Ripensiamo, vi prego, il decreto Caivano di Giuseppe Spadaro* Il Dubbio, 4 marzo 2024 Rinchiudere un minore in carcere fa crescere la sua rabbia e aumenta la nostra insicurezza. Dobbiamo sanzionare ma anche offrire opportunità di cambiamento, per consentire a chi è detenuto di capire la bellezza della legalità. Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di intervenire” per contrastare la criminalità minorile e “in considerazione della maggiore pericolosità e lesività acquisite nei tempi recenti”, così il governo ha deciso di intervenire con il decreto Caivano, andando poi ad elencare le misure applicabili dal 15 settembre in avanti. Un’emergenza nazionale, quella della delinquenza minorile, andava fronteggiata con urgenza. Il rapporto “Antigone” evidenzia, ora, a poco più di cinque mesi dalla entrata in vigore di quelle misure, una diversa ed ulteriore emergenza: la popolazione carceraria minorile è quasi raddoppiata ed in assenza di cambio immediato, condiviso e coraggioso di rotta, il rischio è che la giustizia minorile finisca col creare solo emarginazione. Anche prima del decreto Caivano, invero, il processo penale minorile italiano, possedeva le norme necessarie a punire i reati di spaccio, detenzione di armi e violenza e per contrastare la “criminalità minorile”. La legge 448/88, un modello processuale imitato da altri Paesi, aveva portato ad un numero residuale di ragazzi in carcere, in ossequio ai principi cardine della nostra Costituzione e alle più avanzate teorie sociali e pedagogiche: è l’educazione che responsabilizza le persone e rende possibile la convivenza; è il riconoscimento del dolore inflitto all’altro e il risarcimento morale e materiale della vittima l’unica possibilità per crescere e trasformare il male fatto all’altro in bene. Non si tratta di “buonismo” ma di razionale risposta in termini di futuro! Con il decreto Caivano, da 300 minori reclusi in carcere siamo passati, nel giro di pochi mesi, ad oltre 500! Tuttavia, se, come affermato dal sottosegretario alla Giustizia Ostellari la cui sensibilità verso tali problematiche è emersa anche nel suo recente intervento su Il Foglio, non verranno immesse nuove risorse professionali (educatori, assistenti sociali, psicologi, mediatori culturali) e stanziati nuovi fondi per incrementare percorsi educativi all’interno di strutture (non solo carcerarie, ma anche e soprattutto comunitarie) idonee, spaziose, attrezzate, temo che non restituiremo alla società giovani migliori dopo l’espiazione della pena, qual è il fine ultimo di tutte le pene detentive! Per contro, in questo momento, i continui trasferimenti di minori in vinculis da un territorio all’altro per mancanza di posti negli istituti penali e nelle comunità private impediscono di garantire continuità ai percorsi di rieducazione in essere. Inoltre, come si può pensare di coinvolgere in un progetto educativo un detenuto minorenne e la sua famiglia, se il primo è stato spostato a migliaia di chilometri di distanza dal proprio territorio? A tutto ciò si aggiunge che gli operatori della Giustizia Minorile sono oggi sopraffatti dalla necessità di dover gestire i “nuovi” bisogni drammatici dei ragazzi: dalla dipendenza da sostanze psicotrope e alcoliche, ai problemi psichiatrici, ai bisogni sanitari. La serie televisiva “Marefuori” ha il grande merito di parlare di tale fenomeno e di evidenziare l’aspetto rieducativo della pena, la sofferenza dei ragazzi detenuti e quella dei loro familiari, gli sforzi compiuti da una straordinaria polizia penitenziaria minorile e dagli ottimi assistenti sociali dell’Uffici di servizio sociale per i minorenni (Ussm). Ma la realtà è ben lontana da quella rappresentata. Negli Ipm, per mancanza degli spazi dove svolgere i colloqui, è difficile persino fare incontrare i minori con i propri familiari. Il diritto costituzionale all’affettività è quasi negato, come pure le carezze ai propri figli di alcuni detenuti/ e appena ultradiciottenni. Punire è doveroso e giusto, ma, come accaduto per i maggiorenni, confinare i minori in carceri sovraffollati, deprivati dal contatto con la realtà e dallo sguardo sulla vittima e sul male procurato, crea solo uno spreco di risorse in termini materiali e umani. È sufficiente constatare l’elevato tasso di recidiva dei detenuti maggiorenni: se dopo anni di reclusione essi commettono reati della stessa indole e specie significa che la funzione rieducativa della pena non ha portato i suoi frutti. Un minore in carcere rinforza una personalità rabbiosa. Egli, quando uscirà fuori, quando verrà restituito ad una società che continuerà a non prendersi cura di lui, proseguirà a farsi e a fare del male. Nelle carceri e, in specie, nelle comunità minorili, invece, dati alla mano, il tasso di recidiva era, in un recente passato, bassissimo, segno che l’esperienza ivi maturata aveva portato ad una evoluzione positiva della personalità dei minori coinvolti nel circuito penale, i quali sovente dimostravano di aver dato avvio ad un processo di rimeditazione critica del proprio passato e una piena disponibilità ad un costruttivo reinserimento nella vita della collettività. I numeri odierni, se dovessero continuare a lievitare, non consentirebbero più di accompagnare i minori in un simile percorso. Si dimentica spesso che la radice del problema sta altrove. La madre delle emergenze è un’altra (e non è certo addebitabile a questo governo, poiché esistente da anni nel nostro Paese): è quella educativa. Le nostre comunità territoriali, le nostre città, le nostre periferie da decenni non si occupano della drammatica condizione di impoverimento sociale, culturale, materiale degli adolescenti che, soprattutto dopo il Covid, sono stati lasciati soli, senza sogni e speranze da coltivare, se non quelle di diventare degli influencer. Sono, oggi, ancor più necessari maggiori investimenti sulla spesa sociale, scuole, ambiti educativi, socio sanitari, tutela dei minori. Tutti noi, magistrati e avvocati minorili in primis, dovremmo aiutare a comprendere il fenomeno della criminalità minorile e contribuire ad elaborare migliori scelte legislative, analizzando in primis i comportamenti di gruppo dei giovani negli spazi pubblici; le loro modalità di aggregazione; le dinamiche di interazione con il contesto sociale di riferimento, interpretando quelle condotte, anche devianti e criminali, oggi considerate causa di insicurezza urbana e fonte di allarme sociale ed indagando il disagio ed i bisogni dei ragazzi coinvolti, anche al fine di meglio comprendere quanto l’immagine veicolata dai mass media corrisponda alla realtà esistente sul territorio nazionale. Una ricerca supervisionata da Rossella Selmini, professoressa di Criminologia del Dipartimento di Scienze Giuridiche di Bologna ci indica questa strada: riportare l’attenzione verso le traiettorie di vita familiari, scolastiche, economiche e sociali dei ragazzi e delle ragazze che fanno parte delle “bande di strada”. In tale contesto, la risposta punitiva, e la relativa stigmatizzazione, soprattutto se mediatica, si è visto, hanno il solo effetto di rafforzare il senso di appartenenza e rendere il gruppo più coeso, accrescendo il coinvolgimento dei minori in attività criminali e la loro progressione verso fenomeni delittuosi più seri. Si amplia l’atteggiamento “noi” contro di “loro”, di modo che anche giovani solo marginalmente coinvolti nel fenomeno ne vengano attratti in maniera più stabile e più seria. L’inquadramento mediatico del problema, in particolare, che definisce “baby-gang” pressoché ogni episodio conflittuale nello spazio pubblico in cui sia coinvolto più di un giovane, contribuisce a creare un clima sociale di intolleranza verso il problema e non aiuta alla sua comprensione. Rischia di favorire comportamenti emulativi e di rinforzare il senso di appartenenza e il processo di costruzione di una identità di “banda”. Andrebbero, per contro, programmate iniziative seminariali e discussioni serie e tra esperti. Andrebbero rinforzate le misure di sostegno alle famiglie problematiche in cui siano presenti minori a rischio. C’è necessità di formazione “alta” di operatori specializzati in grado di instaurare un contatto diretto con i giovani a cui affidare la progettazione e/o la gestione di progetti rivolti ai gruppi giovanili e che possano diventare un riferimento positivo per queste aggregazioni. È poi indispensabile l’individuazione di spazi fisici dove i giovani possano avere visibilità e possibilità di esprimere la loro sensazione di non appartenenza. In tal senso, andrebbe fatto uno sforzo di ripensamento della gestione dello spazio pubblico in grado di garantire maggiore spazio fisico a un gruppo di soggetti minoritario, quello giovanile, che richiede visibilità, rivendica desiderio di inclusione e di protagonismo, attenzione ai propri bisogni e interessi. D’altronde, la violenza minorile è sovente sintomatica espressione di una richiesta di spazio, di identità, di visibilità a cui il mondo degli adulti e le istituzioni non stanno fornendo risposte adeguate. Da ultimo ma, a mio modesto avviso, il più impellente intervento va rivolto ai minori immigrati, siano essi parte di gruppi su base etnica o misti. Occorre evitare situazioni di “parcheggio” dei minori stranieri non accompagnati nei centri di accoglienza, oggi sempre più destinati a divenire una fucina per il coinvolgimento in attività devianti o criminali. Punire ma sostenere nel contempo, sanzionare ma anche offrire opportunità di cambiamento, per consentire a chi è detenuto di comprendere la bellezza del vivere in legalità e in libertà! Tutti abbiamo commesso errori nella nostra vita e dalle punizioni subite ne abbiamo tratto vantaggio; ma quando siamo stati messi in grado di ricrederci e di intraprendere percorsi di vita diversi, di comprendere le conseguenze negative dei nostri errori e abbiamo avuto la possibilità di constatarle attraverso l’incontro con la sofferenza provocata, ne siamo usciti persone migliori! Certo se poi la persona ristretta non le coglie e sfrutta le opportunità offerte, occorre salvaguardare anche l’esigenza di tutela e sicurezza della collettività, non certo meno meritevole di altre, ma vorrei tanto far parte di una Giustizia che consenta, prima di tutto, di “curare” e “amare” il reo e la vittima del reato. *Presidente del Tribunale dei minori di Trento Mettere in cella la nostra “peggio gioventù” significa non credere più al futuro. Il nostro... di Davide Varì Il Dubbio, 4 marzo 2024 C’è stato un tempo, un tempo non troppo lontano e magnifico, in cui l'Italia ha insegnato al mondo intero che il termine democrazia non era una parola vuota ma un impegno delle istituzioni e della comunità a non lasciare indietro nessuno. Un tempo in cui la parola “irrecuperabile” era bandita perché era ancora intatta la fiducia verso “l’uomo” e la sua capacità di cambiare. La comunità e le istituzioni erano infatti convinte che mutando le condizioni di vita sarebbe anche cambiato l'individuo. Era l’Italia dei Basaglia, la cui legge ha dato dignità a decine di migliaia di persone e i cui studi hanno portato la psichiatria italiana al vertice della comunità scientifica mondiale. Ma era anche l’Italia dei Gozzini, l'uomo che ha trasformato il carcere da luogo di penitenza a luogo di possibile riscatto, reintegrazione e rigenerazione. Basaglia e Gozzini erano due uomini, due italiani, simbolo di un Paese che aveva fiducia in se stesso, che non aveva paura del futuro. Era un'Italia che scioglieva le catene, che apriva le gabbie fisiche e mentali e nello stesso tempo si apprestava a diventare la quinta potenza economica del mondo. Produceva cultura, quell’Italia, vinceva festival e vendeva milioni di libri: c’erano i partiti, c’erano gli intellettuali e soprattutto c’era uno scambio proficuo e incessante tra i due. Era un Paese, l’Italia, che non solo non aveva paura della libertà ma che aveva fatto di quella stessa libertà una religione laica. Cosa è rimasto oggi di quella temperie, di quel coraggio? Poco o niente, temiamo, e il decreto Caivano, al di là di ogni sua implicazione politica, racconta un Paese chiuso, impaurito, sfiduciato verso i suoi stessi giovani che pure dovrebbero rappresentare la pietra angolare su cui edificare il futuro. E mentre prima gli 'incorreggibili' non esistevano, l'Italia oggi considera irredimibile la sua “peggio gioventù'. Quel decreto altro non fa che demolire il cosiddetto interesse superiore del minore, aderendo a uno slogan “buttiamo le chiavi delle prigioni” che ci riporta indietro di decenni. E così le nostre galere, luoghi criminogeni e insalubri, si riempiono di ragazzini ai quali, invece, dovremmo offrire una “via di fuga” dal destino già scritto da una sentenza che non lascia speranze. Per loro e per noi. Don Rigoldi: “È illusorio pensare di risolvere tutto aumentando le pene per i ragazzi difficili” di Franco Insardà Il Dubbio, 4 marzo 2024 “Consentire ai minori di uscire dal carcere per lavorare sarebbe un messaggio fortissimo per gli altri che sono dentro: fuori c’è il futuro”. Quando all’inizio degli anni 70 il “Beccaria” apriva i battenti don Gino Rigoldi era lì, come oggi a distanza di oltre 50 anni. “Sono ancora io il cappellano, pur avendo dato le dimissioni. Al “Beccaria” tutto è lento, don Claudio Burgio che mi sostituirà non ha fretta, perché ha tante cose da fare, la direzione è sommersa dalla burocrazia e io sono ancora vicino ai miei ragazzi”, dice don Gino con i suoi 84 anni e la voglia e l’entusiasmo di un giovanotto. In tutti questi anni ne ha visti passare tanti di ragazzi, sa bene di cosa hanno bisogno e con la sua Fondazione tra i quartieri di San Siro e Giambellino ha 15 appartamenti per chi una casa non ce l’ha. Don Gino, per contrastare la criminalità minorile il governo ha deciso di intervenire con il decreto Caivano che, secondo il rapporto di Antigone, ha fatto aumentare i detenuti negli Ipm. Pensa che possa servire? È una stupidaggine, frutto di incompetenze secolari, pensare che i cattivi comportamenti dei minori si possano contrastare inasprendo le pene. In assenza, o meglio con grandi deficit, di proposte culturali e formative. Si tratta di misure che possono avere effetto su qualche animo surriscaldato e ignorante della realtà che applaudirà, ma passato il clamore mediatico i problemi rimarranno insoluti. La stessa stupidaggine l’ho sentita in questi giorni, dopo la morte degli operai nel cantiere di Firenze, quando si è detto: inaspriremo le pene. Forse sarebbe stato più corretto dire aumenteremo i controlli e la formazione. Per quei minori che sono in giro per la città senza casa e senza lavoro qualcuno può pensare che la soluzione sia quella di punirli di più? Ripeto, è una grande stupidaggine. L’unico risultato sarà quello di far aumentare i ragazzi che entrano in carcere. Chi sono i minori che vanno in carcere? La gran parte ci vanno per dei piccoli reati legati alla sopravvivenza. Milano è il punto di arrivo di molti ragazzi immigrati. Abbiamo almeno 700/800 minori in giro per le strade in cerca di un letto e di un pasto caldo. Addirittura i minori trovano accoglienza alla “casa Jannacci” e alla “Certosa”, due grandi istituti destinati agli anziani. Una vera emergenza? Siamo impegnati quotidianamente a risolvere le situazioni di emergenza e non faccio altro che chiedere la “grazia”, a qualcuno per garantire al ragazzino in uscita una condizione di vita accettabile. Qualche giorno fa ho fatto un “miracolo”: nessuno poteva prendere in carica un ragazzo con dei problemi psichiatrici, dal momento che le comunità sono sature, finalmente dopo lunghe insistenze gli abbiamo trovato una collocazione. Lei di “miracoli” ne ha fatti tanti nella sua vita... Ci sono stati una serie di eventi positivi. Tenga presente che i ragazzi hanno delle risorse straordinarie. Immagini la storia drammatica di un ragazzo, che sta per diventare mio “figlio”, il quale ha camminato a piedi per 1.100 chilometri, lungo la rotta balcanica, oppure di un altro che ha attraversato il Mediterraneo su un gommone, o aggrappato a un camion per chilometri. Questi ragazzi hanno affrontato delle difficoltà che noi non immaginiamo neanche, avendo delle grandi energie che bisognerebbe riuscire a intercettare. Non è semplice. Se sono piccoli e vanno a scuola e se c’è un’accoglienza minimamente attrezzata ci si può riuscire, in questo caso parliamo di figli immigrati che vivono in periferia anche se in condizioni non certo facili. Per gli altri che arrivano, purtroppo, non siamo attrezzati, perché la prima necessità è dare loro da mangiare e dormire, tenendo presente che hanno una cultura e una prospettiva di vita diversa dalla nostra. Per chiare meglio il mio pensiero ai miei collaboratori ripeto: “tenete presente che questi ragazzi non sono nati a Pavia”. A quelli che hanno più di 14 anni bisogna offrire una formazione per farli diventare pizzaioli, muratori, falegnami. È quello che state facendo al centro Barrio’s nella periferia della Barona? Esattamente. L’importante è far capire ai ragazzi che quella formazione gli servirà subito dopo per garantirsi un futuro. Ovviamente bisognerà insegnare loro l’italiano e fornirgli i documenti. Con questo approccio si entra in sintonia con loro, perché parliamo un linguaggio comprensibile: quello della vita pratica. Il “Beccaria” è stato per molto tempo un istituto modello. Poi? Lo è stato per i primi 25 anni, poi il direttore è andato in pensione, è arrivata una bravissima direttrice da San Vittore la quale, purtroppo, dopo un paio di anni ha dovuto lasciare per una malattia. Da quel momento in poi c’è stata una lunga sequela di facenti funzione, per fortuna finita sei mesi fa. E oggi com’è la situazione? Ci sono tra i 70 e gli 80 ragazzi, anche perché rispetto a prima ci sono più posti disponibili. Per loro c’è bisogno anche di mediatori culturali, perché sono quasi tutti extracomunitari. Siccome si tratta di minori hanno bisogno dei documenti, di imparare l’italiano e poi ho una idea che spero di poter realizzare. In casa mia vivono 14 ragazzi che quando incominciano a pregare ritrovano le loro radici e ho notato un certo cambiamento. Quindi la mia idea è quella di farli incontrare con un rappresentante della loro religione, un iman, perché ci credano o meno sicuramente gli può fare bene. Il cappellano cattolico al “Beccaria” in pratica è quasi disoccupato: se dice messa non c’è quasi nessuno, i detenuti sono quasi tutti musulmani. Ha adottato 5 ragazzi, ne ospita 14, ma considera suoi figli tutti quelli che incontra ogni giorno... Ci tento. Sì per due è in corso l’adozione, purtroppo uno è morto in un incidente stradale. Con qualcuno ogni tanto ci sono delle tensioni, ma questo avviene in tutte le famiglie. Il carcere per definizione dovrebbe essere l’estrema ratio per gli adulti, a maggior ragione per i minori... Sì, ma il paradosso è che noi al “Beccaria” siamo quasi arrivati a dire, tra molti dubbi ovviamente: se arriva qui poi qualcuno ci penserà. È sicuramente sbagliato, ma riuscendo a organizzare dei percorsi formativi è da preferire alla strada. Il grande successo della serie televisiva “Marefuori” può contribuire ad aumentare la sensibilizzazione nei confronti del mondo carcerario minorile? Parliamo di fiction, purtroppo la realtà degli Ipm è molto più dura. Non credo che il carcere può essere immaginato dai giovani come una cosa bella. Ho notato in questi anni che in certi quartieri milanesi chi è stato al “Beccaria” viene considerato o si sente come se avesse i “gradi”. Cosa manca al Beccaria e agli altri Ipm per fare un salto di qualità? Ci sono una serie di educatori nuovi che stanno imparando sul campo e al momento fanno fatica. Stiamo facendo con loro un percorso per farli diventare un gruppo di lavoro, perché l’interazione è fondamentale. Il grosso limite è che tutto avviene all’interno dell’istituto. Ci vorrebbero tanti “articolo 21” per consentire ai ragazzi di uscire per andare a lavorare. Sarebbe un messaggio fortissimo per gli altri che sono dentro: fuori c’è il lavoro e il futuro. Una situazione comune a tutte le carceri italiane... Purtroppo è così. A Opera, per i detenuti che hanno superato il tetto della pena, stiamo facendo questo esperimento: portare le aziende all’interno per formare i lavoratori. Una volta pronti escono, grazie all’articolo 21, vengono assunti regolarmente e rientrano la sera. Tutto in accordo con Cgil, Cisl, Uil, con il sostegno di una banca e con le aziende. E la cosa funziona e contribuisce a ridurre la recidiva. Negli Ipm si potrebbe fare la stessa cosa inserendo la scuola e le imprese. Ed è quello che chiedono i ragazzi. Il mondo libero come percepisce il carcere? C’è diffidenza, è sempre uno stigma. Accoglienza sì, ma con prudenza. Il sogno di don Gino? A parte quello di sistemare alcuni ragazzi ho il sogno che il “Beccaria” abbia un gruppo di educatori in grado di lavorare insieme per accompagnare i ragazzi e che sia un luogo dove si stia il meno possibile con la prospettiva di opportunità di lavoro e di un posto dove dormire. Come descriverebbe il disagio giovanile? Quella dei ragazzi italiani è una generazione molto confusa e abbandonata dal mondo adulto. Pensi che viene considerata una domanda indiscreta quando si chiede alla scuola, alla famiglia e alla parrocchia quale è il progetto educativo. I ragazzi immigrati non hanno radici né punti di riferimento e quindi si ritrovano in balia di una situazione turbinosa, hanno tanta energia ma bisogna intercettarla. Per me educazione significa relazione, camminare insieme, fare comunità. Non dovranno diventare come noi, ma integrarsi con noi. Don Mazzi: “Le carceri minorili vanno abolite” di Luca Pianesi Il Dolomiti, 4 marzo 2024 “Non solo un problema di droga, c'è un forte disagio esistenziale”. Per il fondatore di Exodus oggi i problemi principali riguardano la superficialità della società e il disagio nelle relazioni che continua ad aumentare. E sull'abolizione delle carceri minorili spiega: “Serve un sistema diverso per permettere ai ragazzi che hanno sbagliato di pensare alla loro colpa ma non con un atto punitivo ma bensì con un atto rieducativo”. Il disagio dei giovani? “Oggi non si ferma più alla sola droga. Oggi ci troviamo davanti ad un disagio molto più grande che è quello esistenziale e delle relazioni”. A dirlo a il Dolomiti è don Antonio Mazzi, fondatore di Exodus una rete di comunità terapeutiche fondate all'inizio degli anni ottanta con lo scopo di svolgere attività di recupero per tossicodipendenti. Don Mazzi parla anche del sistema educativo italiano e della necessità “di cambiarlo”. “L'educazione come può conciliarsi con la punizione? Fino a quando in Italia avremo le galere per i minori, significherà solo una cosa: il nostro non è un Paese educativo”. Oggi sono dieci le strutture gestite da Exodus che si trovano in varie zone d'Italia e nelle quali sono seguiti 400 ragazzi. Don Mazzi, il disagio nel mondo giovanile e in continuo aumento. Cosa sta accadendo? Possiamo parlare del disagio che sta vivendo il mondo in generale. La qualità di rapporti che ci troviamo ad affrontare non è positiva. È chiaro che i giovani ne risentono e diventano così vittime di una cultura sociale molto superficiale. Dove ha importanza solo chi ha un lavoro e chi ha soldi e gli altri nulla. Non possiamo oggi ridurre la vita ad un problema economico. L'economia, il sociale e l'educazione devono funzionare assieme e solo così hanno davanti un possibile futuro che non ha solo le banche che funzionano ma anche le scuole e le famiglie. La cosa che mi sta preoccupando molto è la superficialità del mondo in cui viviamo che riduce la vita ad un problema economico. Tutto questo è assurdo. Secondo lei quale potrebbe essere la causa di tutto questo? Quando la storia dell'uomo la riduciamo a qualcosa di economico arriviamo a questo. Si rattrappisce. C'è la mancanza di ideali, per esempio, e non parlo di quelli religiosi. Un uomo non può vivere senza, come non può stare senza desideri culturali, senza poesia, senza cultura in generale. Tutto questo è stato ridotto all'avere dei soldi. Ma nel mondo di oggi c'è anche un altro grosso problema e pochi ne parlando. A cosa si riferisce? Sono spariti i padri. Il '68 li voleva uccidere perché secondo loro i padri umiliavano la storia. Adesso i padri sono spariti. E così che società abbiamo davanti? Bisognava interpretarla questa figura che, invece, nella società di oggi, è scomparsa. In tutto questo è cambiata anche la famiglia come conseguenza di un cambiamento della società. La famiglia che ai miei tempi aveva 8 zii e 22 cugini non esiste più. Mai come oggi abbiamo bisogno di una famiglia. Un tempo era più semplice, l'amore e le relazioni si potevano esprimere in maniera più semplice. Oggi invece ci troviamo davanti a storie sempre più ingrippate. L'altra disgrazia è che abbiamo ridotto le parole a chiacchiere. Noi siamo figli della parola, quando questa diventa povera diventa povero il mondo. Il suo impegno è sempre stato quello di strappare i giovani dalla droga. Oggi è più difficile farlo? I problemi di oggi sono molto più vasti della sola droga. Il Covid ci ha fatto capire quanto il disagio giovanile sia molto più vasto. Siamo davanti ad un disagio delle relazioni. Quaranta anni fa potevamo parlare di disagio legato alla droga, c'erano i figli dell'eroina e della cocaina. Ora abbiamo il gioco d'azzardo, le tantissime sostanze chimiche che assumono e il disagio delle relazioni. Non dobbiamo fermarci al mondo della droga ma interpretare il disagio giovanile dei ragazzi che vengono in comunità. È un disagio esistenziale che è tremendamente aumentato. Attraverso la Comunità Exodus ha creato una rete di comunità terapeutiche. Quanti ragazzi riuscite a seguire? Ne seguiamo circa 400 in dieci comunità. Sono strutture che ho voluto appositamente piccole per riuscire ad affrontare i tanti problemi non semplici che si sono. Dei fatti avvenuti a Pisa cosa ne pensa? Dei giovani che hanno preso parte ad una manifestazione e sono stati manganellati dalle forze dell'ordine. Nessuno come noi conosce bene le forze dell'ordine. Noi abbiamo a che fare con loro tutto il giorno È difficile giudicare e mi spaventa anche quando dalla mattina alla sera questi problemi diventano prettamente giornalistici. Siamo difronte a situazioni delicate e bisogna anche avere il coraggio di affrontarle. Io non posso dare torto ai ragazzi ma non posso nemmeno darlo alle forze dell'ordine. Condivido le parole che ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Qui, però, non è un problema solo dei ragazzi. E di chi sarebbe? Quando al posto dell'educazione metti la sospensione tutti noi abbiamo già perso e siamo fuori dal mondo educativo. Tutti dovremmo farci un esame di coscienza. L'educazione come può conciliarsi con la punizione? Fino a quando in Italia avremo le galere per i minori, significherà solo una cosa: il nostro non è un Paese educativo. Più volte ho detto che voglio l'abolizione delle carceri minorili. Serve un sistema diverso per permettere ai ragazzi che hanno sbagliato di pensare alla loro colpa ma non con un atto punitivo ma bensì con un atto rieducativo. Il riscatto di Marco: da “cattivo ragazzo” a una vita piena di speranze di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 marzo 2024 La bella storia di un ragazzo che ha attraversato le difficoltà della giustizia minorile con coraggio e determinazione. La questione della giustizia minorile, soprattutto quando avvengono casi di cronaca che coinvolgono i giovani, emerge sempre più spesso come tema centrale, suscitando molto spesso indignazione con le conseguenti scelte politiche per assecondare la pancia della gente. A fronte di questo fenomeno complesso e articolato, è essenziale adottare un approccio analitico e critico che vada oltre le narrazioni sensazionalistiche e affronti le sfide sociali e strutturali sottostanti. Francesca Pastore, dell'Associazione Antigone, nell’ultimo rapporto dal nome “Prospettive minori”, ci offre uno sguardo intimo e coinvolgente nella vita di Marco (nome di fantasia), un giovane che ha attraversato le difficoltà della giustizia minorile con coraggio e determinazione. La sua storia ci mostra come, con il giusto supporto e l'opportunità di un percorso di riabilitazione, i giovani possono riscattarsi e reinserirsi positivamente nella società. Il racconto inizia con Marco che arriva in una comunità, accompagnato dagli agenti, con il peso di una notifica per il reato di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Ma dietro quella freddezza si nasconde molto di più: c'è l'incertezza, la paura, il desiderio di dimostrare di non essere 'un cattivo ragazzo'. Le parole di incoraggiamento della madre, della sorella e della fidanzata risuonano nella sua mente, illuminando il cammino buio che ha davanti. Marco non è privo di risorse economiche, ma ha scelto la strada dello spaccio per dimostrare il suo coraggio, per sentirsi al di sopra delle regole, per affermare la sua identità ribelle. Tuttavia, quando viene allontanato dal suo ambiente e portato in una comunità penale a Lecce, si trova di fronte a una nuova realtà, fatta di sfide e opportunità. Durante i due anni trascorsi in comunità, Marco intraprende un viaggio interiore e formativo che lo porterà a riscoprire sé stesso e a delineare un nuovo percorso per il suo futuro. Frequenta la scuola, ottiene la licenza media e si impegna in un corso di formazione per diventare bagnino. Ma il suo cambiamento non si ferma qui: partecipa a incontri sulla legalità, si dedica al volontariato e si apre alla possibilità di un futuro diverso. Il sostegno della comunità, degli operatori e delle istituzioni gioca un ruolo fondamentale nel percorso di Marco. Gli incontri con il giudice e gli assistenti sociali diventano occasioni preziose per riflettere sul suo percorso e rafforzare la sua determinazione. E quando incontra una poliziotta della Questura di Lecce, nasce un legame speciale basato sulla fiducia reciproca e sulla condivisione di valori comuni. Le tappe del percorso di Marco sono segnate da piccoli successi e momenti di gioia: dalla partecipazione a una Festa della Polizia alla conquista dei permessi per tornare a casa durante le vacanze. Ogni passo avanti è una vittoria, una conferma che il cambiamento è possibile, che la determinazione e la volontà possono trasformare una vita. E così, dopo due lunghi anni, Marco torna a casa, pronto a costruire un futuro migliore per sé e per coloro che ama. Oggi, i suoi sogni hanno preso forma: una famiglia, un lavoro, una vita piena di speranza e possibilità. La sua storia ci mostra come, con il giusto supporto e l'opportunità di un percorso di riabilitazione, i giovani possono riscattarsi e reinserirsi positivamente nella società. D'altra parte, l'analisi di Edoardo Paoletti, sempre dell'Associazione Antigone, mette in discussione il narrativo diffuso dell'aumento esponenziale della delinquenza giovanile. Esaminando dati statistici, Paoletti evidenzia un quadro più complesso, dove l'aumento della criminalità minorile non è lineare né uniforme sul territorio nazionale. Guardando alle cifre fornite dall'Istat e dal Ministero dell'Interno, emerge un quadro eterogeneo: sebbene vi sia stato un incremento delle segnalazioni di reati commessi da minori, soprattutto nelle regioni del Nord Italia, questo aumento non può essere ridotto a una singola causa o a un singolo fattore scatenante. Piuttosto, è il risultato di molteplici dinamiche sociali, economiche e culturali. Un punto cruciale emerso dall'analisi di Paoletti è la relazione tra disagio sociale e criminalità giovanile. La mancanza di accesso ai servizi, le disuguaglianze economiche e la percezione di ingiustizia possono alimentare sentimenti di frustrazione e di rivalsa, specialmente tra i giovani. In questo contesto, le politiche punitive e repressive rischiano di essere controproducenti, allontanando i ragazzi da percorsi di riabilitazione e di formazione. Un approccio più efficace, suggerito dalla ricerca di Paoletti, è quello di investire nelle politiche sociali a lungo termine che promuovano l'inclusione e l'educazione dei giovani. Questo significa garantire l'accesso equo ai servizi, ridurre le disuguaglianze economiche e favorire l'integrazione sociale, specialmente per i minori stranieri non accompagnati. Ma l’informazione non ci viene in auto. Come fa notare Andrea Oleandri nel rapporto di Antigone, l’aumento delle ricerche su Google riguardanti termini come 'Caivano', 'Palermo' e 'stupro' nel mese di agosto 2023 ha evidenziato due tragici eventi che hanno scosso l'opinione pubblica: lo stupro di una ragazza a Palermo e quello di due ragazze a Caivano, entrambi commessi da gruppi di ragazzi, molti dei quali minorenni. Questi fatti hanno generato un'ondata di emotività e dibattito politico, portando il governo Meloni a varare un decreto legge che ha introdotto norme punitive per i minori autori di reato e per i loro genitori. Inoltre, l'attenzione mediatica sul presunto aumento della criminalità minorile ha spinto molti a richiedere interventi più severi nel sistema penale, soprattutto dopo casi di cronaca ad alto impatto emotivo. Questa narrazione tende a distorcere la realtà, enfatizzando fenomeni criminali che potrebbero non essere così diffusi come sembrano. Emergenza carceri. Timidi e poco significativi gli sforzi tesi alla riabilitazione di Francesco Monopoli* brindisireport.it, 4 marzo 2024 Sovraffollamento, carenza di prospettive concrete di reinserimento sociale dopo la espiazione della pena, strutture obsolete, difficoltà oggettive riscontrate nell’espletamento della propria attività dal personale sanitario e dalla polizia penitenziaria. Sono queste alcune delle criticità che affliggono gravemente l’attuale sistema penitenziario italiano. Con il suicidio avvenuto questa notte nel penitenziario Dogaia di Prato ammonta a ventitre il numero totale delle vite perdute dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane. Un quadro allarmante caratterizzato da numeri degni di un vero e proprio stillicidio, se solo si consideri che nell’anno precedente altri sessantanove soggetti reclusi hanno tranciato tragicamente quel sottile filo conduttore che legava il loro stato detentivo alla speranza di riconquistare la libertà privandosi, cosi, del bene più prezioso, la propria vita. Le cause di tali gesti estremi potrebbero essere innumerevoli ed andrebbero sicuramente analizzate approfondendo lo specifico profilo di ogni detenuto ma è ormai di solare evidenza che il minimo denominatore comune di ogni singola tragedia è l’insofferenza verso un sistema che ad oggi sta implodendo malgrado il complesso e delicato lavoro che quotidianamente svolgono gli operatori e la polizia penitenziaria. Occorre ricordare che la espiazione della pena ha una funzione rieducativa che trova, tra l’altro, il suo riconoscimento espresso proprio nella nostra Costituzione al terzo comma dell'articolo 27, il quale sancisce espressamente che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” Al fine di poter realmente avere contezza di quanto, ad oggi, gli sforzi dello Stato tesi alla riabilitazione siano stati timidi e poco significativi, occorre considerare che ogni detenuto ha un costo per la comunità civile pari a circa centotrentasette euro al giorno delle quali, si stima, che solo una minima parte viene effettivamente destinata alle attività rieducative ed al reinserimento sociale dei soggetti reclusi. E’ evidente che le censure dei giudici europei, susseguitesi nel corso degli ultimi anni, attraverso le quali l’Italia è stata condannata per violazione dell’art. 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo (che proibisce la tortura e i trattamenti inumani o degradanti), non hanno evidentemente sortito gli effetti sperati. Sono infatti trascorsi circa quindici anni da quando il nostro Paese veniva condannato, per la prima volta, per la violazione dell’articolo 3 Cedu a causa del sovraffollamento carcerario (sentenza Sulejmanovic c. Italia, ric. N. 22635/2003) e undici anni sono ormai trascorsi dalla nota sentenza Torreggiani. Con le predette pronunce la Corte europea dei diritti dell’uomo oltre ad aver accertato la violazione dell’art. 3 della Convenzione disponeva che il nostro Paese si dotasse, entro un anno dal momento in cui le sentenze sarebbero divenute definitive, “di un ricorso o di un insieme di ricorsi interni effettivi, idonei ad offrire un ristoro adeguato e sufficiente nei casi di sovraffollamento carcerario, in conformità ai principi della Convenzione, come interpretati dalla giurisprudenza della Corte”. In buona sostanza i giudici di Strasburgo affermavano che la carcerazione non può e non deve fare perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana e che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente la detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente”. Pertanto il legislatore italiano adottava, compulsato dalla Corte Europea, alcune misure allo scopo di ridurre la popolazione carceraria, contenute nel decreto legge n. 146/2013, ma perdeva l’occasione di porre le basi per una vera e propria riforma sostanziale dell’ordinamento penitenziario. Orbene i dati statistici odierni forniscono numeri allarmanti che inducono, ragionevolmente, a pensare che le misure adottate dal legislatore italiano sino ad oggi hanno rappresentato, in buona sostanza, dei meri adempimenti di obblighi di fare in esecuzione a quanto imposto dai giudici europei: misure rivelatesi sicuramente utili nell’immediato ma forse non adeguate nel lungo periodo. Occorre ricordare anche che garantire un idoneo trattamento rieducativo dei condannati in Italia significherebbe anche contrastare l’alto tasso di recidiva che si registra nel nostro Paese. Molti studiosi infatti hanno ritenuto che la recidiva sia proprio figlia di un inidoneo trattamento rieducativo. Parafrasando Voltaire se il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri, è evidente che oggi la trattazione dell’emergenza del sistema penitenziario non è più differibile. Ce lo chiede l’Europa ma soprattutto la nostra coscienza civica. *Responsabile Regione Puglia Onac (Osservatorio Carceri Aiga), già responsabile nazionale dipartimento ordinamento penitenziario Aiga Una processione laica dello Stato per Beniamino Zuncheddu di Enrico Sbriglia* L'Opinione, 4 marzo 2024 La storia sarebbe potuta essere narrata da José Saramago, chissà, poteva essere una sorta di continuazione del romanzo “Saggio sulla lucidità”, oppure da Franz Kafka, con il suo vivido surrealismo, ma comunque sarebbe stata uno storia di quelle che penetrano nella testa del lettore come una sorta di incubo, perché quella di Beniamino Zuncheddu è una vicenda capace di contorcerti le budella, capace di svegliare le peggiori angosce che sono rintanate nella coscienza più profonda di ognuno di noi, quelle di cui si ha una ancestrale paura. Vedersi strappati circa 33 anni della propria vita, perché incolpato di una serie di ammazzamenti che non hai commesso, in nome di una Giustizia a lungo indifferente, che non ti crede e che liquida la tua avventura terrena con una sentenza senza appello, che ti fa passare da una condizione di libertà ad altra in cui non sei più nessuno, ripeto nessuno, e che ti cataloga come malvagio per sempre, pluriassassino, autorizzando chiunque ti incroci di considerarti un crudele assassino, è difficile anche da immaginare per qualunque persona, anche se si fosse dei superuomini, degli eroi, dei santi. Ma noi siamo società civile, siamo abituati a trovare risposte “normate”, rimedi giuridici ad ogni cosa e per ogni problematica, lo faremo anche questa volta, diamine! Ma esisterà, per davvero, un qualcosa di umano, di