Da “superprocura” a ente inutile: l’incubo che il capo della Dna cerca di scacciare di Errico Novi Il Dubbio, 7 marzo 2024 Se c’è un luogo carico di contraddizioni, nel panorama giudiziario italiano, è la Procura nazionale Antimafia. È un ufficio molto gerarchizzato. Ha una sede importante e ben presidiata, ma ha funzioni atipiche. Di coordinamento ma non propriamente inquirenti. Eppure è un punto d’arrivo per la carriera dei grandi pm. Non solo. È un trampolino di lancio non per ulteriori approdi magistratuali, ma verso le alte sfere della politica. Pietro Grasso è stato eletto (col Pd) prima in Parlamento e poi presidente del Senato, Franco Roberti è parlamentare europeo (sempre con i dem), Federico Cafiero de Raho è ora un deputato 5 Stelle. Insomma, dopo si vola. Ma della Superprocura non si era mai parlato tanto come per il recentissimo presunto dossieraggio. È cioè un ufficio finito negli highlitghs dell’informazione per un teorico scandalo. Pure grave, se accertato. E forse c’è da meravigliarsi fino a un certo punto, nel momento in cui una delle voci più autorevoli nel dibattito sulla giustizia, Sabino Casese, due giorni è arrivata a chiedersi se “questa struttura debba ancora rimanere in vita o se invece non bastino gli strumenti ordinari”. Esultanza nel centrodestra, che vede in via Giulia una fucina di notabili arruolati nelle schiere nemiche. Ma è vero che la Dna è superflua? Che va abolita? E soprattutto: è possibile che la creatura di Giovanni Falcone debba finire come una sorta di Cnel della giustizia, un ente inutile che magari sarà soppresso alla prossima riforma istituzionale? In realtà la Direzione nazionale Antimafia e antiterrorismo, secondo la definizione acquisita nel 2015, ha un ruolo non così marginale: coordina, pur senza sovrintendervi, le inchieste in materia di criminalità organizzata e, appunto, di eversione armata, nel senso che acquisisce le risultanze investigative delle singole direzioni distrettuali, cioè delle 26 maggiori Procure italiane, e fa in modo che quelle indagini, e quegli investigatori, si “parlino”. Dire che un coordinamento simile è inutile, in tempi in cui la mafia si è finanziarizzata ed emancipata dal legame col singolo territorio, sarebbe ingeneroso. Ma è indiscutibile che la Procura nazionale soffra di una sproporzione fra il proprio prestigio (con le relative ambizioni che sollecita) e il suo effettivo rilievo nella geografia giudiziaria. E insomma, quella del procuratore Antimafia è una carica tanto ambita quanto limitata nei suoi poteri. E, paradosso nel paradosso, i limiti in questione sono legati anche al potere rivendicato dai vertici delle 26 grandi Procure distrettuali: in altre parole, il capo dei pm di Roma, o di Napoli o di Milano, fa ontologicamente fatica a riconoscere un’autorità sovraordinata. Anche se la Dna non dà quasi mai “ordini”, il suo stesso ruolo di crocevia delle informazioni, è indebolito dalla “gelosia” con cui i capi delle singole Procure territoriali difendono il loro potere. E fosse l’unico, di problema. È ovviamente sotto gli occhi di tutti il cruccio con cui si trova ora a fare i conti Giovanni Melillo, l’attuale capo della Dna. Va detto che, come ha ben ricordato ieri il Foglio, proprio Melillo ha messo mano all’intera struttura gerarchica impegnata sugli archivi, sulla sicurezza e sugli apparati informatici di via Giulia. Ha prima esonerato dai precedenti incarichi non solo il finanziere Pasquale Striano e il sostituto Antonio Laudati, che aveva la competenza sulle segnalazioni di Bankitalia (ora sono entrambi indagati per i presunti dossieraggi), ma ha anche sottratto all’allora procuratore aggiunto Giovanni Russo (ora a capo del Dap), e avocato a se stesso, il coordinamento di tutte le banche dati della Dna. Melillo è non solo uno degli inquirenti più apprezzati dall’avvocatura ma è anche tra i pochi magistrati italiani dotati di riconosciute capacità manageriali nel campo delle nuove tecnologie. Da capo di Gabinetto a via Arenula, con Andrea Orlando guardasigilli, ha seguito in prima persona le questioni legate ai server che custodiscono le intercettazioni. Si tratta insomma di una figura dall’indiscussa competenza. Ora spetta a lui l’ingrato compito di non lasciar evaporare il prestigio e l’autorevolezza della Procura nazionale. Dovrà compiere sforzi enormi, nel rapporto con i colleghi e nella gestione del caso “dossieraggi”, per limitare i danni e poi ricostruire dalle macerie. Ma può darsi che la sua missione si riveli impossibile E che tra gelosie ed equivoci di base, la grande creatura di Falcone finisca davvero derubricata a ente inutile, anzi pericoloso. Fuori ruolo, la sfida dei togati indipendenti: “Servono criteri chiari” di Simona Musco Il Dubbio, 7 marzo 2024 “Non saranno 40 magistrati fuori ruolo in più a incidere sulla lunghezza dei processi”, diceva l’altro ieri il ministro della Giustizia Carlo Nordio in un’intervista al Foglio. Un concetto che due togati indipendenti del Csm, Andrea Mirenda e Roberto Fontana, sembrano non condividere, stando alla richiesta, inviata alla Terza Commissione, di “riscrivere” la circolare numero 13778 del 24 luglio 2014, in tema di trasferimenti dei magistrati, conferimento di funzioni e destinazione a funzioni diverse da quelle giudiziarie, tenendo conto dell’impatto delle toghe distaccate sul sistema giustizia. E a riprova del fatto che si tratti di un tema tutt’altro che secondario c’è anche l’intervento in plenum della prima presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano, che in plenum aveva preso posizione affinché la nuova circolare cancelli il ruolo di meri “passacarte” attualmente in capo ai consiglieri. L’auspicio di Cassano è infatti che i membri del Csm possano valutare “la concretezza, l’effettività e la possibilità di un reale apporto del magistrato fuori ruolo” nell’ufficio che andranno a occupare. I fuori ruolo, affermano Mirenda e Fontana, di fatto “smentendo” Nordio, incidono infatti sull’efficienza del sistema, soprattutto in questo momento storico, caratterizzato dall’assenza di 1700 magistrati negli uffici e dal gravoso impegno, per il comparto giustizia, di raggiungere gli obiettivi del Pnrr. Ma non solo: a volte, scrivono i due togati indipendenti, “il ritorno in servizio del magistrato “fuori ruolo”“ si accompagna “a concrete difficoltà organizzative per gli Uffici, già gravati da numerosi problemi”. A ciò si aggiunge il problema forse principale, ovvero il rischio “di appannamento dell’immagine di terzietà e indipendenza del magistrato, per le peculiari modalità della genesi dell’incarico (chiamata diretta da parte dell’esecutivo, in posizione di diretta subordinazione gerarchica e sulla scorta di criteri di merito non palesati)”. Una chiamata diretta che pesa notevolmente, poi, nel curriculum del magistrato, quando si tratterà di valutare un avanzamento di carriera. Di fronte a questo, parte del Csm, nella seduta del 17 gennaio, si era posto il problema dell’anzianità di servizio richiesta al magistrato, che può accedere alle stanze della politica già con la seconda valutazione di professionalità. “Baby” fuori ruolo, insomma, che, aveva evidenziato Mirenda, non garantirebbero la giusta competenza per fornire agli uffici ministeriali il proprio contributo tecnico-giuridico. Il problema, secondo i due togati, è anche la vaghezza della disciplina “volta a verificare, in concreto, l’effettiva idoneità e competenza del magistrato ad esercitare le funzioni esterne indicate nonché - stando almeno alla prassi consiliare - l’effettivo beneficio, in termini di prestigio, che l’incarico espletando apporterà all’ordine giudiziario”. Le proposte di Mirenda e Fontana (finora senza riscontro) alla Terza Commissione sono dunque due. La prima è pescare i fuori ruolo in uffici che non superino il 10 per cento di scopertura. La seconda prevede invece una valutazione oggettiva dell’attitudine del magistrato all’incarico richiesto, “nonché concreta rispondenza di esso agli interessi superiori dell’amministrazione della giustizia”. Una valutazione da compiere mediante verifica dei titoli, esame delle esperienze maturate nelle materie di destinazione, audizione dell’interessato ed elaborazione, da parte della Commissione, di un rigoroso catalogo delle aree tematiche che rispondono alle esigenze dell’incarico. Intanto, sul fronte politico, la Commissione Giustizia del Senato ha votato ieri il parere sui fuori ruolo, di fatto rinviando l’entrata in vigore della (esigua) riduzione del numero massimo di magistrati dislocabili al 31 dicembre 2025, in vista dell’attuazione del Pnrr. Un rinvio che ha indignato le opposizioni, a partire dalla senatrice grillina Ada Lopreiato. “Sostanzialmente ha sottolineato -, il punto più rilevante del decreto viene posticipato di due anni. Ciò denota una schizofrenia legislativa: da un lato, per quanto concerne l’atto del Governo n. 110 (la riforma dell’ordinamento giudiziario, ndr), è stato approvato un parere che, se attuato, potrà essere suscettibile di uno scrutinio di costituzionalità in quanto in palese eccesso di delega con riferimento alla previsione dei test psicoattitudinali, dall’altro, con il parere proposto dal relatore sul provvedimento in esame si vogliono congelare gli effetti della parte di testo più importante”. Delusione condivisa dal senatore dem Alfredo Bazoli e da Ivan Scalfarotto di Italia viva, secondo cui il provvedimento evidenzia “la grande difficoltà del Paese a risolvere il problema della separazione dei poteri che passa anche attraverso la limitazione del fuori ruolo dei magistrati, i quali spesso finiscono per svolgere funzioni diverse da quella giurisdizionale loro assegnata dalla Costituzione. Essendo il tema del fuori ruolo uno dei punti qualificanti della legge Cartabia non posso non sottolineare come il rinvio di due anni dell’entrata in vigore del tetto del numero dei magistrati rappresenti una netta smentita di molte delle affermazioni della maggioranza che, per altri versi, si fa portavoce della necessità della separazione delle carriere e della differenziazione dei ruoli”. Giosuè Ruotolo: un uomo condannato all’ergastolo senza prove? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 marzo 2024 L’avvocato Danilo Iacobacci, difensore del 34enne Giosuè Ruotolo, denuncia molte incongruenze nel processo e solo fragilissimi indizi. La stessa Cassazione, nel ricorso straordinario, ammette errori di fatto. Si può essere condannati definitivamente all’ergastolo solo tramite incerti indizi, movente poco definito e con significative prove che lo avrebbero potuto scagionare? Nove anni fa, a Pordenone, si è consumato un atroce duplice delitto. Una coppia di fidanzati, Teresa Costanza di 30 anni e il suo compagno Trifone Ragone di 28 anni, sono stati uccisi con vari colpi alla nuca mentre si trovavano nella propria auto, nel parcheggio del palasport di Pordenone. Un vero e proprio agguato avvenuto la sera del 17 marzo 2015. Per questo orribile delitto, nel 2021, la Cassazione ha confermato la condanna all’ergastolo nei confronti di Giosuè Ruotolo, ex militare di Somma Vesuviana, oggi 34enne. Tuttavia, per il suo avvocato Danilo Iacobacci, che da un paio d’anni ha iniziato a difendere l’ex militare, risulta difficile dire che l’imputato risulti colpevole del reato al di là di ogni ragionevole dubbio. Paradossalmente, a sollevare i dubbi, è stato l’ultimo rigetto della Cassazione al ricorso straordinario proposto dall’avvocato, che ha sottolineato gli errori giudiziari: la Corte Suprema, con sentenza depositata nel 2022, pur riconoscendo l’esistenza di errori di fatto nella valutazione dei giudici dei primi processi, ha evidenziato che non ha il potere di andare oltre il perimetro dell’impugnazione straordinaria proposta. In sostanza non può fare una rivalutazione, ma può controllare soltanto la forma. Stesso discorso vale per il ricorso rigettato dalla Corte Europea di Strasburgo. Dagli atti emergono numerosi errori, gettando così un dubbio sostanziale sulla solidità della condanna. L’assenza di tracce ematiche delle vittime nel veicolo o sugli indumenti del presunto assassino, insieme alla mancanza di impronte di Ruotolo sull’arma del delitto, una vecchia Beretta calibro 7.65, ritrovata mesi dopo in un laghetto del parco San Valentino, sollevano interrogativi cruciali sulla solidità dell’accusa. Basti solo pensare, che le stesse indagini dell’accusa avevano smentito la possibilità che il killer non avesse addosso tracce del delitto, visto l’enorme spargimento di sangue: quindi come era possibile che su Ruotolo stesso, sui suoi indumenti, ma anche all’interno del veicolo o nell’abitazione, non fosse stata trovata alcuna traccia ematica delle vittime? Ricordiamo che i colpi erano stati esplosi tra i 25/40 cm di distanza dalle vittime: la scientifica stessa è quindi arrivata a concludere che l’assassino si era copiosamente macchiato di sangue. Ma ulteriori dubbi emergono dall’analisi del Dna rinvenuto su uno dei bossoli trovati nell’auto della coppia: non appartiene a Ruotolo e risulta tuttora di provenienza ignota. Tra le questioni sollevate dalla difesa, emerge un dettaglio cruciale: l’incertezza sulla presenza dell’auto di Ruotolo nel luogo del tragico evento. L’auto avvistata in fuga subito dopo gli spari non corrisponde al modello di Ruotolo, bensì a un’Audi Sportback, mentre l’ex militare possedeva un’A3 grigia. A complicare ulteriormente il quadro, la difesa del 34enne solleva il mancato vaglio delle piste alternative, alcune delle quali supportate da testimonianze, con particolare attenzione a quella di Lorenzo Kari. Quest’ultimo ha sostenuto di essere stato contattato nel carcere di San Vittore tramite un detenuto da Giovanni Bonomelli, implicato nell’indagine sull’omicidio di Tiziano Stabile a Brescia, il quale, sempre stando al racconto di Kari, gli avrebbe commissionato l’omicidio di Teresa Costanza e Trifone Ragone, in quanto a suo dire testimoni scomodi. Kari ha raccontato di essere stato istruito da un