenziato da Ceravone, infatti, nel caso in cui il comportamento di Davigo venisse ritenuto lecito, vorrebbe dire che ciascun consigliere del Csm potrebbe legittimamente ricevere atti segreti di indagine da qualsiasi pm e usare queste informazioni riservate per regolare i conti con le persone a lui non gradite, finendo pure per condizionare il funzionamento di un organo di rilevanza costituzionale. Parliamo al presente perché il “caso Davigo” è ancora aperto: se l’ex pm si è astenuto dal rilasciare dichiarazioni, i suoi legali hanno già annunciato il ricorso in Cassazione, e questo nonostante ovviamente non siano ancora state depositate le motivazioni della sentenza d’appello. E pensare che fino all’altro ieri proprio Davigo se la prendeva con le impugnazioni pretestuose, causa di lentezza della giustizia. La grandiosa Caporetto dei manettari di Claudio Cerasa Il Foglio, 8 marzo 2024 La condanna di Davigo è un passo in avanti contro l’irresponsabilità e le ipocrisie della repubblica dei pm. La condanna in secondo grado comminata ieri a Piercamillo Davigo dai giudici della Corte d’appello di Brescia è una notizia clamorosa per almeno due ragioni diverse. Il primo elemento riguarda la nemesi del personaggio in questione, che da affezionato giocoliere del circo mediatico-giudiziario è divenuto tutto ciò che ha sempre combattuto: un moralista moralizzato deciso a scagliarsi contro gli organi di stampa che lo stanno descrivendo come un colpevole fino a prova contraria e deciso a denunciare la presenza di magistrati ideologici che lo avrebbero a suo dire condannato sulla base di teoremi. La nemesi di Davigo, vittima ora dello stesso teorema che aveva utilizzato per denunciare l’immoralità diffusa della classe politica, non esistono innocenti esistono solo colpevoli non ancora scoperti, è però solo una piccola parte della storia, che non dovrebbe far perdere di vista quella che è la vera notizia nella notizia. E’ una notizia clamorosa la condanna di Davigo (alla famiglia davighiana del Fatto quotidiano va il nostro più sincero abbraccio) ma è una notizia ancora più clamorosa la ragione per cui l’ex capo dell’Anm è stato condannato in appello. Nell’Italia dei colabrodi giudiziari, il principio dell’irresponsabilità è quello che spesso governa il mondo all’interno del quale si muovono i magistrati più disinvolti e più spregiudicati, quelli che sentendosi essi stessi la legge spesso considerano secondario il rispetto delle regole fissate dalla legge, e in un mondo dove prospera l’irresponsabilità è purtroppo facile trovarsi al cospetto di casi in cui, di fronte a un errore, a una mancanza, a una svista o a un reato, non vi sia la responsabilità di nessuno. C’è una fuga di notizie da una procura? E che problema c’è, tanto nessuno pagherà. C’è un’indagine che viene aperta senza che vi sia una sola prova? E che problema c’è, tanto nessuno pagherà. C’è un’intercettazione che viene trascritta dove compare una persona estranea alle indagini? E che problema c’è, tanto nessuno pagherà. C’è un funzionario infedele che usa le banche dati delle procure e delle forze dell’ordine per fare dossieraggio? E che problema c’è, tanto nessuno pagherà. Da questo punto di vista, la condanna di Piercamillo Davigo è un segnale importante perché testimonia una novità che capiamo possa suonare clamorosa alle orecchie del principe dei manettari. Il principio di responsabilità esiste anche per i magistrati. E il fatto che, nel caso specifico, un componente del Csm (come era Davigo) si faccia consegnare da un altro pm (di nome Paolo Storari) atti coperti da segreto per delegittimare un altro magistrato (Ardita) e per azionare la macchina del fango appoggiandosi all’allora presidente della commissione Antimafia (Morra) non è, come sostiene Davigo, “aver agito in buona fede” ma è semplicemente un reato, come lo è la divulgazione di qualsiasi atto coperto da segreto. In una repubblica dominata dallo stato di diritto, la condanna di un funzionario dello stato che ha divulgato atti coperti da segreto non dovrebbe essere nemmeno una notizia: dovrebbe essere la normalità. In una repubblica dominata dalla logica del dossieraggio, dal principio dell’irresponsabilità, dal tintinnio delle manette, sapere che la magistratura inizia a considerare irregolari alcune pratiche anche se queste vengono portate avanti dai magistrati è una notizia importante, che ci regala un sorriso non per tutto ciò che può rappresentare per il signor Davigo (e per i suoi compagni di gioco manettari) ma per tutto ciò che può rappresentare per lo stato di diritto e per un paese che a piccoli passi inizia a denunciare, come fatto due giorni fa anche dal procuratore capo dell’Antimafia Giovanni Melillo e come fatto ieri dal procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone, quanto sia pericoloso non limitare i pieni poteri più pericolosi per il paese: quelli dei magistrati. Gino Cecchettin: “Abbraccerei i genitori di Filippo, vivono un dramma più grande del mio” di Giovanni Viafora Corriere della Sera, 8 marzo 2024 Si è commosso Gino Cecchettin varcando la porta dell’aula magna de “La Sapienza” (lui ospite d’onore di Obiettivo 5, l’iniziativa del Corriere ospitata proprio dall’Università di Roma). Ha guardato la platea, gremita di studenti e gli è scesa una lacrima. Unica concessione all’emozione, prima di parlare per oltre un’ora della sua Giulia (la figlia uccisa dall’ex, lo scorso 11 novembre) e, in fondo, anche di tutti noi. Sempre con una serenità e una profondità spiazzanti. “Piango perché penso a Giulia, una studentessa come voi”, ha sussurrato ai ragazzi, ricevendo un lungo e sentito applauso. “La gente ha conosciuto solo un millesimo di te - scrive nel libro “Cara Giulia” (appena uscito per Rizzoli), rivolgendosi a sua figlia -, figurati quanto ti avrebbero amata se ti avessero conosciuto di persona”. Ecco, chi era Giulia? Perché ha toccato il cuore? “Era una ragazza fantastica. Ho pensato di scrivere un libro perché restasse una memoria di Giulia. Ha sempre raccolto l’essenza dell’amore, altruista verso chiunque avesse un minimo di bisogno, dalla famiglia a chi avesse difficoltà, si prodigava, voleva essere utile. Il libro è perché lei resti”. I giorni prima della tragedia erano giorni sereni per voi. Eppure, lei ha scritto, “mi ferisce non ricordare con precisione il momento in cui lei è scesa a tavola, ci siamo salutati. Quello che era, a ripensarci, avrebbe dovuto essere in assoluto il momento più importante della nostra vita”... “Era una giornata ordinaria, è diventata l’ultima giornata con mia figlia, vissuta come tutti i giorni: innestiamo il pilota automatico, tutti dobbiamo fare tante cose e non poniamo attenzione ai secondi preziosi che viviamo accanto ai nostri figli. Non ricordo nulla di quel sabato se non quando ho iniziato a chiedermi, dov’è mia figlia? Perché non torna? La vita va vissuta costantemente ponendo l’attenzione ai minimi dettagli, questo ho imparato. Dovremmo assaporare ogni secondo, ogni giorno, da quando ci alziamo”. “Le cose cambiano e ci si trova immediatamente dall’altra parte”, ha scritto. Non si era accorto dei segnali di Giulia? “Ho sempre definito Giulia la figlia perfetta. E quindi per me tutto era concesso, anzi era lei che faceva da tutrice al papà, consigliandomi cosa fare per la gestione familiare. Davo massima fiducia, massima libertà, avendo paura anche di invadere i suoi spazi. Le avevo dato dei consigli, detto di essere più determinata nel chiudere la storia ma lei faceva sempre la crocerossina. Mi chiedo: giusto fare come ho fatto o un genitore dovrebbe essere un po’ più invadente? Credo che Giulia voleva dire qualcosa ma aveva paura di ferire il papà e la sorella”. Lei ha rivolto più volte un pensiero anche ai genitori di Filippo. Un gesto non scontato... “Mi sono immedesimato nei genitori di Filippo diverse volte, anche perché sono molto razionale. Darei loro un abbraccio; non li posso giudicare, stanno vivendo un dramma più grande del mio. Io cercherò di tornare a sorridere, ci sono già riuscito ho amici e figli fantastici; loro faranno più fatica, saranno sempre i genitori di un omicida. Hanno tutta la mia comprensione”. Lei aveva scritto alle amiche, alla sorella. È Elena che la mette sul chi va là, quando capisce che qualcosa con Filippo potrebbe essere andata storta. “Devi chiamare assolutamente i carabinieri”, le disse, in quelle ore di angoscia... “Sì, i messaggi che Giulia aveva mandato alle amiche e che ho risentito mi fanno male. Se avessi saputo avrei agito, sarei andato a parlare con Filippo, avrei potuto fare qualcosa. Ma i professionisti ci hanno detto che probabilmente sarebbe finita ugualmente così”. Filippo, appunto. L’assassino di sua figlia. Lei qui, davanti a questa platea, lo nomina per la prima volta. E verso i suoi genitori ha usato parole di grande coraggio... “Mi sono immedesimato nei genitori di Filippo diverse volte, anche perchè sono molto razionale, hanno tutta la mia comprensione, darei loro un abbraccio; non li posso giudicare, stanno vivendo un dramma più grande del mio. Io cercherò di tornare a sorridere, ci sono già riuscito ho amici e figli fantastici; loro faranno più fatica saranno sempre i genitori di un omicida. Hanno tutta la mia comprensione”. Dopo la tragedia lei confessa che, in tema di parità e di diritti, ha iniziato a vedere le cose come non le aveva mai viste prima. “Mi è sembrato di imparare l’alfabeto”. E in questo l’ha aiutata molto proprio sua figlia Elena, sorella di Giulia. In che modo? “Elena è forte, fin da piccola era tosta, da Elena e Giulia ho imparato molto. Quando c’è stato il famoso post Instagram di Elena che parlava di patriarcato, non immaginavo ci fosse nella parola `patriarcato´ una implicazione sociologica. Ma Elena mi ha detto: `Papà, l’omicidio di Giulia è frutto del patriarcato´. Se una donna ti dice `non ti amo più´ e non lo accetti, quello è patriarcato”. Chi non capisce? Quali sono le resistenze? “Chi deve cambiare sono i maschi: fino a 22 anni volevo che mio padre non esistesse, sono nato in una famiglia unita, a tratti felice, ma sentivo l’oppressione di un padre padrone che poneva il suo modo di essere in