“La pena non può diventare vendetta pubblica, il carcere per i minori è veleno” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 5 marzo 2024 Giovanni Fiandaca è professore emerito di diritto penale all’Università di Palermo, tra gli studiosi più attenti alla pena e alle sue conseguenze. Per un lungo periodo è stato Garante dei detenuti della Regione Sicilia. Intervista al giurista, autore del saggio “Punizione” (Il Mulino): “La demagogia punitiva è una grave deriva. In prigione più autori di reato di quanto sarebbe strettamente necessario. La nostra civiltà giuridica rischia di regredire”. Professore, il suo libro “Punizione” (Il Mulino), in un tempo in cui vengono creati nuovi reati per ogni fenomeno di allarme sociale, o di presunto tale, assume un doppio valore. L’esigenza di punire sembra aver assunto un’urgenza maggiore ai nostri giorni, nonostante i reati gravi continuino a diminuire. Come si spiega questa contraddizione? Sì, in effetti ci troviamo di fronte a una contraddizione sotto diversi aspetti. Forse l’aspetto più vistoso è questo: mentre tra gli studiosi ed esperti di giustizia penale la punizione, intesa in senso tradizionale, si considera in crisi da alcuni decenni, la pena carceraria è oggi sempre più invocata come una sorta di vendetta pubblica. Ciò specie da forze politiche di orientamento populista che strumentalizzano per scopi di consenso elettorale, canalizzandoli in chiave iper repressiva, sentimenti di rabbia, indignazione, rancore, risentimento, diffusi negli strati più svantaggiati della società. Così il punire si alimenta soprattutto di pulsioni irrazionali a carattere ritorsivo o aggressivo. La punizione, da un punto di vista giuridico, si identifica con la pena. Con il carcere, spesso. Da garante dei detenuti lei ha avuto modo di vedere da vicino i “puniti”. Che riflessioni ha fatto in quel periodo? Da garante ho preso atto in maniera ravvicinata del drammatico divario esistente tra il carcere così come viene di fatto per lo più gestito e il modello di carcere prefigurato nella nostra Costituzione. Tra le altre cose, ho pensato che anche come studiosi di diritto penale dovremmo fare sentire di più la nostra voce nell’arena pubblica per contribuire a migliorare la situazione penitenziaria. Le carceri stanno vivendo mesi drammatici. Sovraffollamento, ma non solo: sono già circa venti i detenuti che si sono tolti la vita in cella. Come si può invertire la rotta? Forse il problema è proprio il modo in cui la pena è pensata... Il principale problema è che in carcere ci sono molti più autori di reato di quanto sarebbe strettamente necessario e la prigione non solo rieduca poco, in un numero rilevante di casi provoca effetti ulteriormente desocializzanti, anche sotto forma di disagi e disturbi psicologici con conseguente aumento di suicidi e atti autolesivi. Occorre non solo incrementare la disponibilità di educatori e psicologi, sarebbero necessari interventi legislativi per sfoltire in misura consistente la popolazione carceraria. Nonostante i progressi fatti dalla civiltà, l’istinto, anche un po’ primordiale, di punire il reo senza curarsi del suo reinserimento nella società è ancora vivo nell’opinione pubblica. Una delle prime proposte di legge di questa legislatura puntava addirittura a inserire in Costituzione la funzione punitiva della pena. La civiltà giuridica sta regredendo? Sì, c’è un rischio di regressione della nostra civiltà giuridica, come dimostra tra l’altro la proposta cui lei allude di modifica della disposizione costituzionale sulla finalità rieducativa della pena. La cultura penalistica che sta dietro una proposta come questa è obsoleta e regressiva perché ripropone un vetero-retribuzionismo incompatibile con i principi e i valori di una democrazia liberale degna di questo nome. Ma il problema è appunto culturale prima che politico. È per questo che in linea teorica è da promuovere un riorientamento culturale di larghi strati della nostra società. La demagogia punitiva è una grave deriva che è stata più volte stigmatizzata, non a caso, anche da Papa Francesco. Nel suo libro cita Giorgio Del Vecchio e fa molti riferimenti alla funzione riparativa della pena. La giustizia riparativa, quella che fa incontrare vittima e reo, può essere davvero efficace? La giustizia riparativa pone oggi di fronte alla sfida di riuscire a valorizzarla al meglio in funzione beninteso complementare rispetto alla tradizionale giustizia punitiva, ma non può essere considerata una bacchetta magica per rimediare alle insufficienze e ai limiti di rendimento della giustizia penale classica. Guai, però, se diventasse un alibi a copertura delle persistenti lacune e inadempienze sul versante dei trattamenti rieducativi degli autori di reato. Incombe inoltre il grosso rischio, da scongiurare, che il ricorso alla giustizia riparativa sposti troppo l’attenzione dagli autori alle vittime, mentre è necessario rinvenire un equilibrio tra i rispettivi interessi degli uni e degli altri. Quali sono le conseguenze del populismo penale lo stiamo già vedendo. Stiamo registrando un boom di minori in carcere: cifre che non si vedevano da decenni, anche a causa del decreto Caivano. Che conseguenze ha nella società una legislazione penale che guarda più alla repressione che non alla prevenzione, soprattutto quando si rivolge ai giovanissimi? La conseguenza perniciosa è che si fa a meno di intervenire alla fonte sulle cause genetiche dei fenomeni di criminalità e devianza, per di più il carcere, se utilizzato come principale medicina, anche per i soggetti minori è destinato a tramutarsi in veleno che intossica ancora di più piuttosto che curare i giovanissimi che vi vengono rinchiusi. Insomma, il carcere diventa un sicuro moltiplicatore di criminalità futura. Suicidi in carcere, l’Ucpi proclama lo sciopero per il 20 marzo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 marzo 2024 E l’Aiga chiede al ministro Nordio l’istituzione di un tavolo tecnico. I penalisti italiani il prossimo 20 marzo si asterranno dalle udienze e hanno organizzato una manifestazione nazionale a Roma. L’Unione Camere penali italiane nella delibera con la quale proclama la giornata di agitazione mette in evidenza come “il fenomeno dei suicidi avvenuti in carcere nei primi 58 giorni del 2024 è in continua ascesa circa uno ogni due giorni” e “appare oramai improcrastinabile un immediato intervento del governo e della politica, tutta, al fine di arginare la strage in atto”. Secondo l’Ucpi “occorre sensibilizzare l’opinione pubblica e, soprattutto, persuadere il governo, il Parlamento e la politica tutta circa la necessità di adottare atti di clemenza generalizzati, quali l’indulto o l’amnistia, legiferare urgentemente in materia di concessione della liberazione speciale anticipata, introdurre il sistema del “numero chiuso” ovvero ogni altro strumento atto a limitare in futuro il ripetersi del fenomeno del sovraffollamento, prevedendo misure extradetentive speciali per detenuti in espiazione breve e operare una congrua depenalizzazione, oltre che ridimensionare l’impiego delle misure cautelari personali intramurarie, riconducendole ai principi liberali del minor sacrificio possibile e della presunzione di innocenza”. L’Unione Camere penali italiane denuncia che “nonostante l’emergenza umanitaria in atto imponga un cambio di passo immediato, non si è ancora registrata una chiara e netta presa di posizione del governo volta a rimediare all’ingravescente fenomeno del sovraffollamento” e “ribadisce con forza e determinazione il proprio appello al governo e a tutte le forze parlamentari affinché si possa realizzare, tutti insieme, l’obiettivo di arrestare con efficacia il terribile fenomeno dei suicidi in carcere, con l’assoluta convinzione che “non c’è più tempo”“. I penalisti italiani sottolineano come “ogni giorno trascorso senza che siano attuati rimedi idonei a scongiurare la morte, per malattia e per suicidio, negli istituti penitenziari non può che accrescere le responsabilità, politica e morale, di coloro che tale fenomeno hanno l’obbligo di affrontare con rimedi urgenti e inderogabili”. Nella delibera si evidenzia il pericolo concreto che togliersi la vita in carcere possa rappresentare, per i tanti oppressi, una “soluzione” da emulare, per sfuggire a condizioni di privazione della libertà sempre più umilianti e disumane” che “il sovraffollamento carcerario, la patologica carenza negli organici di agenti penitenziari, di medici e psichiatri e di operatori sociali acuiscono le già penose condizioni di vita dei detenuti” e che “preoccupa ulteriormente il susseguirsi di episodi di violenza sui detenuti”. Anche l’Associazione italiana giovani avvocati sottolinea in una nota le sue preoccupazioni per i suicidi in carcere che “denotano un problema sociale non più procrastinabile e in preoccupante e progressiva ascesa, ormai da anni. Il problema dei suicidi è chiaramente interconnesso con le macro questioni inerenti il costante aumento del sovraffollamento carcerario, le consistenti carenze organiche, nonché i deficit strutturali della gran parte delle nostre carceri”. L’Aiga si dice convinta che “sia necessaria una riforma strutturale dell’Ordinamento penitenziario” e ha chiesto al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, consapevole della Sua attenzione al tema carceri, l’istituzione di un tavolo tecnico finalizzato a elaborare una riforma organica dell’attuale ordinamento penitenziario. La nota dell’Aiga si conclude sottolineando che “la recentissima sottoscrizione del Protocollo tra l’Aiga e il Cesp (Centro Europeo di Studi Penitenziari), contribuisce ad evidenziare la volontà della giovane avvocatura di voler essere parte attiva e propositiva nell’affrontare questa vera e propria emergenza sociale, condividendo ed ampliando l’insieme di esperienze e professionalità così da poter fornire al ministero e all’Amministrazione penitenziaria il miglior contributo possibile”. Carceri, spazi e strutture obsolete. Quanto a lungo possiamo ignorare chi ci vive all’interno? di Francesco Chiamulera Corriere del Veneto, 5 marzo 2024 C’è un’ulteriore questione che riguarda quello che vogliamo per l’”altro” nella nostra società, per colui o colei che passa un confine. L’hanno trovato la mattina del primo marzo, senza vita. Magari il giovane detenuto del Due Palazzi di Padova è morto per problemi di salute pregressi, magari no. Certo che a raccontare una storia più complessiva nelle carceri, a di là dell’evento individuale, restano i numeri. Potremmo parlare dei cinque suicidi a Montorio, in soli cinque mesi, che hanno indotto gli avvocati della camera penale a proclamare lo sciopero della fame. O dei 508 reclusi a Padova, con soli 308 poliziotti, e la corsa a rimpinguare le fila con nuove assunzioni. O soprattutto del 120%: che secondo Antigone era il tasso di affollamento delle carceri venete nel 2022 (in Friuli è 136%). L’”altro” nella nostra società - Non è solo una questione di spazi e strutture obsolete. Certo, c’è anche e soprattutto quello. Ma c’è un’ulteriore questione, che riguarda quello che vogliamo per l’”altro” nella nostra società. Per colui o colei che passa un confine. Quello delle mura di una prigione, oppure il confine, privo di colpa giudiziaria, con gli anziani non autosufficienti: oltre 5mila in Veneto, in 46 case di riposo. E il parallelo è tutto in piedi, se si guarda alla necessità di riforma delle residenze per anziani: dove l’ibrido pubblico-privato ha spesso generato ricavi molto alti per i proprietari sussidiati dallo Stato, a fronte di un servizio mediamente così carente che basta googlare qualsiasi nome di gruppo di case di riposo associato a “condanna” per avere un simpatico ventaglio di casistiche (incuria, personale sottodimensionato, larve…). Perché più che il caso cinematografico dell’operatore sadico la gran parte dei drammi per gli anziani dipende dal rapporto tra posti letto e organico: risparmiare sugli stipendi, fare utili sull’assistenza. Quanto tutto questo riguarda gli “altri”? Le domande - La maggioranza di noi non si troverà nella vita ad affrontare una condanna che porti all’incarcerazione. Ma la maggioranza sicuramente diventerà anziana, e per molti il problema di invecchiare nel rispetto e nella dignità si porrà. In questi giorni è nelle sale uno stupendo e terribile film di Jonathan Glazer, “La zona d’interesse”, in parte basato su un romanzo di Martin Amis. Tratta di una storia vera, e cioè come una famiglia di tedeschi visse serenamente per anni in una villetta con giardino che sorgeva accanto al muro elettrificato di Auschwitz. Accanto all’inferno. Le carceri e le Rsa decisamente non sono un campo di concentramento, ogni parallelo sarebbe demenziale, offensivo, improponibile. Resta però la domanda: quanto a lungo possiamo pensare che i nostri concittadini che vivono a pochi metri di distanza da noi, dalle nostre vite indaffarate e allegre, siano davvero “altri” da noi? Quanto a lungo possiamo ignorarli e continuare a guardare serenamente altrove? I 30mila Beniamino Zuncheddu italiani: quando l’ingiusta detenzione diventa una passione di Francesco Iacopino Il Riformista, 5 marzo 2024 La vicenda giudiziaria di Beniamino Zuncheddu ha scosso la coscienza collettiva. Arrestato a 27 anni per una “strage” mai commessa, ha sopportato per 33 interminabili anni l’ingiusta privazione della sua libertà, dei suoi sogni e della sua stessa vita, consumata per metà negli angusti spazi di un istituto di pena. Un caso eclatante di mala giustizia, tutt’altro che isolato. Il caso Zuncheddu -lo sanno bene gli addetti ai lavori-rappresenta purtroppo la punta dell’iceberg del fenomeno ben più ampio e diffuso dell’errore giudiziario, nel cui genus si inquadra la inarrestabile species dell’ingiusta detenzione, costituita dal carcere preventivo, una misura cautelare somministrata ad alte dosi nei confronti di chi si trovi catapultato nel tritacarne giudiziario del nostro paese, in attesa di un giudizio. Come sempre, la nuda aritmetica è idonea a offrirci una prima, efficace, rappresentazione fotografica del fenomeno. E le immagini sono allarmanti. Negli ultimi trent’anni sono state detenute ingiustamente circa 30.000 persone, 1.000 all’anno, con una media di tre al giorno. Lo Stato ha corrisposto quasi un miliardo di euro di indennizzo nei confronti delle vittime della (in)giustizia. Per quanto esondanti, però, i numeri sono tuttavia parziali e incapaci di restituirci l’effettiva dimensione drammatica della realtà. Vi sono tanti imputati, cautelati nel corso del processo e poi assolti nel giudizio di cognizione, che per paura o per stanchezza non se la sono sentita di avviare iniziative giudiziali contro lo Stato, finalizzate al riconoscimento dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione. Ancora, negli anni, molte richieste sono state respinte sistematicamente da una giurisprudenza restrittiva che ha ravvisato la “colpa” dell’arrestato, ogni qual volta questi si sia avvalso durante il processo (fosse anche nelle sole fasi iniziali) del diritto al silenzio. Con evidente contraddizione di un sistema che, con una mano, riconosce il silenzio quale espressione del diritto di difesa (nel rispetto del principio del nemo tenetur se detegere) e, con l’altra, “usa” l’esercizio di quel diritto quale circostanza ostativa al riconoscimento dell’indennizzo da parte dello Stato. Oltre al danno, la beffa. Di fronte alla drammaticità del fenomeno, dobbiamo riconoscere che il nostro tempo è contrassegnato dalla esasperazione del momento punitivo, tanto nel corso del giudizio, ove sempre maggiore è l’uso intensivo, bulimico, della leva cautelare - e, in particolare, della custodia in carcere (da tempo svuotata della sua dimensione di extrema ratio) -, quanto nella fase dell’esecuzione penale, ispirata sempre più da una logica carcerocentrica. Come ha ben scritto il sociologo e antropologo francese Didier Fassin nel suo saggio “Punire. Una passione contemporanea”, viviamo in una società punitiva che negli ultimi 40 anni è progressivamente (ri)entrata nell’era del castigo. Basti pensare che in tale forbice temporale i tassi di incarcerazione sono aumentati del 180%. È la corsa folle, inarrestabile, del moderno penale vendicativo, onnivoro, insaziabile. Ad amplificare il fenomeno punitivo, l’apparato mediatico-giudiziario, che alimenta il sovradosaggio farmacologico della penalità nel tessuto sociale, oramai assuefattosi alla terapia intensiva delle manette in un circolo