Carcere, non c’è più tempo camerepenali.it, 3 marzo 2024 L’Unione delle Camere penali delibera l’astensione dalle udienze. Nonostante l’emergenza umanitaria in atto nelle carceri imponga un cambio di passo immediato, non si è ancora registrata una chiara e netta presa di posizione del Governo volta a rimediare all’ingravescente fenomeno del sovraffollamento. L’Unione ribadisce con forza e determinazione il proprio appello al Governo e a tutte le forze parlamentari affinché si possa realizzare, tutti insieme, l’obiettivo di arrestare con efficacia il terribile fenomeno dei suicidi in carcere, con l’assoluta convinzione che “Non c’è più tempo”. La delibera di astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per il giorno 20 marzo 2024, con convocazione di tutti i i Presidenti delle Camere Penali territoriali e di tutti gli iscritti in Roma per partecipare alla manifestazione, che si terrà con tutte le associazioni sensibili a tale emergenza e con i rappresentanti della politica favorevoli all’adozione di strumenti immediati, volti alla soluzione della crisi in atto, in Piazza dei Santi Apostoli, in data 20 marzo 2024 alle ore 14.00. Delibera del 2 marzo 2024 La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane RILEVATO che con delibera del 25 gennaio 2024 e? stata proclamata l’astensione delle udienze per il 7, 8 ,9 febbraio 2024, denunciando l’irrazionale moltiplicazione delle fattispecie di reato con il conseguente aggravamento delle pene in senso contrario al principio di uguaglianza e di proporzionalità?, facendo gravare in maniera del tutto irragionevole sul sistema penale e sul sistema carcerario il destino dell’intero ordinamento; che le politiche securitarie realizzate da tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi decenni, unitamente alla mancata riforma dell’esecuzione penale, hanno determinato l’attuale condizione di sovraffollamento carcerario e lo stato inumano e degradante della detenzione nel nostro Paese; che, com’è stato ricordato nel corso della Inaugurazione dell’Anno Giudiziario dei Penalisti italiani, dal titolo “Il Processo come ostacolo il Carcere come destino”, il numero di detenuti, superiore alle 60.000 unità e con un aumento costante di circa 400 detenuti al mese, ha raggiunto quote prossime a quelle che nel 2013 hanno condotto la Corte EDU a emettere la sentenza “Torreggiani”, con la quale l’Italia è stata condannata per la persistente violazione del divieto di infliggere pene o trattamenti inumani ai detenuti; CONSIDERATO che il fenomeno dei suicidi avvenuti in carcere nei primi 58 giorni del 2024 è in continua ascesa - circa uno ogni due giorni - e che appare oramai improcrastinabile un immediato intervento del Governo e della Politica, tutta, al fine di arginare la strage in atto; che ogni giorno trascorso senza che siano attuati rimedi idonei a scongiurare la morte, per malattia e per suicidio, negli istituti penitenziari non può che accrescere le responsabilità, politica e morale, di coloro che tale fenomeno hanno l’obbligo di affrontare con rimedi urgenti e inderogabili; che vi è il pericolo concreto che togliersi la vita in carcere possa rappresentare, per i tanti oppressi, una “soluzione” da emulare, per sfuggire a condizioni di privazione della libertà sempre più umilianti e disumane; che il sovraffollamento carcerario, la patologica carenza negli organici di agenti penitenziari, di medici e psichiatri e di operatori sociali acuiscono le già penose condizioni di vita dei detenuti; che preoccupa ulteriormente il susseguirsi di episodi di violenza sui detenuti, l’ultimo dei quali (sarebbe) avvenuto nella Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore a Venezia; RITENUTO che occorre sensibilizzare l’opinione pubblica e, soprattutto, persuadere il Governo, il Parlamento e la politica tutta circa la necessità di adottare atti di clemenza generalizzati, quali l’indulto o l’amnistia, legiferare urgentemente in materia di concessione della liberazione speciale anticipata, introdurre il sistema del “numero chiuso” ovvero ogni altro strumento atto a limitare in futuro il ripetersi del fenomeno del sovraffollamento, prevedendo altresì misure extra-detentive speciali per detenuti in espiazione breve e operare una congrua depenalizzazione, oltre che ridimensionare l’impiego delle misure cautelari personali intramurarie, riconducendole ai principi liberali del minor sacrificio possibile e della presunzione di innocenza; PRESO ATTO che nonostante l’emergenza umanitaria in atto imponga un cambio di passo immediato, non si è ancora registrata una chiara e netta presa di posizione del Governo volta a rimediare all’ingravescente fenomeno del sovraffollamento; che l’Unione ribadisce con forza e determinazione il proprio appello al Governo e a tutte le forze parlamentari affinché si possa realizzare, tutti insieme, l’obiettivo di arrestare con efficacia il terribile fenomeno dei suicidi in carcere, con l’assoluta convinzione che “NON C’E’ PIU’ TEMPO”. Tanto premesso DELIBERA nel rispetto del Codice di Autoregolamentazione l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per il giorno 20 marzo 2024 escluso il circondario di Ischia, interessato da un’astensione indetta dall’Associazione forense Isola d’Ischia con delibera del 27 febbraio 2024 per il giorno 18 marzo 2024; CONVOCA i Presidenti delle Camere Penali territoriali e tutti gli iscritti a recarsi in Roma per partecipare alla manifestazione, che si terrà con tutte le associazioni sensibili a tale emergenza e con i rappresentanti della politica favorevoli all’adozione di strumenti immediati, volti alla soluzione della crisi in atto, in Piazza dei Santi Apostoli, in data 20 marzo 2024 alle ore 14.00; DISPONE la trasmissione della presente delibera al Presidente della Repubblica, ai Presidenti della Camera e del Senato, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Giustizia, ai Capi degli Uffici giudiziari. Il Presidente Avv. Francesco Petrelli Il Segretario Avv. Rinaldo Romanelli Le carceri sono gironi infernali che producono rabbia, violenza e recidiva di Claudio Bottan* vocididentro.it, 3 marzo 2024 Chi scrive ha vissuto una lunga detenzione, esperienza devastante che consente però di affrontare il tema del carcere con cognizione di causa: il punto di vista dell’inviato al fronte che racconta ciò che vive da un “osservatorio privilegiato”, alla stregua dell’inviato di guerra. “Com’è il carcere?” mi chiedono spesso gli studenti durante gli incontri a cui partecipo da anni. Venti ore al giorno accatastati in spazi stretti e in condizioni igieniche da terzo mondo, costretti a convivenze forzate che spesso generano violenza. Soprattutto, in cella non si fa niente. Completamente niente, con un tempo che scorre inutilmente, senza significato. Come dovrebbe sentirsi un essere umano che si trova a vivere questa condizione? Basta un soggiorno di pochi mesi per abbrutirsi per sempre accumulando veleno, quello che ben descrive Beppe Battaglia nel libro Processo al carcere di Aristide Donadio. L’effetto è che, così trattato, il detenuto si sentirà vittima del sistema; la revisione critica del comportamento che ne ha causato la colpa passa in secondo piano vanificando così la funzione della pena. La persona ristretta in condizioni disumane e degradanti pensa ossessivamente al male che patisce, all’ingiustizia di cui è vittima, e si ritiene in credito -non in debito- con la società. Poi, quando viene sbattuto in libertà, cosa dovrebbe fare? Ha buttato via il tempo, non ha imparato niente, e si sente inutile. Un disadattato che ha scontato la pena e cammina accanto a noi ma ha un destino segnato: tornare a delinquere. “E quindi, cosa ti ha insegnato il carcere?”. È la domanda più difficile, perché dovrei rispondere che la galera mi ha insegnato solo a sopravvivere alla galera stessa. Ma potrebbe sembrare una lagna da abolizionista. Quel tempo inutile avrei preferito dedicarlo alla riparazione del male che il mio comportamento deviante ha causato alla società, magari prendendomi cura di persone fragili. Invece, in galera ho imparato a preparare un buon caffè con la cremina, so anche fare la colla utilizzando la pasta scotta del carrello del vitto, costruire un coltello partendo dalla bomboletta del gas, giocare a scopa e, all’occorrenza, menare le mani. Il corso di ping-pong ha rappresentato una svolta, tanto quanto quello di informatica con il pc disegnato su un pezzo di cartone: attività utili probabilmente solo a chi sul carcere specula. In compenso ho apprezzato molto il corso di agraria che mi permette di coltivare un orto che rappresenta l’invidia dei vicini di casa. Ma non credo che si tratti di competenze che possano arricchire un curriculum. Quello che sono oggi è frutto di una personale scelta di cambiamento, un doloroso travaglio interiore che -per caso- ha incrociato una serie di coincidenze favorevoli, non certo il risultato della miracolosa redenzione che ci si aspetta dal trattamento rieducativo del carcere. A proposito della funzione rieducativa del carcere. A fingere che tutto vada bene l’ho imparato un sabato mattina che difficilmente scorderò. Mi ero tirato a lucido per dissimulare la sofferenza e avevo preparato la solita bottiglietta con il caffè che i galeotti portano ai colloqui, i dolcetti acquistati (a caro prezzo) al sopravvitto e, in mente, le mille cose da dire. Non avevo però messo in preventivo che quel giorno avrei dovuto fare i conti con una perquisizione fastidiosa. “Abbassa pantaloni e mutante”, - mi ha detto quell’agente che avevo percepito essere particolarmente agitato -. Durante la flessione, faccia al muro, mi è piovuta una scarica di calci al costato, con una violenza immotivata e gratuita che mi ha tolto il respiro. Con la coda dell’occhio vedevo lo scarpone roteare, avvertivo i calci rabbiosi e senza senso, ma non provavo alcun dolore. Volevo solo fare presto per non perdere preziosi minuti di quell’incontro che attendevo da mesi. Ogni relazione affettiva non convenzionale, stando all’arcaico linguaggio burocratese della galera, è inquadrata nella casella “colloquio con terza persona”, quasi a stabilire una sorta di distanza tra ciò che è ritenuto normale e quello che invece è “una concessione” riferita al mantenimento di una relazione affettiva che necessita di autorizzazioni particolari in quanto esula dagli schemi. Gli occhi rossi erano dovuti all’allergia al polline, le lacrime e la rabbia che ingoiavo a fatica durante il colloquio potevano tranquillamente essere emozioni che faticavo a controllare, e non costole fratturate di cui preoccuparsi. Tutto bene, ci vediamo presto. Mi porto dentro tanta rabbia per aver sprecato anni di vita oziando, con un costo pari a 150 euro al giorno che escono dalle tasche dei cittadini, gli stessi che vorrebbero buttare la chiave il più lontano possibile inconsapevoli dell’effetto boomerang. Tutte le pene detentive hanno un termine e, quindi, alla fine è il tasso di recidiva dei reati l’elemento centrale su cui riflettere utilizzando sistemi efficaci e ragionando. non su opinioni, ma solo ed esclusivamente su dati scientifici ed oggettivi, quali i dati statistici forniti dal ministero della Giustizia. Bisogna andarseli a cercare e non sempre è facile. Chi sconta una pena in regime alternativo alla detenzione ha un tasso di recidiva attorno al 19%. Chi sconta tutta la pena in carcere, invece, ha un tasso di recidiva attorno al 68,5%. Non è una differenza da poco. Se buttiamo via la chiave, le probabilità che chi ha commesso un reato lo rifaccia sono tre volte superiori. Le statistiche ci dicono che le revoche delle misure alternative alla detenzione, invece, sono veramente poche: non arrivano al 5%; ciò significa che più del 95% delle persone che scontano la loro condanna fuori dal carcere rispettano le prescrizioni. Chi vorrebbe mettere tutti in galera e lanciare le chiavi potrebbe eccepire che una percentuale di revoca così bassa può esser dovuta all’esiguità dei controlli delle forze dell’ordine più che al rispetto delle prescrizioni della persona in regime alternativo. Non è così. La misura alternativa è un impegno. I controlli ci sono, eccome. Il campanello suona anche più volte durante la stessa notte, e spesso si tratta di forze di Polizia che si alternano senza alcun coordinamento logico. Ma il cittadino comune che ne sa? Questi dati non li conosce perché non vengono divulgati, e la ragione non è dato saperla. *Ex detenuto, vicedirettore della rivista “Voci di dentro” “Stanze dell’amore” in carcere, don Marco Pozza smonta la bufala di Laura San Brunone altovicentinonline.it, 3 marzo 2024 In un momento di confusione mediatica, don Marco Pozza fa luce sulla realtà delle “stanze dell’amore” che si stanno considerando per il carcere “Due Palazzi” di Padova nel quale da oltre dieci anni il prete amico di Papa Francesco opera nella parrocchia interna, smentendo le fake news e i pettegolezzi che hanno distorto la verità dietro questa iniziativa. Con un post su Facebook, il giovane religioso autore di numerosi libri, ha messo in discussione la narrativa popolare, dimostrando come facilmente le ideologie e i preconcetti possano trasformare un’idea nobile in oggetto di scandalo. Don Marco Pozza contro le distorsioni mediatiche - “Le stanze dell’amore non sono i prostriboli e i bordelli: sarebbero stanze nelle quali riservare l’intimità delle persone. Quelle che si amano, che continuano ad amarsi anche ai tempi della galera.” Con queste parole, il parroco ha tagliato corto su ogni equivoco, sottolineando l’importanza dell’affettività anche in contesti estremi come il carcere. La sua voce si eleva contro la corrente di fake news, che da giorni svolazzava indisturbata, alimentando idee false e pregiudizi. La verità sulle “Stanze dell’Amore” - Le cosiddette “stanze dell’amore”, lungi dall’essere luoghi di perdizione come dipinti da alcuni, sono in realtà concepite come spazi dedicati alla privacy e all’intimità dei detenuti con i loro cari. Questa iniziativa nasce in seguito alla sentenza numero 10 del 2024 della Corte Costituzionale, che ha sancito l’illegittimità del divieto di colloqui intimi tra detenuti e familiari, ponendo le basi per una svolta significativa nella gestione dell’affettività in carcere. Nonostante l’opposizione di figure politiche come il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, che lamenta l’assenza di autorizzazioni specifiche, il progetto ha raccolto consensi tra esperti e associazioni, come Ristretti Orizzonti, impegnate nel miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. La lotta contro le Fake News e l’ideologia - Don Marco Pozza non si limita a chiarire i fatti ma va oltre, interrogandosi e interrogando la società su come le ideologie e le fake news riescano a manipolare la realtà, diffondendo pettegolezzi e alimentando pregiudizi. “L’ignoranza è così crassa da tramortirti all’istante” riflette il don, evidenziando come la mancanza di informazione e la propensione a credere alle notizie senza verificarle contribuiscano a distorcere la realtà. Un appello alla riflessione e all’amore - Attraverso il suo intervento, il parroco invita a una riflessione più ampia sull’amore e l’affettività come diritti inalienabili, anche dietro le sbarre. Citando Alda Merini, “non tutti quelli che si affacciano vedono le stesse cose: la veduta dipende dallo sguardo”, ricorda che la visione del mondo è profondamente soggettiva e che l’approccio con cui si sceglie di affrontare le questioni può rivelare molto del nostro interno. L’intervento di don Marco Pozza invita quindi a guardare oltre le apparenze, a sfidare i preconcetti e ad accogliere l’idea che anche in situazioni di grande difficoltà, come la detenzione, l’amore e l’affettività debbano trovare spazio e riconoscimento. “Chiuso al 41 bis, mi vietano di iscrivermi a Nessuno tocchi Caino e ascoltare Radio Radicale” di C.V.