progredito, di accettabile che possa bilanciare il dolore che questo uomo ha dovuto ingiustamente sopportare? Cosa potrebbe mai compensarne il dolore, ma anche rabbia, le paure, le vergogne e i tanti presumibili disagi che la vita carceraria gli ha riservato, senza alcuna clemenza? Francamente, non credo che possa esserci una qualunque valida, ragionevole, umana riparazione e anche il benessere materiale e spirituale che saprà, eventualmente, riconquistare, dopo un probabile e defatigante iter processuale, perché ci sarà pure chi affermerà, per conto dello Stato, che le di lui richieste sono “esose”, difficilmente colmerà quel vuoto di “altra vita”, di una vita non vissuta, di una vita strappata dalla carne viva, quella che oggi è la sua carne invecchiata e piegata dalle sofferenze anche fisiche patite. Ma dai! Dopotutto era un pastore, pastore veramente, non quello che cura le anime dei fedeli, la sua vita era comunque faticosa, quanto può valere? Ma ancorché la mia riflessione possa risultare semmai banale, come lo è forse la vita, quella della generalità delle persone, essa rimane comunque l’unica di cui disponiamo e forse talvolta la troviamo anche appagante se non fosse violata, finanche meravigliosa, interessante, comunque propria e assolutamente nostra: di essa, però, un bel tratto è stato rubato e non c’è più, semplicemente non c’è più, “plof”, caduta, spiaccicata per terra. Ho spesso pensato in queste settimane quali rimedi, lo Stato, la Comunità e le sue istituzioni avrebbero potuto escogitare per tentare di sanare il grande male causato, ma non li ho trovati, perché non ce ne sono, semplicemente non esistono. Però qualcosa, almeno di simbolico, andrò fatto, andrebbe fatto. Dopo il bene della vita, che è indubbiamente il primo dei diritti fondamentali della persona in qualunque latitudine geografica, il secondo è certamente la condizione di libertà. A tal proposito, la libertà immolata di Beniamino mi evoca il tema dei sacrifici religiosi, d’altronde lo stesso processo è un rito: i giudici e l’avvocato indossano dei paramenti, le più alte magistrature indossano gli ermellini, vi sono perfino i copricapi che evocano la mitra dei sacerdoti (un mio grande cappellano carcerario mi diceva sempre, ironicamente: “Direttore, quella cosa rappresenta l’estensione del nulla”), hanno addirittura una sorta di scettro che talvolta espongono nei momenti solenni, all’apertura dell’anno giudiziario. Ebbene, allora, per appaiare, forse sarebbe da pensare ad una processione pubblica riparatoria, ancorché laica, “agita” dallo Stato, che veda in testa l’organo che la rappresenti più di ogni altro: il presidente della Repubblica, che lo è anche del Consiglio superiore della magistratura, seguito dai ministri di Giustizia e dell’interno, nonché di tutti coloro che si sentano in qualche modo coinvolti nella vicenda, ancorché incolpevoli. Tutti, in composta processione, potrebbero recarsi presso la casa di Beniamino e lì, sulla soglia dell’umile ed onesta abitazione, di fronte a lui, per qualche secondo chinare il capo, chiedendo, in nome dello Stato, perdono. Anch’io, per quanto irrilevante cittadino, semplice persona comune, se mi fosse consentito, mi intrufolerei nella processione. So di non avere colpe, ma tutto è comunque nato in quella che è, o meglio è stata, anche la mia casa... quella della Giustizia. Non sarebbe questa processione un atto di vergogna per lo Stato, ma un atto di coraggio e di forte convinzione dello stesso nei propri valori costituzionali che, altrimenti, nulla sarebbero, se non solo un tossico fumo giuridico, finalizzato a confondere piuttosto che ad essere società civile. Inoltre, sono convinto che questo gesto, apparentemente solo simbolico, sarebbe da sprone per un reale cambiamento delle coscienze, riflettendosi sul modo di fare davvero sicurezza e giustizia, finalmente. Sarebbe il primato del rispetto delle regole che aiuta tutti, sia chi subisca il diritto, sia chi lo modelli nella fatica quotidiana dei processi, con l’impegno e l’umiltà del servitore dello Stato e con la compartecipazione indispensabile di chi eserciti il nobile diritto alla difesa. *Penitenziarista, coordinatore nazionale dei dirigenti penitenziari della Fsi-Usae (Federazione sindacati indipendenti dell’Unione sindacati autonomi europei Genova. Detenuta stroncata dalla polmonite. La famiglia denuncia: “Lasciata morire senza cure” di Giuseppe Filetto La Repubblica, 4 marzo 2024 La Procura di Genova apre un’inchiesta. Ancora qualche giorno di carcere e Danila Sasso sarebbe stata libera, avrebbe lasciato Pontedecimo e sarebbe tornata a vivere con l’anziana madre a Savona, e con la famiglia avrebbe festeggiato il Natale. “Invece, a dicembre si è ammalato il giudice che seguiva la vicenda e che avrebbe dovuto decidere per gli arresti domiciliari, così ha passato il fascicolo ad un altro - racconta la sorella Laura -; quest’ultimo ci ha detto che doveva rileggersi le carte, sicché Danila è rimasta in carcere senza cure mediche, fino al giorno in cui è morta”. Il 22 febbraio scorso. Tanto che sulla vicenda, dopo l’esposto da parte della famiglia, la Procura di Genova ha aperto un’inchiesta, affidandola al pm Giuseppe Longo. Lunedì scorso è stata effettuata l’autopsia in presenza del medico-legale Davide Bedocchi indicato dalla magistratura e del suo collega, consulente di parte, Luca Vallega. Gli esami necroscopici avrebbero stabilito che la donna è stata stroncata da “un processo settico di polmonite in stato avanzato”. Questa volta non parliamo di un Caso Cucchi, né di Alberto Scagni (l’assassino della sorella Alice) picchiato prima nel carcere di Marassi da un suo compagno di cella, poi a sangue all’interno di quello di Valle Armea, a Sanremo. Ancora meno, in questo caso, si tratta di torture, come quelle denunciate nel penitenziario di Ivrea. Questa volta, però, raccontiamo le denunce di una donna, Laura Sasso, che sostiene di “aver visto” la fine della sorella nella casa circondariale di Pontedecimo: “Non è morta di fame, né di sete, né di freddo ma per mancate cure mediche”. “Vita travagliata da sempre, quella di Danila di 60 anni - confessa la sorella - ma seguita dalla famiglia, mai abbandonata a sé stessa, supportata da due fratelli e una madre novantenne, costantemente dedicata a lei”. La donna era finita in carcere lo scorso 29 settembre, a seguito di una vasta indagine della polizia sul traffico di droga. “Mia sorella era una cocainomane - aggiunge Laura - non certo una spacciatrice”. Adesso, la famiglia sostiene che Danila sia morta per mancanza di cure mediche, nonostante vi siano state diverse richieste di aiuto “andate tutte a vuoto”. Anche se dal polo sanitario del carcere respingono ogni addebito. E chiariscono: “La sorella ha chiamato lo stesso giorno in cui Danila Sasso è stata arrestata, comunicandoci che prendeva un farmaco anti-ipertensivo. La nostra cardiologa che l’ha visitata, ha detto che quel medicinale (con quel nome) non ce l’avevamo, ma che saremmo stati in grado di somministrare la medesima terapia, con la stessa molecola e lo stesso dosaggio. Peraltro, la donna prendeva anche antidepressivi e metadone”. L’avvocato Antonio Ardagna, di Savona, incaricato dalla famiglia Sasso, se da una parte esclude che Danila sia morta per maltrattamenti in carcere, dall’altra però sostiene che avrebbe avuto bisogno di un farmaco con dosaggio diverso, soprattutto perché aveva un rene che non funzionava. E aggiunge: “Il minimo che, secondo me, si sarebbe dovuto fare in presenza di una situazione di salute complicata, sarebbe stato portarla in ospedale”. Ma anche in questo contesto dal polo sanitario di Pontedecimo affermano che la donna nelle settimane e nei giorni precedenti al decesso avrebbe avuto diversi ricoveri ospedalieri. Alquanto diversa la versione sostenuta dalla sorella Laura. Racconta che quando ha saputo che Danila stava male, ha chiamato e le ha risposto un infermiere: “Mi ha detto che non era presente il medico ed ha riagganciato. Ho chiamato dopo e mi ha risposto il medico, ammettendo che la pastiglia data a mia sorella aveva un dosaggio diverso e che, purtroppo, quella prescritta non l’avevano”. Comunque, Laura Sasso nel suo esposto presentato in Procura se da un lato dice che “non è possibile morire così oggi giorno, non deve più accadere a nessuno e non mi fermerò, voglio sapere la verità, andrò avanti finché non avrò giustizia”, dall’altro punta l’indice contro l’assenza di adeguata assistenza sanitaria all’interno del carcere di Pontedecimo. D’altra parte, lo stesso giorno del decesso il segretario regionale della Uil Polizia Penitenziaria, Fabio Pagani, aveva scritto sulla “difficile situazione carceraria e come non esista una copertura sanitaria h24 mentre a Pontedecimo ci sono detenute con problemi sanitari e patologie che necessiterebbero di cure e sorveglianza medica”. Sempre dal polo sanitario rispondono con i numeri: “Dodici ore quotidiane di assistenza medica assicurata a 147 detenuti, quando la normativa impone l’assistenza di 24 ore soltanto in carceri con più di 225 reclusi”. Torino. Morto don Domenico Ricca, storico cappellano dell’Ipm Ferrante Aporti di Marina Lomunno vocetempo.it, 4 marzo 2024 Aveva 77 anni. Dopo 40 anni di servizio con i minori detenuti ci ha lasciato un prete di frontiera, punto di riferimento per l’educazione nel disagio giovanile. “In ogni giovane, anche il più disgraziato, c’è un punto accessibile al bene e dovere primo dell’educatore è di cercare questo punto, questa corda sensibile del cuore e di trarne profitto”. Così don Bosco invitava i suoi salesiani a cercare e accogliere i ragazzi e le ragazze “discoli e pericolanti” della Torino dell’800, molto simile alla città di oggi, soprattutto nelle periferie che frequentavano i santi sociali. E le parole di don Bosco sono la sintesi di oltre 40 anni di ministero di don Domenico Ricca, lo storico cappellano dell’Istituto penale “Ferrante Aporti”, morto nella serata di sabato 2 marzo a 77 anni, dopo una malattia che lo ha colpito poco dopo il termine del suo lungo servizio al carcere minorile. Don Ricca, sacerdote dal 1976, per gli amici don Mecu, era un punto di riferimento non solo per ragazzi ristretti, che accompagnava anche dopo il fine pena, ma anche per tutto il personale del “Ferrante”: agenti, operatori, educatori, direzione, volontari che ogni domenica animavano la Messa nella cappellina che lui stesso aveva riaperto collocando una statua di don Bosco, grazie ad una donazione di amici. E, proprio in occasione dell’Anno della Misericordia indetto da Papa Francesco, fu grazie all’invito di don Domenico che l’allora Arcivescovo mons. Cesare Nosiglia aprì una Porta santa anche nella cappella del “Ferrante”, nell’intento di far sentire i ragazzi reclusi parte viva della comunità cristiana. E a quella celebrazione, come alle Messe domenicali presiedute da don Mecu, parteciparono tutti i giovani ristretti, la maggioranza ortodossi e musulmani. Per tutti don Ricca aveva una parola di incoraggiamento, in tutti i suoi giovani riusciva a trovare “quel punto accessibile”, anche in quelli nati nella “culla sbagliata” come era solito dire. Chi scrive, ha avuto il privilegio di raccontare in una lunga intervista, in occasione del 200° della nascita di don Bosco, come don Ricca declinava il suo essere salesiano con i giovani detenuti. Don Mecô amava ricordare che proprio alla “Generala”, oggi il “Ferrante Aporti”, don Bosco, inviato dal suo padre spirituale san Giuseppe Cafasso, iniziò il cammino che lo portò ad essere conosciuto in tutto il mondo come il “santo dei giovani”. “Vedere turbe di giovanetti, sull’età dai 12 ai 18 anni; tutti sani, robusti, d’ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire… Chi sa - diceva tra me - se questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o al meno diminuire il numero di coloro che ritornano in carcere? Comunicai questo pensiero a don Cafasso, e col suo consiglio e co’ suoi lumi mi sono messo a studiar modo di effettuarlo”. Sono parole di don Bosco: è così che nelle sue “Memorie dell’oratorio” descrive la nascita del suo sistema preventivo. Siamo nel 1855 alla “Generala”: “qui don Bosco incontra nelle sue visite i ragazzi detenuti” spiegava don Ricca “ed è da quei pomeriggi trascorsi con i ‘giovanetti discoli e pericolanti’, ascoltando gli affanni di quei ragazzi senza una famiglia di riferimento, che il santo torinese inventa l’oratorio. Don Bosco fu il primo cappellano e da allora i cappellani del ‘Ferrante’ sono salesiani”. Ed è per questo che don Domenico ha scelto di intitolare il libro intervista sulla sua esperienza di prete salesiano al carcere minorile torinese (i cui proventi dei diritti d’autore sono stati devoluti interamente per borse di studio e lavoro per i ragazzi ristretti) “Il cortile dietro le sbarre: il mio oratorio al Ferrante Aporti” (Marina Lomunno, Elledici, Torino 2015). Perché è lo stile del prete da oratorio con cui don Mecô stava al Ferrante come ha imparato da giovane prete, a stare in cortile, informalmente a chiacchierare con i ragazzi, anche quando i giovani ristretti si erano macchiati di reati gravi (don Ricca fu anche tutore di Erika, la giovane di Novi Ligure che con i fidanzatino Omar riempì le cronache per molti