ogni istante della mia vita. Erano gli anni dell’eroina e del terrorismo e quello era il suo modo di educare; poi ci siamo riconciliati. Il maschio, il padrone: da qui la società deve cambiare, da qui la parola `patriarcato´. Io sono nato nella cultura machista di quel periodo dove il maschio deve essere forte, poi capisci che è più difficile chiedere scusa che sollevare 100 kg”. Lei ha reagito in modo inaspettato. Con serenità, amore. Rispetto. Va contro tutto ciò che ci si aspetta. Sta facendo una rivoluzione... “Dopo un lutto bisogna piangere altrimenti non si soffre, questa è la credenza. Ma impegnarsi non significa non soffrire, non c’è giorno in cui non piango pensando a mia moglie e mia figlia ma non si può solo piangere, bisogna andare avanti; questo è anche il mio carattere non sono abituato a piangermi addosso e ho l’abitudine di cercare le soluzioni ma fa male sentirsi dire che sto lucrando sulle spalle di mia figlia. Ho imparato, tuttavia, a farmi scivolare addosso le cose. Dopo la prima ondata di critiche avevo dimenticato Giulia per due giorni e poi ho detto: no questo non è possibile”. L’hanno anche attaccata... “Certo, fa male sentire le critiche. Fa male sentire dire che sto lucrando su mia figlia morta. Però ho imparato a farmi scivolare queste cose addosso perché nei giorni delle prime critiche mi sono reso conto di non aver pensato a Giulia per due giorni. Mi sono detto `questo no, io devo soffrire per Giulia non per le critiche´ commisurando le due cose”. Nel libro scrive che è tornato a ballare... “Ballare è una forma di libertà e di vita. Devo ringraziare mia moglie, per anni abbiamo cercato di fare un corso di ballo, ci siamo riusciti fino alla chiusura per il Covid, poi abbiamo ripreso e ci siamo dovuti stoppare a causa della malattia. Devo ringraziare il mio maestro di ballo, che dopo la morte di mia moglie mi ha chiesto di tornare a ballare, io non volevo tornare. Fu proprio Giulia che mi disse: “Papà vai, tu con mamma sei stato ineccepibile, devi cercare di essere felice”. Anche questo fa capire cosa era mia figlia; i miei giudici sono i miei figli. Ci sono scorciatoie per la felicità, la danza è una di queste”. Giulia oggi che cos’è? “Elaboriamo un lutto quando pensiamo al nostro caro con il sorriso ma la mancanza di Giulia è così fresca. Tutte le notti sogno che arrivo alla zona industriale la carico in auto e torno a casa, mi godo anche questo dolore perché in quel momento la vedo, magari impaurita. È un momento doloroso, fa male”. Makka, uccise il padre dopo le violenze: la via americana per l’attenuante di Giusi Fasano Corriere della Sera, 8 marzo 2024 La sindrome “Battered Woman”, alla base di molte assoluzioni negli Usa. I pochi casi simili in Italia. Premessa numero uno: non si difende il diritto di qualcuno di uccidere qualcun altro. Makka - per capirci - ha ucciso il padre e non aveva il diritto di farlo, anche se lui era un violento. Premessa numero due: le indagini sono appena cominciate, quindi il racconto nero di questa diciottenne - per quanto risulti finora veritiero - è ancora da verificare fino in fondo. Eppure, più entriamo nei dettagli della storia, più leggiamo le parole affidate ai suoi foglietti diventati diario, più ci scopriamo a empatizzare con lei, a comprendere il suo tormento, il suo dolore, la sua rabbia. “Non avevo mai osato affrontare mio padre, né oppormi a lui. Ma i maltrattamenti duravano da tempo perché fanno parte della sua cultura, del modo di intendere i rapporti con le donne”, scrive Makka, vita, famiglia e paure cresciute a Nizza Monferrato, nell’Astigiano, dove la sua famiglia è arrivata dalla Cecenia dopo aver ottenuto asilo politico. “Ho paura che i miei fratelli maschi copino il comportamento di mio padre”, dice uno dei suoi appunti. E ancora: “A volte prende mia madre, la trascina davanti ai miei fratelli maschi e insegna loro come si tratta una donna”; “Chi troverà questo scritto capirà, o io sarò morta o sarà morto lui”. L’omicidio - Tutto questo è diventato davvero un omicidio, lo sappiamo. La madre di Makka che sgrida suo marito perché si è licenziato e lui che le scrive: “Quando vengo a casa ti ammazzo, come ti permetti?” Poi la lite furente, la ragazza che cerca di difendere sua madre e lui che la rincorre e la prende a pugni. Due coltellate e la vita di quell’uomo finisce, sotto gli occhi di madre e figlia. E adesso? Che ne sarà ora del futuro di Makka? Nei sistemi giudiziari anglofoni (soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Canada, in Inghilterra, Nuova Zelanda…) esiste ed è utilizzata nelle aule giudiziarie la “Sindrome della donna maltrattata”, la Battered Woman Syndrome (Bws), come la chiamò la psicoterapeuta Leonore Walker alla fine degli anni Settanta. È un disturbo che può incidere sulla reazione di una donna di fronte a violenze ripetute. Reazione che può giustificare la donna (a volte fino a farla assolvere in caso di omicidio) anche quando non è proporzionata rispetto al fattore scatenante. E questo perché si tiene conto di violenze, mortificazioni, denigrazioni avvenute nel tempo che possono diventare, appunto, reazione esplosiva anche davanti a un nonnulla. I casi raccontati dalla letteratura giuridica parlano sempre di coppie (quindi di lei che fa del male a lui) e della Bws che entra in scena per definire attenuanti o concedere la legittima difesa. La sindrome - Ma chi dice che Makka non possa soffrire della Sindrome della donna maltrattata anche da figlia? In Italia la Bws è entrata in un’aula di giustizia la prima volta un paio di anni fa. Ne parla in un intervento per l’Osservatorio Violenze sulle Donne, l’avvocata Emanuela Fumagalli, che racconta il caso seguito dalla sua collega di studio, Silvia Belloni. La storia era quella di una donna che, a Milano, aveva ucciso il marito dopo anni di maltrattamenti. Quella donna è stata in carcere tre giorni, il resto della condanna, 5 anni, l’ha passata ai domiciliari. Una pena lieve rispetto all’accusa, grazie al fatto che l’omicidio volontario è stato derubricato in omicidio preterintenzionale e grazie a una serie di attenuanti fra le quali quella della provocazione. Ecco. Per ottenere l’attenuante della provocazione l’avvocata Belloni si è rivolta alla Cassazione portando in dote una consulenza nella quale si diceva che la donna soffriva proprio della Bws. La Cassazione valutò il caso e lo rimandò in appello dicendo, in pratica, che non era stata considerata la provocazione “per accumulo”, cioè per “la pregressa violenza su cui si era innescata la reazione dell’imputata”. I giudici del nuovo processo a quel punto tennero conto della provocazione “per accumulo” e per farlo utilizzarono la diagnosi della Bws. Un precedente che apre le porte, da noi, alla Sindrome della donna maltrattata e che potrebbe essere la via americana, chiamiamola così, per portare Makka lontano dal carcere. Come lei sono molte le ragazze incastrate nelle fratture dell’integrazione (dati ufficiali non ne esistono). Ragazze che hanno una crescente consapevolezza del concetto di libertà di scelta. Che si ribellano, denunciano e non scelgono come Makka la via del silenzio. Anche a costo della vita come è stato per Saman. “Dopo le violenze della polizia soffro di ansia e cerco giustizia” di Luigi Mastrodonato Il Domani, 8 marzo 2024 Samuel era finito in commissariato nel 2020 insieme al suo fidanzato. Picchiato e denudato. Dopo il rilascio hanno denunciato, ma la procura ha archiviato. Adesso il ricorso alla Cedu. “Per oltre tre anni ho creduto di poter ottenere giustizia. Così non è stato, ma sono contento che oggi, finalmente, l’Italia stia scoprendo quello che ci è successo”. Per il cittadino tedesco Samuel Sasiharan, 27 anni, ripercorrere quanto accaduto nella questura di Sassuolo (Mo) il 22 dicembre 2020 non è facile, ma dopo l’archiviazione del caso a fine 2023 da parte del gip ha dovuto fare una scelta. Cercare di rimuovere tutto, nonostante gli strascichi psicologici e fisici che quelle ore in commissariato hanno comportato. O esporsi in prima persona, per far conoscere all’Italia una storia ormai sepolta dal punto di vista giudiziario. Sasiharan ha scelto di raccontare, con il supporto del suo fidanzato italiano che come lui ha vissuto in prima persona i presunti abusi denunciati nella questura di Sassuolo. E ora la vicenda, rivelata da Domani, è finita in parlamento. Il racconto di Samuel - Il 22 dicembre 2020 Sasiharan e il suo ragazzo vengono fermati in un supermercato con l’accusa di tentato furto, a cui poi seguirà un proscioglimento. Ripercorriamo quei momenti con le parole e i ricordi di Sasiharan. “Già dall’inizio ho capito che c’era qualcosa che non andava, quando sono arrivati gli agenti si sono subito focalizzati su di me, la prima cosa che mi hanno chiesto è stata il permesso di soggiorno. Questo nonostante io sia un cittadino tedesco”, spiega il ragazzo, originario dello Sri Lanka. Dopo le perquisizioni in cui non viene trovato nulla, i ragazzi vengono portati in commissariato. Riprende il ricordo di Sasiharan: “Ci hanno tenuti seduti a distanza, non potevo alzarmi. Davanti a me c’era un agente che continuava a fissarmi con odio. Mi diceva di stare zitto, diceva letteralmente che non gliene fregava un cazzo che non capivo l’italiano. Poi a un certo punto mi ha preso con forza dal braccio e mi ha portato in un altro ambiente”. Qui si consuma la parte della storia mostrata nel video pubblicato da Domani. “Non c’era bisogno di trattarmi in quel modo, ho capito subito che stava per succedere qualcosa di brutto”, continua il ragazzo. “Mi è stato chiesto di spogliarmi completamente nel corridoio davanti alle celle. Mi sono rifiutato, e l’agente mi ha tirato uno schiaffo così forte che sono finito per terra, sul cemento gelido”. Le telecamere in corridoio non ci sono, ma quelle della cella riprendono la parte finale della scena, con Sasiharan rannicchiato con le braccia sulla testa, come a proteggersi da colpi. “Ho deciso di obbedire come meccanismo di autodifesa. Sono rimasto in biancheria intima, ho provato a dire in italiano che ero stato operato al retto pochi giorni prima e che dunque non volevo togliermi le mutande perché avevo