Dap, prevenzione dei suicidi solo a parole di Francesco Lo Piccolo* vocididentro.it, 31 marzo 2024 Si chiama Wail Boulaied, ha 24 anni, ha un passato di tossicodipendenza, è instabile, con accertato disturbo borderline di personalità, ed è anche a rischio suicidio. Ovviamente che fa il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria? Usa il buon senso? Previene? No. Fa tutto il contrario: lo trasferisce dal carcere di Padova - dove era richiuso con una condanna a 26 anni di carcere per concorso in omicidio - e dove era avviato in un percorso di recupero (stava meglio, non minacciava più di tagliarsi o di uccidersi) e lo manda, oltre che lontano dai parenti, in un carcere dove ci sono pochi medici e psicologi e dove le condizioni di vita carceraria sono carenti sotto tutti i punti di vista. È così che può essere riassunta la storia che mi racconta in questa mattina di viglia di Pasqua Igor Zornetta, avvocato: “Wail Boulaied, nato in Marocco, ma in Italia da quando aveva 7 anni, è poco più di un ragazzo: ha avuto un’infanzia devastante, un padre che lo picchiava e un passato fatto di droga, furti, incendi. Si era messo con una donna di quasi sessant’anni, amante e mamma insieme e che forse voleva aiutarlo. Quattro anni fa, dopo una notte di alcol e psicofarmaci, Wail in compagnia di un amico uccide la donna”. L’avvocato Zornetta continua: “I parenti di Wail mi raccontano che sta male, da quando lo hanno trasferito dal carcere di Padova a quello di Vigevano non ha più alcun aiuto, è solo, in una cella sporca, e mangia poco. Loro, il fratello e gli zii, hanno difficoltà a spostarsi; per motivi di lavoro non possono andare a trovarlo e al telefono lo sentono strano, peggiorato. Nel carcere di Padova, grazie al personale medico e ai volontari la sua esistenza aveva cominciato a prendere la giusta strada, addirittura lavorava come portavitto. Insomma un inizio di cambiamento, ma improvvisamente interrotto: per mancanza di spazio a causa di alcuni lavori di ristrutturazione, Wail viene trasferito a Vigevano”. Pessima scelta: nel carcere di Vigevano ci sono 380 detenuti quando i posti sono 242, gli educatori sono 4 quando nella pianta organica dovrebbero essere 8, gli agenti in servizio sono 190 anziché 240 come previsto. Tantissimi i detenuti con problemi psichiatrici, venti casi di autolesionismo nel 2022, altrettante le aggressioni al personale di polizia. In un recente rapporto così parla dell’Istituto di Vigevano l’associazione Antigone: celle piccole e buie, generalmente da 2 posti, senza doccia in cella, pochi spazi per attività trattamentali, scolastiche, lavorative, sostanzialmente inadatto a offrire attività trattamentali tipiche di una casa di reclusione. Inoltre, l’edificio presente consistenti problemi di infiltrazioni, il che comporta perdite d’acqua in alcuni bagni e l’inagibilità di alcune delle già poche sale comuni. E non è finita. Sempre dall’ultimo rapporto di Antigone: “Il responsabile ASL per il carcere riferisce di grandi difficoltà nel reperire risorse adeguate in ambito sanitario. Sono presenti 29 medici che si dividono i tre istituti di Pavia, Voghera e Vigevano, il che non consente di garantire sempre la presenza di un medico h24 in istituto. Per sopperire alla carenza di risorse, si fa spesso utilizzo di medici specializzandi come liberi professionisti, i quali però non garantiscono una presenza fissa e di lungo periodo, ma spesso sono di passaggio. in generale il 98% di detenuti presenti in istituto assume terapie di ogni tipo. In particolare, viene segnalato l’uso massiccio di un farmaco allucinogeno, che verrà a breve sostituito con altra terapia”. Mi dice l’avvocato Zornetta che ha fatto richiesta per il riavvicinamento del detenuto presso un carcere vicino ai parenti e che la richiesta è rimasta lettera morta. Insomma, per concludere, si aspetta forse il suicidio? Non bastano i 28 avvenuti dall’inizio dell’anno a oggi? *Direttore di Voci di Dentro La vicenda del detenuto albanese che smentisce Nordio di Eleonora Martini Il Manifesto, 31 marzo 2024 Nel carcere di Torino l’uomo è arrivato a pesare 30 chili dopo due scioperi della fame attuati per ottenere l’espiazione della pena in Albania. La stretta di mano tra il ministro di Giustizia Nordio e il suo omologo albanese Ulsi Manja aveva suggellato, il 14 novembre 2023, l’intesa politica “di dare effettiva attuazione al protocollo bilaterale, firmato nel 2017, per il trasferimento dei detenuti albanesi dalle carceri italiane a quelle del Paese d’origine”, nel quadro - così recitava la nota di via Arenula - “degli eccellenti rapporti tra i due Paesi, resi ancor più solidi dalla firma del recente protocollo sull’immigrazione da parte della Presidente Giorgia Meloni e del Primo ministro albanese Edi Rama”. Quattro mesi e mezzo dopo possiamo ben dire che quella stretta di mano non aveva alcun reale significato se non quello promozionale, almeno stando al destino di un detenuto albanese di 56 anni recluso nel carcere di Torino “Lorusso e Cutugno” che dal 2019 chiede invano di essere trasferito in un penitenziario del suo Paese natale per stare più vicino ai suoi tre figli minori, e per questo è stato per mesi in sciopero della fame, della sete e delle terapie al punto da ridursi su una sedia a rotelle, “debilitato terribilmente nel corpo e nella mente, fino ad arrivare a pesare 30 chili”, come riferisce la Garante dei detenuti del Comune di Torino, Monica Gallo, che da anni segue il caso. L’uomo, M.E., recluso dal 2019 nel circuito media sicurezza con fine pena 2030, “ha tutti i requisiti richiesti dalla Convenzione di Strasburgo del 1983 sul trasferimento delle persone condannate per scontare la pena nel Paese d’origine”, precisa Gallo. Nel 2020 venne ricoverato per otto mesi nell’ospedale Molinette per le conseguenze del suo primo sciopero totale (non assumeva né alimenti, né farmaci né liquidi). Nel nosocomio torinese è tornato poi di nuovo a metà febbraio di quest’anno, “visto l’aggravamento progressivo delle sue condizioni”. Attualmente, prosegue la Garante di Torino, “malgrado abbia ripreso ad alimentarsi normalmente, ha però ormai perso quasi del tutto le capacità di deambulazione, e presenta forti instabilità psichiche”. Per questo, come ha riferito il sottosegretario Ostellari rispondendo un paio di giorni fa alla interpellanza della senatrice Anna Rossomando, è attualmente ristretto nell’infermeria del carcere. In quella occasione, il sottosegretario leghista si è limitato però a riferire che il governo italiano si sarebbe attivato sul caso, “trasmettendo una nota interlocutoria all’ufficio competente” albanese e, “in mancanza di riscontro”, ha “provveduto ad inviare un nuovo sollecito”. E, ha aggiunto Ostellari, del caso si è occupato anche il Provveditore regionale che “ha inviato una lettera al Consolato generale” dell’Albania. Insomma, come ha replicato la senatrice Rossomando, “siamo ancora alle non risposte”. Ma in realtà il ministero della Giustizia un mese fa aveva avvertito la Garante Gallo che erano stati sospesi i trasferimenti dei detenuti in Albania “per l’insufficiente capienza delle strutture carcerarie albanesi e per altre contingenti ragioni come il tempo di lavorazione e i costi di traduzione in lingua albanese di tutta la documentazione necessaria”. Come se si trattasse di eventi accidentali, impossibili da prevedere al tempo dello sbandierato accordo tra i due Guardasigilli. Naturalmente non è così (e infatti Ostellari se n’è guardato bene dal ripeterlo) come dimostra anche l’ultimo rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura sulle carceri albanesi, dopo la visita dell’anno scorso durante la quale il Cpt ha rilevato che “l’Albania continua ad avere uno dei tassi di incarcerazione più alti d’Europa” con “più della metà della popolazione carceraria totale” detenuta in custodia cautelare. Numeri che reggono il confronto (in negativo) con il sovraffollamento del carcere torinese dove a fronte di 1064 posti vi sono rinchiuse 1460 persone. Cinque psichiatri in tutto, nessuno in pianta stabile nell’Articolazione di tutela della salute mentale femminile. Però il sottosegretario Ostellari ha riferito al Senato di aver coinvolto, per il caso del detenuto albanese, il cappellano del carcere. I parlamentari, tranquillizzati, ringraziano. L’Autorità per l’infanzia e adolescenza: non serve mettere i ragazzi in galera di Paolo Fruncillo La Discussione, 31 marzo 2024 Non serve mettere più ragazzi in carcere. “L’approccio punitivo deve essere accompagnato da un investimento in termini educativi e di reinserimento sociale”. Ad affermarlo è Carla Garlatti, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza che si appoggia anche alle considerazioni del Tribunale dei minori di Trento, che è dello stesso avviso. In Italia sono 380 i ragazzi detenuti negli Istituti Penali per Minorenni al 15 marzo 2023 (tra cui solo 12 ragazze). E sono 17 i bambini fino a 3 anni che si trovano con le madri ospitati in case famiglia protette. Erano oltre 50 prima della pandemia che, invece, ha favorito una migliore collocazione delle detenute madri. La direzione da prendere - “Il gip trentino - spiega Garlatti - ha sollevato questione di legittimità sull’articolo 27 bis del decreto Caivano, relativo al percorso di rieducazione del minorenne, nella misura in cui prevede per chi è sottoposto a procedimento penale una risposta giurisdizionale di tipo sanzionatorio piuttosto che una di tipo educativo”. L’aumento dei minorenni reclusi che ha denunciato anche l’associazione Antigone non rappresenta un successo del sistema, bensì svela la necessità di investire maggiormente nella prevenzione. “In compenso ho accolto con favore la previsione che invece fa lo stesso decreto Caivano rispetto alla presa in carico precoce della famiglia. Questa è una delle direzioni da prendere”. L’importanza della scuola - “Andrebbe inoltre ampliato il ricorso alla giustizia riparativa - aggiunge l’Autorità - e, a livello culturale, andrebbe aumentato anche il numero delle scuole che prevedano il ricorso al modello di scuola riparativa accanto al tradizionale apparato sanzionatorio. Si tratta di uno strumento di risoluzione pacifica dei conflitti, e potenziale antidoto a bullismo e cyberbullismo, che ho sperimentato direttamente come Autorità garante. Fondamentale è la lotta alla povertà educativa e alla dispersione scolastica”. La rabbia non deve ingannarci - Un altro ambito sul quale porre attenzione, evidenziato da Garlatti, è quello dell’aumento del consumo di alcol, in particolare tra le ragazze che emerge dalla Relazione al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze 2023. In forte aumento anche l’uso di psicofarmaci senza prescrizione medica e della cannabis, seguita dalle nuove sostanze come ad esempio inalanti, solventi, cannabinoidi sintetici e altri. “La rabbia che i ragazzi manifestano - spiega l’Autorità - non deve ingannarci e farli raccontare solo per i comportamenti negativi. Piuttosto deve indurci a cercarne le ragioni. Per capirli occorre ascoltare la loro voce, analizzare i loro comportamenti e osservare come si esprimono. Se prendiamo le canzoni trap, ad esempio, ci troviamo di fronte a un genere che nasce in alcuni contesti marginali, ma è ascoltato anche da molti altri ragazzi. Si parla di rivalsa sociale, di realizzazione attraverso il lusso, di donne come oggetto sessuale, di uso della violenza e delle armi per risolvere le contrapposizioni. Attenzione però: non sto dicendo che si tratta di un’istigazione, ma il fatto che questi brani abbiano successo rappresenta un segnale che ci arriva del malessere giovanile”. La situazione oggi - Sono 380 i ragazzi detenuti negli Istituti Penali per Minorenni al 15 marzo 2023 (tra cui solo 12 ragazze), pari al 2,7% del totale dei ragazzi in carico ai servizi della giustizia minorile. I minori in Ipm sono 180, mentre sono 200 i giovani adulti tra i diciotto e i venticinque anni che hanno commesso il reato da minorenni. I ragazzi stranieri sono il 46,8% del totale dei ragazzi detenuti, ovvero 178. Tra loro, le ragazze sono 5. Il numero delle presenze nelle carceri minorili italiane - che negli ultimi quindici anni ha raramente superato le 500 unità - è tornato quello che era prima del calo dovuto alla pandemia. Erano infatti 374 al 15 febbraio 2020, numero sceso in due mesi di 90 unità - cioè quasi del 25% - con l’emergenza sanitaria. Nel maggio 2020 si contavano negli ipm 280 minorenni o giovani adulti, una cifra rimasta più o meno stabile nei mesi successivi, che aveva lasciato sperare non sarebbe tornata a crescere. Ma così non è accaduto. Davvero i magistrati commettono meno errori dei medici? di Alfonso Ruffo ilsussidiario.net, 31 marzo 2024 Dal 2010 al 2021 solo otto giudici sono stati condannati per responsabilità civile, mentre per malasanità circa 40.000 medici. Pochi numeri per definire il fenomeno. Dal 2010 al 2021 sono state intentate in Italia contro esponenti della magistratura 544 cause per responsabilità civile (in media 50 l’anno). In tutto le condanne definitive sono state 8, pari all’1,4% dell’ammontare complessivo delle richieste avanzate da cittadini in cerca di riparazione contro accertati casi di malagiustizia. Nello stesso arco di tempo i medici denunciati sono stati 385.000 (in media 35.000 l’anno) e anche se solo il 10% del campione è alla fine considerato colpevole si tratta pur sempre di quasi 40.000 professionisti consegnati al rigore della legge (circa 3.500 l’anno) per accertati casi di malasanità. Una situazione che induce il Collegio dei chirurghi a sentirsi sotto attacco. Dunque, riepiloghiamo. Negli undici anni considerati - 2010/2021 - abbiamo avuto in media 3.500 denunce l’anno per risarcimento danni contro medici a fronte di 50 contro giudici. Trecentocinquanta le condanne per i medici (il 10% dei casi), meno di una l’anno per i giudici (8 in 11 anni). Il confronto appare impietoso: un giudice denunciato per ogni 70 medici. Ora le possibilità sono tre. O i magistrati sono 70 volte più bravi dei medici (e allora ci sarebbe davvero da spaventarsi per la nostra salute) o sono 70 volte più persuasivi nell’evitare di farsi aggredire quando sbagliano o le regole sono architettate in modo da favorire le reazioni contro il malcontento sanitario e scoraggiare i tentatiti di rivalsa contro il malcontento giudiziario. Il fatto è che i giudici e il mondo che li circonda fanno paura. I medici, no. L’esperienza insegna che nonostante un importante e quasi plebiscitario pronunciamento popolare (con tanto di referendum) per affermare il principio della responsabilità civile dei magistrati, l’ordinamento si è blindato in modo da rendere inefficace qualsiasi tentativo di averne ragione. In più le cause costano molto e durano un’infinità di tempo. Tempo che i magistrati hanno in abbondanza (chi gli corre dietro?) e che i cittadini normali amerebbero non perdere perché affaccendati a procurarsi i mezzi per vivere. In quanto ai soldi, i cittadini pagano di tasca propria mentre magistrati e magistratura li mettono sul conto di Pantalone e cioè di tutti noi contribuenti. Il che dà luogo a un’insopportabile stortura (l’ennesima) per la quale i cittadini devono ricorrere ai propri denari due volte: in forma diretta sopportando le spese degli accidenti giudiziari nei quali incappano, in forma indiretta versando le tasse con cui garantiscono ai magistrati lo stipendio e pure le sostanze che dovessero eventualmente servire a riparare i danni che provocano. Il confronto è impari. Anche perché i magistrati - parliamo più propriamente dei Pubblici ministeri che hanno il compito di sostenere l’accusa e troppo spesso la fabbricano - hanno a loro disposizione, sempre a carico della fiscalità generale, mezzi sofisticati d’indagine e un plotone di poliziotti, carabinieri, finanzieri al loro servizio desideroso di non deluderne le aspettative. Chi ha avuto esperienza di queste faccende - ma basta leggere un po’ di cronache per farsene capace - sa anche che gli avvocati raramente si arrischiano a consigliare ai propri clienti, seppur assolti dopo il calvario del processo, azioni contro gli inquirenti che con leggerezza distruggono vita e reputazioni senza ritegno né vergogna. Perché imbarcarsi in avventure che portano a niente? Ora, il coraggioso Riformista - da pochi giorni diretto da Alessandro Barbano - informa dati alla mano che uno dei procuratori più in vista del Paese ha messo sotto inchiesta nella sua lunga carriera il doppio delle persone poi andate a processo. Un innocente per ogni possibile colpevole. Il rapporto è del 50% Lo stesso risultato si potrebbe avere lanciando la monetina. Senza il reato di abuso d’ufficio indagini più difficili? Cantone e l’ideologia del reato spia di Alberto Cisterna Il Riformista, 31 marzo 2024 Il procuratore di Perugia denuncia “un arretramento significativo nella lotta alla corruzione”, secondo una logica dell’Antimafia. Ma non si può adoperare l’abuso come manifestazione minore di un malaffare, senza rischiare di dare una lettura criminogena fondata sul sospetto, scatenando una reazione sociale. Il moltiplicarsi dei fronti aperti dalla politica in questi giorni suscita nella magistratura una comprensibile preoccupazione. Dall’introduzione dei test psicologici per il concorso al fascicolo personale per valutare il giudice, dal profilarsi della separazione delle carriere all’abrogazione dell’abuso d’ufficio è un susseguirsi di iniziative che stanno costringendo l’Anm, e molti procuratori della Repubblica, a una sorta di tour de force mediatico e istituzionale per dare voce alle proprie allarmate prese di posizione. Nei giorni scorsi è toccato ai procuratori di importanti sedi giudiziarie esprimere le proprie, gravi perplessità per l’abolizione del reato d’abuso d’ufficio in sede di commissione parlamentare. L’obiezione che le toghe muovono a una tale soppressione è stata efficacemente espressa dal procuratore Cantone secondo cui “l’abrogazione dell’abuso d’ufficio rappresenta un arretramento significativo nel contrasto ai reati contro la PA e soprattutto ai fatti corruttivi e renderà più complesse le indagini”. Il ragionamento è chiaro: l’abuso d’ufficio è una sorta di filo d’Arianna che consente di risalire la china del malaffare e di penetrare nel labirinto oscuro della corruzione. Un faro acceso sulla pubblica amministrazione che può illuminare il sentiero verso l’accertamento di reati molto più gravi. Insomma, è quello che ormai tutti definiscono un “reato spia”. Categoria che fa’ inorridire i puristi del diritto penale, secondo cui l’incriminazione delle condotte è consentita solo quando abbiano un proprio, credibile disvalore sociale e non perché siano predittive di altri reati. Si potrebbe discutere per molto tempo di queste cose che, tuttavia, rischiano di perdere di vista la sostanza della discussione in corso e ignorano l’urgere dei tempi. L’abrogazione tout court del reato non può condividersi perché porta con sé l’esclusione della pena anche per tutti i casi in cui il funzionario pubblico abbia violato il dovere di astensione e ciò è obiettivamente un problema grave che minaccia la stessa legittimità costituzionale della norma che il Parlamento si appresta a varare. Neppure il “partito dei sindaci”, l’entità politica trasversale che invoca da anni l’abolizione dell’abuso d’ufficio, ha mai messo in discussione questa parte della norma incriminatrice. Ma tant’è e la sorte dell’acqua sporca. Fatta questa precisazione, il discorso flette nuovamente verso la posizione espressa dai procuratori della Repubblica, ossia verso la tesi che ravvisa nell’articolo 323 Cp una sorta di utilità marginale che il reato avrebbe per scardinare le porte dell’omertà corruttiva e per accertare più