mesi nel 2001). “Anche all’Agnelli quando aprivo l’oratorio” racconta don Ricca nel libro citato “mi mettevo come ho fatto al Ferrante sulla porta: ‘Buon giorno, ciao…mi presentavo… sono il cappellano se hai bisogno di me cercami. E dopo tre giorni rivedo il ragazzo e dico: “Ma tu vieni da quel paese, conosci per caso quel prete… Ecco non avevo alcuna idea di come fare il cappellano, l’unica era quella d fare le cose che facevo in oratorio”. E ha funzionato. “Prete da oratorio, un prete per chiacchierar…e da cosa nasce cosa”. Una Messa nel Salone del Ferrante Aporti presieduta da don Mecu Don Ricca - prete di frontiera, amico di don Ciotti, tra i fondatori prima della cooperativa sociale Valdocco, dell’associazione “Aporti Aperte”, dell’Ags per il territorio, dei Salesiani per il Sociale, presidente dell’Associazione Amici di don Bosco per le adozioni internazionale, delegato per le Acli e molto altro - a Torino era punto di riferimento per chi si occupa di disagio minorile. Memorabile nel 2015, quando Papa Francesco venne a Torino per la sua visita apostolica in occasione dei 200 dalla nascita di don Bosco, fu il pranzo in Arcivescovado con mons. Nosiglia. Il Papa chiese di stare a tavola con alcune famiglie fragili e i minori detenuti e don Ricca portò i suoi ragazzi che donarono a Francesco una maglietta con tutte le loro firme che il Papa autografò… In una recente intervista per “La Voce e il Tempo” chiesi a don Ricca come oggi don Bosco accosterebbe i “giovani pericolanti”. Ecco la sua risposta: “Don Bosco tornerebbe in prigione, tornerebbe alla Generala… si inventerebbe l’uso dei social. Creerebbe gruppi su Whatsapp e Instagram! È la lezione di don Milani: le forme sono del tempo, ma quello che ci ha lasciato è la voglia di rischiare, di chiedere di più, di non sedersi. Don Bosco manderebbe in carcere i suoi preti e chierici più ardimentosi, giovani, li sosterrebbe anche nelle loro intemperanze. Ma soprattutto sarebbe padre, amico e fratello dei ragazzi reclusi e ripeterebbe anche oggi il suo monito “Amateli i ragazzi. Si otterrà di più con uno sguardo di carità, con una parola di incoraggiamento che con molti rimproveri” perché “tutti i giovani hanno i loro giorni pericolosi, e voi anche li avete. Guai se non ci studieremo di aiutarli a passarli in fretta e senza rimprovero”. Il Rettor Maggiore dei salesiani, card. Angel Artime che nei giorni scorsi si era recato a Valsalice, nella Casa di cura “Andrea Beltrami” dove don Ricca era ospitato con altri anziani confratelli, appresa della morte di don Domenico ha scritto: “Caro don Mecu, ci troveremo in Paradiso, dove crediamo che il Signore Gesù ci aspetta. Dio ti conceda tanta pace come tu hai offerto ai più poveri, e l’Ausiliatrice ti porti per mano. Con vero affetto tutti noi, i tuoi confratelli e tanti amici ed amiche”. Don Domenico Ricca verrà ricordato nella preghiera del Rosario nella Basilica di Maria Ausiliatrice a Torino martedì 5 marzo alle 20.30; funerale sempre in Basilica mercoledì 6 alle 10.30; verrà sepolto a Mellea di Fossano dove era nato il 31 agosto 1946. Trieste. “Con altri 2 detenuti materassi a terra”. L'allarme del direttore per il sovraffollamento ansa.it, 4 marzo 2024 È emergenza anche nel carcere di Trieste, la casa circondariale Ernesto Mari di via Coroneo. Il numero di detenuti non sarebbe mai stato così alto: 236, di cui 26 donne, rispetto a una capienza di 150 posti. “Alla 238/a persona che farà ingresso sarò costretto a mettere dei materassi a terra, dice il direttore, Graziano Pujia, da due anni alla guida del Coroneo. Inoltre, “la struttura è vetusta, con stanze da otto con un solo bagno: condizioni contro ogni regola. Così il carcere non diventa luogo di riabilitazione, ma di accatastamento, con esasperazioni e tensioni”, ha detto al quotidiano. “Dall'inizio dell'anno sono entrate tre donne con bambini, che di solito restano per qualche giorno, fino al trasferimento in un Icam, per detenute madri. Ora ne abbiamo due, la gestione è difficile, non siamo attrezzati: sono dovuto correre io al supermercato a comprare gli omogeneizzati”. Per l'organico “nel comparto amministrativo le cose funzionano; l'organico della Polizia penitenziaria è in sofferenza: in forza ci sono 118 persone, a fronte di 148 previste”. Oggi “migliorando i rapporti istituzionali, e coltivando quelli con il Terzo settore, la comunità esterna partecipa alla vita dei detenuti, l'attività dei volontari è vivace”. Il prossimo 8 marzo si esibirà in carcere una ragazza che il direttore ha notato cantava con grande intensità in strada e alla quale ha chiesto di andare a cantare tra le celle. “Sono soddisfatto per essere riuscito a riprendere il dialogo tra interno del carcere e resto della città”, grazie anche a progetti per la formazione professionale, i corsi di lingua, di aiuto cuoco e altri. “Grazie al vescovo Enrico Trevisi, è stata riattivata la collaborazione con la Caritas, che garantisce anche indumenti puliti e kit di primo ingresso per persone senza fissa dimora che entrano”. Infine, se persiste dal 2016 il problema della presenza di parassiti, “da alcuni mesi, con il via libera della magistratura di sorveglianza, ci siamo attrezzati con 'stanze dell' affettività'“. Non sono “camere dell'amore” ma le famiglie si possono incontrare in maniera riservata, “soprattutto se hanno figli, così da consentir loro di stare insieme, scambiarsi un bacio, un abbraccio, con più riservatezza”. Torino. Il carcere visto con gli occhi del volontariato volontariatotorino.it, 4 marzo 2024 Il progetto “Dentro o Fuori? Vicino” gestito da Vol.To ETS ha messo al centro la promozione della cittadinanza attiva in ambito penitenziario. Sono state formate oltre 170 persone. Il 25 gennaio ha segnato la conclusione del progetto “Dentro o Fuori? Vicino”, dopo 12 mesi di intensa attività sostenuta dalla Città di Torino nell’ambito dello Sportello di Rete Civica - Servizio Dimittendi. Primo progetto portato avanti da Volontariato Torino ETS con focus sul settore penitenziario, ha raggiunto risultati ben oltre le aspettative, evidenziando come sia il settore in generale sia il ruolo del Terzo Settore al suo interno siano oggetto di interesse da parte di molti - addetti ai lavori e non. L’obiettivo principale del progetto è stato quello di valorizzare e potenziare il ruolo di volontarie e volontari che operano nel sistema penitenziario. La prima azione è stata quella di indagare quali Enti del territorio fossero attivi sia dentro sia fuori la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, proponendo attività e servizi rivolti a persone detenute, ex-detenute, persone sottoposte a misure di pena alternative e alle rispettive famiglie. Sono stati individuati 29 Enti del Terzo Settore attivi nell’ambito penitenziario ed è stato rilevato come in 13 di essi i volontari e le volontarie siano le uniche risorse coinvolte nelle attività, mentre per i restanti 16 sono coinvolte anche altre figure operative. A partire dall’autunno 2023, è stato avviato un percorso di formazione composto da 12 incontri che hanno affrontato tematiche relative al contesto penitenziario coinvolgendo come relatori e relatrici figure esperte appartenenti alle seguenti realtà: Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno”, Università di Torino - Dipartimento di Giurisprudenza, Ufficio Scolastico Regionale del Piemonte, Polo Universitario per studenti detenuti, Rete regionale CPIA Piemonte, Garante Regionale delle persone private della libertà personale - Piemonte, Garante Comunale dei diritti delle persone private della libertà - Torino, Conferenza Regionale Volontariato Giustizia, CPIA 1 Torino “Paulo Freire”, CPIA 3 Torino “Tullio De Mauro”, Associazione Antigone, Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, Consorzio Sinapsi, Cooperativa Sociale “Il Margine”, Cooperativa Animazione Valdocco, Inforcoop Ecipa Piemonte, Associazione Multietnica dei Mediatori Interculturali, Rivista Impresa Sociale, Le Mezzelane Casa Editrice. Le registrazioni degli incontri sono accessibili sul canale YouTube di Volontariato Torino ETS.. Complessivamente, 179 persone hanno partecipato ad almeno uno degli incontri del percorso. L’incontro conclusivo, tenutosi il 25 gennaio presso Vol.To ETS, ha offerto l’opportunità agli Enti del territorio di presentare la propria realtà a potenziali volontari interessati. Sono stati 6 gli ETS che hanno risposto positivamente all’invito e che hanno raccontato le proprie attività durante l’incontro. Al termine del progetto, ben 42 persone hanno manifestato il loro interesse a diventare volontari nell’ambito penitenziario e sono state messe in contatto con Enti in linea con i propri interessi e disponibilità, creando così opportunità concrete di coinvolgimento e supporto all’interno del contesto penitenziario. Modica (Rg). Stampa e detenuti: la cronaca dietro le sbarre giornalistitalia.it, 4 marzo 2024 Si è parlato di “Stampa e detenuti: la cronaca dietro le sbarre” nell’ambito del corso su “Formazione e Lavoro per la risocializzazione dei detenuti e dei soggetti adulti e minori in esecuzione penale: quali prospettive?”, organizzato a Modica dalla Scuola per Assistenti Sociali “Ferdinando Stagno D’Alcontres” con il patrocinio della Figec Cisal, Federazione Italiana Giornalismo Editoria Comunicazione. Aperto ad assistenti sociali, psicologi, avvocati e giornalisti, per i quali era valido come evento formativo, l’incontro si è tenuto nel suggestivo palazzo adiacente il Castello dei Conti, sede distaccata dell’Università di Messina della scuola per Assistenti Sociali “Ferdinando Stagno D’Alcontres”, promotrice dell’iniziativa da un’idea del direttore, Giampiero Saladino. A porgere il saluto della Figec Cisal è stata la giornalista Viviana Sammito, consigliere nazionale, che ha illustrato il tema del panel sulla “cronaca dietro le sbarre”, poi approfondito dal giornalista siracusano Francesco Nanìa. Sammito ha parlato del rapporto tra stampa e detenuti, disciplinato dalla Carta di Milano, e sulla necessità di un approccio più trasparente e meno farraginoso al fine di raccontare con puntualità ciò che accade nelle carceri e le storie di detenuti, raggiunti da sentenza definitiva, che intendono raccontare le sfide e le difficoltà affrontate. Senza mai perdere la speranza di una seconda vita possibile. Raccontare senza discriminazioni, tutelando il diritto alla dignità ma senza mai rinunciare alla verità. Dotare i detenuti delle skill life, le competenze per potere immettersi sul territorio e trovare un lavoro, dopo un periodo di formazione in carcere: è importante dare loro gli strumenti per evitare recidive e fare conoscere la bellezza della cultura della legalità. L’intervento di Viviana Sammito ha ricordato la “Carta delle pene e del carcere” (carta di Milano) con la spinta definitiva alla sua approvazione, a livello nazionale, nel 2013, l’anno in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel trattamento dei detenuti. Il caso Torreggiani è rientrato in una sentenza pilota contro il sovraffollamento delle carceri italiane e prende il nome del detenuto italiano che, durante la sua detenzione, aveva contratto l’HIV in una cella di 9mq costretto a condividerla con altri 6 carcerati. “Nelle carceri minorili - ha spiegato la giornalista - il numero dei detenuti è il più alto degli ultimi 10 anni. Questi dati sono, secondo Antigone, un “segno evidente degli effetti del Decreto Caivano”, varato dal governo Meloni pochi mesi fa. Sempre più minorenni si macchiano di reati gravi come lo stupro di gruppo, com’è successo recentemente a Palermo e a Catania”. Tre gli elementi su cui lo Stato italiano deve impegnarsi: la sicurezza strutturale e della polizia penitenziaria, che paga lo scotto della carenza dei dispositivi di sicurezza durante le sommosse; garantire la legalità all’interno delle carceri dove tramite, risorse interne (la cronaca ce lo racconta) entrano cellulari, droga e pizzini: circostanze che vanificano il lavoro di formazione e risocializzazione dei detenuti; dare un’accelerazione ai tempi delle sentenze definitive: spesso gli ordini di carcerazione per espiazione pena arrivano dopo 15 anni dalla contestazione del reato e questo incide sul percorso di vita del condannato il quale, nel frattempo, ha avuto il tempo di farsi una famiglia e trovarsi un lavoro, nella maggior parte dei casi. Giampiero Saladino, direttore della scuola “Ferdinando Stagno D’Alcontres”, ha citato l’articolo 27 della Costituzione italiana che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”… favorendo - ha evidenziato - il migliore reinserimento in un’ottima socializzante, di crescita e maturazione. Dignità e speranza vanno quindi restituite a chi ha sbagliato e vuole ricominciare su binario giusto. È solo una minima parte, però, dei quasi 60mila detenuti, il 5,4% che partecipa a programmi di formazione professionale, sebbene il tasso di recidiva dei detenuti non coinvolti nei programmi di reinserimento sale al 70% mentre scende al 2% se consideriamo i detenuti che hanno appreso un lavoro in carcere”. Hanno, quindi, porto il loro saluto il prefetto di Ragusa, Giuseppe Ranieri, il questore Vincenzo Trombadore, il Garante di diritti dei detenuti, l’ex capo del Dap e magistrato