una ferita, ma non ne hanno voluto sapere. L’agente ha voluto vedere la ferita, come a umiliarmi. Mi ha chiesto di piegarmi e infilare due dita nel retto senza che le avessi disinfettate. Tremavo, ho eseguito e ho iniziato a perdere sangue. Questo si aggiungeva al dolore alla mascella per il colpo ricevuto poco prima. Ero messo molto male”, continua. Alla fine il ragazzo viene rinchiuso in cella, dove passa diverse ore. “Mi hanno buttato là dentro, ho avuto un pesante attacco di panico, penso di avere anche perso i sensi, ma nessuno per tutto quel tempo ha preso in considerazione la mia condizione precaria in termini fisici e mentali”. “Ora ho disturbi d’ansia” - Il suo fidanzato denuncia di aver subito lo stesso trattamento, eccetto le percosse. Una volta liberati vanno in ospedale, poi ci tornano nei giorni successivi, e a Sasiharan viene data una prognosi di venti giorni complessivi per problemi alla mascella, al ginocchio e al retto. Le ripercussioni mentali di questa storia, però, non se ne sono mai andate, a oltre tre anni di distanza. “Ho iniziato a soffrire di attacchi di panico, mi sento molto pesante dentro, assumo psicofarmaci e antidepressivi”, denuncia il ragazzo tedesco, che da quel giorno ha perso 20 chili. “Questa sensazione cresce quando ho a che fare con forze dell’ordine o addetti alla sicurezza, al punto che ho anche iniziato a prendere sempre meno l’aereo. Provo disagio negli spazi chiusi, mi ricordano la cella, mi irrigidisco al contatto con le persone. Da quel giorno è cambiata la mia vita, la quotidianità non è più la stessa”. La procura di Modena, già nota per aver fatto cadere in passato accuse di abusi in divisa come per la strage nel carcere Sant’Anna di marzo 2020, ha chiesto l’archiviazione dopo che le indagini sono state affidate agli stessi colleghi di polizia dell’agente accusato. A fine 2023 il gip ha archiviato. Ora la vicenda è finita alla Corte europea dei diritti dell’uomo, dove i due ragazzi hanno presentato ricorso. “Per tre anni siamo stati in silenzio, abbiamo lasciato spazio alla magistratura convinti che avremmo ottenuto giustizia. Non è stato così, peraltro in un modo paradossale”. Nell’archiviazione, il gip riconosce in effetti il comportamento poco professionale dell’agente indagato (uno solo, per quanto i due ragazzi abbiano denunciato più agenti), ma nonostante questo non vi è stato alcun rinvio a giudizio. “La giustizia non ha fatto il suo corso, e abbiamo capito che per noi, ma anche per chi dovesse vivere situazioni come la nostra, avevamo una sorta di responsabilità: esporci, denunciare tutto pubblicamente, far uscire il materiale che racconta meglio di ogni altra cosa questa orribile storia”, chiosa Sasiharan. La vicenda in parlamento - Dopo l’inchiesta di Domani, la vicenda è finita in parlamento con una raffica di interrogazioni (da Italia Viva al Pd) che chiedono un’ispezione per i fatti accaduti a Sassuolo. “Non so cosa aspettarmi dal parlamento italiano. Ci fidiamo, speriamo non ci deluda”. Ingiusta carcerazione, discriminatorio tagliare l’indennizzo al clochard di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2024 Il ristoro era stato tagliato del 30% per l’assenza di una casa, di affetti e in considerazione dell’accentuata marginalità sociale e “subalternità culturale”. È una discriminazione ridurre l’indennizzo per l’ingiusta detenzione, al senza fissa dimora, in considerazione dell’assenza di affetti, dell’accentuata marginalità sociale e della “subalternità culturale”. La Cassazione è costretta a ricordare alla Corte d’Appello che la privazione della libertà è pesante per tutti, e non solo per chi ha la villa con piscina e familiari che lo amano e aspettano la sua liberazione. Anzi quest’ultima circostanza, spiega la Suprema corte, può essere di aiuto per chi si trova in carcere. In carcere da innocente - I giudici di legittimità accolgono dunque il ricorso dell’uomo, che era rimasto da innocente in carcere 458 giorni, accusato di reati infamanti come la violenza sessuale e i maltrattamenti. Secondo un criterio matematico standard avrebbe dovuto avere 235 euro per ogni giorno di carcere immeritato. Ma i 107.630 euro, erano diventati 75mila. Un taglio del 30% giustificato dalla condizione del ricorrente. La Corte di merito mette nero su bianco le ragioni. Nel mirino era finita la condizione personale che «almeno per il periodo, in cui fu sottoposto alla misura custodiale, era quella di un uomo che viveva in una situazione di accentuata marginalità socio-economica e di subalternità culturale». Pesano anche l’assenza di una casa e degli affetti. Per la Corte di merito l’aver vissuto in una baracca, l’assenza di un’occupazione «e di rapporti affettivi di qualsivoglia natura», erano fattori che avevano certamente inciso molto negativamente sulla qualità della sua esistenza. Tutto questo doveva dunque necessariamente aver mitigato il patimento naturalmente connesso alla carcerazione. La libertà ha lo stesso valore per tutti - Una conclusione discriminatoria e illogica che porta la Cassazione ad evidenziare l’assurdo della tesi. «In ultima analisi - scrivono i giudici - i criteri utilizzati dalla Corte territoriale legittimano una diversa quantificazione del criterio aritmetico (nel caso di specie con una sensibile riduzione del 30%) a seconda della condizione sociale, di marginalità, piuttosto che di normalità o di privilegio, una situazione quest’ultima - spiega la Cassazione - che alla luce di questi criteri , dovrebbe conseguentemente avere effetti opposti, di aumento del quantum». Il ragionamento al contrario - Ragionando al contrario - affermano gli ermellini - si dovrebbe dare un “risarcimento” più alto a chi vive nel lusso, magari in una villa con piscina, e può contare su solidi affetti. Ma, per fortuna così non è. Costituzione alla mano è necessario dare lo stesso valore alla libertà di tutti. Il taglio del 30% fatto dalla Corte d’appello è discriminatorio, perché basato su criteri del tutto illegittimi «per non parlare - scrivono i giudici - dell’incomprensibile richiamo, pure utilizzato nell’ordinanza impugnata - alla “subalternità culturale”. Non luogo a procedere per irreperibilità non applicabile all’appello di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2024 Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 9705 depositata oggi, respingendo il ricorso di un uomo. La sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza del processo da parte dell’imputato, prevista dalla riforma Cartabia del codice di procedura penale, non può applicarsi anche al caso di chi lamenti la mancata conoscenza dell’appello. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 9705 depositata oggi, respingendo il ricorso di un uomo. Secondo il ricorrente la Corte di appello non avrebbe considerato le note scritte difensive con le quali si sottolineava la dichiarazione di irreperibilità dell’imputato, mentre avrebbe dovuto emettere sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo, ai sensi dell’articolo 420-quater cod. proc. pen. Una tesi però bocciata dalla Suprema corte. La Terza sezione penale ricorda che l’articolo in questione è stato radicalmente modificato dal Dlgs 30 ottobre 2022, n. 150 che ha introdotto nell’ordinamento “l’innovativa sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato, che il giudice dell’udienza preliminare pronuncia se questi non è presente e fuori dei casi previsti dai precedenti articoli 420-bis (assenza dell’imputato) e 420-ter (impedimento a comparire dell’imputato o del difensore). Ebbene, prosegue la Corte, la stessa disposizione non è riferibile al caso di specie”. La norma infatti presuppone che l’imputato non abbia mai avuto alcuna informazione circa la pendenza del processo, “solo così giustificandosi, per un verso, l’emissione di una sentenza di non doversi procedere (non già di una ordinanza di sospensione del giudizio) e, per altro verso, il carattere inappellabile della stessa decisione”. Tale scelta, argomenta la Corte, “appare giustificarsi soltanto in presenza di un radicale vizio di conoscenza del processo, quale fase di giudizio successiva alla conclusione delle indagini preliminari, tale da non consentirne la legittima celebrazione per come riscontrato dal giudice con insindacabile accertamento di merito”. La ratio si fonda dunque sul binomio “conoscenza del processo/effettività del diritto di difesa” (articolo 6, par. 3, CEDU), ragion per cui ecco l’articolo 420-quater cod. proc. pen. non può trovare applicazione nel diverso caso in cui il difetto di conoscenza riguardi l’esistenza non di un processo ma soltanto di una fase o di un grado del processo stesso, la cui pendenza, comunque, sia conosciuta dall’imputato. E proprio questa seconda ipotesi, prosegue la Corte, si riscontra nel caso di specie, nel quale l’effettiva conoscenza del processo da parte del ricorrente non è revocabile in dubbio. Del resto, la manifesta infondatezza della richiesta contenuta nelle note difensive, “emerge dalla fase processuale in cui l’applicazione della norma in esame è stata sollecitata, ossia il giudizio di appello”. L’articolo 420-quater, infatti, è collocato nel Titolo IX del Libro V, in tema di udienza preliminare. Ed è in quella prima fase processuale, dunque, che il giudice è tenuto a verificare se l’imputato deve essere dichiarato assente, al fine di evitare chi il giudizio si instauri con un evidente vizio. La norma in esame, per contro, non trova applicazione nel giudizio di appello introdotto dall’imputato. “Per espressa previsione normativa, dunque - si legge nella decisione -, nel giudizio di appello non è comunque prevista la pronuncia della sentenza in questione, in quanto - presupposta la conoscenza della pendenza del processo, già accertata in udienza preliminare o, qualora non celebrata, negli atti introduttivi del giudizio di primo grado - l’imputato non presente è sempre giudicato in assenza (se appellante ed in presenza di regolare notifica del decreto di citazione), oppure il processo viene sospeso e vengono ordinate le ricerche dell’imputato (se non appellante ed in mancanza delle condizioni per procedere in assenza ai sensi dell’art. 420-ter cod. proc. pen.)”