certo Mario, su incarico di Bonomelli del quale era collaboratore, per commettere il delitto al quale però si sottrasse. Il motivo dietro il duplice omicidio era il timore che Teresa potesse rivelare informazioni compromettenti su Bonomelli, inclusi altri fatti criminali a Brescia in cui era coinvolto. Mario è stato incaricato di accompagnare Kari nei sopralluoghi per mostrargli le vittime e il luogo del delitto. Questi sopralluoghi hanno riguardato le palestre e le due vittime uccise, e l’omicidio è avvenuto esattamente come è stato anticipato a Kari. Come spiega il legale di Ruotolo, gli inquirenti non intesero seguire la pista investigativa che suggeriva Kari, ossia di munirlo di una microspia e proseguire nell’indagine. Eppure, sottolinea sempre l’avvocato Danilo Iacobacci, il testimone, d’altra parte, non aveva ragione di mentire, visto che è un malato terminale e non aveva bisogno di collaborare per ottenere benefici penitenziari. Si aggiunge anche un’altra pista, quella che la riconduce nell’ambito della criminalità organizzata. Maurizio Ferraiuolo è un valido collaboratore di giustizia e ha spiegato chi fossero i reali autori e le cause dell’omicidio, indicando perfettamente l’arma usata e le modalità dell’omicidio per come le aveva in anticipo apprese dai compagni di cella Danny Esposito e Antonio De Carlo. Eppure la Corte, con tanto di sigillo dalla Cassazione, ha condannato Ruotolo su unico indizio: ovvero che la sua vettura fosse presente nel parcheggio al momento dell’omicidio, e ciò sulla base di un solo testimone, tale Protani, che aveva detto di aver visto una Audi Sportback non lontano dalla coppia uccisa (a differenza di tutti gli altri testimoni che lo smentivano). La Corte - non tenne conto del fatto che Ruotolo non aveva una Audi Sportback ma una Audi A3, e che diverse persone quella sera avevano una Audi A3 come quella di Ruotolo ed erano parcheggiate nel medesimo parcheggio o comunque vi erano passate nella medesima fascia oraria. La Corte non tenne conto neppure del fatto che lo stesso Protani aveva una Audi A3, oltre a molti altri quella sera, e che aveva visto comunque alla guida una donna di mezza età (e non un ragazzo), salvo poi nel corso del dibattimento cercare di smussare il proprio racconto sostenendo che fosse pure possibile che fosse guidata da un uomo col cappuccio. Non solo. Il testimone chiave stesso, inizialmente, era stato uno dei sospettati del delitto, tanto che, in una intercettazione telefonica, aveva parlato in termini poco chiari di una pistola. Resta il fatto che il ragazzo si è visto condannare all’ergastolo nonostante abbia chiarito il motivo per cui quella sera fosse andato nella propria palestra e, trovandola piena, fosse poi andato a correre al Parco San Valentino come faceva abitualmente, particolare confermato da numerosi testimoni. E il movente? È importante ricordare che Ruotolo era collegato alla vittima Ragone sia come suo collega che come ex coinquilino. Secondo i giudici alcune chat lo legavano alla vita privata delle vittime e a un forte litigio con Ragone, che lo aveva minacciato di denunciarlo dopo aver scoperto dei messaggi anonimi inviati alla fidanzata. Secondo i giudici, Ruotolo uccise per odio e per timore che certe rivelazioni potessero compromettere la sua carriera, nonostante avesse già superato il concorso. Tuttavia, la stessa corte d’Appello ha dichiarato che il movente rimane oscuro. L’unica speranza che resta al ragazzo è quella della revisione, ma l’avvocato Iacobacci alza le mani, poiché senza nuove prove non ci sono i presupposti per richiederla. Inevitabilmente, ci si trova a riflettere sul caso di Beniamino Zuncheddu, che dopo 32 anni di ergastolo è riuscito ad ottenere la revisione del processo grazie alla determinazione dell’avvocato Mauro Trogu e soprattutto all’indagine condotta dall’ex procuratrice generale di Cagliari Francesca Nanni. Ma si può davvero parlare di giustizia? Reato continuato, ultima chiamata davanti al giudice dell’esecuzione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2024 Lo ha chiarito la Cassazione sentenza n. 9461 depositata oggi. Arrivano le precisazioni della Cassazione in tema di reato continuato quando ci si trovi di fronte a due procedimenti diversi relativi a reati della stessa natura. Affrontando il ricorso del presidente del Cda e legale rappresentante di una società, condannato per abbandono di rifiuti, che chiedeva l’applicazione della continuazione rispetto ad un precedente reato sempre in tema di rifiuti, la Terza sezione penale, sentenza n. 9461 depositata oggi, l’ha dichiarato inammissibile affermando che tale domanda non può essere proposta per la prima volta in Cassazione potendo semmai trovare spazio in sede esecutiva. Nel caso specifico, il ricorrente nonostante un’ordinanza sindacale gli imponesse l’immediata rimozione dei rifiuti, “pericolosi e non pericolosi”, dal capannone della ditta, non vi aveva mai dato seguito. La prima sentenza di condanna, per attività di gestione di rifiuti non autorizzata, era passata in giudicato il 27 dicembre 2020 mentre la pronuncia di primo grado nel presente processo, era stata emessa dal Tribunale di Trento soltanto il 26 gennaio 2021. Per la giurisprudenza di legittimità è “improponibile davanti alla Corte di cassazione la richiesta di applicazione della continuazione tra il reato per il quale si procede, ancora sub judice, ed altro reato per il quale sia intervenuta condanna definitiva successivamente alla pronuncia della sentenza gravata di ricorso, potendo in tal caso la continuazione essere applicata in sede esecutiva”. “Ma questo principio - prosegue la decisione - deve essere esteso, a maggior ragione, anche all’ipotesi in cui la richiesta di applicazione della continuazione sia formulata per la prima volta davanti alla Corte di cassazione ed abbia riferimento, oltre che al reato per cui si procede, ad altro reato per il quale sia intervenuta condanna definitiva prima della pronuncia della sentenza gravata di ricorso”. In questa ipotesi, infatti, prosegue il ragionamento, “si chiede direttamente alla Corte di cassazione una valutazione in fatto, esorbitante dai limiti del giudizio di legittimità, che avrebbe potuto essere domandata al giudice di merito, e che potrà comunque essere chiesta al giudice dell’esecuzione”. Né il fatto che i rifiuti si trovino in stato di abbandono all’interno di un’area sottoposta a sequestro giudiziario può avere alcuna efficacia scriminante del reato (articolo 255, comma 3, Dlgs 3 aprile 2006, n. 152) per inesigibilità della condotta, poiché, in tal caso, il destinatario dell’ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti (emessa ai sensi dell’articolo 192, comma 3, del medesimo Dlgs), deve richiedere al giudice l’autorizzazione ad accedere ai luoghi per provvedere alla rimozione. Roma. La Garante Valentina Calderone e la realtà poco conosciuta delle donne detenute time4child.com, 7 marzo 2024 In un sistema carcerario dominato dalle narrazioni maschili, la vita delle donne dietro le sbarre rimane spesso poco raccontata. Abbiamo avuto il privilegio di parlare con Valentina Calderone, Garante dei diritti delle persone private della libertà di Roma Capitale, per anni direttrice della Onlus “A Buon Diritto” e parte dello staff della Commissione dei diritti umani del Senato nel corso della diciassettesima legislatura. Con la sua profonda conoscenza delle dinamiche carcerarie, ci offre un insight dettagliato sulla condizione e le sfide che le detenute del nostro Paese devono affrontare ogni giorno. Cominciamo facendo un piano chiaro della situazione: quali sono le difficoltà che devono affrontare le donne detenute ogni giorno? Le donne detenute in Italia sono una percentuale piccolissima rispetto alla popolazione maschile presente nelle strutture, ci aggiriamo intorno al 4%, un numero esiguo che, proprio per questo motivo, deve affrontare tutte le difficoltà di un ambiente pensato prettamente per l’accoglienza maschile. Le carceri totalmente femminili nel nostro Paese sono veramente poche, generalmente le donne si trovano in sezioni dedicate di carceri maschili, questo fa sì che l’accesso a tutte le attività organizzative e culturali sia molto più complicato. Si fa fatica ad organizzare attività specifiche perché spesso alle donne non è consentito di partecipare insieme con i detenuti di sesso maschile per questioni di sicurezza. Al momento il Ministero della Giustizia sta affrontando tale tematica, staremo a vedere se verranno previsti dei miglioramenti per le loro condizioni. Le detenute minorenni sono divise dai ragazzi o la gestione è differente? Sì, anche le ragazze minorenni sono divise dai ragazzi. A Roma, ad esempio, c’è una situazione abbastanza particolare all’interno di Casal del Marmo, dove le ragazze non hanno neanche una palazzina dedicata, ma sono relegate al piano terra dell’edificio che ospita i ragazzi minorenni, compromettendo il loro accesso alle aree esterne e procurando non poche difficoltà di gestione. In questo caso si sta provando ad incentivare attività comuni, ma è un tema abbastanza sentito, sia nelle carceri minorili che in quelle per adulti. Focalizzandoci sulla salute, nelle carceri ci sono visite specialistiche per la prevenzione di malattie prettamente femminili? Ogni Istituto ha delle regole precise. La Sanità è totalmente regionale e di conseguenza anche quella penitenziaria. L’accesso a screening è difficile, ma ci sono delle Onlus private che forniscono visite mediche, per esempio, per la prevenzione del tumore al seno o al collo dell’utero. Non è detto, infatti, che le ASL territoriali organizzino sistematicamente degli screening in modo esteso. Donne madri: com’è la situazione italiana? Come vengono gestiti i figli? La maggior parte delle donne madri non hanno figli con loro all’interno dell’Istituto. Spesso, è una delle condizioni che fa soffrire. Le donne, però, in via generale, soffrono molto di più la reclusione rispetto al genere maschile, indipendentemente che siano madri o meno, hanno molte più difficoltà nell’adattamento al sistema di detenzione e sono più provate a livello psicologico. Le donne madri, comunque, si trovano nella sezione “nido” della struttura, è un fenomeno non ancora scomparso, ma negli ultimi anni i bambini nelle carceri sono notevolmente diminuiti, tanto che al momento se ne contano meno di una ventina in tutta Italia. I bambini possono restare con la madre fino al compimento dei tre anni, tanto che sono stati messi in atto una serie di provvedimenti legislativi che cercano di incentivare la creazione e l’utilizzo di Istituti a custodia attenuata o case-famiglia protette, per accogliere le madri e i bambini. A Roma, ad esempio, c’è una struttura che accoglie donne con bambini fino a 10 anni se sono definitive, 6 anni se sono in attesa di giudizio. Lo scandalo dei bambini che vivono in Istituti penitenziari è comunque ancora molto sentito, anche se sono talmente pochi, per fortuna, che sarebbe una questione facilmente affrontabile. La proposta di Legge Siani, scritta allo scopo di intervenire in tali situazioni, non è stata approvata nella scorsa legislatura. Ripresentata nuovamente dall’On. Serracchiani, sono state richieste delle modifiche dall’attuale maggioranza di governo, cambiamenti che non avrebbero fatto altro che peggiorare la situazione Per quanto riguarda le visite dei figli, le donne hanno maggiori possibilità rispetto agli uomini di vedere i bambini? No, chi ha figli, indipendentemente che sia madre o padre, ha la possibilità di fare dei colloqui in più. Non c’è alcuna distinzione tra i genitori, essendo entrambi figure fondamentali per i bambini e i ragazzi. Ultimamente si sta sentendo parlare delle “stanze dell’affettività”, che vengono sempre viste da un punto di vista della coppia. Secondo lei, si potrebbe magari intendere tali stanze come un luogo in cui una madre può passare del tempo da sola con i propri figli senza l’intromissione di terze persone che andrebbero ad inficiarne la privacy? Assolutamente, infatti questo è un grande limite. La sentenza della Corte Costituzionale, per quanto importantissima nel resto dei contenuti, ha vietato l’uso delle stanze ai minori, rendendo difficile l’accesso al diritto all’affettività dei genitori detenuti, sia madri sia padri. La critica più grande che abbiamo mosso verso tale sentenza è proprio questa: crediamo che un luogo dove svolgere colloqui riservati possa essere utile anche per le visite con i figli. Anzi, questo permetterebbe l’instaurarsi di un rapporto più intimo e “normale” con la figura genitoriale di riferimento. Milano. Processo Alessia Pifferi, lo scontro tra due visioni del carcere di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 7 marzo 2024 Da una parte una prospettiva più rieducativa, dall’altra un approccio più “securitario”: le indagini del pm De Tommasi con la polizia penitenziaria si allargano ad altri casi a San Vittore. Una inchiesta parallela che “ha paralizzato il lavoro nelle carceri” dal punto di vista della “assistenza psicologica” ai detenuti, come ha denunciato l’avvocata Antonella Calcaterra. Un’indagine, quella a carico di Alessia Pontenani, l’avvocata di Alessia Pifferi - la donna a processo per aver lasciato morire di fame e sete la figlia Diana di 18 mesi appena - e di due psicologhe del carcere che ipotizza i reati di falso e favoreggiamento perché, secondo le accuse, le indagate avrebbero manipolato e aiutato Pifferi, fuori dalle regole, a ottenere “l’agognata perizia psichiatrica” che l’ha comunque giudicata capace di intendere e di volere. L’ultimo tassello nei giorni scorsi, quando è stato sentito in procura come persona informata sui fatti il direttore della casa circondariale di San Vittore, Giacinto Siciliano. Secondo quanto riferito, è stato collaborativo e ha dato un buon contributo alle indagini condotte dal pm Francesco De Tommasi, che coordina il lavoro della polizia penitenziaria. L’inchiesta è destinata ad allargarsi visto che