vizioso che non si riesce più a spezzare. E così, in una democrazia emotiva, davanti al “Tribunale del Popolo” la sentenza sociale è emessa in modo rapido e sommario, senza l’osservanza di regole formali. In barba alla presunzione di innocenza, prescindendo dallo sviluppo del processo nella sua sede naturale si assiste alla lettura di verdetti inappellabili, con danno reputazionale incalcolabile, essendo noto a tutti che l’assoluzione emessa all’esito del giudizio ordinario se, da un lato, servirà a tenere pulita la “fedina penale”, alcuna incidenza avrà invece su quella sociale. In questo stato di cose, bisogna prendere atto che il modello pan-penalistico che si è fatto progressivamente strada negli ultimi decenni, regolando spesso con la leva penale il disagio sociale, si è rivelato fallimentare. L’eccesso di penalità non ci ha restituito maggiore sicurezza collettiva. Al contrario, ha eroso gli spazi di libertà, come ci insegnano le esperienze vissute sulla carne viva dai tanti, troppi Beniamino Zuncheddu, persone della porta accanto che hanno conosciuto il volto muscolare dello Stato. Non è possibile indagare in questa sede le molteplici cause del fenomeno. Una, però, non può essere taciuta e riguarda il fattore culturale. Bisogna riallinearsi anche nel discorso pubblico e nella ragione collettiva all’orizzonte assiologico disegnato dai nostri padri costituenti. Il diritto penale, oggi, non rappresenta più la Magna Charta del reo, il limite alla pretesa punitiva dello Stato, ma uno strumento di lotta sociale. Ecco perché l’unico argine alla deriva punitiva è il recupero dell’impegno civile in difesa dei valori non negoziabili sui quali è edificata la nostra civiltà del diritto. In tale direzione, come ci insegna Vincenzo Maiello, è necessario opporre “al moderno diritto penale di lotta, una moderna lotta per il diritto”. Contro l’Italia dello sputtanamento di Claudio Cerasa Il Foglio, 5 marzo 2024 Dossieraggio, intercettazioni, trojan: il filo è lo stesso: “Lo stato di diritto si protegge con nuovi equilibri tra poteri dello stato”. Una chiacchierata con il ministro della Giustizia, tra Anm, Mattarella, sfide ai magistrati e tre idee sulle carceri. Dalle parole di Mattarella alle proteste dell’Anm. Dai manganelli in eccesso alla promessa sulla separazione delle carriere. Dalle correnti non domate allo sputtanamento a mezzo stampa. Il tutto con un filo conduttore: la necessità assoluta di riequilibrare il rapporto tra potere legislativo e potere giudiziario e il dovere di trasformare la tutela dello stato di diritto non in un dovere dei garantisti ma semplicemente dello stato. Abbiamo passato un po’ di tempo con il ministro della Giustizia Carlo Nordio, abbiamo provato a fare il punto con lui sulla fase vissuta dall’esecutivo, gli abbiamo chiesto conto delle molte promesse non ancora realizzate dal governo e abbiamo cominciato la nostra chiacchierata partendo da una notizia che ha colpito l’attenzione di molti osservatori: l’inchiesta aperta dalla procura di Perugia sul monitoraggio abusivo degli archivi informatici e delle banche dati sensibili contestato al finanziere Pasquale Striano. Ministro: cosa può fare il governo per evitare concretamente che, al di là della singola vicenda, le banche dati della Giustizia vengano utilizzate in modo disinvolto per costruire dossier? “Essendoci un’inchiesta in corso ogni commento da parte mia sarebbe improprio. In linea generale posso dire che l’acquisizione di dati sensibili dovrebbe essere sottoposta a controlli rigorosissimi. Come liberale, io antepongo la dignità e la privacy del cittadino a ogni altro valore, salvo i casi di necessità di tutela della sicurezza dello stato. Purtroppo in Italia non abbiamo questa sensibilità: teniamo ancora in vigore il codice Rocco, di matrice fascista, ispirato a quello stato etico hegeliano che può interferire in modo eccessivo nella vita dei cittadini. Come appunto accade nel dossieraggio e, ovviamente, anche nelle intercettazioni”. A proposito di dossieraggio: nel 2022 il numero di telefoni e dispositivi intercettati dai magistrati tramite trojan è aumentato del 24 per cento rispetto al 2021, passando da 2.894 a 3.584. Ci spiega cosa intende fare il governo per mettere un punto a una forma di invasività nella vita dei cittadini che costituisce un problema persino più grave rispetto al semplice e casuale dossieraggio? Si tratta o no, anche qui, di un vulnus allo stato di diritto? “Nessun dubbio. L’articolo 15 della Costituzione definisce inviolabile la segretezza delle comunicazioni. La segretezza è infatti l’attributo della libertà, come il voto. La loro captazione da parte della magistratura dev’essere l’eccezione, mentre sta diventando la regola. In Italia le intercettazioni sono dieci volte più numerose della media delle democrazie occidentali. Rimedieremo”. Rispetto al tema del riequilibrio tra i poteri dello stato, qualche segnale interessante c’è. Negli ultimi tempi, prima sul caso Renzi (e-mail e Whastapp sono corrispondenza: non si possono intercettare senza chiedere l’autorizzazione del Parlamento) e poi sul caso Esposito (non si può intercettare indirettamente un parlamentare senza chiedere l’autorizzazione al Parlamento), la Consulta ha offerto strumenti e sentenze per provare a riequilibrare il rapporto tra potere esecutivo e potere giudiziario, togliendo al secondo un po’ di potere di ricatto nei confronti del primo. Qual è il provvedimento più importante che ha in mente Nordio per portare in Italia più Montesquieu e meno Rousseau? “Ho in mente l’attuazione radicale del codice accusatorio disegnato da Giuliano Vassalli, già presidente della Corte costituzionale, eroe della Resistenza e non sospetto di ostilità verso i magistrati. Il suo codice è stato snaturato e demolito, noi vogliamo riportarlo al suo garantismo ispirato alla tradizione liberale anglosassone. Siamo già avanti nel lavoro, la commissione presieduta dal capo dell’ufficio legislativo, Antonello Mura, sta procedendo bene. Lo stesso per le intercettazioni. Abbiamo lavorato molto con la commissione presieduta da Giulia Bongiorno, e presto presenteremo il testo sui sequestri dei cellulari, in linea con la sentenza da lei citata”. Chiediamo a Nordio se il 2024 può essere l’anno della separazione delle carriere: le promesse ci sono, ma la riforma sembra molto lontana, e molto utopistica. È così? “La separazione delle carriere è nel nostro programma, ed è un dovere verso gli elettori che ci hanno votato. Ma per essere radicale occorre una riforma costituzionale, perché la legge Cartabia ha già posto paletti molto rigorosi. Questo richiede tempi più lunghi, anche perché prima vi sarà quella sul premierato. Poiché sono convinto che governo e maggioranza dureranno cinque anni, entro lo scadere della legislatura sarà fatta”. Si è creato molto scandalo per l’ipotesi di introdurre dei test psicoattitudinali nella magistratura. È sempre convinto sia una buona idea? “Nel mio primo libro sulla Giustizia, nel 1997, sostenni addirittura la necessità di un esame psichiatrico, anche perché vi erano stati casi di comportamenti a dir poco eccentrici da parte di alcuni colleghi. Il professor Giuseppe Di Federico, massima autorità in materia, ne ha documentati molti. Il test psicoattitudinale è ormai obbligatorio per chi riveste funzioni importanti. Se lo fanno i poliziotti, perché non deve farlo il pm che dirige la Polizia giudiziaria? L’autocertificazione di virtù e di equilibrio da parte della magistratura è irrazionale e persino offensiva verso le altre categorie di operatori, che si sottopongono al test senza sentirsi umiliati”. Sulla riduzione dei magistrati fuori ruolo, la maggioranza di cui fa parte ha scelto di fare marcia indietro. Prima ha proposto di ridurli da 200 a 180 ora ha deciso di rinviare il taglio al 2026. Non sarà che anche con il governo Meloni-Nordio le correnti della magistratura continuano a pesare troppo? “No, lo dico chiaro e tondo, qui le correnti non c’entrano nulla. La legge prevede una serie di magistrati inseriti in organismi di rango costituzionale, e il numero di 180 non consente questa copertura. Anch’io prima di entrare al ministero predicavo la riduzione del numero dei colleghi fuori organico, ora ho capito che questo non è fattibile. Ma mi lasci anche dire che non saranno quaranta magistrati fuori ruolo in più a incidere sulla lunghezza dei nostri processi. Da mezzo secolo abbiamo un deficit di coperture di 1.500 posti. Noi saremo i primi a colmarlo”. Ministro, si sarà accorto che l’Associazione nazionale magistrati ha minacciato lo sciopero contro un possibile concorso straordinario in magistratura. Farà qualcosa per evitare lo sciopero o pensa sia una buona idea il concorso straordinario? “L’Anm aveva diffuso un comunicato durissimo su questo concorso perché era stata male informata: riteneva che fosse riservato esclusivamente ai giudici onorari. Ho ricevuto i vertici, abbiamo iniziato un discorso franco e cortese, e soprattutto ho chiesto le loro proposte per colmare entro i due anni il vuoto organico di 1.500 magistrati, operazione che tra l’altro ci è chiesta dall’Europa. Poi improvvisamente la stessa Anm ha minacciato lo stato di agitazione, con un proclama ancora più duro, prima ancora che il Consiglio dei ministri avesse deliberato alcunché. Io sono ancora in attesa delle loro proposte: una cosa è certa, entro il 2026 dobbiamo avere 1.500 nuovi magistrati, e forse di più. I soldi ci sono. Noi come ministero facciamo la nostra parte per abbreviare i tempi dei concorsi, ma il Csm da cui dipende gran parte della procedura deve fare la sua. Se non troviamo soluzioni nuove non ridurremo i tempi dei processi come vuole l’Europa. Ripeto: aspettiamo proposte concrete”. L’Anm, negli ultimi mesi, ha dimostrato di essere attiva anche a livello politico, per così dire, e ha promesso di organizzarsi per combattere la riforma del premierato. Le sembra una cosa normale? “No, non è normale. Un magistrato in quanto tale può pensarla come crede, e manifestare liberamente la sua opinione. Il suo sindacato può anche proclamare uno sciopero se vengono intaccati i suoi diritti salariali o previdenziali. Ma non può opporsi a una legge che non riguarda il suo status professionale. Soprattutto se predica l’indipendenza della magistratura come terzo potere. Sarebbe come se scioperassero governo o Parlamento. Il cittadino lo riterrebbe un’interferenza indebita e arrogante, e non è un caso se la sua fiducia nella magistratura in questi anni è crollata. Un monito autorevolissimo è arrivato anche dal presidente Sergio Mattarella sulla divisone dei poteri. E da ultimo un magistrato equilibrato ed esperto come Cuno Tarfusser, già membro della Corte penale internazionale, ha definito il nostro sistema giudiziario addirittura ‘in decomposizione’. Uno sciopero contro una legge costituzionale sarebbe la fine della credibilità della magistratura”. A proposito di Mattarella. Giorni fa il capo dello stato è intervenuto per condannare gli eccessi della Polizia nell’uso dei manganelli, in una manifestazione a Pisa. Pensa anche lei che vi sia un rischio di escalation di violenze nel nostro paese che, come dice Mattarella, non va sottovalutato? “Il presidente Mattarella dice cose sagge, che devono costituire oggetto di rispettosa riflessione. Non dimentichiamo però che se ha condannato l’uso dei manganelli ha sempre avuto parole anche più severe contro chi aggredisce le forze dell’ordine, e da ultimo contro chi offende i colleghi politici. Le manifestazioni di sabato, svoltesi senza incidenti, dimostrano che è possibile gridare il dissenso, anche quello più radicale, senza creare incidenti. Ricordiamo comunque che, come ha detto, la presidente Meloni, nella stragrande maggioranza a finire in ospedale sono stati più i poliziotti che i manifestanti”. Ci spiega perché è così importante per l’Italia il trasferimento di Chico Forti dalle carceri americane a quelle italiane? “Credo che questo sia un grande successo della nostra presidente del Consiglio. L’Italia, dopo il caso di Silvia Baraldini, consegnataci dagli Stati Uniti con il vincolo dell’esecuzione della pena in Italia, e accolta poi qui con tutti gli onori, non godeva di grande affidabilità presso gli americani. Noi ci abbiamo lavorato molto come ministero, ma sono convinto che senza l’autorevolezza personale di Giorgia Meloni questo risultato non sarebbe stato raggiunto”. A proposito di carceri e di detenuti c’è un altro tema importante che è sparito dall’agenda del governo: il caso di Ilaria Salis. Ministro, lei lo sa: l’Ungheria è un paese che fa a cazzotti con lo stato di diritto, e il caso Salis è solo la punta di un iceberg. Non sarebbe il caso che l’Italia intraprendesse un’iniziativa più a livello europeo che a livello nazionale per trasformare il caso Salis in un’occasione per illuminare le violazioni dello stato di diritto in Ungheria? “Questo è un problema politico che va oltre le mie competenze. Ferma restando la sovranità della giurisdizione di un paese, di cui anche noi siamo gelosissimi, credo che i risultati concreti si raggiungano con una diplomazia accorta e ragionata piuttosto che con le polemiche gridate. Tra l’altro anche noi teniamo in gabbia alcuni detenuti, come si fa con le bestie feroci. Non so se sia uno spettacolo anche più umiliante delle catene ai piedi”. Le carceri italiane, avrà notato, registrano da mesi numeri drammatici. Nel 2024 vi sono stati 21 suicidi: uno ogni due giorni. Ci spiega i provvedimenti che Nordio ha in mente per mettere un freno al sovraffollamento carcerario? E ci spiega se il ministro Nordio è ancora d’accordo con quel Nordio che anni fa diceva di essere favorevole anche a forme di indulto, per intervenire sul sovraffollamento delle carceri? “L’indulto è pur sempre una resa, e può esser stato utile, come l’amnistia, nei tempi passati. Ma non servirebbe a risolvere il problema del sovraffollamento. I rimedi? Tre. Primo: ridurre la carcerazione preventiva: oggi migliaia di detenuti sono in attesa di giudizio, e molti vengono alla fine prosciolti. La nostra riforma sulla collegialità dell’ordinanza di custodia cautelare ridurrà di molto queste detenzioni ingiustificate. Secondo: introdurre pene alternative per i tossicodipendenti condannati per reati minori, connessi al loro stato di dipendenza. Terzo, trovare rapidamente strutture simili a quelle carcerarie, che offrano spazio per il lavoro e l’attività fisica, rimedi essenziali alla rieducazione del detenuto. Ho lanciato l’idea delle caserme dismesse: ci stiamo provando”. Toghe e giornali nella bufera per il caso dei politici spiati di Valentina Stella Il Dubbio, 5 marzo 2024 Un finanziere in servizio alla Dna avrebbe passato per anni ai cronisti informazioni su ministri e altri vip contenute nei database riservati di via Giulia. Si accende lo scontro politico sull’inchiesta della Procura di Perugia su presunti accessi abusivi agli archivi informatici della Procura nazionale Antimafia, accessi “mirati” a esponenti politici e del mondo economico, dello sport e dello spettacolo. Tra i quindici indagati, il tenente della guardia di finanza Pasquale Striano, già al gruppo di lavoro della Dna preposto alle “Sos”, le segnalazioni di operazioni bancarie sospette, Antonio Laudati, sostituto procuratore Antimafia, e tre giornalisti del quotidiano Domani. L’inchiesta nasce da un esposto presentato dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, alla Procura di Roma dopo un articolo pubblicato dal quotidiano in merito ai compensi ricevuti dal responsabile di via Venti Settembre per le consulenze prestate, in passato, presso la società Leonardo. Essendo coinvolto Laudati, l’indagine era stata trasferita, per competenza, a Perugia. Ora il tutto riemerge nella cronaca di politica giudiziaria perché dalla Procura del capoluogo umbro è trapelato, a indagini ancora in corso, un atto di 64 pagine: l’invito agli indagati, coperto da segreto, a rendere dichiarazioni. Una fuga di notizie si era verificata, nella medesima Procura, per l’inchiesta sulla fantomatica “loggia Ungheria”. In quella circostanza proprio gli uomini di Cantone indagarono sulla violazione del segreto, e si arrivò al patteggiamento di un ex dipendente. L’indagine perugina sugli accessi abusivi ai server della Dna si concentra su presunte interrogazioni illecite a varie banche dati (soprattutto la “Siva”, il Sistema informativo valutario in uso alla Finanza, e “Serpico”, dell’Agenzia delle Entrate) che