È morto Riccardo Polidoro, il penalista napoletano che si batteva per un carcere umano di Davide Varì Il Dubbio, 6 marzo 2024 Responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane, l’avvocato attivo nella difesa dei diritti dei detenuti si è spento a 69 anni. L’addio dei colleghi: “Perdiamo forza e rappresentatività”. “Ha saputo coniugare, come nessuno, professione forense ed impegno civile, con la passione e l’eleganza che lo contraddistinguevano. Circa 20 anni fa, quando gli ultimi dovevano solo ‘pagare’ e non erano solo occasione per avere i riflettori accesi, ha compreso l’importanza della rieducazione nelle carceri, battendosi per legalità ed umanità della pena. Fondatore del Carcere Possibile onlus, ha ricoperto la carica di Responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane. La città, le istituzioni, il foro napoletano perdono, da stanotte, forza e rappresentatività. La comunità dei penalisti napoletani, affranta, si stringe intorno alla famiglia per la perdita dell’avvocato Riccardo Polidoro”. Con queste parole piene di commozione e orgoglio la Camera Penale di Napoli ricorda il penalista morto all’età di 69 anni: Polidoro si è spento nella notte all’ospedale di Pavia, dove era stato ricoverato per complicazioni al cuore. Avvocato di lungo corso, aveva dedicato la propria vita alla professione, fuori e dentro le aule di giustizia. Prima come legale impegnato nei principali procedimenti istruiti per reati di pubblica amministrazione, negli anni 90, e poi nella battaglia per l’affermazione dello Stato di diritto e dei diritti dei detenuti, come responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane e presidente dell’associazione Il Carcere Possibile. A sottolineare il suo impegno nelle carceri è anche l’Associazione Sbarre di Zucchero, che “esprime profonda tristezza nell’apprendere della scomparsa dell’avvocato” Polidoro, “nostro affezionato sostenitore”. “A Dio Riccardo carissimo. È una giornata molto triste per l’avvocatura, perdiamo un amico, un avvocato e un militante eccezionale, una persona perbene, un signore di altri tempi, una colonna portante della nostra Unione, un riferimento per il tema del carcere che ha sempre trattato con grande garbo, competenza e fermezza. Mancherà a tutta l’avvocatura e non solo”, è il messaggio di cordoglio Facebook l’avvocato Giorgio Varano. “Spieghiamo ai cittadini che non avranno mai sicurezza se la pena è inumana” di Riccardo Polidoro Il Dubbio, 6 marzo 2024 Riccardo Polidoro è stato, per il Dubbio, un compagno di battaglia. Resterà un esempio, resterà con la sua intelligenza e il suo generoso impegno nel pretendere un sistema penitenziario degno degli esseri umani, della Costituzione e dello Stato di diritto. Di fronte alla funesta spoon river dei suicidi dietro le sbarre, che nelle prime settimane dell’anno ha fatto registrare una sequenza terribile, con 21 vittime, lo scorso 15 febbraio Riccardo aveva firmato sul Dubbio un articolo indignato e combattivo: è il testamento che ci lascia e che qui vi riproponiamo con commossa gratitudine. I trattori hanno invaso le strade, bloccato il traffico tra il consenso della maggior parte dei cittadini, che, nonostante i disagi, hanno compreso e condiviso le ragioni della protesta che li coinvolge. Grande visibilità sui media alla lunga marcia, fino al nazional-popolare palcoscenico di Sanremo dove è stato letto il comunicato degli agricoltori. Quanto accaduto deve farci riflettere sull’importanza della conoscenza dei principi essenziali della convivenza sociale. I prodotti della terra sono indispensabili, per questo la popolazione è stata al fianco degli imponenti mezzi dalle grandi ruote che hanno bloccato le strade. Chi lavora la terra non deve essere sottopagato e le aziende del settore vanno sostenute e non sfruttate. È questione economica e prima ancora di coscienza! Coscienza che viene oscurata in tema di sicurezza sociale, più volte invocata e per la quale si usano rimedi per la maggior parte repressivi, a cui l’opinione pubblica plaude senza comprenderne la limitata efficacia. Si preferisce la facile punizione, invece di garantire un percorso di cambiamento e di crescita. È quanto avviene, contra legem, nei nostri istituti di pena, in parte fatiscenti e in cui i detenuti, nella maggior parte dei casi, subiscono ingiustamente un trattamento disumano e degradante, e il personale dell’amministrazione penitenziaria lavora in condizioni aberranti. L’opinione pubblica, che è lasciata in una strumentale ignoranza, pur consapevole che dentro le mura di un carcere e nei centri di prima accoglienza si viola costantemente la legge, chiede solo di “buttare la chiave”. La drammatica emergenza che stiamo vivendo in questi giorni, con un suicidio ogni 48 ore, 200 tentativi e migliaia di atti di autolesionismo che vedono protagonisti quasi sempre giovani detenuti, da poco entrati in carcere ovvero vicini alla liberazione, dovrebbe far comprendere a tutti che è, invece, necessaria un’immediata inversione di tendenza. La strage silenziosa e ignorata ha visto, il 13 febbraio scorso, il suicidio di un sessantaquattrenne nell’istituto penitenziario Don Bosco di Pisa, il diciannovesimo. Un uomo che godeva del regime di semilibertà, che usciva dal carcere per andare a lavorare e poi rientrava, soggiornando in un reparto dedicato a tali detenuti. Una volta dentro le mura, si è stretto una corda al collo, impiccandosi. Episodio che evidenzia l’assoluta assenza di attenzione sullo stato psico-fisico dei detenuti, anche di quelli che stanno per ritornare in libertà. Il malessere la fa da padrone e non concede sconti. Il giorno dopo, il ventesimo suicidio nel carcere di Lecce. Un uomo di 45 anni si è impiccato alle sbarre della sua stanza. L’ozio, la convivenza in piccoli spazi spesso fatiscenti e con servizi igienici inadeguati, l’assenza di attività educative e lavorative, i rari contatti con la famiglia, l’abbandono pur in presenza di patologie psichiatriche evidenti, i soprusi e le angherie subite, portano irrimediabilmente alla disperazione. Si muore! E se non si muore si resiste e una volta liberi si torna a delinquere, perché nulla di diverso è stato insegnato. L’unica possibilità di protesta per il detenuto è il rifiuto del cibo, che aggrava ancora di più il suo stato di salute. Perfino la battitura delle sbarre fatta con pentole e oggetti di ferro, manifestazione non violenta messa in atto per richiamare l’attenzione verso le loro disumane condizioni, nella speranza che il rumore valichi le mura del carcere, è stata stigmatizzata e scoraggiata per non dire espressamente impedita. Il cittadino che chiede costantemente maggiore sicurezza deve comprendere che il suo posto deve essere in prima linea a protestare per le continue violazioni di legge perpetrate nei nostri istituti di pena, che non “rieducano” il detenuto, ma lo rendono peggiore rispetto al suo ingresso in carcere. Più sarà lunga la condanna, più il rischio di recidiva è certo. Nel silenzio della Magistratura associata, l’isolata denuncia dell’Avvocatura, unitamente a quella di meritorie associazioni e di alcuni (pochissimi) politici, dovrebbe trovare unanime consenso nell’opinione pubblica e costringere il governo a far rispettare la legge anche negli istituti di pena, che non vivono un’extraterritorialità normativa. Più volte in questi anni l’Unione Camere Penali è giunta a proclamare l’astensione dalle udienze, per protestare sull’inerzia della Politica in merito all’Esecuzione penale, lo ha fatto anche recentemente e continuerà a farlo dinanzi all’assenza di immediati provvedimenti che possano far diminuire il sovraffollamento, e se non si realizzi una riforma strutturale del sistema penitenziario, peraltro già pronta per essere attuata e frutto del lavoro delle Commissioni ministeriali, dopo quello degli Stati Generali, a seguito della condanna che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha inflitto all’Italia. Nel documento dell’Ucpi “Non c’è più tempo” si ribadisce l’inerzia del governo dinanzi ai continui suicidi e a una situazione non più sostenibile. I rimedi immaginati per affrontare l’emergenza non solo sono inutili e dannosi, ma sono altresì irrealizzabili. In assenza di provvedimenti, quali modalità di protesta attuare? Gli avvocati non hanno trattori e i blocchi stradali non sarebbero un bel vedere in un Paese civile. È necessario informare correttamente l’opinione pubblica, per farle comprendere l’importanza della protesta, affinché venga condivisa e sostenuta, per una pena scontata legalmente in modo da restituire alla società una persona migliore. Le risposte date, nei giorni scorsi, dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria al Presidente della Repubblica, che lo aveva convocato perché preoccupato del numero crescente dei suicidi, smentiscono esplicitamente - come era chiaro e ovvio già a tutti - la possibilità che quanto annunciato dal governo per affrontare l’emergenza possa realizzarsi. La costruzione di nuove carceri ovvero l’uso di caserme dismesse non è praticabile perché mancano già ora risorse umane e finanziarie per far funzionare le strutture esistenti, senza contare poi i tempi di realizzazione, mentre l’emergenza è ora. Diminuiscono i posti disponibili e i detenuti aumentano con una frequenza di 400 unità al mese. Certamente nessun detenuto salirà mai sul palco di Sanremo, né l’onnipresente Amadeus leggerà un loro comunicato. I sessantamila detenuti sono e devono restare invisibili, abbandonati alle loro ingiuste sofferenze, mentre il Paese si scandalizza per un’imputata portata in ceppi in un’aula di Giustizia in un’altra nazione e tace sui bambini di pochi anni o addirittura mesi detenuti nelle nostre carceri insieme alle loro mamme. È, dunque, essenziale educare l’opinione pubblica e non solo “rieducare” i detenuti, come recita l’articolo 27 della Costituzione. I Penalisti italiani continueranno a farlo, nelle scuole, nelle Università, dovunque sia possibile, diffondendo la cultura della legalità che non ha confini e deve entrare immediatamente anche negli istituti di pena. La Facoltà di Architettura della Federico II: “La dignità del detenuto violata attraverso lo spazio” di Rossella Grasso L’Unità, 6 marzo 2024 “Dal numero dei suicidi in carcere sappiamo che sovraffollamento non significa semplicemente troppe persone in uno spazio ma troppe persone in spazi totalmente inadeguati, non pensati, casuali”. Ne è convinta Marella Santangelo, Ordinario di Composizione architettonica e urbana e delegata al Polo Universitario Penitenziario (PUP) dell’Università Federico II di Napoli. L’architetto da anni indaga un tema fondamentale per la dignità umana, quello dello spazio. Ed è ancor più fondamentale se questo spazio è quello della detenzione: non è solo la quantità ma anche la qualità a determinare o meno l’azione della detenzione sul singolo e quindi sulla collettività. “Per questo motivo lavorare sugli spazi vuol dire lavorare sull’essenza della detenzione. Non è un problema di metri quadrati”, spiega la docente. Suicidi in carcere e spazi inadeguati alla dignità - Santangelo parte dai dati: al cinque marzo 2024 sono già 22 i suicidi avvenuti in carcere. Peggio ancora rispetto al 2023 ritenuto da molti l’hannus horribilis delle carceri italiane quando sono state 68 le persone che hanno deciso di togliersi la vita in cella. Numeri che testimoniano che qualcosa non va e va cambiata con urgenza. Una di queste sono gli spazi. Ed è per questo motivo che Santangelo ha avviato una ricerca triennale finanziata dall’Ateneo Federico II sugli spazi della detenzione e del carcere. “Lavoriamo sul valore di questi spazi e sul senso della dignità del detenuto attraverso lo spazio - ha spiegato la docente che con il suo team è alla fine del primo anno di ricerca - Come lo spazio può negare la dignità e i diritti umani dei detenuti. E come invece uno spazio progettato, pensato, può avere un ruolo completamente diverso in questo tempo della detenzione”. “In carcere uno spazio progettato è fondamentale” - “È importante ragionare sugli spazi in carcere perché le persone sono chiuse in questi spazi, per un tempo anche molto lungo delle loro vite - spiega Santangelo - Per questo motivo finiscono per avere un ruolo determinante nella quotidianità, nelle relazioni, nella comunità dei detenuti. Ma sono importanti anche per questioni di salute: spazi insalubri nel senso più ampio creano problemi. Non è un caso che i detenuti hanno malattie specifiche della detenzione. Poi possono contribuire a dare loro dei momenti di benessere. E così diventano importanti lo spazio, gli arredi, che poi sono parte della quotidianità della vita di tutti noi. Anche la coabitazione diventa importante: non dimentichiamo che queste persone spesso devono con dividere gli spazi con persone non scelte. Anche in questo uno spazio pensato e progettato può aiutare nelle relazioni”. La docente studia da anni il carcere come luogo o meglio non luogo. Un ‘posto’ qualunque lasciato alla casualità degli eventi e che spesso genera disagi in tutti quanti lo vivono, non solo tra i detenuti. Santangelo è stata membro dell’ultima commissione del 2021 sull’architettura penitenziaria con la ministra Cartabia ed è certa che nelle carceri c’è davvero tanto da fare. “Io non credo che si debbano costruire nuove carceri - continua l’architetto - Sia perché la detenzione deve essere sempre l’ultima ratio della pena, sia è perché c’è da lavorare sull’esistente. Il nostro dipartimento studia molte carceri in varie parti d’Italia e sappiamo con certezza che c’è da lavorare sull’esistente: c’è da migliorare, efficientare dal punto di vista energetico. Ci vogliono molti soldi ma vanno spesi in questo non nella costruzione di altri carceri”. “Lo spazio ‘pensato’ nella prospettiva dell’uscita dal carcere” - Secondo la docente una grave mancanza delle carceri è che non ci sono spazi pensati per le diverse condizioni dei detenuti. “Ad esempio, ci sono persone in fine pena, persone in libertà vigilata che escono e tornano la sera. Tutto questo, insieme allo studio e al lavoro, fa parte di un lavoro che mira all’uscita dal carcere”. Così come stanno le cose, invece, le carceri italiane sembrano più un luogo di stasi, più o meno lunga, come uno sgabuzzino dentro al quale nascondere le cose inutili o rotte, una discarica sociale senza possibilità di recupero. “Voglio ricordare anche la sentenza della Corte Costituzionale sul diritto all’affettività - sottolinea la docente - Significa avere dei luoghi di intimità. L’intimità è un concetto che nel carcere non esiste. Noi invece abbiamo fatto molti progetti, che metteremo a disposizione dell’amministrazione regionale con la quale lavoriamo tanto, di spazi per la famiglia e per l’intimità con i partner. È ancora una volta un tema che riguarda gli spazi, l’architettura delle carceri”. Lo spazio del carcere femminile - In occasione della festa della donna, l’8 marzo, si svolgerà un seminario di conclusione del primo anno della ricerca finanziata dall’ateneo sugli spazi della detenzione e del carcere. “Questo primo anno di lavoro lo abbiamo centrato, un po’ per la conoscenza pregressa, sull’istituto di Pozzuoli che è una delle quattro carceri italiane solo per la detenzione femminile. Abbiamo deciso di lavorare su questo tema fondamentale che è il carcere pensato come luogo solo maschile in cui la questione di genere non è assolutamente affrontata se non in termini securitari, che è un altro aspetto da indagare. Ci sarà anche una mostra di fotografie di Mario Ferrara, architetto e fotografo, sui luoghi, sugli spazi, che raccontano i vuoti”. Lo studio: “Progettare azioni per ripensare le carceri” - Oggetto della ricerca e? il carcere un sistema spaziale inadeguato che rappresenta un rischio per l’incolumità dei detenuti e degli operatori. I dati attuali sulla condizione di sovraffollamento forniscono un quadro in cui i diritti civili sono molto limitati e la dignità dei detenuti minata dalle condizioni generali della pena detentiva. Con “spazi dei diritti” si definisce un articolato campo di fenomenologie in cui si elaborano i requisiti, le quantità e le qualità degli spazi della detenzione, per delineare una diversa idea di esecuzione della pena. La ricerca indaga la qualità degli spazi della detenzione, a partire dai diritti sanciti dalla Costituzione (art. 27 C.I.), al fine di definire un sistema di azioni trasformative per costruire un “modello abitativo” in carcere rispettoso dei diritti umani. La ricerca punta a sviluppare e testare, in modo innovativo, un’azione progettuale intesa come un percorso metodologico e strategico capace di creare un quadro conoscitivo “aperto” dello stato attuale delle carceri (l’atlante delle carceri); attraverso sperimentazioni puntuali si giunge a formulazioni locali, campane, concepite come terreno di confronto per una strategia complessiva su scala nazionale. Il quadro dei “diritti fondamentali” (Identità, Affettività, Salute, Educazione, Lavoro) guida l’acquisizione di conoscenze circa gli spazi di detenzione, le attività e i caratteri dei soggetti che vivono nell’universo carcere. L’indagine si focalizza sullo stato delle carceri nella regione della Campania, che diventano i casi studio esemplificativi. Per rispondere alla domanda di ricerca sul perché lo spazio arriva a limitare i diritti nella privazione della libertà? e quali azioni progettuali definiscono un modello abitativo ristretto rispettoso dei diritti dell’uomo, abbiamo individuato degli obiettivi che mirano all’acquisizione di conoscenze relative agli spazi di detenzione, alle attività e ai soggetti, alla definizione della relazione tra spazi e diritti nel contesto penitenziario, alla definizione delle questioni emergenti in riferimento ai casi selezionati, alla definizione di criteri progettuali e delle modalità operative finalizzate all’intervento sul patrimonio penitenziario esistente, alla costruzione di una strategia di azione progettuale. Il convegno l’8 marzo: Carcere / s.m. _Carceri / s.f. Detenzione femminile, spazio e comunità in carcere - Nell’ambito del ciclo di seminari RISP - Right to space, space of rights venerdì 8 marzo 2024, dalle ore 9,00 nell’Aula Magna di Palazzo Gravina, il Dipartimento di Architettura dell’Ateneo Federico II presenta il seminario per riflettere assieme a docenti, ricercatori, dirigenti del dipartimento di amministrazione penitenziaria, esponenti di associazioni, sul tema degli spazi all’interno del carcere. Occasione per presentare il lavoro del primo anno della ricerca triennale sugli spazi della detenzione finanziato dall’Ateneo Federico II, che indaga attraverso gli spazi del carcere e i diritti dei reclusi una diversa idea di esecuzione della pena, in un momento storico in cui riemerge drammaticamente il problema del sovraffollamento degli istituti penali. Tra i relatori quelli del direttore del Dipartimento di Architettura Michelangelo Russo e della responsabile della ricerca Marella Santangelo. Lectio di Grazia Zuffa, psicologa, presidente della Società della Ragione onlus. Tavola rotonda con, tra gli altri, la psicologa Anita Rubino, il direttore della Casa Circondariale femminile di Pozzuoli Maria Luisa Palma, Paola Cisternas Navarro dell’Osservatorio Regionale Antigone e Carmelo Cantone, già Vicecapo DAP. Nel cortile di Palazzo Gravina sarà inaugurata una mostra fotografica sullo spazio recluso di Mario Ferrara, dall’8 marzo al 5 aprile. In carcere ci sono più minori. Così il ddl Caivano fa regredire il Paese di Giuseppe Spadaro* Il Domani, 6 marzo 2024 La giustizia penale minorile italiana - considerando che in Europa si è guardato al nostro sistema come ad un modello da seguire - forse non meritava le involuzioni normative recenti, che rischiano di riportaci indietro almeno di qualche decennio nella storia giuridica del nostro Paese. A partire almeno dal 1988, con l’entrata in vigore del codice di procedura penale minorile, l’Italia aveva scelto un’altra via dove “ragazzi dentro”, ovvero la risposta detentiva, era considerata l’extrema ratio. In direzione almeno parzialmente diversa, invece, va il recente intervento del Legislatore - il cosiddetto decreto Caivano - che ha apportato modifiche rilevanti in tema di prevenzione della violenza giovanile. Un primo vaglio dei suoi effetti si ricava dal Settimo Rapporto sulla giustizia minorile in Italia presentato dall’associazione Antigone, che è stato divulgato all’indomani delle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario che, in molti Distretti, hanno posto l’attenzione proprio alla persistente gravità del fenomeno dei giovani e giovanissimi autori di reato. Gli ingressi in istituti penitenziari minorili risultano in netto aumento con 1.143 casi nel 2023, la cifra più alta negli ultimi quindici anni e la presenza oggi è fatta soprattutto di ragazzi minori d’età e la fascia anagrafica più rappresentata è quella dei 16 e 17 anni. Inoltre, i ragazzi entrati in IPM in misura cautelare sono 340 nel gennaio 2024, mentre erano 243 un anno prima. Altro effetto del decreto citato - aggiunge l’associazione Antigone - “è la notevole crescita degli ingressi in IPM per violazione della legge sugli stupefacenti, con un aumento del 37,4% in un solo anno”. Il rischio - Data questa tendenza, non può sfuggire che siamo di fronte