la procura, nell’atto con cui ha chiesto al gip una proroga delle indagini, ipotizza una “rete criminale” che coinvolge non solo le due psicologhe indagate ma anche altre due professioniste - una delle quali esterna all’istituto penitenziario - finite nel mirino degli inquirenti per il ruolo che avrebbero avuto nella vicenda. Già dal decreto di perquisizione nei confronti delle esperte di San Vittore era chiaro che lo spunto investigativo aveva un respiro più ampio perché, oltre al caso Pifferi, si puntava a far luce sulla “gestione” di altre quattro detenute fra cui Lucia Finetti, condannata all’ergastolo per aver ucciso il marito, e Patrizia Coluzzi, che soffocò la figlia di due anni. Sullo sfondo c’è un tema che viene messo in risalto da chi conosce la realtà del carcere e che riguarda più il contesto, l’humus nel quale affonda le radici questa inchiesta. Il ragionamento è molto più ampio e tira in ballo in sostanza due visioni, due filosofie del lavoro dietro le sbarre: da una parte una prospettiva più rieducativa, dall’altra un approccio più “securitario” nel rapporto con i detenuti. Il “fascicolo bis”, nel quale Alessia Pifferi è a questo punto solo una coprotagonista, sembra innestarsi in questo braccio di ferro. Tutto si giocherà sul capire se alcune decisioni che i professionisti prendono ogni giorno dietro le sbarre possano semplicemente essere giuste o sbagliate, corrette o discutibili, oppure possano costituire un reato. Per gli inquirenti, una delle psicologhe indagate sarebbe stata mossa da un movente “antisociale” anche perché, come risulta da conversazioni intercettate, la professionista avrebbe detto che con la sua attività voleva scardinare il sistema una “goccia” alla volta, aiutando quelle che riteneva delle vittime. La stessa esperta, in una lettera consegnata ai suoi superiori e poi allo stesso pm, ha detto che non vuole più lavorare in carcere. L’inchiesta bis ha scatenato polemiche nelle ultime settimane, in particolare dopo il coinvolgimento della legale di Pifferi. L’altro ieri Mirko Mazzali, legale di una delle psicologhe indagate, ha attaccato i magistrati per “una modalità di condotta della pubblica accusa che non può più essere tollerata, perché fatta in spregio del diritto di difesa”. Il giorno prima, in concomitanza con l’udienza Pifferi, i penalisti avevano proclamato un giorno di sciopero e convocato un’assemblea. A inizio febbraio decine di esponenti del mondo della politica, del carcere e della società civile avevano inviato una lettera aperta alla procuratrice generale Francesca Nanni (che, per il ruolo che ricopre, ha acceso un faro sulla vicenda) e alla presidente del tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa per denunciare come l’indagine abbia causato “l’intimidazione di tutti gli operatori e rischia di intaccare la fiducia nel loro operato da parte delle persone detenute e dell’opinione pubblica”. Verona. Torture in questura, processo agli agenti ma Piantedosi non c’è di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 marzo 2024 Verona, alla sbarra due dei cinque poliziotti arrestati nel giugno scorso. Non si costituiscono parte civile né il ministero degli Interni né i sindacati di polizia. Il ministero dell’Interno non si è costituito parte civile nel processo iniziato a Verona, con rito immediato, contro due dei cinque agenti di polizia del Nucleo Volanti (tra cui un ispettore) arrestati nel giugno dell’anno scorso con l’accusa di aver partecipato a vario titolo, tra il luglio 2022 e il marzo del 2023, a torture, pestaggi e umiliazioni nei confronti di persone fermate o arrestate, soprattutto immigrati, tossicodipendenti o senzatetto. Tra le accuse anche falso, omissioni di atti d’ufficio, peculato, abuso d’ufficio e l’aggravante di odio razziale. Al tribunale di Verona, il collegio presieduto dal giudice Raffaele Ferraro affronta il giudizio dei due agenti Alessandro Migliore e Loris Colpini che, per l’importanza delle prove raccolte, sono attualmente ancora agli arresti domiciliari. A loro carico ci sarebbero intercettazioni e perfino registrazioni video. Migliore si è dimesso dalla polizia. Per gli altri tre poliziotti (Francesco Bonvissuto, Massimiliano Miniello e Giuseppe Tortora), non più ai domiciliari, si procederà invece in sede separata. Eppure il ministero dell’Interno evidentemente non ritiene che sarebbe danneggiato dall’eventuale condanna degli agenti. E neppure i sindacati di polizia, anche loro latitanti. Alla prima udienza, il giudice Ferraro ha ammesso come parti civili oltre alle vittime anche il Garante nazionale delle persone private di libertà difeso dall’avvocato Michele Passione, l’associazione Avvocato di strada e il Partito per la tutela dei diritti dei militari rappresentati dall’avvocato Piero Santantonio, Luogotenente dei Carabinieri in congedo e volontario dell’organizzazione che assiste legalmente le persone senza fissa dimora. “Il Tribunale di Verona ci ha inoltre autorizzato a citare come responsabile civile il ministero dell’Interno - riferisce l’avvocato Santantonio - assente all’udienza così come i sindacati di Polizia. E questo - sottolinea - non è un bel segnale, perché dimostra scarsa attenzione ai valori e alla cultura della legalità che sono propri delle forze dell’ordine e dovrebbero esserlo sempre”. Nel decreto di giudizio immediato disposto dal Gip di Verona Livia Magri nei confronti di Migliore e Colpini si legge la lunga serie di reati contestati ai due agenti, a cominciare dalla violazione dell’articolo 613 bis. L’accusa è di aver torturato “con sadico godimento” all’interno della Questura di Verona persone fermate per identificazione o per possesso di piccole quantità di hashish. I due agenti, in concorso con gli altri tre poliziotti avrebbero, a vario titolo, anche omesso denunce, falsificato verbali e abusato dei loro poteri. Si parla di calci e sberle ad un cittadino rumeno fermato per l’identificazione fino a fargli perdere i sensi, di utilizzo “ingiustificato” dello spray oleoresin capsicum (al peperoncino), di umiliazioni come quella di costringerlo a urinare nella stanza dove era detenuto e poi a pulire con uno straccio. Quando i cinque poliziotti vennero arrestati l’anno scorso, erano 17 complessivamente gli agenti indagati e 23 i trasferiti e la Gip Magri scrisse che i 7 episodi accertati dalla procura scaligera non erano fatti isolati, ma si trattava di “un modus operandi consolidato”. L’indagine questa volta non è stata imposta da denunce esterne, ma scaturita dall’intercettazione di un poliziotto nell’ambito di altre inchieste e disposta autonomamente dal questore scaligero Roberto Massucci. Al tempo, i sindacati degli agenti, il capo della Polizia Pisani e il ministro degli Interni Piantedosi riservarono ai clamorosi arresti solo frasi di circostanza, ribadendo però che, se confermati, i fatti sarebbero davvero “deplorevoli”. Evidentemente non così tanto da costituirsi parte civile, però. “È un processo che ha un valore simbolico molto alto e nel quale vogliamo portare la nostra esperienza ventennale di tutela delle persone senza dimora - afferma Antonio Mumolo, presidente dell’Associazione Avvocato di strada - I poliziotti dovrebbero occuparsi di difendere le persone, specialmente le più deboli, non torturarle e umiliarle. Con la nostra presenza come parte civile al processo vogliamo dare un segnale forte e ribadire ancora una volta il nostro credo: difendere i diritti dei più deboli significa difendere i diritti di tutti. Anche a Verona non esistono cause perse”. La prossima udienza è fissata per il 16 di aprile. Torino. I processi che scompariranno con l’abolizione dell’abuso d’ufficio di Ludovica Lopetti La Stampa, 7 marzo 2024 Il ddl Nordio, pensato per tutelare i sindaci dalla “paura della firma” degli atti amministrativi sarà un colpo di spugna su tante inchieste: ecco quelle che potrebbero sparire a Torino. Dal carabiniere assenteista al funzionario pubblico che suggerisce le risposte dei quiz: sono alcuni dei soggetti che dall’abrogazione del reato di abuso d’ufficio contenuta nel ddl Nordio potrebbero tirare un sospiro di sollievo. O perché sono stati condannati in via definitiva (e allora potranno sperare di ottenere la revoca della sentenza penale di condanna, visto che le norme penali più favorevoli al reo sono retroattive) oppure perché sono imputati per lo stesso reato, destinato a scomparire dal Codice se il ddl otterrà il via libera definitivo alla Camera. Un via libera quasi scontato, visto che lo scorso 13 febbraio a Palazzo Madama il pacchetto è passato con 104 sì e 56 contrari. Un semplice tratto di penna che manderà in fumo decine di condanne e obbligherà i giudici a prosciogliere “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”. Ai condannati definitivi basterà inviare una semplice domanda alle Cancellerie o all’Ufficio esecuzioni penali (Uep) per ottenere la revoca della sentenza e la cancellazione dal casellario giudiziale. Il poliziotto picchiatore - Il caso più recente riguarda Mirko Giovani, un poliziotto imputato di abuso d’ufficio, lesioni e falso, che dall’entrata in vigore del testo potrebbe vedere sensibilmente ridotta in Appello la sua condanna a 1 anno e 3 mesi: in primo grado è stato ritenuto responsabile del pestaggio di un 17enne, inseguito e ammanettato perché trovato fuori casa dopo le 22 quando era in vigore il coprifuoco Covid. Il direttore delle Entrate che aiutava la candidata - Potrebbero ottenere un parziale proscioglimento in secondo grado anche il direttore di una filiale dell’Agenzia delle entrate di Torino - la Torino 4 -, e una candidata al concorso interno per un posto da capo team che lo scorso luglio sono stati condannati rispettivamente a dieci e otto mesi per abuso e rivelazione di segreti d’ufficio. Come ricostruito dal pm Gianfranco Colace (e confermato dal Tribunale), il direttore, in veste di membro della commissione valutatrice, aveva fornito l’elenco dei quesiti e le risposte in anticipo alla dipendente, consentendole di scavalcare un collega altrettanto titolato. Le promozioni farsa all’Asl To 4 - Sempre di concorsi interni e di escamotage per truccarli si parla nell’inchiesta della procura di Ivrea che ha messo nel mirino 20 “bandi-farsa” per la progressione di carriera o per la mobilità nell’AslTo4, quella in cui è finita ai domiciliari la dirigente Carla Fasson. Gli indagati sono 31 e sono accusati a vario titolo di rivelazione di segreto, corruzione e abuso d’ufficio. Almeno due dipendenti dell’Asl avrebbero ricevuto domande e risposte dei quiz via Whatsapp nei giorni precedenti all’esame. Il sindaco di La Loggia e il demansionamento - La depenalizzazione, nelle intenzioni dei legislatori, è stata pensata per manlevare i sindaci e scongiurare la “paura della firma”, ovvero il timore di prendere delle decisioni per evitare di essere chiamati a rispondere di fatti imprevisti che ne derivano. Un sindaco che ne potrebbe senz’altro beneficiare è Domenico Romano, primo cittadino di La Loggia (Torino) accusato di aver demansionato illegittimamente due funzionari privandoli di qualifica e relativo stipendio. Di recente è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio e turbativa d’asta e l’apertura del dibattimento è stata fissata per maggio. Come extrema ratio, il suo difensore Paolo Botasso punta a far derubricare la turbativa d’asta in abuso d’ufficio, perché tecnicamente non si tratta di una gara pubblica. Se poi quest’ultimo reato venisse meno, il sindaco potrebbe sperare in un non luogo a procedere per tutti gli addebiti. Il dirigente della polizia e i permessi di soggiorno - Può iniziare a preparare le carte bollate Alberto Bonzano, dirigente di polizia condannato in via definitiva a 1 anno e 6 mesi nell’autunno 2018 (dopo aver rinunciato alla prescrizione) per una vicenda di abuso in atti di ufficio nel periodo in cui era in servizio al commissariato di Casale Monferrato. Secondo la Cassazione, da dirigente del commissariato aveva presentato ai suoi colleghi un soggetto marocchino che poi, grazie ai buoni uffici di due funzionari, era riuscito a sbloccare permessi di soggiorno per amici e soci in affari. Il carabiniere fantasma - Potrà ripulire almeno in parte la sua fedina penale anche Filippo Cardillo, carabiniere assenteista di San Salvario, condannato in Cassazione a due anni e cinque mesi per falso, abuso d’ufficio e truffa a fine 2020. Incrociando testimonianze dei colleghi, fogli presenze, estratti conto e dati delle celle telefoniche, i giudici hanno accertato, oltre alla presenza intermittente sul posto di lavoro, un utilizzo disinvolto delle auto dei colleghi, una collezione di multe fatte annullare accampando “esigenze di servizio” e provvedimenti ad personam per favorire un imprenditore amico. L’ex sindaco che non pagava i dipendenti - Più risalente la condanna riportata dall’ex sindaco di Chiomonte Renzo Pinard, che dopo la riforma potrebbe tornare incensurato: nel 2018 è stato giudicato responsabile di abuso d’ufficio per aver ignorato un ordine del Tribunale civile, che intimava alla sua impresa di pagare degli stipendi arretrati a un dipendente. Il lavoratore aveva chiesto il pignoramento degli emolumenti al Comune, ma in virtù della fascia tricolore che indossava, Pinard si è messo di traverso. Bergamo. Una “ciclofficina” in carcere, la bici occasione di riscatto di Chiara Roncelli L’Eco di Bergamo, 7 marzo 2024 Sarà realizzata dall’associazione Fiab Bergamo-Pedalopolis nella Casa Circondariale di via Gleno. Sul mercato dell’usato i mezzi riparati. Una ciclofficina dentro le mura della Casa Circondariale: è questo il nuovo progetto dell’Associazione Fiab Bergamo-Pedalopolis, che da quindici anni si impegna sul territorio bergamasco per promuovere la mobilità sostenibile e diffondere l’uso della bicicletta anche negli spazi urbani. Ora l’associazione porta la sua attività anche all’interno delle mura carcerarie perché la bicicletta possa diventare un’occasione di reinserimento sociale delle persone