gravi violazioni di legge. suDue osservazioni sul punto. Perché quel ragionamento possa ritenersi pienamente persuasivo, e non meramente suggestivo, occorrerebbe disporre di dati certi che dimostrino che, in un numero apprezzabile di casi, la corruzione sia stata scoperta a partire da una semplice indagine per abuso d’ufficio che, come si sa, non consente attività investigative penetranti come trojan e cose del genere. In altre parole, si dovrebbero indicare al Parlamento frequenze statistiche che dimostrino l’assunto per consegnargli le stimmate di una verità condivisa. La rilevazione è certamente possibile e nel farla si dovrebbe tenere in considerazione che il rapporto tra indagini per abuso d’ufficio e indagini per corruzione, turbativa d’asta e via seguitando è di circa 100 a 1, con uno spread elevato cui corrisponde il costo sociale e politico lamentato dagli “abrogazionisti” del reato. Per ribaltare l’argomento “particolarmente testardo” che archiviazioni e assoluzioni a valanga consegnano al partito dell’abolizione sarebbero indispensabili cifre di segno contrario che dimostrino la necessità, invece, di tenere in piedi l’articolo 323 per giungere a risultati investigativi altrimenti inaccessibili. La seconda questione è più delicata. La circostanza che le audizioni e le prese di posizione provengano da apprezzati titolari di uffici di procura distrettuale nasconde il fondamento, per così dire, ideologico e metodologico che queste riflessioni imprimono alla discussione in atto. Sono, per lo più, procuratori antimafia di grande professionalità ed esperienza, quelli intervistati o auditi, che hanno coltivato con convinzione e con successo un metodo di investigazione che assegna, appunto, rilievo centrale ai cosiddetti reati-spia. Le associazioni mafiose sono nebulose opache, nascoste, avvolte nelle tenebre dell’omertà e delle complicità e per potervi penetrare sono necessarie indagini su singoli episodi criminosi che segnalino - secondo una certa precomprensione del fenomeno - l’esistenza di retrostanti o sottostanti raggruppamenti mafiosi. Un attentato, un incendio, un’intimidazione, un arsenale d’armi, un’usura, un ferimento. Il reato “minore” punta l’indice verso quello “maggiore” e pretende che le investigazioni si lancino nello squarcio per gettare una luce sui clan rimasti nell’ombra. Anche questo ha un prezzo, ovviamente, in termini di sacrificio dei diritti, di esplorazione a strascico, ma il discorso ha una sua linearità e può essere accettato. La legge Spazzacorrotti ha esteso questa metodologia e gli strumenti che porta con sé (dal pentitismo alle misure di prevenzione, con qualche aggiustamento e adattamento) dal terreno delle mafie a quello, appunto, del malaffare. Con un problema, tuttavia: ossia che il reato-spia dell’abuso non ha quella capacità rappresentativa (se vogliamo, predittiva) che hanno per le mafie gli episodi criminosi di cui si è detto. L’abuso d’ufficio non è l’anticamera o la manifestazione ragionevolmente certa di una corruzione o di una concussione, così come l’incendio di un negozio lo è per il racket mafioso. Così l’indagine per abuso smarrisce la legittimazione “ideologica” e criminologica che gli si intende assegnare per preservarlo dalla cancellazione e si atteggia a strumento percepito (a torto o a ragione) dagli amministratori pubblici come vessatorio e dannoso. Traslare, o anche solo pretendere di assimilare, l’approccio investigativo adoperato per le mafie al territorio della corruzione sconta, quindi, un duplice deficit. Da un lato la correlazione tra un attentato incendiario e una latente cosca di mafia è un legame forte che si fonda su un consenso sociale e giuridico significativo in forza del principio di territorialità dei clan. Dall’altro, invece, non si può adoperare l’abuso come manifestazione minore di un malaffare, poiché in questo caso non solo il legame è debole, ma a lungo andare (e malgrado gli aggiustamenti legislativi) si è provocato un moto di reazione particolarmente violento e profondo. Perché se l’abuso sembra aver fallito - in larga misura - sul crinale giudiziario come “spia” delle corruzioni, ha invece manifestato tutta la propria virulenza dirompente sul versante politico e mediatico essendo stato metabolizzato dalla pubblica opinione (soprattutto locale) esattamente come esemplificativo di pubblici funzionari disonesti e clientelari. È una strada che deve essere, a ogni evidenza, abbandonata, soprattutto da parte di chi con qualche ragione si oppone all’abrogazione dell’articolo 323, perché è proprio l’aver qualificato e adoperato l’abuso d’ufficio in questa traiettoria obliqua che ha reso forte la posizione di chi oggi ne invoca la cancellazione. A dimostrazione che, a lungo andare, una scarsa sorveglianza sull’intera cultura investigativa genera modelli e strumenti che sono stati giustamente presi a riferimento per combattere le mafie, ma che tendono pericolosamente a tracimare in direzione di ambiti profondamente diversi, verso una pubblica amministrazione che è governata da regole, principi e strumenti di controllo e che nulla ha a che vedere con i problemi posti dalla palude mafiosa. Figli dei boss e voglia di riscatto: “Penne e quaderni al posto delle armi” di Antonio Maria Mira Avvenire, 31 marzo 2024 l protocollo “Liberi di scegliere”, finanziato dalla Cei, entro l’estate sarà al centro di un disegno di legge, per garantire un futuro lontano dalle mafie. Francesca sta seguendo in diretta streaming il convegno sul progetto “Liberi di scegliere” per le donne e i minori che hanno scelto la libertà dalle mafie. Si è tenuto al Senato, promosso dal Comitato Cultura della legalità e Protezione dei minori della Commissione parlamentare antimafia. Partecipano magistrati, parlamentari, esperti del Terzo settore. Si parla della necessità di una legge che vada oltre il Protocollo appena rinnovato. Francesca (il nome è di fantasia) ascolta e poi scrive nella chat dell’iniziativa. “Sono emozionata. Finalmente si parla di noi in un luogo in cui c’è speranza. E piango”. La storia è di qualche giorno fa. Francesca è una delle donne che hanno scelto di essere libere, una delle prime, nel progetto dal 2016 assieme ai tre bambini. Meno di 40 anni, calabrese, sposata con un esponente della ‘ndrangheta in carcere al 41 bis. Una storia che ci racconta Enza Rando, senatrice del Pd, coordinatrice del Comitato, scelta dalla presidente della Commissione, Chiara Colosimo, di Fratelli d’Italia, per la sua lunga esperienza proprio con donne e minori. Avvocato, ex vicepresidente di Libera, ha seguito fin dall’inizio “Liberi di scegliere”, affiancando l’ideatore, il presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella. “Il protocollo è importante però legittima una prassi, ma c’è bisogno di una cornice legislativa per tante problematiche che ci sono e delle quali lo Stato si deve prendere cura. Come ha detto la presidente dobbiamo avere entro l’estate un disegno di legge per dare una risposta a questi nodi. Ci stiamo lavorando in modo che tutte le forze politiche che sono in commissione possano conoscere il fenomeno e poi elaborare, tutti insieme, una proposta”. Per questo il Comitato ha già ascoltato Di Bella, seguiranno altri magistrati, don Luigi Ciotti, la Cei (che sta finanziando il progetto), e alcune donne, tra le quali proprio Francesca, perché la sua storia è esemplare. Entra nel progetto “Liberi di scegliere” nel 2016. “Stava facendo un percorso molto bello, avevamo trovato una famiglia che la seguiva. Per la prima volta capiva cosa erano la generosità, l’accoglienza, si era trasformata”. Ma, dopo due anni, la Cassazione rende definitiva la condanna che aveva avuto, con l’aggravante mafiosa. Era accusata di estorsione perché era andata a prendere dei soldi. Condanna di quasi tre anni, deve andare in carcere. Ma lei aveva già fatto una scelta di vita. Bisognava affrontare due problemi. Come fare con i bambini che già avevano fatto un percorso a dire che la mamma era andata in carcere. “Abbiamo trovato una famiglia affidataria, straordinaria, due insegnanti che si sono presi cura dei bambini, li portavano in carcere dalla mamma, e ancora oggi sono un punto di riferimento di lei e dei figli”. Ma la condanna era troppo lunga per dei bambini. E qui emerge l’altro problema. Chi ha una condanna per 416 bis o l’aggravante mafiosa, non può beneficiare di forme alternative al carcere. “Ho pensato che potevamo provare con la “collaborazione impossibile”. Questa donna, anche volendo collaborare era impossibilitata a farlo perché non c’erano elementi nuovi che poteva fornire. Ma se uno non ha le condizioni giuridiche, però vuole cambiare, perché non deve essere considerato?”. Viene così fatta un’istanza al Tribunale per dire che era meglio di una collaboratrice perché aveva fatto il percorso di “Liberi di scegliere”, era andata via dalla Calabria, era seguita da Libera. Don Ciotti fece una relazione e così anche i servizi sociali. L’8 marzo 2019, una straordinaria coincidenza, il Tribunale emise il provvedimento accettando questa interpretazione. “Siamo andati in carcere coi fiori a portarle la notizia. Non posso dimenticare il suo grido di gioia. I bambini erano a scuola. Quando sono tornati a casa e hanno visto la mamma, lei ha detto “voi dovete ringraziare le istituzioni perché hanno avuto fiducia in me”. E loro mi hanno detto “Enza ci ringrazi le istituzioni?”