al rischio che sia messo in discussione un sistema penale che, secondo la normativa nazionale e sovranazionale, negli ultimi decenni ha in ogni modo posto al centro i giovani e i giovani adulti autori di reato cercando di costruire, per loro e per la collettività, un futuro diverso e lontano dagli eventi delinquenziali. Fatalmente, quando riemerge questo bisogno sociale di punire, si sa, che a farne le spese per primi sono sempre i più giovani, soprattutto se più fragili ed esposti. Infatti, le loro trasgressioni ed i loro agiti devianti sono quelli più facili da stigmatizzare e più facilmente visibili, del resto il loro calcolo dei rischi è grossolano così come il loro bisogno di violare norme e consuetudini. Dunque, è probabilmente più facile perseguirli e punirli in quanto rappresentazione più evidente di minaccia e di disagio per la società. L’emergenza è educativa, ma ancora più allarmante è la cecità delle istituzioni e della società tutta, che vede questi ragazzi come nemici da neutralizzare e non come risorse. E che soprattutto non si rende conto che il fenomeno è il frutto della sua stessa indifferenza e dell’emarginazione sociale che contribuisce ad alimentare ogni giorno, dai gesti più piccoli a quelli più eclatanti. E la risposta non può essere solo repressiva. Non per individui adulti e formati, figurarsi per gente che ha ancora “tutto” da costruire. Baby gang - Una ricerca del Dipartimento di Scienze Giuridiche di Bologna ci avverte di prestare attenzione anche al ruolo determinante che negli ultimi anni stanno giocando i media nel dare visibilità al fenomeno delle “baby gang”: “Definire così pressoché ogni episodio conflittuale nello spazio pubblico in cui sia coinvolto più di un giovane, contribuisce a creare un clima sociale di intolleranza verso il problema e non aiuta alla sua comprensione”. Lo studio dimostra che la violenza minorile va trattata come una espressione di richieste di spazio, di identità, di visibilità a cui il mondo degli adulti e le istituzioni non stanno fornendo risposte adeguate. Un’acquisizione irrinunciabile della giustizia minorile è considerare la punizione mai avulsa da un contesto educativo positivo, e soprattutto come uno spazio, un tempo ed un’opportunità per il giovane di cambiamento, innanzitutto dall’agire al pensare. Condizione per cogliere realmente la possibilità di essere capace, in qualche modo, di riparare il danno fatto; di sentirsi responsabile dei propri agiti e di potersi attenere alle regole di convivenza vissute non solo come un’imposizione priva di significato. Tutti abbiamo commesso errori nella nostra vita e dalle punizioni subite ne abbiamo tratto vantaggio; ma quando siamo stati messi in grado di ricrederci e di intraprendere percorsi di vita diversi, di comprendere le conseguenze negative dei nostri errori e abbiamo avuto la possibilità di constatarle attraverso l’incontro con la sofferenza provocata, ne siamo usciti persone migliori. *Presidente del Tribunale dei minori di Trento Donne in carcere: “Sbarre di zucchero” lotta contro la loro doppia pena di Luisa Brambilla iodonna.it, 6 marzo 2024 Donne in carcere: la pena è più gravosa perché il sistema è pensato per gli uomini. Intervista a Micaela Tosato, di Sbarre di Zucchero. A dar vita a Sbarre di zucchero, movimento che sensibilizza su tutte le tematiche inerenti la vita carceraria, in particolare quella delle donne in carcere, è Micaela Tosato. Ha avviato l’associazione come account social nell’agosto di due anni fa e in breve tempo si è affermata come associazione che ha referenti in tutta Italia. È oggi uno dei canali che testimonia quotidianamente sulla condizione due volte penalizzante delle donne in carcere. Perché la pena delle donne in carcere è doppia - Doppia pena perché le 2392 donne “ristrette”, secondo i dati del più recente rapporto pubblicato, dall’associazione Antigone nel 2023, sono il 4 per cento della popolazione carceraria complessiva. Doppia pena perché “tutto quello che riguarda le donne in carcere è di risulta, il carcere è un’istituzione pensata su misura per gli uomini. E se per i maschi le difficoltà sono tantissime, per le femmine sono ancora di più” spiega Micaela. Come è nato “Sbarre di Zucchero”? “Sbarre di Zucchero nasce nell’agosto 2022 come un gruppo social perché nella notte tra l’uno e il 2 agosto si suicida Donatella Hodo nel carcere di Verona. Donatella è stata mia compagna di cella e amica di molte ragazze con cui abbiamo aperto il gruppo. Se ne è andata inalando tre bombole di gas. Non se ne sono accorti né al momento del cambio turno, né a quello di consegna della terapia medica, né alla colazione né per molto tempo dopo. E quando l’hanno trovata morta, l’intenzionalità del gesto era resa evidente dal fatto che ha lasciato un biglietto al fidanzato in cui era palese la sua intenzione di uccidersi” spiega l’attivista per i diritti delle carcerate e dei carcerati. I numeri dei suicidi e del malessere psichico... Donatella è una delle 85 persone che si sono tolte la vita nelle carceri italiane nel 2022, di cui cinque donne. I tentati suicidi delle donne sono 3,7 ogni 100 detenute contro l’1,6 ogni cento negli istituti maschili. Una doppia pena, anche in questo caso, una doppia fatica di vivere. Fuori dal carcere in Italia il tasso di suicidi, sopra i 15 anni, è dell’11,8 per centomila tra gli uomini e 3 per centomila tra le donne. Sempre il report di Antigone 2023 segnala come nelle donne detenute i casi di autolesionismo siano il doppio che negli uomini, l’uso abituale di psicofarmaci, precedente o contemporaneo all’ingresso in carcere riguardi il 63 per cento delle ristrette. Perché la morte di Donatella ha messo tutto in moto? Torniamo a Micaela Tosato: “Ci sono state fatte pressioni perché non si parlasse del suicidio. Tra le donne presenti nelle due sezioni femminili era già stata fatta girare la voce che Donatella aveva “esagerato” a stordirsi con il gas e che la sua morte fosse perciò un incidente. Ne ho parlato con Monica Bizaj, che oggi è la presidente di Sbarre di Zucchero, e siamo state d’accordo che non si potesse stare ancora una volta in silenzio. Abbiamo cominciato raccontando le nostre storie su Fb, nel giro di un mese era davvero imponente il numero di quanti ci spronavano ad andare avanti, familiari, detenuti ed ex, avvocati, garanti dei detenuti, medici che lavorano nelle carceri. Centinaia di persone. Abbiamo deciso di parlare dell’abbandono più forte che c’è nel femminile rispetto al maschile, e di questo ghetto nel ghetto, a metterci la faccia. Abbiamo organizzato eventi in presenza, siamo andate a parlare a Roma, Verona, Napoli. E e ci siamo costituiti in associazione nazionale dal settembre del 2023. Abbiamo un tavolo di lavoro con l’università di Roma sulla detenzione femminile. “Sbarre di zucchero” e l’8 marzo... Sbarre di zucchero l’8 marzo a Verona ha organizzato Donne fragili scarto nello scarto dalle 16 alle 18 in collaborazione con Demos e Azione comunitaria. E alle detenute del carcere di Verona, Santa Maria Capua Vetere e di alcune sezioni femminili della Calabria saranno donati prodotti per il make up. Il 12 aprile poi a Milano in Sesta opera andiamo a parlare di donne in carcere, anche nel carcere minorile, una altra realtà di cui nessuno parla” anticipa Tosato. Perché Sbarre di zucchero è un punto di riferimento? “La nostra popolarità, dire successo mi sembra brutto, dipende dal fatto che non ci siamo mai nascoste, ci abbiamo sempre messo la faccia e che riferiamo situazioni a prova di smentita. Riteniamo che il detenuto sia uomo che donna sia un portatore di diritti. Tu mi prendi la libertà e io pago quello che è giusto, ma quando ho pagato ho il sacrosanto diritto di ricominciare e di rifarmi una vita. Invece, anche questo è molto difficile, sia per i pregiudizi che trovi fuori, sia per la mancata preparazione all’uscita che è fatta fuori. Donatella è il simbolo di tutto quello che non funziona in carcere” prosegue Micaela. Di che cosa parlate sui vostri canali? “La nostra attività è di denuncia, ma fatta da chi il carcere lo vive, chi entra nel carcere a ogni livello e ne sente la puzza. E poi siamo riusciti ad acquistare ulteriore autorevolezza, attraverso i referenti regionali, che sono professori universitari e che hanno un certo ambito intorno, che entrano in carcere che non hanno scontato pene e che credono in questo lavoro. Noi ci troviamo con tantissime segnalazioni da parte delle famiglie di problemi all’interno del carcere, perché succede di tutto dentro e riusciamo a intervenire, e quindi abbiamo una rete di volontari che entrano, di avvocati e riusciamo a risolvere qualche problema dentro. Ci segnalano chi è picchiato. Magari da altri detenuti, perché si ponga rimedio. O dove manca l’acqua. Ad Avellino l’acqua qualche settimana fa veniva chiusa alle 18. Avendo portato alla conoscenza dell’opinione pubblica la circostanza, il problema si è risolto” racconta la nostra interlocutrice. Sbarre di Zucchero si concentra sui problemi delle donne? “Siamo partiti dalle donne. Il nome completo dell’associazione è … quando il carcere è donna in un mondo di uomini. Adesso è per donne e uomini perché non era mai stata fatta una cosa così per i maschi. Ora è diventato sbarre per tutti. Il nostro focus è la detenzione femminile ma il diritto è per tutti. Le donne sono più penalizzate perché avendo solo 4 carceri femminili - Trani, la Giudecca a Venezia, Roma e Pozzuoli, il resto, 40 sezioni, è ricavato da spazi delle carceri destinate agli uomini. È una detenzione di risulta fai fatica ad aver corsi ad avere istruzione. Al femminile fai uncinetto, non hai una formazione professionale seria come succede per i maschi” La scuola in carcere per le donne non esiste quasi... A Verona, da dove la nostra iniziativa si è messa in moto, ad esempio, per i detenuti maschi c’è un corso di formazione alberghiera e uno per gli odontotecnici. C’è un’area cani e uno spazio per i cavalli, che potrebbe essere di svago anche per le donne; invece, è solo per il maschile. Donne e uomini sono tenuti separati e le donne sono troppo poche per organizzare corsi. Così sono doppiamente penalizzate. Ci sono solo corsi di alfabetizzazione, in pratica” dice la promotrice di Sbarre di Zucchero. Chi sono le donne in carcere? Sono le donne sinti che fanno tantissimi furtarelli, ma proprio perché sono tanti scontano in carcere la detenzione. E sono in carcere anche il tempo in custodia cautelare, prima dell’erogazione della pena, con il processo. Infatti, le roulotte non sono considerate domicilio, in quanto non hanno numero civico e quindi non abilitano agli arresti domiciliari. Molte di queste ragazze non sanno né leggere né scrivere, per cui serve un corso di alfabetizzazione, prima che di formazione. E poi sono le donne tossicodipendenti che rubano per procurarsi le sostanze e che spesso sono senza dimora. E senza famiglie che le sostengono. Cosa dice il rapporto Antigone? Le donne straniere sono il 4 per cento degli stranieri detenuti, quindi con una percentuale pari a quella dell’intero universo carcerario. E sono però il 30 per cento delle donne detenute, un dato in flessione rispetto al 2022. Le donne in carcere hanno un’età media maggiore degli uomini: il 21 per cento ha tra i 50 e i 59 anni. il 14 per cento dei reati sono per droga, un altro 14 per cento contro la persona, il 28 per cento dei reati per cui le donne sono in carcere sono furti e rapine. Delle donne ristrette al momento della stesura del rapporto su 2392 donne, 1598 condannate. Le altre in attesa di giudizio. Anche finita la pena per le donne è più dura? “Il reinserimento comincia con la formazione, con la possibilità di lavorare, magari anche con la possibilità del regime di semilibertà, uscire di giorno per lavorare e tornare in carcere di notte. Uscire per lavorare permette di riprendere in mano i rapporti con la società. Esco che ho una rete e qualcosa da spendere. Ma se io resto sempre dentro, ed esco all’improvviso con le mie cose dentro un sacco della spazzatura, tutto è tremendamente difficile” risponde l’attivista di Sbarre di Zucchero. Solo l’8,6 per cento delle detenute svolge un lavoro commissionato dall’esterno, il 41 per cento all’interno della struttura, sono compiti a basso impegno e bassa retribuzione, segnala ancora il rapporto Antigone. 8 Marzo: i Radicali visiteranno le sezioni femminili di diverse carceri lospiffero.com, 6 marzo 2024 In occasione dell’8 marzo, Giornata Internazionale della Donna, le delegazioni del Partito Radicale visiteranno diversi istituti penitenziari femminili italiani. “Quest’anno abbiamo pensato che fosse quanto mai necessario richiamare l’attenzione sulle donne detenute e sui bambini in carcere. Non è il classico modo per festeggiare la giornata delle donne ma pensiamo che sia il modo più appropriato per farlo. È un modo per cercare di porre l’attenzione sulle donne detenute, sulle loro condizioni di detenzione e per continuare a tenere aperto il capitolo della detenzione. Il capitolo carceri è un problema non solo italiano, non solo dei paesi autoritari ma dell’occidente e dell’intera Europa. Per questo motivo stiamo lavorando perché si arrivi a una carta penitenziaria europea”, ha detto il segretario del Partito Maurizio Turco. L’iniziativa, “Un fiore per le donne”, si svolgerà nei seguenti istituti: Roma, Casa Circondariale Femminile di Rebibbia; Torino, Casa Circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno” - Sezione Femminile; Genova, Casa Circondariale Genova Pontedecimo - Sezione Femminile; Teramo, Casa Circondariale di Teramo “Castrogno” - Sezione Femminile; Bologna, Casa Circondariale di Bologna, Rocco D’Amato - Sezione Femminile; Palermo, Casa Circondariale Pagliarelli, Palermo - Sezione Femminile; Pozzuoli, Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli; Pisa, Casa Circondariale di Pisa, Don Bosco - Sezione femminile; Forlì, Casa Circondariale di Forlì - Sezione Femminile; Roma, Istituto Penale Femminile per Minorenni Casal del Marmo Milano, Carcere Francesco Cataldo “Carcere San Vittore” - Sezione Femminile. Test psicologici sulle toghe, sì pure alla Camera di Errico Novi Il Dubbio, 6 marzo 2024 Come già avvenuto in Senato, ieri anche la commissione Giustizia di Montecitorio ha approvato un parere che suggerisce al Governo i controlli sui neo magistrati. Costa: “Ma sui fuori ruolo è un flop”. Convinto che, se già all’epoca in cui era un aspirante civilista, fossero state in vigore le verifiche sull’equilibrio delle toghe, quella scena non l’avrebbe vissuta. Magari non c’entra il fatto che anche alla Camera, come al Senato, di avvocati ce ne sono abbastanza, ma comunque ieri la commissione Giustizia di Montecitorio ha approvato analogamente a quanto era avvenuto a Palazzo Madama con il testo dell’azzurro Pierantonio Zanettin - l’invito all’Esecutivo a “valutare la possibilità” di prevedere i controlli psicologici in fase d’ingresso, cioè per i futuri concorsi, in magistratura. Il suggerimento è stato inserito nel parere sulla parte generale della riforma, proposto dal meloniano Ciro Maschio, che della commissione Giustizia della Camera è il presidente. Adesso la palla passa a Carlo Nordio. La riforma dell’ordinamento giudiziario (e del Csm) ha quasi completato il suo laborioso percorso di “valutazione parlamentare”, cioè l’esame e la conseguente espressione dei pareri, necessari ma non vincolanti, delle commissioni di Montecitorio e Palazzo Madama. Sarà il guardasigilli, in Consiglio dei ministri, a proporre se accogliere o meno le indicazioni messe nero su bianco e approvate dal Parlamento. Ma tutto lascia credere che, anche per l’invito a prevedere i controlli sull’equilibrio dei magistrati, le previsioni di deputati e senatori, in gran parte sovrapponibili tra loro, saranno accolte per intero, e che dunque, nell’emanazione definitiva dei decreti attuativi della riforma (cioè della legge delega firmata da Marta Cartabia), i test psicoattitudinali ci saranno. Basta citare le considerazioni raccolte dal direttore del Foglio Claudio Cerasa nella lunga intervista al guardasigilli pubblicata ieri: “Nel mio primo libro sulla giustizia, nel 1997, sostenni addirittura la necessità di un esame psichiatrico, anche perché vi erano stati casi di comportamenti a dir poco eccentrici da parte di alcuni colleghi. Il professor Giuseppe Di Federico, massima autorità in materia, ne ha documentati molti. Il test psicoattitudinale è ormai obbligatorio per chi riveste funzioni importanti. Se lo fanno i poliziotti, perché non deve farlo il pm che dirige la Polizia giudiziaria? L’autocertificazione di virtù e di equilibrio da parte della magistratura è irrazionale e persino offensiva verso le altre categorie di operatori, che si sottopongono al test senza sentirsi umiliati”. Non è una dichiarazione di guerra alla magistratura. Anche perché non viene percepita come tale dalla stessa Anm. Di sicuro è la conferma di quanto anticipato sabato scorso su queste pagine, quando abbiamo segnalato che Nordio non ha alcuna particolare riserva sui test psicoattitudinali, e che la sola clausola ritenuta necessaria, per il ministro, riguarda i limiti temporali delle verifiche, non applicabili a chi è già in sevizio, a chi già oggi riveste funzioni di giudice o pm. Un limite ritenuto indispensabile, a via Arenula, per scongiurare il rischio che il sistema giustizia vada in tilt: a fronte di eventuali inadeguatezze improvvisamente svelate dai controlli, verrebbe compromessa l’autorevolezza delle decisioni fino a quel momento assunte da un determinato giudice. Non è una dichiarazione di guerra all’Anm anche se si tiene conto di quanto detto sabato scorso dal presidente Giuseppe Santalucia a margine della riunione del cosiddetto parlamentino: le perplessità riguardano il contenuto e le modalità delle verifiche ma non la loro praticabilità in senso assoluto. Soprattutto, la magistratura associata avverte il bisogno di contrastare il messaggio che teme possa essere veicolato dall’introduzione dei test, cioè che l’ordine giudiziario sarebbe popolato da sconsiderati inaffidabili. Un’idea che, per la verità, i parlamentari di maggioranza, al di là di battute e aneddoti, negli ultimi giorni si sono ben guardati dal sostenere. D’altra parte, la dialettica fra maggioranza e potere giudiziario mantiene una certa ambivalenza. È vero che sempre nell’intervista al Foglio di ieri, Nordio ha ribadito la promessa di portare avanti la separazione delle carriere, attesa fra meno di tre settimane nell’aula di Montecitorio, ma è vero pure che la stessa riforma dell’ordinamento giudiziario in cui sono stati prospettati, dalle due commissioni Giustizia, i test psicoattitudinali, sancirà il clamoroso dietrofront sul taglio dei magistrati fuori ruolo. Ieri, nella commissione Giustizia della Camera, oltre al parere proposto da Maschio, è stato approvato anche quello firmato dalla leghista Simonetta Matone relativo appunto alla parte della legge delega di Cartabia che prevedeva la riduzione delle toghe “distaccate”. “Il passo indietro registrato sul punto”, spiega al Dubbio il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, “è tale da indurci a rivedere la nostra posizione sul guardasigilli, con il quale finora pure c’erano stati punti di convergenza. Intanto abbiamo detto sì al parere Maschio, che aggiusta almeno parzialmente un altro travisamento della riforma, e cioè i limiti al fascicolo di valutazione del magistrato, ma abbiamo votato contro il parere Matone. Innanzitutto perché i fuori ruolo vengono ridotti, nel loro numero massimo, da 200 a 180, e già questo è un sostanziale tradimento della delega. Poi la beffa intervenuta col rinvio al 2026 di questa già risibile riduzione. Ma la cosa più insopportabile, e al limite del cortocircuito procedurale, è l’eccezione prevista per quei magistrati che, all’entrata in vigore delle nuove norme, risultino già impiegati fuori ruolo presso qualche ministero o in altri organi: nel loro caso non si applicherà il nuovo limite temporale di 7 anni fissato per la durata del distacco, e le toghe beneficiate dalla clausola potranno dunque arrivare a 10 anni, come avveniva con la vecchia disciplina. Una cosa irragionevole che rivela il cortocircuito di una riforma di fatto scritta, fin dall’elaborato della commissione ministeriale Galoppi, proprio dai magistrati fuori ruolo...”