che sono ristrette della propria libertà. “Il progetto è ancora agli albori, ma ha a tutti gli effetti preso il via - spiega Giulia Porta, presidente di Pedalopolis -. La Casa Circondariale ci ha assegnato uno spazio all’interno delle mura per allestire una ciclofficina e abbiamo portato i primi arredi, oltre che i materiali, necessari per dare il via ai lavori”. A partire dalle prossime settimane i detenuti entreranno in ciclofficina in piccoli gruppi per poter accedere ad un momento di addestramento sulle abilità manuali richieste per operare in ciclofficina. “Le persone che se la sentiranno e che risulteranno adatte, lavoreranno poi con continuità all’interno del progetto”. All’interno della ciclofficina verranno realizzate attività di manutenzione e di meccanica per la rimessa in strada di biciclette che sarebbero destinate alla rottamazione, partendo da bici recuperate da persone che non le utilizzerebbero più. Queste biciclette verranno poi messe sul mercato dell’usato, con la garanzia che non provengono da un mercato di bici rubate, per poter raccogliere fondi finalizzati ad autosostenere il progetto. Cinque i volontari che opereranno all’interno della Casa Circondariale, insieme ad alcuni professionisti dell’aggiusta-bici della Cooperativa sociale Lottovolante. “Un’esperienza dentro al carcere ci ha permesso di capire che dentro a quel luogo c’è bisogno di qualcosa che faccia guardare con una prospettiva al futuro. Questo progetto ha un obiettivo sia nell’immediato di far passare il tempo a chi sta dentro, ma anche di apprendere una piccola arte e un piccolo mestiere da spendere una volta fuori. Oltre a questo, c’è un elemento fondamentale di socializzazione con chi viene da fuori. Ci siamo confrontati con esperienze analoghe attive in altre realtà carcerarie italiane e ci è sembrata una cosa fattibile, per quanto molto impegnativa, quindi abbiamo deciso di provarci”. Pedalopolis quest’anno compie 15 anni e dal 2019 è diventata la sezione bergamasca di Faib (Federazione italiana ambiente bicicletta). L’attività dell’associazione ha preso il via nel 2009 con le prime ciclofficine popolari dove venivano rimesse in strada le biciclette usate. A partire da questi primi nuclei l’associazione ha ampliato il proprio raggio d’azione, estendendo l’attività su tutto il territorio della provincia. “Il nostro impegno è legato alla promozione della mobilità sostenibile sul territorio bergamasco. Oggi ci occupiamo prevalentemente di ciclabilità urbana, di città 15 minuti, di cicloturismo”. L’attività della ciclofficina però resta, come strumento fondamentale per continuare ad avvicinare i cittadini all’uso della bicicletta: oltre a quella di recente apertura all’interno della Casa Circondariale, c’è la storica esperienza di Costa di Mezzate aperta una volta al mese. “Siamo molto radicati su Bergamo, ma siamo il punto di riferimento per tutta la provincia. Realizziamo numerose iniziative nel corso di tutto l’anno in collaborazione con altri soggetti e con le istituzioni locali: corsi di ciclomeccanica con scuole o associazioni di genitori, esperienze sociali nei quartieri, eventi e iniziative culturali come le Grazielliadi (challenge di grazielle che vengono portate nei parchi della Città). Sul fronte della mobilità sostenibili interveniamo nei tavoli di consultazione per i piani comunali, portando la nostra voce che ovviamente è la voce di chi desidera una città più a misura d’uomo (bicicletta e pedone) per restituire lo spazio pubblico a chi lo vive fuori da un’automobile”. Questo mese Pedalopolis riprenderà con le visite guidate in bicicletta: un calendario fitto di appuntamenti domenicali, che arriva fino ad ottobre, disponibile sul sito www.pedalopolis.org. “Come tutte le associazioni siamo sempre alla ricerca di qualcuno che voglia darci una mano. Se qualcuno ha una qualche abilità o anche solo una passione per la bicicletta è il benvenuto: da poco si è unita al gruppo una persona anziana che ha una passione per la meccanica, aggiusta un sacco di cose e si è candidato per venire con noi a fare i lavori di manualità fine nella ciclofficina del carcere. Per noi è un grande aiuto”. Napoli. Il Garante dei detenuti Ciambriello: “8 marzo, una riflessione sulla violenza di genere” anteprima24.it, 7 marzo 2024 Venerdì, 8 Marzo alle ore 10 presso l’Istituto di Secondigliano, il Garante campano delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, in occasione della festa della donna, ha organizzato una riflessione sulla violenza di genere. Una mattinata coinvolgente, fatta di incontri, riflessioni, spunti sul tema della violenza sulle donne. L’evento, si propone di consegnare nuove chiavi di lettura e nuove informazioni, invitando i detenuti di un reparto di Secondigliano a ragionare su effetti, conseguenze e significati. All’incontro/dibattito parteciperanno il Garante delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, la Direttrice del carcere, Giulia Russo, la Presidente della Cooperativa il Quadrifoglio Lidia Ronghi, la psicologa Marina Izzo, la criminologa Erica Gigante e il Docente universitario Giuseppe Ferraro. Per il Garante Ciambriello: “Si può sconfiggere la violenza e ritrovare la propria essenza. Essere in cammino, significa attraversare la vita come occasione per espandere la coscienza e la consapevolezza di sé. Al dibattitto seguiranno le melodie della cantante napoletana Ida Rendano che, da oltre 30 anni con la sua band, oltre a regalare grandissimo entusiasmo al suo pubblico con una carriera iniziata da ragazzina e proseguita sempre in crescendo, ha prestato e continua a prestare il suo volto per la lotta contro la violenza sulle donne Udine. I detenuti potranno giocare con i propri figli durante le visite Il Gazzettino, 7 marzo 2024 Uno spazio dedicato: il progetto del Comune. Offrire uno spazio temporaneo di gioco per accogliere le bambine ei bambini che si recano nella casa circondariale di Udine a far visita al genitore detenuto e dare loro contestualmente la possibilità di giocare in sua compagnia. È l’obiettivo del progetto realizzato dall’associazione Icaro Volontariato Giustizia in collaborazione con il Comune di Udine, nell’ambito di “Una domenica in famiglia”. Da parte sua, il Comune organizzerà 9 appuntamenti, da aprile a dicembre, fornendo i giochi e i materiali necessari per allestire questi spazi nell’area adibita all’interno dell’istituto penitenziario di via Spalato, e mettendo a disposizione un operatore della Ludoteca comunale, che affiancherà i volontari di Icaro. “Ci auguriamo che questo piccolo servizio - ha detto l’assessore comunale di Udine alla Cultura e Istruzione, Federico Pirone - inserito nel più grande contesto delle ristrutturazioni in atto nella casa circondariale di Udine, possa contribuire a rendere il penitenziario di Udine un luogo più umano. Quanto vuol fare l’amministrazione con Icaro è favorire il mantenimento dei rapporti affettivi, che spesso sono la prima cosa che le persone detenute ei loro familiari vedono scomparire”. “La Ludoteca è un indicatore positivo di come volontariato e soggetti pubblici possono collaborare per il raggiungimento di obiettivi condivisi nell’interesse della comunità locale”, hanno commentato i volontari di Icaro. “Questo esperimento di convivenza anticipa la creazione di maggiori spazi che verranno dalla ristrutturazione in atto anche per la zona dei colloqui” ha osservato infine il garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Franco Corleone. Crotone. L’ora di calcio nel carcere. “Il pallone ci rende tutti uguali” di Valerio Giacoia Il Domani, 7 marzo 2024 Una squadra ancora senza nome, allenata ogni giovedì da una donna, Domenica Mimì De Miglio. L’anno prossimo la direzione della casa circondariale tenterà l’iscrizione al campionato di Terza categoria della Lega dilettanti. Saranno tutte partite in casa, ovviamente. Come fu per il team del carcere di Opera, a Milano nel 2003. Mario ha mani grandi come Gianni Morandi. Ha giocato in porta, ma giusto una partita, qualche settimana fa. Occorre fiato, bisogna pedalare anche se hai stampato sulla schiena il numero uno. Meglio i lavoretti. Si ferma, saluta, dietro si forma un capannello festante. Siamo nel lungo corridoio che porta al campo di pallone e si affaccia, dopo la cappella e il teatro - qualcuno è al karaoke sulle note di Pino Franzese, a voce spiegata intona tu me piace, saranno l’uocchie tuoje ca nun me fanno truvà pace - sulla terza sezione a trattamento intensificato. Si chiama così, ci stanno i detenuti che hanno quasi finito di scontare la pena. Fiero e sorpreso, Marione costruisce una sorta di vassoio votivo in onore della Madonna. Color rosso. “Queste iniziali? Sono quelle dei miei quattro figli. Agli angoli metterò le loro foto, al centro io con mia moglie. E poi il quadro va sotto a quello di Maria, qui, vedi”. Scatta lo slogan dedicato, e l’applauso della squadra. Sono i ragazzi della squadra del carcere di Crotone, è appena terminato l’allenamento settimanale. Lo fanno ogni giovedì. A giugno scorso la Federcalcio ha firmato un protocollo d’intesa sul Progetto Calcio con Libera, capofila di altre associazioni del territorio, e la direzione dell’istituto. “Comunque non carcere, casa circondariale”, distingue la direttrice, la giovanissima Mariastella Fedele. Fa su e giù da Cosenza, attraversando la Sila Grande, per essere ogni giorno al suo posto. Una pasionaria. “Mio marito è preoccupato, ma orgoglioso. E ho un figlio di sei anni che spesso deve rinunciare alla mia presenza. Parlo molto con lui del mio lavoro. Gli ho spiegato che occorre cercare il bello sempre, anche dove tutto direbbe il contrario”, rivela quando chiediamo se a trentasei anni non le pesi tutta questa responsabilità mentre al mattino il cancellone, casa circondariale o carcere che sia, si chiude alle sue spalle spalancandosi, silenzioso e sfacciato, sul mondo complesso e doloroso che vive e morde dietro le sbarre. Mentre fuori il mondo “libero” sopravvive, una volta con la protesta degli agricoltori, un’altra con la “notte dei fuochi”, quando il 6 settembre del ‘93 gli operai dell’Enichem che licenziava incendiarono questa stessa strada, la statale 106, col fosforo. Fedele guida un team di funzionarie giuridico pedagogiche (Giuseppina e Concetta Froio, con Giuseppa Biscuso e Alessandra De Luca) nella gestione illuminata, dunque più faticosa, di questo istituto costruito proprio negli anni Settanta nella Crotone all’epoca unico centro industriale della Calabria, quando c’erano la Pertusola Sud e la Montedison, prima che tutto si sgretolasse e migliaia di persone perdessero il posto. Oggi non c’è la puzza del fosforo, ma la “chimica” squilibrata del lavoro è sempre la stessa. Esempio, i seicento dipendenti della Abramo Costumer Care (in tutta la regione sono 1.200), colosso calabrese del settore call center, da mesi col fiato sospeso dopo che Tim ha prima tagliato la commessa poi l’ha prorogata fino a giugno. Con l’azienda in amministrazione straordinaria, e tante famiglie col punto interrogativo sul cuscino. “Una realtà difficile Crotone. Tuttavia, e nonostante le grandi difficoltà sociali, in parte risponde bene alle nostre iniziative. Crediamo molto nel progetto calcio, abbiamo fatto il possibile per cominciare la scorsa estate, a luglio, quando il caldo può rendere la vita insopportabile qui dentro”, spiega De Luca, che ha fatto per due anni la mediatrice culturale, smarcandosi benissimo anche con l’arabo. Da qualche settimana è stata trasferita a Rossano, un carcere difficile, ospita terroristi islamici, ospitò anche Cesare Battisti. Il mese scorso c’è stato un suicidio, un nordafricano di 34 anni. Avrà il suo bel da fare. È riuscita ad assistere all’ultimo allenamento. Soprattutto a un’ultima partita tra la “selezione” (“non c’è ancora un nome”, dice) e quella degli ordini professionali: 8 a 5. Sono forti, hanno strapazzato in precedenza anche politici - “ben gli sta”, commentano - e dirigenti comunali. Federico C., 41 anni, ha giocato a buoni livelli tra Reggio Emilia, Perugia e Parma. È un centrocampista, un numero 10, un leader. “Sogno sempre di un mio gol pazzesco, a quindici minuti dalla fine di una partita: stop di tacco, dribbling, poi chiusi gli occhi e segnai”, racconta. “Ho fatto molte cazzate. Devi sapere che sono cresciuto ai 300 alloggi, dove c’era gente che aveva vent’anni di carcere, e tra i morti ammazzati. Questo era il clima”. Trecento alloggi, il quartiere a rischio di Crotone. Un paio di anni fa lo street artist napoletano Jorit realizzò, per conto del Comune, intenzionato alla riqualificazione di quella che per anni è stata una piazza di spaccio, un murale di cento metri quadrati che ritrae il volto di Rino Gaetano, sulla parete di un palazzo dell’Aterp. Federico ne ha ancora per quattro anni e mezzo. Gli occhi si gonfiano quando parla di suo figlio. Ha dieci anni, l’ex moglie non vuole farglielo vedere: “Vivono a Roma. So che è un grande mancino, gioca in una squadra della provincia. Spero di uscire prima, poterlo riabbracciare. Il calcio qui mi dato una nuova spinta vitale”. LSe guardiamo al panorama italiano disastroso, tra sovraffollamento, suicidi, diritti negati e riabilitazione che resta una bella fantasia, Crotone è davvero un’isola. Certo sarebbe una menzogna dire felice. Il sole comunque batte anche su questo campo di pallone. “Lo abbiamo sistemato noi stessi”, spiega compiaciuto il commissario Francesco Tisci, a capo degli agenti di polizia penitenziaria. Ci sono anche due scafisti nella rosa, non possono essere avvicinati. Vengono dall’Uzbekistan e dal Kirghizistan. “Sono scarsi, devo dire, ma ne abbiamo avuti altri molto talentuosi”, dice sorridendo coach Domenica Mimì De Miglio, quarant’anni, tecnico federale che si fa rispettare come un Capello o un Ancelotti. Trottano, rispondono come professionisti. Salvo una sigaretta a fine partitella. “Alleno una squadra di calcio, non vengo in un carcere. Perché il pallone ci rende tutti uguali. Non è stato subito