* L’Unità, 3 marzo 2024 Un detenuto al 41 bis scrive al deputato di Italia Viva Roberto Giachetti lamentando il fatto che gli viene impedito di iscriversi a Nessuno tocchi Caino, vedere alcuni canali TV nazionali, ascoltare Radio Radicale. Inoltre, denuncia che durante le perquisizioni alla sua cella gli viene imposto di non essere presente. Ci chiediamo. Quali ragioni di sicurezza possono giustificare il divieto di iscriversi a un’associazione come Nessuno tocchi Caino che si batte per l’abolizione della pena di morte nel mondo, per scongiurare la pena “fino alla morte” degli ergastolani ostativi e per i diritti dei detenuti ispirandosi alla più rigorosa nonviolenza pannelliana, allo stato di diritto e ai principi democratici? Quali ragioni preventive possono giustificare il divieto di ascoltare Radio Radicale alla quale sono riconosciuti contributi statali per il “servizio pubblico” che svolge da cinquant’anni con la trasmissione dei lavori parlamentari, delle riunioni del CSM, della Corte costituzionale e di eventi pubblici di partiti e associazioni di ogni ispirazione politica? Roberto Giachetti porrà al Ministro Nordio queste e altre domande sollecitate da un essere umano che si vorrebbe sepolto al 41-bis, ma che è capace di richiamare le istituzioni al rispetto dei sacri principi costituzionali e convenzionali europei, principi che non possono essere sacrificati sull’altare della ragion di Stato in spregio dello stato di diritto. La lettera “Onorevole Roberto Giachetti, non so se si ricorda di me, sono C.V., attualmente detenuto in regime di 41 bis, con fine pena mai, in prigione dal 2003 e al 41 bis dal 2006. Ho avuto modo di conoscerla in una sua precedente visita qui dove mi trovo. Le scrivo perché ho cercato di fare la tessera all’Associazione Nessuno tocchi Caino in modo tale da partecipare e sostenere chi da anni si batte per noi detenuti, ma mi hanno risposto che non è previsto dalla norma, quindi non posso tesserarmi. Tale risposta del DAP e della direzione non corrisponde al vero, infatti non hanno indicato nessuna norma che lo impedisca, mentre l’art. 18 della Costituzione consente a tutti di associarsi liberamente, la Legge 4 agosto 1955 n.848 di ratifica della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo all’art. 11 afferma il diritto di ogni persona alla libertà di associazione e, se leggerà le raccomandazioni dei ministri agli stati Membri sulle Regole Penitenziarie Europee dell’11 gennaio 2006, all’art. 24 punto 11 scrive che sia assicurata la partecipazione ad aspetti della vita pubblica. Invece, pur non essendoci leggi o norme che lo vietino, mi si impedisce di tesserarmi a Nessuno tocchi Caino: le chiedo se può aiutarmi a veder riconosciuto questo diritto a tesserarmi. Poi non è l’unica limitazione che si fa al di fuori delle regole penitenziarie europee dell’11 gennaio 2006, per citarne alcuni, l’art. 24 al punto 10 è previsto che le limitazioni a quotidiani, trasmissioni radio, o tv, possono essere imposte solo da autorità giudiziaria (che in verità vieta di acquistare solo giornali con cronaca locale), noi invece abbiamo limiti sui canali tv nazionali, sulle radio nazionali; pensi che mi si vieta di ascoltare Radio radicale, così come i canali tv come già scritto, non perché un’autorità giudiziaria l’ha deciso, ma in base ad una circolare del DAP che anche se non è un’autorità giudiziaria, fa queste limitazioni al di fuori della Costituzione Italiana (Art.21). Oppure l’art. 54, al punto 8, dove si scrive che il detenuto deve essere presente quando si perquisiscono i loro effetti personali: noi invece veniamo fatti uscire dalla cella e gli agenti hanno così accesso alle lettere che sono in cella, agli atti processuali, ai certificati medici, frugano e manipolano la proprietà privata e noi non possiamo assistere anche se non ci sono i motivi di sicurezza che lo impediscono… ma se vengono i carabinieri dall’esterno, mi dissero che dovevo essere presente alla perquisizione (carcere di Benevento 2005, credo) quindi i carabinieri rispettano le leggi e la penitenziaria non ha regole? Sa, si fa un gran parlare delle regole penitenziarie europee che altri paesi dovrebbero rispettare, giusto, ma anche l’Italia dovrebbe farlo, e io potrei scrivere pagine e pagine di articoli e violazioni delle regole europee in materia di detenzione, ma sono 41 bis e nessuno se ne preoccupa, o almeno molti. Onorevole Roberto può fare qualcosa per farmi fare il tesseramento, o farmi presenziare alla perquisizione in cella che fanno due volte a settimana, o farmi sentire Radio Radicale e altre radio nazionali? In attesa, le porgo i miei saluti e grazie di cuore per il vostro impegno nel difendere i diritti dei detenuti, credo che Marco sarebbe contento di lei e della Bernardini che avete raccolto il suo testimone’. (11 febbraio 2024) *Ergastolano, detenuto al 41bis Autori di reato con disturbi psichici, viaggio nella REMS “più critica d’Italia” di Pietro Barabino e Giovanna Trinchella Il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2024 “Qui arrivano i pazienti meno gestibili”. Tra le 32 Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) distribuite sul territorio italiano, la struttura di Calice al Cornoviglio, inaugurata due anni fa tra i boschi sulle alture dell’entroterra spezzino, si contraddistingue per essere l’unica destinata a pazienti provenienti da altre regioni. Le persone ricoverate e ristrette in questa struttura hanno commesso reati anche gravi contro la persona, ma sono state giudicate non imputabili al momento del fatto a causa della loro condizione di salute mentale. “Un posto un po’ magico, in cima alla collina, circondato da castagni…” nelle parole con cui ci accoglie Alfredo Sbrana, direttore sanitario della struttura. “La più critica delle Rems italiane”, secondo la valutazione che ne aveva dato qualche mese fa Mauro Palma, ex Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà, che negli scorsi mesi le Rems ha potuto visitarle tutte. Che ha registrato il rischio di “riproporre progressivamente logiche di internamento della persona con patologia psichiatrica”. “Ci troviamo di fronte persone che, in alcuni casi, arrivano qui dopo mesi di isolamento in carcere. Poter stare in un luogo come questo, in mezzo alla natura, ha un effetto benefico e contribuisce al percorso terapeutico che queste persone devono affrontare - contestualizza Alfredo Sbrana, psichiatra che ha passato una vita tra reparti di salute mentale e Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) - La sfida più grossa consiste nel fatto che da noi arrivano i pazienti più difficili, le persone meno gestibili dalle altre Rems e dalle carceri. A noi tocca stabilizzarli e accompagnarli verso le strutture di competenza, che possono anche essere strutture di ‘secondo livello’ come comunità terapeutiche. A differenza degli Opg, che era in mano agli agenti di custodia e la dimensione sanitaria era marginale, qui mettiamo al centro la relazione terapeutica e l’aspetto sanitario”. Le Rems, nate dalla riforma che ha portato alla chiusura degli Opg, chiudono il cerchio che in Italia si aprì nel 1978 con la de-istituzionalizzazione e la chiusura dei manicomi civili. La rivoluzione di Franco Basaglia partiva dall’osservazione che prima di essere pazienti sono persone, e come tali vanno rispettate nella loro dignità. “La sfida delle Rems passa attraverso tre concetti chiave: la dignità, la transitorietà e la territorialità - sintetizza Michele Miravalle, ricercatore universitario e coordinatore nazionale dell’osservatorio Antigone sulle condizioni detentive - La dignità dei luoghi e dei livelli di cura era quello che mancava negli Opg ed è quello che è stato restituito ai pazienti. La transitorietà è forse la sfida più difficile, ma più importante: questi non possono essere il punto finale di un percorso, né terapeutico né punitivo”. Il percorso può essere lungo e dipende dalla gravità della patologia e del reato commesso, ma “deve iniziare fin dal primo giorno ad immaginare un ‘dopo la Rems’. Perdere questa sfida del ‘dopo’ significa tradire quella riforma e privare i pazienti ospiti di questi luoghi del futuro e della speranza”. In questo senso, le osservazioni del Garante miravano a mettere in guardia dai rischi di una struttura lontana dai territori di provenienza dei pazienti e molto più simile a un luogo di detenzione che a una struttura di cura. “La Rems, gestita dal consorzio privato Gcm in convenzione con l’Asl 5, dal punto di vista strutturale ce la siamo trovata così” spiega Elisabetta Olivieri, coordinatrice funzionale di Calice al Cornoviglio per conto dell’Asl: “Certi miglioramenti li abbiamo fatti, ma credo che l’aspetto più importante sia quello legato alle attività che riusciamo a fare, il rapporto di fiducia e la relazione che si riesce a istaurare tra operatori e pazienti, che qui comunque non stanno più di 12 mesi, durante i quali recuperano potenzialità e rientrano da condizioni cliniche spesso molto gravi”. Un aspetto sul quale lavorare è proprio il “dopo Rems”: “Le persone con disagio psichico, anche nei casi più gravi, vanno riaccolte dal territorio, in forme che prevedano quando necessario anche diversi livelli di controllo - spiega Miravalle - È più difficile, e complicato di quanto possa essere la costruzione di ‘recinti’ in luoghi sperduti, dove comunque gli operatori si dedicano anima e corpo a queste persone. Ma come società dobbiamo provare ad accogliere questa sfida”. Dal canto loro, operatori e responsabili della Rems di Calice al Cornoviglio allargano le criticità del sistema di presa in carico sui fronti dell’appropriatezza degli invii nella struttura e delle liste d’attesa: “È più facile prescrivere ‘ricovero in Rems’ che valutare attentamente il caso specifico e prendersi la responsabilità di inviare in comunità di secondo livello, prive del livello di custodia che qui è comunque garantito - spiega Patrizia Orcamo, dirigente regionale del settore Salute in ambito penale - Qui è capitato più volte venissero persone che non dovrebbero starci”. Anche per snellire le liste d’attesa, gli addetti ai lavori insistono sul fatto che non sia necessario aumentare i posti (“anzi, sarebbe controproducente”), ma fare più attenzione al momento delle perizie: “In un anno e mezzo abbiamo accolto 39 pazienti, di questi ne abbiamo già dimessi 22, dei quali buona parte non sarebbero neanche dovuti passare di qui”. Confermano Sbrana e Olivieri: “Non sarebbe possibile raggiungere risultati con numeri più alti di quelli che abbiamo, se ci mandano il 21esimo paziente lo rimandiamo indietro, perché la relazione terapeutica è possibile solo con piccoli numeri e adeguato rapporto tra operatori e ricoverati. I posti nelle Rems è giusto siano pochi perché dovrebbero essere riservati come extrema ratio, per i casi psichiatrici più gravi, che per fortuna non sono moltissimi rispetto ai molti che hanno prevalentemente problemi legati all’abuso di sostanze stupefacenti”. Rispetto alla mancata risposta alle osservazioni del Garante, che andavano oltre gli aspetti teorici per suggerire una lista di azioni concrete che potrebbero migliorare il regolamento verso un maggiore il rispetto dei diritti dei pazienti, i responsabili della Rems affermano di non aver ricevuto il documento in tempo utile per rispondere puntualmente, ma sono disponibili ad accogliere il nuovo Garante per ragionare insieme “sull’ulteriore miglioramento della struttura”. Dura presa di posizione dell’Anm contro i test psicologici per i magistrati di Valentina Stella Il Dubbio, 3 marzo 2024 Il presidente Santalucia parla di “dileggio” e “vilipendio” della magistratura. Magistratura contro il concorso straordinario in magistratura riservato agli avvocati con almeno dieci anni di esperienza o ai magistrati onorari e contro i test psicoattitudinali per entrare in funzione: è quanto emerso oggi durante il ‘parlamentino’ dell’Anm in corso a Roma. Sul primo punto, l’ipotesi di un reclutamento straordinario dei magistrati “è inaccettabile, non si può pensare di rendere il concorso un non concorso” con uno “svilimento dei giovani” che aspirano a entrare in magistratura, ha detto il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, in un punto stampa a margine del comitato direttivo centrale. L’Anm aveva annunciato anche uno sciopero (contro la quale si è espresso il gruppo dei Cento101) per fronteggiare questa previsione: “la nostra non è una chiusura di casta, vogliamo un concorso aperto a tutti ma che non mortifichi in giovani laureati che verrebbero penalizzati. Diciamo però che una semplificazione della prova ridicolizza il senso della concorsualità. Il concorso diventerebbe un finto concorso”, rispetto a quanto previsto dall’articolo 106 della Costituzione. “Come si può pensare di immettere in magistratura 750 risorse con un concorso così ridicolo, almeno da come ci è stato prospettato? Ci sarebbe un problema di dequalificazione, di appannamento della qualità tecnico professionale. Sarebbe eroso ogni elemento di legittimazione davanti ai cittadini” si è chiesto Santalucia. “Se davvero l’obiettivo è quello di facilitare il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr - ha proseguito Santalucia - non si capisce perché modificare la modalità di concorso che potrebbe comportare ricorsi al Tar. E questo ingolferebbe ancora di più la procedura”. La proposta del Segretario dell’Anm Salvatore Casciaro: “accelerare i concorsi in atto, aumentare, raddoppiare o triplicare i commissari, utilizzando i magistrati in pensione non oltre i due anni, ridurre il tirocinio, eliminare la settimana bianca nella correzione dei compiti, dare la possibilità dell’esonero ai professori”. Comunque, mentre è in corso l’assemblea, circola la nuova bozza del dl sul Pnrr e la previsione di modificare il concorso sembrerebbe definitamente scongiurata, come si evince leggendo l’articolo 22 del Capo VI (Disposizioni urgenti in materia di giustizia - Disposizioni urgenti in materia di personale) dove si parla solo del personale amministrativo. Per quanto concerne i test psicoattitudinali per i magistrati, si tratta di “un effetto di dileggio dell’ordine