. Costa ne fa un problema di “autonomia della magistratura, principio evidentemente incompatibile con questa debordante presenza nei ministeri e negli organi costituzionali”, e di “separazione dei poteri che va ancora una volta a farsi benedire”. Ma la strada è segnata: i pareri parlamentari, che prevedono appunto da parte di entrambe le Camere l’ulteriore rinvio e ridimensionamento della sforbiciata ai fuori ruolo, sono stati scritti in modo da corrispondere a quanto il Consiglio dei ministri sancirà in sede di emanazione definitiva dei due decreti legislativi. È ormai consolidata, questa “elaborazione condivisa” fra commissioni parlamentari e governo, quando si tratta di provvedimenti che attuano una riforma. Oggi l’iter sarà completato con il via libera al documento proposto da Sergio Rastrelli, di FdI, proprio sui magistrati in distacco: si sarebbe potuto chiudere ieri, ma la presidente della commissione Giustizia del Senato Giulia Bongiorno ha concesso altro tempo per l’esame di eventuali pareri di minoranza. E poi l’organismo di Palazzo Madama è stato impegnato ad approvare, in sede deliberante, la legge istitutiva della commissione d’indagine sul cosiddetto caso Forteto, la comunità in cui, secondo gli accertamenti processuali, si sarebbero consumati abusi sui minori. Un percorso già seguito nella precedente legislatura, per il quale si è particolarmente impegnata la senatrice di FdI Donatella Campione. Con i test psicoattitudinali si indebolisce la figura del magistrato e si infrange la Costituzione di Paolo Maddalena* Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2024 Mercoledì, 28 febbraio 2024, la Commissione Giustizia del Senato, nell’esprimere “parere favorevole” sul decreto attuativo della riforma Cartabia del 2022 sull’ordinamento giudiziario, licenziato a novembre dal Consiglio dei Ministri, ha inserito nel parere l’”incoraggiamento” a prevedere “test psicoattitudinali” per “aspiranti magistrati”. Questo “incoraggiamento”, che può apparire di carattere marginale, è in realtà un ennesimo provvedimento, minuto e insidioso, che inerisce a una politica perseguita da tempo dai governi degli ultimi trenta anni, ed ora, in modo davvero concludente, dall’attuale governo in carica, il cui fine ultimo è quello di concentrare i poteri in una sola persona, e dare così un colpo finale all’unità del “Popolo italiano”, e a ciò che resta del nostro “Stato comunità”. A ben vedere, l’aspetto fortemente negativo di questo “incoraggiamento” sta nel fatto che esso agevola l’accentramento di poteri nell’Esecutivo, “indebolendo”, con estrema “ristrettezza di vedute”, la stessa “figura” del magistrato. Infatti, non può sfuggire che il ricorso ai “test psicoattitudinali” per l’aspirante magistrato (che si distinguono dai “test psicologici”, assolutamente impensabili in materia), è conseguenza di un “declassamento” culturale dell’altissima “funzione” del “giudicare”. Se è vero che il possesso di certe “attitudini” è indispensabile per lo svolgimento di certe attività specialistiche, come quella, ad esempio, di guidare un treno, per le quali giustamente si richiede una non normale capacità di attenzione ai dettagli, di sopportazione di situazioni di grande stress, di resistenza a un lavoro sotto pressione, e così via dicendo, è altrettanto vero che per l’attività del magistrato quello che conta non sono tanto le singole attitudini, ma quel complesso indefinibile di caratteristiche di mente, di cuore e di cultura, che sono il presupposto indispensabile per l’esistenza e lo sviluppo di una “persona” che sia davvero in grado di “giudicare” i propri simili e i correlati conflitti di interessi. E non si dimentichi che “essenziale” è quell’innato senso di “giustizia” che è in ciascuno di noi, e che si esprime, storicamente, nei principi di “libertà, eguaglianza, solidarietà”, che hanno ispirato le più recenti Costituzioni e Carte internazionali del secondo dopo guerra. Ne consegue che, ai nostri fini, lo strumento più idoneo per l’ammissione in magistratura resta il ricorso alle tradizionali “prove e scritte e orali”, i cui testi siano preparati e corretti da magistrati di lunga esperienza e di grande e lungimirante cultura. Insomma, è da ribadire che non sono da dimostrare “attitudini particolari”, ma quell’insieme di doti che rendono alta la figura di chi è chiamato a “giudicare”. Come diceva Calamandrei, l’ultima difesa del cittadino è quella di “ricorrere alla coscienza del giudice”, e cioè alla sua “indipendenza” di giudizio. Né può sfuggire che questo “incoraggiamento” viola in pieno la vigente Costituzione repubblicana. Esso infatti, non solo non rientra nell’oggetto della legge delega della Cartabia sulla riforma della giustizia (e non può quindi essere inserito nel relativo decreto di attuazione), ma è addirittura in evidente e totale contrasto con i “principi fondamentali” della nostra Carta costituzionale, principi che non possono essere intaccati neppure da una legge di revisione costituzionale. Né sfugga che questo “incoraggiamento” all’adozione dei “test psicoattitudinali”, indebolendo e, in un certo senso tecnicizzando, la “figura” del “giudice”, appare anche come il frutto dello spericolato agire dell’attuale governo in settori particolarmente delicati ed impropri, come quello dell’abrogazione di fondamentali reati, oppure della non approfondita accettazione di inammissibili richieste degli speculatori economico finanziari. Attenzione! È da piccoli fori che possono intravvedersi pericolose realtà. *Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale Il presidente dell’Anm: “La stampa deve dare notizie vere. La banca dati della Dna è preziosa” di Giulia Merlo Il Domani, 6 marzo 2024 “Il giornalista verifica che l’informazione sia fondata, non da dove la fonte l’ha presa”. I presunti usi illeciti di strumenti dell’Antimafia “sono stati individuati: il sistema di prevenzione funziona”. L’inchiesta di Perugia sulla presunta fuga di notizie dalla banca dati della procura nazionale antimafia vede tra gli indagati un finanziere, un magistrato e anche tre giornalisti d’inchiesta di Domani. La vicenda solleva interrogativi sul rapporto tra organi inquirenti e stampa e sulla libertà di informazione. “Un diritto che va tutelato, anche se oggetto di costante bilanciamento”, dice il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia. L’indagine ipotizza un utilizzo abusivo del sistema informatico della procura nazionale antimafia. Rischia di metterne in discussione l’operato? L’indagine è in corso e il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo come anche il procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, hanno chiesto di essere auditi nelle sedi competenti, quindi aspettiamo di comprendere bene i contorni della cosa. Da quanto è dato capire, ci sono stati accessi abusivi a banche dati, e questo andrà valutato nella individuazione delle responsabilità dei vari soggetti coinvolti. Quello che mi sento di notare è che le banche dati sono uno strumento prezioso: giovano alle indagini, all’accertamento, e sono molto utili anche come strumento di prevenzione del crimine. Devono essere usate con cautela e l’utilizzo illecito e va punito, ma lo strumento in sé - a partire dalle sos, le segnalazioni di operazioni bancarie sospette - è di grande importanza. Il mio auspicio è che non se ne perda di vista il rilievo in momenti come questo, in cui emergono notizie su usi abusivi e lesivi dei diritti di molti soggetti. Anche perché l’inchiesta in corso dimostra che il sistema di controllo funziona e che non sfuggono alle necessarie valutazioni gli eventuali illeciti di singoli operatori. L’inchiesta coinvolge polizia giudiziaria, magistrati e giornalisti, indagati in concorso per accesso abusivo alla banca dati. Che rapporti ci dovrebbero essere tra questi soggetti? La risposta nella teoria è semplice: rapporti che rispettino le norme. Il processo penale acquisisce conoscenze per produrre una ricostruzione dei fatti attraverso il sistema delle prove, come codificato dalla legge. Queste conoscenze, poi, sono messe a disposizione della società e quindi della stampa, che ha il compito di informare. Tranne i casi quantitativamente contenuti in cui c’è obbligo di segreto, la stampa può attingere dalle conoscenze che si formano nel processo e, quando hanno interesse pubblico e rilevanza sociale, ha il dovere di divulgarle. Nel concreto, esiste il rischio che alcuni operatori violino i doveri di riservatezza, rendendo il rapporto tra stampa e organi inquirenti meno virtuoso. La libertà di stampa può essere per questo messa in discussione? Il diritto di informare e di essere informati è di rango costituzionale e fa parte anche della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e del cittadino. Va bilanciato con altri diritti, come quello alla riservatezza, ma il giornalista ha il diritto e dovere di pubblicare notizie se queste sono vere, sono di interesse pubblico, stando sempre attento a non farne strumento di attacchi personali. Se pubblica notizie coperte da segreto? Secondo la giurisprudenza maggioritaria, l’esimente del diritto di cronaca opera soltanto in riferimento ai reati commessi per mezzo della pubblicazione della notizia, e non anche in riferimento agli eventuali reati commessi per entrare in possesso della notizia. È però pur vero che qualche posizione giurisprudenziale si è spinta più in là, ritenendo che l’esimente si estenda oltre e possa quindi giustificare le condotte illecite compiute dal giornalista per procacciarsi la notizia. È possibile mettere sullo stesso piano giornalisti e organi inquirenti? Il giornalista non ha il dovere di verificare se la notizia sia stata appresa in modo legittimo dalla sua fonte. L’unico dovere che ha è verificare che sia fondata e, in questo caso, la pubblica assolvendo al suo diritto di cronaca. Discorso diverso è il caso in cui il giornalista partecipi consapevolmente della condotta criminosa di chi la notizia gli fornisca, ad esempio istigando un pubblico ufficiale a rivelare un segreto d’ufficio. In tal caso, partecipa alla condotta criminosa di rivelazione di un segreto. Si è tornati a parlare di dossieraggi e sinergie illecite tra stampa e pm... Io non ho esperienze di sinergie viziose in questo senso, né ho mai avuto conoscenza diretta o indiretta di patti scellerati tra informazione e toghe. Mi limito a dire che negli ultimi anni la legislazione ha fatto molti passi avanti nel creare meccanismi che disincentivino condotte o prassi illegali. Penso soprattutto alle intercettazioni, che sono uno strumento molto invasivo. Con le norme varate anni fa, le rivelazioni indebite del passato non si verificano più, come è stato affermato dal Garante della Privacy in occasione dell’audizione dinnanzi alla commissione Giustizia del Senato. Ma il legislatore ha promosso norme per impedirne la pubblicazione... La mia impressione è che si dia maggior attenzione a questo, che è un effetto a valle, più che a disciplinare le intercettazioni come mezzo di prova. Il diritto alla riservatezza dei terzi e anche degli indagati, per le vicende estranee al reato va salvaguardato, ma molto è stato già fatto e non capisco bene quali ulteriori rafforzamenti il governo senta la necessità di introdurre. Anche perché, se i dati personali del terzo sono rilevanti come fonte di prova, questi devono emergere e non possono essere confinati nel segreto. C’è il rischio che si arrivi a non poter più parlare di inchieste in corso? Io credo che parlare di una inchiesta non significhi violare il segreto investigativo. L’indagine non è tutta segreta, lo sono gli atti di indagine, quindi alcuni atti, e per un tempo definito. Il dosaggio della segretezza va ben calibrato e il nostro sistema, autenticamente democratico, non tollera eccessi di segretezza. Avverto in questa direzione un pericolo: per tutelare i soggetti privati si tende ad ampliare la sfera della segretezza, ma l’antidoto all’abuso di potere è la trasparenza, che passa anche attraverso il ruolo della stampa. Per questo il bilanciamento deve essere ben calibrato. Tutti insieme ai costruttori di giustizia di don Luigi Ciotti Avvenire, 6 marzo 2024 Nelle ultime settimane abbiamo saputo di nuove minacce contro alcuni sacerdoti, da parte di ambienti mafiosi. E c’è chi, anche con intenti lodevoli, ha parlato di “preti antimafia”, “preti di frontiera”. Queste definizioni però non aiutano, lo dico come qualcuno che se le è viste attribuire a sua volta. Non sono d’aiuto perché fanno passare l’idea che l’opposizione al crimine organizzato sia un’opzione facoltativa, e non una necessità ovvia per chi predica il Vangelo. ?Noi siamo sacerdoti come gli altri, coi nostri limiti, le nostre fatiche, ma anche con la gioia di spendere la vita per dare vita. Sappiamo che testimonianza cristiana e responsabilità civile devono saldarsi, per offrire un esempio coerente di servizio alle persone. La Parola di Dio è spesso scomoda, provocante, “urticante”, come diceva don Milani, ma è parola di vita e speranza. Aveva ragione il cardinale Carlo Maria Martini nell’osservare che “missione della Chiesa è essere coscienza della società in cui vive e voce propositiva dei valori più alti e spirituali”. Senza dimenticare, secondo l’insegnamento continuo di papa Francesco, che la Chiesa deve abitare la storia, non può rimanere ai margini della lotta per la libertà, la dignità, l’uguaglianza, il rispetto dell’ambiente: tutti i cristiani sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore. Anche se, come ha detto sempre il Papa, ad alcuni “dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia”. Noi sacerdoti abbiamo il compito di tradurre quella Parola in ogni contesto, dunque anche di “sporcarci le mani” nelle grandi questioni sociali. Ecco perché dico che dobbiamo rifiutare certe etichette, e l’idea che esistano delle “specializzazioni” nel nostro ruolo. Sono immagini stereotipate che non rispettano la ricchezza della missione che abbiamo scelto, quella di saldare la Terra con il Cielo. Ognuno ha la sua vocazione, nella Chiesa come nella vita. A me fu affidata, da padre Michele Pellegrino, una parrocchia inusuale: la strada. Ma qualsiasi parrocchia ha le sue specificità e difficoltà, anzi, possiamo dire che non esista una realtà più complessa: lì accompagni la vita delle persone, dalla nascita alla morte, ti trovi ad ascoltare e consolare, a misurarti con le situazioni più delicate. Tocchi davvero con mano le preoccupazioni e il sentire della gente. Ed è per questo che ai bravi preti di alcuni territori, che ce la mettono tutta per costruire spirito di comunità e usano parole ferme rispetto al male, la mafia risponde. Facciamo un passo indietro di una trentina d’anni: un momento cruciale. Dopo l’accorato discorso di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi ad Agrigento, il 9 maggio 1993, la mafia è “stizzita”. Il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia fa una dichiarazione che ci aiuta a capire cosa accadrà di lì a poco: “Gli uomini d’onore mandano a dire ai sacerdoti di non interferire”. Ecco la parola chiave, “interferire”. I boss si sentono toccati e destabilizzati dall’autorevolezza del Papa, dalle sue parole cristalline contro il crimine. Così il 27 luglio 1993 due attentati con esplosivo colpiranno San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, a Roma. È una risposta alle “interferenze”. Altre più tragiche verranno: gli omicidi di don Puglisi e don Diana. A trent’anni di distanza da quei fatti, e di fronte e nuove minacce più o meno esplicite, non possiamo voltarci dall’altra parte. Vogliamo che la gente veda che viviamo il Vangelo senza compromessi, senza timidezze, senza paura. Per questo i sacerdoti minacciati non vanno lasciati soli. Devono sentire che la comunità cristiana cammina compatta insieme a loro. In questa come in altre circostanze, dobbiamo ribadire che c’è una totale convergenza tra la servitù al Signore e il servizio per il bene comune. È ovvio che siamo contro l’illegalità, la corruzione, le mafie, ma il nostro impegno dev’essere soprattutto per. S iamo chiamati a costruire quelle opportunità in positivo che sono la prima forma di prevenzione del malaffare: educazione, diritti, giustizia. Percorsi che diano libertà, dignità e speranza alle persone. Tanti vorrebbero che ci limitassimo a predicare e “curare la salute delle anime”. Ma noi abbiamo il dovere di pensare al benessere dei nostri fratelli e sorelle già qui sulla terra, di curare la salute dei rapporti sociali e aprire delle brecce persino dove sembra impensabile. Il nostro obiettivo è collaborare per la conversione anche di chi ha commesso dei reati terribili. Non dobbiamo demordere, bisogna sempre sperare che sia possibile! Oggi vediamo minacciati sacerdoti giovani che vanno a ogni costo incoraggiati. È normale che attraversino questo momento di prova con smarrimento, e chi ha più anni, con grande umiltà e rispetto, li deve sostenere. A volte bastano piccoli segni di affetto per restituire fiducia. E molto conta l’esempio. Noi con loro, dobbiamo sempre più vivere il Vangelo nella sua essenzialità spirituale, nella sua intransigenza etica e anche nel suo intrinseco significato politico. Ci sono momenti nella vita in cui tacere diventa una colpa e parlare un obbligo morale e una responsabilità civile. Facciamo qualche bella “telefonata” al Padreterno - non si paga neanche la bolletta - perché ci dia una spinta per andare avanti, e la dia soprattutto ai quei sacerdoti e a quei laici impegnati nei territori più difficili. La luce del Signore possa illuminare il loro cammino e schiarire le menti di chi è loro ostile. Chi è affetto da grave depressione non può restare in cella di Debora Alberici Italia Oggi, 6 marzo 2024 Neppure se ha commesso reati molto pesanti (ad esempio un omicidio), afferma la Cassazione. La patologia deve esigere un trattamento sanitario non attuabile in regime di carcerazione. Chi è affetto da una grave depressione non può scontare il carcere neppure se ha commesso reati molto pesanti, un omicidio ad esempio. La Cassazione penale, sentenza 9432 del 5/3/2024, riconosce una patologia che impedisce di vivere dignitosamente. Ad avviso della prima sezione, ai fini del differimento facoltativo della pena, ai sensi dell’art. 147, primo comma, n. 2) cod. pen., o della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-ter, Ord. pen., la malattia da cui il detenuto è affetto deve essere grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose, o comunque deve esigere un trattamento sanitario non attuabile in regime di carcerazione, dovendosi operare un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività. Contrasto col senso di umanità - Gli Ermellini rincarano la dose spiegando che ai fini del differimento della pena, rilevano anche le patologie di entità tale da far apparire l’espiazione della pena in contrasto con il senso di umanità a cui si ispira la norma dell’art. 27 Cost., in quanto capaci di determinare una situazione esistenziale al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata anche nelle condizioni di restrizione carceraria. Fra l’altro, la patologia psichica può costituire essa stessa una causa di differimento della pena, quando sia di una gravità tale da provocare un’infermità fisica non fronteggiabile in ambiente carcerario, o da rendere l’espiazione della pena in tale forma non compatibile, per le eccessive sofferenze, con il senso di umanità. Carcere fonte di sofferenze aggiuntive - E per concludere, ecco il nocciolo della questione ad avviso del Supremo collegio, la depressione è, infatti, una patologia che, se particolarmente grave, può risultare incompatibile con la prosecuzione della detenzione in carcere, rendendo quest’ultima una fonte di sofferenze aggiuntive, incompatibili con il concetto di rispetto della dignità umana e con la finalità rieducativa della pena, o causare il peggioramento delle condizioni psichiche del detenuto. Nel caso sottoposto all’esame della Corte, male ha fatto il Tribunale di sorveglianza a non esprimere alcuna valutazione in merito alle condizioni di salute psichica del detenuto e alla loro compatibilità con il carcere, né risulta che la verifica sollecitata dal magistrato di sorveglianza sia stata mai effettuata. Tale valutazione è invece necessaria, sulla della giurisprudenza di legittimità, dovendo l’applicazione della più grave forma di esecuzione della pena rispettare sempre il diritto alla salute del detenuto e il senso di umanità. Compatibili l’omicidio colposo stradale e l’attenuante dell’integrale risarcimento del danno di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2024 All’omicidio colposo stradale è pienamente applicabile l’attenuante comune dell’integrale risarcimento del danno avvenuto prima dell’avvio del processo. E, anche nel caso in cui il pagamento integrale sia effettuato dall’assicurazione, ma ne sia compiutamente dimostrata la tempestività e la riferibilità all’imputato della concreta volontà riparatoria rendendo possibile l’adempimento ante iudicium a favore delle parti offese. La Corte di cassazione con la sentenza n. 9180/2024 ha dettato un chiaro principio di diritto finalizzato a sciogliere i dubbi ancora esistenti sulla corretta interpretazione del n. 6 dell’articolo 62 del Codice penale, in particolare al fine di stabilirne l’applicabilità anche al caso in cui il reato commesso sia un omicidio. La Corte di cassazione annulla la sentenza con cui erroneamente il giudice di merito aveva respinto seccamente la richiesta difensiva di riconoscimento dell’avvenuto risarcimento “tempestivo e integrale” quale attenuante comune del reato, perché aveva escluso che possa essere applicata quando il reato è l’omicidio. In particolare i giudici di legittimità individuano l’origine dell’errore dell’orientamento, ora bocciato, nel fatto che il n. 6 della norma penale di favore contiene di fatto due attenuanti diverse: quella del ravvedimento operoso e quella del contegno del reo diretto a risarcire le conseguenze dannose “economiche” (le uniche risarcibili) derivanti dal commesso reato. Infatti, nel caso del ravvedimento operoso questo non sarebbe possibile a fronte di un omicidio, poichè il trattamento premiale deriva da un rapporto di collaborazione tra responsabile