. Veneto. Madri detenute ad alto rischio suicidio. “Con i figli fino a 6 anni e fuori dal carcere” Corriere del Veneto, 8 marzo 2024 In carcere con i propri bimbi finché compiono tre anni. Questa è l’istantanea dell’oggi per tante detenute. Un tema spinoso e che si allarga alle problematiche specifiche della detenzione femminile in generale. Perché le donne in carcere sono una minima parte rispetto agli uomini: il 4,2% a livello nazionale, in Veneto un po’ di più ma comunque sotto il 6%. Essendo poche, il “sistema” già in crisi dell’universo penitenziario, le penalizza ulteriormente. I soggetti a maggior rischio suicidio, specifica Jessica Lorenzon dell’associazione Antigone, sono donne. Parte da qui la mozione della consigliera regionale del M5s Erika Baldin, dai numeri impietosi dell’emergenza per chiedere che i figli di donne condannate possano restare con la mamma fino ai 6 e non ai 3 anni e che lo possano fare fuori dall’ambiente carcerario, in strutture protette che esistono ma sono ancora troppo poche. Perché il carcere, spiegano anche i membri di altre associazioni intervenute ieri alla presentazione, come Nessuno tocchi Caino, si allontana sempre più dal principio della rieducazione previsto nella carta costituzionale. E per le donne è ancora peggio, spiega ancora Lorenzon, “alle detenute è impossibile anche solo iscriversi alle superiori”. I problemi, però, partono ben prima, spiega ancora Lorenzon, dalla negazione delle cure sanitarie, ginecologiche in primis: “È recente il caso di una detenuta alla prima esperienza in carcere che, neppure a fronte di emorragie notturne legate alla pre menopausa, ha potuto avere degli assorbenti igienici, s’è dovuta arrangiare con della carta”. Verona. Il Comune dà il via al tavolo sulle morti al carcere di Montorio primadituttoverona.it, 8 marzo 2024 Il fenomeno delle morti dietro le sbarre non è una problematica che riguarda il singolo, ma l’intero territorio comunale. Dopo il quinto suicidio al carcere di Montorio in quattro mesi, Verona Radicale chiedeva lo stop al sovraffollamento e l’introduzione di misure a tutela della salute mentale dei detenuti con un presidio davanti alla casa penitenziaria. Ad oggi, il Comune di Verona annuncia la convocazione a martedì 26 marzo 2024 del primo tavolo di lavoro per trovare una soluzione concreta al fenomeno delle morti in carcere. Obiettivo principale dell’incontro sarà quello di porre al centro la dignità delle persone, perché per quanto la si possa pensare diversamente, i detenuti sono e restano esseri umani e oltre alla pena il carcere rappresenta una seconda possibilità per il recupero dal punto di vista umano e sociale. Per la maggior parte dei detenuti, l’esperienza del carcere è transitoria, finalizzata a redimere il cittadino per il reinserimento sul territorio, il quale che non può ignorare la loro presenza né tanto meno una problematica di tale portata; si ricorda inoltre che molti soggetti nel carcere di Verona sono residenti del comune. “Si concretizza l’impegno dell’Amministrazione per affrontare in modo condiviso le criticità del carcere di Verona - spiega l’assessora alle Politiche sociali Luisa Ceni. Come Comune siamo a disposizione delle istituzioni coinvolte per ciò che ci compete. Il carcere è una realtà che si trova all’interno del territorio e con esso deve integrarsi, tenendo conto delle diverse realtà che vi gravitano. Da qui la necessità di un’integrazione tra carcere e territorio che deve rivelarsi efficace e duratura”. “Farsi carico di tutto quanto è possibile per il recupero di chi ha commesso reati e contenere così il rischio di recidiva è di fondamentale importanza per la convivenza civile e la sicurezza della comunità -afferma l’assessora alla Sicurezza Stefania Zivelonghi. In questa direzione converge l’impegno dell’amministrazione con tutti gli assessorati coinvolti”. I presenti - Al tavolo saranno presenti agli assessori alle Politiche sociali Luisa Ceni, alla Sicurezza Stefania Zivelonghi e al Terzo settore Italo Sandrini, assieme al Garante nazionale dei detenuti Felice Maurizio D’Ettore, la direttrice della Casa Circondariale di Montorio Francesca Gioieni, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale don Carlo Vinco, il direttore dell’Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna di Verona Enrico Santi, i magistrati dell’Ufficio di Sorveglianza di Verona e il Presidente Camera Penale Veronese Paolo Mastropasqua. Invitata anche la nuova direttrice dell’Ulss 9 Patrizia Benini, mentre si è in attesa di conoscere il delegato che parteciperà a nome del Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Giovanni Russo. Messina. Detenuto di Barcellona in coma, la Sorveglianza: “Non ci sono elementi per valutazioni negative” Gazzetta del Sud, 8 marzo 2024 In riferimento all’articolo “Detenuto del carcere di Barcellona ingoia tre lamette, è in coma al Policlinico di Messina” la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Messina, Francesca Arrigo a precisazione afferma che “L’avv. Salvatore Silvestro, indicato nell’articolo quale difensore del detenuto che ha tentato il suicidio, non risulta essere tale dalla disamina degli atti del procedimento innanzi al Tribunale di Sorveglianza di Messina, atteso che unico difensore è invece l’avv. Cinzia Panebianco. Ne consegue che l’avv. Silvestro, che ha formulato valutazioni negative in relazione all’attività del Tribunale di Sorveglianza di Messina, non é a conoscenza degli atti e pertanto non possiede elementi sui quali basare il giudizio formulato sulla decisione ritenuta connotata da “mera superficialità”. Si rappresenta, comunque, per opportuna conoscenza, che il provvedimento non è stato impugnato dalle parti legittimate, che quindi hanno ritenuto di condividerlo, e che il detenuto ha un fine pena al 25.3.2024”. La replica dell’avvocato Silvestro - E in relazione a questa nota riceviamo e pubblichiamo una ulteriore nota, inviataci dall’avv. Salvatore Silvestro: “In effetti il difensore formalmente nominato nel procedimento di sorveglianza concluso con l’ordinanza di rigetto è l’avv. Cinzia Panebianco. Come ho subito rappresentato sono stato officiato del mandato difensivo dalla Signora C. G., sorella del condannato, che ha avvertito l’esigenza e la necessità di capire come sia potuto accadere ciò che è accaduto, verificando le eventuali relative responsabilità, in un contesto in cui il C. versava e versa in stato di coma. Dopo aver letto gli atti evidenzio infine che il provvedimento del Tribunale di Sorveglianza è stato determinato dalla nota redatta dal dirigente sanitario della casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto”. Monza. Il carcere è al collasso: mancano agenti, medici ed educatori di Barbara Apicella monzatoday.it, 8 marzo 2024 I dati sono stati forniti dall’associazione Antigone durante un incontro pubblico a Monza. Celle sovraffollate, personale sotto organico e soprattutto mancano medici ed educatori. Questo il ritratto del carcere di Sanquirico a Monza illustrato dall’avvocato Enrico Vincenzini di Antigone, associazione nata alla fine degli anni Ottanta per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Un quadro preoccupante quello fornito durante la serata organizzata giovedì 7 marzo a San Rocco, al centro civico, durante la quale si è parlato anche del caso di Ilaria Salis, l’insegnante monzese di 39 anni da 13 mesi detenuta in condizioni molto dure all’interno del carcere di Budapest con l’accusa (sempre rigettata dalla donna) di aver partecipato alle aggressioni di 2 neonazisti durante la giornata dell’onore che si celebra il 10 febbraio nella capitale ungherese. Ma durante la serata, oltre a fare il punto sulle condizioni carcerarie in Ungheria, si è illustrata anche la situazione carceraria in Italia e, dati alla mano, Monza non brilla. I numeri - I numeri forniti da Vincenzini non lasciano spazio ad equivoci: alla data del 29 febbraio 2024 erano 706 le persone detenute nel carcere di Monza rispetto alle 411 previste dal regolamento. Anche il numero del personale (conteggiato in base ai 411 detenuti che dovrebbero essere accolti nelle celle) è molto più basso: servirebbero 321 agenti, ma ce ne sono 280; sono previsti 8 educatori ma ce ne sono 6 così che ogni educatore dovrebbe seguire oltre 100 detenuti. A mancare sono anche gli psichiatri: ne sono previsti 11, in organico ce ne sono 7. Tanti malati psichiatrici e pochi medici - “Quella del carcere di Monza, così come molti altri carceri d’Italia, è una situazione di profonda sofferenza - ha spiegato l’avvocato Vincenzini -. Peraltro nella casa circondariale brianzola ad oltre il 20% dei detenuti è stata diagnosticata una malattia psichiatrica grave. L’équipe è molto attenta e svolge un grande lavoro, ma i medici non bastano”. Il rappresentante di Antigone ha illustrato i deficit del sistema penitenziario italiano e in primis quello del sovraffollamento: 61 mila i detenuti in Italia, con un incremento di 5 mila detenuti al mese. “Se si va avanti con questi numeri a breve raggiungeremo i picchi del 2013, quando c’è stata l’emergenza carceri e l’Italia è stata poi condannata per la violazione dei diritti umani nelle carceri”. Emergenza suicidi - Ma un’altra emergenza all’interno delle carceri italiane è quella dei suicidi: 20 dall’inizio dell’anno, 69 l’anno scorso. “Uno dei maggiori problemi è proprio quello del sovraffollamento - prosegue l’avvocato -. La mancanza di personale è una grave emergenza. Le carceri accolgono la parte più problematica della società e le persone una volta scontata la pena si ritrovano in una società esterna che non offre loro alternative. C’è la paura di un mondo sconosciuto che in alcuni casi porta le persone a compiere gesti estremi”. Parole molto dure quelle del rappresentante di Antigone in merito al sistema carcerario italiano. “Il carcere non è una struttura che rieduca - spiega -. Il tasso di recidiva nei casi di persone che hanno scontato la pena in carcere è del 68% mentre nelle persone che scontano la stessa pena (sotto i 4 anni) in sistemi esterni di affidamento in prova ai servizi sociali solo il 19% compie di nuovo il reato”. Come