. Una scena bellissima”. Non l’unica, di questa storia. La nonna, la mamma del marito, era in carcere. Quando esce chiede al giudice di poter vedere i nipoti. Ha avuto un figlio ucciso ad appena 16 anni e due al 41 bis, e anche il marito. “L’abbiamo incontrata in una città terza. È arrivata con tanti regali. Eravamo presenti io, la mamma e la psicologa. I bambini le dicono “nonna perché non hai fatto la stessa cosa che ha fatto la mamma? Se lo avessi fatto noi ora avremmo qui papà”. La nonna, in lacrime, ha risposto: “Appena hanno ammazzato mio figlio, sono morta anche io, non capivo nulla. Gli altri figli hanno preso la strada sbagliata ma io non li abbandonerò mai, però se avessi incontrato un giudice come il dottor Di Bella e un’associazione come Libera, forse lo avrei fatto, ma ero sola”. “Io sono rimasta stupita - ricorda Enza Rando -. I bambini soddisfatti. Le ho detto “oggi Libera c’è, se vuole ci siamo”. Mi ha risposto “mio marito esce tra poco dopo 40 anni di carcere. Io non lo conosco più. E devo fare anche la badante perché non sta bene. Cosa faccio?”. Purtroppo è morta presto, in pochi mesi. Questo però dice quanto può essere rivoluzionario questo progetto”. Da questa e altre storie deve nascere la legge. “Non è facile. Come fai a scrivere di umanità, di accompagnamento? Però, sulla scorta dell’esperienza di chi l’ha vissuto, delle linee guida le possiamo indicare”. La prima è che donne e minori devono avere il cambio di generalità e nomi di copertura per avere una vita normale, lavorare, andare a scuola, perché li cercano per ammazzarli. Lo Stato deve poi prendersi cura della loro sicurezza. L’altra cosa importante è costruire per i minori una rete di accoglienza sia in comunità che, preferibilmente, in famiglie. “Bisogna preparare le famiglie a un affido in un contesto particolare, pronte ad un’accoglienza nella cultura della legalità. Quando una ragazzina mi dice “io in famiglia avevo armi e proiettili e invece qui ho penne e quaderni”, è una cosa forte. E ci vogliono le risorse. Hanno bisogno di una casa e finché non lavorano e di un sostegno per vivere”. E infine risolvere, con una norma, la questione della collaborazione, per evitare che finiscano in carcere, con rischi altissimi. Questo attendono le donne che coi fatti hanno già scelto. Alcune di loro erano il 21 marzo al Circo Massimo in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno, in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. “Erano emozionate, contente di esserci e di aver fatto la scelta di legalità”. Così come lo scorso 30 ottobre con Papa Francesco. “Quell’incontro le ha cambiate. Hanno sentito che esistono, che sono state accolte. Molte di loro si sentono in colpa, “perché ho fatto questa cosa, perché sono stata sposata con un mafioso?”. Si rendono conto che erano finite in un posto sbagliato. Invece in quel caso si sono sentite nel posto giusto. “Qualcuno ci sta dando fiducia, esistiamo coi nostri problemi e coi nostri cambiamenti, ma esistiamo”. Pavia. Altro dramma in cella a Torre del Gallo, detenuto si impicca con il cavo della tv di Adriano Agatti La Provincia Pavese, 31 marzo 2024 Disperato intervento degli operatori che lo rianimano: il 42enne è ricoverato in ospedale in condizioni gravissime. Era nel reparto “Osservazione Isolati”. Venti giorni dopo il suicidio del trapper di 27 anni Jeffrey Jordan Baby si è verificato un altro drammatico tentativo di suicidio all’interno del carcere di Torre del Gallo. Ieri pomeriggio un detenuto nordafricano di 42 anni ha cercato di togliersi la vita impiccandosi nella sua cella dell’ottava sezione ed è stato strappato alla morte grazie all’intervento tempestivo degli agenti della polizia penitenziaria. È stato ricoverato in condizioni disperate nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Matteo: la sua vita è appesa a un filo sottilissimo. Un episodio che dimostra, per l’ennesima volta, il disagio esistente all’interno del carcere pavese. Nel carcere di Torre del Gallo ci sono 650 detenuti, di cui 357 stranieri. Dati del ministero aggiornati 29 febbraio 2024. Una situazione di sovraffollamento che dura da tempo. La capienza prevista per il carcere di Pavia, aperto nel 1992, è di 515 posti. Sovraffollamento registrato anche nelle altre due strutture carcerarie della provincia di Pavia. Sono quella di Vigevano (357 detenuti a fronte di 242 posti di capienza), mentre a Voghera ci sono 360 detenuti su una capienza di 341. Sezione isolati - È successo, ieri pomeriggio verso le 13.30, nella sezione osservazione isolati. Si tratta di un reparto dove sono detenute persone sia per motivi particolari ad esempio di salute oppure disciplinari. Il 42enne nordafricano era solo in cella quando ha staccato il cavo dell’antenna del televisore. Probabilmente aveva studiato nei dettagli il piano per togliersi la vita. L’ha attaccato ad un gancio dell’armadietto di metallo che è fissato alla parete della cella. Ha formato un cappio e si è gettato nel vuoto. È stata questione di attimi. In quel momento un agente della polizia penitenziaria stava facendo il giro di controllo (i detenuti di quel reparto sono sorvegliatissimi) e si è accorto del tentativo di suicidio. Ha subito chiamato i colleghi e ha aperto la porta della cella. Il primo soccorso è stato eseguito nel migliore dei modi: c’era infatti il rischio di procurare danni ancora più gravi al detenuto già in fin di vita. Un agente lo ha sollevato e l’altro gli ha tolto il cappio dal collo. Privo di conoscenza - Il 42enne aveva perso conoscenza ma respirava ancora. È stato chiamato il medico del carcere che ha eseguito il primo disperato tentativo di rianimazione. Poi è arrivato il personale del 118 e le manovre di rianimazione sono proseguite per circa tre quarti d’ora. Il cuore del 42enne è ripartito: il detenuto è stato intubato ed è stato trasferito al pronto soccorso dell’ospedale San Matteo in condizioni disperate. È stata aperta un’inchiesta per chiarire le cause dell’ennesimo tentativo di togliersi la vita nel carcere pavese. “Denunciamo ancora una volta - spiega Salvatore Giaconia segretario regionale dell’Osapp, il sindacato degli agenti - la criticità delle risorse in cui opera il nostro personale. Penso che vicende drammatiche come quella di oggi avvengono anche per la mancanza di una rete di ascolto dei detenuti. Servono figure che riescono a comprendere in anticipo i problemi dei carcerati e di prevenirli”. La prossima settimana è previsto un incontro tra sindacati e la direttrice della casa circondariale. Dieci morti per suicidio negli ultimi tre anni - Sono stati dieci i morti per suicidio in carcere dal 2021 ad oggi, l’ultimo caso è recente è quello di Jordan Tinti 26enne cantante trap brianzolo trovato impiccato lo scorso 12 marzo nella sua cella. Per il caso di Tinti però la famiglia non crede al suicidio ed è comunque aperta un’indagine della procura per omicidio colposo. Il 26enne infatti aveva denunciato violenze e soprusi, tentando già di togliersi la vita. Un caso su cui dovrà fare luce l’inchiesta, tra due mesi ci saranno anche gli esiti degli esami autoptici sulla salma di Tinti, conosciuto nel mondo della musica trap come Jeffrey Jordan Baby. La scia di sangue a Torre del Gallo continua da tre anni, in particolare tra le fine del 2021 e il 2022 c’erano stati nove suicidi dietro le sbarre. Una situazione che secondo gli addetti ai lavori non è destinata a migliorare, complice anche il sovraffollamento delle celle di Torre del Gallo. Un problema che è emerso anche durante un recente convegno a Pavia. “Purtroppo le ultime direttive del governo e del Parlamento sono tutto carcero-centriche - ha spiegato durante il convegno Laura Cesaris, docente di esecuzione del diritto penale all’ateneo di Pavia e impegnata nella tutela dei diritti dei carcerati -. Di questo passo, sovraffollamento e tasso di suicidi sono destinati a salire. Torre del Gallo è una casa circondariale, e pertanto dovrebbe ospitare solo detenuti con condanne brevi, e invece registra la presenza anche di ergastolani”. A denunciare una situazione problematica all’interno del carcere sono anche i sindacati della polizia penitenziaria. Firenze. Pioggia nelle celle, lavori inutili. Ispettori ministeriali a Sollicciano di Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 31 marzo 2024 Sono arrivati gli ispettori ministeriali a Sollicciano. Per tre giorni i tecnici hanno passato al setaccio il carcere fiorentino, dalle infrastrutture alla gestione dei detenuti, fino alla contabilità. Gli ispettori hanno potuto toccare con mano anche il problema irrisolto delle infiltrazioni di acqua nei reparti, visto che l’ispezione è avvenuta proprio nei giorni di pioggia incessante. Adesso la relazione conclusiva finirà sul tavolo del capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Al vaglio sono finiti anche i lavori di efficientamento energetico della struttura che hanno portato, grazie ai finanziamenti della Regione, alla sostituzione degli infissi delle celle. Lavori che evidentemente non sono serviti, dal momento che ogni volta che piove puntualmente le celle si allagano. Ancora una volta al centro del dibattito c’è la solita questione: se valga la pena fare una ristrutturazione del penitenziario oppure no. Pochi giorni fa il garante regionale per i diritti dei detenuti Giuseppe Fanfani ha ripetuto che Sollicciano va dismesso e abbattuto: “All’interno del penitenziario fiorentino - ha detto - ormai non è più possibile realizzare nulla di quello che chiede la Costituzione e il reinserimento sociale dei reclusi è spesso soltanto un’utopia”. Per risolvere il problema delle infiltrazioni il Provveditorato e la direzione del carcere erano arrivati alle conclusioni che andasse ridotta la popolazione carceraria di circa cento unità, per poi dichiarare inagibili le celle maggiormente interessate dalle infiltrazioni. Anche il deputato fiorentino del Pd Federico Gianassi ha annunciato un’interrogazione parlamentare. “Su Sollicciano si continuano a spendere soldi per ristrutturazioni straordinarie quando questa struttura andrebbe soltanto demolita - dice Eleuterio Grieco, segretario generale Uil Pa polizia penitenziaria - La politica deve capire che questa è l’unica strada”. Anche il sindaco Dario Nardella ripete da anni che il carcere va abbattuto e ricostruito, ma la direzione di