e la vittima del reato. In tal caso si tratta di un percorso di giustizia riparativa impossibile da realizzare in quanto prevede l’esistenza della vittima ciò che non è dato nell’omicidio. Al contrario l’altra parte della norma del n. 6 dell’articolo 62 del Codice penale che fa scattare l’attenuante non connota soggettivamente né il danneggiato cui va pagato l’integrale risarcimento del danno né l’agente di tale riparazione. Ciò che rileva è l’espressa volontà del reo di offrire pieno ristoro del danno risarcibile in chiave civilistica e derivato dal reato. Al punto che - come dice la Cassazione - è proprio e solo tale volontà, oltre la tempestività con cui si realizza l’adempimento del pagamento, a far scattare l’attenuante. Due presupposti che sono, tra l’altro pienamente accertabili, anche nel caso in cui la liquidazione del danno sia stata operata dalla compagnia assicurativa. Respingimenti e trattenimenti legittimi solo con piena informativa sui diritti di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2024 Lo straniero soccorso in mare può essere legittimamente oggetto di un decreto di respingimento e di conseguenza di un decreto di trattenimento in un Centro di permanenza per i rimpatri, ma solo se viene dimostrato che le forze di Polizia che richiedono la convalida dei provvedimenti “restrittivi” abbiano compiutamente informato il migrante di tutti i diritti - quale la protezione internazionale - che egli può legittimamente azionare nell’ambito dell’ordinamento nazionale. E tale informativa va - in qualsiasi caso - compiutamente somministrata, anche quando alle prime domande degli agenti lo straniero risponda di essere “un migrante economico”. Infatti, tale dichiarazione resa a caldo dallo straniero soccorso e sorpreso a varcare illegalmente i confini nazionali non è idonea a escludere che egli in realtà sia meritevole di una forma di protezione internazionale per diversi motivi di natura umanitaria. Tale informativa quindi va comunque somministrata al momento dello sbarco in Italia ma anche nelle immediate fasi successive dell’identificazione della persona trattenuta presso un Cpr. Ciò costituisce e garantisce quel diritto - stabilito in ambito europeo - a un “effettivo ricorso” garantito allo straniero per affermare i propri diritti in base a tutti i veri dati relativi alla sua condizione. La decisione dei giudici di legittimità - La Corte di cassazione - con la sentenza n. 5797/2024 - ha accolto il ricorso di un cittadino tunisino soccorso nel mare di Lampedusa in quanto dal provvedimento di convalida del giudice di pace non emergeva il completo adempimento - nelle fasi del soccorso e della prima accoglienza - del dovere del questore di informare lo straniero sulla possibilità di richiedere il riconoscimento dello status di rifugiato al fine di ottenere asilo in Italia. Afferma la Cassazione che - sin dal primo contatto con le forze di polizia di frontiera - queste sono tenute a fornire informazioni non solo sulle forme di protezione internazionale, ma altresì sulla stessa esistenza di procedure e modalità di approccio poste a garanzia dei migranti. Tutto ciò in base allo spirito e alla ratio delle prescrizioni della direttiva 2013/32. In attuazione della direttiva, ma anche delle interpretazioni fornite dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo lo stesso Legislatore italiano ha superato nel 2017 l’indefinitezza dei compiti informativi affidati alle forze di Polizia nei confronti dei migranti illegali i quali soggiacciono al rischio di essere rimpatriati. Dalle nuove regole, prima affidate solo a circolari ministeriali, emerge che anche in assenza di esplicita immediata richiesta di asilo l’informazione sui diritti che competono allo straniero vada comunque fornita e sempre con l’ausilio di un mediatore e la garanzia della somministrazione di informazioni in una lingua comprensibile allo straniero trattenuto per la sua identificazione. Le indicazioni fornite dalla Suprema corte - La Cassazione detta così dei principi di diritto incisivi, per valutare la legittimità dei provvedimenti questorili di cui è oggetto il migrante irregolare, in quanto connotati da un alto grado di specificazione. che essi contengono. 1) Ai sensi dell’articolo 10 ter del Dlgs 286/1998 deve essere assicurata a tutti gli stranieri condotti per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso gli appositi punti di crisi un’informativa, “completa ed effettiva”, su: - procedura di protezione internazionale, - programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e - possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito. Con ciò la Cassazione definisce l’obbligo diretto ad assicurare la correttezza delle procedure di identificazione e a ridurne i margini di errore operativo. E, soprattutto, precisa la Cassazione, che tale obbligo sussiste anche nel caso in cui lo straniero non abbia manifestato l’esigenza di chiedere la protezione internazionale, posto che il silenzio ovvero un’eventuale dichiarazione incompatibile con la volontà di richiederla - che deve in ogni caso essere chiaramente espressa e non per formule ambigue - non può assumere rilievo se non risulta che la persona sia stata preventivamente e compiutamente informata. 2) Non è sufficiente, al fine di ritenere assolto l’obbligo di informativa di cui all’articolo 10 ter del Testo unico Immigrazione che nel decreto di respingimento o di trattenimento si indichi genericamente che “il soggetto è stato compiutamente informato”, se - a seguito della contestazione dell’interessato - nulla viene specificato sulla concreta informativa resa allo straniero, in base al foglio notizie o altri mezzi di prova forniti dall’amministrazione. In particolare gli elementi di prova sono: - tempi e modi con cui l’informativa è stata somministrata, - la lingua utilizzata, - la presenza di un interprete o mediatore culturale. Tutto al fine di consentire una verifica sulla comprensibilità delle informazioni fornite, nel caso concreto, allo specifico soggetto. Non sono quindi adempimenti formali e formule di stile a consentire un giudizio positivo sulla legittimità dei decreti questorili contro cui lo straniero reclama. Firenze. Carcere minorile, sovraffollamento da record: “I posti letto non sono sufficienti” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 6 marzo 2024 Al Meucci 22 detenuti invece che 17, oltre la metà dei ragazzi ha disturbi psichici. Mai così tanti detenuti minorenni negli istituti penali a loro dedicati. È il dato del dossier Antigone dove anche il Meucci di Firenze risulta sovraffollato: 25 detenuti invece che 17 regolamentari. Secondo la ricerca sarebbe il decreto Caivano ad aver fatto alzare il numero di giovani detenuti. Mai così tanti detenuti minorenni negli istituti penali a loro dedicati. Un dato che preoccupa quello rivelato dal rapporto “Prospettive minori” dell’associazione Antigone, secondo cui i reclusi nelle carceri minorili italiane all’inizio del 2024 sono circa 500, numero che non si raggiungeva da oltre dieci anni. Secondo il dossier questo aumento sarebbe un primo effetto del decreto Caivano, approvato a settembre dal governo che ha introdotto diverse nuove misure per contrastare la criminalità minorile. Alcuni istituti sono dunque sovraffollati, è il caso del Meucci di Firenze, in via degli Orti Oricellari, dove secondo Antigone al 15 febbraio sono 22 i ragazzi detenuti, a fronte di una capienza regolamentare prevista di 17. Cinque persone in più di quanto prevedrebbe la normativa, un sovraffollamento che non si verificava da tanti anni. Non solo, nel penitenziario fiorentino, è spiegato nel rapporto, “la stanza solitamente utilizzata per l’isolamento sanitario è stata adibita a camera di pernottamento”. “Esattamente un anno fa i ragazzi erano 16 - ha spiegato Sofia Antonelli, ricercatrice di Antigone - La maggior parte di questi sono ragazzi di origine straniera, per i quali, a parità di reato ma non di risorse, è più difficile accedere a percorsi all’interno della comunità. L’incremento generale di misure detentive va contro i principi cardine del processo minorile, incentrato su percorsi che evitino il più possibile il rischio di marginalizzazione del ragazzo. Per questo abbiamo intitolato il nostro rapporto “Prospettive minori”, per sottolineare la nostra preoccupazione per un sistema che sta facendo passi indietro”. Da un punto di vista strutturale, diversi istituti negli ultimi anni sono stati oggetto di interventi di ristrutturazione. Alcuni di essi hanno determinato la chiusura di intere sezioni ed il conseguente trasferimento di molti ragazzi in altre strutture. Ciò ha inciso in maniera determinante nell’equilibrio di numerosi istituti penali, tra cui anche Firenze, dove i cantieri sono ancora aperti. Collocato a pochi passi dalla stazione di Santa Maria Novella, l’istituto Meucci è l’unico carcere minorile maschile della Toscana. All’interno dello stesso edificio è presente anche un Centro di Prima Accoglienza (Cpa) dove vengono ospitati, per un massimo di 72 ore, minori maschi e femmine arrestati nel territorio. Oltre che per l’elevato numero di presenze, il 2023 è stato un anno particolarmente complicato a causa di diversi eventi critici, tra i quali due evasioni avvenute in estate, ragione per cui sono stati incrementati i dispositivi di sicurezza, come il filo spinato non presente in passato. “Viene segnalato - spiegano ancora da Antigone - come negli ultimi anni si sia assistito sempre più ad un incremento di ragazzi affetti da disagio psichico, difficili da gestire all’interno di un penitenziario. Più della metà dei ragazzi presenti in Istituto assumeva terapie farmacologiche”. I lavori in corso dovrebbero cambiare la destinazione di alcuni ambienti in modo da creare una nuova sezione detentiva, destinata a ragazzi autorizzati al lavoro all’esterno. Ferrara. Mori in carcere. Il pm: “Nessun colpevole”. La famiglia: “Tentò il suicidio. Vogliamo giustizia” di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 6 marzo 2024 L’uomo, 40 anni originario di Ferrara, inalò gas da un fornellino nella cella Per la Procura non ci sono dubbi, fu un incidente: chiesta l’archiviazione. La rabbia della sorella: “La sorveglianza diminuì, non deve finire in questo modo”. “Chiediamo giustizia, chiediamo che venga appurata la verità e che la colpa non venga attribuita solo a lui: negligenze ci sono state. È nota la carenza di personale nel penitenziario oltre a tante altre problematiche. Quindi non si è trattato solo una valutazione medica approssimativa: il problema è tutta la gestione del carcere. La funzione della pena sarebbe quella di riabilitare una persona ma evidentemente non è così”. Non punta il dito contro nessuno ma chiede che si faccia giustizia accertando eventuali responsabilità Jessica Tocci, sorella ‘acquisita’ di Fabio Romagnoli, il detenuto 40enne morto nel carcere di Modena il 20 febbraio dello scorso anno dopo aver inalato gas da un fornellino. L’autopsia non avrebbe chiarito completamente se si trattò di un suicidio o di un incidente, ma per la Procura di Modena non sarebbero ravvisabili responsabilità di altri. Per questo motivo il pm Francesca Graziano ha chiesto l’archiviazione del fascicolo per omicidio colposo, rimasto a carico di ignoti. Ora sarà il Gip a decidere se archiviare o meno il caso ma la famiglia chiede di continuare ad indagare poiché il 40enne aveva già tentato il suicidio altre volte. Dunque, secondo i familiari, doveva essere quantomeno sorvegliato. Romagnoli, originario del Ferrarese, era stato trovato accasciato la terra a fianco del fornello dal compagno di cella e da un agente della polizia penitenziaria. La consulenza medico legale, affidata a Fabrizio Zucchi, confermando la causa della morte nell’inalazione del gas, non avrebbe però sciolto i dubbi sulla dinamica, pur propendendo per un evento accidentale. Nei mesi precedenti, a luglio 2022, il detenuto era stato qualificato come “a rischio medio” di suicidio e collocato nella zona dedicata a questo tipo di situazioni. In seguito però, secondo le valutazioni degli operatori e degli psicologi, il rischio era calato e il 40enne era stato trasferito in un’altra sezione. Secondo alcune testimonianze, nei giorni precedenti il dramma il detenuto non aveva dato segnali preoccupanti e il caso, per la procura, è ora da archiviare: non ci sarebbero elementi utili a supportare un’eventuale ipotesi di mancanza di diligenza o altre omissioni in chi lo ha seguito. Il ferrarese avrebbe terminato la propria pena dopo pochi mesi ma dal carcere non è mai uscito. “Quando ci hanno consegnato le sue cose, c’erano alcune lettere in cui Fabio chiedeva scusa a tutti e affermava di voler porre fine alla propria vita - spiega la sorella -. Dispiace apprendere che si escludono responsabilità dal momento che il suicidio, Fabio, lo aveva annunciato. Non solo: aveva già tentato di uccidersi fuori dal carcere. Prima di entrare nel penitenziario modenese, il 21 luglio 2022, giorno in cui lo avevano prelevato dalla propria abitazione per portarlo in carcere, a Ferrara, aveva tentato di impiccarsi con una maglietta. I medici, nei documenti, avevano scritto che non escludevano una reiterazione del gesto autolesionistico - sottolinea ancora Jessica -. Era stato così trasferito a Modena il 27 luglio e dopo sole tre settimane era stato spostato nell’area priva di sorveglianza. Capisco che quello sia l’iter, ma sicuramente non era fuori pericolo. Vomitava ogni giorno e l’avvocato aveva inviato una pec per far presente la situazione ma non aveva ricevuto risposta”. Romagnoli era entrato in carcere con l’accusa di stalking nei confronti della ex fidanzata; era stato rinviato a giudizio e posto ai domiciliari ma era evaso e per questo era stata inasprita la misura cautelare con il carcere. “Tentò il suicidio anche dopo una precedente relazione finita male - conclude Jessica - alternava momenti di euforia a distruzione: il papà lo aveva incontrato il giovedì precedente, Fabio è morto lunedì”. Bologna. Dall’asse fra Ima, Gd e Marchesini nuovi meccanici dal carcere di Ilaria Vesentini Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2024 L’iniziativa Fid-Fare Impresa in Dozza dal 2012 ha prodotto un forte calo dell’indice di reiterazione del reato: dal 60 al 10%. È una piccola officina meccanica come ce ne sono tante lungo la via Emilia, dove si assemblano e si montano componenti e gruppi per le macchine automatiche e dove sono assunti a tempo indeterminato una quindicina di dipendenti, con regolare contratto e stipendio. La particolarità di FID-Fare Impresa in Dozza, è che a lavorare sono i carcerati della casa circondariale di Bologna e che la fabbrica è racchiusa dentro le mura dell’istituto di pena in via del Gomito. La Srl metalmeccanica è frutto di una iniziativa unica nel panorama nazionale che nel 2012 ha messo insieme i tre principali concorrenti mondiali insediati nella packaging valley bolognese - i gruppi Marchesini, Ima e GD - azionisti e committenti di FID con un 30% a testa del capitale, protagonisti assieme alla Fondazione Aldini Valeriani (l’altro 10% delle quote, Fav si occupa della formazione tecnica professionale) di un progetto che ha permesso fin qui l’inserimento in pianta stabile nelle piccole aziende della subfornitura emiliana di una cinquantina di ex detenuti, una volta scontata la condanna. “Io, Alberto (Vacchi, presidente e ad di Ima, ndr) e Isabella (Seragnoli, presidente di Gd-Coesia, ndr) siamo amici oltre che concorrenti e amiamo fare cose complesse - racconta Maurizio Marchesini, numero uno dell’omonimo gruppo di Pianoro e presidente di FID - e attivare un’azienda in carcere è davvero una cosa complicata. Ma è bastata una telefonata per metterci d’accordo e dare forma alla scintilla accesa da Italo Minguzzi”. Un avvocato che nel 2010 era nel cda di Ima e lanciò l’idea assieme a Marco Vacchi, allora al vertice sia di Ima sia della Fondazione Aldini Valeriani. Minguzzi è ancor oggi presidente onorario della piccola azienda da 200mila euro di fatturato annuo, società di capitali con finalità sociale (non distribuisce utili) guidata da Gianguido Naldi, ex dipendente e sindacalista Coesia nonché ex segretario Fiom Bologna ed Emilia-Romagna. Un’alleanza tra industria, scuola, sindacato e amministrazione penitenziaria che diventa attività concreta grazie ai tutor, operai e tecnici in pensione (ex dipendenti) dei tre big del packaging che in modo volontario affiancano i lavoratori di FID. Figure strategiche e insostituibili sia per la riuscita del percorso professionale dei detenuti dentro il carcere sia nella fase del loro reinserimento in società a fine pena, perché diventano maestri di vita, punti fermi di riferimento. Come confermato dalla ricerca “La fabbrica in carcere e il lavoro all’esterno: uno studio di caso su Fare Impresa in Dozza” commissionata all’Università di Bologna e presentata lo scorso giugno, per valutare i risultati raggiunti da FID nei primi dieci anni di vita e definire nuovi obiettivi e replicabilità. “I dipendenti di FID fanno turni di 30 ore settimanali, 6 ore al giorno da lunedì al venerdì perché i ritmi carcerari non permettono di mandarli in fabbrica un’ora prima e farli uscire un’ora più tardi per coprire le canoniche otto ore - spiega Naldi -. Il carcere seleziona 20-25 candidati tra i detenuti e noi ne scegliamo circa una metà che ammettiamo al corso di formazione di 280 ore tra lezioni teoriche e stage, tenuto dalla Fondazione Aldini Valeriani, privilegiando chi ha già qualche esperienza nel settore meccanico e chi ha un orizzonte di pena residua da scontare di 3-4 anni, per garantire da un lato la rotazione di chi ha accesso a questa opportunità e, dall’altro, per non dover ripartire ogni anno da zero. Produttività ed efficienza dipendono molto dall’esperienza, le commesse sono assicurate dai soci e si tratta di lavori manuali altamente specializzati. In questo momento siamo alle prese con il problema di dover formare in fretta nove detenuti neoassunti, perché sono uscite 11 persone in blocco e servono un paio d’anni per imparare bene il mestiere”. “Non siamo gli unici ad aver avviato aziende in carcere, ma credo sia unico il gioco di squadra che ha permesso il successo di questo progetto, che coinvolge tutta la filiera - sottolinea Marchesini - perché dopo il percorso formativo e lavorativo in Dozza sono le nostre piccole aziende subfornitrici ad assumere gli ex detenuti: offrono un luogo più semplice e più inclusivo dove lavorare rispetto alle nostre grandi realtà industriali. Credo che la civiltà e il progresso di un territorio si misurino anche dalla sua capacità di recuperare chi ha commesso crimini. O buttiamo via le chiavi del carcere o a tutti conviene che queste persone vengano riabilitate e reinserite in società avendo acquisito competenze e abilità spendibili sul mercato. L’indice di reiterazione dei reati è del 10% tra chi ha completato il percorso in FID (contro un dato medio nazionale del 60%, ndr)”. Paradossalmente, però, il carcere è un ambiente protetto e i problemi più grossi del progetto FID emergono nella fase di reinserimento a fine condanna: uno stipendio di 1.200 euro al mese è un privilegio tra le mura della Dozza, poca cosa quando si deve trovare casa e pagare le utenze con lo stigma dell’ex detenuto. Sono una cinquantina (65 con i detenuti al lavoro oggi in FID) le persone assunte nella filiera di Marchesini-Ima-GD, cui dal 2019 si è aggiunta anche la Faac dei cancelli automatici come committente. Il prossimo passo è allargare spazi e occupati in carcere e replicare il modello in altri istituti di pena, riprendendo progetti congelati dal Covid. “Stiamo chiedendo di ampliare lo stabilimento dentro la Dozza, la domanda di lavorazioni meccaniche è in forte aumento, anche perché fuori le aziende non trovano personale da assumere, mentre noi potremmo facilmente raddoppiare i detenuti da inserire in officina - precisa l’ad Naldi -. E vorremmo riprendere le attività dell’ex caseificio che fino a pochi anni fa operava dentro il carcere”. Trani (Bat). I benefici delle api, detenuti del carcere realizzano un apiario olistico di Emiliano Moccia vita.it, 6 marzo 2024 Il progetto “Arnie APErte” è promosso dall’associazione Facelia che si occupa di apicoltura didattica. “Le api insegnano come si vive in comunità” spiega la psicologa Alessia Laudisa. Dopo aver costruito e pitturato le arnie, i detenuti realizzeranno nel cortile della casa circondariale la struttura che ospiterà l’apiario olistico, che porta benessere alla salute delle persone. Imparare dalle api il loro senso di comunità, il loro vivere insieme rispettando le regole, operando per raggiungere un obiettivo comune. Partire dalle proprie paure per scavare affondo dentro sé stessi ed iniziare pian piano a trovare delle risposte, ad immaginare un futuro migliore per quando il loro periodo di detenzione sarà terminato e dovranno iniziare a camminare da soli. Per i detenuti della casa circondariale di Trani “Arnie APErte” rappresenta molto di più di un semplice progetto. Perché è “un’opportunità che genera una serie di benefici fisici, mentali, emotivi che un apiario olistico può offrire: i profumi, il propoli, il miele, le frequenze del ronzio, il cosiddetto beehumming, che provocano effetti di benessere sulla salute