facile, ma a distanza di pochi mesi siamo una squadra e il fatto che io sia una donna gli fa evitare di dire parolacce durante il gioco”, dice, lasciando per qualche minuto i ragazzi con il secondo Francesco Fuscaldo, che si sgola - “allargatevi, allargatevi, cercate le fasce” - e il preparatore atletico Raffaele Villaverde: “Mai una storia, uno sbuffo, si impegnano come se dovessero andare in Champions”. L’anno prossimo la direzione tenterà l’iscrizione al campionato di Terza categoria della Lega Dilettanti. Saranno tutte partite in casa, ovviamente. Come fu per il team del carcere di Opera, a Milano, messo su nel 2003. Quell’anno vinse ai playoff il campionato. Una storia che fece il giro del mondo. “Magari sarà così anche a Crotone”, immaginiamo con Mariastella Fedele e la stessa Alessandra De Luca, che tanto si è spesa per questi ragazzi prima di fare i bagagli. Gli ultimi pacchi li ha riservati a due doni realizzati in cella, ricevuti da alcuni ex detenuti extracomunitari. Li teneva nel suo ufficio come reliquie: un plastico delle piramidi egizie e un veliero. La bellezza, e la libertà. Terni. Sport in carcere per recupero e reinserimento sociale dei detenuti di Alessandro Cavalieri teleambiente.it, 7 marzo 2024 I progetti di sport in carcere sono fondamentali per il recupero dei detenuti. “I dati statistici - ha riferito il comandante della Penitenziaria di Terni - dicono che c’è un abbassamento della percentuale di recidiva per chi partecipa ad attività ricreative, sociali e sportive”. A Terni è stato presentato il progetto Sport di tutti - Carceri, promosso dal Ministro per lo sport e i giovani Andrea Abodi attraverso il dipartimento per lo sport in collaborazione con Sport e Salute, la società dello stato per la promozione dello sport e dei corretti stili di vita. Il progetto ha l’obiettivo di promuovere la salute ed il benessere psico-fisico, facilitando il recupero dei detenuti attraverso lo sport quale strumento educativo e di prevenzione del disagio sociale, di sviluppo e di inclusione sociale, di recupero e di socializzazione. La società sportiva capofila del progetto è Asd ‘#Chess4life’ che in collaborazione con alcuni partner porterà avanti un percorso destinato ai detenuti adulti della Casa Circondariale di Terni, attraverso lezioni pratiche e teoriche di scacchi. Nel corso della conferenza stampa a cui hanno partecipato tra gli altri anche gli assessori del comune di Terni, Marco Schenardi e Viviana Altamura ed il comandante della polizia penitenziaria di Terni, Fabio Gallo, è stato spiegato come lo sport in generale ed il gioco degli scacchi, in particolare, stia contribuendo al processo di inclusione sociale e di reinserimento dei detenuti offrendo una prospettiva di crescita e sviluppo individuale Il commento del comandante Fabio Gallo a Teleambiente: “Questo progetto è importantissimo per le condizioni attuali dell’istituto ternano che ha un sovraffollamento elevato”. “I dati statistici - ha detto Gallo - dicono che c’è un abbassamento della percentuale di recidiva per coloro che partecipano ad attività ricreative, sociali e sportive comprendendo in questo anche il teatro. Noi siamo assolutamente propensi ad accogliere ogni offerta del genere”. “Questo corso di scacchi - ha continuato il comandante - questo progetto bellissimo che dura 18 mesi e che vorremmo continuasse, ci tengo a dire che, prima di essere finanziato, era già in essere nella struttura di Terni. Ora l’abbiamo affinato con un progetto ben strutturato”. “Nell’istituto di Terni - ha aggiunto Fabio Gallo - ci sono stati altri progetti legati allo sport, ma ora a causa di tante variabili, non li abbiamo potuti continuare. Oggi però abbiamo chiesto di inserire un’ulteriore specialità sportiva perché i detenuti sono giovani e vogliono frequentare o praticare sport”. Alle parole del comandante Fabio Gallo, sono seguite quelle di Mirko Trasciatti presidente dell’asd Chess4life, che ha illustrato l’iniziativa ai microfoni di Teleambiente. “In questo nuovo progetto promosso da Sport e Salute - ha riferito Mirko Trasciatti - siamo riusciti a portare gli scacchi ad un livello avanzato, ricordo che già era stato fatto l’anno scorso, nel 2023, come percorso volontario, quindi avevamo già fatto un test”. “Grazie a questo progetto - ha ribadito - siamo riusciti a portare gli scacchi a un livello superiore, con una base scientifica ed un progetto più lungo termine. Il progetto si svilupperà in quattro fasi”. “La prima fase - ha spiegato Trasciatti - è una fase propedeutica in cui noi andiamo a formare l’istruttore, questa prima fase già si è svolta e continuerà a svolgersi in tutti i 18 mesi. Nella seconda e nella terza fase, che lavoreranno in contemporanea, ci sarà l’attività scacchistica vere propria all’interno del carcere”. “La fase successiva invece - ha proseguito - è una fase di formazione che viene fatta attraverso l’educatrice Maria Serena Latini, con il partner UniChess in cui si andrà a controllare lo stato di avanzamento dei lavori e a formare l’istruttore stesso”. “In più - ha concluso Mirko Trasciatti, sempre a Teleambiente - ci sarà anche il dottor Fabio Marino psicologo/psichiatra che andrà a somministrare dei test che avranno una valenza. si spera. scientifica perché vanno a riprendere una ricerca già fatta in America”. Busto Arsizio. “Viaggio Libero dietro le sbarre”: uno spettacolo teatrale nel carcere varesenews.it, 7 marzo 2024 In scena il 21 marzo 2024 al teatro della Casa circondariale, lo spettacolo racconta la storia di un uomo arrestato e di una donna che ne è stata spettatrice. La compagnia teatrale l’Oblò Liberi Dentro, col sostegno della direzione della casa circondariale di Busto, propone una serata di teatro aperta alla cittadinanza nella sala teatrale di via per Cassano 102. Uno spettacolo che parla di carcere e vuole far conoscere la vita di chi sta in carcere. Giovedì 21 marzo 2024, presso il teatro della Casa Circondariale va in scena lo spettacolo “Viaggio Libero dietro le sbarre” prodotto dalla compagnia l’Oblò che lavora con gli attori detenuti di Busto. Lo spettacolo si apre con una data, 13 luglio 2021. Quel giorno due esistenze si sfiorano: un uomo e una donna sono sullo stesso autobus. Sono le 13.45, l’autobus viene fermato dalla Polizia stradale e l’uomo viene arrestato. La donna sull’autobus non riesce a dimenticare l’evento di cui è stata testimone. In un continuo dialogo tra due voci, lo spettacolo conduce lo spettatore in un viaggio dentro e fuori dal carcere. Questo spettacolo nasce dal dialogo fra un gruppo di volontarie del L’Oblò e un ex detenuto di Busto. Insieme scrivono e discutono di detenzione e di pena, insieme arrivano alla creazione di alcuni podcast. E da quel prezioso materiale nasce lo spettacolo che ha debuttato a novembre 2023. La grande novità? Questa volta il cast è speciale perché saranno in scena due giovani attori detenuti della compagnia Oblò, che si stanno preparando con costanza e passione a dare voce al personaggio di Lui. Al loro fianco altri detenuti del Laboratorio di teatro, che saranno le voci di concellini, agenti, volontari, ricreando così tutta l’atmosfera della vita in carcere. “Questi giovani detenuti si cimentano per la prima volta con un testo teatrale vero e proprio, con una messa in scena e una regia, e dimostrano tutte le loro doti d’attore, ben al di là di come il pubblico li ha incontrati finora, in occasione delle divertenti cene con delitto. E si sorprendono loro stessi in questo nuovo ruolo di attore, perché all’inizio non avevano nessuna fiducia in loro stessi e temevano di non farcela” racconta Elisa Carnelli che dello spettacolo ha curato la regia. “In un certo senso il nostro “Viaggio libero dietro le sbarre” approda là dove tutto è partito, nel teatro del carcere di Busto Arsizio” dice Sara Terlizzi, in scena insieme a Tommi e Gio e tutti gli altri. È significativo mettere in scena questa storia in carcere, con due attori detenuti, per scalfire i pregiudizi, far conoscere alla società civile come è davvero la vita in carcere e mostrare chi il carcere lo abita. È importante anche mostrare che chi sta in carcere non solo è capace di compiere reati, ma è in grado di creare bellezza, di mettersi con impegno al servizio dell’arte e del teatro, di essere nuovamente una risorsa positiva per la società. Ringraziamo la direzione della casa circondariale di Busto, l’Area Educativa e la Polizia Penitenziaria per il sostegno alle attività”. Per informazioni: obloteatro@gmail.com, 340.3336318. Reggio Calabria. 8 marzo in carcere, voce alle donne attraverso il mito di Cassandra e Arianna ilreggino.it, 7 marzo 2024 Il laboratorio teatrale di Adexo si svolge nell’ambito del progetto “Libere dentro”, promosso dall’ufficio del Garante Metropolitano e curato dalla Consigliera Pari Opportunità, Paola Carbone. “Dalle donne del Mito greco all’Otto Marzo: la forte voce femminile dell’antichità parla e fa parlare le detenute dell’Istituto Penitenziario di San Pietro. Grazie al Laboratorio di Scrittura e Teatro condotto da Katia Colica per Adexo con il supporto di Antonella Tassitano di Nudm, le donne della sezione Nausicaa hanno realizzato una riflessione sulla Giornata internazionale dei diritti delle donne dando risalto a quanto la Mitologia influenzi ancora le nostre vite a distanza di tremila anni. Cassandra e Arianna, le due figure fino adesso approfondite, sono state la molla per comprendere quanto pregiudizi e stereotipi affondino le radici nel mondo antico lasciando il loro segno nella quotidianità”. È quanto si legge nella nota relativa al progetto “Libere dentro” che coinvolge le detenute del carcere di Reggio Calabria, promosso dall’ufficio del Garante Metropolitano e curato dalla Consigliera Pari Opportunità, Paola Carbone. “Come Cassandra ho visto e capito; adesso sto affrontando un percorso duro, ma necessario - scrive P - e di conseguenza l’Otto marzo diventa per la prima volta un momento di arricchimento”. Anche R. afferma di trovare dei parallelismi: “Oggi vedo la Giornata come possibilità di rinascita”. In un’analisi del personaggio di Arianna, abbandonata da Teseo in un’isola deserta dopo essere stata indotta a collaborare nell’uccisione del fratello Minotauro, B. scrive: “L’Otto marzo, ci ricorda che potremmo essere tutte abbandonate come Arianna. Ma ci ricorda anche che la forza è dentro di noi”. Per G. in fondo, la Giornata dell’Otto Marzo è come l’albero che la rappresenta, la mimosa: “Ci vuole molto tempo affinché la pianta cresca e si fortifichi. Però alla fine i suoi fiori sono bellissimi e crescono nonostante il vento di tardo inverno”. M. intende agganciarsi al Mito di Arianna e del Minotauro per parlare di questa Giornata: “La complementarità di genere è un tesoro da tutelare - scrive - e come il Minotauro dovremmo fare i conti con i labirinti mentali e culturali che ancora oggi impediscono alle donne di raggiungere la piena parità”. Il laboratorio teatrale, anche in relazione all’importanza della Giornata dell’Otto marzo esposta da Antonella Tassitano di Nudm, ha dimostrato le enormi potenzialità dell’attività in vista di una crescita culturale e sociale delle donne detenute: “In questo graduale processo di cambiamento personale e collettivo - afferma Katia Colica - grazie al laboratorio di scrittura e teatro le donne si stanno lentamente riappropriando del proprio mondo emotivo. E l’Otto marzo fa emergere le radici profonde che affondano nel mito rilevando l’origine culturale della violenza di genere”. Il Teatro dell’Arca, l’unico costruito in un carcere italiano di Alessandra Pellegrini De Luca ilpost.it, 7 marzo 2024 Nel cortile del carcere Marassi di Genova c’è il Teatro dell’Arca, un posto eccezionale secondo i detenuti e secondo chi lo gestisce. Sul palco di un teatro genovese un attore interpreta un operaio. Ha i capelli rasati, una tuta grigia e si muove con decisione puntando il dito contro i suoi colleghi. La fabbrica dove lavorano è stata appena venduta a una multinazionale, la cui dirigenza vuole ridurre la pausa di sette minuti in cambio del rinnovo del contratto: gli altri vogliono accettare, lui deve convincerli a lottare per avere sia il rinnovo che la pausa intera. Lo spettacolo consiste in un acceso dibattito di gruppo, in cui alla fine l’operaio riuscirà a convincere i colleghi. L’attore è Veli Muca, un detenuto albanese di 38 anni, e il palco è quello del Teatro dell’Arca, all’interno del carcere Marassi: secondo la direttrice del carcere Tullia Ardito in Europa non ci sono altri esempi di teatri interamente costruiti dentro un carcere, sicuramente è l’unico in Italia. Lo spettacolo, Sette minuti, debutterà il prossimo maggio al Teatro Ivo Chiesa, uno dei principali teatri di Genova. Il Teatro Ivo Chiesa è fuori dal carcere, in centro, e per poterci recitare i detenuti dovranno uscire accompagnati da operatori e polizia penitenziaria. L’ispettrice Patrizia Smiraldi definisce l’operazione “un tour de force che vale davvero la pena di fare”. Il Teatro dell’Arca si trova in un cortile dell’intercinta del carcere, cioè lo spazio che separa le aree detentive dal muro di cinta. Per entrarci bisogna costeggiare mura molto alte piene di finestre con le sbarre: alcune hanno calzini e magliette appese ad asciugare. I corridoi sono silenziosi. Una volta entrati in teatro, l’ambiente cambia completamente: ci sono palco, riflettori, sipario, quinte, corde e macchine del fumo, un camerino coi costumi appesi e un lungo specchio attorniato da lampadine. Appese ai muri, a circondare i 200 posti in platea, ci sono le locandine di decine di spettacoli, tutti recitati da detenuti (il Marassi è un carcere maschile). Essendo aperto al pubblico, il teatro ha due ingressi: uno per i detenuti che dà sul backstage e un altro, per le persone libere, che porta alla platea. Nel Teatro dell’Arca detenuti e liberi si incontrano solo così, attraverso il palco, senza mischiarsi mai. Anche i detenuti possono diventare pubblico, ma in quel caso a recitare sul