sarebbero state effettuate da parte di Striano, talvolta con il presunto avallo di Laudati, per verificare dati coperti da segreto, come redditi ed eventuali operazioni sospette a carico di Crosetto, del figlio di quest’ultimo Alessandro, dei ministri del governo Meloni Gilberto Pichetto Fratin, Marina Calderone, Giuseppe Valditara, Francesco Lollobrigida, Adolfo Urso, Maria Elisabetta Alberti Casellati, dei deputati Chiara Colosimo, Andrea Delmastro, Tommaso Foti, Marta Fascina. Ma altre “spiate” avrebbero riguardato Matteo Renzi così come il presidente della Federazione gioco calcio Gabriele Gravina, l’imprenditore Andrea Agnelli, l’ex dirigente del Miur Giovanna Boda, l’imprenditore Fabrizio Centofanti (già conosciuto per il Palamaragate), l’ex ministro Vittorio Colao, l’ex assessore alla Sanità del Lazio Alessio D’Amato, il sottosegretario della Lega Claudio Durigon, il sottosegretario e braccio destro di Meloni Giovanbattista Fazzolari, e ancora Claudio Velardi, Tommaso e Francesca Verdini, l’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti, e molti altri. Tuttavia, come riporta Domani, “nelle informazioni che Striano avrebbe mandato ai giornalisti non c’è nessun “dossier su politici e vip” ma solamente documenti agli atti delle Procure: ordinanze di custodia cautelare e informative delle forze dell’ordine già disponibili ai magistrati inquirenti e alle difese”. Le informazioni sarebbero state inviate per mail, tramite wetransfer, ai giornalisti Giovanni Tizian, Nello Trocchia, Stefano Vergine - indagati per accesso abusivo, in concorso con Striano, e rivelazione di segreto - tutti del quotidiano Domani, diretto da Emiliano Fittipaldi ed edito da Carlo De Benedetti. Gli invii coprirebbero un arco temporale di tre anni e mezzo, dal maggio 2018 all’ottobre 2022. Intanto l’ufficio di presidenza della commissione parlamentare Antimafia, guidata da Chiara Colosimo, ha calendarizzato le audizioni del vertice della Dna Giovanni Melillo, per mercoledì, e del procuratore di Perugia Raffaele Cantone, per giovedì. I due magistrati due giorni fa, tramite una lettera a doppia firma, avevano chiesto di essere auditi dalla stessa commissione oltre che dal Csm e dal Copasir. Da fonti parlamentari si apprende che quest’ultimo procederà parallelamente con la bicamerale Antimafia in vista di un “possibile detrimento alla sicurezza della Repubblica”, essendo coinvolto un ministro, mentre ancora non si hanno notizie dal Comitato di presidenza del Csm. Come ha detto il senatore Enrico Borghi, capogruppo a palazzo Madama di Italia viva e componente del Copasir, “siamo in presenza della più grande fuga di dati sensibili della nostra storia repubblicana. Intervenire sulla formazione di una squadra di governo, ricercando e propagando dati su persone che erano in predicato di essere nominate nell’esecutivo, da parte di un Corpo dello Stato è al di fuori dell’ordinamento e delle garanzie. Insomma, inutile girarci attorno: è una cosa grave”. Mentre il forzista Maurizio Gasparri chiama in causa direttamente Melillo: “Quello del dossieraggio della Procura nazionale Antimafia è uno scandalo e la stessa Dna deve risponderne”. Di diverso avviso il capogruppo Pd in commissione Antimafia Walter Verini: “L’immediata fissazione delle audizioni richieste dal procuratore nazionale Melillo e dal procuratore Cantone aiuteranno certamente a chiarire molti aspetti di quella inquietante vicenda, i cui contorni sono ancora oscuri. È interesse di tutti che questo avvenga”. Tuttavia, aggiunge il dem, “abbiamo anche ribadito la necessità assoluta di tutelare e rafforzare ruolo e credibilità degli organi di contrasto alla criminalità organizzata, a partire dalla Procura antimafia e antiterrorismo. È da irresponsabili delegittimare, volontariamente o meno, con dichiarazioni e attacchi, i presìdi di lotta a mafie e a terrorismo e i protagonisti dell’impegno per la legalità”. E va detto che proprio Melillo, da quando è in via Giulia, ha cambiato i protocolli e reso più sicuro il funzionamento dell’ufficio. Nella commissione parlamentare Antimafia siede un predecessore di Melillo, il pentastellato Federico Cafiero de Raho: “Senza imbarazzo e lungi dall’esprimere giudizi, riteniamo”, ha detto il vicepresidente della Bicamerale, Mauro D’Attis di FI, “sia opportuno che Cafiero de Raho si astenga dal partecipare alle sedute che riguardano l’inchiesta, perché all’epoca dei fatti era il Procuratore nazionale Antimafia”. Punta il dito contro de Raho anche il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa: “Nessuno ai vertici della Procura Antimafia si rendeva conto di questo enorme numero di accessi alla banca dati? Oppure mancava ogni controllo? Chi può rispondere è un signore eletto alla Camera che dal suo scranno non perde occasione per chiedere conto e fare la morale a tutti”. Il leader del Carroccio Matteo Salvini ha parlato di “una vergogna di stampo sovietico”, mentre il presidente dei senatori meloniani Lucio Malan attacca la sinistra: “FdI vuole che si faccia piena luce su quanto sta emergendo. Qualcuno ha cercato illegalmente dei dati che dovrebbero servire a eventuali indagini per alimentare macchine del fango e ricatti. È preoccupante che qualcuno a sinistra minimizzi o addirittura giustifichi questi metodi da regimi totalitari”. Violare il segreto istruttorio è reato, che la vittima sia un cronista o un presunto corrotto di Errico Novi Il Dubbio, 5 marzo 2024 Nella vicenda dei presunti accessi abusivi al database della Procura Antimafia si staglia pure il paradosso dei dettagli emersi a carico di tre cronisti indagati: stavolta le vittime sono loro. Proprio al pari dei politici sputtanati da un’indagine per presunte mazzette. Va bene, siamo a uno stato delle cose talmente avanzato che non c’è bisogno del processo: ormai l’indagine sui presunti accessi abusivi nei database di via Giulia, in cui sono coinvolti, con un finanziere e un pm della Direzione Antimafia, anche tre nostri colleghi di Domani, è roba storicizzata, buona per gli archivi. Tanto è vero che i vertici di due delle Procure coinvolte, Raffaele Cantone di Perugia e Giovanni Melillo della Dna, ne parleranno davanti a diverse commissioni parlamentari, come si fa appunto con le vicende ormai acquisite agli annali. E d’altra parte noi del Dubbio come potremmo far finta che sull’indagine a carico (anche) dei tre giornalisti non sia già tutto cristallizzato in un dogma? Noi stessi abbiamo ricevuto, via whatsapp, copia dell’invito a comparite destinato agli accusati, un atto di 64 pagine firmato dal procuratore Cantone e dalla pm Reale. Un file, sapete, di quelli in cui c’è, in foto, praticamente un’intera fase preliminare. Direte: ma non è roba segreta? Eh, in effetti lo è: i nostri colleghi di Domani sono da un paio di giorni additati in qualità di colpevoli per condotte presentate come illecite senza che siano mai comparsi davanti a un giudice in modo fa far valere, grazie a un avvocato, il loro diritto di difesa. Dite che questa roba è strana, che vìola la presunzione d’innocenza? E infatti riferire, sulla stampa o altrove, di un procedimento penale nei suoi ancora segreti dettagli sarebbe un reato, previsto come tale dall’articolo 684 del codice, certo sanzionato con pene risibili, ma pur sempre un reato. Ne sono vittime i nostri colleghi, al pari del pm e del finanziere della Dna. Ma è vittima, a dire il vero, chiunque incappi in un’indagine e veda spiattellato tutto sui media quando ancora si è nella fase preliminare. Ne è vittima anche, e capita spesso, pure il politico o il potente di turno. Saremo pazzi noi, ma siamo convinti che le notizie su un procedimento penale dovrebbero circolare nei limiti previsti dalla legge, e dall’articolo 27 della Costituzione. Le Corti europee ritengono possa esservi un’attenuata tutela della privacy per chi ha un ruolo pubblico, ma non possono imporre a uno Stato di non considerare reato le violazioni del segreto istruttorio. Le leggi sulla riservatezza e l’impubblicabilità degli atti giudiziari esistono, al pari delle leggi che qualificano reati come la corruzione. O le rispettiamo tutte, le leggi, o meglio il far west. Almeno, nella jungla della civiltà, è più chiaro che può capitarti di tutto. Carofiglio: “La legittima difesa è garantita solo se proporzionata all’offesa” di Francesco Rigatelli La Stampa, 5 marzo 2024 Lo scrittore ex pm: “Si può valutare l’attenuante della provocazione. Femminicidi? Il codice rosso è sufficiente, le procure lavorano bene”. Almeno due libri dello scrittore ed ex pm Gianrico Carofiglio, 62 anni, barese, ricordano il caso di Makka Sulaev, la diciottenne di Nizza Monferrato accusata di aver ucciso a coltellate il padre Akhyad Sulaev per difendere la madre Natalia. In Ad occhi chiusi del 2003, primo romanzo italiano a parlare di stalking, figura una ragazza patricida. E nell’ultimo L’orizzonte della notte è centrale il tema della legittima difesa. Cosa pensa del caso alessandrino? “Non conoscendo gli atti non posso fare considerazioni specifiche e da magistrato non avevo particolare stima per chi commentava i casi giudiziari senza averli letti. Dunque, posso parlare solo in termini generali delle questioni giuridiche”. Cos’è la legittima difesa? “La norma del Codice penale è chiara, nonostante l’ultima pasticciata riforma che, peraltro, credo non sia stata applicata a nessun caso. I presupposti per invocare la scriminante - questa l’espressione tecnica - sono che il soggetto sia stato costretto dalla necessità di difendere sé o altri da un’aggressione in corso, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Ieri il gip non ha convalidato il fermo della ragazza dopo quattro ore di interrogatorio, cosa significa? “Evidentemente ha ritenuto che non vi fossero i presupposti per il carcere, a cominciare dal pericolo di fuga”. La ragazza resta in una comunità protetta… “Agli arresti domiciliari, in attesa dello svolgimento delle indagini”. Come si capirà se c’è stata legittima difesa? “Le indagini devono appurare se c’è stata un’aggressione verso l’indagata o altri e se la reazione è stata proporzionata, anche rispetto al danno possibile. Se uno mi dà uno schiaffo e gli sparo nel migliore dei casi è eccesso di legittima difesa. Se vengo aggredito in modo micidiale da uno molto più grosso e più forte di me è naturalmente ammessa una difesa più energica, anche con un’arma”. E la legittima difesa domiciliare? “È una norma aggiunta dalle recenti riforme, che non cambia nulla e non interessa questo caso. Con domiciliare si intende la difesa dall’intrusione da parte di terzi”. La legittima difesa vale anche se la figlia ha difeso la madre oltre a se stessa? “Certamente, la norma comprende la difesa per sé o per altri”. A Nizza Monferrato sono state date due coltellate, può voler dire qualcosa? “Questa è la tipica risposta che non vorrei dare. Diciamo che bisogna valutare in modo attento con attività investigativa le modalità del fatto. Se c’è un’aggressione continuata non è detto che non sia comunque legittima difesa”. E l’arma, un coltello da cucina, cosa indica? “Può suggerire un carattere estemporaneo del fatto, ma nessuno vieta la programmazione con un coltello da cucina. Se fosse stato un coltello da caccia certo sarebbe stato un indicatore più rilevante di pianificazione del gesto”. Il padre picchiava madre e figlia anche a colpi di karate. A lei karateka cintura nera cosa suggerisce? “Secondo alcuni le arti marziali sono una via della pace per rielaborare la paura che abbiamo dentro e affrontare i conflitti, evitando lo scontro fisico. Per altri sono l’ennesimo strumento di violenza”. Un padre padrone, il patriarcato, la solita violenza sulle donne? “È un apparato culturale basato sull’intolleranza maschile che non riguarda solo la nostra società. Gli uomini devono maturare ed essere aiutati a farlo”. Servono leggi speciali? “Il codice rosso basta e avanza: le norme sono efficaci e le procure lavorano evitando tanti femminicidi. È brutto da dire, ma è un problema che si risolverà solo nel tempo con l’evoluzione dei costumi”. La famiglia di Nizza Monferrato è di origine cecena, c’è anche un tema di mancata integrazione? “Non è detto, al massimo può essere uno dei fattori di disadattamento personale”. E il disagio sociale con il padre che aveva lasciato il lavoro e quattro figli da mantenere? “Bisognerebbe conoscere bene il caso”. La legittima difesa è una giustificazione che si realizza spesso? “È una scriminante frequente, anche in casi molto meno gravi. Io stesso da pretore ne ho riconosciute diverse”. Alla fine, è sempre il giudice che decide? “Certo, ma i parametri sono oggettivi. A volte in luogo della legittima difesa, che esclude la punibilità, viene riconosciuta l’attenuante della provocazione”. E il protagonista del suo romanzo, l’avvocato Guerrieri, come fa con una cliente di cui dubita? “La difende cercando di fare del suo meglio, ma con tutti i dilemmi morali del caso”. Ha senso un processo per un gruppo di ex Br dopo cinquant’anni? di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 5 marzo 2024 Esisterà mai un pubblico ministero che trovi la forza per dire che non esiste giustizia a cinquant’anni dai fatti? Evidentemente non a Torino. Dove, dopo tre anni di indagini sulla preistoria del terrorismo, la procura si accinge a chiedere il rinvio a giudizio per concorso in un omicidio del 1975 un gruppetto di ottantenni delle Brigate rosse: Lauro Azzolini, Renato Curcio, Mario Moretti e Pierluigi Zuffada. Una storia tragica che si era già chiusa con due morti, la brigatista Margherita Cagol e l’appuntato Giovanni D’Alfonso e un’assoluzione, su richiesta dello stesso pm, quella del brigatista Lauro Azzolini. Un’ordinanza che oggi viene revocata senza che nessuno la possa leggere perché andata distrutta in un’alluvione che ha portato via con sé tutte le carte del palazzo di giustizia. Un figlio, ieri bambino e oggi pensionato, che non si dà pace per l’uccisione del padre, valoroso servitore dello Stato. E un marito, già capo delle Brigate rosse, che a questo punto chiede pure lui giustizia perché la moglie terrorista potrebbe esser stata giustiziata mentre si era arresa e stava con le mani alzate. Ha senso occuparsi di tutto ciò? Da punto di vista storico forse si, anche se forse quei morti meriterebbero il diritto all’oblio. Ma l’operazione giudiziaria appare alquanto cinica. Perché è probabile che, non sappiamo in quale fase, l’inchiesta finirà archiviata o con assoluzioni. E perché in ogni caso la giustizia dopo cinquant’anni nei confronti di qualche ottantenne difficilmente darà soddisfazione a chi questa inchiesta ha voluto. Si tratta di Bruno D’Alfonso, pensionato sessantacinquenne, che chiede giustizia per l’assassinio del padre, morto troppo giovane quando lui era un bambino di dieci anni. Era l’alba delle attività terroristiche delle Brigate rosse, quando ancora non avevano affinato le proprie capacità organizzative fino a riuscire a rapire il leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Tentarono quella volta un’operazione di autofinanziamento, con il rapimento dell’imprenditore del settore vinicolo Vittorio Vallarino Gancia e la richiesta di riscatto di un miliardo di lire. Era il 4 giugno del 1975. Nel giro di ventiquattr’ore il nascondiglio, la cascina Spiotta, località in provincia di Alessandria, fu scoperto e l’imprenditore, morto due anni fa novantenne, liberato. Non in modo indolore. Ci fu una sparatoria e due morti sul terreno, l’appuntato Giovanni D’Alfonso e la brigatista Margherita Cagol. E un terrorista in fuga, a quanto pare. Fu sospettato Lauro Azzolini, uno dei dirigenti del nucleo storico delle Br. Ma un giudice istruttore, sollecitato anche dalla richiesta dello stesso pm, lo assolse nel 1987. Questa è la storia di cinquant’anni fa. Tutti i capi delle Brigate rosse nel frattempo sono stati arrestati e condannati per tutti i reati commessi, e hanno scontato decine di anni di carcere. Azzolini per esempio, condannato all’ergastolo per una serie di gravi reati, è stato in prigione per 24 anni, dopo essersi dissociato dal proprio passato e aver di conseguenza fruito della legge del 1987 per chi avesse preso le distanze dal terrorismo. Un’altra persona, rispetto agli anni del rapimento Moro e anche della tragica sparatoria della cascina Spiotta, rispetto alla quale si è sempre dichiarato estraneo. Un ottantenne che viene richiamato improvvisamente a vestire i panni del ragazzo che fu. Per quel che ammette di aver fatto