delle persone sia in termini di rilassamento sia sotto l’aspetto psico-emotivo”. Alessia Laudisa è psicologa e psico-terapeuta ed è la referente del progetto che da qualche settimana sta animando gli spazi del carcere di Trani con la finalità di costruire un apiario olistico in materiale di bioedilizia coinvolgendo una decina di detenuti, in sinergia con l’area trattamentale, anche se le domande di partecipazione sono state di più. Detenuti impegnati nella costruzione delle arnie - Promosso dall’Aps Facelia, il progetto è finanziato dal Garante Regionale dei diritti delle persone sottoposte a restrizione della libertà e Cofinanziato con i fondi liberali della Banca d’Italia. Un’idea che nasce dall’esperienza di apicoltura didattica portata avanti in questi anni a Bari, con la realizzazione del primo apiario urbano realizzato nel quartiere Japigia su un terreno confiscato alla mafia gestito dalla cooperativa sociale Semi di vita. “Venivano bambini, famiglie, adulti per vedere le api dal vivo e degustare il miele. Un modo per lavorare sulle loro paure, e proprio da questa riflessione” spiega Laudisa “abbiamo pensato a quanto potesse essere interessante aprire l’iniziativa a contesti che possono sembrare complessi, difficili, come quello di una casa circondariale. Le api fanno passare messaggi preziosi. La cura di un animale porta con sé tante cose, come il prendersi cura di sé stessi, il rapporto con gli altri, la socialità, le emozioni, le responsabilità. E le api, in particolare, insegnano come si vive in comunità, come vivere bene lavorando in gruppo per raggiungere un obiettivo comune”. L’incontro con l’architetto del Laboratorio Architetture Naturali - Per questo, dopo aver iniziato con una prima fase dedicata alle informazioni sui temi dell’apicoltura e dell’apiterapia, i detenuti coinvolti nel progetto si sono subito dati da fare. Seguiti dai formatori e dall’architetto di Lan - Laboratorio Architetture Naturali - sono stati impegnati nella costruzione delle arnie, nella pitturazione, nella realizzazione del telaio, nella conoscenza dei fogli cerei. “A breve, all’interno del cortile della casa circondariale, sarà effettuata anche la piantumazione delle piante mellifere, di cui sono ghiotte le api. Dal 18 marzo, invece, in collaborazione con il Lan si procederà alla costruzione della casetta in materiale di bioedilizia a cui saranno collegate esternamente le arnie per dare vita all’apiario olistico” aggiunge Laudisa. “Grazie a questa struttura, le api non entrano nella casetta ma permettono a tutti di poter beneficiare di un’esperienza multisensoriale salutare, in cui poter svolgere laboratori, attività, lettura dei libri, beneficiando dei profumi e dei suoni che aiutano a rilassarsi, riposare, ascoltare, vedere. Nel corso dell’iniziativa faremo anche laboratori psico-emotivi per approfondire tematiche più profonde legate all’ambiente in cui vivono i detenuti, alle loro difficoltà”. L’iniziativa di “Arnie APErte” si inserisce in un percorso più ampio che l’associazione Facelia porta avanti nel territorio. Un percorso di diffusione del mondo delle api e di tematiche ambientali in generale nato nell’ambito del progetto “Dont’ BEE scared”, un gioco di parole in inglese che invita a “Non avere paura - stai senz’APEnsieri”, proponendo ad adulti e bambini attività di apicoltura didattica urbana. L’ultimo tassello di questo intervento è la realizzazione di un apiario sul tetto dell’Ipercoop sempre nel quartiere Japigia di Bari. “Ci rivolgiamo a chiunque sia interessato a vivere un’esperienza naturale diretta. Entrare in contatto con le api è un momento di emozione pura e conoscenza di sé e dell’ambiente che ci circonda”. Modena. Il carcere di S. Anna produrrà i tortellini fatti a mano vivomodena.it, 6 marzo 2024 Dal carcere S. Anna di Modena usciranno presto tortellini e altri tipi di pasta fresca fatta a mano. Saranno i detenuti a produrli utilizzando materie prime locali, a cominciare dalle verdure coltivate nell’orto del carcere. Il progetto è della cooperativa sociale Eortè di Limidi di Soliera (aderente a Confcooperative Terre d’Emilia) e si avvale della supervisione dello chef Rino Duca (osteria “Il grano di pepe” di Ravarino), che coordinerà la formazione dei detenuti e la produzione. La convenzione tra Eortè e la casa circondariale S. Anna è stata firmata ieri dal presidente della cooperativa Federico Tusberti e dal direttore dell’istituto Orazio Sorrentini. Il progetto, che ha il patrocinio del Comune di Modena, è co-finanziato dall’arcidiocesi di Modena-Nonantola, Bper e Fondazione Cattolica Assicurazioni. “Gli obiettivi di questa iniziativa sono molteplici. Il primo - spiega la direttrice di Eortè Valentina Pepe - è offrire ai detenuti del S. Anna un’opportunità di crescita personale e riabilitazione attraverso il lavoro. La legge sul lavoro in carcere è del 1975, eppure attualmente al S. Anna lavora solo il 20% dei detenuti e l’80% di essi lavora alle dipendenze del carcere (ovvero dello Stato). Il secondo obiettivo è costruire un collegamento tra il carcere e il territorio. Il terzo è far nascere un ramo d’impresa che crei il marchio “Sant’Anna - artigiani della pasta” e sia capace di andare sul mercato, partendo dalla provincia di Modena. I nostri clienti saranno i piccoli e medi ristoranti, mense e tavole calde, gastronomie e macellerie, gruppi di acquisto solidale e associazioni. Il laboratorio dovrà essere economicamente autonomo entro il 2025 e, nel tempo, assumere altri detenuti. I tortellini e gli altri tipi di pasta fresca del S. Anna saranno di qualità, perché fatti a mano con materie prime selezionate e a km zero (quindi sostenibili dal punto di vista ambientale), virtuosi dal punto di vista sociale e rispettosi della tradizione gastronomica emiliana”. I detenuti selezionati per lavorare nel laboratorio gastronomico, che all’inizio saranno tre, verranno formati e impareranno così un mestiere in vista della fine pena. Tutte le statistiche sulla popolazione carceraria confermano il crollo della delinquenza e recidiva tra i carcerati che hanno la possibilità di lavorare, sia dentro che fuori dal carcere. In più, Eortè è convinta del beneficio che la formazione può portare all’interno di ambienti marginali, trasformando i tempi morti della detenzione in competenza lavorativa, crescita personale e autostima spendibili anche all’interno di un luogo complesso come il carcere. Il lavoro è uno strumento fondamentale per assolvere la funzione rieducativa della pena prevista dall’art. 27 della Costituzione. “I detenuti che lavoreranno nel laboratorio gastronomico non peseranno più sulle casse dello Stato - aggiunge Pepe - Una quota del loro stipendio, infatti, sarà trattenuta dall’amministrazione penitenziaria per rimborsare le spese sostenute per mantenerli in carcere. Insomma, crediamo che il nostro progetto possa giovare all’economia carceraria e creare percorsi virtuosi con benefici non solo per i detenuti, ma per l’intera società”, conclude la direttrice della cooperativa sociale Eortè. Milano. “Atacama 360”, a Bollate la video factory di detenuti che crea podcast e docufilm di Marco Alfieri Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2024 “Atacama è il luogo più inospitale della terra: un immenso deserto che si estende dal Perù al Cile. Ma è anche il luogo al mondo dove si vedono meglio le stelle”. Campeggia questa frase-manifesto sulla homepage del sito di Atacama 360, piccola casa di produzione digitale la cui peculiarità è quella di essere una “video factory” diversa da tutte le altre perché registi, direttori della fotografia, cameraman e fonici sono quasi tutti carcerati o ex carcerati. E si sa che un detenuto che lavora, statistiche alla mano, ha l’80% di probabilità in meno di essere recidivo. La cooperativa Atacama è nata alcuni anni fa nel carcere di Bollate, vicino Milano, grazie alla passione e al talento di due detenuti, Matteo Gorelli e Fernando Gomes Da Silva. Matteo, che si è laureato in carcere, aveva avviato una piccola casa discografica di musica urban e seguiva alcuni progetti di riciclo dei rifiuti insieme a Fernando. L’incontro con Andrea Rangone, fondatore e presidente di Digital 360 (società nata nel 2012 come spin off del Politecnico che oggi fattura 120 milioni di euro, ha quasi mille dipendenti ed è presente in otto Paesi nel mondo), è decisivo. “Nel giugno 2021 siamo diventati società benefit”, racconta Rangone. “Una scelta che ci è sembrata subito la naturale evoluzione di quello che facevamo e facciamo fin dalla fondazione: accompagnare imprese e pubbliche amministrazioni nella trasformazione digitale, intesa come motore di crescita sostenibile dell’economia e della società”. Proprio in quei mesi Digital 360 comincia a collaborare con Sesta Opera San Fedele Onlus (associazione di volontariato penitenziario attivo nelle carceri italiane da oltre 100 anni, ndr) e il suo storico presidente, Guido Chiaretti, allo scopo di creare opportunità di reintegro sociale per detenuti ed ex detenuti attraverso il lavoro. “I nostri obiettivi si sono focalizzati sulla sensibilizzazione delle imprese da un lato e sull’affiancamento dei detenuti con attitudini imprenditoriali dall’altro”, precisa Rangone. È stato proprio Chiaretti a segnalare a Rangone il potenziale “imprenditoriale” di Matteo e Fernando. Detto fatto. “A settembre 2021 abbiamo cominciato a frequentarci e da lì è maturata l’idea di fare qualcosa di concreto nel mondo del digitale, mettendo a frutto le competenze e il mini network che Matteo e Fernando (che oggi lavora in pianta stabile in Digital 360, ndr) avevano già cominciato a sviluppare”, continua il presidente. In questo senso la promozione del progetto Atacama, trasformatasi a quel punto da cooperativa in vera e propria start up specializzata in servizi digitali e video making, è perfettamente coerente con la mission di Digital 360, trattandosi di un progetto imprenditoriale che, offrendo servizi alle aziende, aiuta il reintegro sociale e la riduzione delle recidive grazie al lavoro. L’idea forte che sta alla base, per Rangone, “è quella di supportare la nascita di un’attività redditizia, capace di stare sul mercato con le proprie gambe, senza soldi pubblici o sovvenzioni caritatevoli”. Nel corso del 2023 Atacama è davvero cresciuta, e oggi si sta strutturando. È arrivato il primo fatturato, ai due fondatori Matteo e Fernando si è aggiunto Patrick Yassin, detto Yassa, e nella squadra sono entrati “personaggi” come Antonio Tazartes di Cellularline (presidente), Ercole Giammarco di Partner Your Group (general manager) e gli stessi Chiaretti (relazione esterne) e Rangone (Advisor scientifico). Soprattutto, le competenze sviluppate sono ormai in grado di offrire prodotti di “narrazione visiva” dinamici, originali e disegnati per più target: mondo del cinema e della pubblicità, aziende, contenuti social, storytelling ad impatto sociale, design creativo e produzione di video musicali. “Il nostro scopo - raccontano i due fondatori - consiste nel colmare un vuoto sociale e di mercato formando i detenuti nel mondo contemporaneo, principalmente attraverso attività basate, appunto, su servizi di fonica e video making”. Oggi Gorelli, che è responsabile dei progetti speciali e delle produzioni audio, e Da Silva, che è responsabile delle produzioni video, sono in regime di semilibertà, ogni sera tornano in carcere, ma hanno creato un network e competenze digitali diffuse in altre carceri italiane (molti detenuti vogliono ormai entrare nella squadra di Atacama). E questo permette di raggiungere potenziali clienti corporate in differenti regioni del paese, che chiedono nuovi prodotti come podcast, servizi di post-produzione e, soprattutto, docufilm. “Lavorare ti cambia la vita - dicono in coro - perché inizi a determinare te stesso, mentre prima era il carcere che ti determinava”. Modena. “No name. Il carcere negli occhi delle donne” comune.modena.it, 6 marzo 2024 Caterina Liotti racconta il progetto realizzato nella sezione femminile del Sant’Anna. Al centro percorsi di consapevolezza e sostegno, anche attraverso l’arte. La detenzione femminile in Italia è quasi invisibile, sia per le dimensioni numeriche sia per la scarsa pericolosità sociale. Alla fine del 2023 le donne detenute nelle carceri italiane erano 2.541 a fronte di 60 mila 166 uomini; in Emilia Romagna sono 151 (mentre gli uomini sono 3.572) e a Modena sono 32 le donne rinchiuse nella sezione femminile del carcere maschile di Sant’Anna. Numeri e situazioni che contribuiscono a far “sparire” le donne detenute, i loro specifici bisogni e le loro sofferenze. Parte anche dall’idea di rendere visibile questa realtà “No Name. Il carcere negli occhi delle donne”, il libro che racconta il progetto “(Ri)comincio da me”, realizzato all’interno del carcere modenese nel 2023, e la mostra di opere delle detenute “(In)curabile bellezza. Donne che fanno comunità”. Curato da Caterina Liotti, del Centro documentazione donna di Modena, il volume è al centro dell’iniziativa che il Consiglio comunale dedica alla Giornata internazionale della donna nella seduta di giovedì 7 marzo, con inizio alle 17.30, nella quale Liotti esporrà le esperienze che hanno portato alla realizzazione del libro stesso. “No Name” è il nome che le detenute del Sant’Anna hanno scelto per il loro Collettivo, “autore” delle opere con le quali hanno voluto raccontare la detenzione femminile insieme alle volontarie e alle operatrici del Centro documentazione donna, della Casa delle donne contro la violenza, del Gruppo carcere città. La mostra, come i laboratori realizzati all’interno del carcere e la pubblicazione conclusiva, è il risultato del progetto “(Ri)comincio da me. Percorsi di consapevolezza e sostegno, da donna a donna, per il benessere psicofisico e il reintegro lavorativo e sociale delle donne detenute” che, a partire dalla primavera 2023, ha coinvolto circa 25 detenute e una decina di volontarie e operatrici che si sono incontrate nella biblioteca della sezione femminile raccogliendo bisogni disattesi, voglia di libertà, paure, sofferenze e cercando di costruire momenti di consapevolezza e sostegno incanalati nel laboratorio di educazione all’arte di cui la mostra è il risultato. La mostra, esposta dal 7 marzo nella sede dell’Assemblea legislativa regionale dopo essere già stata allestita lo scorso novembre alla Casa delle donne e, di seguito, all’interno del carcere, restituisce l’esperienza del laboratorio artistico nel corso del quale le detenute hanno incontrato la comunità delle pescatrici del Delta del Po: un incontro nel quale le donne che vivono il carcere si sono messe in gioco facendo nascere una comunità basata sui valori della cura e della sorellanza come emerge dai collage che hanno realizzato (su fotografie di Marianna Toscani). Una narrazione nuova, come spiega Liotti, “che racconta qualcosa di apparentemente inconciliabile con la durezza del luogo in cui tutto ciò è avvenuto: la nascita di uno spazio di inaspettata bellezza”. La pubblicazione “No Name”, realizzata in forma di catalogo, nella prima parte accompagna il visitatore nel percorso laboratoriale mentre nella seconda offre un contributo di Grazia Zuffa, autrice di diverse ricerche e pubblicazioni sulla realtà delle donne dentro al carcere. L’obiettivo è ridurre la distanza tra la città e il carcere affinché la società civile possa aiutare a sostenere percorsi di uscita dal reato e di reinserimento lavorativo e sociale delle donne detenute. Il progetto “(Ri)comincio da me” è stato promosso dal Centro documentazione donna, Casa delle donne contro la violenza, Csv Terre Estensi in collaborazione con il Comune di Modena e dal Direzione della Casa circondariale Sant’Anna, ed è stato sostenuto con il contributo dell’8 per mille della Chiesa Valdese. Reggio Calabria. “Arianna. Fuori dal Labirinto”: da giovani detenuti ad arbitri e istruttori sportivi redattoresociale.it, 6 marzo 2024 La scommessa del Csi di Reggio Calabria: negli ultimi diciotto mesi, 36 detenuti minorenni coinvolti in percorsi di volontariato sportivo all’interno delle associazioni, o in laboratori formativi Csi. Molti hanno ottenuto le qualifiche di educatore sportivo, arbitro o animatore dei centri estivi. Da autori di reato a promotori d’inclusione e di relazioni: è l’obiettivo e il risultato del progetto “Arianna. Fuori dal labirinto”, promosso dal Csi (Centro sportivo italiano) di Reggio Calabria e finanziato dalla Fondazione Con i Bambini, nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Al centro, c’è lo sport, inteso come strumento di riabilitazione, rieducazione e riscatto sociale, durante e dopo la detenzione in carcere. Tante sono, infatti, le persone che, nello sport e con lo sport, stanno provando a giocare “tutta un’altra partita”, rispetto a un passato a volte difficile, caratterizzato da errori, dolori e cadute. Negli ultimi diciotto mesi, in un momento storico segnato dall’aumento dei minori in carcere, sono trentasei i ragazzi minorenni che, grazie a questo progetto, hanno vissuto e stanno vivendo esperienze significative e di impegno, attraverso percorsi di volontariato sportivo all’interno delle associazioni e gruppi sportivi Csi, partecipando alle giornate di educativa sportiva di strada nei quartieri più fragili della Città Metropolitana di Reggio Calabria o prendendo parte ai laboratori formativi Csi, acquisendo competenze e condividendo esperienze e relazioni. Molti ragazzi hanno ottenuto le qualifiche di Educatore Sportivo, Arbitro o Animatore dei centri estivi, e oggi sono protagonisti in campo accanto all’equipe Csi. Alcuni di loro, autori in passato di comportamenti violenti o danneggiamenti, arbitrano oggi gare dei campionati giovanili Csi, o sono impegnati in attività di animazione per i più piccoli nelle strade o piazze della città, dopo averle ripulite o riqualificate. All’interno di questo percorso di rinascita, sono stati inseriti, nell’ultimo anno, anche 11 adulti, su provvedimento dei Tribunali e con la collaborazione dell’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Reggio Calabria. I due impianti sportivi Comunali a gestione Csi di Pellaro e Gallina e l’impianto pubblico a Modenelle di Arghillà sono le location privilegiate che in questi mesi stanno accogliendo tante storie e la voglia di cambiamento di chi, in passato o fino a qualche mese fa, è stato protagonista di un reato, condizionando la propria vita o quella di intere famiglie. Le attività sono varie e i palazzetti o il campetto diventano “spazi di rinascita”, dove rimettersi in gioco. L’esperienza della Messa alla Prova al Csi per alcuni è quotidianae, per altri ha cadenza settimanale: dalla cura del verde intorno all’impianto, all’accoglienza delle società sportive fino alla pulizia degli spazi comuni, tante sono le attività che vedono come protagonisti i soggetti beneficiari della Map. Importante anche il coinvolgimento della comunità sportiva reggina, che vive quotidianamente gli impianti sportivi Csi. I soggetti in Messa alla Prova spesso infatti partecipano positivamente alle attività delle società sportive, sostenendole attraverso un impegno operativo e partecipato. Le storie - C’è anche chi sta prendendo parte al corso di segnapunti o sta svolgendo il corso per l’utilizzo del defibrillatore. Scelte, impegni e partecipazione che provano a far vivere percorsi di cambiamento attraverso una visione formativa e sociale (nuova a queste latitudini) dello sport. F. , giovane in messa alla prova , tra corsi di formazione, campus e impegno sul campo, oggi è diventato animatore in Oratorio e si è iscritto all’università. Dice che da grande vuole fare l’educatore. Anche G., adulto con un importante reato alle spalle, oggi è quotidianamente impegnato ad assistere istruttori e ragazzi fruitori dell’impianto, prendendosi cura anche dello spazio giochi all’esterno dell’impianto sportivo. A Modenelle di Arghillà, quartiere fragile del territorio di Reggio Calabria, il campetto pubblico, fondamentale per il territorio e realizzato dall’amministrazione comunale, è custodito da A., giovane padre che abita nel quartiere. Ogni settimana è lui a prendersi cura dello spazio sportivo, ripulendo l’area ludica. Determinate per il progetto Csi è la rete creata con i servizi e l’associazionismo sportivo. L’equipe e i gruppi di lavoro con gli assistenti sociali Ussm e Udepe, gli istruttori, animatori ed educatori Csi, stanno guidando quest’esperienza, diventata ormai una buona prassi e un’alternativa virtuosa, in un territorio dove spessissimo la criminalità assume il ruolo, in ogni ambito, di assoluta protagonista. “L’dea di sport che da anni stiamo provando a portare avanti a Reggio Calabria, città complessa e spesso succube di comportamenti malavitosi e incoerenti, va verso la direzione che da ottant’anni guida la nostra associazione: educare con lo sport, si può fare. Un concetto che, tra bellezze, fatiche e fragilità, ci spinge a giocare, in questo martoriato territorio, tutta un’altra partita!”, dichiara Paolo Cicciù, presidente di Csi Reggio Calabria. L’ex giudice infrange il segreto e svela in un libro le sentenze che hanno diviso la Consulta di Liana Milella La Repubblica, 6 marzo 2024 Il volume potrebbe uscire alla vigilia della conferenza stampa del presidente Barbera. Il titolo è di quelli giuridicamente