palco è una compagnia teatrale esterna. Chi frequenta questo posto lo descrive come eccezionale, con punti di vista diversi: “un fiore all’occhiello”, dice la direttrice del carcere Marassi Tullia Ardito; “qualcosa di cui le istituzioni si vantano”, dice un detenuto; “un posto di cui si accorgono tutti quando ci sono gli spettacoli nel teatro in centro”, dice uno dei collaboratori di Teatro Necessario, l’associazione che lo gestisce. A rendere il Teatro dell’Arca eccezionale è anche il tipo di carcere in cui è stato costruito. Il Marassi non è particolarmente ben messo o virtuoso: come la maggior parte delle carceri italiane è sovraffollato, con quasi 700 detenuti per una capienza di circa 500. Ha avuto diversi problemi, episodi di violenza e negli ultimi mesi ci sono stati l’omicidio di un detenuto e il suicidio di un altro. Nonostante questo, nel 2016 il teatro venne inaugurato anche grazie all’attività di una rete di operatori e operatrici di Teatro Necessario e all’appoggio della dirigenza del carcere. L’edificio fu costruito da una ventina di detenuti formati con tre anni di borsa lavoro in mestieri tecnici, come falegnameria e illuminotecnica. Uno di loro, Luca Di Naro, che ha scontato la pena, oggi fa il tecnico delle luci ai concerti e collabora con musicisti molto noti, tra cui Vasco Rossi e i Negramaro. Il progetto per costruirlo fu regalato a Teatro Necessario dall’architetto Vittorio Grattarola, peraltro tra gli autori dei testi di Maurizio Crozza. Il progetto fu poi sviluppato dall’associazione Fuoriscena, che seguì tutti i lavori interni. I fondi arrivarono da un bando europeo, da raccolte fondi e da finanziamenti di due fondazioni bancarie, la Fondazione Compagnia di San Paolo e la Banca Carige. “È stata una follia costruire un teatro in carcere”, dice Mirella Cannata, presidente di Teatro Necessario. Durante la costruzione sono stati necessari sopralluoghi, verifiche e autorizzazioni da parte di persone esterne, che ogni volta hanno dovuto passare tutta la trafila burocratica per entrare in carcere. “Una volta per portar su un ago da cucito ci son voluti 20 giorni per l’autorizzazione”, racconta Alessia Bordo, che nell’Alta sicurezza del Marassi gestisce una serigrafia per conto della cooperativa “La bottega solidale” (l’Alta sicurezza è il reparto in cui sono recluse persone arrestate per reati associativi, come mafia e traffico di sostanze stupefacenti). Costruire un teatro ha significato anche portare all’interno del carcere strumenti che potevano essere facilmente usati per evadere: come le scale per montare il graticcio, la struttura a travi di legno sopra il palco che serve per installare e muovere scenografia e macchine di scena. Il graticcio è un dettaglio del Teatro dell’Arca che mostrano in molti, perché è quello che fa la differenza tra un teatro ricavato da uno spazio già esistente, come nel caso di altri teatri in carcere italiani, e uno costruito da zero, come in questo caso. L’idea di costruire il teatro fu di Sandro Baldacci, attore e regista teatrale morto a novembre del 2023. Lino Mazzarella, detenuto da dodici anni e tra quelli che costruirono fisicamente il teatro, lo ricorda come un “maestro”. Baldacci lavorava da anni coi detenuti, insieme a Cannata e a Carlo Imparato, gli altri due fondatori del teatro. Facevano i laboratori teatrali dove potevano, in stanze o spazi allestiti lì per lì. Costruire un teatro vero è stato possibile anche grazie al rapporto di fiducia col direttore del carcere di allora, Salvatore Mazzeo, che cedette all’associazione un cortile inutilizzato dell’intercinta, a patto che trovassero autonomamente i fondi per farlo. Al Marassi i detenuti che vogliono partecipare alle attività teatrali devono avere alcuni requisiti, attitudinali e soprattutto giuridici, perché devono poter lavorare all’esterno. Una volta selezionati, fanno tre prove a settimana di circa tre ore, con uno spettacolo ogni 15 giorni. Alcuni di loro raccontano di continuare a provare i copioni anche in cella, per migliorare la performance o per esercitarsi con l’italiano (diversi di loro sono stranieri). Per alcuni il teatro è diventato una specie di mestiere. È il caso di Lino Mazzarella, che dice di aver cominciato per passare il tempo, perché il carcere era “il vuoto”, e di aver poi sviluppato una passione: oggi si occupa di scenografia e di tantissime altre cose, e chi frequenta il teatro racconta che è sempre lì. Un altro detenuto dice di fare teatro perché “è un momento molto brutto della mia vita”: è detenuto da sei mesi, i suoi familiari sono divisi tra la Calabria e la Germania, a Genova è solo e le prove di teatro gli permettono di lavorare in gruppo, avere delle relazioni. Un altro detenuto dice di fare teatro per dimostrare buona condotta e ottenere permessi. Uno dice che “se inizi una cosa la devi portare fino in fondo”, e per lui vale anche col teatro. Un altro ancora sta cercando di far rinviare un’udienza prevista nel giorno di una replica dello spettacolo: verranno a vederlo sua moglie e le sue due figlie e ci tiene a poter recitare quel giorno. Sette minuti, diretto dal regista teatrale Matteo Alfonso, è tratto da un testo dello scrittore Stefano Massini. Fu adattato al teatro in carcere proprio da Baldacci. Generalmente, sia per gli spettacoli da recitare che per quelli a cui assistere, ai detenuti vengono proposti temi “che abbiano senso qui dentro”, dice Cannata riferendosi al carcere: giustizia, diritti, violenza sulle donne, incontri tra culture diverse. Soprattutto quando i detenuti assistono agli spettacoli è sempre previsto un momento di discussione. Parlando di Sette minuti Christian Parraga, un detenuto ecuadoriano di 42 anni, dice di riuscire a immedesimarsi facilmente nell’operaio che interpreta. Prima di essere arrestato lavorava in una fabbrica di Milano in cui i turni erano massacranti: “I miei colleghi più anziani scioperarono, io no. Ero straniero, ero appena arrivato e pensavo che l’importante era tenersi il lavoro, anche se le condizioni erano pessime”. Dopo qualche anno però Parraga non ce la fece più e lasciò quel lavoro, senza riuscire a trovarne un altro: “Piano piano le cose hanno preso una piega che mi ha portato qui”. La maggior parte dei detenuti che recitano al Teatro dell’Arca è stata arrestata per reati comuni e ha pene brevi, ma questo rende le attività un po’ frammentate, perché capita che i detenuti vengano scarcerati dopo poco tempo o che vengano assegnati loro i domiciliari mentre sono in corso le prove. A quelle di Sette minuti, per esempio, il regista Matteo Alfonso sta sostituendo un detenuto appena scarcerato. Ardito, la direttrice del Marassi, dice che questo tipo di attività è “necessario” e che realizzarle all’interno delle carceri “non è una scelta ma un dovere”. Eppure, come in tanti altri casi, il grosso di queste attività si sostengono economicamente grazie ad associazioni, cooperative e volontari. Il ministero della Giustizia stanzia alcuni fondi alle attività chiamate “trattamentali” (come lavoro, studio e altre destinate al reinserimento sociale), ma la maggior parte degli interventi è sostenuta dal terzo settore: il Teatro dell’Arca fa parte della rete di “Per aspera ad astra”, un progetto per la cultura in carcere sostenuto da undici fondazioni bancarie, nato nel 2018 e attivo in 15 carceri. Alle prove e a ogni spettacolo devono essere presenti da due a quattro agenti di polizia penitenziaria, per ragioni di sorveglianza e sicurezza: “Abbiamo anche qui gravi carenze di personale penitenziario, e ogni volta che i detenuti escono per recitare in teatro è molto complicato trovare le risorse necessarie per permetterlo”, dice Ardito. L’ispettrice Smiraldi racconta di partecipare regolarmente alle attività del teatro facendo gli straordinari, e che anche per questo definisce il tour dello spettacolo “un tour de force”. Smiraldi lavora al Marassi dal 2008 e dice di tenere molto alle attività teatrali, perché “avere cultura qui dentro fa bene anche a noi, oltre che ai detenuti: ti permette di lavorare in un posto altrimenti molto pesante con una prospettiva diversa”. Chi vuole vedere uno spettacolo al Teatro dell’Arca deve registrarsi in anticipo, inviare una scansione del proprio documento e una volta lì passare una serie di controlli di sicurezza. Mirella Cannata, la presidente di Teatro Necessario, dice che spesso gli spettacoli fanno il tutto esaurito. Al mattino a vedere gli spettacoli o le prove vanno anche le scuole, e spesso vengono organizzati incontri tra detenuti e studenti. Tempo fa, dopo un incontro, una studentessa di un liceo classico ligure inviò ai detenuti una lettera in cui scriveva: “Sono quattro giorni che penso alla risposta che avrei voluto darvi venerdì?, quando avete chiesto il perché noi fossimo li?, e la verità e? che io ero li? perché mi piace il teatro, e voi siete attori, no?”. Le mamme e il carcere con “Vera e la galera” di Daniela De Vita * La Notizia, 7 marzo 2024 Odile, illustratrice salernitana, ha sempre con sé una matita e disegna da quando ne ha memoria. Il suo è un racconto al femminile: i luoghi, le sensazioni, prendono sembianze di donne. Sono personaggi sognanti, dai volti delicati che ci fanno, però, percorrere strade e storie intense e profonde con occhi leggeri. Le donne di Odile sono tutte noi, fragili, affascinanti, selvatiche, dalle cui ferite nascono e rifioriscono più forti e determinate. Proprio uno degli ultimi lavori, l’albo illustrato “Vera e la galera”, racchiude una tematica tutta al femminile che ci fa affrontare un serio problema: quello della maternità e della reclusione. La favola, scritta dalle detenute del carcere femminile di Pozzuoli e curata dalla psicologa dottoressa Nicoletta De Stefano, è nata nell’ambito di un progetto sulla genitorialità all’interno degli istituti penitenziari per spiegare ai più piccoli perché le mamme sono lontane da casa. Speciale per Odile è anche il legame con il mare, i suoi capelli blu raccolti in una treccia, le sfumature di azzurro e le illustrazioni delle sirene ce lo ricordano. “Il mare è respiro” dice proprio uno dei suoi personaggi, mentre il vento salato le scompiglia i capelli. Nel progetto sulla Divina costiera (amalfitana) ritroviamo tutte le caratteristiche dell’illustratrice. La Costiera selvaggia, a tratti ruvida, ma elegante e splendente come una donna ci ammalia ogni volta che la ripercorriamo. Regalando sogni e risvegliando ricordi, ci entra nell’anima. Ed è proprio l’anima di questi luoghi a diventare protagonista delle illustrazioni. Nasce così la personificazione dei borghi, ognuno con le proprie caratteristiche, come fossero personaggi che aspettano solo di accoglierci per raccontarci la loro storia. Un invito ad una passeggiata che parte da Vietri, intenta a dipingersi i capelli, a Positano, con la sua coda di sirena passando per Cetara, che ha un’alice per capelli e una goccia di colatura per fermarli, e Scala dallo chignon grigio perché la più antica. Ancora l’universo femminile, con figure di donne importanti e decisive del Medioevo, è protagonista delle pagine illustrate del libro “Passeggiate salernitane per bimbi curiosi”, Sichelgaita principessa guerriera della stirpe longobarda che non aveva paura di combattere con armatura e corazza accanto al marito oppure Costanzella Calenda tra le prime donne medico e chirurgo della storia. Il mondo di Odile, quindi, è fatto di illustrazioni dedicate non solo al mondo dell’infanzia, ma anche rivolte ad un pubblico di adulti che non ha smesso di sognare. *In arte Odile, illustratrice Il diritto al giudizio. Per essere persone, sofferenti e curabili di Franco Rotelli* Il Manifesto, 7 marzo 2024 Ho molte titubanze a pensare cosa dirvi. Perplessità che derivano dalla posizione sostanzialmente e probabilmente molto elementaristica che ho - che abbiamo - a Trieste su questa questione del “doppio binario” di giustizia, dell’imputabilità e del trattamento delle persone con problemi di salute mentale. Da molti anni, noi sosteniamo che il tema dell’incapacità totale di intendere e di volere della persona al momento di commettere il reato non esiste. Le persone non arrivano mai a questo stato di incomprensione del fatto che stanno commettendo. Riteniamo quindi che il doppio binario sia una modalità da eliminare. Riteniamo che tutti gli articoli del codice di procedura penale che abbiano a che fare con la pericolosità sociale, con la non imputabilità totale e con la totale incapacità di intendere e di volere vadano superati. Mantenendo però la possibilità di giudicare come fortemente ridotta la capacità di intendere e di volere in determinati casi e la necessità in tutti i casi in cui si rileva una sofferenza mentale significativa di ricorrere in modo più ampio possibile a misure alternative alla detenzione. Quindi il giudizio, stare in giudizio, essere giudicati, essere riconosciuti come persone e quindi essere sanzionati se ritenuti colpevoli di quel gesto, di quel fatto, di quel reato. In sede di trattamento essere riconosciuti, se è il caso, come persone portatrici di un grave stato di malessere mentale e quindi come tali trattati e come tali immessi in percorsi alternativi alla detenzione, in percorsi di cura, di sostegno con programmi di trattamento e riabilitativi disegnati sulla particolare storia di quella persona. Quei percorsi che le perizie psichiatriche dovrebbero indicare. Non dovendo più indicare, le perizie psichiatriche, risposte a domande a cui lo psichiatra non è in grado di rispondere. Cioè se la persona è o era pericolosa se la persona è o era incapace. Sono domande prive di risposte scientificamente fondate. Mentre invece può essere che la perizia psichiatrica possa dare un contributo positivo ai percorsi di cura, una raccomandazione appropriata in base alla valutazione dello stato di sofferenza mentale di una persona, indicazioni appropriate in sede di trattamento dopo il giudizio. Ma il giudizio deve esserci, al giudizio nessuno deve essere sottratto perché tutti