risolvere il problema carceri - Quale la soluzione per affrontare questa emergenza? “Amnistia e indulto sono, ad oggi, soluzioni poco auspicabili. Il detenuto va responsabilizzato ma, purtroppo, in carcere si lavora poco. Bisogna estendere le vie alternative al carcere. La maggior parte dei detenuti sono persone che hanno commesso reati contro persone, patrimonio e per spaccio. Ma è un problema se restano in carcere e non vengono offerti loro strumenti rieducativi, come previsto dalla Costituzione”. Così che, una volta chiusa alle spalle la porta del carcere, si ritrovano in una società che difficilmente offre opportunità lavorative, non hanno ricevuto nel frattempo una formazione professionale e rischiano così di cadere nella malavita Benevento. Pene alternative al carcere per migliore reinserimento e contro sovraffollamento ottopagine.it, 8 marzo 2024 Questa mattina firma di un protocollo tra istituto penitenziario e Ufficio locale Esecuzione penale. Per determinate categorie di detenuti esiste un’alternativa al carcere per scontare, o meglio finire di scontare la propria pena. Le misure alternative se da un lato offrono ai detenuti una chance in più e di maggiore qualità per il reinserimento e far abbassare il numero di recidivi, dall’altro è utile anche per contrastare il sovraffollamento nelle carceri. Quindi le pene alternative vanno favorite e lo si può fare con l’impegno di Comuni, Enti e associazioni che possono impiegare alcuni detenuti per scopi sociali. Tutto questo al centro del protocollo firmato questa mattina tra il direttore della Casa Circondariale di Benevento, Gianfranco Marcello e l’Ufficio locale di Esecuzione Penale Esterna, rappresentato dal direttore Marisa Bocchino. Entrambi hanno apposto le proprie firme su un documento d’intesa sui temi della detenzione e della post-detenzione. In particolare, la collaborazione tra l’Istituto Penitenziario e l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna è preordinata all’elaborazione di percorsi di esecuzione della pena costituzionalmente orientati tendenti alla riduzione della recidiva e a favorire l’applicazione più ampia possibile delle sanzioni di comunità. “Il dipartimento e il Provvedimento ci ha spinto ad incentivare le misure alternative. Il nostro compito istituzionale è il reinserimento nella società dei detenuti oltre che l’espiazione della pena” ha rimarcato il direttore Marcello che ha poi ancora una volta elogiato “l’operato della Polizia Penitenziaria che nonostante i problemi di organico svolgono sempre al meglio la propria funzione”. “Favorire l’uscita di alcuni detenuti dal carcere grazie alle misure alternative” ha rimarcato la dottoressa Bocchino che ha poi spiegato le categorie di detenuti che possono accedere alle misure alternative per “essere reinserite in maniera graduale attivando tutte le risorse del territorio a seconda delle esigenze e della personalità del detenuto. Bisogna evitare che le persone scontata la pena tornino a commettere reati”. Fondamentale per permettere le misure alternative al carcere resta l’impegno dei Comuni e delle Associazioni. “I comuni di Montesarchio ed Airola - ha concluso la numero uno dell’Ufficio locale di Esecuzione Penale Esterna - hanno fatto un grande lavoro in tal senso”. Serve ora ampliare la rete di Enti ed associazioni che favoriscano il reinserimento dei detenuti. Il protocollo sarà utile anche “per ricondurre a uniformità i rispettivi interventi anche in relazione alla necessaria interlocuzione con la Magistratura di Sorveglianza. Per un miglior coordinamento delle attività di osservazione e trattamento dei detenuti, finalizzate a implementare le opzioni di reinserimento sociale, verranno nominati i referenti operativi dei due uffici. I rapporti interistituzionali devono, infatti, essere orientati - ha poi rimarcato il direttore Marcello - al superamento della logica dell’adempimento e delle prassi formalistiche, al fine di far convergere l’impegno delle reciproche risorse professionali verso il più ampio accesso alle misure di comunità da parte delle persone detenute che ne abbiano i requisiti di legge”. Bologna. La mostra “(In)curabile bellezza”: l’arte come riscatto dalla detenzione di Luca Molinari cronacabianca.eu, 8 marzo 2024 La vicepresidente dell’Assemblea legislativa Silvia Zamboni e il garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri hanno inaugurato in Assemblea legislativa “(In)curabile bellezza. Donne che fanno comunità”, mostra che racconta la collaborazione creatasi tra le pescatrici del Delta del Po e le detenute di Modena. Gli sguardi fieri delle pescatrici del Delta del Po e quelli delle detenute di Modena. Storie diverse che si sono incrociate all’insegna della dignità e del riscatto e che ora rivivono grazie all’arte, in particolare ai collages. Taglio del nastro nella sede dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna per “(In)curabile bellezza. Donne che fanno comunità”, mostra che racconta l’esperienza del laboratorio di educazione all’arte che ha fatto incontrare la comunità, forte e coesa, delle pescatrici del Delta del Po con un gruppo di detenute e da cui è nato un rapporto molto forte che, a detta di tutte, ha arricchito entrambi i gruppi. Quell’esperienza è diventata una mostra d’arte: “(In)curabile bellezza. Donne che fanno comunità”, curata da Federica Benedetti con opere di Chiara Negrello, Marianna Toscani e del Collettivo No Name della sezione femminile del carcere Sant’Anna di Modena. “Queste foto raccontano l’incontro di due realtà che lottano contro tante difficoltà: le donne al lavoro e le donne in carcere. È un modo per far sentire la voce delle donne anche fuori dal carcere, ricordando anche come il carcere sia organizzato su modelli prettamente maschili: non dimentichiamoci mai che i suicidi femminili sono il doppio di quelli maschili”, spiega la vicepresidente dell’Assemblea legislativa Silvia Zamboni, mentre il garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri sottolinea: “Abbiamo voluto portare in Assemblea legislativa un esempio di lavoro comune e di impegno di coraggio da parte di tutte le donne: dobbiamo affrontare i problemi delle donne in carcere che, come i rom, i sinti e altri gruppi, fanno parte delle minoranza carcerarie: è l’ora del coraggio, conosciamo il tema, conosciamo il problema, ora dobbiamo risolverlo”. “Una narrazione nuova che raccoglie qualcosa di apparentemente inconciliabile come la durezza del luogo in cui tutto ciò è avvenuto: la nascita di inspiegabile bellezza”, spiega Caterina Liotti, fra le organizzatrici del progetto che è stato illustrato da Federica Benedetti. Una storia che è diventata anche “Collettivo No Name”, pubblicazione curata da Caterina Liotti, edita da Mucchi (XXI pubblicazione della Collana Storie Differenti del Centro documentazione donna), e che fa da catalogo alla mostra “(In)Curabile bellezza. Donne che fanno comunità”. Il volume raccoglie testi che Anna Perna, Paola Cigarini e Caterina Liotti hanno scritto sui temi della sorellanza, dei bisogni disattesi e della spersonalizzazione. Significativi poi i contributi di contestualizzazione dell’operazione realizzata, forniti da Grazia Zuffa, autrice di ricerche nazionali sul tema, che inquadra nel contesto italiano le problematiche legate alla detenzione femminile, e da Claudia Löffelholz, Direttrice della Scuola di alta formazione Fondazione Modena Arti Visive, che indaga su come il linguaggio dell’arte possa aiutare a costruire una società più inclusiva, empatica e solidale. Presenti all’inaugurazione anche le consigliere regionali Nadia Rossi, Francesca Marchetti e Mirella Dalfiume nonché il Difensore civico regionale Guido Giusti. La mostra sarà visitabile fino al 15 marzo, dal lunedì al venerdì dalle ore 9.30-18, nella sede dell’Assemblea legislativa delll’Emilia Romagna in Viale Aldo Moro 50 a Bologna. Il nome di Basaglia contro la nostalgia del manicomio di Franco Corleone L’Espresso, 8 marzo 2024 La rivoluzione della psichiatria si è compiuta nel 2015 con la chiusura degli Opg. Ma oggi va difesa. Franco Basaglia non è una figura da togliere dall’ombra; il suo nome ricorre spesso, esaltato o demonizzato: utilizzato spesso strumentalmente per buone e cattive cause. Il centenario della sua nascita - che L’Espresso ha ricordato sul numero scorso - vale perciò come occasione per riflettere su una storia davvero unica e irripetibile, che nasce nel 1961 a Gorizia, piccola città di provincia del Friuli Venezia Giulia, nota per le tragedie della prima e della seconda guerra mondiale. Libero docente in Psichiatria, Basaglia dirige per dieci anni l’Ospedale psichiatrico giudiziario con una équipe di giovani collaboratori coinvolti in un esperimento per aprire il manicomio, abbattendo i muri fisici e simbolici. Il celebre volume “L’Istituzione negata” - edito nel 1968 da Einaudi - assunse il carattere di un manifesto contro la violenza del potere e l’internamento di tanti esclusi, mettendo in discussione la psichiatria positivista e organicista. Il libro riferiva l’esperienza di Gorizia, tra assemblee e confronti fra pazienti, medici e infermieri; ed era arricchito da saggi teorici, che mettevano in discussione l’immagine banale della follia, la concezione della “pericolosità” del matto, e contestavano il controllo sociale dei devianti. L’avventura basagliana proseguì a Trieste, con felici incursioni a Parma, dove il mitico assessore Mario Tommasini schierò l’Amministrazione provinciale contro tutte le istituzioni locali, pubblicando il fondamentale libro “Che cos’è la psichiatria?” (che raccoglieva le riflessioni del gruppo di Gorizia con, in copertina, un disegno di Hugo Pratt che richiamava l’etichettamento del malato mentale come “pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo”). Un altro libro che fece clamore fu “Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin” (edito nel 1969 da Einaudi). Il miracolo di Basaglia e del suo gruppo, un collettivo ricco di intelligenze con inevitabili rotture e lacerazioni, fu di costruire una egemonia politica e culturale dal basso, sconfiggendo baroni e poteri forti. Molte energie furono spese per immaginare