e anche per quello che dice di non aver commesso. Perché? Ha qualche senso? Che soddisfazione può avere oggi Bruno D’Alfonso dal veder messo in ceppi (ammesso che qualcuno trovi il coraggio di farlo) un signore di ottantun anni dal passato sciagurato ma che è già stato assolto da un giudice per quello stesso fatto che gli viene imputato di nuovo? Si dice che siano state trovate, a molti anni dal fatto, le sue impronte digitali su un documento interno delle Br in cui veniva ricostruita la dinamica della sparatoria di quel giorno di cinquant’anni fa. Ma quante mani avranno toccato quel documento? Pare ci siano anche tracce di lacrime su quei fogli, perché ognuno piange i propri morti, e la fine tragica di Margherita aveva straziato i cuori anche di coloro che avevano saputo provocare la morte e il pianto di altri. Poi succede che subentri il tragicomico, perché quel documento che certificava l’assoluzione di Azzolini nel 1987 sia finito trascinato via, insieme a tanti altri, dalla forza dell’acqua dell’alluvione del 1994 che ha investito la città di Alessandria e il suo tribunale. Quella sentenza ora è stata revocata, ma nessuno ha potuto leggerla. Così il combattivo avvocato Davide Steccanella, che assiste Azzolini, si è precipitato a ricorrere in Cassazione, dove gli hanno risposto che la sua richiesta è prematura. In fondo sono solo passati cinquant’anni. Poi, siccome la pesca a strascico rimane sempre lo sport preferito dai procuratori, ecco che ad Azzolini viene trovata compagnia. Gli affiancano Pierluigi Zuffada, per il sospetto che abbia rivestito il ruolo di “postino”. Anche in questo caso l’indizio consisterebbe in impronte digitali, rilevate sempre a posteriori, sulla lettera di richiesta del riscatto per la liberazione dell’imprenditore. E fino a questo punto stiamo parlando di indizi discutibili ma con la concretezza di qualche pezzo di carta con sopra impronte. Ma il concorso di Renato Curcio e Mario Moretti come possiamo definirlo? Di tipo morale? Tra l’altro i due sono stati capi delle Br in momenti diversi, prima uno e dopo l’altro. Ma avrebbero partecipato alla stesura di un libretto a uso interno, in cui venivano istruiti i militanti delle Brigate rosse ai comportamenti da tenersi in caso di conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Una sorta di concorso in opera letteraria, dunque. In ogni caso Curcio, un altro ottantenne che di Margherita Cagol era anche il marito, non ha perso occasione per ritrovare il proprio spirito battagliero. E ha chiesto pure lui giustizia, consegnando alla procura di Torino una memoria in cui si legge che dall’autopsia sul corpo della moglie emergerebbe con chiarezza che “Margherita in quel momento fosse disarmata e le sue mani fossero alzate”. Il sospetto che qualcuno abbia compiuto un’esecuzione su una persona che si era arresa. Ora staremo a vedere, dopo che la procura avrà avanzato la richiesta di rinvio a giudizio per i quattro indagati, se ci sarà a Torino un giudice che avrà il buonsenso di dire che la giustizia dopo cinquant’anni non può più essere giustizia e archivierà il caso. È morta Barbara Balzerani, ex Br mai pentita del commando di via Fani di Paolo Delgado Il Dubbio, 5 marzo 2024 È durata pochi mesi la malattia che ha ucciso a 75 anni Barbara Balzerani, per anni, dopo l’arresto dell’allora suo compagno Mario Moretti, la principale dirigente delle Brigate Rosse. Inevitabilmente tutti la ricorderanno così, come un’ex terrorista, la “primula rossa” delle Br, l’unica donna presente nel commando che il 16 ottobre 1978 rapì Aldo Moro dopo aver sterminato la scorta. Oppure come l’impenitente che in occasione dei quarant’anni da quel sequestro se ne uscì con una frase che molti ritennero offensiva e inopportuna. In realtà nell’ultima e lunga parte della sua vita Barbara Balzerani è stata soprattutto una scrittrice. Ha scritto 7 libri, che sarebbe difficile definire perché non sono romanzi e neppure memorialistica in senso stretto: piuttosto una lunga conversazione con se stessa sul senso, le ragioni, le origini profonde della sua scelta non solo politica ma esistenziale. Le schede biografiche sulla sua vita dicono pochissimo: un rosario di eventi non dissimili dai percorsi di moltissimi altri militanti della lotta armata in Italia. La nascita a Colleferro, in una famiglia operaia, l’arrivo a Roma nel 1969, in piena rivolta studentesca e operaia, l’adesione a Potere operaio e il matrimonio con un militante di quella organizzazione radicale ma non terrorista, Antonio Marini. Sbarcava il lunario assistendo i bambini con handicap in un asilo, studiava filosofia, soprattutto, come moltissimi militanti di quella generazione, faceva politica a tempo pieno. Nel 1975 entra nelle Br delle quali diventerà nel 1981 una delle principali dirigenti. Le Br, anche se nessuno lo sapeva, non c’erano già più, non quelle che erano state sino a quel momento: erano scisse, divise, in feroce competizione tra loro. Barbara Balzerani guidava le Br-Pcc (Partito comunista combattente) contestate dalle Br. Pg (Partito guerriglia) di Giovanni Senzani ma anche, dall’interno del carcere, di Renato Curcio e Alberto Franceschini. Le esecuzioni in carcere per fermare il fenomeno dilagante del pentitismo furono il marchio del Partito guerriglia, che l’area di Balzerani rifiutò sempre. Sembrava imprendibile Barbara Balzerani: nonostante l’organizzazione armata fosse ormai con le spalle al muro, riuscì a evitare di essere presa per quattro volte. La arrestarono nel 1985 e rimase in prigione una decina d’anni prima di accedere ai primi permessi, poi, nel 2006, alla libertà condizionale e infine, nel 2011, all’estinzione della pena. Oggi un percorso simile sarebbe impossibile ma la prima Repubblica era più saggia e più civile: quei leader politici sapevano che l’esperienza della lotta armata non era assimilabile alla criminalità comune, capivano che aveva coinvolto migliaia di giovani che sarebbe stato solo vendicativo lasciare in carcere perché, finita un’epoca storica, non costituivano più minaccia. Barbara Balzerani è stata molto critica verso alcuni aspetti della militanza armata ma non la ha mai rinnegata, non si è mai pentita, è sempre rimasta, nell’intimo, una rivoluzionaria. Ma non più un pericolo. Ma per capire quella parabola i dati biografici non servono e ancor meno servono le spiegazioni politiche che le Br squadernavano nelle loro prolisse analisi. I libri che ha scritto fuori dal carcere, dal primo, Compagna Luna, all’ultimo, Lettera a mio padre, invece sì. C’è tutta la rabbia di chi era nata povera in una dimensione da romanzo ottocentesco, con i ricchi e i poveri da due parti della stessa piazza di una piccola città operaia, c’è la percezione dell’ingiustizia di fronte a un’industria che minava la salute di lavoratori e cittadini per profitto, la speranza immensa, poi degenerata spesso in distruttività omicida, della sua generazione. Quei libri non giustificano le scelte di Barbara Balzerani ma le rendono comprensibili se non condivisibili: rompono la gabbia stereotipa della ex terrorista o peggio per raccontare una donna e attraverso di lei una generazione. Per questo sarebbe giusto ricordarla, anche, anzi soprattutto, come scrittrice. Barbara Balzerani, la scrittura dopo la tragedia armata di Andrea Colombo Il Manifesto, 5 marzo 2024 È scomparsa ieri a 75 anni. I suoi libri utili per capire, senza giustificare, le Brigate Rosse. Nei suoi sette libri, il primo “Compagna Luna”, pubblicato nel 1998, l’ultimo, “Respiro”, l’anno scorso, Barbara Balzerani parla pochissimo dei 13 anni passati nelle Brigate rosse, dal 1975, quando scelse di arruolarsi sino all’arresto nel 1985 e poi alla dichiarazione congiunta con cui lei, Renato Curcio e Moretti, nel 1988, dichiararono conclusa l’esperienza della lotta armata in Italia chiedendo che si avviasse la ricerca di una “soluzione politica” che non è mai arrivata. Quel silenzio non vuol dire che la scrittrice scomparsa ieri a 75 anni, dopo una malattia, avesse rinnegato il suo passato o lo volesse nascondere. Dell’organizzazione armata di cui era stata la principale dirigente dopo l’arresto di Mario Moretti, all’epoca suo compagno, nel 1981 criticava molte cose ma senza sconfessare nulla. Senza pentimento perché, pur riconoscendo alcuni errori, Barbara Balzerani si è sempre considerata ed è rimasta sino all’ultimo una rivoluzionaria comunista. Non si sarebbe mai definita una terrorista. Non riteneva di esserlo mai stata. Se Barbara taceva sulla quotidianità di quella esperienza è perché sapeva che il rosario dei nudi fatti non poteva raccontare alcuna verità, avrebbe sempre e comunque ridotto la sua esperienza umana e in fondo anche quella della sua generazione politica, o di una sua parte rilevante, all’arida lettura dei capi d’accusa oppure all’esoterismo delle analisi che le Br sfornavano periodicamente. Lei invece voleva raccontare la verità dei sentimenti e delle emozioni, della rabbia e frustrazione, del dolore e della speranza che non cambiano il giudizio sulle sue scelte ma le spiegano, le spostano dal terreno superficiale della demonizzazione facile a quello complesso, profondo, spesso tormentato che ne era all’origine. Nei suoi libri Barbara Balzerani parlava di sé, del suo mondo, delle persone che incontrava nella libertà ritrovata e così facendo cercava anche il senso della sua tragica parabola. Nella narrativa di Barbara Balzerani c’è molto, moltissimo di autobiografico: l’infanzia a Colleferro, famiglia operaia, rabbia profonda per l’ingiustizia sociale che respirava in quella piazza dove i ricchi e i poveri, i padroni e i dipendenti, vivevano gli uni di fronte agli altri: l’arrivo nella metropoli nel 1969, in una città e in un Paese dove soffiava un vento di rivolta e speranza quale mai si era presentato prima e mai più sarebbe tornato; la famiglia, i genitori, la sorella grande che le aveva fatto anche un po’ da madre, e poi gli incontri fuori dal carcere. Non c’è quello che campeggerà oggi sui giornali: la militanza in Potere operaio, poi dal 1975 nella colonna romana delle Br, la trasformazione in “Sara”, il nome di battaglia, via Fani, unica donna nel commando che rapì Aldo Moro, la guida delle Br negli anni in cui quell’organizzazione si dissolveva, lacerata dalle scissioni, dal conflitto tra fazioni interne, sempre più sideralmente lontana dalla realtà, persa nella sua logica armata. Non ci sono le torve rivendicazioni degli omicidi anche dal carcere, non c’è l’elenco delle vittime. Nei suoi libri c’è molto di più e c’è anche quel che serve per capire, senza doverla per questo giustificare, la lotta armata italiana. Barbara Balzerani sarà ricordata come una ex brigatista, la primula rossa delle Br, la “terrorista”, qualcuno non dimenticherà le parole sbagliate che usò in occasione dei 40 anni dalla strage di via Fani. È giusto, perché questo è stata e non lo ha mai disconosciuto. Ma andrebbe ricordata anche per quello che è stata negli ultimi 25 anni della sua vita: una scrittrice sincera e profonda. Piemonte. Il Garante nazionale in visita per un focus sanità penitenziaria lospiffero.com, 5 marzo 2024 Il Presidente del Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale prof. Felice Maurizio D’Ettore, il 29 febbraio scorso ha incontrato a Torino il Presidente della Giunta Regionale On. Alberto Cirio e il Presidente del Consiglio Regionale del Piemonte On. Stefano Allasia. Il Garante nazionale, apprezzando il lavoro svolto dalla Regione Piemonte e la sua utilità per la costruzione di reti volte al superamento delle problematiche evidenziate nell’ambito penitenziario, ha auspicato simili iniziative anche da parte di altre Regioni. “Le note criticità del sistema sanitario penitenziario si inseriscono in un contesto caratterizzato dal sovraffollamento, ma anche da altre problematiche che riguardano tutte le figure professionali coinvolte nella gestione quotidiana delle persone detenute. Il crescente numero di suicidi e di atti autolesivi rappresenta, inoltre, un fattore di grave criticità su cui le Istituzioni devono unitariamente svolgere un’approfondita riflessione”, sottolinea il Garante nazionale in una nota. Il Garante nazionale inoltre ha effettuato una visita alla Casa Circondariale ‘Lorusso e Cutugno’ di Torino incontrando anche una persona detenuta con criticità sanitaria per l’approfondirne il caso. Nello stesso istituto la delegazione del Garante nazionale ha incontrato la Direttrice, Elena Lombardi Vallauri, il Referente Aziendale dell’Asl Città di Torino per la sanità penitenziaria, dott. Roberto Testi e la Responsabile del Presidio Sanitario in carcere dott.ssa Paola Rapetti. È intenzione del Garante nazionale tornare in Piemonte per una visita approfondita dell’Istituto penitenziario e per intraprendere, a breve, nuove azioni volte a rafforzare la risposta sanitaria della medicina penitenziaria. Il Garante nazionale ha, inoltre, incontrato i rappresentanti dei Gruppi Consiliari presso il Consiglio regionale del Piemonte. Ad accompagnare il Presidente D’Ettore in questi incontri, il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, On. Bruno Mellano e la responsabile dell’Unità salute Gilda Losito dell’Ufficio del Garante nazionale. Il Garante nazionale ha focalizzato la propria attenzione sulle prossime iniziative di coordinamento istituzionale Stato-Regioni volte a migliorare i delicati e decisivi servizi della sanità penitenziaria che, come è noto, sono anche di competenza del Servizio Sanitario regionale e ha confermato “che l’ambito della salute, in particolare il sistema sanitario all’interno degli istituti penitenziari, sarà una delle priorità del mandato del nuovo Collegio”. “La visita nella Regione Piemonte, che rientra tra le visite istituzionali programmate sul territorio italiano del Presidente D’Ettore, ha avuto come spunto il lavoro realizzato, in seno al Consiglio Regionale e il Dossier delle Criticità del servizio sanitario penitenziario realizzato al Coordinamento dei Garanti piemontesi”, conclude la nota. Calabria. Il Garante dei detenuti: “La Regione pronta ad aprire una nuova fase” reggiotoday.it, 5 marzo 2024 Luca Muglia incontra i garanti operativi sul territorio regionale e saluta con soddisfazione la nomina avvenuta a Catanzaro. Il Garante regionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, Luca Muglia, ha sottolineato l’importanza e il ruolo dei garanti territoriali, evidenziando i passi in avanti compiuti negli ultimi mesi. Al garante della Città metropolitana di Reggio Calabria, Paolo Praticò, ed ai garanti comunali di Reggio Calabria e Crotone, Giovanna Russo e Federico Ferraro, si è infatti aggiunto di recente il garante comunale di Catanzaro, Luciano Giacobbe. Ma le novità non finiscono qui. “Ho cercato di assolvere al compito demandatomi dalla legge - dichiara Muglia - che richiede al Garante regionale di promuovere l’istituzione dei Garanti territoriali ove ne ravvisi la necessità. Facendo ricorso alle necessarie interlocuzioni, ho stimolato in tal senso diverse autorità comunali e provinciali, ritenendo indispensabile che la figura del Garante sia presente sull’intero territorio regionale e, in particolare, nei luoghi di detenzione. E, in effetti, la situazione dei Garanti territoriali si sta evolvendo, positivamente, giorno dopo giorno”. Lo scorso 31 marzo il Consiglio provinciale di Cosenza, su proposta del consigliere Carlo Lo Prete, ha approvato nella seduta del 12 maggio scorso il regolamento per l’istituzione del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Provincia di Cosenza. Anche in questo caso si attende l’emanazione del bando pubblico. “Le recenti determinazioni del Comune e della Provincia di Cosenza - afferma Muglia - appaiono fondamentali se si considera che nel cosentino insistono ben quattro istituti penitenziari (Cosenza, Paola, Castrovillari e Rossano)”. “I nuovi garanti territoriali, autentiche sentinelle, rappresenteranno organi di tutela e di garanzia essenziali per le - conclude il garante Muglia - una discreta attenzione e sensibilità nei confronti delle persone detenute. Occorre, tuttavia, maggiore efficacia e concretezza. Una legge regionale sul pianeta carcere potrebbe disciplinare in maniera organica gli interventi, garantendo un respiro più ampio”. Toscana. Piacenti spa, detenuti al lavoro nel restauro dei beni culturali di Silvia Pieraccini Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2024 L’iniziativa deriva dall’intesa fra Seconda Chance e l’Ance