giudiziario”, ha ribadito Santalucia che polemicamente ha sottolineato, anche in merito ad articoli giornalistici che ipotizzavano che il 50% dei magistrati non supererebbero il test, “vorremmo capire cos’ha in mente il ministro e il governo, ci confronteremo. Alla luce dell’esperienza francese alle spalle del tutto fallimentare, quello che abbiamo oggi è solo un vilipendio” della magistratura. Il riferimento è quanto riportato in un articolo di Questione Giustizia dal titolo ‘L’Ecole nationale de la magistrature, attraverso mezzo secolo di storia: risultati, sfide, prospettive’ dove si leggeva: “I test psicologici, da essa introdotti, si sono connotati per totale mancanza di serietà, potenzialità di sviamento, inutilità e pericolosità, avendo la pratica dimostrato una certa tendenza ad uniformare le personalità, che si manifesta con domande molto invadenti sulla vita privata dei richiedenti e giudizi affrettati e stereotipati. Di certo, detti test non meritano di avere spazio nel sistema di reclutamento. Sebbene, a quanto pare, la commissione non ne tenga conto, essi sono percepiti come disagi illegittimi imposti ai candidati già notevolmente stressati dalle difficoltà di un concorso iper selettivo. I guasti così prodotti, dunque, rimangono. Questa inadeguatezza è ancor più evidente laddove si consideri che la prova orale, come attuata oggi, davanti a una giuria più aperta rispetto al passato (comprendente, in particolare, uno psicologo), si concentra principalmente sul percorso del candidato, le sue motivazioni, la sua personalità e le sue esperienze, ciò che appare ampiamente sufficiente ad individuare i candidati non idonei all’esercizio della professione di magistrato. Nella lettera sopra citata il SM ha insistito sulla necessità della loro abolizione”. Santalucia ha continuato: “Quello che noi diciamo è: ci avete provato nel 2005 con la riforma Castelli ma poi la strada fu abbandonata perchè era difficile applicarli. Chi lo stabilisce il modello di magistrato? Dobbiamo essere più empatici, meno empatici, simpatici o antipatitici? Io non so cosa abbiano in mente il governo e il ministro Nordio, non credo che pensino a screening psichiatrici, non credo pensino davvero a screening a tappeto sulla sanità mentale. Ho letto l’articolo sul testo Minnesota, credo sia risibile. L’effetto che abbiamo oggi è solo un effetto di dileggio dell’ordine giudiziario. Vogliamo capire cosa ha in mente il ministro, abbiamo alle spalle un’esperienza francese del tutto fallimentare, anche la dottrina costituzionale ha parlato di pericolo di omogeneizzazione delle menti, perchè poi vediamo chi sarà il giudice della mia psiche: una commissione nominata da un consiglio o un medico? Bisognerà capire ad esempio quale sia l’incidenza del giudizio del medico o dello psicologo su una prova scritta eccellente se mi ha indicato come soggetto poco empatico, simpatico...”. Su questo punto il collegamento è al parere che diede la Società Psicoanalitica Italiana sul disegno di legge Castelli: “Noi esprimiamola la più decisa contrarietà, disapprovazione e preoccupazione per quanto previsto dal succitato articolo. La nostra critica è soprattutto ‘tecnica’. Il Disegno di legge sembra infatti proporre una forma di valutazione predittiva psicologico-psichiatrica del futuro magistrato, nella presupposizione di una capacità ‘scientifica’ e tecnica di discriminare, attraverso test e colloqui, la specifica ‘idoneità psicoattitudinale’ degli aspiranti magistrati, addirittura in relazione alle specifiche funzioni indicate nella domanda di ammissione. E’ doveroso chiarire che nessun tecnico, anche soltanto minimamente competente in materia, saprebbe in coscienza avallare una simile supposizione o presunzione”. Il presidente del ‘sindacato’ delle toghe ha poi concluso: “Tutti i gruppi associativi si sono espressi sui problemi delle carceri. Questo argomento meriterebbe più attenzione rispetto a quello dei test psico-attitudinali”. Anche Casciaro ha evidenziato che “l’effetto mediatico è stato quello del discredito della magistratura e la sua delegittimazione. Nessuna categoria ha controlli sull’equilibrio come la nostra”. Separazione delle carriere - Ieri il vice ministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto aveva detto: “È cambiato il rapporto tra magistratura e politica. Siamo lontani anni luce dai tempi in cui Csm e Anm cercavano di condizionare le logiche parlamentari. Ora, la Costituzione ha recuperato finalmente il suo peso: è stato ristabilito fattivamente il principio secondo cui la magistratura è soggetta soltanto alla legge e la separazione dei poteri non è più solo un principio”. Abbiamo chiesto un commento al presidente Santalucia: “La separazione delle carriere è per noi una cattiva riforma. La categoria dei magistrati tradirebbe la sua funzione se stessa zitta perché si tratta di modificare il titolo Iv della Costituzione che riguarda la magistratura. Non è per difesa corporativa. L’unico scopo per noi, come tecnici, è ampliare gli argomenti di discussione: non vogliamo interdire nulla, siamo rispettosi della sovranità del Parlamento ma quando ci si accosta a una riforma costituzionale bisogna avere massima consapevolezza della posta in gioco. Noi mettiamo in campo argomenti, siamo fiduciosi in una democrazia che discute, noi vogliamo discutere, non vogliamo deliberare”. Nuove nomine - Durante il Cdc, Enrico Infante, attraverso il voto come richiesto da Md e Area a differenza del metodo dell’acclamazione richiesto da Mi e Unicost , è stato eletto a maggioranza nuovo membro della Giunta esecutiva al posto della collega di Magistratura Indipendente Maria Cristina Ribera, sostituita invece in Cdc da Salvatore Sannino. Mentre Giovanni Fava ha preso il posto del dimissionario dal Cdc Giuliano Castiglia. Enzo Tortora doveva essere il venditore di morte della camorra: anatomia dell’errore giudiziario di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 3 marzo 2024 Tecnicamente parlando, la vicenda giudiziaria di Enzo Tortora, assolto dalla Corte di Appello e poi definitivamente in Cassazione, non fu un errore giudiziario, che è solo quello riconosciuto dalla revisione di una sentenza definitiva di condanna. E tuttavia appare assai difficile censurare l’uso di quella locuzione -errore giudiziario- per descrivere quella drammatica vicenda. La ragione è tragicamente semplice: nel nostro Paese, già le sole indagini, rafforzate dall’arresto dell’indagato e dall’inesistente filtraggio della finta udienza preliminare, per non dire poi se validate dalla sentenza di primo grado, hanno la forza definitiva del “giudicato”. Le vittime dell’errore non errore - È un dato sociale, culturale e soprattutto mediatico ormai acquisito, anche a cagione della irragionevole durata delle indagini e del processo, che rende incomparabilmente più forte l’impatto dell’Accusa sulla eventuale ma assai tardiva sua smentita da parte del Giudice. Perciò, affranchiamo senza remore questo termine dalla sua angusta gabbia tecnica, resa peraltro ormai quasi inviolabile dalla eccezionalità delle sentenze di revisione. I numeri parlano chiaro, con il 50% di assoluzioni in primo grado, più una ulteriore e consistente percentuale di ulteriori riforme in secondo grado, mentre nel frattempo, vita, reputazione e patrimonio delle vittime dell’”errore-non errore” giudiziario sono già state irreparabilmente pregiudicate, quando non distrutte. Qualità scarsa delle indagini - C’è una spiegazione in tutto ciò? Beh, l’esperienza giudiziaria ci aiuta. Qualità prevalentemente molto scarsa delle indagini, a cominciare dal grado di preparazione media della Polizia giudiziaria; prova scientifica inficiata da consulenti tecnici delle Procure convinti che il proprio compito sia quello di sostenere l’ipotesi accusatoria piuttosto che verificarne preventivamente e severamente la fondatezza; carichi di lavoro insostenibili che pregiudicano il vaglio critico del PM sull’operato della Polizia Giudiziaria, e del GIP/GUP su quello del PM. Ma la più inestirpabile delle cause di questo disastro è la tetragona indisponibilità dei Pubblici Ministeri a riconoscere l’errore, cioè la infondatezza della originaria ipotesi accusatoria. Come se fosse una questione di prestigio professionale, si avvinghiano a quella con tutte le proprie forze, e solo eccezionalmente sono disposti al ripensamento. Ecco perché il caso Tortora, che contiene -come se fosse stato pensato in un laboratorio- tutte queste patologie, ed innanzitutto quest’ultima, è una parabola senza tempo dei mali della nostra giustizia. Enzo “doveva” essere il “venditore di morte” affiliato alla camorra che i PP.MM avevano voluto in ceppi agli occhi del mondo. Quando la difesa riuscì dopo poche settimane a documentare le ragioni che avevano mosso un calunniatore psicopatico seriale ad accusarlo, era -come dire- troppo tardi. Tutti gli sforzi investigativi furono volti a raccogliere elementi che supportassero quella assurda accusa. Ed ecco l’agenda dell’amante di un boss, dove è annotato un nome che fu letto voluttuosamente per un paio di mesi come quello di Enzo Tortora, e invece era di un tale Enzo Tortòna, commerciante casertano. Fu tale il disappunto che ancora in dibattimento il Presidente del Tribunale chiedeva severamente al malcapitato di dare certezza sulla titolarità di quella utenza, ricevendo dal teste una risposta consegnata alla leggenda (“Presidè, facit’ o nummero, e vi rispondo”). E poi, l’incredibile grand reunion di “pentiti” nella caserma Pastrengo; e molto altro. Voi ancora pensate che quella fu una clamorosa, eccezionale tragedia? Beh, vi sbagliate. E più presto lo capiremo tutti, meglio sarà. Strage di Erba, i nuovi indizi per la difesa di Rosa e Olindo scovati dagli studenti di Padova di Giampaolo Chavan Corriere della Sera, 3 marzo 2024 Giuseppe Sartori, docente dell’università di Padova, ha guidato un team di allievi che ha esaminato tutti i colloqui registrati: “Ascolto orientato e suggerimenti. Imputati innocenti? La sentenza spetta ai giudici”. “Il super testimone Mario Frigerio aveva detto delle cose molto utili per dimostrare l’innocenza di Olindo Romano e Rosa Bazzi nella strage di Erba, ma quelle trascrizioni furono classificate dagli investigatori come incomprensibili. Queste affermazioni ora le abbiamo riportate alla luce grazie al lavoro effettuato da una settantina di studenti in due anni nel Master che ho organizzato in facoltà”. Il professore Giuseppe Sartori, docente di neuropsicologia e neuroscienze forense all’università di Padova, anticipa subito uno degli assi di briscola che la difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi giocherà nell’aula del processo davanti alla Corte d’appello di Brescia per la richiesta di revisione del processo, avanzata dal procuratore generale di Milano, Cuno Tarfusser, in relazione all’omicidio di quattro persone, avvenuto ad Erba in provincia di Como, l’11 dicembre 2006. “Non sarò presente alla prima udienza perché è sola interlocutoria - afferma il perito nominato dalla difesa di Olindo e Rosa, insieme ad un’altra quindicina di colleghi - ma sarà presentata la relazione del master sulle analisi delle intercettazioni, svolte durante le indagini per la mattanza di Erba”. Il testo e i limiti di trascrizione - Il professore Sartori ha, infatti, guidato gli studenti che hanno esaminato tutti i colloqui registrati e finiti nel fascicolo d’indagine a carico dei coniugi condannati in via definitiva all’ergastolo con l’accusa di aver ucciso il piccolo Youssef Marzouk, sua madre Raffaella Castagna, la nonna Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. “È stato un lavoro gigantesco - dice ancora Sartori - con una documentazione di mille pagine”. All’origine di questa rivisitazione di tutte le intercettazioni del processo “c’è il progresso delle tecniche scientifiche per ascoltare i colloqui registrati tra gli indagati dal 2007 ad oggi oltre che gli interrogatori”. Nel caso della strage di Erba, “ci troviamo di fronte ad un parlato “degradato”, che significa che si capisce poco”, aggiunge. “C’è poi l’ipotesi in campo che influenza tantissimo ciò che viene sentito”. La conseguenza è che “il decodificatore, ovvero chi intercetta, costruisce la verità sulla base delle accuse rivolte a chi è sotto inchiesta. Il trascrittore non deve avere, quindi, una conoscenza approfondita del tema investigativo”. Il super testimone e i suggerimenti” - La metodologia del master universitario, aggiunge Sartori, “si è fondata su trascrittori neutri”. Ma si è usato poi anche un altro metro: “Le prove nel processo devono avere il carattere della intersoggettività e cioè della concordanza della stragrande maggioranza dei valutatori”. Con queste impostazioni, “abbiamo trovato tantissime cose interessanti” rivela il docente. “Un esempio? Quando gli investigatori suggerivano al super testimone Mario Frigerio il nome di Olindo, lui, dal suo letto d’ospedale, si è messo a piangere e ha iniziato a dire e chiedersi più o meno, come si fa a dire? Come si fa a decidere?”