Santi Consolo, i presidenti dell’Ordine degli Assistenti Sociali Sicilia, Matilde Sessa, e dell’Ordine degli Avvocati di Ragusa, Emanuela Tumino e la consigliere regionale degli Ordini degli Psicologi, Vania Blanco. Emanuele La Rosa (professore associato di Diritto Penale dell’Università di Messina) ha ritenuto “importante ribadire che l’idea rieducativa non va messa in discussione ma rivitalizzata e resa effettiva. È vero che buona parte dei problemi che ostacolano l’effettiva realizzazione educativa non sono dovute all’apparato normativo quanto alla prassi, che registra qualche resistenza e mancanza di fondi”. Il magistrato Martina Dall’Amico, parlando della propria esperienza, “seppur ancora breve”, si à “accorta che in alcuni casi il carcere è necessario. Costituisce e deve costituire l’estrema ratio. Il problema non è tanto, a mio modesto modo di vedere, il se ma il come e se comprendiamo che occorre investire e credere nel come indirettamente lavoriamo sul se… Offrire un’alternativa, un lavoro la possibilità di partecipare ad attività, ci conviene, conviene alla nostra libertà e alla giustizia e allora penso che sia questa la strada che dobbiamo percorrere”. Per Rosetta Noto, capo area trattamentale del carcere di Ragusa, “la rieducazione è difficile perché non abbiamo i mezzi… Siamo riusciti a trovare un lavoro ad un catanese condannato per reati gravissimi, era bravo a lavorare. Troviamo una ditta molto nota a Ragusa che mi dice si all’assunzione ma il giorno dopo mi chiama: “fa parte del clan Santapaola” ed io ho risposto che avrei garantito. Alla fine della detenzione domiciliare, l’ex detenuto viene assunto e il datore mi dice che non può fare a meno di lui nell’azienda. Lui è ora integrato perfettamente”. Maria Letizia Di Liberti, dirigente generale del dipartimento della famiglia e delle politiche sociali della Regione Sicilia, ha ricordato che, attraverso il Fondo Sociale Europeo nella nuova programmazione 2021-2017, l’ente ha assegnato 18 milioni di euro alla formazione all’interno del carcere. Il progetto è pronto. Sarà pubblicato entro 15 giorni”. “Al 31 gennaio 2024 - ha dichiarato Rosaria Ruggeri, direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Ragusa - sono in carico ai nostri Uffici, a livello nazionale, 134.992 persone di cui 119.770 maschi, 15.222 femmine. Dobbiamo promuovere una cultura del lavoro diversa, siamo stanchi di muoverci nei meandri dello sfruttamento e del lavoro nero che pesa su stranieri e concittadini. Nel tempo si è creata una subcultura tra i condannati: aver capito che il lavoro è un elemento centrale, l’udienza potrebbe mettere in discussione l’applicazione di una misura in mancanza di un lavoro e quindi si fa di tutto per trovare un lavoro che poi di fatto si rileva fittizio”. Maria Licitra, referente degli Uffici di servizio sociale per i minorenni di Ragusa, ha rilevato che “alla base della commissione dei reati in capo ai minorenni c’è una difficoltà alla decodifica della realtà. L’80% degli autori di reato è rappresentato da infra quattordicenni, la fascia dei 16/17enni, il 20% da ragazzi tra i 18 e i 21 anni”, Dal canto suo, Chiara Facello, assessore ai servizi sociali e alla Publica Istruzione del Comune di Modica, ha auspicato una capillare campagna di sensibilizzazione sul progetto finanziato dal fondo sociale europeo per le carceri. Bisogna, infatti, ricordare che il progetto obbliga i beneficiari a sensibilizzare le aziende ad assumere ex detenuti. Infine, Eleonora Gazziano, presidente dell’associazione “Rights On”: “Il carcere è una comunità. Il carcere deve essere inteso come struttura educativa e risocializzante. Quale futuro può avere un individuo privato della telefonata del figlio? La politica deve assumersi la responsabilità di reintegrare le persone che hanno scontato la loro pena, di riscattarsi nella vita. In Italia ci sono più morti per pena che nei paesi dove la pena di morte è consentita”. Con “Mare fuori” la tv riprova a capire i nostri bad boys di Francesca Spasiano Il Dubbio, 4 marzo 2024 Trent’anni dopo il libro e il film di Lina Wertmüller “Io speriamo che me la cavo”, la fiction Rai rimette in scena quegli “irrecuperabili” a cui viene rubata l’infanzia. “Io la parabola che preferisco è la fine del mondo, perché non ho paura, in quanto che sarò già morto da un secolo. Dio separerà le capre dai pastori, uno a destra e uno a sinistra, al centro quelli che andranno in Purgatorio. Saranno più di mille miliardi, più dei cinesi. E Dio avrà tre porte. Una grandissima, che è l’Inferno, una media, che è il Purgatorio, e una strettissima, che è il Paradiso. Poi Dio dirà: “Fate silenzio tutti quanti!”. E poi li dividerà. A uno qua a un altro là. Qualcuno che vuole fare il furbo vuole mettersi di qua, ma Dio lo vede e gli dice: “Ue addo’ vai”. Il mondo scoppierà, le stelle scoppieranno, il cielo scoppierà, Corzano si farà in mille pezzi. I buoni rideranno e i cattivi piangeranno, quelli del Purgatorio un po’ ridono e un po’ piangono. I bambini del Limbo diventeranno farfalle. Io speriamo che me la cavo”. Trent’anni fa il caso editoriale di Marcello D’Orta e l’omonimo film di Lina Wertmüller, “Io speriamo che me la cavo”, riuscivano in qualcosa di straordinario: mettere in vista gli “irrecuperabili”. Trent’anni dopo la Rai ci riprova, con quel successo acclamato da ogni parte che è la serie tv Mare fuori. Diciamolo subito: il paragone tra il film del 1992 e la fiction di oggi è abbastanza spericolato. Ma un fatto in comune c’è, oltre all’ambientazione napoletana, e riguarda la capacità di guardare alla cosiddetta devianza giovanile con tutte le sfumature del caso: perché non ci sono i bambini buoni e i bambini cattivi, ci sono i maestri che si rassegnano e quelli che ancora ci provano. Nel caso di “Mare fuori” gli schieramenti sono fin troppo evidenti, tra chi vuole “buttare la chiave” e chi vuole “salvarne almeno uno”. Dentro il microcosmo dell’Ipm di Nisida non ci sono i maestri, ma abbiamo Beppe e Massimo, l’educatore empatico e il comandante della polizia penitenziaria senza macchia che insieme sfidano il regime della direttrice dal pugno di ferro (la seconda più della prima), che invece è troppo burocrate per sapere come trattare con quei ragazzi. Quasi sempre a spuntarla sono loro, i minori in cella che pur cresciuti troppo in fretta sono ancora bambini, e perciò gli riesce di aprire un varco nel cuore di chi li sorveglia. Anche quelli che sembrano imperdonabili, perduti per sempre. Qui è inutile dilungarsi sulla varietà di personaggi della serie divenuta un cult, complice la spinta di Netflix e la sigla-tormentone. Ma se la fiction in onda adesso con la quarta stagione piace da matti a tutti, grandi e piccini, una ragione ci deve essere ed è anche una buona notizia. Portare un tema del genere in prima serata è infatti un’operazione che merita la lode, anche se tra la realtà e la fiction c’è grande scarto. Molte delle storie raccontate in tv sono uscite dalla penna della sceneggiatrice Cristiana Farina, che circa vent'anni fa ha frequentato come volontaria l'Istituto penitenziario minorile di Nisida. Dunque sono vere, anche se romanzate. Ma certo la realtà è più complicata. Come fanno notare per primi i ragazzi che a Nisida ci stanno davvero, e che da primi fan seguono le vicende dei loro alterego famosi. “Hanno vissuto con sentimenti contrastanti il successo di questa serie che in qualche modo parla di loro - racconta al Corriere della Sera il direttore del carcere Gianluca Guida - Da un lato ne sono affascinati, dall'altro, quando se ne parla, sottolineano che la vita in carcere non è come viene raccontata in tv, ma più dura”. E questo non stupisce. Soprattutto se ripensiamo a quei ragazzi che Il Dubbio ha incontrato nel 2020 tra le mura del carcere napoletano, nel bel mezzo della pandemia. “Qua si soffre bene o si soffre male: quando soffri male esci peggiore di quando sei entrato”, ci aveva confessato uno di loro. Nato e cresciuto nel quartiere Santa Lucia di Napoli, a 21 anni era ancora in cella per scontare almeno altri tre anni di pena. Arrestato per la prima volta a 16 anni, ne aveva già passati in carcere quattro, tra Airola e Nisida, il più grande tra gli Istituti minorili che ospita giovani da tutto il Sud Italia. Per quel ragazzo la sofferenza “è stata buona”, gli ha permesso di capire che “cos’è la vita”. Dentro l’Ipm aveva imparato a fare la pizza, come fanno anche nella serie tv. E nella realtà, come nella fiction, per alcuni ragazzi che non hanno nessuno ad aspettarli fuori, il sogno di un futuro lontano e diverso è l’unico appiglio possibile per archiviare la vita che si era interrotta varcando i cancelli. Quei cancelli della vecchia prigione borbonica dove si racconta che Bruto avesse ordito la congiura contro Cesare. Quelle sbarre che separano i padiglioni sempre uguali a un paesaggio irripetibile, bellissimo, il mare fuori che fa male a chi sta dentro: “uno spettacolo, ma anche la più grande sofferenza”. Tutti riusciamo a indovinare perché. Ma “solo chi sta in galera può capire certe cose. In carcere non si sta bene, e chi dice che qua si sta bene, mente. La libertà non ha prezzo”. Ecco, nella distanza tra “voi e noi” c’è il senso di quell’esperienza e di un buon prodotto tv che cerca di raccontare tutto quello che la società esclude allo sguardo. Per accorciarla, quella distanza, serve di più. Impegno, fatica, e soprattutto coraggio. Ce lo chiedesse anche un solo ragazzo, di quelli che hanno incontrato le strade e le persone sbagliate, fino al paradosso di trovare tra le sbarre l’unica via di uscita. “Io mi sento pronto per uscire, secondo me non ho più bisogno di stare qui. Adesso ho un progetto. Credo che la legge sia troppo severa: a un ragazzo che deve scontare dieci anni gli hai fatto capire la pena? L’hai solo ucciso. Per capire di aver sbagliato ci vuole tempo, ma quando ti senti pronto devi uscire”, diceva quattro anni fa quel ragazzo. E noi speriamo che se la sia cavata. Dalle leggi anti-rave, al caso dei manganelli di Pisa: l’Italia è contro i giovani di Flavia Amabile La Stampa, 4 marzo 2024 I rappresentanti degli studenti: “Ci descrivono come fannulloni per delegittimarci”. Passano i mesi e tra giovani e governo aumentano distanze e scontri. Da quando Giorgia Meloni è arrivata a Palazzo Chigi, l’esecutivo guidato dalla ministra per la Gioventù del quarto governo Berlusconi e, prima ancora, presidente di Giovane Italia, Azione Giovani e Azione Studentesca, si è distinto per la solerzia e la costanza nell’intervenire nel mondo di ragazze e ragazzi con un’impronta molto chiara. C’è chi la definisce “puniti e mazziati” e chi parla di “ordine e manganelli” o più semplicemente di “zitti e buoni” scomodando i Maneskin, ma il senso è lo stesso. L’offensiva è partita con il decreto anti-rave, provvedimento annunciato dal governo Meloni pochi giorni dopo l’insediamento - come se le occupazioni dei terreni rappresentassero il problema principale dell’Italia dell’autunno del 2022 - inserendo nella prima versione del provvedimento un testo che proibiva qualsiasi tipo di manifestazione. E si è arrivati sedici mesi dopo alle manganellate a Pisa su un corteo di studenti che non aveva altre armi che la propria voce. “In mezzo c’è molto altro - spiega Paolo Notarnicola, 22 anni, studente di Filosofia a Padova e coordinatore della Rete degli Studenti Medi -. C’è il decreto Caivano, il decreto vandali, l’inasprimento delle pene contro chi aggredisce i docenti, la circolare del ministro Valditara che minaccia punizioni per chi occupa o il ddl sulla condotta che inasprisce le sanzioni. E ci sono gli inutili incontri avuti con il ministro che ci convoca a decisioni già prese o che usa un atteggiamento paternalistico o di censura quando proviamo ad affrontare tematiche di respiro più ampio”. E poi ci sono la drastica limitazione del 18App, il misero 3% della legge di Bilancio dedicato ai giovani con l’aggiunta di proposte come il disegno di legge del vice capogruppo di FdI alla Camera Alfredo Antoniozzi che vuole portare l’età del consenso sessuale da 14 a 16 anni. Oppure si assiste a gesti maldestri come quello del dirigente di Modena che aveva sospeso uno dei rappresentanti degli studenti in consiglio di istituto perché aveva osato criticare la scuola in un’intervista. La sospensione è stata poi annullata ma la tentazione di silenziare gli studenti resta. “Ci raccontano come fannulloni che vogliono soltanto perdere qualche giorno di scuola. Lo fanno per delegittimarci come interlocutori. Invece, se ogni altro tentativo di far sentire la nostra voce e di portare i nostri temi nelle sedi opportune fallisce, è nostro dovere usare cortei, manifestazioni e occupazioni per farci sentire - avverte Notarnicola -. Se, in queste occasioni, si arriva alle manganellate su studenti inermi siamo di fronte a un obiettivo molto chiaro: spaventare gli studenti per evitare che scendano in piazza”. “Siamo preoccupati - ammette Alessia Conti, presidente del Cnsu, il Consiglio nazionale degli studenti universitari - perché se la presidente del Consiglio discute con il presidente della Repubblica che prende le nostre difese vuol dire che siamo di fronte a un attacco serio. A tantissime richieste e proposte che, come generazione, abbiamo