della Toscana. I cinque neo assunti provengono dalle carceri di Gorgona, Prato, Isola d’Elba. A volte basta poco per cambiare la prospettiva. A Giammarco Piacenti, titolare della Piacenti spa di Prato, una delle aziende di restauro di beni culturali più importanti d’Italia, è bastata una visita all’isola-carcere di Gorgona, nell’arcipelago toscano, dove gran parte dei detenuti durante il giorno svolge un’attività lavorativa, coltiva l’orto, cura la vigna, produce olio o vende generi alimentari nello spaccio del paese. Quella visita, condita dall’incontro con professionisti visionari del settore come un ex direttore del carcere o una responsabile dei detenuti, ha rovesciato la prospettiva: e se, anziché essere un problema, assumere un detenuto fosse un vantaggio? L’accordo fatto dai costruttori di Ance Toscana (a cui Piacenti aderisce) con l’associazione Seconda Chance, che si occupa di creare un ponte tra il mondo carcerario e quello del lavoro, ha fatto il resto: da novembre a oggi l’azienda pratese ha assunto cinque detenuti, tutti uomini, tutti al lavoro col normale contratto dell’edilizia o del settore legno. Uno arriva proprio da Gorgona, l’isola spazzata dal vento che è la più piccola e misteriosa dell’arcipelago toscano; due provengono dal carcere della Dogaia di Prato; altri due erano rinchiusi nel penitenziario di Porto Azzurro, all’isola d’Elba, e ora stanno lavorando su un’altra isola toscana, Pianosa, dove Piacenti è impegnata nel restauro delle Terme di Agrippa, il nipote dell’imperatore Augusto che nell’anno 7 dopo Cristo venne allontanato da Roma per impedirgli di succedere allo zio che lo aveva adottato. La sua villa dell’esilio, affacciata sul mare di Pianosa e dotata di terme e teatro, ha un grande valore storico e archeologico. Piacenti ha deciso di assumere carcerati dopo aver approfondito il ruolo che l’esperienza lavorativa può giocare ai fini della rieducazione e del reinserimento nella società. “Chi esce dal carcere senza aver lavorato durante la reclusione ha il 95% di probabilità di recidiva - spiega l’imprenditore - mentre chi finisce di scontare la pena dopo aver avuto un impiego non ha praticamente rischi di tornare a delinquere. A questo si aggiunge il fatto che nel settore dell’edilizia oggi è difficilissimo trovare personale, e dunque avere un bacino cui attingere, magari trovando anche figure già formate, è una fortuna”. Ma c’è un altro fattore, in grado di “oscurare” pure gli sgravi contributivi previsti dalla legge Smuraglia per chi assume carcerati: “I detenuti che arrivano sui cantieri sono molto motivati - spiega Piacenti - anche perché sono preparati dagli educatori del carcere. Se ci pensiamo bene, è più sicuro assumere uno di loro, controllato dalla direzione carceraria e dal magistrato, piuttosto che uno sconosciuto di cui non sai nulla”. Sopra tutto c’è poi l’aspetto umano. “Vedere che l’azienda fa del bene è utile anche per gli altri dipendenti, che così sanno di lavorare in un ambiente attento al territorio e alle persone”, sottolinea Piacenti che sulla sostenibilità sociale sta lavorando da tempo, sia attivando una piattaforma welfare per i collaboratori, sia misurando le performance ambientali e sociali condensate in un report di sostenibilità. Ora l’azienda, che nel 2023 ha fatturato 9 milioni di euro con 83 dipendenti, e che tra le commesse vanta il restauro della chiesa della Natività a Betlemme, sta cercando di diffondere tra i colleghi, anche di altri settori, la possibilità di impiegare detenuti. “L’assunzione di detenuti da parte delle nostre aziende è un’esperienza innovativa - afferma il vicepresidente di Ance Toscana, Vincenzo Di Nardo - e un modello che speriamo possa essere replicato in altre imprese del sistema, come buona prassi da diffondere”. Proprio nell’ottica di offrire un’opportunità lavorativa e di reinserimento sociale, Ance Toscana più di un anno fa ha firmato un’intesa con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap) per organizzare in carcere corsi per formare muratori. Le assunzioni alla Piacenti sono “un risultato importante” per il provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Toscana e Umbria, Pierpaolo D’Andria, “non solo per il numero dei detenuti assunti, ma anche perché provengono da tre diverse carceri della Toscana”. E c’è un altro aspetto da non sottovalutare: “I detenuti saranno impegnati in un contesto importante come quello del restauro dei beni culturali”, dice D’Andria. Stare a contatto con il bello è un toccasana per l’anima, oltre che per gli occhi. Modena. Detenuto morto in cella, per la Procura non ci sono responsabilità ansa.it, 5 marzo 2024 Inalò il gas di un fornello, richiesta di archiviazione. L’autopsia non ha chiarito completamente se si è trattato di un suicidio o di un incidente, ma per la Procura di Modena non ci sono responsabilità di altre persone per la morte di un detenuto 40enne, Fabio Romagnoli, deceduto il 20 febbraio 2023 inalando il gas di un fornellino, nella sua cella. Il pm Francesca Graziano, al termine delle indagini, ha chiesto l’archiviazione del fascicolo per omicidio colposo, rimasto a carico di ignoti. Ora la decisione passa al Gip. Romagnoli, originario del Ferrarese, venne trovato accasciato a terra a fianco del fornello dal compagno di cella e da un agente della polizia penitenziaria. La consulenza medico legale, affidata al dottor Fabrizio Zucchi, confermando la causa della morte nell’inalazione del gas, non ha sciolto i dubbi sulla dinamica, pur propendendo per un evento accidentale. Nei mesi precedenti, a luglio 2022, il detenuto era stato qualificato come “a rischio medio” di suicidio e collocato nella zona dedicata a questo tipo di situazioni. In seguito però, secondo le valutazioni degli operatori e degli psicologi, il rischio era calato e venne trasferito in un’altra sezione. Dalle testimonianze raccolte è emerso che nei giorni precedenti alla morte non c’erano stati segnali preoccupanti o manifestazioni di disagio. La conclusione della Procura è dunque che non ci sono elementi per ipotizzare una mancanza di diligenza o altre omissioni in chi lo ha seguito: sembrava tranquillo e rivolto a prendere in mano la sua vita una volta scontata la pena, di lì a pochi mesi. Firenze. “A Sollicciano molti progetti per il reinserimento. Rimangono problemi nella struttura” cittametropolitana.fi.it, 5 marzo 2024 Le parole di Mimma Dardano (Presidente Commissione politiche sociali e della salute, sanità e servizi sociali). La Commissione Politiche sociali e della salute, sanità e servizi sociali, presieduta da Mimma Dardano ha ospitato Eros Cruccolini, garante dei detenuti di Firenze, sulla realtà del Carcere di Sollicciano. “Una Commissione, a fine consiliatura - spiega la presidente Mimma Dardano - dove abbiamo analizzato tutti gli atti votati, a partire dal 2019 fino a tutto il 2022, sul carcere di Sollicciano. Abbiamo ascoltato, in audizione, Eros Cruccolini, garante dei detenuti di Firenze, sulla realtà del carcere di Sollicciano e sui progetti realizzati anche in collaborazione con la Regione Toscana. Alcune tematiche sono davvero complesse. L’attenzione tenuta sul carcere, da parte della Commissione, è sempre stata molto alta. Abbiamo presentato in Consiglio comunale un paio di atti sull’Icam, il progetto per le detenute madri, abbiamo anche affrontato la questione delle strutture post carcere per l’inserimento lavorativo. Purtroppo, negli ultimi anni, ci sono stati anche dei suicidi in carcere. Cruccolini ha ribadito le difficoltà che tuttora persistono nel carcere. Ci sono infiltrazioni in alcune celle della struttura. Ci sono state delle risposte e degli interventi. Rimangono però le cimici. La direzione sta cercando una nuova strategia per fare degli interventi radicali nelle celle con infiltrazioni ed infestate da cimici. È stato chiesto il trasferimento dei detenuti ma non è facile. C’è, inoltre, una maggiore attenzione sul rischio suicidi ed è stato rifinanziato il servizio di etnoclinica, quella parte di psichiatria dedicato alle persone straniere. Piccoli passi in avanti sono stati fatti per finanziare un corso di formazione, promosso da Paolo Federighi, direttore del Dipartimento di Scienze della Formazione e Psicologia, che è un modo diverso di fare formazione direttamente sul campo. Stanno partendo i corsi di formazione promossi dalla Regione Toscana. C’è una collaborazione, che sta andando molto bene, con l’Istituto Saffi sul corso di enogastronomia. C’è il problema della Polizia Penitenziaria che è sotto organico di almeno 100 unità con 50 agenti che sono stati distaccati. È indispensabile reintegrare il Corpo anche perché ci sono state delle aggressioni verso gli agenti. Se si vuole affrontare il tema sicurezza occorre che il corpo di Polizia Penitenziaria venga incrementato. Entro l’anno dovrebbe andare in porto il progetto di videosorveglianza. È in aumento però il disagio mentale ed è necessario incrementare gli educatori psichiatrici che, attualmente, sono solo due. È stato chiesto l’intervento anche di psicologi. C’è un progetto che punta a sostituire gli psicofarmaci con progetti psico-sociali: impegnare il proprio tempo a svolgere delle attività. Per questo è importante l’intervento degli psicologi È stato chiesto l’impegno al Comune di Firenze per la cooperazione sociale di tipo B verso le persone fragili che permetterebbe sia di svolgere gare per dare opportunità di lavoro vero. All’istituto Gozzini sono iniziati dei corsi: smontaggio di computer ed apparecchi elettrici e elettronici che possono essere recuperati e venduti. Il progetto è in collaborazione con Alia. A San Donnino nascerà un capannone per il recupero di elettrodomestici. E si potrà trovare lavatrici, frigoriferi ed altro tutti rigenerati grazie al lavoro dei ragazzi che solo al Gozzini. L’idea è di ridare vita a certi prodotti e diminuire così i rifiuti. Altro laboratorio riguarda la pelletteria con delle convenzioni da fare con le aziende del territorio che sono disponibili poi all’inserimento lavorativo di questi ragazzi. Si è dunque lavorato su più fronti - conclude la presidente della Commissione Politiche sociali e della salute, sanità e servizi sociali Mimma Dardano - per far partire importanti progetti che mirano al reinserimento in società dei detenuti. Rimangono irrisolti alcuni problemi all’interno del carcere che l’amministrazione dovrà continuare a seguire con la dovuta attenzione”. Trani (Bat). Nel carcere femminile torna “Hortensia”, lo sportello antiviolenza gestito dal Cav di Flavia Di Maio L’Edicola del Sud, 5 marzo 2024 Prenderà il via nei prossimi giorni, nella casa di reclusione femminile di Trani, la seconda annualità del progetto “Hortensia2”, gestito dalle operatrici del centro antiviolenza Save della cooperativa Promozione Sociale e Solidarietà su richiesta della garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Trani, supportato dall’assessorato alle pari opportunità e lotta alla violenza di genere e nei confronti dei minori e finanziato dai servizi sociali del Comune di Trani. “Hortensia2” è il prosieguo del progetto sperimentale “Hortensia” che si è svolto tra il mese di marzo e concluso nel mese di novembre 2023 e che ha visto il coinvolgimento attivo delle detenute che hanno chiesto, in occasione dello scorso 25 novembre, di poter mandare un messaggio alle donne “libere”, ma vittime di violenze attraverso la realizzazione di un cartellone. Si tratta del primo sportello anti-violenza attivato all’interno di un carcere femminile in Italia e rivolto alla popolazione detenuta, popolazione a cui si rivolge con attenzione l’amministrazione per il tramite dell’assessorato, della garante dei detenuti, dei servizi sociali e della parte operativa, le operatrici del Cav. Il progetto prevede la realizzazione di incontri, comunitari ed individuali, di sensibilizzazione al tema della non violenza, violenza di genere, al potenziamento dell’autostima, alla parità di genere e lotta allo stereotipo, affinché tali donne imparino a saper riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire, in maniera consapevole, le proprie emozioni e i propri conflittuali stati d’animo. Napoli. “La Giustizia adotta la Scuola”. Quarta edizione del progetto della Fondazione Occorsio Corriere del Mezzogiorno, 5 marzo 2024 L’evento nel cuore del Parco Verde: la necessità di raccontare una storia positiva, quella dei giovani che quotidianamente danno prova che cambiare è possibile. Il 29 febbraio 2024 si è tenuta la presentazione della IV edizione del progetto “La Giustizia adotta la Scuola”, ideato e curato dalla Fondazione Vittorio Occorsio (FVO), nell’ambito di un Protocollo d’intesa con il ministero dell’Istruzione e del Merito e in collaborazione con l’Arma dei Carabinieri. L’evento si è svolto nell’aula magna dell’istituto superiore Francesco Morano di Caivano, nel cuore del Parco Verde, grazie alla collaborazione della Fondazione con la dirigente scolastica dell’istituto Morano - Eugenia Carfora - e con il commissario straordinario del Governo per Caivano - Fabio Ciciliano - alla presenza di 120 studenti dell’istituto e di altre due scuole del Comune e con il collegamento streaming delle 107 scuole partecipanti al progetto sparse in tutta Italia. Il significato simbolico di incontrarsi in una scuola di Caivano è quello di raccontare una storia positiva, quella dei giovani che quotidianamente danno prova che cambiare è possibile, che ribellarsi alla criminalità e all’illegalità non richiede atti eroici isolati ma lo sforzo di tutti di farsi comunità e di resistere alle tentazioni del facile guadagno che la vita criminale può offrire. In questo modo la memoria delle vittime della lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata degli anni 70-80-90 del Novecento, che è il tema principale di cui la Fondazione Occorsio si è sempre occupata, si arricchisce di un senso ulteriore: affiancare ragazze e studenti nell’affermazione di una legalità quotidiana. Protagonisti del dialogo con i ragazzi, oltre ai Fondatori Eugenio e Vittorio Occorsio, sono stati il dott. Luigi Salvato, Procuratore Generale della Suprema Corte di Cassazione e componente del Comitato scientifico della Fondazione, il dott. Fabio Ciciliano, Commissario di Governo alla riqualificazione di Caivano, la dott.ssa Conchita Sannino, Vicedirettrice di “La Repubblica” e l’attrice campana Anna Ferraioli Ravel, protagonista de “I fratelli de Filippo” di Sergio Rubini. La presenza del Procuratore Generale della Suprema Corte di Cassazione Luigi Salvato, nato e cresciuto in prossimità di Caivano, testimoniano la possibilità di vivere e operare quotidianamente partendo da un territorio che negli ultimi anni sembrava abbandonato al degrado civile, educativo e culturale e sopraffatto dalla criminalità e spaccio di droga. Milano. “Le due psicologhe del carcere hanno lavorato troppo”. La strana accusa nel caso Pifferi di Simona Musco Il Dubbio, 5 marzo 2024 La legale: “Siamo all’assurdo”. Scontro a distanza tra accusa e difesa, il pm in aula: “l’imputata fu imbeccata”. “Purtroppo nelle carceri la disponibilità del personale sanitario è particolarmente ridotta perché le carceri non vengono ritenute luoghi in cui impegnare e attivare risorse, ingiustamente. Gli operatori sanitari devono individuare l’intervento più adeguato e coerente alla situazione clinica. Laddove la situazione in carcere non è così allarmante l’attivazione della catena di intervento è purtroppo meno celere. Quindi l’attivazione di due psicologhe con colloqui frequenti era non appropriata”. Sono queste le parole con le quali lo psichiatra forense Elvezio Pirfo, nominato dalla Corte d’Assise di Milano, ha commentato il lavoro svolto dalle psicologhe del carcere in cui è detenuta Alessia Pifferi, la donna che ha lasciato morire di stenti la figlia di soli 18 mesi lasciandola sola per sei giorni. Secondo le psicologhe di San Vittore, Pifferi avrebbe un Qi pari a 40, quello di una bambina di 7 anni, risultando perciò incapace di comprendere le proprie azioni. Una tesi che ribalta quella della procura, rappresentata dal pm Francesco De Tommasi, che ha quindi deciso di indagare le due psicologhe e l’avvocata di Pifferi, Alessia Pontenani, con l’accusa di aver confezionato un documento falso. Una vicenda spinosa, che ha spinto l’avvocatura milanese a protestare, e che sembra destinata ad allargarsi: stando a quanto ha lasciato intendere il pm in aula, infatti, a confezionare quella perizia sarebbero state