un modello di Comunità terapeutica che costituisse una alternativa al manicomio. La spinta al cambiamento divenne inarrestabile: nel 1978, il 13 maggio (pochi giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro), il Parlamento, con una accelerazione inconsueta, approvò la legge 180 - divenuta nota come la legge Basaglia - che prevedeva la chiusura dei manicomi. Quella decisione fu determinata anche dalla raccolta di firme per un referendum promosso dai radicali, a testimonianza di una alleanza virtuosa tra la spinta popolare e le istituzioni per una grande riforma. Basaglia morì nel 1980 e non vide la realizzazione del suo sogno: si dovette attendere il 1998, venti anni dopo, per chiudere l’ultimo dei tanti manicomi che sopravvivevano alla riforma, quali contenitori del cosiddetto residuo manicomiale (una espressione disumana). Nel 1988, grazie a L’Espresso, denunciai il lager di Agrigento. Da allora non ci si è fermati e finalmente nel 2015 si sono chiusi gli Opg, gli orrendi manicomi giudiziari che la legge 180 non aveva toccato. La rivoluzione era così compiuta. Oggi, a quasi dieci anni di distanza, viviamo tempi bui e oscuri con tentazioni di regime. La memoria di Basaglia può aiutare a battere la nostalgia del manicomio che si manifesta impudicamente. Migranti. Minori non accompagnati, in “Gazzetta” il Dpr sui compiti del ministero del Lavoro di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2024 Entrerà in vigore il prossimo 15 marzo il nuovo regolamento che definisce i compiti e le attività demandate al ministero del Lavoro per gestire nell’ambito del fenomeno dell’immigrazione e in generale la situazione dei minori stranieri non accompagnati che si trovino sul territorio italiano. È, infatti, stato pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” di ieri (n. 50) il Dpr 27 dicembre 2023 n. 231 (Regolamento concernente i compiti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali in materia di minori stranieri non accompagnati, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400). Il regolamento reca la la nuova disciplina di rango secondario resasi necessaria a seguito dell’abolizione del Comitato stranieri, prima previsto dal Testo unico Immigrazione e poi soppresso dall’articolo 12 del decreto legge 6 luglio 2012 n. 95 con il conseguente trasferimento delle competenze in capo al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Il testo del Dpr si compone di 17 articoli ed è frutto di un iter di approvazione che ha dovuto tener conto del parere del Consiglio di Stato che aveva appunto definito e indicato al Governo come il decreto del Presidente della Repubblica sia lo strumento normativo adeguato per definire le regole di secondo livello, mentre inizialmente era stato portato all’attenzione di Palazzo Spada un testo veicolato da un Dpcm ritenuto appunto non consono in base alle prescrizioni dell’articolo 17 della legge 23 agosto 1988 n. 400 che disciplina le “fonti regolamentari” per lo svolgimento dei compiti ministeriali. Al ministero del Lavoro e delle politiche social compete tra l’altro di esprimere il parere sul percorso di integrazione sociale e civile del minore, finalizzato al rilascio del permesso di soggiorno per motivi di studio, di accesso al lavoro ovvero di lavoro subordinato o autonomo. Si tratta del parere sul percorso di integrazione sociale e civile svolto dai minori stranieri non accompagnati ai fini del rilascio del permesso di soggiorno al compimento della maggiore età, come previsto all’articolo 32, comma 1-bis del Testo unico sull’immigrazione. Il permesso di soggiorno viene rilasciato per un periodo massimo di un anno previo accertamento dell’effettiva sussistenza dei presupposti e requisiti previsti dalla normativa vigente, ovvero a seguito dell’ammissione per un periodo non inferiore a due anni in un progetto di integrazione sociale e civile gestito da un ente pubblico o privato tra quelli indicati dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Nella prima parte del Dpr viene definita la platea degli interessati da tali regole con l’espressione già utilizzata dalla legge 47/2017 di “minori stranieri non accompagnati” con la quale s’intende il minore non avente cittadinanza italiana o di altri Stati dell’Unione europea che si trovi per qualsiasi causa nel territorio dello Stato o che è altrimenti sottoposto alla giurisdizione italiana, privo di assistenza e di rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano. Dal perimetro sono esclusi i minori di 18 anni che richiedano il riconoscimento dello status di rifugiati per ottenere asilo in Italia. Fondamentali i compiti di censimento e monitoraggio della presenza dei minori stranieri non accompagnati affidati al ministero attraverso l’inserimento e l’aggiornamento dei dati nel sistema informatico dedicato il SIM, vale a dire il Sistema Informativo nazionale dei minori stranieri non accompagnati. Il sistema curato dallo stesso ministero prevede che le forze di polizia diano immediata comunicazione dei minori interessati dalla normativa al fine di inserire i relativi dati nel Sim. E al ministero è infine attribuito il compito di stipulare convenzioni con organizzazioni internazionali e associazioni umanitarie, per l’attuazione di programmi diretti a rintracciare i familiari dei minori, nei Paesi d’origine o in altri Paesi. Tali attività saranno a carico del Fondo nazionale per le politiche migratorie. Il Ministero è chiamato anche a studiare e promuovere nuove misure mirate comunque a realizzare l’integrazione dei minori stranieri non accompagnati. Il regolamento ora in Gazzetta si occupa anche di disciplinare il trattamento dei dati personali contenuti nel Sistema informativo nel rispetto del principio del superiore interesse del minore e in conformità ai principi dettati dal regolamento privacy europeo (GDPR). Il trattamento è affidato ai soggetti legittimati ad accedere al SIM nell’ambito delle specifiche attribuzioni. Il trattamento - in base alla lettera del Dpr - può consistere nelle operazioni di “raccolta, registrazione, organizzazione, strutturazione, conservazione, adattamento o modifica, estrazione, consultazione, uso, comunicazione mediante trasmissione, diffusione o altre forme di messa a disposizione, raffronto o interconnessione, limitazione, cancellazione o distruzione di dati personali”. Ma fondamentale è la regola in base alla quale la diffusione dei dati può essere effettuata esclusivamente in forma anonima e aggregata, con modalità che non consentano, neanche indirettamente, l’identificazione degli interessati. Infine, vengono descritti i compiti del ministero del Lavoro e delle politiche sociali per quanto concerne ingresso e soggiorno dei minori accolti temporaneamente in Italia nell’ambito di programmi solidaristici, dalla concessione del nulla osta per la realizzazione dei programmi stessi compresa la creazione e la cura dell’elenco dei minori coinvolti dalle iniziative. Il migrante ragazzino umiliato anche da morto di Giorgia Linardi La Stampa, 8 marzo 2024 Si è spento all’ultimo miglio del viaggio verso l’agognata Europa, che non lo vuole nemmeno da morto. Umanamente difficile comprendere il perché di questo sfregio. È stato necessario ancora una volta fare rumore perché le autorità ritirassero la decisione disumana di assegnare un porto a una settimana di navigazione, lasciando a bordo della nave di Sea-Watch il ragazzino deceduto per asfissia da carburante. La migrazione è un fatto storico e un atto di necessità che richiede grande coraggio. Quando ce lo ricorderemo, sarà forse troppo tardi per interrogarci sul perché il suo coraggio ci ha fatto tanta paura. Sono convinta che un giorno, temo lontano, lo riconosceremo come un eroe del nostro tempo. La sua vita spezzata è il racconto dell’epica contemporanea. Il film Io capitano, che potrebbe vincere agli Oscar come migliore film straniero, racconta il viaggio di due ragazzi della stessa età di quello spirato a bordo di Sea-Watch. Il regista Matteo Garrone ha commentato che la loro storia gli ha ricordato quella di Pinocchio, oggetto di una sua regìa nel 2019. Il romanzo di Collodi racconta peripezie dettate da incoscienza e curiosità del bambino-burattino, mentre le ragioni del viaggio delle persone che migrano sono molto diverse, ma c’è un elemento in comune: il trovarsi completamente in balia degli eventi, come marionette. Per coloro che attraversano il Mediterraneo, ciò significa essere risucchiati in una spirale di estorsione e abusi, fagocitati dalla rete del traffico di esseri umani che non lascia più spazio al libero arbitrio in una disperata lotta alla sopravvivenza. Al posto di finire nel Paese dei Balocchi ed essere inghiottiti da una balena come nel racconto di fantasia, il nostro Pinocchio avrà trovato i lager libici e un guscio di noce su cui cercare di restare a galla tentando la traversata del mare. Il viaggio di questi ragazzi è una storia drammaticamente incredibile, fatta di sofferenze e imprevisti superabili solo con la forza e resilienza dettata dalla necessità e speranza in un futuro, a cui tutti dovrebbero avere diritto. L’ho visto con i miei occhi nei lager libici visitati con MSF, dove a un ragazzo a cui ho chiesto perché continuasse a sorridere mi disse che non gli restava altro che il suo sogno. Gli avevano tolto tutto - la libertà, il cibo, i vestiti, il contatto con la famiglia - ma non il sogno dell’Europa. Cosa ci fa paura del loro sogno, al punto di lasciare la salma di un ragazzino a bordo di una nave di soccorso, assegnandole poi un porto a una settimana di navigazione? Al punto di essere disposti a perdere la nostra dignità di Paese sedicente civile quando stringiamo accordi con aguzzini, despoti e criminali pur di non fare arrivare Pinocchio in Europa, come se potessimo controllare un fenomeno che si alimenta della mancanza di alternative sicure e legali per spostarsi. Cosa ci porta a spendere cifre immense per respingere ed emarginare, quando includere le persone nella nostra società costerebbe molto meno e ci aiuterebbe a crescere? La risposta è il razzismo strutturale - in Italia come nel resto d’ Europa - che protegge atti, leggi e