. In realtà, i nuovi risvolti, raccolti dalla difesa, parlano di un Frigerio titubante che “continuava a descrivere l’aggressore come uno sconosciuto”. Ad un certo punto, il super testimone “fa il nome di Olindo ma lo pronuncia dopo i continui suggerimenti di chi lo sta interrogando anche se parla di un certo Ottolino che non si sa chi sia. Gli investigatori interpretano quel nome come quello di Olindo”. Ma la versione di Frigerio non sta in piedi “perché Frigerio aveva parlato fino a quel momento di un aggressore con la pelle olivastra, alto, forte con l’attaccatura dei capelli bassa>. Una descrizione che non sembra coincidere con chi si trova in cella da 18 anni: “Olindo è stempiato, bianco, più basso di Frigerio”. Il professore Sartori, però, non si sbilancia sull’innocenza di Olindo e Rosa: “Sono convinto che le nuove prove non permettono di rifare quelle argomentazioni che sono servite per condannare Olindo e Rosa”. Ma l’ultima parola spetta ai giudici, chiude il docente dell’Università di Padova, “e non sono in grado di dire se avranno altre ragioni che saranno più valide rispetto a quelle avanzate dalla difesa”. “Deficit mentali e nuove frasi: ecco perché Rosa e Olindo non sono due assassini” di Giampaolo Chavan Corriere del Veneto, 3 marzo 2024 Intervista a Giuseppe Sartori, il professore del Bo che firma la perizia dei difensori. “Rosa Bazzi ha una disabilità intellettiva, un ritardo mentale che rappresenta una prova nuova, mentre Olindo Romano ha un disturbo di personalità dipendente: fa di tutto per salvare la moglie. Lui, cognitivamente, è nella media inferiore”. Chi parla è Giuseppe Sartori, professore di neuropsicologia e psicopatologia forense all’università Bo di Padova. Ha coordinato la perizia della difesa su incarico dei legali della coppia che si trova in carcere dal gennaio del 2007 con l’accusa di aver ucciso il piccolo Youssef Marzouk, sua madre Raffaella Castagna, la nonna Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. La strage si verificò l’11 dicembre 2006 a Erba in provincia di Como. L’enorme lavoro, preparato insieme ad una quindicina di colleghi e una settantina di studenti del Master diretti dallo stesso docente padovano, è ruotato sulle confessioni e sulle valutazioni cliniche dei due condannati in via definitiva all’ergastolo e sui deficit psicologici manifestati dal super testimone Mario Frigerio. Professore, che conseguenze può avere la disabilità intellettiva di Rosa Bazzi nella revisione del processo? “È affetta da ritardo mentale lieve che determina un’inevitabile ricaduta sulle facoltà cognitive come la memoria, l’attenzione e l’organizzazione e collocazione logico-temporale degli eventi”. Quindi? “Si tratta di limitazioni che rendono Rosa incapace di attuare una complessa pianificazione quale si è determinata nella strage di Erba. Era incapace della sua esecuzione, della fuga, come è altrettanto incapace di reggere la parte dell’innocente per quasi un mese”. E Olindo Romano? “Oltre al disturbo di personalità, ha un’altra caratteristica: crede a tutte le sciocchezze che gli vengono dette. Abbiamo fatto un test di “creduloneria” ed è risultato che lui è facilmente suggestionabile. Ciò lo rende particolarmente vulnerabile agli stimoli esterni come, per esempio alle promesse degli investigatori fatte durante gli interrogatori”. Marito e moglie, però, hanno confessato di essere gli autori della strage di Erba... “Olindo e Rosa affermano numerosissime volte di non ricordare: Olindo colleziona centinaia fra “non lo so”, “non mi ricordo” “mi sembra”, “questo adesso mi sfugge” non appena i pubblici ministeri chiedono dettagli in merito a qualsiasi tema della strage”. Ma, evidentemente, hanno fatto qualche ammissione se sono state considerate attendibili fino ai giudici della Cassazione... “Emerge chiaramente quanto le dichiarazioni fossero in balia di specifiche domande suggestive. Quelle che vengono definite confessioni sono, in realtà, una serie di “sì” a suggerimenti sotto forma di domande chiuse formulate da chi li interrogava. Le confessioni non contengono nessuna informazione che non fosse già nota agli inquirenti. Tutte le informazioni fornite dai due coniugi erano di pubblico dominio. E ci sono anche le intercettazioni ambientali raccolte nella loro abitazione e in auto.questi sono elementi nuovi che confermano il mancato coinvolgimento dei coniugi. Rosa e Olindo si interrogano più volte su chi possa essere l’autore, commentano le notizie sui giornali e in TV e quando vengono a sapere che Frigerio è sopravvissuto si augurano che si riprenda presto e sperano che l’uomo possa collaborare nell’identificare i responsabili”. E anche sul super testimone si è concentrata l’attenzione della difesa... “Mario Frigerio aveva detto delle parole che scagionavano Rosa e Olindo, ma che all’epoca furono classificate come incomprensibili. Le abbiamo riportate alla luce grazie al lavoro che hanno fatto gli studenti”. Ma cosa dice Frigerio di così importante? “All’inizio aveva parlato di un aggressore con la pelle olivastra, alto, forte con l’attaccatura dei capelli bassa mentre Olindo è stempiato, bianco e più basso di Frigerio”. Poi, però, cambia versione... “La progressione del ricordo di Mario Frigerio, che passa da un volto sconosciuto a uno conosciuto (Olindo) è un fenomeno scientificamente impossibile. Non esiste la possibilità di sopprimere volontariamente il riconoscimento automatico di un volto familiare. Il mancato riconoscimento di Olindo dura fino al 2 gennaio 2007, ossia a 20 giorni dalla mattanza”. Per concludere, professore, lei ritiene che Olindo e Rosa siano innocenti? “Sono convinto che le nuove prove non permettono di potersi avvalere delle argomentazioni che sono servite per condannare Olindo e Rosa. Non sono in grado di dire, però, se i giudici della Corte di appello di Brescia avranno ragioni più valide rispetto a chi ha chiesto la revisione del processo”. “Domani” sotto attacco dei pm. Ma la procura smentisce l’esistenza di “dossieraggi” di Federico Marconi Il Domani, 3 marzo 2024 Solidarietà da Usigrai, Fnsi e Rete No Bavaglio. “Notizie vere e verificate, nessun complotto”. Nei documenti della procura non esiste il termine “dossieraggio”, un’invenzione mediatica. Una centrale di spionaggio. Politici e vip spiati. Insomma, una fabbrica di dossier. Per i giornali governativi e non la sentenza è già scritta, senza neppure aver letto le carte dell’indagine della procura di Perugia in cui sono indagati Giovanni Tizian (che cofirma questo articolo), Nello Trocchia e Stefano Vergine. In pratica quasi tutto il pool delle inchieste di Domani, accusati di accesso abusivo a banche dati e rivelazione di segreto, in concorso con il finanziere Pasquale Striano, che i pm hanno indagato anche per altri episodi di accesso abusivo quando era a capo del gruppo “Sos” interno alla procura nazionale antimafia. Con lui è indagato anche Antonio Laudati, il magistrato che dirigeva quell’ufficio in cui l’ufficiale della guardia di finanza operava. A loro sono contestati svariati accessi: la loro difesa è che rientrava tra i compiti nell’attività del gruppo Sos, cioè la squadra investigativa che si occupava di analizzare migliaia di segnalazioni di operazioni sospette ricevute dall’antiriciclaggio di Banca d’Italia. Peccato però per i giornali che titolavano sulla fantomatica centrale del dossieraggio: nel tardo pomeriggio di sabato 2 marzo l’Ansa ha pubblicato una smentita della procura, che “esclude il dossieraggio”, non c’è alcuna “prova che siano stati realizzati dossier su personalità delle istituzioni o politici”. Inoltre aggiunge: “Una sorta di ricerca a strascico che Striano avrebbe compiuto spesso non trovando alcunché”. In tutto gli indagati sono 16, ognuno per vicende slegate da quelle di Domani. Gli accessi contestati ai nostri giornalisti sono oltre 300, che sarebbero stati effettuati da Striano dal 2018 al 2022. L’indagine è nata dalla denuncia di Guido Crosetto dopo che Domani aveva pubblicato gli scoop sulle sue consulenze milionarie ricevute dall’industria degli armamenti fino al giorno prima di diventare ministro della Difesa. Conflitto di interessi palese, eppure invece di dimettersi o almeno spiegare, ha chiesto alla procura di Roma di individuare le fonti dei giornalisti. Un’anomalia, che i pm hanno assecondato. Poi l’indagine è stata inviata a Perugia per il coinvolgimento di un magistrato, cioè Laudati. Risultato: giornalisti di Domani indagati. Colpevoli di aver pubblicato notizie vere, documentate, verificate, che in alcuni casi hanno contribuito all’avvio di inchieste su finanziamenti illeciti ai partiti e ruberie di fondi pubblici. “Siamo di fronte a un fatto senza precedenti”, è la denuncia di Vittorio Di Trapani, presidente della Federazione nazionale della stampa, “una indagine su tre giornalisti che rischia di trasformarsi in una indagine sul giornalismo d’inchiesta. Ancora una volta si parla di chi denuncia e non delle notizie, dei fatti, che vengono denunciati. Un ribaltamento utile solo al potere politico. E anche chi indaga sa che tutto questo finirà nel nulla: la Cedu, la Corte europea per i diritti dell’uomo, ha già sentenziato più volte che le fonti dei giornalisti non si possono toccare, e che l’unico limite al lavoro dei giornalisti è l’interesse pubblico a sapere”. Anche lo scrittore Roberto Saviano ha espresso solidarietà nei confronti della redazione di Domani. “Dossieraggio è adoperare notizie vere o false a fini ricattatori”, ha scritto il giornalista Gad Lerner, i giornalisti di Domani “invece hanno verificato e pubblicato solo scomode verità. E allora si chiama libertà di stampa, diritto costituzionale esercitabile anche se disturba il potere”. È intervenuta anche la Rete NoBavaglio-Liberi di essere informati: “Un precedente pericoloso, che rischia di trasformare i giornalisti d’inchiesta in presunti violatori di segreti, invece che guardiani dell’informazione. Un monito per l’intera categoria dei giornalisti. È importante sottolineare che le informazioni divulgate erano vere e di interesse pubblico, e non documenti manipolati o fabbricati”. “Solidarietà e vicinanza ai colleghi del quotidiano Domani finiti sotto inchiesta a Perugia semplicemente per aver fatto il loro lavoro di giornalisti di inchiesta”, è la nota dell’esecutivo Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai: “Viene contestato non di aver scritto falsità o di aver diffamato qualcuno, ma di aver realizzato inchieste giornalistiche con carte vere ottenute da fonti giudiziarie e per questo rischiano fino 5 anni di carcere. Un fatto sconcertante in un paese occidentale, ancora più inquietante se si pensa che l’inchiesta è partita dopo l’esposto del ministro della difesa Crosetto. L’Usigrai è al fianco della Fnsi per tutte le iniziative che vorrà intraprendere a tutela dei colleghi”. Ma torniamo all’inchiesta. La procura ha escluso il dossieraggio. Infatti nelle carte dell’accusa ai cronisti non c’è traccia del termine “dossieraggio”. Né alcuna ipotesi di “centrali di spionaggio”. Eppure i titoli dei giornali hanno questo tenore: “Vip e politici spiati, la fabbrica dei dossier, ricatti”. Nulla di tutto questo: il reato più grave contestato è l’abuso d’ufficio, al finanziere e al magistrato. Se ci fosse una centrale di spionaggio occulta con mire eversive la procura avrebbe contestato l’associazione per delinquere. Se ci fossero stati favori in cambio di documenti, i giornalisti dovrebbero fare i conti con accuse di corruzione. Invece l’ accusa è quella di aver ottenuto documenti da una fonte giudiziaria privilegiata e di averli pubblicato notizie vere. Per questo - secondo le reazioni di un pezzo della categoria “l’inchiesta di Perugia è un attacco frontale al giornalismo di inchiesta”. Non è la prima volta che Domani affronta il tentativo di delegittimazione da parte della destra e delle procure: dai carabinieri in redazione a caccia di articoli su richiesta del sottosegretario Claudio Durigon al rinvio a giudizio del direttore Emiliano Fittipaldi reo di aver pubblicato un verbale d’interrogatorio di Domenico Arcuri in cui veniva nominata Giorgia Meloni, fino alle richieste di denaro di lobbisti, politici e aziende di stato con diffide a raffica. L’andazzo non riguarda solo Domani. Prima di Crosetto era stato l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi ha dare il via alla caccia alle fonti: lo sa bene Report, la trasmissione di Sigfrido Ranucci, al quale la procura di Roma ha scandagliato i tabulati telefonici per individuare la fonte. Denunce e diffide. Succede a chiunque faccia giornalismo investigativo. Dalla testata Irpimedia al piccolo quotidiano L’Immediato, in Puglia. Tutti sotto attacco nell’Italia di Meloni. Sentenza già scritta a Firenze, è scontro tra toghe e avvocati di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 3 marzo 2024 Dopo la “scoperta” del legale che ha trovato il dispositivo già pronto prima dell’udienza, il clima si fa sempre più teso negli uffici giudiziari. Clima teso negli uffici giudiziari di Firenze. Il motivo è legato alla vicenda che ha interessato qualche settimana fa l’avvocato Filippo Viggiano. Il 14 febbraio il professionista del Foro fiorentino nel visionare, in occasione di una udienza, il fascicolo del dibattimento ha rinvenuto una bozza di dispositivo (una “copia informe” datata 18 ottobre 2023) nella quale risultava la condanna del proprio assistito, un cittadino di origine marocchina. Da qui la ricusazione dei magistrati del collegio giudicante. La singolare scoperta da parte dell’avvocato Viggiano e la conseguente segnalazione al Coa ha suscitato la reazione della Camera penale di Firenze. La bozza di dispositivo, si legge in una nota dei penalisti “è sfuggita dalle mani di qualcuno e solo il caso l’ha fatto rinvenire”. “Il fatto - aggiunge la Camera penale - è oggettivamente grave e reca con sé una serie di considerazioni che, ormai, da troppo tempo, dimorano nella testa degli avvocati. Dalle decisioni giudiziali dipendono le vite delle persone; decisioni così difficili, così complesse e talvolta anche così umane da dover essere assunte, necessariamente dopo lunghe, serie e anche dolorose riflessioni. Quanto accaduto svilisce totalmente non soltanto la regola giuridica della immediatezza della decisione, ma l’essenza stessa della fiducia verso la magistratura, che, con queste evidenze, riesce a far decadere ogni forma di credibilità verso le decisioni giuste”. Il Coa di Firenze, presieduto da Sergio Paparo, con due delibere - del 21 e del 28 febbraio scorsi - ha segnalato quanto accaduto al presidente della Corte d’appello di Firenze e alla presidente del Tribunale, Marilena Rizzo. Nella delibera del 28 febbraio (la n. 6) il Coa ha rilevato che “l’autorizzazione da parte del pm d’udienza all’avvocato Viggiano per la consultazione del fascicolo denota la correttezza del comportamento tenuto dal difensore” e “che è un dato di fatto che all’interno del fascicolo processuale della vicenda oggetto della segnalazione fosse presente un dispositivo di sentenza datato 18.10.2023, redatto non in forma di mero appunto”. Inoltre, l’Ordine degli avvocati ha rilevato, in riferimento alla circostanza della presenza di un dispositivo di sentenza, che la valutazione della eventuale illiceità “compete esclusivamente agli organi deputati all’esercizio della funzione ispettiva e disciplinare ai quali la segnalazione del Consiglio dell’Ordine del 22.02.2024 è stata rimessa da parte del presidente del Tribunale”. Infine, il Coa di Firenze auspica che “gli organi titolari del potere ispettivo e disciplinare assumano quanto prima le determinazioni di loro competenza su una vicenda che desta comprensibili perplessità e preoccupazione circa il rispetto sostanziale, e non meramente formale, del ruolo essenziale della difesa nel processo penale”. In merito alle posizioni della magistratura, la presidente del Tribunale di Firenze ha autorizzato la richiesta di astensione del collegio della seconda sezione penale, richiedendo una relazione scritta alla presidente del stesso collegio, Anna Favi, che è stata redatta e trasmessa poco dopo. Nel documento, come evidenzia la presidente del Tribunale di Firenze nell’interlocuzione con il presidente del Coa, “non risultano violazioni né a carico della presidente del collegio né del collegio giudicante, mentre non altrettanto sembra potersi ritenere avuto riguardo alla condotta dell’avvocato Viggiano, che ha visionato e fotografato il contenuto di degli appunti inseriti nel fascicolo cartaceo lasciato momentaneamente sullo scranno nell’imminenza dell’udienza, assenti i cancellieri e i giudici, e quindi senza autorizzazione (il pubblico ministero, non essendo titolare del fascicolo, certamente non era abilitato ad esprimersi al riguardo)”. La replica dell’avvocato Viggiano non si è fatta attendere. “Vorrei ricordare a giudici tanto attenti ai profili di competenza autorizzativa - afferma - che l’art. 470, comma 1, del codice di procedura penale attribuisce al pubblico