incontestabili, “Le opinioni dissenzienti in Corte costituzionale “. Il sottotitolo recita anodino “Dieci casi”. E qui c’è già di che allarmarsi per via dell’autore, l’ex giudice della Consulta Nicolò Zanon. Perché, come ha già raccontato a dicembre la newsletter Toghe, proprio lui è già stato protagonista di una furiosa querelle a proposito della sua estrema voglia, dopo essersi lasciato alle spalle la porta della Corte, di raccontare mediaticamente tutto quello che non andava lì dentro, a partire soprattutto dalle decisioni, a suo avviso, decisamente contestabili. Degli esempi? In interviste, podcast e dibattiti, Zanon ha già divulgato i suoi distinguo sulla sentenza Regeni, sul verdetto per l’ergastolo ostativo, sulla decisione per le intercettazioni del caso Ferri, su cui l’ex giudice si è pure esibito in pubblico sollevando un vespaio. La Consulta, presieduta dal costituzionalista bolognese ed ex deputato del PCI, poi Pds, Augusto Barbera, è stata persino costretta a un’uscita pubblica su di lui. Era il 20 dicembre. E con un comunicato molto duro. Che aveva una lunghezza inusuale per lo stile della Corte, in cui “l’imputato” Zanon veniva “condannato” con l’accusa di aver violato il segreto. La Corte scrisse che “i riferimenti alla discussione in camera di consiglio - la cui riservatezza è posta a garanzia della piena libertà di confronto tra i giudici e dell’autonomia e indipendenza della Corte - hanno ingenerato una rappresentazione distorta delle ragioni sottese alla decisione”. Un mese dopo, il 17 gennaio, in un’intervista esclusiva del presidente Barbera con Repubblica, per ragioni di spazio in pagina, saltò la sua risposta proprio a una domanda su Zanon. Ecco cosa diceva Barbera: “Zanon non ha parlato di interferenze esterne, ma ha voluto solo evidenziare che dietro la decisione sul caso Ferri vi fosse, a suo dire, un’impropria preoccupazione per possibili effetti a cascata. Non vedo un consapevole tentativo di delegittimazione dall’esterno, semmai una grave leggerezza di Nicolò Zanon. È vero che da anni si batte, a torto o a ragione, per introdurre la dissenting opinion, che in astratto potrebbe essere introdotta in futuro, certo non assunta oggi tramite un’intervista a cui nessun giudice costituzionale può, peraltro, replicare per ragioni di necessaria riservatezza”. Parole inequivoche quelle di Barbera che parla espressamente di “grave leggerezza”. E veniamo a oggi, al volume edito da Zanichelli, in cui Zanon s’interroga appunto sulla dissenting opinion. Facendolo però non in astratto, bensì sulla carne viva della Corte costituzionale in cui ha “vissuto” e ha lasciato appena quattro mesi fa. Leggeremo il libro, ovviamente destinato anche stavolta ad appannare inevitabilmente l’immagine della Corte. Rappresentata come un organo dove esistono contrasti molto pesanti che influiscono, magari su input politico, sull’esito delle sentenze. Che avrebbero potuto essere anche differenti. Un altro regalo alla destra insomma, quella a cui idealmente e obiettivamente appartiene Zanon che, del resto, non ne ha mai fatto mistero, al punto da svelare la sua militanza giovanile, aveva 14 anni, nel Fronte della gioventù. Scorriamo l’indice allora. Dove non c’è soltanto la teoria, ma i casi concreti accaduti alla Corte. Svelando le dissenting opinion che non hanno avuto fortuna e che, come dice la Corte stessa, devono restare segrete. Può costituire un reato la loro rivelazione da parte di chi è uscito dalla Corte? I giudici sono coperti dall’immunità nell’esercizio delle loro funzioni, ma dopo? Siamo di fronte alla rivelazione di un segreto d’ufficio? Sta di fatto che Zanon, con la descrizione di ben dieci casi, attraversa le decisioni della Corte, e materialmente rivela, caso per caso, “l’opinione dissenziente mai venuta alla luce”. Come fa ad esempio a proposito del referendum sull’eutanasia, che la Corte non ammise. E l’allora presidente Giuliano Amato ne spiegò le ragioni in una conferenza stampa decisa a caldo proprio dopo il verdetto dei giudici. Ma non basta. Zanon torna sul caso Ferri e sulle intercettazioni che furono disposte sul cellulare di Palamara dalla procura di Perugia utilizzate poi disciplinarmente per processare l’allora parlamentare di Italia viva. Una scelta che, a detta di Zanon, assecondò la decisione già presa dal Csm. Con metodo, l’ex giudice costituzionale espone il caso, illustra le questioni di legittimità sollevate, descrive quale sia stata la decisione della Corte, e poi ecco “l’opinione dissenziente mai venuta alla luce”. Dieci rivelazioni su dieci. L’indice del libro parla chiaro. Ce n’è anche per l’obbligo vaccinale, quando scatta e quando viene violato, nonché sulle ragioni che avrebbero giustificato di sospendere la prescrizione proprio per via della pandemia, e infine il caso Regeni. Giusto il 18 marzo Augusto Barbera terrà la sua conferenza stampa annuale alla Consulta, un appuntamento istituzionale, a cui è presente anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un’occasione importante, “rovinata” (ed è solo un caso?) dall’incombere del libro di Zanon. Annunciato in libreria giusto per l’11 marzo, una settimana prima, con un tempismo singolare. Anche se non è detto che il volume esca in tempo, perché, anche se dalla Zanichelli confermano che i magazzini sono pieni di copie, tentando di ordinarlo online ci si sente rispondere che “l’uscita è stata annullata dall’editore”. Da Bologna replicano che non è affatto così e sono pronti a spedire il libro. Ma a pensar male non si fa peccato… Storia di Lala, metafora del fallimento del sistema educativo di Carlo Ridolfi Il Domani, 6 marzo 2024 Il film di Ludovica Fales racconta la vicenda reale di una diciassette rom a cui viene tolto il figlio. Un racconto corale, autentico, privo di paternalismi e contro i pregiudizi. Come in una favola antica, due bellissime ragazze vestite di rosso, sedute, mentre una pettina i lunghi capelli all’altra. “A cinque anni in casa anch’io leggevo Cinderella / in strada tutti mi chiamavano la zingarella...”, scandisce Militant A di Assalti Frontali nel brano e nel video “Il mio nome è Lala”, diretto dalla stessa regista Ludovica Fales. Qui non si racconta una favola, ma la storia vera di Zaga (Zaga Jovanovic), che rimase incinta a diciassette anni, nel 2012, vedendo poi il proprio figlio assegnato d’ufficio ai servizi sociali, a causa della mancanza di documenti che certificassero sia la sua identità che quella dei componenti della sua famiglia di provenienza. Zaga è una rom, arrivata in Italia da bambina con padre, madre e fratello in fuga dalla guerra nella ex-Jugoslavia. Siamo a Roma, al Quarticciolo, zona fra viale Togliatti e via Prenestina. Luogo in cui potremmo trovare fianco a fianco un’impresa di pompe funebri e una trattoria di cucina tipica, nel quale, in uno dei molti momenti di grande intensità di questo film, alle spalle di Lala che si riflette nella vetrina del ristorante per passarsi il rossetto sulle labbra appare per un attimo Zaga, che subito dopo si celerà dietro di lei, come se fosse assorbita e si congiungesse con la giovane ragazza che le sta davanti. Ed è così, perché la vicenda di Zaga viene raccontata nella messa in scena attraverso quella di Lala (Samanta Paunkovic), che spinge la carrozzina col figlio neonato con un braccio ingessato a causa di una precedente aggressione subìta da qualche bullo di zona e che vive in una casa occupata, nella quale riceverà la visita di un vigile urbano, di un ufficiale giudiziario e di un’assistente sociale, incaricati di toglierle il bambino. Una storia realmente accaduta, con la protagonista reale presente nella ricostruzione cinematografica. Uno svolgimento narrativo che ha moltissime e intenzionali coincidenze con la biografia della persona che viene raccontata. Così, dopo i primi venti minuti di questa narrazione a doppio livello, si sente la voce della regista che chiama “stop!” e chiede all’attrice: “Come ti è parsa questa?”, invitandola ad una autovalutazione dello stato di coinvolgimento emotivo e della resa interpretativa. Lala è un film che racconta una storia immaginata. È una storia immaginata che ha radici in una storia vera. È un racconto ricostruito sui set della periferia romana che, allo stesso tempo, viene interrotto per far confrontare i ragazzi e le ragazze che lo stanno interpretando sul loro percorso esistenziale. Ci hanno lavorato cinque anni, Ludovica Fales e tutto il gruppo (oltre alle due protagoniste, si sono dedicati all’impresa Francesca Carducci, Livia De Angelis, Antonio Di Tolla, Pasquale Plastino, Leonardo Halilovic, Daniel Fota, Fiorello Miguel Lebbiati, Rasid Nicolic, Antonio Calone, Peter Chappell), che, con un’altra ventina di ragazze e ragazzi, ha seguito un laboratorio teatrale e di scrittura collettiva. In un paio di momenti, durante la riflessione collettiva sulla propria esperienza di vita, l’emozione ha il sopravvento sulla lucidità (peraltro impeccabile anche dal punto di vista storico, sociologico, politico) dell’analisi. Ma non c’è nulla di artefatto, né di pietistico. Anzi: come in pochi altri casi qui è del tutto assente il paternalismo di chi pretenderebbe di raccontare realtà come queste da lontano o, peggio, dall’alto di una presunta superiorità culturale e civile. Potrebbe essere un esempio, forse indiretto, ma non per questo meno significativo, di come, nella scuola e nei contesti educativi, l’apertura al dialogo e la disponibilità all’ascolto della presa di parola dei ragazzi e delle ragazze possono dare risultati di notevole interesse. Sono loro che parlano di sé, senza infingimenti o imbellettamenti, a volte in modo persino spudorato. Con piena coscienza sia delle ragioni storiche che di quelle sociali della propria condizione. Lala e Zaga, i loro compagni e le loro compagne, fuori e dentro la messa in scena, scardinano con la forza dei loro volti (con intensissimi primi piani) e delle loro parole quasi tutti i luoghi comuni e i pregiudizi che ancora troppi di noi si portano dentro e, a volte, comunicano in modo violento. Lala e Zaga (che sono anche, sempre, Zaga e Samanta), corrono insieme, mano nella mano, nelle vie del Quarticciolo, ma non per darci la consolazione di un finale luminoso e pacificatorio, ma per ricordarci che non hanno intenzione di fermarsi, di crogiolarsi nell’autocommiserazione e nel vittimismo. Non perse, non dimenticate, non espulse da un sistema di istruzione che le vorrebbe fuori, ma pronte, anche grazie alla cultura imparata sui libri e a quella appresa nella vita quotidiana, a provare a trasformare un mondo alla cui cattiveria non intendono arrendersi. Essere poveri a Milano: la storia di Giuseppe di Riccardo Staglianò La Repubblica, 6 marzo 2024 A volte basta un divorzio per passare da una vita dignitosa a una in cui ogni euro conta. Inizia con una minestra di ceci il nostro viaggio per capire cosa voglia dire, in concreto, fare molta, molta fatica ad arrivare alla fine del mese. Alla fine venne l’ora di cena. “Una cena semplice, va bene?” dice Giuseppe, quasi scusandosi, prima di affrontare l’ora di viaggio, metro più bus, che ci porterà da dove lavora a dove vive, nel bel mezzo del niente di San Giuliano Milanese. Nella villetta unifamiliare dell’ottantasettenne signor Renato, suocero di sua sorella, che quando lui è rimasto per strada gli ha offerto ospitalità. La cucina è rimasta fedele a un’estetica anni 70. Il menu prevede minestra di ceci. Ingredienti per tre persone: un barattolo di ceci, mezza cipolla e una carota, salvia presa dall’orto, un pomodoro pelato, ditaloni rigati. E tanta acqua, un litro o forse due, che trasforma irrimediabilmente la minestra in brodo. Proprio buono, però. Segue frittata di patate e cipolle. Vino da otto gradi in bottiglioni da litro e mezzo. Un’insalatina. Un piccolo tartufo di cioccolato che qualcuno gli ha regalato a Natale e viene disseppellito per l’ospite. Per finire un caffè che, in assenza di Sambuca, corregge con la cedrata Tassoni che ha comprato in sconto, quattro euro due bottiglie, e centellina. Per questo pasto, le cui materie prime complessive si aggireranno sui tre-quattro euro, Giuseppe ha ringraziato Dio come aveva già fatto per il panino a pranzo, aggiungendo una stupefacente clausola che ripeterà spesso: “E io sono fortunato, perché tanti non hanno le spalle coperte come me”. Intendendo dire una sorella che gli ha rimediato una sistemazione. Un fratello che gli ha fatto un prestito per tamponare l’ennesima emergenza. Una mamma che lo spesa di tutto quando d’estate porta i quattro figli in Puglia, dove è nato. I soldi gli fanno difetto, non la gratitudine. Sognando l’Ecuador - L’incidente che ha fatto deragliare quest’uomo dai binari di una vita economicamente magra ma dignitosa è stata la ruvida separazione dalla moglie, cinque anni fa. Prima di arrivarci, breve riassunto biografico. Giuseppe Lanzillotti nasce 58 anni fa nella campagna di Ostuni da padre operaio dell’Enel col pallino del mattone - costruirà tre casette al mare, prima di una serie di investimenti rovinosi - e madre casalinga. Studia da perito elettrotecnico e trova un posto alla Telecom, a Milano, dal ‘91 al 2001. Mette addirittura da parte 15 milioni di lire, ma quel tran tran gli va stretto. Parte per l’Ecuador e, da volontario di Africa Oggi, partecipa a progetti di aiuto per i campesinos. Lì conosce Marta, che gli dà il primo figlio e diventa sua moglie. Nel 2004, lei già incinta del secondo, rientrano in Italia. Tramite il giro della cooperazione, una signora lo segnala alla Casa della carità di Don Colmegna che lo prende come guardiano. Nascono altre due figlie (in totale oggi la prole ha 20, 18, 17 e 11 anni, nell’ordine: un aspirante grafico pubblicitario, uno che sta per finire il liceo informatico, una che a scuola va così così e l’ultima alle medie) mentre la coppia già scricchiola. “Non mi scocciare” gli dice lei, almeno nel racconto di lui, quando in un incidente evitabile gli sfascia l’auto. Rancori. Liti. In un paio di occasioni arrivano i carabinieri. Nel 2018 si lasciano ed è estromesso dai 67 metri quadrati a Pioltello che lui ha comprato con cinquantottomila euro prestati dai genitori e sessantamila a mutuo, “a un tasso del 16,25 per cento”. Di colpo lo stipendio da 1.300 euro si rinsecchisce. Togli i 150 euro di alimenti per ogni figlio, togli i 130 al mese per pagare gli infissi della ex casa familiare e, da poco che erano, diventano quasi niente. “Mi restano 570 euro per campare a Milano. È praticamente impossibile” dice nella maniera più fattuale che si possa immaginare. Pizza, in piedi, al taglio - Una tendenza di cui mi son reso conto subito in questa serie sulla povertà, è che nei discorsi dei poveri ci sono tanti numeri, che scarseggiano, anzi risultano proprio disdicevoli nel fraseggio dei benestanti. Niente cifre tonde nei racconti di Giuseppe: l’approssimazione è l’ennesimo lusso che non si può permettere. Come i 103 euro sul bancomat PostePay da cui preleva con chirurgica parsimonia i contanti. Il fido di 1.400 euro che gli consente di comprare oggi e vedere l’addebito il mese dopo (“Certo, mi costa parecchio di interessi. Tipo 75 euro all’anno”). E poi i 2.500 euro per l’auto che gli ha venduto una cara amica che si accontenta di un rimborso con tempi biblici da 50 euro al mese. I 600 euro che quattro anni fa ha dovuto pagare per la stufetta elettrica tenuta accesa tutto l’inverno per non far restare i figli al gelo. I 9.000 di porte e finestre, decisamente fuori budget, che non si sa perché aveva deciso di acquistare. I 300 euro al mese che gli ha passato l’associazione “Papà separati” per i primi tempi in cui si è ritrovato fuori di casa. I 170 euro per un bimestre di lezioni di violino per la figlia più piccola alla Scuola civica di Pioltello. I 26 euro per andare a vedere il film Wonka con le due ragazze. Gli 8 euro per mangiare in tre la pizza il sabato prima (“al trancio dalla catena Alice, ma in piedi, con mio figlio che è andato a prendere l’acqua dalla Coop lì accanto. Ed è un attimo, se ti siedi, spenderne 30”). La lista è lunga e si sarebbe potuto raccontare questa storia anche solo per capitoli di spesa, i più cospicui dei quali da saldare a rate. Le nude cifre - È una regola ferrea dell’essere umano: che siano sesso o soldi, parla ossessivamente di ciò che non ha. E dal momento che non gli rivolge più la parola, la ex, Marta, usa i figli come messaggeri di recupero crediti: “Mamma voleva sapere se hai pagato gli 80 euro dello psicologo” gli chiede dunque una figlia. Lui tergiversa un po’ perché è più scannato che mai e lei, forse sobillata dall’adulta, lo minaccia: “Visto che non vuoi fare niente per noi, sto pensando di chiedere il cambio di cognome e tenere solo quello di mamma”. Sono momenti che poi passano ma non giovano all’equilibrio emotivo di Giuseppe. Che si àncora giusto a una fede incrollabile. Nella sua stanzetta a San Giuliano, fiocamente illuminata da lampadine a basso consumo, ha un piano elettrico ricordo della gioventù. Con cui suona in chiesa, che per lui è diventata anche il principale, se non unico, centro di socializzazione. “Donne? Mi piacerebbe, ma i miei fratelli sono sempre stati più sfacciati di me in quel campo”. Sul piano c’è una Bibbia con un segnalibro che avanza ogni giorno, per poi ricominciare il giro da capo. Come copertina del raccoglitore degli spartiti religiosi ha scelto un’immagine della Madonna di Fatima che trovò - “non credo nel caso, credo nei segni della Provvidenza!” - proprio nella casa che ora lo accoglie in cambio di un contributo di circa 150 euro sulle bollette. Da un punto di vista dell’abbattimento costi, impossibile fare meglio. Da quello della libertà di autodeterminazione di un quasi sessantenne che deve chiedere il permesso per tutto a un estraneo, difficile fare peggio. Regali di natale - Quindi che cos’è, per Giuseppe, la povertà? “Se mi guardo intorno, tipo nel mio lavoro che è fornire residenze fittizie per i 7.650 milanesi che non ce l’hanno e quindi non hanno diritto al medico curante, ai servizi sociali, a niente, io non mi sento povero ma fortunato. Mentre mi spiace che mia figlia abbia rinunciato alla gita scolastica quest’anno perché sarebbe stato un problema. O che gli altri miei ragazzi, appassionati di manga e cultura orientale, abbiano dovuto declinare un corso di coreano perché non avevamo gli 800 euro che servivano”. Davvero non si lamenta d’altro? “Io cerco di mettere da parte 500 euro all’anno per una piccola vacanza che, negli ultimi anni, è stato un pezzo di Cammino di Santiago” dice mostrandomi una mappa e le credenziali di pellegrino che gli consentono di affittare una stanza per una quindicina di euro. Ancora: “A pranzo mi porto da casa una frisella al pomodoro, e l’acqua la prendo gratis alla Casa dell’acqua. Per Natale mi hanno regalato dei calzini, mio cognato mi passa i suoi vestiti: per me va bene così. È ai miei figli, cui ho regalato 50 euro a testa, che vorrei poter offrire più opportunità”. Gli chiedo se la politica capisce il problema di chi ha molto poco. Lui risponde su chi ha votato: “Rifondazione. Poi Renzi, ma non lo rifarei perché, a partire dal Jobs act, è uno che facilita solo chi ha i soldi. Ora Pd. I 5 Stelle hanno fatto il reddito di cittadinanza, una cosa giusta che ora non c’è più”. E se Meloni gli chiedesse quale misura urgente potrebbe migliorare la situazione di chi ha una vita agra? “Le direi che il salario minimo costerebbe poco e sarebbe di giovamento per tutti, ricchi compresi, che avrebbero la tranquillità di stare in una società più giusta, quindi meno arrabbiata. Il tutto in cambio di un piccolo ritocco delle tasse per loro che possono permetterselo. Entrate con cui potremmo, che so, offrire i libri scolastici per tutti fino alla terza media. La mensa, magari. O corsi di pallavolo e basket per le famiglie che non possono permetterseli. D’altronde chi pagherà le loro pensioni? I ragazzi di oggi, lavoratori di domani: non sarebbe meglio che, avendo avuto migliori opportunità scolastiche, abbiano anche migliori occupazioni? Alla fine la giustizia sociale conviene”. Ritorno nella cameretta - È stupefacente che questa cristallina ovvietà risulti inaccessibile alla comprensione di tanta parte della nostra classe dirigente. A parole, ovviamente, sono tutti d’accordo. Dall’ultima Miss Italia al più truce parlamentare di destra, a favor di telecamera, dopo la pace nel mondo, hanno tutti la solita aspirazione: sconfiggere la povertà. Ma come, in pratica? Perché non è un gioco a somma zero: a qualcuno bisogna togliere se vogliamo dare a qualcun altro, peggio equipaggiato. Bernie Sanders, che abbiamo intervistato qualche numero fa, riprende in Sfidare il capitalismo (Fazi) la lezione di Franklin Delano Roosevelt quando avverte che “la vera libertà individuale non può esistere senza la sicurezza e l’indipendenza economica”. Giuseppe dice semplicemente, senza nemmeno un’ombra di pietismo, “non sono autosufficiente”. All’età in cui potrebbe essere nonno è tornato bambino nella cameretta del quasi novantenne Renato. Che, stendendo la tovaglia prima di cena, si accorge che è macchiata e vorrebbe cambiarla per l’ospite, ma altre non ce ne sono. Mentre guardavo il cuoco alle prese con la magia acquatica sulla minestra di ceci non ho potuto fare a meno di ricordarmi di un fenomenale libro