più persone, che avrebbero imboccato Pifferi per farla apparire disturbata. L’annuncio di De Tommasi, di fatto, è apparso come un’anticipazione della requisitoria. Non del processo in corso, che si concluderà prima dell’estate, ma di quello ancora nemmeno imbastito, ovvero l’indagine parallela che ha spinto la pm Rosaria Stagnaro, tenuta all’oscuro del nuovo fascicolo, ad abbandonare il processo. La relazione di Pirfo - Le parole di Pirfo sono un pugno nello stomaco, per un motivo semplice: la “colpa” delle psicologhe indagate, di fatto, è stata quella di aver agito stando dalla parte della detenuta. Una scelta personale? Non si direbbe, ad ascoltare lo psichiatra: “Le psicologhe che hanno lavorato e riportato i risultati nel diario clinico sono dipendenti del dipartimento di Salute mentale e agiscono in funzione degli obiettivi di quel dipartimento - ha sottolineato -, ovvero riabilitare la salute mentale del detenuto. Dobbiamo guardare a questa attività come svolta tutta dalla parte del detenuto, perché non finalizzata a riportare osservazioni, ma al supporto”. Insomma, una questione di priorità. Ma è il risultato a non convincere Pirfo: dal diario clinico di Pifferi, infatti, non emergerebbe un rischio suicidario, motivo per cui “non c’era una situazione che potesse giustificare un intervento così intensivo come quello a cui abbiamo assistito”. Pifferi è arrivata in aula scortata dalla polizia, con gli occhi sbarrati, assalita dai flash dei fotografi. Ed ha ascoltato senza aprire bocca le parole di Pirfo, che ha iniziato la sua analisi partendo da quella che la stessa Pontenani, fuori dall’aula, ha definito una “excusatio non petita”: “Siamo di fronte ad una situazione complessa, visto che c’è una spettacolarizzazione mediatica - ha dichiarato lo psichiatra -. Ma la collaborazione serena con i consulenti ha permesso di svolgere un lavoro piano e tranquillo, senza influenze, pressioni o sensazioni che qualcosa da fuori potesse influenzare il lavoro”. Pirfo è partito dalla contestazione del test di Wais, usato dalle psicologhe in carcere: “Un test psicodiagnostico utile per confermare disabilità cognitiva” e a suo avviso “non appropriato” e “parziale”, mancando “l’analisi qualitativa” delle risposte. Ma in assenza dei video delle sedute, è impossibile affermare che la donna sia stata “suggestionata”, come crede invece il pm. “Pifferi è una persona che si sente e si è vissuta come perennemente inadeguata”, una persona “incompiuta”, ha spiegato Pirfo. E la donna ha anche raccontato di una violenza sessuale subita a 10 anni e di una famiglia che l’avrebbe messa da parte. “È sempre andata alla ricerca di un maschile protettivo che riempisse questa difficoltà identitaria”, ha evidenziato lo psichiatra. Ma a questa “incompiutezza identitaria” si contrapporrebbe una “capacità di resilienza, perché non ha mai smesso di cercare una collocazione nel mondo”. Tra l’essere donna o madre, ha spiegato il perito, Pifferi ha scelto di essere donna, vivendo la maternità forse “come un obbligo, come qualcosa che può capitare, non come qualcosa che gratifica e in qualche modo rende compiuto l’essere”. Per Pirfo, insomma, la capacità intellettiva di Pifferi è “nella normalità” e pur manifestando tendenze persecutorie non ci sarebbero “deliri paranoici”. Ci sono tratti depressivi, una “mancanza di capacità empatica” e una forma di “dipendenza”, ma si tratta di elementi psicopatologici che però “non raggiungono - a suo dire - quel livello di qualità clinica necessario per diagnosticare un disturbo di personalità”. Insomma, Pifferi “era capace di intendere e di volere all’epoca dei fatti”. Una tesi che la donna ha respinto con forza, per bocca del suo avvocato. “Avrebbe voluto dire che vuole che si sappia che non voleva uccidere sua figlia - ha riferito Pontenani -. Lo dirà appena sarà possibile”. Lo scontro a distanza tra difesa e accusa - Pontentani, in apertura di udienza, ha chiesto un rinvio dell’esame di Pirfo, dato che il materiale allegato alla perizia è giunto alla difesa solo giovedì, dunque non nei tempi previsti per legge. Il presidente Ilio Mannucci Pacini ha deciso di ascoltare la relazione dello psichiatra, chiedendo poi al pm un parere sulla richiesta avanzata dalla difesa. E la sua risposta, di fatto, è stata annunciare il possesso di prove relative all’altro fascicolo, quello di un’indagine ancora nemmeno chiusa. Per De Tommasi, la richiesta di rinvio avrebbe natura “dilatoria”: “È stato fatto tutto quello che bisognava fare - ha dichiarato -. Se la finalità è insistere sulla validità di quella nota relazione che è entrata nel fascicolo del giudizio, allora io vi preannuncio che dimostrerò e sarò in grado di fornirvi, nero su bianco, la prova che l’imputata ha reso nei colloqui che ha tenuto delle affermazioni che sono state precostituite, imbeccate da altri. Vi fornirò la prova che la presunta violenza sessuale subita quando era minore è assolutamente falsa e che questo racconto è il frutto di un suggerimento ben preciso. Vi dimostrerò che quella relazione solo apparentemente è stata sottoscritta dalle due psicologhe, che questi test sono stati somministrati da una delle due psicologhe insieme ad un altro che non compare. E quella relazione di sintesi è stata redatta da una psicologa che non compare”. Una requisitoria anticipata, appunto, interrotta dal presidente. “Con i se non si esprimono pareri”, ha affermato Mannucci Pacini. Che ha poi accolto la richiesta di Pontenani, rinviando tutto al 15 marzo. La reazione di Pontenani - “Se qualcuno ha imbeccato Pifferi io non ne so niente - ha commentato Pontenani -. Penso però che questo non abbia nulla a che fare con questo processo”. E in merito alle violenze subite da bambina, che il pm e la famiglia di Pifferi dicono essere false, l’avvocato è certo: “Vi assicuro che queste cose sono vere e se loro fossero sinceri dovrebbero ripensare a quello che dicono - ha sottolineato -. Io sono tranquillissima, ho la coscienza a posto e credo l’abbiano anche le psicologhe. Per 120 pagine la relazione diagnostica di Pirfo delinea un quadro tragico. Nelle ultime pagine, però, la signora diventa incredibilmente sana. Questo mi lascia un po’ basita”. Come il fatto che “oggi Pirfo ha detto che le psicologhe hanno lavorato più del dovuto. E che in base alle difficoltà e carenze di strumenti del carcere di San Vittore loro si sono dedicate troppo a questa persona. Quindi adesso il difetto di due psicologhe non è stato non lavorare, ma lavorare troppo. Siamo all’assurdo”. La sentenza è scontata? “Assolutamente no, qui non c’è niente di scontato”. La solidarietà degli avvocati milanesi - “Come ordine degli avvocati - ha dichiarato al termine dell’udienza Nino La Lumia, presidente del Coa - abbiamo preso posizione insieme alla Camera penale perché siamo chiamati a garantire e rappresentare ai cittadini che esiste una cultura del giusto processo, della parità delle parti. Quando vediamo anomalie o criticità che possano alterare questo processo siamo chiamati a intervenire. Questo - ha concluso La Lumia - perché i processi si fanno nelle aule e non fuori. Siamo pronti a vigilare ovviamente anche sui nostri colleghi, la deontologia va rispettata a 360 gradi”. La protesta della Camera penale - “In occasione dell’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria proclamata a tutela del diritto di difesa che riteniamo gravemente leso nel processo a carico di Alessia Pifferi, abbiamo voluto aprire un confronto a viso aperto tra avvocatura e magistratura milanese su questioni per noi fondamentali, utilizzando gli strumenti che noi prediligiamo - quali il dialogo e la dialettica - certi che la discussione e la sensibilizzazione su problematiche comuni della giustizia e del diritto alla difesa possano portare a prevenire il ripetersi di fenomeni che riteniamo molto gravi e lesivi dei principi costituzionali e convenzionali del giusto processo”, ha fatto sapere la Camera penale di Milano con una nota. I penalisti hanno proclamato una giornata di astensione proprio a seguito dell’indagine che ha coinvolto la collega, come forma di solidarietà nei confronti della professionista, ma anche a tutela del diritto di difesa. “Abbiamo, innanzitutto, ritenuto di censurare l’evidente violazione della parità delle parti nel processo. Se, durante la fase delle indagini, lo spazio di intervento garantito alla difesa è fisiologicamente ridotto, una volta a processo, al cittadino, chiamato a rispondere di un reato, deve essere assicurata la massima esplicazione delle prerogative difensive e tale diritto non può subire improprie ingerenze, soprattutto nel momento dell’assunzione della prova. Di alterazioni, invece, ne abbiamo riscontrate numerose nel caso che ha portato a proclamare l’astensione, a partire dall’utilizzo dello strumento d’indagine che rischia di avere valenza intimidatoria nei confronti di difensore, personale sanitario, consulenti e periti e, quindi, in ultima analisi compromettere l’assunzione della prova nel processo e la funzione del giudizio; per non parlare dell’ennesima “fuga di notizie”, per cui gli interessati hanno appreso del procedimento dai giornali ancora prima della formale notifica - continua la nota -. Le nostre doglianze si spostano sulle modalità di iscrizione delle notizie di reato, sui criteri di assegnazione dei procedimenti e, infine, sulle modalità con cui sono state messe in discussione, nell’ambito dell’indagine, le attività del personale sanitario (e non solo) che opera all’interno degli istituti penitenziari e che riteniamo debba essere libero di poter svolgere i propri compiti, ancor più necessari e insostituibili in un momento di eccezionale sovraffollamento carcerario, concausa del numero straordinario di suicidi a cui assistiamo dall’inizio dell’anno”. La procuratrice generale Francesca Nanni ha già dichiarato che eserciterà il suo potere di vigilanza e il procuratore Marcello Viola ha manifestato ampia disponibilità ai fini della soluzione dei problemi concreti. “Tuttavia non possiamo che insistere nelle nostre richieste, chiedendo una presa di posizione chiara sui fatti. Ribadiamo che non vogliamo interferire nelle vicende in corso: siamo stati al di fuori dell’aula di udienza proprio perché rispettiamo la sacralità del processo, ma auspichiamo un intervento al fine di verificare eventuali violazioni, anche di carattere disciplinare, e al fine di porre rimedio, per quanto possibile, al turbamento già creato al processo in corso - sottolineano i penalisti -. L’assemblea aperta odierna ci porta a soffermarci non solo su un caso di particolare gravità quale quello del processo Pifferi, ma ci fornisce l’occasione per sottolineare tutti quei casi di disparità e talvolta svilimento della funzione difensiva che gli avvocati penalisti vivono quotidianamente e che non possiamo più tollerare. Auspichiamo anche che il confronto possa costituire una opportunità per evitare il ripetersi di situazioni analoghe, per riportare equilibrio nella ordinaria attività giurisdizionale, che vede l’avvocato come parte fondamentale, e per riscoprire l’importanza e la centralità del processo per tutte le sue parti”. Lucca. Una nuova vita dietro ai fornelli. Il pranzo cucinato dai detenuti-chef di Iacopo Nathan La Nazione, 5 marzo 2024 Evento per la conclusione del progetto tra la Casa circondariale di Lucca e l’associazione Cuochi Lucchesi. Bruschette con pomodoro, fagioli e cavolo nero e pappa al pomodoro come antipasto, ravioli di ricotta e spinaci con burro e salvia di primo, polpette di carne alla lucchese e per chiudere crostate di marmellata di albicocche e more. Un menù appetitoso per un pranzo di festa, di quelli da gustare in famiglia per un momento felice. Esattamente così, ma la particolarità è che è stato cucinato e pensato da un gruppo di detenuti del carcere di Lucca insieme all’associazione Cuochi Lucchesi. È stata celebrata ieri, infatti, all’interno della casa circondariale San Giorgio, la fine del corso di cucina con finalità di riabilitazione. All’interno degli spazi comuni della struttura, infatti, i 7 carcerati protagonisti del progetto hanno ricevuto l’attestato di fine corso preparando il lauto pasto per gli ospiti. A consegnare il tanto ambito riconoscimento è stato il prefetto di Lucca, Giusi Scaduto. “Sono molto felice di essere qui e di consegnarvi questi attestati - ha detto mentre chiamava uno per uno i partecipanti -. Vi auguro con tutto il cuore che sia l’inizio di un nuovo capitolo delle vostre storie. Grazie a queste cose comincia il reinserimento nella società, con la speranza che vi porti felicità e gratificazione”. “Questo tipo di iniziative è sempre molto apprezzato - aggiunge la direttrice del carcere di Lucca, Santina Savoca -. Sono momenti importanti e stimolati, che possono regalare un futuro diverso a chi sceglie di partecipare”. E dopo il momento istituzionale, con i complimenti anche degli assessori Mia Pisano e Giovanni Minniti, è stato per tutti il momento di assaggiare i piatti dei nuovi chef. A turno i detenuti hanno spiegato e raccontato, cercando di mettere da parte l’imbarazzo e facendosi aiutare dai Cuochi lucchesi, i piatti che avevano pensato per questo incontro speciale. “Questo genere di attività sono sempre molto belle - aggiunge Mariella Nencioni, presidente dell’associazione Cuochi Lucchesi -. Per noi sono piacevoli, interessanti e stimolanti. Non possiamo che ringraziare tutti coloro che hanno partecipato, per noi è stato un momento di arricchimento, e per loro un mettersi in gioco. Sicuramente una bella esperienza che ci porteremo dentro”. E gli stessi carcerati, orgogliosi dei loro piatti, camminavano per la sala chiedendo pareri e cercando feedback. “Le polpette le ho fatte io, forse ne ho mangiate più di quelle che sono arrivate quassù, però sono molto buone, vero?” dice uno dei novelli cuochi con il sorriso sulle labbra. Perché anche i fornelli possono essere il luogo da cui far iniziare una vita nuova. E le polpette erano buone davvero. Bologna. Arte e carcere. Un riscatto oltre la detenzione italpress.com, 5 marzo 2024 Il 7 marzo alle ore 15 nella sede dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna la presidente dell’Assemblea legislativa Emma Petitti, il garante dei detenuti della regione Emilia-Romagna Roberto Cavalieri e Caterina Liotti, Centro Documentazione donna di Modena, con le artiste e la curatrice che l’hanno realizzata, inaugurano “(In)curabile bellezza. Donne che fanno comunità” racconta attraverso fotografie e collages dell’esperienza del laboratorio di educazione all’arte che ha fatto incontrare la comunità, forte e coesa, delle pescatrici del Delta del Po con un gruppo di detenute e di volontarie delle associazioni modenesi Centro documentazione donna, Casa delle donne contro la violenza e Carcere-Città. Quell’esperienza è diventata la mostra d’arte “(In)curabile bellezza. Donne che fanno comunità”, curata da Federica Benedetti con opere di Chiara Negrello, Marianna Toscani e del Collettivo No Name della sezione femminile del Carcere Sant’Anna di Modena. Un incontro che parte dal coraggio e dalla determinazione di donne detenute, volontarie e operatrici che - pur nell’anonimato del modo in cui hanno scelto di definirsi, “Collettivo No Name” - si sono messe in gioco facendo nascere una comunità basata sui valori della sorellanza e della cura come emerge nei loro collages (su fotografie di Marianna Toscani). Una narrazione nuova che racconta qualcosa di apparentemente inconciliabile con la durezza del luogo in cui tutto ciò è avvenuto: la nascita di uno spazio di inaspettata bellezza. Una storia che è diventata anche “Collettivo No Name”, pubblicazione curata da Caterina Liotti, edito da Mucchi (XXI pubblicazione della Collana Storie Differenti del Centro documentazione donna), e che fa da catalogo alla mostra “(In)Curabile bellezza. Donne che fanno comunità”. Il volume raccoglie testi che Anna Perna, Paola Cigarini e Caterina Liotti hanno scritto sui temi della sorellanza, dei bisogni disattesi e della spersonalizzazione. Significativi poi i contributi di contestualizzazione dell’operazione realizzata, forniti da Grazia Zuffa, autrice di ricerche nazionali sul tema, che inquadra nel contesto italiano le problematiche legate alla detenzione femminile, e da Claudia Lòffelholz, Direttrice della Scuola di alta formazione Fondazione Modena Arti Visive, che indaga su come il linguaggio dell’arte possa aiutare a costruire una società più inclusiva, empatica