ministero la disciplina dell’udienza in assenza del giudice. Quindi il soggetto a cui mi sono riferito è quello correttamente individuato. Aggiungo, per completezza, che mi sarei rivolto al pubblico ministero anche in presenza del cancelliere parendomi doveroso fare riferimento al titolare del potere di disciplina dell’udienza. Oppure, opinando diversamente, qualcuno postula che al permesso del pubblico ministero, alter ego del giudice in quel momento, il cancelliere potesse sottrarsi se in disaccordo? Mi pare che i tratti grotteschi della vicenda non abbiano bisogno essere moltiplicati sine necessitate tanta è, già ad oggi, l’abbondanza che li caratterizza”. Viggiano si sofferma su un altro particolare dell’udienza del 14 febbraio scorso: “Si fa riferimento ad un plico spillato; ebbene delle due l’una o si ritiene che vi fosse una sorta di busta chiusa, plico spillato appunto, che avrei aperto e allora, molto semplicemente, la circostanza è destituita del benché minimo fondamento, oppure si intende che ci fosse qualche spilla o graffetta attaccata alla copertina allegata dalla dottoressa Favi e questo non lo ricordo e comunque non posso escluderlo. Invece escludo, e nel modo più categorico, di aver posto in essere un’azione di ricerca più incisiva del mero sfogliare. Trovato l’atto ho appoggiato il fascicolo e ho fotografato a scopo, per così dire, cautelativo nei riguardi degli interessi del mio assistito”. Sulla vicenda è intervenuta anche l’Associazione italiana giovani avvocati (Aiga). “Da quanto si apprende - è scritto in una nota -, un avvocato ha rinvenuto all’interno del fascicolo processuale il dispositivo della sentenza già predisposto, con tanto di condanna già determinata prima ancora dello svolgimento dell’udienza di discussione finale. È per vicende come questa che i cittadini hanno sempre meno fiducia nella giustizia italiana, di ogni giurisdizione e ad ogni livello. Non può passare sotto silenzio o nascondersi dietro le sterili giustificazioni della magistratura fiorentina un simile episodio, radicalmente contrario ai precetti costituzionali sul giusto ed equo processo, oltreché ai fondamenti più basilari del processo penale. L’Aiga chiede con forza che sulla questione si esprima il Consiglio superiore della magistratura, assumendo i dovuti provvedimenti, anche disciplinari, nei confronti del giudice titolare del processo in questione. È necessario tutelare l’immagine e la credibilità dell’intero sistema giustizia, soprattutto agli occhi degli imputati e dei loro difensori, che vedono, ancora una volta, svilita la propria funzione difensiva”. Milano. Celle chiuse: gli operatori penitenziari lanciano un allarme e un appello legnanonews.com, 3 marzo 2024 Tra i firmati di una lettera alle competenti sedi politico-istituzionali, Gabriella Lazzati, legnanese, con un passato professionale di preside dell’Istituto comprensivo Manzoni e attualmente consacrata nell’Ordo Virginum, attiva nel carcere milanese di San Vittore. La permanenza forzata delle persone detenute all’interno delle celle per venti-ventidue ore al giorno è la ragione che ha indotto i cappellani e le religiose operanti negli istituti penitenziari della Lombardia a prendere posizione sulla recente circolare che limita a tre sole fattispecie la possibilità di uscire dalle celle per i detenuti in media sicurezza, cioè la maggior parte della popolazione detenuta. Il grave segnale di allarme nei confronti di un recente provvedimento a firma del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è contenuto in una lettera, tra le cui firme troviamo quella di don Roberto Mozzi, cappellano di San Vittore, ma anche quella di Gabriella Lazzati, legnanese, con un passato professionale di preside dell’Istituto comprensivo Manzoni e attualmente consacrata nell’Ordo Virginum, attiva nello stesso carcere milanese. La possibilità di uscire dalle celle può avvenire solo per tre ragioni: la fruizione della socialità in appositi locali comuni, la permanenza all’aria aperta e la partecipazione ad attività trattamentali. Da qui una prima conclusione del messaggio degli operatori penitenziari: “Considerando che i locali di socialità sono pochi e di ridotta capienza, che le ore destinate alla permanenza all’aria aperta sono contingentate in ragione di turni dovuti al sovraffollamento e soprattutto che le attività trattamentali sono poche rispetto al numero delle persone detenute e in alcuni istituti persino inesistenti, la conseguenza di tale provvedimento nella maggioranza degli istituti lombardi è stata la seguente: la permanenza forzata delle persone detenute all’interno delle celle per venti/ventidue ore al giorno”. Le motivazioni dell’allarme sono racchiuse nelle seguenti motivazioni: - La circolare, non tanto nelle intenzioni (che prevedono e auspicano una riorganizzazione più efficiente ed efficace del carcere e una maggior attenzione all’individualità del detenuto), ma nell’attuazione (che si è limitata alla chiusura delle celle), va in direzione contraria a quanto espressamente indicato nel 2013 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella cosiddetta “sentenza Torreggiani” (Corte Europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, Causa Torreggiani e altri c. Italia, 8 gennaio 2013 - Ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10), con cui l’Italia è stata condannata per la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, ovvero per trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti. Il sovraffollamento delle carceri unito alla mancanza di spazio per la vita quotidiana dei detenuti furono allora gli elementi determinanti per questo giudizio (65.701 detenuti per 47.040 posti disponibili, al 31/12/2012 - Fonte: Ministero della Giustizia - Statistiche - Detenuti presenti - aggiornamento al 31 dicembre 2012) e ora si ripresentano in modo analogo (60.166 detenuti, per 51.179 posti disponibili, al 31/12/2023 - Fonte: Ministero della Giustizia - Statistiche - Detenuti presenti - aggiornamento al 31 dicembre 2023), con un tasso di crescita in costante incremento. Per far fronte agli obblighi imposti dalla Corte Europea, l’Amministrazione Penitenziaria intervenne, nei circuiti della bassa e media sicurezza, con l’apertura delle celle in alcune ore diurne e con l’introduzione della cosiddetta “sorveglianza dinamica”. Oggi, di fronte al riprodursi progressivo di analoghe condizioni, si risponde con provvedimenti che anziché rimuovere i fattori di criticità, li aggravano, in aperta contraddizione con quanto indicato dalla Corte Europea ed esponendo nuovamente l’Italia a prevedibili ulteriori sentenze di condanna e a conseguenti obblighi risarcitori. - La circolare citata prevede la possibilità per le persone detenute di usufruire di un incremento di attività che consentirebbero l’uscita dalla cella; ci si domanda quanto questa indicazione risponda a una concreta progettualità o sia soltanto un auspicio astratto, per controbilanciare in linea di principio il nuovo regime di chiusura. A questa domanda risponde in modo inequivocabile la quantità di fondi destinati alle attività trattamentali. Ci si chiede se questo provvedimento abbia avuto una copertura finanziaria che lo renda praticabile, ovvero se sono aumentati in modo significativo i fondi destinati alle attività. Considerando che tra la pubblicazione della circolare e la sua effettiva applicazione è passato più di un anno, basta osservare la variazione delle attività trattamentali di questi mesi per avere una risposta, che tutti possono constatare negativa. A conferma di questo, in questo ultimo anno le direzioni dei singoli istituti si sono trovate costrette a sollecitare le associazioni di volontariato, perché si attivassero nell’organizzazione di nuove attività, per prepararsi alla chiusura delle celle, benché non sia in prima istanza competenza del volontariato l’organizzazione e l’attuazione del piano trattamentale. - Il provvedimento sembra ignorare una delle principali problematiche all’interno delle carceri italiane, ovvero l’altissima presenza di persone con patologie psichiatriche, che, dall’aumento delle ore a regime di chiusura, non possono che avere un peggioramento del loro stato di salute, con prevedibili conseguenze sul versante della sicurezza e della convivenza all’interno delle celle. La circolare evita altresì di prendere in considerazione l’aumento dei suicidi in carcere negli ultimi due anni (57 nel 2021, 84 nel 2022, 68 nel 2023 - Fonte 2021-2022: Ministero della Giustizia - Statistiche - Eventi critici negli istituti penitenziari - Anni 1992 - 2022; fonte 2023: Ristretti Orizzonti (ristretti.org), che, in molte occasioni riguardano proprio persone con patologie psichiatriche. La chiusura delle celle non è sicuramente di aiuto nella cura della malattia mentale e nella prevenzione del suicidio. Alla luce di queste considerazioni, ecco così l’appello alle competenti sedi politico-istituzionali “di valutare con urgenza possibili disposizioni volte a modificare la situazione attuale e, in particolare finalizzate a ripristinare l’apertura diurna delle celle nel circuito della media sicurezza e a destinare adeguati fondi per dare attuazione all’auspicato potenziamento delle attività trattamentali. Assicurando che i cappellani e le religiose continueranno a sostenere, come già fanno, ogni progetto in questa direzione. Offriamo queste nostre riflessioni a tutti coloro che operano nel settore penitenziario, perché si possa sempre lavorare insieme nella proposta e nella costruzione di soluzioni migliorative”. Bologna: Giustizia riparativa, parla il giudice: “Attivare i percorsi: siamo indietro” di Francesco Moroni Il Resto del Carlino, 3 marzo 2024 “Siamo indietro, non c’è dubbio - risponde Antonio Ziroldi, presidente aggiunto dell’ufficio gip e gup -. Ma non è solo un problema di Bologna, purtroppo. La riforma ha dettato le regole di carattere generale, che individuano un percorso comune, ma mancano ancora le specifiche applicative”. Facciamo un passo indietro: cosa si intende, nello specifico, per giustizia riparativa? “Un percorso che, auspicabilmente coinvolge, sia l’imputato sia la persona offesa, se presente, per arrivare a una ricomposizione della frattura che si crea con il reato. E a una serie di ricadute che possono essere, ad esempio, la remissione di querela se possibile o la concessione di attenuanti”. Ci sono degli incontri, senza contatto tra le parti? “Sì, esatto, attraverso i mediatori. Poi, a fine percorso, viene redatta una relazione finale”. L’autorità giudiziaria può disporre il percorso anche d’ufficio? “Sì, la riforma a livello teorico è un po’ double face, diciamo. È sicuramente figlia di un’idea illuminata e avanzata di giustizia penale, ma è anche stata oggetto di critiche sul piano strettamente processuale”. Ci spieghi meglio... “Si è detto che il giudice, anche d’ufficio, dispone il percorso di giustizia riparativa: in questo caso, quindi, come effetto dell’accertata esistenza di un reato. Ecco perché diversi autori e penalisti hanno criticato il percorso definendolo ‘distonico’ rispetto alla sussistenza del reato. E forse direi che non hanno tutti i torti...”. Dicevamo, però, che a mancare sarebbero soprattutto le specifiche applicative... “Mancano i centri per la giustizia riparativa e manca il personale. Finché non avremo le strutture, quindi finché non si attivano gli enti locali e la conferenza della giustizia riparativa, in modo da risolvere una serie di adempimenti formali e procedurali attualmente ancora non implementati, non c’è possibilità di un percorso. Eppure ci sarebbero delle alternative”. Quali? “Bisogna interrogarsi su quelle forme di giustizia già presenti. Esistono i centri di mediazione, che però hanno una finalità diversa, cioè di carattere civile e familiare. Va detto che noi, come ufficio, siamo stati investiti abbastanza sporadicamente di queste istanze: forse perché anche gli avvocati sanno che è un percorso difficile”. Che soluzioni potrebbero esserci? “Ci stiamo interrogando, da un lato, sulla possibilità di promuovere e sollecitare l’attivazione a livello locale coinvolgendo una serie di attori. Occorre che il sistema sia strutturato. Ma è il ministero che deve coordinare e, in questo momento, sembra di capire che nella sua agenda l’attivazione immediata dei percorsi non sia una priorità”. E dall’altro lato? “Serve capire in che termini sia possibile un utilizzo esteso della materia. Ci sono delle strutture e dei progetti già avviati da Comune e Regione, va chiarito se questi centri possono essere utilizzati fino a quando non saranno attivate le strutture apposite. Teniamo conto del fatto che tutto questo, fino ad ora, ha avuto uno scarso appeal. Tuttavia ci sono tanti spunti di riflessione”. Manca anche il personale, diceva... “I mediatori penali non ci sono. Anche perché, guardando alla riforma, ci sono una serie di norme che prevedono una formazione adeguata per i mediatori. E ad oggi manca”. Rispetto all’udienza specifica dell’altro giorno sulla violenza sessuale, cosa ci dice? “Il processo è stato rinviato, il nostro ufficio ha una figura ad hoc che si sta occupando di tutti questi argomenti. L’auspicio è che in questi mesi possa esserci un’accelerata tale da garantire l’avvio di un percorso. Ma, come ho detto all’inizio, la sensazione è che siamo davvero indietro”. Vicenza. Una seconda chance… grazie alla pasticceria. Il progetto Libere Golosità di Gabriele Silvestri ecovicentino.it, 3 marzo 2024 Un lavoro da artigiani pasticceri come chiave per rientrare nella società, durante e dopo la reclusione. È questo il senso del progetto Libere Golosità, promosso dal carcere di Vicenza: se ne è parlato ai microfoni della rubrica di Radio Eco Vicentino “Parlami di Te”. Davide Pio, della rete di cooperative che si occupa del progetto, non ha dubbi sulla sua utilità: “Il lavoro rappresenta innanzitutto un’occasione per guadagnare denaro, che non è una cosa sbagliata; in secondo luogo, è anche un’opportunità per imparare un nuovo lavoro. Un detenuto che prende parte a laboratori simili ai nostri non tornerà facilmente a commettere reati. Non è un favore che facciamo ai soli detenuti: la riabilitazione sociale è un favore nei confronti dell’intera comunità”. Un progetto che non è confinato all’interno delle mura del carcere: “Stiamo allestendo dei negozi per mettere in vendita le nostre creazioni. Al momento uno è attivo a Schio, mentre l’altro si trova a Vicenza”. “All’interno della nostra rete di cooperative - prosegue Davide Pio - esistono anche laboratori occupazionali che svolgono una funzione interessante dal punto di vista simbolico. Noi diamo per scontato, ad esempio, che una custodia per occhiali di una grande marca venga realizzata da quest’ultima, in tutte le sue componenti. Invece, molto spesso, queste vengono realizzate nell’ambito dei laboratori occupazionali. Lo stesso vale anche per le buste di cartone e gli alveari che servono a contenere le bottiglie. Le aziende appaltano queste lavorazioni alle cooperative