avanzato ha fatto seguito soltanto il silenzio. A questo punto ci resta soltanto il diritto di scendere in piazza in modo pacifico finché non vedremo un cambiamento nelle politiche del governo”. Per farsi un’idea di come stanno i giovani italiani basta andare a leggere gli indicatori di benessere contenuti nel rapporto annuale Istat, riferito al 2022. Sono ai livelli più bassi d’Europa: oltre 4 milioni di ragazzi hanno almeno un segnale di privazione, e 1,7 milioni non studiano, non lavorano e non sono inseriti in percorsi di formazione (i Neet), un disagio diffuso soprattutto tra le ragazze e in chi risiede nel Mezzogiorno. Tristi, sfiduciati e in drammatico calo. Gli italiani dai 18 ai 34 anni sono poco più di 10 milioni, il 17,5% del totale mentre venti anni fa erano il 23%. Solo nell’ultimo anno i giovani iscritti per l’espatrio sono stati 50mila, il 60,4% del totale (dati Censis). “La descrivono come una fuga di cervelli, invece si tratta di una fuga e basta. Pur di non vivere in Italia vanno a raccogliere frutta in Australia o a lavorare come camerieri”, spiega Walter Massa, presidente nazionale dell’Arci. E non siamo di fronte a una disattenzione recente. “È già da qualche decennio che questo Paese non è più per giovani indipendentemente dal governo. L’ unica politica messa in atto è il servizio civile e ogni anno dobbiamo elemosinare qualche euro in più per ampliare la platea. Questo governo, però, ha peggiorato una situazione già drammatica insistendo su politiche sanzionatorie, cancellando le poche forme di investimento culturali esistenti e ora reprimendo il diritto di manifestare con una pesantezza inaccettabile. Passa il messaggio che repressione e ordine pubblico siano l’unica politica educativa possibile, che si debba stare zitti e muti e questo è inquietante. L’Italia non è un Paese per giovani e credo che sia il delitto più grave che si possa commettere perché vuol dire non ragionare per nulla sul futuro”. Ma i giovani non hanno alcuna intenzione di starsene zitti e buoni. “Stiamo preparando le prossime manifestazioni - annuncia Paolo Notarnicola - e una stagione di rivendicazione dei nostri diritti. Vogliamo partecipare ai processi decisionali come prevede la democrazia”. Cosa succede ora a Chico Forti, il carcere e l'ipotesi della semilibertà (e quando arriverà in Italia) di Tiziano Grottolo Corriere della Sera, 4 marzo 2024 Il trasferimento di Chico Forti è atteso nel giro di alcune settimane. Potrebbe scontare la pena in Trentino a Spini di Gardolo e accedere alla semilibertà. È stata nientemeno che la presiedente del consiglio, Giorgia Meloni, ad annunciare l’arrivo della firma per l’autorizzazione al trasferimento in Italia di Chico Forti. Il 65enne trentino dal 2000 sta scontando l’ergastolo negli Stati Uniti per l’omicidio di Dale Pike, un delitto per il quale si è sempre dichiarato innocente. L’iter per il trasferimento di Forti in Italia era stato avviato nel 2020 dopo che il governatore della Florida, il Repubblicano Ron DeSantis, aveva accolto un’istanza basata sulla Convenzione di Strasburgo che era stata presentata dagli avvocati del detenuto trentino. Tuttavia dopo l’annuncio dell’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio il procedimento sembrava essersi arenato. Ora, dopo una lunga attesa l’ex campione di windsurf potrebbe finalmente riabbracciare i propri cari in Italia. Secondo il deputato di FdI Andrea Di Giuseppe (residente a Miami ed eletto nella circoscrizione Nord e Centro America), per completare le varie incombenze burocratiche potrebbero volerci “fra le quattro e le sei settimane al massimo”. Il primo passaggio prevede il trasferimento del 65enne dal carcere statale vicino a Miami in cui è detenuto a un penitenziario federale. Ciò potrò avvenire su ordine del governatore della Florida DeSantis. Successivamente toccherà al Dipartimento di Giustizia statunitense trasmettere al ministero della Giustizia italiano la sentenza di condanna nei confronti di Forti (che dovrà essere tradotta) e la documentazione relativa al trasferimento. A sua volta il dicastero presieduto da Nordio dovrà inviare la documentazione alla Corte d’Appello di Trento che dovrà riconoscere la sentenza e metterla in esecuzione. Solo quando saranno espletate queste pratiche sarà possibile organizzare il trasferimento di Forti in Italia. “I miei uffici lavoreranno per ottemperare nel più breve tempo possibile tutti i passaggi tecnici necessari” fa sapere il ministro della Giustizia Carlo Nordio. “Auspichiamo che anche tutti gli altri passaggi, che chiamano in causa tra l’altro le autorità giudiziarie, si possano compiere nel più breve tempo possibile”. Le regole del sistema italiano - Ma cosa succederà quando Forti rientrerà in Italia? Al netto di possibili accordi intergovernativi, il 65enne trentino sarà sottoposto alle regole del sistema italiano. “Ovviamente gli Stati Uniti non fanno parte dell’Unione europea — spiega l’avvocato Roberto Bertuol, presidente della Camera Penale di Trento — per questo il trasferimento di detenuti è regolato da trattati internazionali. Salvo eventuali accordi di cui al momento non possiamo essere a conoscenza, nei confronti di Forti saranno applicate le regole previste dall’ordinamento penitenziario italiano. Ciò significa che avendo già scontato parte della pena potrebbe accedere a determinati benefici”. In altre parole, qualora non vi fossero specifici accordi, Forti potrebbe presentare alla magistratura di sorveglianza delle richieste circa le sue condizioni di detenzione. Al tempo stesso però, dal momento che il processo si è tenuto negli Stati Uniti, non è possibile che a occuparsi della revisione sia una corte italiana. Ad ogni modo l’ex campione di windsurf potrebbe finire di scontare la pena nel carcere di Trento, a Spini di Gardolo. La procedura - “In genere i detenuti in arrivo dall’estero atterrano a Roma — osserva Bertuol — perciò è probabile che in un primo momento Forti venga assegnato a un penitenziario nella zona della capitale. La decisione nel merito di un suo possibile trasferimento in una struttura più vicina a casa spetterà al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Dello stesso avviso pure l’avvocato e consigliere provinciale del Pd, Andrea de Bertolini: “Salvo casi eccezionali, come l’ergastolo ostativo o il 41 bis, l’ergastolo “statunitense” non è equiparabile a quello “italiano”, che a certe condizioni prevede persino il reinserimento del detenuto nella società”. Non va dimenticato che, almeno sul piano teorico, l’ordinamento italiano è uno dei più avanzati in termini di finalità rieducativa della pena. I condannati all’ergastolo che si dimostrano meritevoli, dopo aver scontato almeno dieci anni, possono ricevere dei permessi premio per uscire dal carcere. Dopo venti, invece, possono accedere alla semilibertà per trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto penitenziario per lavorare o partecipare ad attività utili al reinserimento. “Al netto del fatto che l’ergastolo statunitense non è contemplato nel nostro ordinamento, Forti potrebbe già aver accesso a istituti come i permessi premio e la semilibertà”, conclude de Bertolini. Medio Oriente. Basta tattica, ora un segno di pace di Padre Enzo Fortunato La Stampa, 4 marzo 2024 Porto quotidianamente nel cuore, con dolore, la sofferenza delle popolazioni in Palestina e in Israele, dovuta alle ostilità in corso. Le migliaia di morti, di feriti, di sfollati; le immani distruzioni che causano dolore, con conseguenze tremende sui piccoli e gli indifesi, che vedono compromesso il loro futuro. Mi domando: davvero si pensa di costruire un mondo migliore in questo modo, davvero si pensa di raggiungere la pace? Basta, per favore! Ancora una volta Papa Francesco ci pone dinanzi il grido della pace. E lo fa nei momenti di massimo ascolto. L’Angelus domenicale. Con questo accorato appello, che negli ultimi mesi sta segnando il suo pontificato. Le sfumature iniziano a farsi più incisive partendo dai bambini e dalle bambine che proprio Bergoglio ha invitato il prossimo 25 e 26 maggio a Roma. Un incontro senza precedenti. Un incontro che scuoterà non solo la Capitale ma il paese Italia e i governanti di mezzo mondo. La prima Giornata mondiale dedicata ai più piccoli. I numeri delle adesioni ad oggi superano quota 60mila. E le provenienze manco a dirlo sono significative: soprattutto dai paesi in guerra. Siria, Ucraina, Russia, Afghanistan, Etiopia, Eritrea, Mozambico, ma anche Gaza e Israele. Segno evidente di un’onda di purezza che vuole, desidera e grida pace là dove scorre non latte e miele, ma sangue e odio. Sarà il primo e più grande avvenimento che le cronache abbiano mai registrato; i piccoli, i bambini e le bambine. Una domanda che il Successore di Pietro aveva già posto con determinazione sia nell’Enciclica Laudato si che nella Fratelli tutti: che futuro vogliamo consegnare ai nostri figli? Sì i figli dei poveri cristi, ma anche quelli dei ricchi epuloni; quelli dei Grandi della terra e dei poveri impiegati. Non è più il tempo dei tatticismi e dei posizionamenti, ma quello delle Visioni di pace, dei Sogni di pace, dell’impegno determinato e convincente. Ecco perché alla lettera del Papa, resa nota sabato scorso, ai più indifesi, ai più fragili, ai più preziosi di tutto il pianeta stanno rispondendo in tanti. In aiuto del Comitato organizzatore della Giornata mondiale dei Bambini, con il patrocinio e la direzione del Dicastero vaticano per la Cultura e l’Educazione, oltre alla Comunità di Sant’Egidio, la Cooperativa Auxilium e la Figc si stanno mobilitando anche Ferrovie dello Stato Italiane, Ita Airways ed Eni Plenitude. Una lettera, quella del Papa, che invita a scoprire il segreto della Felicità. Non quella effimera e di breve respiro, ma quella della riscoperta del Padre nostro. San Francesco, Martin Luther King… ne avevano già colto l’efficacia. E noi? Gianluigi Buffon, che sarà tra i protagonisti delle due giornate - la prima allo Stadio Olimpico, la seconda a Piazza San Pietro - non l’ha mandata a dire: “È la partita della vita!”. Aggiungendo: “Una volta si diceva che la bellezza salverà il mondo. Oggi ci diciamo che i bambini salveranno il mondo”. Ma non ha mancato di sottolineare anche che “noi come società stiamo affrontando il naufragio, e se diamo la responsabilità di salvare il mondo ai bimbi significa che qualcosa abbiamo sbagliato”. I sogni, quelli veri, prima o poi si avverano. Medio Oriente. Così la carestia piega la gente della Striscia di Gaza di Francesca Mannocchi La Stampa, 4 marzo 2024 Chi sopravvive ai raid sta morendo lentamente per la mancanza di cibo. Almeno mezzo milione di persone fa i conti con la fame, un bambino su 6 è già malnutrito. Trecento, tremila, tredicimila, trentamila morti. Cento persone affamate uccise dai colpi israeliani mentre lottavano per un sacco di farina o morte sotto la calca di chi, nella ferocia della battaglia quotidiana per sopravvivere, cammina sopra gli altri per cercare di sfamarsi, di sfamare, e resta schiacciato dai camion e dalla folla. C’è un punto, nella sensibilità di chi guarda le guerre dall’agio della lontananza, in cui i numeri diventano meri segni grafici. Nessuno di noi, chiudendo gli occhi, può figurare trecento morti. Figuriamoci trentamila. Da cinque giorni, però, abbiamo nella testa l’immagine di un drone che dal cielo mostra dei punti neri che come formiche, disperate, velocissime, si avvicinano a un mezzo da Nord, da Sud, da Est, da Ovest. Quei punti neri sono esseri umani. Quell’immagine è la fame. E quella fame è il prodotto degli uomini, non del caso. I fatti sono noti. Alle 4.30 di giovedì scorso un convoglio di una ventina di camion, inviato tra gli altri da Qatar, Arabia Saudita ed Emirati, attraversa una postazione dell’esercito israeliano e si dirige verso Haroun Al Rasheed Street, nella parte occidentale di Gaza City. Lì, nel Nord della Striscia, dove sono bloccate ancora 300mila persone, i civili aspettavano la distribuzione. Secondo il Ministero della Sanità palestinese a Gaza, almeno 112 persone sono state uccise e 760 ferite. Per le autorità palestinesi le vittime sono state uccise a colpi di arma da fuoco in un massacro, mentre per l’esercito israeliano la maggior parte delle vittime è stata causata da una fuga precipitosa e dai camion che si allontanavano velocemente travolgendo le persone in attesa di cibo. Due giorni fa Bbc Verify ha pubblicato una ricostruzione delle versioni degli eventi, con l’ausilio di alcuni testimoni oculari e dell’analisi dei video visionati. Uno dei filmati - datato 23.30 del 28 febbraio - mostra alcune centinaia di persone intorno ai fuochi in attesa dell’arrivo degli aiuti. In un altro si sentono raffiche di spari, persone correre per nascondersi dietro i camion e tracce nel cielo dei colpi d’arma da fuoco. Il dottor Mohammed Salha, direttore ad interim dell’ospedale Al-Awda di Gaza City, ha detto ad Associated Press che dei 176 feriti portati nella struttura, 142 avevano ferite da arma da fuoco e gli altri 34 mostravano ferite dovute a una fuga precipitosa. Un altro medico dell'ospedale Shifa, sempre a Gaza City, ha detto che la maggior parte delle persone curate riportavano ferite da arma da fuoco. Se i fatti sono noti, le spiegazioni ancora lacunose e le richieste di indagini unanimi. Le ricostruzioni israeliane sulla strage sono state inizialmente contraddittorie. Secondo il portavoce dell’esercito Daniel Hagari, il convoglio è stato circondato dalla folla intorno alla rotatoria di Nabulsi, l’Idf ha aperto il fuoco per legittima difesa “quando ha incontrato il pericolo e che, contrariamente alle accuse, decine di residenti di Gaza sono stati uccisi a causa del sovraffollamento e sfortunatamente i camion palestinesi li hanno investiti durante un tentativo di fuga”. Precedentemente, però, un altro portavoce militare, Peter Lerner, aveva fornito una versione diversa, sostenendo che ad essere responsabile fossero le truppe di un posto di blocco nel Nord di Gaza. Durante una conferenza stampa, Lerner ha detto che “proprio al punto di passaggio le persone si sono avvicinate alle forze rappresentando una minaccia e quindi le forze hanno aperto il fuoco”. Alla richiesta di chiarimento tra le due versioni, l’esercito ha sostenuto che la versione di Hagari fosse quella esatta. I numeri della fame - Quando, intervistato da Channel 4, il portavoce Peter Lerner ha detto “la folla ha assaltato il convoglio”, la conduttrice ha risposto: “quando dice folla, intende persone che muoiono di fame e che sono state private del cibo perché non avete fatto entrare gli aiuti?”