Sollicciano, ad esempio, si è detta contraria. Intanto, negli ultimi anni, sono stati stanziati 11 milioni di euro tra opere di efficientamento energetico, sistemazione delle facciate esterne, la realizzazione di un corpo di fabbrica per potenziare il lavoro penitenziario, due campi di calcetto, risanamento dei locali docce, recupero della chiesa e del teatro. Teramo. Caos in carcere, proposta la nascita di un Comitato di Adele Di Feliciantonio Il Centro, 31 marzo 2024 Un Comitato permanente “Carcere e Territorio” che coinvolga enti pubblici, soggetti privati e associazioni per promuovere una politica di recupero del detenuto attraverso la prevenzione e la rieducazione e realizzi iniziative di sensibilizzazione sul territorio, a supporto della casa circondariale di Castrogno. È la proposta lanciata alle istituzioni dal Partito radicale e dalla vice presidente del Centro europeo Studi penitenziari Mariantonietta Cerbo dopo la visita effettuata ieri mattina al carcere teramano da una delegazione di “osservatori”, che ha incontrato i detenuti e il personale. I partecipanti hanno raccontato di aver trovato un peggioramento delle condizioni dei detenuti rispetto all’anno scorso, dovuto principalmente al sovraffollamento. Castrogno ha una capienza regolamentare di 255 detenuti ma ne ospita 376, tra i quali 41 donne, 95 tossicodipendenti, 26 in terapia metadonica, due sieropositivi, 18 affetti da epatite C, 201 da patologie di tipo psichiatrico, sei disabili, un over 80. Sono stati due i suicidi da inizio anno. La pianta organica prevede 216 agenti di polizia penitenziaria (è il numero regolamentare per 255 detenuti, non per 376), ma ce ne sono 161 in servizio. “Una situazione che mette a rischio l’equilibrio delle persone”, ha detto il consigliere generale del Partito radicale Ariberto Grifoni, “un marasma non degno di uno Stato costituzionale e di diritto e non più tollerabile. Castrogno sta perdendo il reparto dell’alta sicurezza dove i detenuti sono ora la metà e fa strano vedere lì celle vuote, mentre nel reparto dei reati comuni celle che scoppiano”. Il problema principale è quello della sicurezza. “Il sovraffollamento ha generato una serie di squilibri, gli operatori subiscono aggressioni verbali e fisiche e a loro dal 19 aprile daremo un supporto psicologico”, ha spiegato il direttore della medicina penitenziaria della Asl Teramo Massimo Forlini, “Abbiamo triplicato il numero del personale sanitario presente in carcere e siamo riusciti a garantire l’assistenza sanitaria 24 ore, ma ci sono dei detenuti che dovrebbero stare in luoghi idonei”. La proposta di creare il comitato ha suscitato l’interesse e l’appoggio del Comune di Teramo, come manifestato dall’assessore Alessandra Ferri che ha ricordato la richiesta di attenzione a Castrogno rivolta dal sindaco D’Alberto al ministro della giustizia Nordio. Appoggio ricevuto anche dalla presidente della commissione pari opportunità provinciale Amelide Francia che ha evidenziato come “entrare nella realtà carceraria permette di capire e avanzare soluzioni alle problematiche”, dalla consigliera comunale di Teramo Maria Cristina Marroni che si è impegnata a chiedere la convocazione di una commissione ad hoc e dalla vice presidente della Consulta pari opportunità di Teramo Loredana Di Giampaolo. Torino. Radicali, Pasqua dietro le sbarre lospiffero.com, 31 marzo 2024 La tradizionale visita alle carceri italiane degli eredi di Pannella. A Torino una delegazione si recherà anche al reparto psichiatrico delle Vallette dove lo scorso 24 marzo si è suicidato il 31enne Sanchez, il ventisettesimo detenuto a togliersi la vita. Nelle carceri italiane dall’inizio del 2024 si sono tolte la vita 17 persone: un suicidio ogni due giorni, un triste record se si considera che erano state 67 in tutto il 2023. Si aggrava inoltre il sovraffollamento, con 60mila presenze sui 51mila posti a fine dicembre. Una situazione sempre più allarmante e insostenibile su cui i radicali con la tradizionale visita agli istituti di pena durante il periodo pasquale sollecitano interventi da parte della politica e delle istituzioni. A partire da Torino, dove alle Vallette si è registrato l’ultimo suicidio. Sono due delegazioni le delegazioni del Partito Radicale “nonviolento, transnazionale e transpartito” che varcheranno i cancelli dell’istituto minorile Ferrante Aporti e del carcere Lorusso Cotugno delle Vallette di Torino. Ne fanno parte Mario Barbaro, membro della segreteria del Partito Radicale e coordinatore dell’associazione Marco Pannella di Torino, Patrizia Corona, membro del Partito Radicale, Sergio Rovasio, membro del Consiglio Generale del partito e presidente dell’associazione Pannella, Roberto Capra, presidente della Camera Penale del Piemonte Occidentale e Valle d’Aosta, Alberto Nigra, già parlamentare Pds, e dalla Garante dei detenuti del Comune di Torino, Monica Gallo. Alle Vallette la visita toccherà anche l’ottava sezione, il reparto psichiatrico “Ex Sestante” denominato Assistenza Territoriale Salute Mentale, dove lo scorso 24 marzo si è suicidato con un lenzuolo il 31enne Fabrizio Alvaro Nunez Sanchez, il ventisettesimo detenuto a togliersi la vita negli istituti carcerari italiani e in sua memoria verrà osservato un minuto di silenzio. Ad Asti la visita si svolgerà presso la Casa Circondariale di Quarto il giorno di Pasquetta, lunedì 1° aprile, con inizio alle ore 10.30. La delegazione sarà composta da Paolo Giargia e Roberto Casonato, membri del Partito Radicale. “Il suicidio è a valle di tutti i problemi, non a monte. Sono numeri spaventosi ma siamo talmente assuefatti che ormai ci sembrano normali”, ha osservato nei giorni scorsi Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio adulti sulle condizioni di detenzione di Antigone, associazione che si occupa di giustizia penale. Un dramma strettamente connesso alle condizioni di vita interne alle strutture carcerarie. A fronte di una capienza regolamentare di 51.347 posti, al 31 gennaio erano presenti 60.637 detenuti. Un tasso di affollamento medio del 118% che preoccupa soprattutto se si analizza il tasso di crescita della popolazione carceraria: Antigone ricostruisce come nell’ultimo trimestre dello scorso anno i detenuti siano aumentati di 1.688 unità contro una media di 400 persone in più a trimestre nel corso dell’anno precedente. A questo ritmo si supereranno presto quelle 67mila presenze che portarono nel 2013 alla cosiddetta “sentenza Torreggiani” della Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia proprio per il sovraffollamento nelle strutture. Che restano fatiscenti. Alcuni dati: nel 10,5% degli istituti visitati da Antigone non tutte le celle erano riscaldate, nel 60,5% c’erano celle dove non era garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno. Ancora, in più della metà degli istituti visitati c’erano celle senza doccia nonostante il termine ultimo per dotare ogni cella di doccia fosse stato posto a settembre 2005. E nel 2023 c’era un educatore ogni 76 detenuti. Catanzaro. Carceri in grave sofferenza: cui prodest? di Romano Pitaro Corriere della Calabria, 31 marzo 2024 Creme e pan di Spagna, figurativamente, fanno dolce il carcere. O meglio: un laboratorio di pasticceria aiuta, perché no?, a concretizzare il “sogno” dell’articolo 27 della Costituzione: rendere la pena “non disumana e degradante”, ma utile a rieducare chi ha sbagliato. E’ apprezzabile la disponibilità della Camera penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” a sostenere il laboratorio di pasticceria del carcere Ugo Caridi del capoluogo. Un progetto avviato nel 2020, aderendo al bando della “Fondazione con il Sud” per la formazione professionale dei detenuti. Quando s’iniziò a parlarne, sollecitati dal libro “DolciCreati” (editore “Città del Sole”) curato da Ilaria Tirinato e con la prefazione di un maestro pasticcere di fama internazionale, ci si chiese cos’avessero in comune Luca Montersino, che calca le scene della cucina più trendy in tv e quando non è in Italia è a New York o a Tokio, con i detenuti - pasticceri dell’Ugo Caridi. La risposta si rinvenne nella passione a fare le cose che, quand’è autentica, può arricchire l’umanità di chi dà e di chi riceve. Il punto, però, è che sebbene sia lodevole agevolare (e moltiplicare) progetti come “DolciCreati”, non si esce dai gironi infernali delle carceri, se non si decide di affrontare con risolutezza le asperità che da decenni, inasprendosi progressivamente, vedono lo Stato abdicare ai suoi doveri di civiltà. Vale anche per la Calabria. Dove - si legge in una lettera al ministro della Giustizia Nordio e al capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Russo, firmata dal presidente del Consiglio regionale Mancuso e dal Garante dei diritti dei detenuti Muglia - i dodici istituti di pena sono in sofferenza. Sovraffollamento quasi dappertutto. Con valori elevati nella Casa circondariale di Reggio Calabria Arghillà (+ 98), Cosenza (+ 57), Crotone (+ 44) e la Casa di reclusione di Rossano (+ 52). In alcuni istituti, peraltro, sono presenti camere detentive (dotate di letti a castello) che ospitano fino a 6/8 persone. Pessime le condizioni strutturali; in più parti vecchie e prive di manutenzione, aggravate dall’inadeguatezza di molte camere detentive (con schermature di pannelli opachi in plexiglass alle finestre o senza di docce) e dall’insufficienza delle aree per la socialità, i passeggi e i colloqui. Gravi le carenze di personale di polizia penitenziaria: - 100 Catanzaro, - 70 Vibo Valentia, - 42 Rossano, - 37 Palmi, - 36 Reggio C. Arghillà. Peggio per gli educatori in servizio: mediamente un educatore ogni 100 detenuti. E poi l’elevata percentuale di detenuti stranieri, che in alcune carceri appartengono a 20 nazionalità, mentre i mediatori linguistico -culturali sono pochissimi: solo in 3 istituti. Allarmante il capitolo sucidi ed “eventi critici” Nel 2023, in Calabria, si sono verificati 150 tentativi di suicidi e 4 suicidi. Nel 2024 c’è già stato un nuovo suicidio. E c’è di più. Dal 1 gennaio 2024 al 20 marzo 2024 si sono registrati 2.219 eventi critici, 26 tentativi di suicidio, 110 atti di autolesionismo e 25 aggressioni ai danni della Polizia penitenziaria. Un cahier de doléances che, se non si interviene con misure veloci e dirompenti, non solo vanifica gli sforzi culturali per mettere in relazione “mondi” separati dalle sbarre e che se non dialogano schiacciano la speranza del riscatto, ma presagisce scenari più cupi. Il dramma delle carceri “isole di sbarre” di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi La Repubblica, 31 marzo 2024 Il nuovo libro di Daria Bignardi. In “Ogni prigione è un’isola” l’inutilità della repressione che diventa segregazione. Nel 2016 su un settimanale giapponese viene pubblicato il manga Beastars: un mondo popolato da animali civilizzati, che sembrano convivere in pace nonostante una marcata distanza fra carnivori ed erbivori. Ai primi è vietato il consumo di carne animale ma ai secondi questo non basta per sentirsi al sicuro. Il protagonista è un lupo, Legoshi, che cerca di combattere il suo istinto da carnivoro. Nel manga ci sono due elementi che meritano attenzione e che, si vedrà, intrecciano sorprendentemente l’ultimo libro di Daria Bignardi, “Ogni prigione è un’isola” (Mondadori, 2024). Il primo è l’inutilità e, poi, la crudeltà della repressione che diventa segregazione: nel manga il mercato nero delle carni era il luogo in cui carnivori eccellenti nella società, poveri mendicanti e lavoratori sfruttati, si ritrovavano per dar vita ai loro istinti, manifestando tutto il dolore che erano costretti a nascondere. Il secondo è l’illusione, affascinante e insidiosa, di un mondo diviso in modo geometricamente perfetto tra buoni e cattivi. Nel volume di Bignardi questi due elementi, l’inutilità della repressione che diventa segregazione e l’illusione del bene che si contrappone al male, dialogano tra loro in modo stimolante, spaziando tra esperienza personale e vissuto collettivo. Il libro, frutto di anni di volontariato dentro le carceri italiane, soprattutto al San Vittore di Milano, è una matassa di storie, dove perfino la più piccola esistenza (come quella dei tiri dell’isola di Linosa) offre una chiave per comprendere la realtà in cui ci si trova a vivere. Così come gli insetti finiscono per diventare presenze amiche nel silenzio di una cella, così i tiri obbligano i visitatori di Linosa a convivere con il loro strusciare beffardo. Nelle isole di Bignardi c’è la potenza della natura che si impone al passaggio dell’uomo, ma c’è anche l’esatto contrario: muri costruiti su terre incontaminate per costringere soggiornanti di ieri e detenuti di oggi a intuire l’orizzonte senza poterlo scorgere, chiusi a chiave dentro le loro celle umide. Il dolore confinato su un’isola ha due possibilità: può cedere il passo all’oblio o può essere intercettato per tempo. Se si leggono le statistiche sul mondo carcerario (61 morti da inizio anno, di cui 25 o 26 suicidi) si intuisce quale delle due ipotesi abbia la meglio. Eppure, alla domanda del Dottor C. su cosa rappresenta il carcere per lei, Bignardi risponde: “Non è che le prigioni mi piacciano, al contrario. Ma dentro c’è l’essenza della vita: l’amore, il dolore, l’amicizia, la malattia, la povertà, l’ingiustizia...”. Bignardi scriverà di aver corretto l’ordine delle parole, anticipando l’amore al dolore, quasi a doversi controllare di fronte a chi gli chiede conto di tanta partecipazione. La piena sincerità, del resto, sembra essere un tratto distintivo di queste pagine così belle, dove ci si interroga su quella ossessione adolescenziale verso il Conte di Montecristo o verso Scotty, il condannato a morte statunitense a cui scrive lunghe lettere. L’autrice, oggi, chiarisce “non provo più nessuna fascinazione per le galere”. E viene da crederle, soprattutto se il carcere lo si è visitato almeno una volta nella vita. La fascinazione è comprensibile, ma resiste appena il tempo di una serie tv. Poi, quando si supera il gabbiotto degli assistenti, si forniscono le generalità e si lascia il cellulare, la seduzione di ciò che risulta oscuro viene fagocitata dall’angoscia per chi è ristretto in luoghi tanto violenti. Dalla brutalità del sistema carcerario non si può prescindere, pena il rischio di accettare come fatale un meccanismo punitivo che riproduce all’infinito mortificazione e morte. Ma finché ci sarà, finché il carcere continuerà a insistere sulle nostre isole e sui nostri continenti, allora è bene che si apra una breccia nella nebbia anonima nella quale è immerso e si faccia racconto, poesia e perché no, romanzo. Come quello, appunto, di Bignardi. Le storie che vi si trovano aggiungono tasselli alla storia collettiva di un’Italia che spesso ha raccontato in modo approssimativo le sue diverse stagioni. Si pensi alla infelicissima definizione di anni di piombo per un decennio, peraltro, assai ricco di vitalità, creatività e di importantissime riforme. Ma dai racconti su chi partecipò alla “lotta armata”, Bignardi passa a una riflessione su coloro che affollano le galere di oggi: tossicodipendenti, migranti e poveri cristi di ogni età. Loro sono gli abitanti di queste isole di sbarre, le vittime degli abusi che, a esempio durante la pandemia, hanno trovato la morte lì dove doveva esserci tutela e assistenza. Nel contempo Bignardi non può fare a meno di riconoscere il non inferno (Italo Calvino) del carcere e giustamente gli dedica spazio. Alle vicende di ex detenuti, si alternano i racconti sui laboratori nell’istituto di Bollate, sulle celle aperte, sulle possibilità ritrovate dentro una sezione di San Vittore chiamata Nave, nata più di vent’anni fa, dall’idea della psicologa Graziella Bertelli e dall’ex direttore Luigi Pagano, altra voce importante di questo libro. Il carcere è un’isola perché spesso lo si considera distante e, in un certo senso, autosufficiente. Ma per quanto si tenti di spingerlo sempre più lontano, esso, se non altro sotto il profilo geografico e morfologico, appartiene come ogni isola a un continente. Forse per questo, Legoshi, il lupo di quel manga giapponese, a un certo punto della storia capisce che non può essere il confine a determinare la pace su quella terra: prima ancora di essere carnivori o erbivori, dirà ai compagni, siamo esseri viventi. E da quel reciproco riconoscimento qualcosa di nuovo, forse, potrà finalmente nascere. La Pasqua di Papa Francesco: la ricerca della pace passa soltanto dal dialogo di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 31 marzo 2024 Giovanni XXIII nella “Pacem in Terris” scriveva che la guerra è estranea alla ragione. Oggi Bergoglio continua a gridare nel deserto, e a sperare ciò che appare impossibile. A settembre, in Mongolia, aveva citato “Timore e tremore” di Søren Kierkegaard, la riflessione su Abramo che seppe sperare contro ogni speranza: “Ognuno fu grande secondo quello che sperò. Uno fu grande sperando il possibile, un altro sperando l’eterno, ma chi sperò l’impossibile fu il più grande di tutti”. Sono anni che il Papa denuncia, inascoltato, la “follia” della guerra. Fin da quando, nel 2014, eletto da un anno, andò a commemorare nel Sacrario di Redipuglia i caduti della Prima Guerra mondiale, l’”inutile strage” che Francesco conosce bene dai racconti familiari perché vi aveva combattuto il soldato Giovanni Carlo Bergoglio, suo nonno. Un secolo più tardi, il nipote Jorge Mario sa che tutto è cominciato da lì, dal non senso di un conflitto riassunto dalla battaglia di Verdun, un milione di morti senza che il fronte si spostasse di un metro. Poi è arrivata la Seconda Guerra Mondiale, sono arrivate Hiroshima e Nagasaki e il pericolo di annientamento del genere umano. Nell’era delle armi nucleari la guerra “alienum est a ratione”, è estranea alla ragione, scriveva Giovanni XXIII nella Pacem in Terris, 1963. Il principio della guerra giusta coniato da Sant’Agostino nel IV secolo sfuma davanti a tutto questo e supera ogni considerazione geopolitica. Per questo Francesco continua a gridare nel deserto, e a sperare ciò che appare impossibile: non si schiera con nessuno, se non dalla parte del negoziato, sempre, perché sa che nel tempo della “Terza guerra mondiale a pezzi” bisogna tentare l’impossibile per evitare il pericolo che i “pezzi” finiscano per saldarsi. Il senso della Giustizia che va oltre i proclami di Luca Diotallevi Il Messaggero, 31 marzo 2024 Brutto affare la giustizia. Davvero un gran brutto affare. Non sai da che parte prenderla, per la giustizia non c’è mai una ricetta già pronta. Si sa che la giustizia non si produce da sola, ma se la imponi ottieni solo ingiustizia. È la lezione senza eccezioni di socialismi reali e nazionalsocialismi, di fascismi e comunismi. Si sa anche che senza la libertà non c’è giustizia, ma da sola la libertà non produce giustizia. Giustizia fa pensare a pace, ma pax opus iustitiae (la pace è opera della giustizia) sta lì a ricordare che la mancanza di guerre e conflitti è una specialità dei tiranni vittoriosi: chi più di loro è capace di non far volare una mosca e di tenere tutto in ordine? Cercare la giustizia non di rado esige di “fare la guerra” alla pace dei tiranni (dei loro complici e dei loro lacchè). Ad assolvere al dovere della giustizia non è sufficiente neppure una grande generosità individuale. La giustizia richiede anche di edificare e mantenere strutture collettive presidiate da poteri abbastanza forti da proteggere i diritti dei deboli. Strana cosa la giustizia. Puoi farla crescere a livello globale in modi che però la incrinano a livello locale o, al contrario, può capitare che riesci a farla crescere in un luogo epperò in modi che ne scaricano i costi su chi vive fuori da quel luogo. Esempi? Negli