esterne, invece di mantenerle all’interno delle loro linee di produzione”. Claudio, 52enne di Taranto, è tra i partecipanti al progetto Libere Golosità: “Ho avuto un passato turbolento a causa della tossicodipendenza. In età molto avanzata ho deciso di cambiare vita, e nel 2010 sono venuto a Vicenza. Tuttavia sono ricaduto nel tunnel della tossicodipendenza, e a causa di alcuni piccoli reati ad essa collegati sono finito in carcere”. E da quel momento ha capito di voler cambiare vita, grazie ai laboratori organizzati dal carcere: “Io ero un saldatore, in carcere ho avuto modo di imparare un nuovo lavoro, quello del panettiere”. Ma non è finita qui perché, come Claudio rivela, “sono diventato anche operatore sociosanitario”. “Una cosa come la tossicodipendenza, di cui ho sofferto io stesso, porta ad estraniarsi dal rispetto per le regole, incoraggia a trasgredire” prosegue Claudio. “Questi percorsi di reinserimento ci consentono di tornare a rispettare le regole. È un percorso difficile, perché si tratta di cambiare vita. Il reinserimento però è tutto, perchè grazie ad esso si può ottenere ciò che in passato non si sarebbe mai potuto ottenere. Un mio sogno - confida - è quello di avere una famiglia, o comunque avere una persona al mio fianco con cui passare il resto della mia vita. Inoltre mi piacerebbe rimanere all’interno di questo mondo per poter dare una mano agli altri”. Sogni ma anche concretezza: “Stiamo lavorando ad un grande progetto - rivela in conclusione Davide Pio -, ovvero un forno rotativo esterno al carcere. Al suo interno ci lavoreranno 30 persone, e a me piace interpretare ciò come un’occasione per eliminare il pericolo che 30 individui tornino a commettere danni all’esterno una volta usciti. Oltre che da una raccolta fondi, l’iniziativa è sostenuta dai ricavi derivanti dalla vendita dei nostri prodotti. Infine possiamo anche contare su supporti istituzionali e da parte delle aziende”. “Fammi vedere la luna”: un videogioco per capire la vita nel carcere minorile di Viola Nicolucci valigiablu.it, 3 marzo 2024 Aquila04 sta cercando un compagno con cui giocare a un videogioco multiplayer online, uno di quelli a squadre in collegamento via internet. Dopo la prima partita vi trovate tutte le sere. La conversazione non è troppo personale. Parlare con uno sconosciuto online richiede una sorta di equilibrio tra fiducia e rischio, ma il gioco è un’esperienza di socializzazione e vi sentite sempre più vicini. Col passare dei giorni, il tempo di gioco si riduce e lascia spazio alla conversazione. Una sera scopri che Aquila04 è in un carcere minorile. Ha 16 anni, lavorava come pizzaiolo e durante il Covid ha perso il lavoro, così si è messo a commettere furti con un gruppo di amici del quartiere. Il videogioco riesce così ad avvicinare il tuo mondo e quello di Aquila04, dentro e fuori dal carcere, mondi che altrimenti non si sarebbero potuti incontrare. Ti immergi in una realtà a te sconosciuta, che ti passa accanto tutti i giorni invisibile. Questa è la storia al centro di Fammi vedere la Luna, un videogioco per browser condotto dall’Associazione Mediterraneo Comune da un’idea di Guido Lavorgna e Raffaella Vitelli, realizzato da Scostumat (Claudia Zampella e Anna Baldassarri) e coprogettato insieme ai ragazzi detenuti presso l’Istituto Penale Minorile (IPM) di Airola, in provincia di Benevento. Si tratta di un racconto interattivo, in cui il videogiocatore parla con Aquila04 mentre i due giocano a un videogioco multiplayer online. L’interazione tra i due è basata sulla scelta multipla fra varie opzioni di dialogo disponibili. Le scelte del videogiocatore determineranno il percorso del detenuto, tra vari finali possibili. Raffaella Vitelli dirige progetti culturali di innovazione sociale ed educativa per l’Associazione Mediterraneo. L’associazione nasce nel 2017 a San Salvatore Telesino ed è costituita da un gruppo di operatori del terzo settore, ma nel tempo ha accolto anche giovani volontari. “Il territorio è soggetto a spopolamento e impoverimento” racconta Vitelli a Valigia Blu. “Non c’è cinema, teatro, punti di aggregazione, attività sportive. C’è una povertà educativa legata alla mancanza di opportunità e a una scuola che ha pochissimi mezzi”. Durante lo sviluppo di Fammi vedere la Luna - tra il 2019 e il 2022 - i giovani detenuti hanno partecipato a tavoli di co-progettazione, laboratori di narrazione, attività teatrali e interviste. L’integrazione di queste attività si è dimostrata una modalità educativa trasformativa all’interno del carcere. Tutti i testi del gioco sono nati dalle interazioni tra gli operatori di Mediterraneo Comune e i ragazzi nel corso dello sviluppo del progetto. “Il gioco si è rivelato una chiave per accedere a loro, un modo per staccarli da quell’ambiente sospeso di spazio-tempo dove costantemente si trovano e per trasportarli in un altro ambiente nel quale si sentono più liberi e possono esprimersi” racconta Vitelli, aggiungendo che l’esperienza di gioco ha migliorato le relazioni tra i ragazzi all’interno dell’istituto - attraverso la collaborazione - e alleggerito le tensioni tra i ragazzi e gli agenti penitenziari. Il gioco ha distolto i ragazzi dalla noia e dalla ripetitività della vita quotidiana in carcere. La giornata tipo nell’IPM di Airola inizia con la sveglia alle 7.30, seguita poi dalla colazione e dai lavori domestici. Scuola e attività alternative iniziano alle 10.30, con un’interruzione per il pranzo e la ripresa di corsi scolastici e attività alle 14.30. Alle 17.00 è previsto il cosiddetto “passeggio”, un’ora all’aperto, spesso dedicata alle attività sportive. Dopo cena si torna in cella dove è possibile vedere la tv in camera. “Spesso il diritto al gioco, al divertimento non è per nulla concepito. È come se la punizione dovesse essere l’unica cosa che deve occupare la loro vita, ma sono giovani alcuni di quattordici anni. Parliamo ragazzi che magari hanno giocato anche poco nella loro vita” - aggiunge Vitelli. Secondo l’Art. 31 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza: “Gli Stati parti riconoscono al fanciullo il diritto a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età” e “incoraggiano l’organizzazione, in condizioni di uguaglianza, di mezzi appropriati di divertimento e di attività ricreative, artistiche e culturali.” I ragazzi dell’IPM di Airola hanno ideato il gioco per i coetanei tra i 12 e i 15 anni che vivono fuori dal carcere. L’esperienza di gioco consente al giocatore di comprendere il vissuto di Aquila04. Il protagonista entra a far parte del mondo personale del giocatore e quando confida di essere in carcere ormai si è creato un legame tra i due che ha reso muri e sbarre invisibili. L’obiettivo del gioco è infatti quello di superare i pregiudizi verso i ragazzi che si trovano in carcere, lottare contro lo stigma della persona che ha commesso un reato per il quale sta scontando una pena. La persona detenuta è prima di tutto persona e la reclusione è una parte della sua storia, ma non rappresenta la sua identità. Realizzare il progetto non è stato semplice, soprattutto nei suoi aspetti pratici. Vitelli ha reso possibile l’acquisto di tablet necessari per lo sviluppo, ma l’accesso al digitale in carcere è un diritto negato e questo ha interferito con il flusso di lavoro che è stato effettuato offline. Eppure, secondo la Circolare del 2 Novembre 2015 sulla “Possibilità di accesso ad Internet da parte dei detenuti”, il Ministero della Giustizia riconosce l’importanza dell’utilizzo degli strumenti informatici da parte delle persone detenute ai fini di: crescita personale, trattamenti, lavoro, istruzione e formazione. Pur nella consapevolezza dei problemi per la sicurezza, si riconosce che “l’esclusione dalla conoscenza e dall’utilizzo delle tecnologie informatiche potrebbe costituire un ulteriore elemento di marginalizzazione”. Dal documento, la navigazione su internet risulta consentita solo verso siti selezionati, in funzione delle esigenze legate a percorsi di trattamento. La circolare si chiude poi riportando il sostegno del Ministero all’uso della rete per sostenere il diritto all’affettività in carcere e favorire le relazioni famigliari. Accesso al digitale nelle carceri: i dati a disposizione - Il lavoro dell’Associazione Antigone può fornire informazioni precise sull’accesso al digitale negli istituti penitenziari. Dal 1998, l’associazione ha ottenuto l’autorizzazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a visitare gli istituti penitenziari per compilare un rapporto sulle condizioni di detenzione delle carceri per adulti e degli IPM. Per quanto riguarda gli adulti, al 31 Gennaio 2024 si registravano 60.637 presenze nelle carceri italiane. Per quanto riguarda i minori, il 20 Febbraio 2024 è stato pubblicato l’ultimo rapporto di Antigone sulla Giustizia Minorile. All’inizio del 2024 le persone detenute nei 17 Istituti penali per minorenni del nostro paese erano 496. La fascia d’età più rappresentata è quella dei 16 e 17 anni. I reati più frequenti sono quelli contro il patrimonio: rapina e furto. La maggior parte dei ragazzi detenuti in IPM non ha una sentenza definitiva. L’istituto penitenziario è una tappa generalmente breve di un percorso, che si svolge soprattutto nelle comunità, che ospitano nel complesso un migliaio di ragazzi sottoposti a misure penali. Il rapporto descrive negli IPM interventi scolastici, di formazione professionale e attività ricreative improntate soprattutto al teatro e allo sport. Non ci sono censimenti sull’uso del digitale nelle carceri italiane e negli IPM. Alessio Scandurra coordina per Antigone l’Osservatorio sulle condizioni di detenzione, e descrive a Valigia Blu la situazione generale dell’accesso alle tecnologie e a internet negli istituti penitenziari, sia per adulti che per minori. La rassegna comincia con le conversazioni telefoniche: in carcere resiste ancora il telefono con cornetta e filo. La durata delle chiamate è di dieci minuti alla settimana. La norma risale agli anni 70’. “Oggi quei 10 minuti della telefonata significano un radicale isolamento della persona se confrontato alla vita che facciamo fuori”, dice Scandurra. L’uso delle videochiamate era già consentito, ma è stato sdoganato da un punto di vista culturale solo nel 2020, in seguito all’epidemia di Covid. È evidente da subito che l’uso del cellulare e di internet sono grandi tabù in carcere. La posta elettronica esiste in pochissimi istituti, come servizio a pagamento fornito da una cooperativa esterna. Il collegamento a internet in carcere è disponibile solo agli insegnanti per l’attività didattica. Anche quando i detenuti possono usare un computer personale a fini di studio, il dispositivo deve avere i requisiti richiesti dall’istituto penitenziario, ad esempio non deve avere la scheda di rete wi-fi. Non è possibile utilizzare un vecchio modello portatile. Il computer va acquistato ex-novo, ma i modelli disponibili in commercio non hanno i requisiti adeguati, quindi l’istituto penale stringe una convenzione con un negozio che effettua le modifiche secondo i requisiti richiesti. In sintesi, un computer con un costo vantaggioso in negozio, finisce per costare il doppio al detenuto. La circolare del ministero suona dunque come una dichiarazione d’intenti rispetto alla realtà. Scandurra commenta così: “un istituto è un’isola, o arriva un pacchetto dal ministero della Giustizia per cui tutti gli operatori di quell’istituto sono esonerati dalle responsabilità che resta al ministero, oppure devono avere le capacità e le conoscenze tecniche per stabilire se quella tecnologia è pericolosa o no, e c’è una carenza enorme di personale tecnico, amministrativo. Il carcere è fatto quasi solo di polizia penitenziaria e non è previsto che abbia questo genere di competenze, quindi diventa veramente quasi impossibile perché la sicurezza è la cosa più importante.” Per quanto riguarda l’accesso ai videogiochi in carcere, a fini di divertimento o di trattamento, non ci sono dati. Scandurra riporta che qualche dispositivo è sicuramente disponibile in alcuni istituti, negli spazi comuni, ma chiaramente offline. Si tratta principalmente di vecchie console prive di accesso a internet e questo riduce ulteriormente il parco titoli accessibile ai giocatori in carcere, tagliandoli fuori da una parte delle opportunità ricreative (vedi sopra diritto al divertimento) o di intervento attraverso i videogiochi. Digitale ed internet rappresentano una risorsa con un potenziale importante per la rieducazione in carcere, ma restano una via intentata, in Italia. In Germania, il MaxPlanck Institute ha sviluppato un’esperienza digitale per consentire ai detenuti di immaginarsi proiettati nel futuro. Il progetto si chiama FutureU (il tuo sé futuro) ed è finalizzato al contrasto dei reati. Le nuove tecnologie consentono ai soggetti a rischio di visualizzare le conseguenze delle proprie decisioni e delle proprie azioni. I ricercatori utilizzano un’app per smartphone per far interagire i soggetti a rischio con il proprio sé futuro (un avatar invecchiato), facilitando così un comportamento più lungimirante. I ragazzi che sono in IPM perlopiù sono cresciuti in un territorio senza opportunità, pensando che il crimine non fosse una scelta, ma l’unica via percorribile. Una volta “dentro” si sentono senza speranza, faticano ad immaginare un futuro, in parte a causa dello svantaggio sociale di partenza, in parte a causa dello stigma intorno al carcere. Sono in affidamento allo Stato sociale in un percorso di rieducazione ai fini del reinserimento sociale, ma se lo Stato nega alle persone detenute l’accesso a nuove tecnologie ed internet che oggi sono risorse lungo quel percorso, non farà invece che rinforzare lo svantaggio di partenza. Migranti. Ousmane e Louis, nel pozzo nero dei Cpr di Valentina Furlanetto Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2024 Ousmane Sylla, 22 anni, si è suicidato un mese fa nel Cpr di Roma. La tragedia ha riportato l’attenzione per qualche ora sulle condizioni di chi è trattenuto nei Centri di permanenza per i rimpatri. “Li dentro - dice Louis, da 10 anni in Italia, appena uscito dal Cpr di Via Corelli a Milano - la situazione è fuori controllo, non pensavo ci fossero italiani così cattivi, i diritti della persona valgono più in carcere. Se uno sta male deve urlare e sbattere le porte sennò non ti ascoltano. Ci sono persone che pur di uscire si spaccano le braccia. Poi ti danno gli psicofarmaci per tenerti tranquillo. A me hanno dato Clorazepan”. Louis lavora nel catering della moda di Milano. “Ho lavorato in tutti gli showroom di Milano centro, ovviamente in nero. Poi il 5 di gennaio mentre andavo al lavoro mi hanno fermato, non ho il permesso di soggiorno e quindi sono stato portato nel Cpr”. “Le persone che stanno nei Cpr non hanno commesso reati, sennò sarebbero in carcere. La loro colpa è non avere i documenti. Magari perché scaduti” spiega Teresa, attivista della rete No-Cpr. “In queste strutture - spiega il medico infettivologo Nicola Cocco - non dovrebbero entrare persone malate. Invece questa cosa viene completamente disattesa, infatti all’interno io ho trovato persone anche con patologie croniche come il diabete o l’epilessia, per non parlare di scabbia e infezioni virali. C’è poi il tema della salute mentale. Alcuni vengono trattenuti nonostante soffrano di patologie psichiatriche, altri le sviluppano proprio all’interno del Cpr. E poi c’è l’abuso degli psicofarmaci che vengono utilizzati come manganelli farmacologici e camice di forza farmacologiche. E questo è molto grave”. Cpr, i medici possono impedire che i migranti vengano imprigionati di Andrea Capocci Il Manifesto, 3 marzo 2024 L’appello. La Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (Simm), l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione e la rete “Mai più lager - mai più CPR” si rivolgono ai sanitari che firmano l’idoneità alla detenzione. Arriva sulle pagine del prestigioso British Medical Journal la campagna che invita i sanitari italiani a non dichiarare i migranti “idonei” alla detenzione nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). L’appello è lanciato dalla Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (Simm), dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione e dalla rete “Mai più lager - mai più Cpr”. La pubblicazione su una rivista scientifica di grande importanza certifica che la campagna tocca aspetti fondamentali della bioetica medica. E che la detenzione dei migranti rappresenta un’emergenza sanitaria riconosciuta a livello internazionale. Nel percorso che conduce i migranti nei Cpr, i sanitari hanno un ruolo cruciale. “In Italia, quando si entra in un centro di detenzione, le persone devono sottoporsi a una valutazione clinica effettuata da un medico del Servizio sanitario nazionale”, spiega l’appello. “Negli anni, questa valutazione si è trasformata in un nulla osta amministrativo alla detenzione che esclude solo il rischio di malattie contagiose senza una valutazione approfondita dello stato generale di salute della persona”. La procedura, spiegano medici e giuristi, appare problematica da più punti di vista. Innanzitutto, molti studi dimostrano come la detenzione stessa provochi l’insorgenza di patologie ma il medico che compie la valutazione ha poco tempo a disposizione, non conosce il background sanitario della persona, le condizioni in cui sarà detenuto e i servizi sanitari che avrà a disposizione nel centro. Inoltre, le norme internazionali prevedono che ogni visita medica si effettui sulla base di un consenso informato “ma le leggi italiane attualmente non lo prevedono per i migranti destinati alla detenzione”. Infine, i medici hanno il dovere deontologico di proteggere le persone vulnerabili, “in particolare quando ritengono che le condizioni in cui vivono non sono adeguate a proteggerne salute, dignità e qualità della vita”. A causa della dichiarazione di idoneità alla detenzione rischiano gli stessi medici: nel caso di patologie insorte successivamente, la valutazione potrebbe essere contestata e lo stesso medico potrebbe andare incontro a un procedimento legale. Non è un’eventualità remota, come dimostra il caso recente di Ousmane Sylla, il ventiduenne originario della Guinea suicidatosi nel Cpr di Ponte Galeria alle porte di Roma dove era stato trasferito nonostante se ne conoscessero disagio psichico e rischio di autolesionistico. “Questo caso chiarisce l’urgenza di denunciare le condizioni inadeguate di queste strutture, che espongono le persone detenute a seri rischi di salute o a morte prematura”, commenta la lettera. Il problema non riguarda solo l’Italia. Anche nel Regno Unito gli abusi sui migranti da parte delle autorità sono uno dei principali temi di discussione nella politica britannica. Lo dimostra un analogo appello contenuto nello stesso numero del British Medical Journal proveniente dall’Associazione dei Medici del Regno Unito, che chiede l’abolizione dei centri di detenzione per migranti, definiti una “disgrazia nazionale” da sostituire con “strumenti di monitoraggio più umani”. Migranti. Il processo Iuventa, le Ong: “Si indaghi sulle indagini” di Giansandro Merli Il Manifesto, 3 marzo 2024 La procura ha chiesto il non luogo a procedere eppure è stato tenuto in piedi per anni un’accusa che ha alimentato la narrazione degli attivisti collusi con gli scafisti. La sentenza prevista per il 19 aprile. Una mozione congiunta degli avvocati difensori di Iuventa, Medici senza frontiere e Save the children presentata nelle battute finali della lunghissima udienza preliminare del maxi-processo alle Ong chiede di aprire un’inchiesta per fare chiarezza sulle tante ombre che hanno caratterizzato la fase delle indagini. Testimoni inaffidabili, informative della polizia distorte, intercettazioni a tappeto, insieme alla mancata acquisizione di elementi chiave come i tracciati delle navi e le comunicazioni tra soccorritori e guardia costiera, lasciano molti dubbi sulle modalità investigative e soprattutto sulle motivazioni alla base di tutta questa vicenda. Che, secondo Iuventa, sono indubbiamente “politiche”. “Il Ministero degli Interni ha persino incaricato una sezione speciale della polizia di occuparsi delle indagini, il che indica una forte influenza politica”, scrivono gli attivisti nel comunicato che ha chiuso ieri le ultime quattro giornate davanti al Gup di Trapani Samuele Corso. Erano iniziate mercoledì con la sorprendente richiesta della procura: non luogo a procedere perché il fatto non costituisce reato. Nello specifico per mancanza di dolo. Posizione accolta con sorpresa dalle difese, che già nel 2019 avevano presentato una corposa memoria per ottenere l’archiviazione del procedimento, che nel corso delle arringhe conclusive hanno rilanciato: non basta dire che mancavano le prove sull’intento degli accusati, occorre invece riconoscere che le attività di soccorso sono state pienamente legittime e costituiscono l’esercizio del diritto e dovere al soccorso. Attraverso questo maxi-processo alle Ong, le accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina rispetto ai salvataggi nel Mediterraneo centrale nella fase 2016-2017, i teoremi mediatici e giudiziari su presunti contatti con i trafficanti e consegne concordate si è prodotta una profonda torsione del senso comune e della legislazione intorno alle attività delle organizzazioni umanitarie nella rotta migratoria più mortale al mondo. Una torsione che ha fatto aumentare i morti in mare. Ieri, intanto, il Gup ha confermato la data della decisione: arriverà il 19 aprile. Potrebbe essere l’occasione per riscrivere la storia degli ultimi anni su quanto accaduto lungo la frontiera meridionale d’Europa. Sono oltre 2.600 gli italiani in carcere all’estero. La maggior parte si trova in cella in Europa ansa.it, 3 marzo 2024 Non solo Ilaria Salis o Filippo Mosca. Gli italiani detenuti all’estero sono 2.663, secondo gli ultimi dati forniti dall’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osap) risalenti ad inizio febbraio. Il 35% circa è in attesa di giudizio, con sentenze non definitive o in attesa di estradizione in Stati dove le organizzazioni umanitarie denunciano da anni le pessime condizioni di vita carcerarie. In Italia, su una popolazione carceraria di 56.127 detenuti ci sono i 17.687 stranieri, un numero di quasi sette volte superiore dei nostri detenuti all’estero. La maggior parte dei detenuti italiani all’estero si trova in Germania: nei penitenziari tedeschi si trovano infatti ce ne sono 1.079 italiani. Al secondo posto la Spagna, con 458 italiani detenuti. Seguono la Francia dove ce ne sono 231 e il Belgio con 202. Nei Paesi extraeuropei il record è del Regno Unito dove sono detenuti 192 italiani, in Svizzera 131 e negli Stati Uniti 91. Ci sono poi 24 italiani nelle carceri dell’area del Mediterraneo e del Medioriente. Altri 12 nei paesi dell’Africa subsahariana e 114 tra Asia e Oceania. I reati contestati ai detenuti italiani all’estero vanno dal traffico di sostanze stupefacenti alla vicinanza a organizzazioni criminali internazionali fino all’omicidio. Buona parte di loro sconta pene per possesso di droga o per furti. Oltre ai chi è in attesa di giudizio o estradizione, c’è anche chi è morto come il 36enne carpentiere di Viareggio Daniele Franceschi deceduto nel carcere di Grasse, in Francia, in circostanze mai completamente chiarite. Per la sua morte fu condannato un medico francese. O come il bancario leccese Simone Renda deceduto il 3 marzo 2007 nel carcere messicano di Playa del Carmen: l’uomo stava male ma non ricevette alcuna assistenza sanitaria in cella restando senza acqua né cibo per quasi 48 ore per omicidio volontario. Medio Oriente. Gli intellettuali senza senno della piccola Italia di Mario Ricciardi Il Manifesto, 3 marzo 2024 Mentre alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia si discute di un’accusa di genocidio a danno dei palestinesi, ci sarebbe un gran bisogno di persone che abbiano “un poco di senno”. Invece, quello che leggiamo e ascoltiamo è, in molti casi, il tentativo di giustificare l’ingiustificabile. “L’ospite, il supplice, è come un fratello per l’uomo che abbia anche un poco di senno”. Agli albori della cultura europea, le parole di Omero ci ricordano che la protezione dello straniero, e di colui che invoca aiuto, erano manifestazioni della giustizia divina. Chi ha fame andrebbe sfamato, non ucciso, e il fatto che tanti cerchino capziosamente di eludere la doppia ingiustizia che si è consumata a danno di centinaia di supplici a Gaza è un sintomo dell’abisso morale in cui stiamo precipitando. Che ci siano tanti intellettuali impegnati in prima fila per offuscare distinzioni - come quella tra giustizia e vendetta - che dovrebbero essere chiare a chiunque abbia “anche un poco di senno”, è una cosa che forse non stupisce, ma certo riempie di amarezza. Sono passati quasi cinque mesi dal brutale attacco di Hamas ai danni di civili, non solo israeliani: tra le vittime ci sono stati gli abitanti di alcuni kibbutz, membri delle forze di sicurezza e anche tanti ragazzi e ragazze che stavano prendendo parte a un rave nelle vicinanze del confine con la striscia di Gaza. Secondo dati recenti, le persone uccise nel corso di quella carneficina sono state almeno 1.160, alle quali bisogna aggiungere i feriti e gli ostaggi (alcuni dei quali sono stati liberati, ma la maggioranza, se non sono morti, sono ancora nella mani dei rapitori). Negli stessi cinque mesi da quel terribile 7 ottobre, sono stati uccisi più di 30mila palestinesi, una buona parte dei quali erano donne e bambini. Non è chiaro, allo stato attuale, quanto questo massacro abbia indebolito Hamas, ma pare indiscutibile che non abbia facilitato la liberazione degli ostaggi. Neppure si capisce quale sia la strategia perseguita dal governo di Israele, e questa opacità, accompagnata dalle dichiarazioni dei più estremisti tra gli esponenti della coalizione, alimenta il timore che alla espulsione degli abitanti della striscia di Gaza possa seguire una nuova, massiccia e illegale, annessione di territori. In queste circostanze, e mentre alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia si discute di un’accusa di genocidio a danno dei palestinesi, ci sarebbe un gran bisogno di persone che abbiano “un poco di senno”. Invece, quello che leggiamo e ascoltiamo è, in molti casi, il tentativo di giustificare l’ingiustificabile. La disumanizzazione delle vittime, e persino l’accusa di antisemitismo rivolta a ebrei, anche cittadini israeliani, che hanno il rigore morale e il coraggio di denunciare le politiche del governo Netanyahu. Per quel che riguarda l’Italia, la cosa che più colpisce, oltre alla povertà degli argomenti di chi cerca di difendere l’uso massiccio e indiscriminato della forza da parte del governo israeliano, è l’assoluta incapacità di buona parte di coloro che intervengono su questo tema di rendersi conto di quanto sia cambiata negli ultimi venti anni la sfera pubblica globale. Ai tempi delle guerre in Afghanistan e in Iraq, la maggior parte delle voci che dominavano il dibattito sulla politica estera erano di studiosi o giornalisti statunitensi o europei. Tra questi, pochissimi erano originari di paesi mediorientali, e in molti casi neppure esperti dell’area o familiari con le culture, le lingue, e le storie dei paesi su cui formulavano giudizi perentori. Oggi la situazione è molto diversa. Chiunque abbia accesso alla stampa internazionale, segua i numerosi canali all news, i podcast, e legga qualche libro, non può che essere colpito dalla quantità e dalla varietà delle voci che provengono dal Medio Oriente, o da paesi che oggi vengono descritti con l’etichetta di “Global South” (che coincidono in realtà con gran parte delle ex colonie europee). Kim Ghattas, Kenan Malik, Anita Anand, Mehdi Hasan, Nesrine Malik o Sathnam Sanghera sono i primi nomi che vengono in mente, ma la lista potrebbe essere lunghissima. Grazie a queste voci, e a tante altre con un simile background, oggi abbiamo una comprensione molto più profonda e bilanciata della storia dei rapporti tra le ex potenze coloniali e le vittime del colonialismo, e anche delle conseguenze che essa ha per la politica internazionale. Visto alla luce della sfera pubblica globale, il dibattito italiano appare provinciale e asfittico. Tutti bianchi, e in larga parte maschi, gli editorialisti e gli ospiti di talk show che cercano di giustificare o di sminuire l’enormità del massacro in corso a Gaza proiettano l’immagine di un piccolo Paese che ha perso contatto con la realtà. Stati Uniti. Legalizzazione delle droghe, tra progressi e ripensamenti di Matteo Muzio Il Domani, 3 marzo 2024 Sono passati oltre dieci anni dal doppio referendum di Colorado e Washington che nel 2012 legalizzò la cannabis ad uso ricreativo nei due stati. Da allora anche stati come California e New York si sono uniti a questo trend. Non mancano però problemi di overdose anche dove la depenalizzazione ha incluso tutte le droghe. Lo stesso giorno delle elezioni presidenziali del 2012, che hanno visto la riconferma di Barack Obama contro lo sfidante repubblicano Mitt Romney, in due stati americani veniva rotto un tabù di vecchia data: quello relativo all’uso ricreativo della marijuana. Il Colorado e lo stato di Washington avevano passato per via referendaria due provvedimenti simili che consentivano di assumere cannabis per qualsiasi motivo, non soltanto quello medico. All’epoca i progressisti avevano salutato questa vittoria come l’alba di una nuova era e in effetti avevano ragione. Se all’epoca anche i democratici mainstream esitavano a sostenere una misura simile, dopo oltre dieci anni tutto il partito sembra convinto della bontà di simili provvedimenti e in parte anche i repubblicani stanno gradualmente aprendo uno spiraglio sulla questione. Due momenti di svolta - Nel 2022 c’è stata una svolta in due fasi, avvenuta ai massimi livelli: ad aprile la Camera dei rappresentanti ha passato un disegno di legge per decriminalizzare l’uso dell’erba