dell’argentino Martín Caparrós. Dove, a un certo punto, racconta di una donna del Bangladesh che faceva bollire delle pietre in una marmitta per dare l’illusione ai figli che c’era qualcosa da mangiare. Così drammatico e così inutile. Si intitolava “La fame”, che della povertà è il più drammatico sottoinsieme. Un girone che Giuseppe non conosce. Come ama ripetere, è fortunato, lui. La rabbia e l’angoscia: quei figli divorati dalla violenza in casa di Anna Oliverio Ferraris La Stampa, 6 marzo 2024 “Non avrei mai immaginato di portare via la vita a una persona, ma preferisco portarla via a quel coglione prima che lui porti via l’unica ragione della mia vita, cioè mia madre”. “Ho paura che i miei fratelli maschi copino il comportamento di mio padre”. “Spero che tutti gli uomini brucino all’inferno”. “Io non ce la farò più e l’ammazzerò”. Sono alcune delle frasi che sono state enucleate dal diario di Makka, la ragazza di diciannove anni che a Nizza Monferrato ha ucciso a coltellate il padre di cinquant’anni, un uomo che faceva boxe e arti marziali. Quel giorno l’uomo che faceva lavori saltuari si era licenziato da muratore. Dopo aver perso il lavoro si era diretto nel ristorante dove la moglie lavorava come lavapiatti e le aveva chiesto di licenziarsi. Lei aveva rifiutato. Non potevano restare entrambi senza salario. Pare che lui l’avesse minacciata di morte. Arrivato a casa il litigio è continuato ed è lì che Makka ha deciso di intervenire per salvare sua madre. “Sono intervenuta per difendere mia madre e a quel punto papà mi ha inseguita e preso a pugni, per questo l’ho ucciso. Non volevo farlo, mi sono difesa”. Pare che botte e violenze fossero una costante della vita familiare, prima in Cecenia, poi a Nizza Monferrato. Pare anche che l’uomo insegnasse ai tre figli maschi a picchiare le donne “quando rispondono male o disobbediscono. Così dovrete fare con le vostre mogli”. Era l’insegnamento mentre aggrediva la moglie. Non è difficile immaginare lo stato d’animo di Makka in quell’inferno familiare. La paura delle botte, l’odio per quel padre violento, il timore che anche i tre fratelli potessero diventare violenti come lui, il disprezzo per le donne, ribadito quotidianamente con parole, fatti e atteggiamenti; ma soprattutto l’angoscia per la madre, la sua “ragione di vita”. È così che succede in quelle famiglie in cui c’è un genitore violento che sfoga le sue frustrazioni sui propri familiari, ciò che fa più male ai figli è vedere maltrattare e disprezzare le persone a cui si vuole bene. Se i figli non accettano la versione del genitore violento, se non si identificano con lui, non possono restare indifferenti, anche se lo temono, anche se preferirebbero sottrarsi. Possono sentirsi deboli e inermi ma dentro di loro c’è l’angoscia che li divora. Il dolore fisico non è nulla in confronto al dolore morale provocato dal vedere umiliare la propria madre, ma anche una sorella o un fratello a cui si è affezionati. Si preferirebbe essere picchiati e maltrattati piuttosto che vederli in quelle condizioni. Non si vorrebbe assistere. Ci si sente colpevoli per l’essere testimoni. Si vivono sentimenti ambivalenti. Si prova vergogna per la propria famiglia. È un rovello che scava dentro. Che crea angoscia, a volte anche disprezzo di sé. La paura si mescola al risentimento. La rabbia si mescola al bisogno di intervenire. Si incomincia a pensare che cosa si potrebbe fare concretamente e così può succedere che di fronte all’ennesima violenza scatti la reazione, violenta come la violenza subita tante volte e anche imparata per averla vista in azione, tirando fuori una forza che non si pensava nemmeno di avere. In questo, come in altri casi, la famiglia può trasformarsi in un inferno ed è per questo motivo che bisogna cogliere i segnali di disagio più precocemente possibile, perché al di là delle tragedie, chi cresce in una famiglia violenta rischia di restarne segnato e di riprodurre, in seguito, le stesse dinamiche. Il Tribunale di Padova ha deciso: gli atti con due mamme non si toccano. Almeno per ora di Francesca Spasiano Il Dubbio, 6 marzo 2024 Gli atti di nascita dei bambini con due mamme non si toccano, almeno per ora. Il maxiprocesso civile di Padova si chiude con una prima vittoria per le famiglie composte da coppie omogenitoriali: il tribunale ha dichiarato inammissibili gli oltre trenta ricorsi presentati dalla procura, che chiedeva la rettifica degli atti di nascita già registrati rimuovendo il cognome della cosiddetta madre “intenzionale”, cioè colei che non ha partorito il figlio. Lo scorso novembre, dopo un cambio di guardia al vertice, la procura aveva in parte cambiato posizione, aderendo alla richiesta della difesa di rimettere gli atti alla Corte Costituzionale. Che, in un senso o nell’altro, avrebbe potuto mettere un punto alla questione già sollevata nella sentenza 32 del 2021, con la quale la Consulta aveva sollecitato il legislatore a colmare il “vuoto di tutela” in materia. In generale, quando si parla di due mamme, il nodo riguarda il riconoscimento del genitore che abbia condiviso un percorso di fecondazione medicalmente assistita con il partner che porta avanti la gravidanza: se il riconoscimento non avviene automaticamente, la madre “intenzionale” può richiedere l’adozione in casi particolari. Con tempi lunghi e incerti, rispetto al verdetto del giudice, e con la possibilità che il genitore biologico revochi il proprio consenso. Nei casi in esame a Padova la situazione è analoga ma si è risolta in maniera puramente “tecnica”. Aderendo alla tesi della difesa, il giudice ha infatti ritenuto non applicabile la procedura utilizzata dall’allora pm per impugnare gli atti: per contestare l’iscrizione dell’ufficiale di stato civile la procura avrebbe dovuto agire con un’azione “di stato”, invece che con un’azione di “rettificazione”. Dunque il tribunale ha riconosciuto la necessità di utilizzare una procedura “ben più ricca di garanzie sostanziali e processuali”, come sottolinea la Rete Lenford - Avvocatura per i diritti Lgbti, che assiste diverse famiglie omogenitoriali pro bono. Ma se per il sindaco di Padova Sergio Giordani, che dal 2017 aveva intrapreso la strada delle registrazioni, la decisione di ieri segna una vittoria a favore “dell’amore e l’interesse primario delle piccole e dei piccoli”, gli avvocati restano cauti. Perché se appare improbabile che la procura, dopo il cambio di rotta, decida di presentare ricorso, la decisione del tribunale potrebbe invece essere impugnata dall’Avvocatura distrettuale, che in questo caso rappresenta anche il sindaco di Padova, in quanto espressione del ministero dell’Interno. Il tribunale sul punto ha risolto il “paradosso” riconoscendo la legittimità del primo cittadino a difendere il proprio operato rivendicando la facoltà del Comune di avvalersi dell’Avvocatura Civica, contro le stesse conclusioni del Viminale. Ad ogni modo, se i casi finiranno in Corte d’appello a Venezia, la Rete Lenford è pronta a sollevare nuovamente la questione di legittimità costituzionale, come spiega l’avvocato Stefano Chinotti. Il quale sottolinea come le conclusioni di Padova siano le stesse del tribunale Milano, “smentito” a sua volta dalla Corte d’appello che ha invece ritenuto illegittimi gli atti con due mamme, come del resto ha stabilito successivamente la sentenza della Cassazione n. 4448 del febbraio 2024. “Ancora una volta, la tutela delle bambine e dei bambini di famiglie omogenitoriali passa per un Tribunale, che conferma l’operato di un sindaco coraggioso e capace di ascoltare la loro domanda di riconoscimento e giustizia”, commenta in una nota la segretaria del Pd, Elly Schlein, ricordando le proposte di legge sul tema presentate dalle opposizioni. Mentre per il Sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari “non ci sono vittorie da festeggiare né sconfitte di cui rammaricarsi. La questione resta aperta e andrà definita con gli atti necessari”. In assenza di una norma che regoli i riconoscimenti di questi bimbi, la questione resta infatti in balia dei sindaci e dei tribunali, con orientamenti diversi e decisioni a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale. Soprattutto dopo l’ormai nota circolare del Viminale, che nel gennaio 2023 aveva imposto lo stop ai riconoscimenti sulla base della sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del dicembre 2022, relativa (esclusivamente) al riconoscimento dei bambini nati tramite gestazione per altri. Diverso è il caso dei bimbi nati da due donne tramite fecondazione eterologa: sul punto la Cassazione ammette pacificamente la trascrizione degli atti formati all’estero, ma nega la possibilità di formare gli atti in Italia. Proprio come nei casi di Padova, dove la procura (diversamente da altre) aveva deciso di impugnare tutti gli atti formati dal 2017. Salvo poi cambiare idea. “Decisione di Padova rilevante in una situazione di incertezza. Si fatica a respirare clima di uguaglianza” di Giovanna Trinchella Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2024 A Padova i certificati dei bambini con due mamme non possono essere cancellati dall’anagrafe, a Milano invece sì. È il paradosso giuridico che si è venuto a creare nel giro di un mese con due verdetti sulla medesima questione: l’impugnazione da parte delle procure dei certificati su input del ministero dell’Interno in seguito a una sentenza della Cassazione a sezioni Unite che però era intervenuta sul caso di due papà. Martedì il Tribunale veneto ha respinto al mittente il ricorso in quanto la procura “non era legittimata”, mentre solo un mese fa nel capoluogo lombardo i giudici di appello, ribaltando un verdetto del Tribunale, hanno dato il via libera alla cancellazione della madre intenzionale. Abbiamo chiesto a Marilisa D’Amico, ordinaria di Diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano e prorettrice con delega alla Legalità, Trasparenza e Parità di Diritti, come è possibile che i due provvedimenti siano così in contrasto e se c’è una lesione del diritto di uguaglianza. Oggi il Tribunale di Padova ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura che chiedeva la rettifica dell’atto di nascita di bambino con due mamme. Qual è il suo commento? Si tratta di una decisione che assume particolare rilievo nell’attuale panorama giuridico, che risulta frammentato e incerto. La Procura, nello specifico, richiedeva la rettifica dell’atto di nascita di un minore con due mamme e il Tribunale di Padova dichiara inammissibile il ricorso per motivi di procedura, inerenti alla corretta instaurazione del giudizio. La Procura aveva chiesto ai giudici l’invio degli atti alla Consulta, ma il Tribunale ha deciso senza passare da Roma. Cosa ne pensa? Il Tribunale, ravvisando un radicale vizio genetico nel procedimento, non entra nel merito del ricorso. Un mese fa la Corte d’Appello di Milano ha ribaltato la decisione resa dal Tribunale in primo grado. Come può essere che ci siano due giudicati in contrasto? Questo aspetto rispecchia l’estrema incertezza che sussiste, ancora oggi, sul riconoscimento dei figli nati da coppie del medesimo sesso. Tuttavia, in questo contesto non possiamo dimenticare, come ha affermato la Corte costituzionale nel 2002, che “la Costituzione non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti” (494/2002). Avere decisioni diverse non lede in qualche modo l’articolo 3 della Costituzione per cui siamo tutti uguali? La Costituzione, all’art. 101, comma 1, dispone che il “il giudice è soggetto solo alla legge”, pertanto le differenze interpretative che emergono possono trovare ugualmente spazio, in una situazione - come ho già detto - di incertezza e di inutile complessità normativa. Le differenze di decisione indicano un clima o è solo un caso? Purtroppo la tutela dei diritti avanza ancora a “macchia di leopardo” senza avere delle risposte certe e soddisfacenti da parte del legislatore. Credo, quindi, che occorra continuare a costruire, caso dopo caso, sentenza dopo sentenza, un più generale clima di uguaglianza, che oggi fatichiamo a “respirare”. Corridoi umanitari. A Fiumicino 97 profughi salvati dai centri di detenzione libici di Luca Liverani Avvenire, 6 marzo 2024 È il primo gruppo dei 1.500 migranti previsti dell’accordo tra governo, Acnur, S.Egidio, Arci, Fcei. Impagliazzo: “Nuova vita in Italia”. Miraglia: “Alla guardia costiera in Libia 71 milioni di euro”. Sono sopravvissuti alla traversata nel deserto, a privazioni, a violenze nei centri di detenzione. Un viaggio terribile per fuggire da dittature o guerre: da Eritrea, Etiopia, Repubblica Centrafricana, Somalia, Sudan e Sud Sudan, dalla Palestina e dalla Siria. Sono i 97 profughi atterrati ieri pomeriggio all’aeroporto di Fiumicino con un Airbus A320 della Buraq Air decollato da Tripoli. Tirati fuori dalle carceri libiche dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, saranno accolti in Italia da Arci, Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei) e Inmp. Sono i 97 “miracolati” - tra cui ben 55 donne e 27 bambini - del corridoio umanitario frutto del protocollo firmato a dicembre dai ministeri dell’Interno, degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e da Acnur-Unhcr. Un accordo che permetterà nell’arco di tre anni a 1500 rifugiati e persone, bisognose di protezione internazionale, di essere evacuati dalla Libia (altri corridoi umanitari sono curati dalla Cei). Nel gruppo sono atterrate anche alcune persone particolarmente fragili dal punto di vista sanitario. Secondo il modello consolidato dei corridoi umanitari, saranno tutti avviati a percorsi di integrazione: per i minori grazie all’iscrizione a scuola, per gli adulti, grazie all’apprendimento della lingua italiana e all’inserimento nel mondo lavorativo. Dei 1500 profughi in arrivo, 600 saranno trasferiti in strutture del Sistema accoglienza integrazione (Sai) a carico del ministero dell’Interno, mentre 900 saranno accolti dalle associazioni: 400 da Sant’Egidio, 300 dall’Arci e 200 dalla Fcei. Una volta conclusi i controlli di Polizia di frontiera, a dare il benvenuto nella sala arrivi del Terminal 5 dell’Aeroporto Internazionale Leonardo da Vinci c’erano i volontari delle organizzazioni che li aiuteranno nell’inserimento. All’incontro sono intervenuti Chiara Cardoletti, rappresentante dell’Acnur; il presidente di Sant’Egidio Marco Impagliazzo; Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione di Arci; Laura Lega, capo del Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno, Valentina Setta del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Quello di ieri è il primo volo in attuazione del protocollo che segue l’accordo, firmato nel 2021, che rinnova l’impegno già avviato dall’Italia nel 2017 e che ha permesso l’arrivo dalla Libia di circa 1400 persone nel nostro paese. Dal 2017, l’Acnur ha evacuato o reinsediato 1.368 rifugiati e richiedenti asilo dalla Libia all’Italia. Nel 2023 l’Agenzia Onu per i rifugiati stimava che globalmente più di 2.4 milioni di rifugiati avranno bisogno di reinsediamento: più 36% rispetto al 2022, quando erano 1,47 milioni. “Con questo nuovo protocollo si apre una via per le persone veramente più in difficoltà”, ha detto Marco Impagliazzo della Comunità di Sant’Egidio: “In questi anni abbiamo sentito racconti molto duri sulla situazione dei migranti in Libia e siamo particolarmente soddisfatti di poter accogliere persone che hanno sofferto tanto e davvero avevano bisogno di trovare una nuova vita in Italia”. Chiara Cardoletti dell’Acnur spiega che “i canali regolari e sicuri, tra cui le evacuazioni di emergenza, i corridoi umanitari, il reinsediamento ed il ricongiungimento familiare, permettono ai rifugiati di ricostruirsi un futuro in dignità senza essere costretti a intraprendere viaggi pericolosi nelle mani dei trafficanti. Allo stesso tempo sono un segnale di solidarietà verso i paesi a basso e medio reddito che ospitano il 75% dei rifugiati nel mondo”. Filippo Miraglia dell’Arci sottolinea come l’impegno della società civile non può certo risolvere una situazione drammatica: “La Libia non è un porto sicuro. Dal 2017 al 2023 l’Ue ha speso 71 milioni di euro di finanziamento - sottolinea - per equipaggiare la cosiddetta Guardia costiera libica, anche tramite il supporto italiano”. Dal 2017 ad oggi, dice Miraglia “sono state riportate in Libia circa 130 mila persone, solo nel 2023 sono state intercettate oltre 17mila persone. Con i corridoi umanitari mettiamo in salvo poche centinaia di persone - è la constatazione - tante e tanti altri perdono la vita in mare. Solo nel 2023 sono state accertate 2.250 morti nel Mediterraneo. Oppure restano in quell’inferno e non hanno la possibilità di arrivare in Europa attraverso canali legali e sicuri come questi”. Medio Oriente. Israele-Gaza, la tregua impossibile di Fabiana Magrì La Stampa, 6 marzo 2024 Gelo di Hamas sui negoziati: “Il tempo sta per scadere”. L’appello di Biden a Tel Aviv: “Fermare le armi per il Ramadan, nessuna scusa per bloccare gli aiuti”. Gantz vede Blinken e Austin. La chiave per sbloccare un accordo è nelle mani della fazione palestinese e “spetta ad Hamas” la decisione di raggiungere un cessate il fuoco. L’ha detto il presidente degli Stati Uniti Joe Biden alla stampa mentre si recava da Camp David alla Casa Bianca. L’ha affermato anche il segretario di Stato Antony Blinken al fianco del primo ministro del Qatar Muhammad Abd al-Rahman Al Thani a Washington. E Israele lo sottoscrive. Il portavoce dell’ufficio del premier Avi Hyman ha ripetuto che le richieste sono sul tavolo e che manca la risposta di Hamas. È speculare la risposta del gruppo islamista, che si scuote di dosso la responsabilità e rispedisce al mittente le dichiarazioni. Per il capo delle relazioni politiche e internazionali Bassem Naim, Hamas ha presentato la sua proposta ai mediatori e sta aspettando riscontro. Se gli Stati Uniti sono seriamente intenzionati a raggiungere un cessate il fuoco prima dell’inizio del mese sacro del Ramadan, ha replicato Naim, che esercitino maggiori pressioni su Israele, perché la soluzione è “nelle loro mani”. Che il disastro del convoglio umanitario a Gaza giovedì scorso, con la morte e l’uccisione di più di cento palestinesi, sia stato un punto di svolta per l’amministrazione Biden si capisce dalla pressione sempre più ineludibile sul tema degli aiuti nella Striscia. In questa fase - superata la soglia dei 30 mila morti denunciati dal ministero della Sanità di Hamas, con metà della popolazione sfollata e una situazione umanitaria definita catastrofica dalle Ong in azione sul territorio - è il tasto su cui i mediatori incalzano le controparti in conflitto. Il premier qatarino, a Washington, insiste sulla volontà di “porre fine alle sofferenze umanitarie a Gaza e che i rapiti ritornino alle loro famiglie” e ha assicurato che continuerà a lavorare per raggiungere un accordo, “malgrado tutti coloro che cercano di minare gli sforzi per ottenere la pace”. Al Thani e Blinken, hanno anche invitato Israele “a massimizzare ogni mezzo possibile” per aumentare gli aiuti a Gaza, dove la situazione per i civili è “inaccettabile e insostenibile”. Il capo degli esteri Usa ha posto la questione direttamente al ministro del gabinetto di guerra israeliano Benny Gantz, nel corso della sua missione negli Stati Uniti. Già nei precedenti incontri, quelli con la vicepresidente Kamala Harris e con il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, Gantz aveva ricevuto aspre critiche e si era sentito porre domande scomode sulla crisi umanitaria nell’enclave, oltre che sulla strategia di guerra di Israele. L’ha postato sulla piattaforma X anche il presidente Biden, che gli Usa non si arrendono e non resteranno a guardare chi nell’enclave costiera ha disperatamente bisogno. L’ha poi ripetuto alla stampa a Camp David: “Non ci sono scuse per Israele per bloccare agli aiuti umanitari a Gaza”. Ma il portavoce governativo Avi Hyman ripete quotidianamente che non ci sono limitazioni sulla quantità di aiuti che possono entrare dai valichi meridionali nella Striscia. Mentre in una conferenza stampa a Beirut un altro funzionario di Hamas, Osama Hamdan, ha mandato a dire alla Casa Bianca che ancor più importante dell’invio di convogli umanitari nella Striscia è “fermare la fornitura di armi a Israele”, ricordando che la via dei negoziati non resterà aperta indefinitamente. Nessuno vuole recidere il filo a cui sono appesi i negoziati ma le due controparti nemiche non sembrano intenzionate a mostrare ulteriori concessioni. Tuttavia una fonte egiziana ha detto a un’emittente locale che “ci sono difficoltà, ma i colloqui su Gaza continuano” e per il Dipartimento di Stato Usa gli ostacoli “non sono insormontabili”. Il problema è il conto alla rovescia per il Ramadan, con il timore che episodi di violenza esplodano a Gerusalemme nei luoghi sacri per i mussulmani. La delegazione palestinese è al Cairo da tre giorni e si propone di restarvi. Fonti israeliane citate dal sito in ebraico Walla! sostengono che la squadra negoziale chiederà al governo Netanyahu un ampliamento del mandato per tentare di uscire dallo stallo. Un funzionario ha aggiunto che i negoziatori israeliani ritengono che Hamas abbia esaurito la sua flessibilità rispetto alla bozza di accordo di Parigi. “Sarà molto pericoloso se non ci