politiche discriminatorie lesive della dignità umana. Pinocchio è morto. È così che si conclude il romanzo in chiave odierna. Ustionato e schiacciato, migrante muore a 17 anni. “Soccorsi attesi per 9 ore” di Simona Musco Il Dubbio, 8 marzo 2024 Quattro giorni di viaggio, 1500 chilometri in totale, con a bordo il corpo di un 17enne senza vita. Ustionato, intossicato e schiacciato e infine morto dopo aver atteso invano i soccorsi, che sono arrivati quando ormai era troppo tardi. A denunciarlo è l’equipaggio della Ong tedesca Sea Watch, che ha chiesto invano aiuto nel tentativo di portare in salvo un giovane appena salvato dalle acque del Mediterraneo. E ora, prima di toccare terra, sarà necessario navigare ancora, fino al porto di Ravenna, nonostante quello più vicino fosse quello di Lampedusa. Un ulteriore dramma per le 56 persone a bordo, salvate da un’imbarcazione di legno blu a due ponti individuata in mare aperto inclinata su un lato. La Sea Watch, nella serata di mercoledì, aveva chiesto alla Guardia costiera l’evacuazione urgente dei feriti gravi e del ragazzo poi deceduto. “Dopo la nostra prima chiamata urgente, alle 13.00 - ha reso noto l’equipaggio - nessuna autorità si è attivata. Dopo più di due ore un ragazzo di 17 anni ha perso la vita. I nostri team lo avevano trovato in stato di incoscienza nel ponte inferiore della imbarcazione di legno”. La Guardia costiera è arrivata sul posto solo nove ore dopo l’sos, facendo sbarcare le quattro persone ferite per garantire loro le cure del caso. Secondo i sopravvissuti, sono stati esposti alla mancanza di ossigeno e ai vapori di benzina per circa 10 ore. Le autorità si sono rifiutate però di prendere in consegna il corpo del 17enne, che dovrà rimanere a bordo nonostante la nave non sia fornita di una cella frigorifera, né di spazi che consentano di tenerlo separato dagli altri passeggeri. “Chiedono di consegnarlo al porto assegnato di Ravenna - continua la Ong -. 1500 chilometri, quattro giorni di viaggio. È disumano”. La procura di Ravenna - secondo quanto riporta Ravenna Today - ha comunicato che aprirà un fascicolo d’indagine per omicidio. “Aveva respirato i fumi del carburante per ore, stipato sottocoperta. L’Italia ha rifiutato di accogliere la sua salma che resta a bordo - scrivono ancora i membri della Sea Watch -. Ogni 4 ore l’equipaggio sostituisce il ghiaccio della sua body bag, per conservarne il corpo. Non sappiamo il suo nome perché viaggiava da solo. Abbiamo provato a rianimarlo e a chiedere aiuto per ore alle autorità, abbiamo atteso e sperato, ma non c’è stato nulla da fare. 1.300 chilometri di navigazione (nel momento in cui è stato scritto il tweet, ndr) e una importante perturbazione meteorologica ci separano dal porto di Ravenna, luogo di sbarco assegnatoci dalle autorità italiane. Proseguiamo verso Nord, mentre la banalità del male continua a mietere le sue vittime”. Dal canto suo, la Guardia costiera ha precisato che l’evento “è avvenuto in area di responsabilità Sar libica, a circa 30 miglia dalle coste libiche, a 25 miglia dalle coste tunisine e a 120 miglia di distanza dalle coste italiane più prossime (Lampedusa). Si è provveduto ad informare immediatamente tutti i centri marittimi di soccorso più vicini e pertanto più idonei - in base alla distanza dalla costa e al relativo tempo di intervento - al trasporto urgente delle persone in pericolo di vita. Anche il Centro di coordinamento dei soccorsi in mare dello Stato di bandiera (Bremen) della Watch 5, la Germania, dava indicazioni alla nave di dirigere verso la Tunisia, Stato costiero più vicino e quindi in grado di intervenire più rapidamente. La nave si è tuttavia diretta verso le coste italiane”. Per il segretario di Più Europa Riccardo Magi, “è il punto più basso raggiunto dalla disumanità di Meloni e Piantedosi, a cui chiediamo di riferire quanto prima in Aula per chiarire cosa davvero è avvenuto, perché i soccorsi sono arrivati in ritardo e sulla base di quale norma una nave è costretta a viaggiare con un cadavere a bordo per altri quattro giorni - ha evidenziato su X -. Una disumanità, quella del governo, che purtroppo non ha più alcun limite e che da Cutro in poi sta trasformando il dramma dei migranti in un vero e proprio film dell’orrore”. E critico è anche il giudizio del capogruppo dell’Alleanza verdi e sinistra Peppe De Cristofaro, presidente del gruppo Misto di palazzo Madama. “Sui migranti e sulle navi delle Ong che salvano le vite in mare la disumanità del governo Meloni non conosce confini. Il porto dove far sbarcare i migranti salvati è sempre quello più lontano. Oggi alla Geo Barents, che ha salvato 261 persone la notte scorsa, addirittura hanno assegnato due porti per lo sbarco: Livorno e Genova. Una vera e propria agonia per chi ha rischiato la vita in mare, costretto poi ad interminabili giorni di navigazione prima di poter finalmente toccare terra - ha evidenziato -. È andata anche peggio alla Sea Watch. Non solo sarà costretta ad arrivare fino a Ravenna con quattro giorni di navigazione in più, ma lo dovrà fare con a bordo il corpo di un ragazzo deceduto dopo il salvataggio. E lo dovrà fare, anche se non attrezzata con celle frigorifere o altro, perché la Guardia costiera, che ha raggiunto la nave umanitaria dopo 9 ore dalla richiesta di soccorso, si è rifiutata di prendere a bordo il corpo del ragazzo morto, come denuncia Sea Watch. Una cosa gravissima sulla quale presenteremo un’interrogazione a Piantedosi e Salvini per chiedere i motivi del ritardo nei soccorsi e di questa scelta crudele”. L’arrivo a Ravenna è previsto per lunedì 11 marzo, presso il terminal di Porto Corsini. E il sindaco Michele de Pascale ha annunciato la volontà di farsi carico delle esequie della giovane vittima. “Per la nostra comunità, che ha imparato ad accogliere e gestire con professionalità e massima attenzione gli sbarchi, è un colpo fortissimo: il Comune di Ravenna è a completa disposizione per garantire le esequie e per il possibile rimpatrio della salma - ha fatto sapere sul suo profilo Facebook -. Lo sentiamo come un dovere nei confronti del giovane e di tutte le vittime che, nell’ultima parte di un viaggio già atroce, si scontrano con scelte politiche disumane, con rimpalli di responsabilità che ricadono su vite disperate molto spesso di donne, bambini, ragazzi. Ci auguriamo che il governo prenda atto della mancanza di logica nello scegliere punti di approdo che allungano di giorni le traversate nel Mediterraneo, con un prezzo altissimo in termini di vite e di dignità. Senza dimenticare le promesse del blocco degli sbarchi da parte del governo Meloni, annunci falliti miseramente”. Ucraina. Il mercato della forza fa salire il prezzo di una guerra inutile di Mario Giro* Il Domani, 8 marzo 2024 Tutto quello che sta succedendo somiglia molto al modo con cui l’Europa piombò nelle due guerre mondiali senza quasi accorgersene. Se anche Raphaël Glucksmann incita l’Europa a passare ad “un’economia di guerra”, significa che il clima si è fatto davvero pesante. L’astro nascente della prossima lista progressista e socialista francese alle elezioni europee, sostiene che l’intero continente è sull’orlo del conflitto a causa dell’aggressività russa. Dopo le dichiarazioni britanniche, tedesche e baltiche, ora anche in Francia risuona l’allarme generale, come le dichiarazioni del presidente Emmanuel Macron dimostrano. Prepararsi a tutto “senza escludere nulla”, nemmeno l’invio di soldati: questo si vocifera nei corridoi del potere occidentale. Il segretario alla Difesa Usa Lloyd Austin conferma. Dal canto suo Sergej Lavrov reagisce: “Già sappiamo - dice ridendo - che ci sono soldati della Nato in Ucraina!”. Un modo per dire che la Russia saprà utilizzare questo fatto al momento giusto. La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zacharova, avvalora: “Così si vede chi è il vero aggressore: la Nato”. Tutta la politica del Cremlino si regge su questo assioma: dopo il fallimento della guerra-lampo per prendere Kiev (che avrebbe avvalorato un’altra narrazione: quella del popolo fratello che si libera dal giogo straniero), Mosca sta cercando di convincere tutti - il global south in particolare - di essere lei la vera vittima di una Nato bellicosa e prepotente. Una scommessa che sta progressivamente affermandosi come narrazione globale ed è condivisa anche da alcuni occidentali. Guerre da sonnambuli - Com’è noto il vittimismo è sempre stata la migliore arma dei violenti e dei riluttanti. Tutto questo somiglia molto al modo con cui l’Europa piombò nelle due guerre mondiali senza quasi accorgersene, da “sonnambula” dicono gli storici. La memoria è corta e non ci si rende conto del pericolo che si sta correndo: “Non c’era ancora la guerra e già non c’era più la pace” scriveva nel 1938 l’autore ungherese Sandor Marai. Gli europei devono dirselo con franchezza: la pace non c’è già più e non ci sono finzioni possibili che possano celare tale realtà. I discorsi su “non è la guerra della Nato, non andremo mai a combattere in Ucraina” sono ormai fallaci. Il merito di Macron è almeno di averlo svelato: “Non ci sono limiti”. Un’affermazione di “ambiguità strategica” cioè il modo per mettere Putin sull’attenti. Ma anche un passo in più verso l’allargamento del conflitto. L’ingranaggio è innescato e non si può fermare se non con molta volontà politica dal momento che ognuno sostiene di non voler perdere tale sfida perché comporterebbe la propria fine. In altre parole ogni guerra è sempre presentata come “esistenziale”, e spesso anche come “l’ultima”, ma assolutamente necessaria alla propria sopravvivenza. Si rafforza da entrambe le parti una mentalità conformista e dell’ossequio per ciò che viene propalato dalle istituzioni: se lo dicono sarà pur vero… La Russia propaganda una ricostruzione vittimistica nella quale l’occidente sarebbe pronto ad invaderla di nuovo: d’altronde non ci ha già provato varie volte? Dal suo punto di vista l’occidente risponde con la stessa drammatizzazione: è la Russia che vuole invaderci tutti, d’altronde non si tratta di un potere autoritario? Così, mescolando realtà e finzione, non si ragiona più, ci si adatta, ogni riflessione critica