a livello federale, accompagnato qualche mese dopo da un’analoga proposta del Senato che però non è andata oltre la mera introduzione in commissione. A ottobre di quell’anno poi è arrivato l’annuncio del presidente Joe Biden: chiunque fosse stato incriminato a livello federale per semplice possesso di marijuana avrebbe ricevuto un provvedimento di grazia e nello stesso discorso Biden ha proposto anche ai governatori di fare lo stesso con gli imputati a livello statale. Alla fine del 2023 poi un sondaggio di Gallup ha registrato un consenso trasversale alla legalizzazione: 87 per cento dei democratici, 70 per cento degli indipendenti e un notevole 55 per cento di repubblicani. Il quadro nazionale rispecchia questo mutamento dell’opinione pubblica: lo scorso novembre l’Ohio, uno stato sempre più tendente verso la destra repubblicana, ha approvato un referendum di iniziativa popolare per legalizzare la marijuana per scopi ricreativi ed è il ventiquattresimo stato a farlo. Oltre a questi, si contano trentotto stati dove è legale utilizzare questa sostanza per ragioni mediche. Il problema californiano - A una prima analisi sembrerebbe una storia di successo, che spingerebbe ad allargare ulteriormente le maglie della legalizzazione, anche per tassare un nuovo tipo di business. Ci sono però dei problemi da risolvere che fino a qualche tempo fa venivano derubricati a minuzie, appunti risentiti di una minoranza proibizionista in declino. Si tratta dell’emergenza di salute pubblica emersa in alcuni stati dopo la legalizzazione, a cominciare dal più popoloso, la California: un complesso groviglio burocratico finora ha impedito l’affermazione di un fiorente commercio legale, dato che molti rivenditori illegali tuttora prosperano nelle grandi aree urbane contando sulla quasi sparizione dei controlli di polizia. Gli antiproibizionisti controbattono dicendo che in fin dei conti questo dipende sia dalla burocrazia che dai mancati controlli delle infiltrazioni dei narcotrafficanti dal confine messicano, che ne approfittano per coltivare sempre più appezzamenti di terreno senza versare un dollaro nelle casse del Golden State. Il permissivo Oregon - Dove i problemi sono maggiori però è dove la legalizzazione si è spinta oltre la marijuana. Basta salire a nord della California e troviamo l’Oregon che nel 2020 ha approvato quella che finora è la legislazione più permissiva di tutto il paese: la decriminalizzazione completa del possesso di piccole quantità di qualsiasi droga illecita. L’unico ammonimento che riceve chi viene colto con qualche grammo di qualunque sostanza, dall’eroina al famigerato fentanyl, è una multa di cento dollari insieme a un biglietto con il numero di telefono per chiamare un centro per il trattamento della tossicodipendenza. Unico inconveniente è l’assenza di conseguenze per chi semplicemente butta nel cestino la contravvenzione. Questo vuol dire che, di fatto, non ci sono misure che contrastino l’aumento vertiginoso del numero di morti per overdose: secondo i dati diffusi dagli U.S. Centers for Disease Control and Prevention, il più autorevole istituto di controllo sulla sanità pubblica, se nel corso del 2023 le perdite di vite umane dovute agli abusi di droghe sono cresciute dello 0,7 per cento, in Oregon c’è un vero e proprio boom con l’11 per cento in più. Gli studi fatti in proposito sono discordi: secondo una ricerca della New York University, non c’è correlazione con la nuova legge, anche se sono mancati i finanziamenti necessari ai centri di salute pubblica per trattare le dipendenze, mentre un’altra analisi pubblicata dall’università di Toronto afferma che il nuovo regime legislativo ha influito eccome. L’opinione pubblica sembra concordare con questa analisi: un sondaggio pubblicato dall’Emerson College ad agosto 2023 registra un 56 per cento di favorevoli all’abolizione completa della decriminalizzazione, mentre un 64 per cento si accontenta solo di qualche cambiamento restrittivo. Da un lato i democratici locali chiedono di inasprire le pene sugli spacciatori, mentre i repubblicani, che sono in minoranza, rilanciano con la proposta di ripristinare la detenzione per i detentori di droghe pesanti, a cui possono rinunciare qualora si sottopongano a un ciclo di trattamenti sanitari monitorati regolarmente. Resta il fatto però che il dato sui finanziamenti inadeguati salta all’occhio: l’Oregon è lo stato che investe meno in prevenzione di tutti e cinquanta gli stati che compongono l’America. Il cattivo esempio dell’Oregon è servito allo stato di Washington, sempre a maggioranza dem, per evitare gli stessi errori: dopo che la Corte Suprema statale aveva ritenuto incostituzionale una legge del 2021 sul possesso di stupefacenti, c’era un vuoto legislativo che era una decriminalizzazione de facto. Nel giro di poche ore il governatore dem Jay Inslee ha proposto un accordo bipartisan che mantiene una pena detentiva per chi possiede droghe pesanti, a cui però può sottrarsi qualora decida di curarsi. Nonostante questi esempi non edificanti, la possibilità di legalizzare la marijuana a uso medico si è fatta strada anche in uno degli stati più conservatori, il Kansas: anche se dal 2021, dopo che un disegno di legge è stato approvato alla Camera, il Senato non lo ha nemmeno preso in considerazione. E gli stati progressisti invece l’ampliamento della legalizzazione non si ferma: si discute in questi giorni al Senato dell’Illinois della decriminalizzazione dell’uso medico dei cosiddetti funghi allucinogeni, usati da alcuni specialisti per il trattamento di ansia, depressione e altre patologie. Come abbiamo visto, la “guerra alle droghe” ormai non è un argomento che interessa nemmeno i repubblicani, anche se il traffico di un oppioide come il fentanyl, responsabile di centinaia di morti per overdose ogni anno, è stato uno dei temi toccati dal presidente Joe Biden anche in occasione del suo colloquio con il leader cinese Xi Jinping. Per altre sostanze meno pericolose invece, il rischio è la faciloneria con cui California e Oregon si sono approcciati alla questione, decidendo semplicemente di depenalizzare il reato non si sono sconfitte né le dipendenze né il narcotraffico, ben presente in entrambi i territori. Certo il tema del finanziamento delle strutture sanitarie deputate alla cura dei tossico dipendenti mal si presta alla retorica politica, però è un elemento che, se ignorato, rischia di vanificare tutti gli sforzi in questo senso per ridare fiato a una retorica proibizionista che non ha prodotto risultati degni di nota nel recente passato, se non qualche serie tv di alto livello come Breaking Bad. Padre Antonio Spadaro: “Non esistono guerre giuste” di DOMENICO AGASSO La Stampa Il teologo e sottosegretario in Vaticano: “Papa Francesco è stato chiaro: i conflitti sono ingiustificabili. Anche evocare l’uso del nucleare è criminale. I 30 mila morti a Gaza sono oltre qualsiasi proporzionalità”. A colpi di bombe e missili “il puzzle del mondo si va scomponendo. Evocare un conflitto nucleare o agire in modo che questa diventi un’opzione è follia”. Parola di padre Antonio Spadaro, sottosegretario del Dicastero vaticano per la Cultura e l’Educazione. L’Alto Prelato gesuita definisce “urgente la riforma del Consiglio di sicurezza dell’Onu per riprendere in mano la “governance” della pace”. Il mondo brucia e sanguina a causa delle guerre. “Siamo sull’orlo dell’abisso”, come ha avvertito papa Francesco? “Ci sono due cose che in questi giorni certificano una sorta di follia: si evoca la guerra nucleare e si giustificano le stragi di civili con argomentazioni ritenute “plausibili”. È un delirio. C’è un’espressione di Francesco che mi ritorna spesso in mente: “Il mondo si sta sgretolando”“. Il Pontefice per anni ha messo in guardia dalla “terza guerra mondiale a pezzi”, che ora è “un vero e proprio conflitto globale”: perché i suoi appelli sono caduti nel vuoto? “Il puzzle del mondo si va scomponendo. L’ordine di prima è sconvolto e non si capisce che cosa accadrà dopo. Certo le prossime elezioni potrebbero avere un impatto significativo sulla politica internazionale. Finché si procederà con la logica di Yalta non ne verremo fuori. Serve un approccio diverso. Francesco ha indicato nel multilateralismo e nello spirito degli accordi di Helsinki una strada”. Esiste una “guerra giusta”? Come va considerata la legittima difesa? “Nella sua enciclica “Fratelli tutti”, Francesco affronta la questione della guerra giusta affermando che oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Il Pontefice si rende conto che, di fronte alla potenza di distruzione delle nuove armi, le situazioni che giustificano la guerra sono davvero eccezionali. Sono saltate le proporzioni. La guerra è diventata ingiustificabile: si può solo sostenere la legittimità di difendersi militarmente se si è attaccati”. A quali proporzioni si riferisce? “Oggi non è più possibile distinguere le vittime civili e non civili. E poi la “guerra giusta” con la bomba atomica è pura follia. Ero a Nagasaki quando il Papa, cambiando il testo del discorso, condannò non solamente l’uso ma il possesso stesso delle armi nucleari. Fu un momento indimenticabile. E comunque i conflitti non risolvono le situazioni: e questo mi pare sia un dato di fatto”. In generale, con quali principi e messaggi la diplomazia della Santa Sede cerca di intervenire in un conflitto? “Il criterio è quello del cucire e mai del tagliare. Si tratta di una diplomazia “sartoriale”, che non pretende di avere tutte le soluzioni in tasca. Il suo obiettivo è quello di comprendere le radici del conflitto e di rimanere disponibile come interlocutrice per una possibile riconciliazione delle parti. Per la Chiesa madre tutti, buoni e cattivi, sono sempre figli e fratelli tra di loro: non bisogna mai dimenticare questa prospettiva quando si giudica l’azione della Santa Sede”. Il Pentagono dice: “Se Kiev perde, la Nato combatterà contro Mosca”. Putin evoca lo spettro nucleare. La Santa Sede fin da subito ha manifestato fortissimi timori di un’escalation militare: ora è vicina? “È una pura follia evocare un conflitto nucleare o agire in modo che questa diventi un’opzione possibile. Personalmente, comunque, no, non credo che si arrivi a tanto”. Che cosa pensa della fine di Navalny? “È una morte che stupisce e addolora. È necessario chiarire cosa sia veramente successo. Non so se sarà possibile”. Ha speranza in una tregua in Ucraina? “Francamente non vedo elementi che facciano sperare in una tregua, almeno a breve. Nessuna delle parti accetta un negoziato. È stato anche evocato lo scenario di una “coreanizzazione” del conflitto, cioè di un suo congelamento, ma il cessate il fuoco viene inteso come un tempo utile al riarmo. Bisogna portare le parti a un tavolo: non vedo altre strade”. Come descrive la situazione in Israele e Palestina, in particolare dopo il massacro degli affamati a Gaza? “È una situazione terrificante. È da condannare in modo netto e senza riserve l’azione di Hamas del 7 ottobre. I 30mila morti provocati dalla reazione israeliana vanno al di là di qualunque proporzionalità. La dinamica della strage degli affamati può e deve essere chiarita meglio nelle sue circostanze “tecniche”, ma la tragedia è sotto i nostri occhi sbigottiti: stiamo parlando della morte di gente disperata e ridotta alla fame”. La guerra a Gaza in risposta agli attacchi del 7 ottobre ha diviso gli israeliani? Quali responsabilità ha Netanyahu? “Non spetta a me dirlo. Registro il fatto che anche all’interno di Israele ci sono opinioni differenti, e questo in una democrazia è normale. Semplicemente mi interrogo: si sta lavorando per un futuro davvero sicuro e pacifico dello Stato di Israele?”. Esiste un problema di rapporti tra Israele e il Vaticano? “No, non ci sono problemi. Anche un recente fraintendimento è stato chiarito”. Quale può essere la via per placare le ostilità? Hamas che libera i prigionieri e Israele che interrompe i bombardamenti: può avvenire? In tempi brevi? Basterebbe a fermare le violenze? “Non ho ricette pronte all’uso. I prigionieri devono poter tornare a casa e la strage della popolazione inerme della Striscia di Gaza deve fermarsi. Invece sembra che oggi si riesca solamente a mettere solide basi per un odio stabile e generazionale. Questo è il vero nodo: si è persa la visione di un futuro possibile”. La Santa Sede indica la soluzione dei due Stati come unica meta a cui aspirare per risolvere la questione Israele-Palestina. Che cosa ne pensa? “Nel 1947 le Nazioni Unite approvarono la Risoluzione 181, che divideva la Palestina in due Stati: uno ebraico e l’altro arabo-palestinese. La Santa Sede auspica questa soluzione. Questo non significa che sarebbe pronta per essere applicata domani. I problemi restano sul tappeto”. Quali sono, a suo parere, gli ostacoli principali? “Occorre che i palestinesi maturino una classe dirigente solida, credibile ed efficace, che superi i dissensi interni. Poi, se si osserva la realtà sul campo, con i tanti insediamenti ebraici nelle terre occupate durante la guerra del 1967, si comprende che attualmente non è possibile ritagliare due Stati sovrani e sicuri. Infine la realtà demografica oggi ci dice che all’interno di Israele, i cittadini arabi palestinesi, sono in crescita demografica. Secondo i dati di un paio di anni fa costituiscono oltre il 20% della popolazione. D’altra parte circa 700mila ebrei israeliani vivono in Cisgiordania. Nel maggio 2019 l’Assemblea degli Ordinari cattolici in Terra Santa si interrogò così: nel passato abbiamo vissuto insieme in questa terra, perché non potremmo viverci insieme anche in futuro? Il conflitto attuale ha reso questa prospettiva più lontana, e per questo l’idea di due Stati che vivano fianco a fianco in pace e sicurezza si ripropone, pur con tanti interrogativi”. Come dovrebbe attrezzarsi la comunità internazionale per affrontare le guerre in corso e prevenire quelle future? Quali i pilastri su cui ricostruire dal punto di vista geopolitico un pianeta riconciliato? Multilateralismo? Potenziamento dell’Onu? “La Santa Sede insiste sull’importanza del multilateralismo nell’affrontare i temi caldi e le situazioni di crisi. Come insiste sulla volontà di non arrendersi alla logica senza uscita dell’escalation militare degli “schemi di guerra”, come li chiama il Papa. Ma propone anche il rifiuto di una politica basata su sfere di influenza, quella stabilita a Yalta, insomma, alla fine della seconda guerra mondiale. Questo però richiede lo sforzo di immaginare un ripensamento dell’architettura delle relazioni internazionali. È uno sforzo immane, che certamente va di pari passo con una possibile riforma delle Nazioni Unite, che in realtà anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, prima di Francesco, avevano auspicato. Le sfide che stiamo vivendo non possono essere affrontate solo dai governi in un sistema “condominiale” troppo litigioso e inconcludente. La riforma del Consiglio di sicurezza è la più urgente per riprendere in mano la “governance” della pace”.