sarà la tregua a Gaza entro il Ramadan”, mette in guardia il presidente Usa, Joe Biden. La missione di Gantz, che dopo gli Usa è volato a Londra per incontrare il ministro degli Esteri britannico David Cameron, è percepita dagli attivisti dell’opposizione in patria come una prova generale da futuro premier. Il leader centrista sta tentando di rassicurare gli alleati, con i quali ha condiviso la sua visione “un’amministrazione internazionale” per supervisionare lo sforzo umanitario “in coordinamento con i Paesi della regione e come parte dei più ampi sforzi di normalizzazione”. Medio Oriente. Lo stupro come arma di guerra. Il 7 ottobre e il rapporto Onu di Giovanni Legorano Il Domani, 6 marzo 2024 Secondo Israele, Hamas ha usato la violenza sessuale “sistematicamente e deliberatamente” nell’assalto. Herzig: “La sofferenza delle donne palestinesi non cancella quelle delle israeliane. Le femministe lo ricordino”. È grazie a testimonianze come quella di Sapir che le autorità israeliane sono riuscite a ricostruire uno degli aspetti più aberranti dell’attacco di Hamas del 7 ottobre. La donna, che ha 26 anni e lavora come contabile, si è salvata dal tristemente noto rave Nova, diventando poi una dei testimoni chiave della polizia israeliana. È riuscita a scappare dal luogo di festa, trasformatosi poi nel teatro di un’ecatombe, malgrado fosse stata colpita da una pallottola alla schiena. A circa sei chilometri a sud-est dal luogo del rave, si è nascosta sotto un albero ai bordi della Route 232, ribattezzata poi la strada della morte, per tutti i cadaveri di giovani fuggiti dal festival ritrovati lungo di essa. Verso le 8 di mattina, ha visto a 15 metri dal suo nascondiglio un centinaio di miliziani di Hamas radunarsi in moto, macchine e camion. Una volta scesi dai veicoli, ha raccontato Sapir, hanno iniziato a passarsi fucili, granate, piccoli razzi. E donne gravemente ferite. Sapir ha assistito a cinque stupri. La sua è una delle testimonianze più precise e agghiaccianti di quanto accaduto il 7 ottobre. Ha visto un uomo tirare per i capelli una ragazza, già ferita alla schiena, sanguinante. Un altro la penetrava. A ogni sussulto di dolore della donna, l’uomo che la violentava le piantava un coltello nella schiena. In un altro caso, Sapir è riuscita a vedere un’altra donna “ridotta a brandelli”, come ha raccontato alla polizia israeliana, secondo vari media, tra cui il New York Times. Mentre un miliziano la stuprava, un altro ha tirato fuori un taglierino e le ha reciso un seno. “Uno continua a violentarla, l’altro tira il suo seno ad un altro ancora e ci giocano, finché finisce sulla strada”, ha dichiarato Sapir. Le hanno poi tagliato la faccia, e da lì Sapir non è riuscita più a vederla. Mentre alcuni miliziani hanno violentato altre tre donne, altri sono apparsi tenendo in mano le teste di altre tre, decapitate. È sul racconto di Sapir, insieme a quello di altri testimoni oculari, medici, paramedici, soccorritori, volontari e membri dell’organizzazione umanitaria Zaka, che si basa il rapporto “Grido silenzioso” compilato dall’Associazione dei centri antistupro in Israele (ArccI). Sono stati raccolti da ArccI da fonti ufficiali, da articoli di stampa e attraverso interviste con soccorritori. Sono state escluse le informazioni pubblicate sui social network o provenienti da fonti non verificate. La conclusione del rapporto di 39 pagine, di cui si è discusso ieri a Roma a un incontro con la storica israeliana Tamar Herzig, è che il 7 ottobre le violenze sessuali sono state commesse “sistematicamente e deliberatamente”. Sono state coinvolte prevalentemente donne, ma ArccI ha parlato anche di violenze sessuali contro uomini e persone di ogni età, inclusi minori. Le vittime hanno subito violenze così pesanti da riportare gravi ferite ai genitali e alle zone pelviche. In base ad alcune testimonianze, le violenze continuavano anche quando le vittime non si muovevano più ed erano presumibilmente già morte. I corpi sono stati spesso mutilati. A molti uomini sono stati tagliati i genitali, mentre a varie donne sono state infilate nella vagina e nell’ano barre di ferro o altri oggetti. In altri casi i miliziani hanno sparato ai genitali o ai seni delle loro vittime. Nei kibbutz - Oltre che sul luogo del rave e sulla Route 232, i miliziani di Hamas hanno assaltato militari di alcune basi al confine con la Striscia e civili in vari kibbutz situati poco oltre i confini di Gaza. A Be’eri, il kibbutz dove sono stati uccise 90 persone, i volontari di Zaka - l’organizzazione che si occupa di raccogliere resti umani di qualsiasi tipo, nei casi di vittime di guerre, per dare alle spoglie degna sepoltura secondo le tradizioni ebraiche - hanno trovato una fila di case con corpi di donne e ragazze morte dopo essere state seviziate. Le hanno trovate senza biancheria intima, con macchie di seme sul corpo e, in un caso, con un coltello piantato nella vagina. Anche soldatesse dell’esercito israeliano (Idf) sono state violentate, secondo varie testimonianze raccolte da ArccI. Maayan, un medico e militare, ha riconosciuto segni di violenza su almeno 10 di loro. L’associazione indica che anche alcuni ostaggi, donne e uomini, hanno subito e possano tuttora subire violenze sessuali, stando alle testimonianze di alcuni di quelli tornati a casa in novembre. Tamar Herzig, da femminista e donna di sinistra, si è detta delusa dalla scarsa solidarietà ricevuta dai movimenti femministi fuori Israele e anche in Italia per le atrocità commesse contro donne ebree il 7 ottobre e contro quelle ancora tenute ostaggio da Hamas. “Chiedo che le violenze sessuali commesse sulle donne ebree vengano riconosciute l’8 marzo dai movimenti femministi italiani ed europei, da Non una di meno che se ne dimentica sempre. Riconoscere la sofferenza delle donne israeliane non significa cancellare quella delle donne palestinesi. Si possono riconoscere entrambe, una non cancella l’altra”, ha detto Herzig, all’incontro organizzato dall’ambasciata israeliana a Roma. La studiosa ha spiegato di essere molto critica con il governo di Benjamin Netanyahu, che spera cada al più presto. Ma, pur condannando la condotta israeliana della guerra e la grave situazione umanitaria nella Striscia, denuncia che “questo non legittima il silenzio assordante sulle sofferenze delle donne ebree”. L’uscita di un rapporto dell’Onu sugli stupri del 7 ottobre è per Herzig e la portavoce dell’ambasciata Inbal Natan Gabay il riconoscimento di una tragedia così dolorosa per il popolo israeliano, della cui veridicità, dice la studiosa, si è a volte dubitato. “Subito dopo il 7 ottobre, in Israele abbiamo saputo quello che era successo, lo stupro e il massacro delle vittime. Ora finalmente è stato riconosciuto dall’Onu, in modo molto cauto”, ha detto la docente. C’era un silenzio preoccupante fino a ieri, ha detto la portavoce dell’ambasciata. “Eravamo profondamente delusi dalle organizzazioni internazionali che consideravamo come dei partner”. Il rapporto dell’Onu - Le conclusioni di ArccI sono state corroborate, almeno in parte, dal rapporto dell’Onu uscito lunedì sera. La missione del rappresentante speciale delle Nazioni unite sulla violenza sessuale nei conflitti ha riscontrato “buone ragioni per credere” che ci siano state violenze sessuali, inclusi stupri, anche di gruppo, al rave, sulla Strada 232 e al kibbutz Re’im. In almeno due casi, si tratterebbe dello stupro di due cadaveri. Nel caso di Kfar Azza o di una base militare, la missione non è stata in grado di verificare le avvenute violenze, malgrado ci fossero delle indicazioni o testimonianze che lo lasciassero presupporre. Ha invece trovato senza fondamento almeno due casi di stupro a Be’eri ampiamente raccontati dai media, mentre non è stata in grado di identificare la sistematicità della mutilazione dei genitali durante gli attacchi. Ben più esplicite sono state le conclusioni del rapporto sulle violenze sessuali sugli ostaggi prigionieri nella Striscia. Qui, la missione ha riscontrato informazioni “chiare e convincenti” su casi di stupro, tortura a sfondo sessuale, trattamenti crudeli, disumani e degradanti nei confronti degli ostaggi, che starebbero continuando contro coloro ancora in prigionia. Raccomandando un’indagine da parte di altri organismi Onu, la missione ha concluso che ci vorranno mesi o anni per capire la vera portata di questa tragedia, che potremmo non arrivare a conoscere mai. I funzionari Onu si sono dedicati anche ai Territori occupati, con la raccolta di testimonianze di palestinesi di quelle zone riguardo a presunti casi di violenza sessuale perpetrata da autorità o coloni israeliani, sia nei confronti di detenuti che di civili durante i raid di abitazioni o controlli ai checkpoint. I leader di Hamas hanno negato qualsiasi responsabilità per le aggressioni sessuali riportate dal rapporto Onu. Quanto dichiarato dai miliziani è in linea con la ricostruzione degli eventi fatta nel loro documento “La nostra narrazione… Operazione Al Aqsa Flood” pubblicato in gennaio. Qui, l’organizzazione nega che ci siano prove di “stupri di massa”, affermando invece che Israele ha usato quest’accusa “per fomentare il genocidio a Gaza”. Hamas sostiene nel documento che la battaglia del popolo palestinese contro l’occupazione e il colonialismo è iniziata 105 anni fa, quando la Palestina storica era sotto il mandato britannico. “In questi lunghi decenni il popolo palestinese ha subito ogni forma di oppressione, ingiustizia, esproprio dei propri diritti fondamentali e politiche di apartheid”, scrive Hamas. Quindi, Hamas conclude, il 7 ottobre è stato “un passo necessario e la normale risposta per opporsi alla cospirazione israeliana contro i palestinesi e la loro causa. È stato un atto difensivo nel quadro della lotta di liberazione dall’occupazione israeliana, reclamando i diritti dei palestinesi, verso la liberazione e l’indipendenza, come tutti i popoli del mondo hanno fatto”. Iran. La repressione delle proteste scatena il boia: 834 impiccati nel 2023 di Fabio Carminati Avvenire, 6 marzo 2024 Un nuovo rapporto delle Ong denuncia che nel periodo delle proteste per l’uccisione di Mahsa Amini il regime ha superato del 43% l’anno precedente: è la cifra più alta dal 2015. Il principio numero uno del regime degli ayatollah è sempre lo stesso: negare, comunque. Il secondo rispondere con il silenzio ai continui rapporti che ogni anno registrano l’aumento del ricorso alla pena di morte come principale strumento di controllo della sicurezza, come gli arresti e le delazioni. I classici sistemi dittatoriali di un regime che si perpetua fondandosi sulla paura e sul capestro delle impiccagioni. E l’ultima denuncia è purtroppo in linea con le precedenti. L’Iran ha messo a morte almeno 834 persone nel 2023, un aumento “allarmante” del 43% rispetto al 2022 e la cifra più alta dal 2015, secondo il rapporto annuale delle Ong Iran Human Rights e Ensemble Against the Death Penalty. “Il numero delle esecuzioni è letteralmente esploso nel 2023”, sottolinea il 16esimo rapporto delle Organizzazioni non governative sulla pena di morte in Iran. “E’ la seconda volta in 20 anni che il numero delle esecuzioni supera la soglia delle 800 all’anno”, sostengono queste organizzazioni, che denunciano una cifra “terribile”. Le esecuzioni in Iran, uno dei Paesi che esegue più esecuzioni insieme a Cina e Arabia Saudita, vengono effettuate mediante impiccagione. Delle esecuzioni del 2023, almeno 22 riguardano donne: è il numero più alto degli ultimi dieci anni, secondo il rapporto. Nel 2015, le autorita’ iraniane avevano portato a termine l’esecuzione di 972 persone, ricorda il documento di Iran Human Rights (Ihrngo), con sede in Norvegia, e Together Against the Death Penalty (Ecpm), con sede a Parigi. Nel rapporto di 100 pagine, le Ong accusano l’Iran di utilizzare la pena di morte come “strumento di repressione politica” del vasto movimento di protesta innescato dalla morte mentre era agli arresti, nel settembre 2022 di Mahsa Amini, una curda iraniana di 22 anni, che era stata fermata dalla polizia morale nel settembre 2022 perché indossava il velo in modo “non regolare”. Proteste chhe sono proseguite in tutto il 2023 con centinaia di arresti, soprattutto nel Baluchistan provincia di origine della ragazza. “Instillare la paura nella società è l’unico modo per il regime possa restare al potere, e la pena di morte è il suo strumento più importante”, denuncia Mahmood Amiry-Moghaddam, direttore di Ihrngo, in un comunicato stampa. Il rapporto non include nelle sue statistiche “almeno 551 persone uccise durante manifestazioni o altre esecuzioni extragiudiziali all’interno e all’esterno delle carceri”, sottolinea. Fra le persone impiccate, ci sono almeno otto manifestanti, sei dei quali arrestati nel contesto delle manifestazioni e condannati. Secondo il rapporto, almeno 471 persone (il 56% del totale) sono state giustiziate per casi legati alla droga - più di 18 volte la cifra registrata nel 2020 - e almeno 282 persone (il 34% del totale) per omicidio. L’Iran, che ha uno dei tassi di consumo di oppioidi più alti al mondo, è una delle principali rotte per il traffico della droga dal vicino Afghanistan verso l’Europa e il Medio Oriente. “La clamorosa escalation del numero di esecuzioni legate alla droga nel 2023 è particolarmente preoccupante”, affermano le Ong. “Le persone uccise per reati di droga appartengono alle comunità più emarginate della società, e le minoranze etniche, in particolare i beluchi, sono largamente sovra rappresentate tra le persone messe a morte”, denuncia il rapporto. Argentina. Abbandonati, poveri, senza famiglia: la vita crudele degli orfani di Buenos Aires di Roberto Saviano Corriere della Sera, 6 marzo 2024 I genitori li hanno abbandonati o sono morti, i piccoli della capitale argentina vivono esistenze misere, il loro destino è nelle mani dei volontari che cercano di salvarli dall’ultima beffa: non avere neanche un futuro. I bambini. Dei bambini si parla troppo, dei bambini si parla spesso, dei bambini si parla solo. Ci si indigna per le condizioni in cui vivono, ci si morde il labbro dalla rabbia, si versa qualche lacrima, ma poi si passa oltre. Cosa possiamo fare, eh? Cosa? Possiamo guardare, possiamo fissare lo sguardo senza distoglierlo. Sembra una frase banale, finanche patetica, ma credetemi, non lo è. Se siete qui, se state frequentando queste mie parole, allora fermatevi a guardare queste foto, sono loro le protagoniste; le mie parole sono al loro servizio e di chi le ha scattate: Valerio Bispuri. È lui, insieme ai soggetti ritratti, il protagonista assoluto di queste pagine perché è suo lo sguardo che ha catturato e raccontato tutta la sofferenza e tutto l’amore del mondo. Da anni Bispuri mi coinvolge nei suoi progetti: ha condiviso con me le immagini raccapriccianti dei detenuti, erano foto scattate a Poggioreale, dove non c’era privacy nemmeno per defecare. È un servizio, questo, che risale a molti anni fa, ma le condizioni dei penitenziari italiani non sono mutate e nelle nostre carceri si suicida un detenuto ogni due giorni. Ha condiviso con me le foto delle “cucine” dei narcos, dove anche i bambini lavorano la droga che parte dal Sudamerica e arriva ovunque. E oggi mi mostra le foto degli orfani di Buenos Aires, che descrivono una realtà che in molti, alle nostre latitudini, ignorano. È la povertà quella che abbiamo davanti agli occhi. Una povertà muta. Muta perché le sue parole non trovano ascolto da nessuna parte. Muta perché stanca di urlare. Muta perché sa che niente e nessuno le riserverà attenzione. Muta perché sa che il mondo è affetto da un virus che non ha vaccino, quel benaltrismo che evoca sempre, per non concentrarsi su un dramma specifico, mille altri drammi. E allora eccoci tutti a planare leggeri sulle sofferenze; eccoci tutti a osservarle da altezze siderali in modo che volti ed espressioni restino confuse e indistinguibili. Ma qui siamo in Argentina, questo lo avete capito. E chi se la sente presti attenzione sapendo che è un primo importantissimo passo. Siamo in un piccolo orfanotrofio nella città Lomas de Zamora, nella provincia di Buenos Aires. Siamo in una struttura privata, gestita da volontari, che si trova nel piccolo barrio di Buena Esperanza, nome che stride totalmente con quello che accade in questo luogo circondato da favelas dove, fino a qualche tempo fa la criminalità dominante non era solo quella autoctona, ma anche quella peruviana e paraguayana. Nell’orfanotrofio i minori sono 18, prevalentemente bambine. Non hanno genitori, oppure li hanno ma sono stati abbandonati. Talvolta sono loro a essere scappati da situazioni devastanti. Hanno tutti subito violenze in famiglia, hanno tutti subito violenze in strada. I padri sono assenti e le madri spacciano o si prostituiscono. Non tutti frequentano la scuola, non hanno niente e quel poco che hanno lo condividono. Condividono, però, anche e soprattutto la miseria. Nella prima foto, sul letto, ci sono Alma, Mia, Sebastian e poi c’è Dulce allo specchio che si sta truccando; gli altri stanno guardando un vecchio tv. Vivono tutti insieme, dormono negli stessi letti. Già essere lontani dalla strada per loro è salvezza perché molti bambini, negli orfanotrofi, non riescono nemmeno ad arrivarci. Questo piccolo rifugio è sempre in affanno: in Argentina gli orfanotrofi sono spesso gestiti da Ong a cui mancano le risorse, ecco perché aver criminalizzato la solidarietà ha fatto un danno immenso e ha colpito a morte i più deboli. Le bambine guardano fuori: Valerio Bispuri mi spiega che è un bisogno che sentono forte, quello di guardare fuori dalle finestre, quasi a cercare un altrove, un mondo dove andare, un luogo diverso da quello in cui vivono. Nell’ultima foto c’è Alma, una bimba di 8 anni, che viene carezzata da una ragazza più grande nel Comedor di Vittoria. Vittoria è una donna di 67 anni, è lei che ha guidato Valerio Bispuri in questo e in altri viaggi. Vittoria gestisce il Comedor “Padre Conforti” vicino a La Salada, il mercato illegale più grande dell’America Latina, che prima si svolgeva soltanto di notte, adesso anche di giorno. Per Valerio è stato difficile entrare nel quartiere. Difficile di giorno, impossibile di notte. Impossibile e soprattutto pericoloso. Sono terre da cui lo Stato è assente. Assente nella cura e assente nel portare sicurezza. Accanto al mercato c’è il Comedor dove vanno a mangiare i bambini dell’orfanotrofio, ai quali i volontari servono un pasto caldo al giorno. E poi ci sono i giochi: qui si gioca con qualunque cosa. Alma e Dulce giocano con la carcassa di una lavatrice, accanto a loro c’è una capretta. Il rapporto con gli animali è fondamentale perché di loro i bambini si fidano istintivamente. Spesso è la vicinanza con gli animali la terapia più efficace per strappare gli orfani dal guscio di autoprotezione nel quale sono rintanati. All’orfanotrofio di Buena Esperanza c’è anche un omone autistico di 18 anni che tutti chiamano El Gordo, vive con i bambini che gli vogliono bene. L’altro orfanotrofio ritratto nelle foto di Valerio Bispuri si trova a Moreno, cittadina a poche decine di chilometri da Buenos Aires. È un orfanotrofio statale, questa volta, e si chiama Los Horneros, “i fornai”. Ci vivono in 30 tra bambine e bambini. Anche loro hanno subito violenza, cosa quasi impossibile da evitare quando si viene dalla strada. Questo secondo orfanotrofio è meno fatiscente, qui i bambini frequentano tutti la scuola e sperano un giorno di potersi emancipare dalla povertà in cui sono nati. Qui riescono, pur in una condizione di grande precarietà, a trovare negli operatori dei punti di riferimento. Lo scenario è apocalittico, l’infanzia qui sembra vivere le conseguenze di una guerra: gli adulti non ci sono. I padri lasciano le famiglie, spesso sono in carcere. Le madri da sole non ce la fanno e questo determina la diffusione di malattie psichiche dovute allo stato di abbandono in cui questi bambini hanno troppo a lungo vissuto, alle vessazioni e alle violenze subite e alla totale mancanza di politiche sociali adeguate. In Argentina versa in uno stato di povertà oltre il 44% della popolazione, per un totale di oltre 20milioni di persone. I report parlano di 16 minori su 100 in situazioni di povertà estrema, il paradosso quindi è che gli orfani ritratti da Valerio Bispuri qualcuno potrebbe addirittura definirli orfani privilegiati - incredibile associale la parola “privilegio” alle condizioni di vita che le fotografie mostrano, alla mancanza di figure stabili di riferimento, di istruzione e di beni di prima necessità - perché hanno trovato una casa e qualche carezza. In Argentina ci sono talmente tanti bambini per strada che non hanno nulla: né casa, né famiglia, nessun punto riferimento, nessuna protezione. Avere un tetto sulla testa e un pasto caldo al giorno basta per sentirsi finanche fortunati. Anita ha 4 anni, è a terra che gioca con il cane nell’orfanotrofio Los Horneros. Anita ha subito violenze e ha spesso comportamenti ossessivi. È molto difficile starle vicino, ma gli operatori non smettono di provarci. È difficile stare accanto a chi ha subito violenza ed è vittima di abbandono. A Los Horneros ci sono anche adolescenti, qualcuna di loro vuole fare la parrucchiera, qualcun’altra la ballerina: riescono ancora a sognare. È questo il vero miracolo.