ultimi decenni un miliardo di persone è uscito dalla povertà a livello globale, ma questo stesso processo ha fatto regredire il ceto medio delle società avanzate. E ancora: sino alla metà del secolo scorso non pochi imperi coloniali avevano al loro cuore società assai più giuste di quelle che opprimevano. Brutto affare la giustizia, e per giunta affare sempre più urgente. Oggi la giustizia è stretta nella morsa di una orribile tenaglia. Da una parte il terrorismo minaccia i diritti di milioni di persone ed a questa minaccia si aggiungono le aggressioni e le oppressioni di cui sono protagonisti gli stati autoritari; d’altra parte le diseguaglianze spingono i poveri sempre più lontano dai ricchi e, come se non bastasse, trasformano quote sempre più grandi dei ceti medi in schiere di nuovi poveri. Negli ultimi mesi i discorsi di un numero sempre maggiore di leader e di analisti hanno assunto toni da tempo inauditi allo scopo di risvegliare la pubblica opinione ed i decisori di ogni campo alle ragioni della giustizia, alla giustizia come compito, alla giustizia come dovere che richiede l’umiltà di correggersi e la fatica di tener duro. Di fronte alle ingiustizie delle aggressioni militari e della crescita di spaventose diseguaglianze, alla causa della giustizia non bastano auspici, sentimenti ed intenzioni. Né solo preghiere, se prestiamo fede a quel Dio che pure chiede di pregare sempre: infatti “non chi dice Signore, Signore …” (Mt 7, 21). Alla causa della giustizia serve anche forza, intelligenza e responsabilità. Responsabilità: capacità di ascoltare chi parla dall’ultima fila e di cambiare direzione di marcia. Intelligenza: scegliere parzialità per correggere altre parzialità. Forza: per vincere la paura del confronto e della lotta. La giustizia è dovere. La giustizia parla una lingua di cui molti hanno dimenticato la grammatica del coraggio, la sintassi dell’etica e la semantica della speranza. Potrebbero sembrare pensieri poco pasquali. Strano, perché quella che a Pasqua si celebra od almeno si ricorda è la vittoria sul male di cui l’uomo è capace e sulla morte di cui l’uomo è schiavo, vittoria da parte di un Dio che ha privato di ogni forza i principati e le potestà di questo mondo, che li ha pubblicamente irrisi (cfr. Colossesi 2, 15). Vittoria giunta al termine di uno Shabbàt, divina protesta contro schiavitù e oppressione (cfr. Deuteronomio 5, 14), al termine di un Sabato passato da Cristo a infrangere persino le catene degli inferi (Isacco di Ninive). Le Comunità per i minori, crisi tra criticità e chiusure: mancano operatori e fondi di Enzo Riboni Corriere della Sera, 31 marzo 2024 È in crescita il disagio e l’accoglienza è in affanno. Le liste d’attesa e l’allarme per i neodiciottenni. Servono linee guida uniformi dalle Regioni. C’è un lento ma preoccupante stillicidio nelle Comunità per minori. Negli ultimi due anni, infatti, non poche hanno dovuto chiudere per mancanza di operatori o per il venir meno della sostenibilità economica. Una criticità che è ben presente a chi opera sul campo come Liviana Marelli, referente per infanzia, adolescenza e famiglie di Cnca, il Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza: “C’è una situazione di grave crisi rispetto alla tenuta complessiva del sistema dell’accoglienza residenziale per minori. Va evitato il rischio di una progressiva dismissione proprio in un contesto di evidente crescita del disagio minorile”. Il censimento della situazione attuale risulta difficoltoso, perché ogni Regione va per conto proprio nei criteri autorizzativi e di accreditamento delle comunità, manca una banca dati nazionale, non c’è monitoraggio su cosa accade quando un minorenne lascia una Comunità. Gli ultimi rilevamenti, quello di Agia - Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza - e quello del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, pur se pubblicati tra il 2022 e il 2023, datano 31 dicembre 2020. A quella data, secondo Agia che raccoglie i dati dalle Procure presso i tribunali per i minorenni, erano 3.605 le strutture di accoglienza, con un numero medio di ospiti per struttura pari a 6,4. Il 43,3% è composto da comunità socio-educative, il 16,7% da comunità familiari, l’11,8% da comunità bambino-genitori e il 20% da “alloggi ad alta autonomia”, con in più un 8,2% non precisato (comunità terapeutiche?). Gli ospiti nelle strutture di accoglienza, sempre a fine 2020, erano in totale 23.122 di cui 20.377 minori e 2.745 neomaggiorenni (18-21 anni). Tra gli under 18, 5.282 erano Msna: minori stranieri non accompagnati. “In questi giorni - spiega l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti - abbiamo avviato una nuova indagine che coprirà il periodo fino al 2023: rispetto alla precedente comprenderà anche gli allontanamenti d’urgenza dalle famiglie, le indagini ispettive delle Procure e un focus sugli esiti delle accoglienze. Su quest’ultimo punto già oggi possiamo dire che la gran parte di chi era in affido familiare rientra nelle famiglie d’origine, perché scaduti i termini o perché sono state superate le criticità all’origine dell’affido. È raro invece che un minore esca da comunità residenziali perché indirizzato a un affido familiare, specie se si tratta di Msna, con l’eccezione dei bambini ucraini che, nell’85% dei casi, sono andati in famiglie affidatarie. Tutti gli altri escono da una comunità per entrare in un’altra”. I dati del ministero del Lavoro, sempre a fine 2020, calcolano in 13.408 i minori accolti nei servizi residenziali perché allontanati temporaneamente dalla famiglia d’origine a scopo di tutela e protezione. Il numero è solo in apparenza discordante rispetto ai 15.095 indicati dall’Agia perché quest’ultima comprende anche i minori inviati in comunità da provvedimenti penali o terapeutici. “Attenzione però: il nostro - precisa Marelli - non è un mondo di sottrazione di bambini ma di aiuto alle famiglie d’origine. Concetto che sarà sempre più chiaro quanto più si riuscirà a far prevalere l’affido preventivo/consensuale su quello riparativo”. Interventi tardivi - Rispetto al 2020 qual è il trend negli ultimi anni? Secondo Marelli ci sono due elementi che oggi concorrono. “Da una parte - spiega - c’è un indubbio aumento di richiesta, soprattutto per adolescenti e preadolescenti, dall’altra una parallela contrazione delle risorse comunitarie. Il risultato è la creazione di lunghe liste d’attesa che fanno arrivare tardi i minori in comunità, quando sono già molto compromessi, dal punto di vista comportamentale o di salute mentale”. L’altro grande problema è quello dei neodiciottenni. “Anche se - chiarisce Garlatti - c’è la possibilità del cosiddetto prosieguo amministrativo, che consente la presa in carico dei servizi sociali fino a 21 anni quando è già in corso un processo di autonomizzazione”. Fatto sta che per gli over 18 senza il supporto della famiglia inserirsi nella società non è facile, soprattutto in termini di lavoro. Una mano significativa arriva, tra gli altri, dai “Salesiani per il sociale”, che promuovono percorsi di inserimento lavorativo e professionale per migliaia di ragazzi ogni anno. Ma per realizzare soluzioni che ottimizzino il ruolo delle comunità per minori serve, prima di tutto, una conoscenza dettagliata del mondo di riferimento. Un aiuto potrebbe venire dalla recente approvazione delle nuove “Linee di indirizzo” per le comunità, cornice che garantisce il diritto alla non discriminazione a seconda dei territori di appartenenza. “Per funzionare però - avverte Marelli - tutte le Regioni dovrebbero ratificarle: cosa che non è avvenuta per le linee guida precedenti”. Cresce il disagio mentale: sono i giovani e le donne quelli a soffrire di più di Enzo Risso Il Domani, 31 marzo 2024 Complessivamente la percentuale di persone in difficoltà nel mondo è cresciuta del 3 per cento rispetto al 2023. Aumentano gli stati di ansia, stress e depressione. Il numero di persone che nei 16 paesi toccati dallo studio, tra cui l’Italia, vive un disagio mentale è aumentato di cinque punti. Una società sofferente. Il susseguirsi di crisi che hanno marcato il secondo decennio del secolo (terrorismo, crack finanziari, sfarinamento del ceto medio, crisi climatica, Covid, scatto inflattivo e caro mutui, ritorno prepotente della guerra), hanno posto le persone di fonte alla costante necessità di fare i conti in modo diretto e personale con la società del rischio come la chiama il sociologo Ulrich Beck. La sindrome di Sisifo ha marcato questi anni, con le persone costrette a fare su e giù per il monte dell’esistenza, sperando di liberarsi di un peso, per poi ritrovarsi nuovamente in fondo alla scarpata con un nuovo masso da spingere in su. Tutto questo ha inciso sul benessere mentale delle persone. L’Axa Mind Health Index, che ogni anno Ipsos realizza, fotografa un aumento complessivo, a livello globale, del numero di persone in difficoltà. I dati - Meno di un quarto delle persone nel mondo sta prosperando (24 per cento, con un calo dell’1 per cento rispetto all’anno scorso), mentre solo un terzo se la cava (in calo dal 35 al 33 per cento). Complessivamente la percentuale di persone in difficoltà nel mondo è cresciuta del 3 per cento rispetto al 2023. A lievitare sono gli stati d’animo marcati da ansia, stress e depressione. Il numero di persone che nei 16 paesi toccati dallo studio, tra cui l’Italia, vive un disagio mentale è aumentato di 5 punti. Il 17 per cento denuncia forme di depressione; il 15 per cento vive stati di ansia, fobia e disordine post traumatico; il 5 per cento ha disturbi dell’alimentazione (anoressia, bulimia ecc) e il 4 per cento ha disturbi ossessivo-compulsivi. All’interno di questo quadro emergono due dinamiche preoccupanti: la costante crescita del divario di genere e l’allerta sullo stato di salute mentale della Generazione Z. Rispetto all’anno scorso le donne