siamo cittadini, nessuno escluso, e come cittadini abbiamo il diritto dovere di essere giudicati. Questo è quanto noi pensiamo, questo è quello che riteniamo, in perfetta buona fede, frutto di esperienza e pluridecennale rapporto con persone con problemi psichiatrici e con un immaginario che molto evidentemente ha a che fare con la possibilità di recupero delle persone. Recupero delle persone che può avvenire solamente se a esse viene riconosciuta una capacità. Una capacità, anche residuale, ridotta, a volte fortemente ridotta ma sempre presente e che su questa capacità si possa lavorare per immaginare un trattamento, una cura, un’emancipazione, un futuro che tenga conto del reato ma anche della possibilità di una vita che deve continuare. Tutto qua quello che noi pensiamo. Frutto di almeno mezzo secolo di impegni ed esperienze sul campo anche in situazioni di apparente estrema incomprensibilità. *Un anno fa è scomparso Franco Rotelli, uno dei più importanti collaboratori di Franco Basaglia. È stato un costruttore di alternative alla non-vita del manicomio e ha immaginato il lavoro della ‘città che cura’. Proponiamo parte del suo intervento al IX convegno nazionale dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, come contributo alla attuale proposta di legge n. 1119 presentata da Riccardo Magi alla Camera dei deputati, sul superamento della non imputabilità per gli autori di reato con disturbi mentali. Migranti. Nel 2023 mai così tanti morti. Ultimo, un 17enne a bordo di nave ong di Daniela Fassini Avvenire, 7 marzo 2024 Il Mediterraneo continua ad essere la rotta più letale al mondo con 3.129 vittime in dodici mesi. “Le cause? Soccorsi tardivi e limitati”. “Sì al piano Ruanda”: il Ppe è un caso. Mai così tanti morti. È il drammatico record delle vite perse in mare, detenuto dal Mediterraneo che continua ad essere la rotta più letale, con almeno 3.129 morti e dispersi nel 2023. È il bilancio più alto registrato nel Mediterraneo dal 2017. “Tuttavia, si stima che il numero reale sia molto più alto a causa delle difficoltà incontrate nella raccolta dei dati - sottolinea l’Oim - lungo le rotte marittime, dove si registrano regolarmente segnalazioni di “naufragi invisibili” in cui le barche scompaiono senza lasciare traccia”. Per Flavio Di Giacomo, portavoce Oim per il Mediterraneo, “l’altissimo numero di morti registrato nel Mediterraneo quest’anno è particolarmente preoccupante. Ritardi nei soccorsi, così come la limitata possibilità operatività delle Ong, sono tra i motivi di questo aumento. Salvare vite deve essere alla base di qualsiasi politica migratoria, c’è bisogno di un impegno maggiore in termini di ricerca e soccorso nel Mediterraneo”. Ultimo, tragico, caso è quello denunciato ieri dalla nave Sea-Watch 5: un 17enne morto a bordo, dopo essere stato trovato in stato di incoscienza nel ponte inferiore di un’imbarcazione di legno, dove si trovavano altri 50 migranti con problemi di disidratazione e ustioni. Quattro dei naufraghi - pakistani ed eritrei partiti, secondo quanto da loro stessi dichiarato, dalla Libia - su richiesta della nave sono stati trasferiti da una motovedetta della Guardia costiera nel poliambulatorio di Lampedusa. Presentavano intossicazione da idrocarburi, ustioni, ipotermia e scabbia. Due sono stati dimessi all’alba e portati nell’hotspot di contrada Imbriacola. I numeri: +20%, è nuovo record anche a livello mondiale Sono invece complessivamente 8.565 le persone morte lungo le rotte migratorie in tutto il mondo nel 2023. Ed anche in questo caso viene stabilito un triste record come l’anno con il maggior numero di morti mai registrato dal progetto Missing Migrants dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim). Il bilancio delle vittime del 2023 rappresenta un tragico aumento del 20% rispetto al 2022. Fondato nel 2014 a seguito di due naufragi devastanti al largo della costa di Lampedusa, il Progetto Missing Migrants è riconosciuto come l’unico indicatore che misura il livello di “sicurezza” della migrazione negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e nel Global Compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare. La protesta contro il fermo della nave Ong Humanity Intanto è ancora polemica sul fermo della nave Ong Humanity dopo il soccorso effettuato nel Mediterraneo. “La nostra nave è stata detenuta anche se abbiamo sempre seguito il diritto internazionale” hanno spiegato i membri dell’equipaggio, che sabato scorso ha messo in salvo 77 persone. “Le autorità italiane hanno tentato di giustificare il fermo della Humanity 1 con il fatto che la nave avrebbe causato una situazione di pericolo per le persone in difficoltà in mare. In realtà, é stata la cosiddetta Guardia costiera libica, finanziata dall’Ue, a mettere in pericolo la vita delle persone in acqua e del nostro equipaggio di soccorso”. Lo strappo “populista” nel manifesto Ppe Ma il tema migranti entra a gamba tesa anche nella campagna per le prossime elezioni europee. È da leggere come un tentativo di sorpasso a destra sull’ala populista, l’affondo di ieri del presidente del Ppe, Manfred Weber, a margine del congresso di Bucarest, che parlando di riduzione del numero degli arrivi ha fatto riferimento all’accordo tra Gran Bretagna e Ruanda come possibile “modello” anche per Bruxelles, nella prossima legislatura. “Ursula von der Leyen fa parte del Ppe, questo è il manifesto del Ppe, e quindi lo è anche della nostra principale candidata” ha puntualizzato confermando quindi che anche la presidente della Commissione potrebbe sostenere l’idea, lanciata dal “manifesto” sulla scia del protocollo con il Paese africano: l’obiettivo è che i Paesi terzi sicuri ospitino i richiedenti asilo non solo durante la procedura ma anche una volta ottenuta la protezione. “Dobbiamo distinguere tra i richiedenti asilo e i migranti illegali, che vanno respinti alle frontiere esterne. Chi viene in Europa lo decide l’Europa con gli Stati membri, non i trafficanti”, ha spiegato. E sul contenuto previsto nel manifesto del Ppe, il vice premier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani ha subito rimarcato che è “l’accordo tra Italia e Albania” un modello “che può essere seguito da altri” per esternalizzare le richieste di asilo anche in Ue. Immediate le critiche dei partiti dell’opposizione, in Italia. “La scelta politica del Ppe di sposare il cosiddetto “modello Ruanda” è una scelta gravemente sbagliata - dichiara Pierfrancesco Majorino, responsabile Politiche migratorie nella segreteria Pd -. Ciò di cui abbiamo bisogno, in Europa, è invece il superamento degli accordi di Dublino e una Mare Nostrum europea, e, tema essenziale per l’Italia, l’apertura di vie d’ingresso legali e sicure”. Dopo Chico, occupiamoci anche degli altri 2.057 italiani detenuti all’estero di Marco Perduca L’Unità, 7 marzo 2024 Secondo gli ultimi dati diffusi dalla Farnesina nel settembre scorso, nel 2021 erano 2058 le persone con passaporto italiano in carcere all’estero. Di queste 861 erano in attesa di giudizio, 31 in attesa di estradizione e 1166 con sentenza definitiva; 1526 detenute in Unione europea (713 in Germania, 230 in Francia, 229 in Spagna e 157 in Belgio), 810 condannate, 709 in attesa di giudizio e 7 in attesa di estradizione. Non avendo una struttura a questo dedicata, il Ministero degli esteri fa quel che può, ma non sempre si tratta di situazioni gestibili con qualche visita consolare né è detto che un intervento governativo possa cambiare le cose, anzi. Di fronte a denegata giustizia sarebbero necessarie interlocuzioni politiche ai massimi livelli, là dove necessario la Repubblica italiana dovrebbe ricorrere a giurisdizioni superiori. Dovendo eccepire circa l’amministrazione della giustizia di un altro stato sovrano, anche il meno democratico, le azioni sono molto delicate, potenzialmente controproducenti e si vanno a sovrapporre alle relazioni bilaterali tra gli Stati e nessuno accetta accuse su violazioni dello Stato di Diritto. Altra questione è la critica fattuale delle condizioni detentive e il rispetto dei diritti fondamentali di chi vi è ristretto - oltre che il far parte di organizzazioni internazionali come il Consiglio d’Europa che obbliga a tempi certi per la giustizia e sanziona i trattamenti inumani e degradanti. Tanti sono i nostri connazionali nelle prigioni del mondo. Nordio sostiene che dopo l’estradizione di Baraldini gli altri paesi non si fidano di noi, ma checché ne dica lui i patti con l’America furono rispettati. Le strumentalizzazioni politiche non aiutano. Se non si avviano contatti politici “paralleli” alle procedure ufficiali, da sole le cose non si risolvono L’11 gennaio il Ministro della giustizia Carlo Nordio al question time su Ilaria Salis aveva affermato: “L’Italia non ha una buona reputazione per quanto riguarda il principio del ‘pacta sunt servanda’ ricordiamo il caso di Silvia Baraldini, estradata dagli USA con la solenne promessa che avrebbe finito di scontare i 43 anni inflitti. Fu accolta con tutti gli onori all’aeroporto e scontò la pena in modo molto parziale. Gli americani se lo ricordano ed è questo che ostacola le procedure a livello fiduciario”. Militante comunista, negli anni 70 Silvia Baraldini si trasferì negli USA dove si unì alla Black Liberation Army; nel 1982 fu arrestata con l’accusa di rapina. Mentre era in regime di carcere duro le fu diagnosticato un tumore, nel 1999 fu trasferita in Italia grazie anche a una mobilitazione internazionale. L’indulto del 2006, che andò moderatamente di traverso all’amministrazione Bush, la scarcerò definitivamente. Checché ne dica Nordio, i patti erano stati rispettati: l’indulto includeva casi come quello di Baraldini e in Italia, salvo ergastoli ostativi, 22 anni per reati come quelli a lei imputati sono oltre quanto previsto dalle nostre leggi. Secondo gli ultimi dati diffusi dalla Farnesina nel settembre scorso, nel 2021 erano 2058 le persone con passaporto italiano in carcere all’estero. Di queste 861 erano in attesa di giudizio, 31 in attesa di estradizione e 1166 con sentenza definitiva; 1526 detenute in Unione europea (713 in Germania, 230 in Francia, 229 in Spagna e 157 in Belgio), 810 condannate, 709 in attesa di giudizio e 7 in attesa di estradizione. Non avendo una struttura a questo dedicata, il Ministero degli esteri fa quel che può, ma non sempre si tratta di situazioni gestibili con qualche visita consolare né è detto che un intervento governativo possa cambiare le cose, anzi. Di fronte a denegata giustizia sarebbero necessarie interlocuzioni politiche ai massimi livelli, là dove necessario la Repubblica italiana dovrebbe ricorrere a giurisdizioni superiori. Dovendo eccepire circa l’amministrazione della giustizia di un altro stato sovrano, anche il meno democratico, le azioni sono molto delicate, potenzialmente controproducenti e si vanno a sovrapporre alle relazioni bilaterali tra gli Stati e nessuno accetta accuse su violazioni dello Stato di Diritto. Altra questione è la critica fattuale delle condizioni detentive e il rispetto dei diritti fondamentali di chi vi è ristretto - oltre che il far parte di organizzazioni internazionali come il Consiglio d’Europa che obbliga a tempi certi per la giustizia e sanziona i trattamenti inumani e degradanti. Salis è accusata di lesioni aggravate nei confronti di alcuni manifestanti di estrema destra. In rete si trovano video in cui un gruppo di persone picchia qualcuno che sembra un naziskin - le facce non sono riconoscibili ma le didascalie sostengono che si tratti della militante antifascista italiana. Non si rinvengono online smentite o conferme ufficiali mentre, vista la tendenza dei media italiani ad affidare il commento di situazioni complesse al primo che capita, da settimane subiamo strumentalizzazioni politiche che non di rado complicano la ricerca di soluzioni oltre che della verità processuale. Anche se la Farnesina non specifica le accuse o le sentenze, molto spesso gli arresti avvengono per traffico - o detenzione - di sostanze stupefacenti illecite. L’allora Deputata radicale Elisabetta Zamparutti, tesoriera di Nessuno Tocchi Caino, seguì il caso di Angelo Falcone arrestato in India nel marzo 2007 con l’accusa di traffico internazionale di droga. Falcone era stato fermato con 18 chili di hashish nelle valigie che tranquillamente trasportava in taxi. Circostanze letteralmente stupefacenti che, si scoprì, si ripetevano spesso lasciando intendere collusioni e corruzioni tra polizia e micro-criminalità. A fine 2009 Falcone fu assolto. La vicenda si sarebbe risolta “presto e bene” senza l’intervento in Italia e in India di Zamparutti? Difficile dirlo, certo è che se non si tenta proattivamente quanto consentito dalle leggi e non si avviano contatti politici “paralleli” alle procedure ufficiali, da sole le cose non si risolvono. Poi ci sono casi come quello di Niccolò Figà-Talamanca, arrestato a dicembre 2022 per il cosiddetto Qatargate, che pur avendo per giorni invaso i giornali italiani non ricevette visite di Console o eletti. Ogni caso fa giustamente storia a sé e un ufficio che alla Farnesina sistematicamente si interessasse dei singoli potrebbe limitare (almeno) le violazioni dei diritti umani degli italiani ristretti in giro per il mondo, dopotutto abbiamo eletti in circoscrizioni estere, no? Da anni si ritiene che i detenuti non italiani debbano scontare le condanne nel loro paese indipendentemente dalle condizioni delle carceri verso cui li si trasferirebbero. Nei confronti dell’Italia non manca la fiducia, manca semmai la reputazione per scagliare la prima pietra. Quel che scarseggia nelle istituzioni abbonda tra le associazioni, un’alleanza informale potrebbe essere molto efficace. Romania. Il ministro degli Esteri Tajani: “Tutelare i detenuti italiani” ansa.it, 7 marzo 2024 Nel Paese sono detenuti Filippo Mosca e Francesco Flauto, che è stato condannato in via definitiva e ha chiesto di scontare la pena in Italia. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha incontrato a Bucarest la ministra della Giustizia romena, Alina Gorghiu. “Ho chiesto la sua collaborazione affinché vengano garantite le tutele dei detenuti italiani in Romania. Continuiamo a monitorare i loro casi come quelli di tutti gli italiani detenuti all’estero”, ha spiegato il capo della Farnesina su X. In Romania è detenuto il 29enne italiano Filippo Mosca i cui i familiari nelle scorse settimane aveva chiesto l’intervento delle autorità italiane per garantirgli i diritti di difesa. Lo scorso maggio è stato condannato in primo grado a 8 anni e 3 mesi di reclusione per traffico di droga. “Il signor Filippo Mosca, detenuto nel carcere di Poarta Alba, è stato oggetto di violenze: auspichiamo sia trasferito in luogo sicuro e protetto. Il connazionale Francesco Flauto è stato condannato in via definitiva e ha chiesto di scontare la pena in Italia” così il ministro degli Esteri. “Stiamo vivendo ore di angoscia per la sorte di Filippo, ma dobbiamo avere fiducia. Ringrazio il ministro degli esteri Antonio Tajani, il fatto che abbia parlato di Filippo e degli altri detenuti italiani in Romania per noi è un grandissimo segnale di attenzione”. Così Ornella Matraxia, madre di Filippo Mosca. Medio Oriente. Da Manconi a Segre, appello per Gaza: “Violenza intollerabile, muore la civiltà” La Repubblica, 7 marzo 2024 Un documento per ribadire che “fermare il massacro di palestinesi inermi e liberare tutti gli ostaggi israeliani è un imperativo politico”. Tra i firmatari don Ciotti, monsignor Paglia, il Nobel Parisi e Dacia Maraini. “Fermare il massacro di palestinesi inermi e liberare tutti gli ostaggi israeliani è un imperativo politico, umanitario e morale”: è l’appello forte sottoscritto da Luigi Ciotti, Luigi Manconi, Dacia Maraini, Vincenzo Paglia, Giorgio Parisi, Liliana Segre. Un documento che parte dalla strage dei palestinesi in coda per gli alimenti: “Oltre un centinaio di palestinesi sono caduti mentre cercavano il cibo per sopravvivere, uccisi dalla calca e dalle armi dell’esercito d’Israele. Si sommano alle decine di migliaia di morti - tra cui donne e bambini - vittime della reazione del governo Netanyahu all’orrendo crimine messo in atto da Hamas il 7 ottobre 2023: oltre milleduecento cittadini israeliani uccisi nel più efferato pogrom antisemita compiuto dopo la Seconda guerra mondiale”. Ciotti, Manconi, Maraini, Paglia, Parisi e Segre ricordano che “almeno due generazioni, se sopravvissute, usciranno devastate da cinque mesi di una strage senza tregua e senza scampo”. E intanto “l’Europa invoca timidamente un cessate il fuoco. L’amministrazione americana preme per una pausa della carneficina in atto. L’Egitto chiude il varco di Rafah che lo separa dalla striscia di Gaza, mentre Benjamin Netanyahu dichiara di voler proseguire la distruzione di Hamas mettendo nel conto altre migliaia di vittime innocenti; e la crescita, già in atto, di un diffuso sentimento antisemita in tutto il mondo”. Davanti a ciò, i firmatari affermano che “quanto si consuma a Gaza è una violenza intollerabile a quel senso di umanità che, se calpestato, annulla la civiltà della vita e del suo irrinunciabile valore”. Da qui l’appello, “per la fine di una strage che assieme a migliaia di corpi spegne la speranza per una convivenza possibile di due popoli in due Stati”. Un appello, viene ribadito “per la difesa della civiltà”, nella consapevolezza che “gli appelli sono sempre e soltanto una testimonianza di volontà” e “non hanno il potere di condurre gli eventi sul sentiero della giustizia e della salvezza di vite violate”, ma “a volte possono scuotere coscienze smarrite”. Medio Oriente. Dopo 5 mesi di guerra l’accordo slitta ancora. “Senza tregua non ci sarà più cibo” Lucia Capuzzi Avvenire, 7 marzo 2024 Oggi un altro round al Cairo. Hamas chiede di nuovo il rilascio di Barghuti. Allarme per le due parrocchie della Striscia che ospitano 830 sfollati. Nel linguaggio degli scacchi si dice “zeitnot”. Indica quando i giocatori hanno poco tempo a disposizione per realizzare le proprie mosse. È esattamente la situazione in cui si trovano i negoziatori di Israele e Hamas. L’inizio del Ramandan, domenica, incombe sulle trattative. Gli Usa - insieme ai mediatori Qatar e Egitto - premono perché, entro tale data, il cessate il fuoco sia già stato siglato. Ciascuno dei due avversari, però, teme che un passo azzardato possa azzerare il vantaggio sull’altro. E, così, restano fermi. Secondo Washington, la palla è nelle mani dei miliziani. In particolare del loro leader nella Striscia, lo sfuggente Yahya Sinjar, il quale, però, potrebbe essere interessato a proseguire gli scontri nel mezzo del Ramadan nella speranza di ottenere finalmente il sostegno militare degli Stati arabi, finora poco inclini ad andare oltre le parole. Dal Cairo, però, i rappresentanti di Hamas hanno ribadito impegno e flessibilità per raggiungere l’intesa e addossano la responsabilità del ritardo a Israele. Sulla pausa di una quarantina di giorni nei combattimenti e sullo scambio tra ostaggi e detenuti palestinesi, le parti concordano. Quando, però, si entra nello specifico dei modi dei rilasci e del ritiro dalla Striscia, il negoziato si incaglia. Nell’ultima bozza di proposta, Hamas avrebbe inserito - dicono fonti vicine ai colloqui - alcuni nomi non negoziabili di detenuti da liberare. Il primo della lista - che include vari esponenti dis picco dell’Intifada - sarebbe Marwan Bargouti, considerato da tanti colui che, per il sostegno di cui gode anche in Cisgiordania, potrebbe dare nuovo slancio all’Autorità nazionale palestinese (Anp). Oggi è previsto un ennesimo round ma di nuovo la delegazione israeliana potrebbe non essere presente perché i miliziani rifiutano di dire quanti dei 134 ostaggi siano ancora vivi. Il protrarsi dei combattimenti rende sempre più insostenibile la situazione sul terreno. A cinque mesi esatti dall’inizio del conflitto, le vittime nell’enclave hanno raggiunto quota 30.717, secondo i dati forniti dalle autorità sanitarie controllate da Hamas. Ci sono stati 86 morti solo nelle ultime 24 ore. Insieme agli uccisi negli scontri, crescono quanti muoiono per fame, sete e malattie curabili a causa dell’implosione degli ospedali. Ieri il ministero della Salute di Gaza ha annunciato il decesso a Gaza City di una 15enne gravemente disidratata: il diciottesimo caso in una settimana. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha denunciato un’estrema malnutrizione infantile nella Striscia che avrebbe già causato la morte di dieci bambini. Per allenatere la pressione, l’Unione Europee sta valutando la creazione di un corridoio umanitario per gli aiuti. “Senza un cessate il fuoco non ci sarà più da mangiare, è una situazione gravissima”, è l’allarme lanciato dal segretario di Caritas Gerusalemme, Anton Asfar, ieri era a Roma per incontrare don Marco Pagniello, direttore di Caritas italiana, che ha assicurato il proprio sostegno tecnico e finanziario. “Caritas Gerusalemme è una delle tre organizzazioni umanitarie presenti nel nord della Striscia oltre che a Rafah e Khan Yunis - spiega Asfar -. Finora, nonostante le enormi difficoltà e i lutti subiti, siamo riusciti a fornire assistenza di base alle 803 persone accolte nelle due parrocchie di Gaza City. Le scorte, però, stanno finendo. È una situazione gravissima”. Le due Caritas sorelle stanno, inoltre, predisponendo una serie di interventi di lungo periodo di sostegno economico a Gaza e in Cisgiordania. Anche nei Territori, con i permessi di lavoro in Israele congelati e centinaia di barriere che impediscono la mobilità di persone e merci, la crisi economica è forte. E con essa cresce la tensione. Ad acuirla ulteriormente, il nuovo via libera di Israele a 3.500 nuove case negli insediamenti di Male Adumim, Efrat e Kedar, lungo l’area che va da Gerusalemme a Gerico. Una scelta duramente contestata da Peace Now: “Invece di costruire un futuro di pace e sicurezza, il governo prepara la strada per la nostra distruzione”. Malesia. 12.000 migranti e rifugiati detenuti tra cui 1.400 bambini sottoposti a molestie e a torture La Repubblica, 7 marzo 2024 Sopravvivono in condizioni terribili, degradanti e sono trattati come criminali. Il governo malese sta detenendo circa 12.000 migranti e rifugiati, tra cui 1.400 bambini, in condizioni che li mettono a serio rischio di abusi fisici e danni psicologici. Lo denuncia Human Rights Watch in un rapporto pubblicato oggi. Il rapporto di 60 pagine, “‘We Can’t See the Sun’: Malaysia’s Arbitrary Detention of Migrants and Refugees”, documenta il trattamento punitivo e abusivo delle autorità malesi nei confronti di migranti e rifugiati in 20 centri di detenzione per immigrati in tutto il paese. Mesi o anni in condizioni di sovraffollamento. I detenuti immigrati possono trascorrere mesi o anni in condizioni di sovraffollamento e antigieniche, soggetti a molestie e violenze da parte delle guardie, senza monitoraggio nazionale o internazionale. “Le autorità malesi trattano i migranti come criminali, trattenendoli arbitrariamente per periodi prolungati in centri per immigrati senza quasi alcun accesso al mondo esterno”, ha dichiarato Shayna Bauchner, ricercatrice per l’Asia di Human Rights Watch. “Il degradante e abusivo sistema di detenzione degli immigrati della Malesia nega ai migranti e ai rifugiati i diritti alla libertà, alla salute e a un giusto processo”. Human Rights Watch ha intervistato più di 40 persone, tra cui ex detenuti immigrati, familiari, avvocati, personale umanitario ed ex funzionari dell’immigrazione. Non si distinguono rifugiati, richiedenti asilo, vittime di tratta. La legge malese rende ogni ingresso e soggiorno irregolare nel paese un reato penale, senza distinzione tra rifugiati, richiedenti asilo, vittime di tratta e migranti privi di documenti. Inoltre, non vi è alcun limite legale alla durata della detenzione degli immigrati, lasciando i migranti a rischio di detenzione a tempo indeterminato. Da maggio 2020 le autorità hanno arrestato più di 45.000 migranti irregolari. Le testimonianze degli ex detenuti. Gli ex detenuti hanno descritto un’esistenza spoglia e brutale all’interno dei centri di detenzione per immigrati, chiamati anche depositi, con scorte limitate di cibo e igiene, frequenti carenze d’acqua, regole rigide e imprevedibili e la minaccia sempre presente di punizioni. “Venivamo picchiati quando chiedevamo più cibo, prendevamo una tazza d’acqua in più per fare la doccia o chiedevamo una coperta per il freddo”, ha detto un rifugiato Rohingya precedentemente detenuto nel deposito di immigrazione di Belantik. L’ordine di stare a testa bassa e in silenzio. I detenuti sono tenuti a presentarsi per le “chiamate di adunata”, o appelli, più volte al giorno. Alcune ultime ore, con i detenuti che hanno ricevuto l’ordine di rimanere in silenzio, a testa bassa e senza muoversi, nemmeno per usare il bagno. “Se facevamo rumore, venivamo punite, come appenderci al muro, flessioni, squat, camminare come anatre o stare in piedi sotto il sole cocente per ore”, ha detto una donna indonesiana detenuta nel deposito dell’immigrazione di Tawau. Nessun possibile ricorso né controlli giudiziari. I migranti sono trattenuti senza ricorrere a un controllo giudiziario o a meccanismi di ricorso contro la loro detenzione. L’uso da parte del governo malese di una detenzione prolungata e giudiziaria senza supervisione viola i divieti internazionali sui diritti umani contro la detenzione arbitraria. Sia i maltrattamenti che l’assistenza medica inadeguata hanno portato a centinaia di morti nelle strutture di detenzione per immigrati negli ultimi anni, secondo i dati del governo e le testimonianze dei testimoni. Giorni e giorni di torture per tentate fughe. Un lavoratore migrante ha detto che gli agenti hanno torturato lui e altre tredici persone per giorni dopo che avevano cercato di fuggire, picchiandoli con mattoni e manganelli e stando in piedi sul loro petto. Due dei detenuti alla fine sono morti. Le politiche e le pratiche anti-migranti, così come la retorica xenofoba, sono aumentate in Malesia negli ultimi anni. Il governo malese ha negato all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’UNHCR, l’accesso ai centri di detenzione per immigrati dall’agosto 2019, lasciando l’organizzazione incapace di esaminare le richieste di asilo o proteggere i detenuti registrati come rifugiati. Nessuna norma che regoli l’ingresso dei rifugiati. La Malesia non ha ratificato la Convenzione sui rifugiati e non dispone di alcun quadro giuridico o procedura per determinare lo status di rifugiato e fornire riconoscimento e protezione ai richiedenti asilo. I rifugiati e i richiedenti asilo detenuti hanno affermato che i funzionari dell’immigrazione hanno usato minacce, trattamenti degradanti e violenza per bloccare le richieste di incontrare l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati o per costringerli a tornare nei loro paesi di origine. Picchiati su mani e piedi con tubi di gomma. “Siamo stati portati fuori e picchiati sulle mani e sui piedi cinque volte con due tubi di gomma che erano stati attaccati insieme” - ha detto un uomo di etnia Chin, originaria del Sudest asiatico, diffusa al confine tra Birmania, India e Bangladesh - i tubi erano riempiti con fili metallici. Sono svenuto dopo il terzo colpo”. Ai bambini riservati gli stessi trattamenti degli adulti. I bambini detenuti nei centri di immigrazione affrontano gli stessi abusi dei detenuti adulti, tra cui la negazione di cure mediche, cibo inadeguato e maltrattamenti. La malnutrizione è molto diffusa. La detenzione di bambini da parte del governo malese viola il diritto internazionale. Sebbene il governo abbia discusso per anni di alternative alla detenzione per i bambini ci sono stati pochi progressi. Il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha chiesto che la detenzione degli immigrati venga gradualmente abolita, affermando che “i migranti non devono essere qualificati o trattati come criminali”.