. In questa domanda giace la realtà di Gaza, dove già prima della guerra un milione di persone viveva in condizione di insicurezza alimentare. Gaza era già un posto che viveva di aiuti umanitari e oggi, semplicemente, quegli aiuti non ci sono. Interrotti gli aiuti delle agenzie umanitarie per ragioni di sicurezza, bloccati i convogli ai valichi terresti. Gli esperti delle Nazioni Unite dicono da settimane che non hanno mai visto una tale quantità di civili soffrire la fame “così rapidamente e in modo così totale”. Alla fine di febbraio, secondo i dati forniti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite da Ramesh Rajasingham, vice capo dell’agenzia umanitaria Ocha, “almeno 576.000 persone a Gaza sono a un passo dalla carestia, equivale a un quarto della popolazione”, e un bambino su sei sotto i due anni nel Nord di Gaza soffre di malnutrizione acuta e deperimento. Gaza è un luogo in cui quasi tutti i sopravvissuti devono limitare i pasti, scegliere chi mangi prima, i bambini, gli anziani e i malati, le donne. E chi si sacrifichi non mangiando. Non ci sono forni per fare il pane, non c’è abbastanza carburante per far funzionare gli ospedali e gli impianti di desalinizzazione, oltre un quarto dei pozzi d’acqua è andato distrutto, così come 340 ettari di serre. Non ci sono quasi più animali, più niente da macellare. Secondo la Fao il 65% dei vitelli e il 70% dei bovini da carne sono morti. Gaza è diventata un luogo in cui i sopravvissuti hanno a disposizione meno di un litro di acqua potabile al giorno. Che significa esporsi a malattie, rischio di infezioni, che a sua volta significa epidemie. La domanda, di fronte a questa catastrofe umanitaria, è quale sarà la sorte di chi oggi ancora sopravvive. Ieri, secondo una nota del Ministero della Sanità di Gaza, 15 bambini sono morti per malnutrizione e disidratazione. A fine febbraio i ricercatori del Centro per la Salute Umanitaria della Johns Hopkins University e della London School of Hygiene and Tropical Medicine hanno pubblicato un rapporto per provare a prevedere quante persone moriranno a Gaza nei prossimi sei mesi. Intervistati dal New Yorker sulla stima delle morti in eccesso, cioè quelle causate indirettamente da malattie e mancanza di accesso alle cure mediche, i ricercatori hanno ipotizzato tre scenari: se la guerra continuasse così, con bombardamenti su aree popolate e mancato accesso degli aiuti, fino ad agosto, morirebbero altre 66 mila persone. Se la guerra si intensificasse il numero potrebbe raggiungere gli 85 mila. Se il cessate il fuoco iniziasse immediatamente (scenario più distante dalla realtà) morirebbero comunque tra le 6 mila e le 11 mila in più rispetto a quanto sarebbe avvenuto se non ci fosse stata la guerra. Gli aiuti dal cielo - Il giorno dopo la strage degli affamati, l’aeronautica americana ha iniziato i lanci di aiuti umanitari su Gaza. L’avevano già fatto prima Giordania, Francia, Egitto, Emirati. Tre C-130 hanno sganciato 66 pallet, il corrispettivo di 38 mila pasti. Per dirla con le parole di Emile Hokayem, direttore per la sicurezza regionale presso l’Istituto internazionale per gli studi strategici, è stato “un segnale di virtù e un’ammissione di impotenza da parte degli Stati Uniti”. Per le agenzie umanitarie lanciare aiuti dal cielo è costoso, inefficiente e totalmente inadeguato per sfamare due milioni di persone senza un posto dove andare: non si può sapere chi riceverà gli aiuti e chi ne sarà escluso. In più è rischioso, perché gli aiuti aerei arrivano senza preavviso sulle teste di centinaia di migliaia di persone che aspettano di sfamarsi e sanno che non ci sarà cibo per tutti. Sabato i container sono scesi dal cielo uno ogni 30-60 secondi, ognuno attaccato a un paracadute. Hanno raggiunto le coste di Gaza, dove ci sono meno edifici, una visuale migliore, e quindi maggiore possibilità per i civili di vederli arrivare. Dentro c’era cibo, medicine, pannolini, kit per l’igiene femminile. I video di quei momenti mostrano i civili guardare verso l’alto e poi correre sulla spiaggia, accalcandosi gli uni sugli altri per avere di che sfamarsi. Come i punti neri ripresi dal drone, venerdì. L’ennesima immagine di una popolazione imprigionata e affamata, che sopravvive mangiando semi e cereali per il bestiame. L’immagine di una carestia per le Nazioni Unite “quasi inevitabile” e di un negoziato che appare sempre più lontano. L’Egitto si prepara a ricevere i palestinesi di Gaza, ma a quanto pare non vuole farlo sapere di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2024 Mentre scrivo questo post, non so ancora se sarà stato approvato un cessate-il-fuoco e dunque l’offensiva di terra israeliana contro Rafah sarà stata, per il momento, scongiurata. Quel che è certo che l’Egitto si stava preparando all’afflusso dei palestinesi di Gaza, ma non voleva farlo sapere. A ciò si collega la campagna minatoria e diffamatoria nei confronti della Fondazione Sinai per i diritti umani e del suo direttore Ahmed Salem, residente nel Regno Unito. Le ultime minacce nei confronti di Salem risalgono a pochi giorni fa: intermediari vicini al governo del Cairo l’hanno avvertito che “sarebbe stato riportato in Egitto” se non avesse posto fine alle sue denunce; il capo di un clan del Sinai, nominato dal governo, gli ha mandato a dire che “anche se vive all’estero, è a portata di mano”. La ragione di tutto questo? Un rapporto, pubblicato dalla Fondazione Sinai che, sulla base di testimonianze oculari e di video, documentava la fretta con cui le autorità egiziane stavano fortificando e militarizzando la zona settentrionale della penisola, confinante con Gaza e con Israele, per tenersi pronte in caso di afflusso di rifugiati palestinesi a seguito di un trasferimento forzato ordinato dall’esercito israeliano. Il rapporto era stato ampiamente ripreso a livello internazionale, da agenzie e quotidiani. Anche Amnesty International, attraverso immagini satellitari verificate dal suo Evidence Lab, aveva notato l’appianamento di terreni e la costruzione di un muro. I militari egiziani avevano intensificato i controlli e i pattugliamenti, fermando i residenti e gli operai locali, controllando i loro telefoni cellulari e ammonendoli a non parlare di quanto stava accadendo. Il 17 febbraio un noto opinionista di Ten, una televisione filogovernativa, membro del Consiglio supremo per l’informazione - l’organo governativo che è il principale responsabile della censura dei media indipendenti egiziani - ha affermato in diretta che Salem è un agente del Mossad (i servizi segreti israeliani) ed è collegato a gruppi terroristi. Gli ha fatto eco, su X, l’account dell’Unione delle tribù del Sinai, una milizia armata filo-governativa, che ha fatto riferimento a una “cospirazione per spargere veleno contro lo stato egiziano”. Altri account filo-governativi hanno ripreso la stessa propaganda su X e su Facebook. Il Servizio per le informazioni, un altro organo del governo egiziano, ha negato ufficialmente che le autorità del Cairo si stessero preparando a ricevere i palestinesi di Gaza nel Sinai: “Si vuole dare l’errata impressione, tramite falsa propaganda altrui, che l’Egitto stia partecipando al crimine di deportazione invocato da alcune parti in Israele”. Nonostante viva nel Regno Unito con moglie e figli, Salem teme che le autorità egiziane possano rifarsi sui suoi familiari in Egitto. La Fondazione Sinai per i diritti umani è una delle principali fonti indipendenti e credibili su quanto accade nel nord del Sinai, dove per tutto lo scorso decennio e almeno fino al 2022 l’esercito egiziano si è scontrato col Wilayat Sina’, un gruppo armato che ha proclamato la sua alleanza con lo Stato islamico. Sia le forze egiziane che il gruppo armato islamista hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani, crimini di guerra compresi, ma di quanto accade in quella zona si sa assai poco a causa della censura imposta dalle autorità militari. Col pretesto di questi scontri, le forze di sicurezza egiziane hanno sfollato decine di migliaia di abitanti (anche nelle zone in cui ora stanno costruendo il muro), hanno eseguito arresti arbitrari e sparizioni forzate e imposto pesanti limitazioni alla libertà di movimento. Anche se gli scontri sono cessati, il nord del Sinai è considerato una zona militare chiusa. Tredici organizzazioni della società civile internazionale - Amnesty International, Cairo Institute for Human Rights Studies (CIHRS), Democracy for the Arab World Now (DAWN), DIGNITY - Danish Institute Against Torture, Egyptian Front for Human Rights (EFHR), Egyptian Human Rights Forum (EHRF), EgyptWide for Human Rights, EuroMed Rights, FairSquare, Human Rights Watch, International Service for Human Rights, Middle East Democracy Center (MEDC) e Committee for Justice - hanno sollecitato le autorità del Cairo a porre fine alle minacce nei confronti di Salem e ad assicurare l’incolumità dei suoi familiari in Egitto. *Portavoce di Amnesty International Italia Haiti nel caos, le gang assaltano due carceri, evasi oltre 4mila detenuti di Irene Soave Corriere della Sera, 4 marzo 2024 Coprifuoco notturno e stato di emergenza di 72 ore per i disordini scoppiati nel weekend dopo le maxi fughe dai due penitenziari più grandi dello stato caraibico. La polizia sui social: “Aiuto!”. Rivolta dei detenuti, la polizia arresa: una seconda prigione è stata invasa dalle gang, dopo che sabato circa 4 mila prigionieri, cioè quasi tutti, avevano lasciato il carcere di Croix-des-Bouquets, il più grande di Haiti, nella capitale Port-au-Prince che ora è controllata per l’80% da gruppi armati che mirano a rovesciare il governo. Le bande, responsabili di più di 8 mila omicidi nel 2023, hanno aiutato i prigionieri a evadere, assaltando la prigione. Fuggiti diversi detenuti di alto profilo, come quelli accusati dell’omicidio del presidente Jovenel Moïse nel 2021. È da allora che a Haiti, il Paese più povero delle Americhe, la violenza è tornata a peggiorare. Non ci sono più state elezioni dal 2016, e il presidente Ariel Henry, che sostituiva Moïse, avrebbe dovuto indirne di nuove il 7 febbraio e non lo ha fatto. La violenza ha avuto una recrudescenza da giovedì, quando Henry è volato in Kenya a stringere accordi perché Nairobi invii una task force di militari per domare le gang. Guida l’assalto un ex poliziotto, Jimmy Chérizier detto “Barbecue” che ha indetto “un attacco coordinato per cacciare il premier”. Ieri i sindacati di polizia sui social chiedevano “aiuto per i colleghi della penitenziaria”. Le autorità di Haiti hanno ordinato il coprifuoco notturno e dichiarato lo stato di emergenza di 72 ore in seguito ai disordini scoppiati nel paese nel weekend a causa di due maxi evasioni dai due carceri più grandi dello stato. Quasi tutti i circa 4000 detenuti sono riusciti a fuggire, lasciando la prigione, e ora sono ricercati dal governo. “Alla polizia è stato ordinato di utilizzare tutti i mezzi legali a disposizione per far rispettare il coprifuoco e arrestare tutti i trasgressori”, ha dichiarato il ministro delle Finanze Patrick Boivert, che ricopre il ruolo di primo ministro ad interim. Non si ferma così la spirale nera di Haiti, dove per strada si putrefanno pile di cadaveri, le persone cacciate dalle loro case sono 200 mila e lo stupro di massa è l’arma con cui le bande “segnano il territorio”. In un quartiere sono state erette barricate con pneumatici in fiamme. Il principale stadio di calcio del Paese è stato occupato e depredato da uomini armati, che hanno anche tenuto in ostaggio un dipendente per ore, ha riferito la Federazione calcistica di Haiti. Ieri sono anche registrate delle interruzioni di internet per i danni ai cavi della fibra durante gli scontri. Il terremoto dell’estate 2021, poi l’uragano. L’epidemia di Covid, il ritorno del colera nel 2022. L’apertura del sito di notizie Ayibo Post, nel weekend, è stata divisa tra il raccon