e solidale. La mostra sarà visitabile fino al 15 marzo dal lunedì al venerdì dalle ore 9.30-18 nella sede dell’Assemblea legislativa delll’Emilia-Romagna in Viale Aldo Moro 50 a Bologna. Roma. Le attrici ex detenute tornano in carcere da libere con lo spettacolo su Olympe de Gouges garantedetenutilazio.it, 5 marzo 2024 Le Donne del Muro Alto celebrano il decennale della compagnia con una tournée riservata alla popolazione detenuta. In occasione del decennale de Le Donne del Muro Alto, progetto teatrale nato in carcere da un’idea della regista Francesca Tricarico, le attrici ex detenute e ammesse alle misure alternative alla detenzione della compagnia tornano in carcere per la prima volta dopo l’esperienza detentiva per presentare il nuovo spettacolo Olympe. Il lavoro, tratto dal romanzo La donna che visse per un sogno di Maria Rosa Cutrufelli, nasce da un primo studio fatto nel 2015 nel carcere femminile di Rebibbia e racconta gli ultimi mesi di vita di Olympe de Gouges (1748 -1793), 1793), intellettuale, drammaturga e attivista impegnata nella difesa dei diritti civili nell’epoca della Rivoluzione francese che pagherà il suo impegno politico con la vita. Le prime due tappe della tournée negli istituti penitenziari del Lazio sono previste a Latina, giovedì 7 marzo alle ore 11.00 e alle ore 14.00 e a Frosinone venerdì 10 maggio alle ore 14.00. Le attrici ex detenute e ammesse alle misure alternative incontreranno la popolazione detenuta degli istituti coinvolti per condividere il loro percorso, la loro esperienza di inclusione sociale e lavorativa attraverso il teatro. Francesca Tricarico, regista e ideatrice del progetto commenta: “Sono passati più di dieci anni da quel primo ingresso nel carcere femminile di Rebibbia, dieci anni esatti dalla nascita de Le Donne del Muro Alto, un progetto che fin da subito ho capito non poteva e non doveva terminare lì, nonostante tutto sembrasse dire il contrario, dalla difficoltà del luogo alla continua estenuante ricerca dei fondi. In questi dieci anni, Le Donne del Muro Alto è una realtà che continua a crescere sia all’interno che all’esterno delle mura carcerarie, divenendo percorso di accompagnamento al ritorno nella società civile. Oggi, per le donne coinvolte, il progetto rappresenta sempre più una concreta possibilità di formazione oltre che un’occasione lavorativa regolarmente retribuita, un prezioso strumento di inclusione sociale”. Il progetto è realizzato dall’associazione Per Ananke, nata nel 2007, che fin dalla sua costituzione si occupa di teatro, in particolare teatro sociale, lavorando nelle carceri, centri per la salute mentale, scuole di ogni ordine e grado, università. Dal 2013 l’attività teatrale all’interno degli istituti di pena diventa l’attività principale dell’associazione con la nascita del progetto Le Donne del Muro Alto, prima nella Casa Circondariale femminile di Rebibbia, portato in seguito nella Casa Circondariale femminile di Latina e la Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso e oggi anche all’esterno con donne ammesse alle misure alternative alla detenzione ed ex detenute. Verona. Festa della Donna in carcere, raccolta di prodotti da donare alle detenute ed eventi L’Unità, 5 marzo 2024 Anche quest’anno l’associazione Sbarre di Zucchero ha promosso una serie di iniziative per festeggiare la festa della donna. In primis la raccolta di prodotti per il make up da portare alle detenute e poi una serie di incontri per parlare di carcere soprattutto al femminile. Una condizione che per una donna è resa ancora più difficile per moltissimi aspetti e di cui si parla ancora troppo poco. “Anche quest’anno l’8 marzo sarà una giornata ricca di eventi, per noi molto importanti - dicono gli attivisti di Sbarre di Zucchero”. La raccolta di prodotti per il make up per le detenute - Tra le iniziative dedicate alle detenute organizzate e promosse da Sbarre di Zucchero c’è la raccolta di make-up e prodotti per l’igiene personale, da destinare alle donne della sezione femminile del carcere di Montorio - Verona. “Una raccolta che ha prodotto ottimi frutti, grazie alla generosità di alcune persone ed alla donazione della Rossetto Group, che ci ha fatto pervenire il consigliere regionale Tomas Piccinini - continuano gli attivisti di Sbarre - Il materiale raccolto sarà portato all’interno dell’Istituto dalla consigliera comunale Patrizia Bisinella, alla quale abbiamo consegnato il tutto”. Questa iniziativa riguarderà anche il carcere di Santa Maria Capua Vetere, grazie alla donazione ricevuta dal negozio di cosmesi LUSH di Napoli ed in alcune carceri della Calabria. L’incontro a Verona: “Donna fragile: scarto dello scarto” - Nel pomeriggio - dalle 16 alle 18 - presso la sala del Liston 12, in p.zza Bra a Verona, saremo presenti con un incontro pubblico, in collaborazione con Demos ed Azione Comunitaria, dal titolo “Donna fragile: scarto dello scarto”, moderato da Agostino Trettene di Demos Verona, al quale abbiamo invitato il sindaco, Damiano Tommasi, gli assessori comunali Luisa Ceni, Stefania Zivelonghi ed Italo Sandrini, ed il garante comunale delle persone private della libertà personale, don Carlo Vinco. L’incontro è aperto al pubblico e sarà trasmesso in live streaming dai canali social di Sbarre di Zucchero. Sarà consegnato un omaggio alle signore presenti. Come donare prodotti per le detenute - Sbarre di Zucchero promuove la raccolta di cosmetici da donare alle detenute in diverse città. I prodotti da raccogliere sono struccanti, pennellini, matite, rossetti, lucidalabbra, ombretti e palette di ombretti, mascara, ciprie, terre, tutto rigorosamente in confezioni con coperchio trasparente di plastica non rigida e senza specchietti. Per maggiori informazioni è possibile contattare l’associazione Sbarre di Zucchero al numero 3513014080. Migranti. I medici non dovrebbero dichiarare nessuno idoneo ad essere trattenuto nei Cpr di Rete Mai Più Lager - No ai Cpr L’Unità, 5 marzo 2024 Sul The British Medical Journal medici, psicologi, accademici sostengono la campagna lanciata da No ai Cpr, Asgi e Simm. Intanto sempre più dottori si rifiutano di certificare l’idoneità. I medici non dovrebbero dichiarare nessuno idoneo ad essere trattenuto nei CPR L’art. 3 del Regolamento Nazionale CPR del Ministero dell’Interno prevede che, per poter essere trattenuto in uno dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio italiani, chi sia trovato sprovvisto di un titolo di soggiorno valido deve prima essere certificato come idoneo alla vita in comunità ristretta sottoponendosi ad una visita. Di solito, quest’ultima si esaurisce in una veloce rilevazione della pressione arteriosa e poco più, spesso sotto l’impellenza degli agenti di scorta che traducono in manette il “candidato” al CPR (che ricordiamo, per essere tale, non ha commesso un reato, ma solo un illecito amministrativo). Tale visita, riservata ad un medico della ASL o di un’azienda ospedaliera, costituisce l’unica fase nella quale il Servizio Sanitario pubblico “mette il naso” nel “sistema CPR”, essendo, la gestione dei centri di rimpatrio rimessa dalle Prefetture a gestori privati - imprenditori il cui mestiere è quindi fare profitto minimizzando i costi -, cui compete altresì la cura della salute delle persone prese in carico. Ebbene, risponde ad etica e deontologia professionale certificare l’idoneità di un soggetto, anche se sano, ad essere trattenuto - ora fino a 18 mesi - in questi luoghi la cui patogenicità è ormai accertata? Risposta fermamente negativa viene data da un articolo pubblicato il 1° marzo sulla prestigiosa rivista scientifica The British Medical Journal a firma di medici, psicologi e docenti universitari, dal titolo “Doctors should not declare anyone fit to be held in immigration detention centres” (“I dottori non dovrebbero dichiarare nessuno idoneo ad essere trattenuto nei centri di detenzione per immigrati”) a supporto della “Campagna di presa di coscienza dei medici e del settore sanitario sulla certificazione di idoneità delle persone migranti alla vita nei CPR” lanciata dalla rete Mai più Lager - No ai CPR insieme ad ASGI - Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione e SIMM - Società Italiana di Medicina delle Migrazioni. Campagna sorta a seguito delle sempre più numerose richieste di supporto da parte di dottori e dottoresse chiamate sul lavoro a svolgere questa odiosa incombenza e che si sono trovati in forte difficoltà da un punto di vista etico. Queste le argomentazioni: “Il 4 febbraio 2024, un guineano di 22 anni è morto suicida nel centro di detenzione di Ponte Galeria a Roma, in Italia. Nelle settimane precedenti era stato trasferito da un altro centro di detenzione per immigrati, nonostante le sue cattive condizioni di salute mentale e il rischio di autolesionismo fossero ampiamente documentati. Questo caso evidenzia l’urgenza di denunciare le condizioni inadeguate e inadatte all’interno di queste strutture, che espongono le persone detenute a gravi rischi per la salute o a morte prematura. Nel 2022, l’Ufficio regionale per l’Europa dell’Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato un documento che descrive i rischi per la salute delle persone sottoposte a detenzione per immigrazione. L’OMS conferma che i siti di detenzione in tutta Europa costituiscono un rischio sostanziale per la salute mentale dei detenuti, rischiano la diffusione di malattie infettive e aderiscono a bassi standard di qualità nella gestione delle malattie non trasmissibili. (...) In Italia, nonostante la natura amministrativa della detenzione per immigrazione, queste strutture sono ambienti simili a quelli carcerari, ma privi delle tutele di base solitamente garantite in carcere in molti Paesi europei, tra cui il diritto all’accesso all’assistenza sanitaria. I centri di detenzione per immigrati sono gestiti da organizzazioni private a scopo di lucro che firmano protocolli d’intesa con le prefetture (sedi locali del Ministero dell’Interno) e le autorità sanitarie locali, che dovrebbero garantire i diritti delle persone detenute. La gestione della salute nei centri di detenzione per immigrati è affidata a personale sanitario impiegato da appaltatori privati e al personale non sono richieste qualifiche o formazioni specifiche per lavorare con persone migranti e/o in contesti di detenzione. Numerosi rapporti e indagini indipendenti, anche da parte del Garante nazionale italiano per i diritti delle persone detenute o private della libertà, hanno evidenziato le degradanti condizioni igienico-sanitarie dei luoghi di detenzione e l’offerta sanitaria non ottimale. Le persone detenute devono spesso affrontare gravi problemi di salute fisica e mentale, esacerbati dalla reclusione e dalle barriere nell’accesso alle cure secondo gli standard garantiti dal sistema sanitario nazionale italiano. È stato inoltre documentato l’abuso e l’uso improprio di psicofarmaci prescritti dal personale sanitario per scopi di sicurezza all’interno di questi siti di detenzione. (...) Dal punto di vista della salute pubblica, molteplici fonti affidabili hanno dimostrato che la detenzione per immigrazione è patogena e rappresenta un rischio per la salute delle persone (...) i medici hanno il dovere deontologico di proteggere le persone vulnerabili (come i migranti senza documenti), in particolare quando ritengono che l’ambiente in cui la persona vive non sia adatto a proteggere la sua salute, dignità e qualità della vita. Sulla base di queste considerazioni e in linea con le linee guida dell’OMS per la tutela della salute delle persone sottoposte a detenzione (OMS, 2022), la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, la rete “Mai più lager-No ai CPR” e l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione hanno lanciato un appello affinché tutto il personale sanitario sia consapevole delle condizioni nocive e dei rischi per la salute associati alla detenzione per immigrazione. Sulla base delle suddette questioni di salute pubblica, etiche e legali, la campagna mira ad aumentare la consapevolezza e a fornire un supporto documentale e organizzativo ai medici per incoraggiarli a non dichiarare alcuna persona migrante idonea alla detenzione amministrativa. I centri di detenzione per immigrati sono ambienti invisibili in cui il diritto alla salute e l’accesso all’assistenza sanitaria sono sistematicamente trascurati. Tenendo conto dei principi fondamentali e dell’etica della professione medica, gli operatori sanitari dovrebbero affermare con fermezza che nessuno dovrebbe mai essere considerato idoneo a essere “rinchiuso” in ambienti patogeni in cui la salute è ignorata e i diritti umani fondamentali sono a rischio.” La parola passi ora agli Ordini professionali, alle ASL, ai Comitati di bioetica. Ma intanto sono sempre più dottori e dottoresse che si rifiutano di certificare l’idoneità di soggetti sani che da una detenzione senza rispetto dei diritti fondamentali e le garanzie minime, sano non uscirà. Tratta di esseri umani, in Italia il fenomeno resta preoccupante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 marzo 2024 L’Italia risulta poco incisiva nella lotta alla tratta degli esseri umani, come indicato nel rapporto del 29 febbraio scorso presentato dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani (Greta). Questo studio ha rivelato una serie di punti critici che ostacolano l’efficace applicazione della Convenzione, ratificata dall’Italia nel 2010. Nonostante alcuni miglioramenti rispetto al rapporto precedente, il quadro generale rimane preoccupante, in particolare per quanto riguarda lo sfruttamento lavorativo e sessuale delle vittime della tratta. Una delle principali preoccupazioni evidenziate nel rapporto è la persistente situazione di sfruttamento del lavoro, concentrata soprattutto nei settori agricolo, tessile, dei servizi domestici, dell’edilizia, del settore alberghiero e della ristorazione. Si segnala inoltre una diminuzione delle indagini, delle azioni penali e delle condanne riguardanti la tratta di esseri umani, con conseguente mancata applicazione di sanzioni efficaci e mancanza di risarcimenti per le vittime. In particolare, il Greta esprime grande preoccupazione per il clima di criminalizzazione dei migranti derivante dal rafforzamento delle misure restrittive sull’immigrazione. Questo clima, secondo il Comitato, scoraggia molte potenziali vittime della tratta dal denunciare i propri casi per timore di essere detenute ed espulse. Un episodio significativo descritto nel rapporto riguarda l’aumento dei casi di tratta di esseri umani legati al settore agricolo in Italia. Organizzazioni criminali transnazionali sono state segnalate per lo sfruttamento di giovani donne nigeriane attraverso debiti e coercizione. Questo fenomeno evidenzia la complessità e la gravità della tratta di esseri umani nel contesto italiano, sottolineando la necessità di interventi mirati e coordinati per contrastare efficacemente questa forma di criminalità e proteggere le vittime coinvolte. Inoltre, i dati riportati indicano che il numero di individui coinvolti nella tratta di esseri umani in Italia varia da 2.100 a 3.800 persone. Sebbene la maggioranza delle vittime sia composta da donne, è stato registrato un aumento significativo del numero di uomini e persone transgender coinvolte nella tratta. Ma c’è di più. Il rapporto evidenzia che questi dati ufficiali potrebbero non riflettere appieno la portata reale del fenomeno, a causa delle limitazioni nelle procedure di identificazione delle vittime e del basso tasso di auto- segnalazione. Tra gli sviluppi positivi, si nota l’adozione di un nuovo piano d’azione nazionale contro la tratta, un aumento dei fondi per l’assistenza alle vittime e l’elaborazione di procedure operative standard per l’identificazione delle vittime della tratta e dello sfruttamento. La poesia femminile fa paura ai regimi di Dacia Maraini Corriere della Sera, 5 marzo 2024 La poetessa Mahvash Sabet è stata dieci anni in carcere per avere criticato la politica dell’intolleranza, con l’accusa di avere complottato contro il Paese. Uscita dal carcere, ha potuto pubblicare le sue poesie, che sono state amate, tradotte, premiate. Mesi fa l’hanno denunciata una seconda volta. Cosa ne è delle donne iraniane di cui non si parla più? Continuano a battagliare per i tre diritti umani di cui tutti dovrebbero godere? Libertà di pensiero, di parola, di movimento? Siamo davvero condannati all’eterno presente dimenticando ogni