della vicenda in atto viene inghiottita dalla paura di perdere. Le parole di papa Francesco o del cardinal Matteo Zuppi sulla ragionevolezza della pace sembrano ingenue o risuonano come inattuali in un mondo violento. Come ebbe a dire ad inizio conflitto un generale francese: “Siamo erbivori in un mondo di carnivori”. La paura si conferma essere il grande vettore della guerra che non ha bisogno di essere dimostrata: ognuno la può sentire dentro di sé. Vittoria inutile - In tale scenario psicologico la vittoria sembra l’unica soluzione possibile, l’unico modo per uscirne o almeno per smorzare l’ansia. Basterebbe al contrario un poco di lucidità per capire che la vittoria è impossibile e inutile allo stesso tempo. Impossibile distruggere la Russia o cambiare il suo regime dall’esterno, da un lato. Impossibile invadere l’occidente o trasformarlo a proprio piacimento, dall’altro. Russia e Europa resteranno diverse ed ogni loro realistico cambiamento avverrà dall’interno ma mai imposto da fuori. Ma oltre che impossibile la vittoria è anche inutile: se uno dei due vincesse non sarebbe che in preparazione della rivincita. Ogni guerra appresta quella successiva e nessuna vittoria è mai definitiva. I francesi avevano adottato una formula nel 1914 all’inizio della grande guerra: la “der des deres”, cioè “la dernière des dernières”, l’ultima delle ultime. Ma quando mai? C’è stata la seconda, poi la guerra fredda e ora questa… oltre ad altri innumerevoli conflitti che soltanto una mentalità distratta può definire minori. Quando terminerà il ciclo della violenza? Solo quando i responsabili si renderanno conto che la guerra è uno strumento del tutto inutile: le colpe degli uni sono sempre ricoperte e giustificate da quelle degli altri. Il doppio standard è moneta corrente per tutti. L’odio una macchina che ne produce altro all’infinito. Prima ancora di discutere su guerra giusta o ingiusta, sul diritto o non a combatterla, o sulla sua moralità, affermiamo la verità pragmatica: la guerra è inutile oltre che pericolosa. Mediante essa nessuno dei contendenti cambierà l’altro né lo convincerà della sua superiorità morale o giuridica. In tale fasullo (ma micidiale) mercato della forza conviene solo fermarsi prima dell’abisso. In tale quadro assai difficile sorprende che sempre più spesso venga richiamato dagli esperti in queste settimane il piano di mediazione italiano, quel progetto elaborato dalla Farnesina nei primi mesi di guerra. L’idea prevalente è che dopo non ci sia stato nulla di sensato. Si tratta di un’impostazione semplice con una logica da dinamica negoziale: non dare all’inizio tutte le risposte o mettere tutte le condizioni. Tale compito di perspicacia politica dovrebbero intestarsi l’Italia e l’Europa. Medio Oriente. Il pacifismo non può essere “bendato” di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 8 marzo 2024 Il valore del documento: invita a riflettere sulla necessità di irrobustire i legami con l’insieme di Israele, non solo con il governante preferito. L’appello per un “accordo di cessate il fuoco” diffuso in questi giorni da personalità progressiste su Gaza va in direzione opposta a pacifismi dagli occhi bendati, indifferenti alla natura teocratica di Hamas, alla sua crudeltà, alla sua funzionalità attuale per l’espansione dell’influenza dell’Iran. Sarebbe utile che a destra e a sinistra il documento firmato tra gli altri da Giuliano Amato, Piero Fassino, Pina Picierno, Luciano Violante inducesse a riflettere sulla necessità di irrobustire i legami con l’insieme di Israele, non solo con il governante preferito di un determinato momento. “Il più drastico giudizio sulle politiche di Netanyahu non può in alcun modo tradursi nella negazione del diritto all’esistenza dello Stato di Israele”, fa presente il documento. L’affermazione è quanto mai opportuna. Perché qualunque opinione si abbia sulla guerra in corso e sul governo di Benjamin Netanyahu il punto di partenza della fase attuale è: con il più alto numero di ebrei uccisi in una sola volta dopo la Shoah, circa 1.200, lo Stato ebraico il 7 ottobre scorso ha subito un attacco alla propria esistenza. Alle vite di ebrei nella terra di padri e madri dell’antichità che la nascita di Israele, nel 1948, rese anche una parte di mondo nella quale ogni ebreo si sarebbe potuto sentire al riparo da ogni persecuzione. L’appello chiede una interruzione delle ostilità “che consenta la liberazione di tutti gli ostaggi israeliani e l’inoltro alla popolazione civile di Gaza, in condizioni di sicurezza, degli aiuti umanitari”. La salvezza delle persone catturate il 7 ottobre da terroristi integralisti islamici deve essere presupposto di una tregua, non trascurabile eventualità. “Il sionismo è stato il legittimo movimento di liberazione nazionale e sociale del popolo ebraico e in esso sono vissuti e tuttora vivono i valori di uguaglianza, giustizia, liberazione umana della sinistra democratica”, rammenta l’appello. Lo ricordassero settori della sinistra che scambiano per Resistenza milizie armate dagli eredi dell’ayatollah Khomeini. Durante la seconda Intifada, ribellione palestinese con attentati, il grosso della sinistra italiana non capì la sofferenza di Israele e di ebrei italiani che avevano figli o nipoti costretti ad andare a scuola su autobus diversi per evitare di saltare insieme per aria. Quel vuoto agevolò rapporti tra destra italiana e governanti israeliani di destra e passi in avanti nelle relazioni. Ma entrambi gli schieramenti, nel chiedere una pace giusta, dovrebbero consolidare legami con lo Stato ebraico in sé più che con l’una o l’altra famiglia politica. Mattanza in Messico, cronisti ammazzati anche sotto scorta di Riccardo Noury* Il Domani, 8 marzo 2024 In Messico, negli ultimi sette anni, sono stati uccisi otto giornalisti che erano registrati presso il Meccanismo per la protezione dei difensori dei diritti umani e dei giornalisti: un dato che, secondo una ricerca di Amnesty International e del Comitato per la protezione dei giornalisti, indica che quel sistema federale di protezione non funziona affatto bene. Il Meccanismo è stato creato nel 2012, dopo anni di pressioni da parte della società civile messicana, per proteggere i difensori dei diritti umani e i giornalisti sottoposti a gravi minacce e attacchi a causa del loro lavoro. Il Messico è lo stato più pericoloso dell’emisfero occidentale per i giornalisti: il Comitato per la protezione dei giornalisti lo documenta dal 1992. Dall’inizio del XXI secolo, quelli uccisi sono stati almeno 141, oltre 60 dei quali per motivi direttamente legati al loro lavoro. I killer la fanno franca, i mandanti pure. Secondo l’Indice globale dell’impunità prodotto ogni anno dal Comitato per la protezione dei giornalisti, il Messico è stabilmente tra i primi dieci posti per numero di casi irrisolti di giornalisti assassinati. Sempre secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, il Messico è lo stato al mondo col più alto numero di giornalisti scomparsi: ciononostante, non c’è stata neanche una condanna nei confronti dei responsabili. Oltre agli omicidi e alle sparizioni, i giornalisti messicani subiscono costanti aggressioni, intimidazioni, minacce fisiche e psicologiche da parte di funzionari statali e dei gruppi della criminalità organizzata. La maggior parte delle minacce e degli attacchi scatta quando i giornalisti scrivono di imprese criminali, della cosiddetta “guerra alla droga” e della relativa militarizzazione del paese, nonché di corruzione. Lo stesso Meccanismo è arrivato alla conclusione che metà degli attacchi contro i giornalisti proviene da funzionari dello stato. Sulla carta, il Meccanismo valuta i rischi cui i giornalisti vanno incontro, fornisce misure di protezione e si coordina con le autorità statali e le agenzie federali per mitigare tali rischi. Alla fine dello scorso novembre, al Meccanismo erano registrati 651 giornalisti: 469 uomini e 182 donne. Il numero delle richieste di protezione è rapidamente aumentato negli ultimi anni: una nel 2020, 14 nel 2021, 49 nel 2022 e altre 49 nei primi 11 mesi del 2023. Quasi tutti i 28 giornalisti registrati coi quali ha parlato Amnesty International hanno segnalato di aver continuato a subire minacce anche dopo la registrazione e hanno lamentato che l’operato del Meccanismo è lento, burocratico e privo di empatia. Molte giornaliste hanno denunciato che il personale del Meccanismo minimizza la gravità delle minacce e non agisce secondo una prospettiva di genere. Le storie - Amnesty International e il Comitato per la protezione dei giornalisti hanno individuato, tra le tante, tre storie che chiamano profondamente in causa il Meccanismo. Rubén Pat Cauich e Gustavo Sánchez Cabrera sono stati assassinati mentre erano sotto protezione, rispettivamente nel 2018 nello stato di Quintana Roo e nel 2021 nello stato di Oaxaca. Alberto Amaro Jordán è ancora vivo, ma sta lottando per rientrare nel registro del Meccanismo, che ha deciso che la protezione non è più necessaria: “Li chiamo al telefono e a volte pare proprio che m’ignorino o pensino che non stia dicendo la verità. La loro valutazione del rischio è piena di errori. Alla fine hanno deciso di togliermi la scorta”. La vicenda di Alberto Amaro Jordán non è isolata. Il Meccanismo tende sempre di più a negare, indebolire o annullare le misure di protezione, nonostante gli evidenti rischi che i giornalisti continuano a correre. Manca una formazione adeguata sui diritti umani e sulle questioni di genere, le comunicazioni con i beneficiari sono scarne e burocratiche. Amnesty International e il Comitato per la protezione dei giornalisti hanno sollecitato le autorità federali messicane ad assicurare che il Meccanismo sia dotato di maggiori risorse e che i suoi funzionari ricevano una migliore formazione. Ma prima o poi, meglio prima che poi, dovranno essere affrontate e risolte le cause di fondo della violenza contro i giornalisti e dell’impunità di cui godono i responsabili. In un anno elettorale, il Messico potrebbe sprofondare in un nuovo ciclo di violenza, e tra le principali vittime ci sarebbero sempre coloro che la raccontano. *Amnesty International Italia