giorno il passato più recente? Le donne in Iran continuano a protestare, a chiedere parità di diritti, e sono identificate, controllate, denunciate e spesso incarcerate nell’indifferenza generale. “In questa prigione / si vende il cielo /per comprare cenere. / Ci tagliano le vene / e il nostro sangue colora i tulipani /ci cuciono le labbra / e le foglie sbucano sotto la lingua”. La poesia continua con grazia e sapienza trasformando le catene in gioielli del pensiero. L’autrice si chiama Mahvash Sabet ed è stata dieci anni in carcere per avere criticato la politica dell’intolleranza, con l’accusa di avere complottato contro il Paese. Uscita dal carcere, ha potuto pubblicare le sue poesie, che sono state amate, tradotte, premiate. Mesi fa l’hanno denunciata una seconda volta con l’accusa di appartenere a una religione diversa, la Bahà’i che crede in un solo Dio per tutta l’umanità. E oggi l’hanno condannata ad altri 10 anni di carcere con le stesse accuse. Evidentemente la poesia fa paura ai regimi, soprattutto se a scriverle è una donna. Nonostante la fretta, correndo dietro alle notizie come corrono le gazzelle inseguite dai lupi, cerchiamo di stare vicino a queste donne che difendono per loro, ma anche per noi, per tutte le donne del mondo, il diritto alla parola e al pensiero autonomo. Ne hanno bisogno, come noi abbiamo bisogno del loro esempio coraggioso. La fame ormai è diventata un’arma di guerra di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 5 marzo 2024 Pochi giorni fa Save the Children ha lanciato l’allarme: ne uccide più la mancanza di cibo che le armi. Da Gaza ci arrivano notizie sui morti per fame. Abbiamo visto tutti la corsa disperata ai soccorsi alimentari. Pochi giorni fa Save the Children ha lanciato l’allarme sulla fame diventata arma di guerra: ne uccide più la mancanza di cibo che le armi. Su come si esprime un bisogno fondamentale, l’esigenza di avere da mangiare nei momenti tragici della storia, ha scritto Leo Spitzer, un famoso linguista austriaco, quando nel 1920 pubblicò un libro straordinario tradotto per la prima volta dal Saggiatore nel 2019. Si intitola Perifrasi sul concetto di famee riporta le lettere in cui i prigionieri italiani imploravano i parenti di mandare alimenti. Durante la Grande Guerra Spitzer aveva lavorato a Vienna nell’Ufficio della censura postale e da quella posizione poteva intercettare la corrispondenza (certi passi sulla fame che avrebbero danneggiato l’onore austriaco andavano tagliati). La sera lo studioso si intratteneva a ricopiare quelle lettere e le pubblicò a guerra conclusa. Erano per lo più scritte da semianalfabeti che si ingegnavano con espressioni spesso in codice, per lo più sgangherate e striate di venature dialettali. È un’antologia della disperazione da fame in guerra. Chi scrive che “il ventre non tira troppo”; chi invoca i familiari a Milano di mandare “pane pane pane che qui non mi sassia mai l’appettito”; chi da Chieti vorrebbe cicoria; chi si accontenterebbe di “un po’ di formaggio”; chi segnala in piacentino che “qui la catolica ce sempre da per tutto” o che “la cattolica batte forte”. La “cattolica” in gergo era, appunto, la fame, forse per affinità con l’idea della vita da mendicanti. Dicevano allora che gli italiani “piagnoni” cercavano di impietosire i loro parenti al paese, ma la fame in guerra era reale. Oggi chi ha fame non la chiama “cattolica”, guarda il cielo, senza nessuno a cui scrivere. Trafficanti di uomini a Gaza: gli affari sulla pelle delle vittime di Bianca Senatore Il Domani, 5 marzo 2024 La disperazione di chi vuole fuggire dalla Striscia ha generato un business di trafficanti che promettono la fuga. Il costo è fra 5 e 7mila dollari, ma qualcuno paga anche molto di più. Molti sono truffatori che poi si volatilizzano. Il numero di telefono arriva da una chat Telegram, ma sembra un contatto sicuro. L’uomo che risponde ha l’accento egiziano e assicura che il nome in lista ci sarà. Aspetta solo l’ultimo pagamento. La comunicazione avviene tra un “agente di viaggio” e Rashid, un ragazzo palestinese che ha deciso di scappare via da Gaza. “Mi devo fidare per forza, non ho altra scelta”, confessa. “Qui tutti stanno cercando di andar via, non credo che possano rimangiarsi la parola”. Insieme alla sua famiglia, sua moglie e tre bambini, Rashid ha lasciato il nord di Gaza dopo i primi massicci bombardamenti e poi si è spostato sempre più verso sud man mano che i raid si intensificavano. Da pochi giorni ha abbandonato il campo di Al Nusairat e si è trasferito a Rafah. Gli esperti della fuga - È proprio qui, in questi 3 chilometri dal confine con l’Egitto, che stanno facendo i loro affari i nuovi “esperti della fuga”. Dei “businessman” che, in cambio di migliaia di dollari, stanno vendendo permessi per attraversare il valico di Rafah e così fuggire dall’inferno della Striscia. Come in ogni guerra e in ogni altra situazione di crisi, anche qui i trafficanti stanno lucrando sulla vita delle persone. “Il costo varia dai 5mila ai 7mila dollari a persona”, racconta Rana Al Magawi, direttrice di un centro per l’infanzia, “ma c’è chi ha pagato anche di più”. Durante i primi giorni della guerra, dopo il 7 ottobre, c’era l’agenzia Hala Consulting and Tourism a fornire il servizio di “esfiltrazione” dalla Striscia. E sul sito c’era scritto che “la cifra da pagare comprende il costo del visto d’ingresso, le spese di trasporto e tutti i servizi che garantiscono il massimo comfort e sicurezza al viaggiatore”. Qualche mese fa, però, il sito dell’agenzia Hala ha cancellato ogni riferimento al viaggio attraverso il valico, e anche sui social la Hala è stata ribattezzata con un altro nome. Intanto, però, a Rafah sono comparsi decine di “agenti”, pronti a garantire il permesso di passaggio al Gate di Rafah. “Alcuni amici hanno pagato 100mila dollari per scappare, ed erano solamente in 5”, racconta Rana Al Magawi, “ma hanno trovato un “passatore” che diceva di lavorare per un’agenzia di viaggio online. Non li sento da molti giorni”. A Gaza la situazione è diventata impossibile, non c’è più alcun luogo sicuro. “Non c’è più neanche un momento della giornata in cui sei certo che non potrai morire”, dice la giornalista Aseel Mousa. “Per questo sempre più persone si stanno affidando ai trafficanti per andare via”. I palestinesi sono sfiniti, sono alla fame e sono arrabbiati, perché anche quel poco che è rimasto costa caro come il fuoco. Un cartone di uova in Cisgiordania costa 20 shekel israeliani, mentre a Gaza costa 100 shekel, l’equivalente di 26 euro. “La maggioranza è arrabbiata anche con Hamas, non crede che ci permetterà mai di vivere in pace”, aggiunge Aseel, abbassando un po’ il tono di voce. “Adesso ci sono i negoziati in corso tra Hamas e Al Fatah, ma non ci fidiamo più di nessuno”. Lo strazio è aumentato soprattutto dopo il raid israeliano sulla folla che aspettava di ricevere aiuti umanitari. “È morta la sorella di un’amica”, racconta ancora Aseel, “stava aspettando un pacco di farina e all’improvviso buio. Anche se ufficialmente ci sarà la tregua per il Ramadan, sappiamo che pioveranno ancora bombe”. Ora la frenesia di scappare via da Gaza ha contagiato un po’ tutti. Per raccogliere i soldi da dare ai trafficanti i palestinesi si sono affidati al metodo del crowdfunding. Su alcune delle piattaforme più famose, infatti, ci sono decine di richieste di aiuto. “Help my family to evacuate Gaza”, è l’annuncio sotto la foto di una famiglia. “Help Hammoud and his family to running away from Gaza”, si legge sotto la foto di un bambino di quattro anni. “From crisis to Hope: help to get my family to safety”, è il titolo di un annuncio in cui in primo piano c’è la foto di una casa distrutta. Il contributo minimo è di 5 euro, ma c’è chi ha donato anche mille euro, in anonimato o firmando nome e cognome. Gli annunci aumentano di ora in ora, per centinaia di pagine del sito. “Facciamo appello ai palestinesi nel mondo”, spiega ancora Rana Al Magawi. “A parenti, amici, conoscenti che vivono in altri paesi. Ma anche a tutti gli altri che vogliono aiutarci, perché qui per noi c’è solo la morte”. I costi del viaggio, però, stanno lievitando, perché i trafficanti chiedono sempre più soldi man mano che la tensione a Gaza aumenta. E si stanno diversificando anche le offerte. Da qualche giorno, infatti, starebbero operando sul confine egiziano anche dei libici, probabilmente attratti dall’odore del business facile. “Li abbiamo riconosciuti dall’accento”, spiega Hani, un collaboratore della Red Crescent. Guidava l’ambulanza prima di rimanere ferito alle gambe. “E ce lo hanno confermato anche alcuni intermediari che collaborano da anni con le autorità egiziane al valico di Rafah, tra loro anche Abu Naqira, che da tempo ha contatti anche con l’intelligence egiziana”. I numeri di questi trafficanti girano tra le chat Telegram o nei gruppi chiusi su Facebook. Alla risposta, immediatamente vengono proposti “pacchetti famiglia” con sconti per i più piccoli: per i bambini sotto l’anno di età il permesso costa 700 dollari. Anche i neonati pagano, dicono, perché, ora come ora, ogni nome sulla lista di chi può passare al Gate ha un costo. “I trafficanti ti fanno attraversare il valico e poi ti lasciano appena entrati in territorio egiziano”, racconta Rana, “ma so che dall’altro lato ci sono taxi e navette che con altri 2mila dollari ti portano dalla regione del Sinai fino alla città più vicina. Se paghi tanto, anche fino al Cairo”. Da lì, a quel punto, le persone possono provare a prendere un aereo oppure viaggiare con gli autobus per lasciare l’Egitto. La rete dei trafficanti ha coperto ogni possibile esigenza dei palestinesi in fuga. Caos ai check-point - Dal canto loro, gli egiziani, che fin dall’inizio della guerra hanno negato l’accesso ai profughi palestinesi sul loro territorio, smentiscono che ci sia questo traffico di persone. Il capo del dipartimento di comunicazione della regione del Sinai, Diaa Rashwan, ha detto che le “accuse sono infondate”. Le autorità del valico, però, ammettono che il caos quotidiano al check-point è aumentato. “Ci sono dei litigi furibondi tra coloro che stanno aspettando di poter passare da settimane perché ne hanno diritto e quelli che sono stati inseriti negli elenchi all’ultimo momento”, spiega Ibahim al Kasher, un giornalista palestinese con passaporto egiziano che lavora da anni proprio nella zona tra i due paesi. “Nessuno ammetterà mai che sta avvenendo questo traffico di permessi cartacei”, dice, “ma nessuno nemmeno lo fermerà, perché ci stanno guadagnando un po’ tutti”. Guarda caso, sembra che anche chi ha pagato 5mila dollari a persona, arrivato al check-point, abbia degli strani problemi burocratici che si risolvono in pochi minuti sborsando un’altra tangente. Attualmente, gli unici che avrebbero il diritto di uscire da Gaza sono i cittadini con passaporto internazionale e persone gravemente ferite, ma solo se autorizzate da una ong o una struttura ospedaliera pronta ad accoglierle. Il lavoro di questi trafficanti è stato denunciato in questi giorni anche dall’Organized Crime and Corruption Reporting Project (Occrp), un’organizzazione giornalistica no profit che sta cercando di mettere in guardia i palestinesi. “Attenzione a chi chiede soldi”, dicono, “perché molti personaggi equivoci prendono ingenti somme e poi spariscono, senza assicurare il passaggio e la fuga”. Intanto Rashid sta raccogliendo gli ultimi soldi. Al più tardi dopo domani pagherà e si metterà in fila al Gate. “Aspetterò tutto il tempo necessario pur di salvare la vita di mio figlio. Pagherò con il sangue”. Cosa succede ora a Chico Forti, il carcere e l’ipotesi della semilibertà (e quando arriverà in Italia) di Tiziano Grottolo Corriere del Trentino, 5 marzo 2024 Il trasferimento di Chico Forti è atteso nel giro di alcune settimane. Potrebbe scontare la pena in Trentino a Spini di Gardolo e accedere alla semilibertà. È stata nientemeno che la presiedente del consiglio, Giorgia Meloni, ad annunciare l’arrivo della firma per l’autorizzazione al trasferimento in Italia di Chico Forti. Il 65enne trentino dal 2000 sta scontando l’ergastolo negli Stati Uniti per l’omicidio di Dale Pike, un delitto per il quale si è sempre dichiarato innocente. L’iter per il trasferimento di Forti in Italia era stato avviato nel 2020 dopo che il governatore della Florida, il Repubblicano Ron DeSantis, aveva accolto un’istanza basata sulla Convenzione di Strasburgo che era stata presentata dagli avvocati del detenuto trentino. Tuttavia dopo l’annuncio dell’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio il procedimento sembrava essersi arenato. Ora, dopo una lunga attesa l’ex campione di windsurf potrebbe finalmente riabbracciare i propri cari in Italia. Secondo il deputato di FdI Andrea Di Giuseppe (residente a Miami ed eletto nella circoscrizione Nord e Centro America), per completare le varie incombenze burocratiche potrebbero volerci “fra le quattro e le sei settimane al massimo”. Il primo passaggio prevede il trasferimento del 65enne dal carcere statale vicino a Miami in cui è detenuto a un penitenziario federale. Ciò potrò avvenire su ordine del governatore della Florida DeSantis. Successivamente toccherà al Dipartimento di Giustizia statunitense trasmettere al ministero della Giustizia italiano la sentenza di condanna nei confronti di Forti (che dovrà essere tradotta) e la documentazione relativa al trasferimento. A sua volta il dicastero presieduto da Nordio dovrà inviare la documentazione alla Corte d’Appello di Trento che dovrà riconoscere la sentenza e metterla in esecuzione. Solo quando saranno espletate queste pratiche sarà possibile organizzare il trasferimento di Forti in Italia. “I miei uffici lavoreranno per ottemperare nel più breve tempo possibile tutti i passaggi tecnici necessari” fa sapere il ministro della Giustizia Carlo Nordio. “Auspichiamo che anche tutti gli altri passaggi, che chiamano in causa tra l’altro le autorità giudiziarie, si possano compiere nel più breve tempo possibile”. Ma cosa succederà quando Forti rientrerà in Italia? Al netto di possibili accordi intergovernativi, il 65enne trentino sarà sottoposto alle regole del sistema italiano. “Ovviamente gli Stati Uniti non fanno parte dell’Unione europea - spiega l’avvocato Roberto Bertuol, presidente della Camera Penale di Trento - per questo il trasferimento di detenuti è regolato da trattati internazionali. Salvo eventuali accordi di cui al momento non possiamo essere a conoscenza, nei confronti di Forti saranno applicate le regole previste dall’ordinamento penitenziario italiano. Ciò significa che avendo già scontato parte della pena potrebbe accedere a determinati benefici”. In altre parole, qualora non vi fossero specifici accordi, Forti potrebbe presentare alla magistratura di sorveglianza delle richieste circa le sue condizioni di detenzione. Al tempo stesso però, dal momento che il processo si è tenuto negli Stati Uniti, non è possibile che a occuparsi della revisione sia una corte italiana. Ad ogni modo l’ex campione di windsurf potrebbe finire di scontare la pena nel carcere di Trento, a Spini di Gardolo. “In genere i detenuti in arrivo dall’estero atterrano a Roma - osserva Bertuol - perciò è probabile che in un primo momento Forti venga assegnato a un penitenziario nella zona della capitale. La decisione nel merito di un suo possibile trasferimento in una struttura più vicina a casa spetterà al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Dello stesso avviso pure l’avvocato e consigliere provinciale del Pd, Andrea de Bertolini: “Salvo casi eccezionali, come l’ergastolo ostativo o il 41 bis, l’ergastolo “statunitense” non è equiparabile a quello “italiano”, che a certe condizioni prevede persino il reinserimento del detenuto nella società”. Non va dimenticato che, almeno sul piano teorico, l’ordinamento italiano è uno dei più avanzati in termini di finalità rieducativa della pena. I condannati all’ergastolo che si dimostrano meritevoli, dopo aver scontato almeno dieci anni, possono ricevere dei permessi premio per uscire dal carcere. Dopo venti, invece, possono accedere alla semilibertà per trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto penitenziario per lavorare o partecipare ad attività utili al reinserimento. “Al netto del fatto che l’ergastolo statunitense non è contemplato nel nostro ordinamento, Forti potrebbe già aver accesso a istituti come i permessi premio e la semilibertà”, conclude de Bertolini.