che si sentono bene sono diminuite, mentre quelle in difficoltà sono in crescita. È aumentato anche il numero di donne che soffrono di forte stress, ansia e depressione. L’Axa Mind Health Study ha sottolineato “che le donne soffrono tipicamente di livelli più bassi di auto-accettazione, il che può esporle a fattori scatenanti della salute mentale come l’immagine del proprio corpo e la discriminazione di genere. Un’ingiusta divisione dei compiti in casa può anche lasciare alle donne meno tempo per gestire la propria salute mentale attraverso il relax, l’alimentazione sana, l’esercizio fisico o l’interazione sociale”. L’allerta per la Gen Z - Se il quadro di genere è in recrudescenza, la vera allerta è per la Generazione Z. Il 39 per cento degli under 25 afferma di trovarsi in uno stato di abbattimento fisico o morale, per lo più accompagnato da sofferenze e da privazioni (in crescita di 4 punti). Il 19 per cento sta “lottando” con se stesso (+1 per cento), mentre il 39 per cento vive forme gravi o estremamente gravi di depressione, ansia e stress (il dato medio nelle altre classi di età è del 23 per cento). I ragazzi e le ragazze, in più, hanno molta difficoltà a decodificare le proprie condizioni di salute mentale e faticano a riconoscere i problemi o a cercare aiuto. A determinare le diverse forme di disagio nella Generazione Z sono, innanzitutto, la dipendenza dalla tecnologia e dai social media, il peso assegnato all’immagine del corpo e il fardello del futuro in una società marcata dall’incertezza. Quando affrontiamo questi dati occorre essere molto accorti. Bisogna rifuggire da ogni stigmatizzazione (specie degli adolescenti e dei giovani come soggetti da normalizzare o portatori di problemi tout court). Le ragazze e i ragazzi di oggi sono la parte di popolazione più esposta all’inquinamento consumistico, il che li ha resi sia vittime di quell’incessante bisogno di consumare merci (cose, corpo e affetti), sia primi attori (cartine di Tornasole) del cambiamento di paradigma in atto nella costituzione delle soggettività, individuali e collettive. La sindrome di Sisifo e la società dell’incertezza e del rischio, inducono dinamiche di precarizzazione esistenziale, trasformando il campo delle appartenenze, che non è più caratterizzato dall’esclusività, ma dalla pluralità e dalla mobilità. Affetti e passioni, solitudine mediale e tecnologica, presentificazione del tempo vissuto, disturbi narcisistici della personalità e identità liquide, sono il complesso dei fattori che marcano la transizione individuale e collettiva in atto. Le forme di disagio mentale in aumento mostrano che questa transizione non è a costo zero, ma ha notevoli danni collaterali e sta facendo pagare dei prezzi a tutti, in primis ai giovani e alle donne. Le politiche sull’immigrazione perdono pezzi, tutti i dubbi giuridici sulle misure di Meloni di Vitalba Azzollini* Il Domani, 31 marzo 2024 Dubbi di costituzionalità sono stati avanzati di recente sul decreto Piantedosi, che limita l’attività delle Ong. E il Viminale pensa a una retromarcia sulla cauzione di 5.000 euro per i migranti. Le critiche in punto di diritto che da tempo formuliamo alle politiche del governo sull’immigrazione si stanno concretizzando nelle pronunce dei tribunali. Da ultimo, due decisioni hanno riguardato il cosiddetto decreto Piantedosi, o decreto ong, che pone forti limiti all’attività delle navi di tali organizzazioni (d.l. n. 1/2023). Giudici e ong - Il 18 marzo scorso, il tribunale civile di Crotone ha sospeso il fermo di venti giorni che le autorità amministrative avevano imposto alla Humanity 1, della ong Sos Humanity, dopo un salvataggio di migranti avvenuto qualche giorno prima. La nave era accusata di aver violato il decreto Piantedosi, non uniformandosi alle indicazioni fornite dal centro libico di soccorso marittimo. Il tribunale, oltre a rilevare un “travisamento dei fatti” da parte delle autorità italiane, ha affermato che il fermo avrebbe compromesso le “indifferibili attività di carattere umanitario” svolte dalla ong. Il 21 febbraio scorso, analoga decisione di sospensione del fermo era stata assunta dal tribunale di Brindisi per la Ocean Viking, nave della ong Sos Mediterranée, anch’essa bloccata con le stesse motivazioni usate per la Humanity 1. Il tribunale aveva sottolineato che il perdurare del fermo avrebbe pregiudicato “in modo irreversibile” il diritto della ong di “esercitare la propria attività di soccorso in mare, in cui si realizzano le sue finalità sociali”, “obiettivi di indubbio valore”; e che ciò avrebbe leso diritti come “la libera iniziativa economica (art. 41 Cost.), ma anche il diritto fondamentale alla manifestazione del proprio pensiero (art. 21 Cost.) e quello all’associazione (art. 18 Cost.)”. Nel febbraio 2023, il Consiglio d’Europa (CoE), commentando il decreto Piantedosi, aveva parlato di pretesti “per controllare le ong o per limitare la loro capacità di svolgere il loro legittimo lavoro”. Secondo il CoE, anche la pratica di assegnare alle ong porti lontani rappresenta una restrizione ad “attività di ricerca e soccorso vitali” e contrasta con la Convenzione Onu sul diritto del mare (Unclos), che prevede lo sbarco nel porto sicuro più vicino. “I requisiti onerosi, arbitrari e talvolta illeciti” imposti dal decreto ong, unitamente al rischio di multe e confisca delle navi, per il CoE contribuiscono a un effetto intimidatorio (chilling effect). Forse anche per questo effetto tali organizzazioni sono restie a ricorrere contro i fermi delle loro navi. La giudice del tribunale di Brindisi, Roberta Marra, sta valutando la questione di legittimità costituzionale circa la norma del decreto ong che prevede il fermo della “nave utilizzata per commettere la violazione”. Ogni sanzione amministrativa dovrebbe sempre essere modulabile in modo proporzionale all’entità della violazione, mentre il fermo non lo è. I legali della Sos Méditerranée, a propria volta, contestano la costituzionalità della norma che attribuisce alle autorità italiane il potere di comminare sanzioni a navi di altri paesi per atti avvenuti in acque internazionali. La norma sarebbe in contrasto con la convenzione Unclos, secondo cui le navi in tali acque sono sottoposte alla “giurisdizione esclusiva” del paese di bandiera (salvo eccezioni). I legali della ong avanzano dubbi di legittimità anche sulla disposizione che prescrive al comandante della nave di soccorso di recarsi “senza ritardo” nel porto di sbarco che gli è stato assegnato, precludendogli altri salvataggi, salvo autorizzazione. Ma la Convenzione Unclos sancisce il dovere di soccorrere immediatamente le persone in pericolo, senza altre condizioni. Lo sgretolamento - Dunque, le politiche del governo sull’immigrazione paiono via via sgretolarsi alla prova dei principi di diritto cui dovrebbero attenersi, e non solo per le pronunce citate. Ad esempio, dopo i rilievi dei giudici di Catania sulla cauzione di circa 5.000 euro imposta ad alcune categorie di migranti per evitare il trattenimento, la Cassazione ha rimesso la questione della legittimità di tale misura, quindi del trattenimento stesso, alla Corte di Giustizia dell’Ue. Ora il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, facendo retromarcia, pare intenzionato a “rimodulare” la misura per conformarla alle norme Ue: evidentemente, teme che la Corte ne dichiari l’illegittimità, anche perché ciò rischia di travolgere pure il protocollo con l’Albania, dove saranno trattenuti i migranti cui si applica la cauzione. Quindi, il ministro prova a porvi rimedio. Normative dettate da ideologie provocano buchi che poi rendono necessarie toppe, ormai sempre più di frequente. E non è un buon segno per uno stato di diritto. *Giurista Mani criminali sui minori stranieri. “Accoglienza in crisi, vanno tutelati” di Marco Birolini Avvenire, 31 marzo 2024 L’allarme degli Uffici giudiziari: in aumento i reati degli under 18 che arrivano da soli in Italia. E, denuncia Save the Children, è in forte crescita il numero di quelli che spariscono nel nulla. “È ormai più che drammatica la situazione dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, il cui numero esorbitante e in crescita inarrestabile ha messo in ginocchio il sistema regionale di accoglienza e ha reso quasi impossibile il puntuale controllo delle loro condizioni di vita e la tempestiva attivazione delle procedure di tutela, regolarizzazione e integrazione”. Il 27 gennaio scorso, durante l’apertura dell’anno giudiziario, il procuratore generale di Bologna Paolo Fortuna descriveva così, impietosamente, il quadro dell’accoglienza under 18, spiegando che in un anno le presenze sul territorio erano salite da 1.562 a 2.154. Una situazione di fatto fuori controllo, che si ripete quasi in fotocopia in tante altre grandi città del Nord. A Milano il presidente della Corte d’appello Giuseppe Ondei, nella stessa giornata, rilevava “un incremento del numero di reati commessi dai minori stranieri non accompagnati, quasi tutti infrasedicenni”, sottolineando, oltre ai delitti contro il patrimonio commessi da soggetti non imputabili, anche “il costante aumento di minori autori di reati connessi all’assunzione e allo spaccio di sostanze stupefacenti”. Un allarme che trova puntuale riscontro nelle cronache quotidiane: due settimane fa a Quarto Oggiaro carabinieri e polizia sono intervenuti per far fronte a un’escalation di risse, spaccio e furti provocata da una ventina di minori stranieri arrivati in Italia da soli: alla fine si sono contati sei arresti. L’assessore alla Sicurezza Marco Granelli ha parlato di “una piccola minoranza dei mille seguiti ogni giorno dal Comune che creano danni alle nostre strutture, spaventano e aggrediscono i loro coetanei e altri, rubano e spacciano”. Il Comune ha annunciato un progetto da 3 milioni di euro per tentare di rafforzare la rete dell’accoglienza, aumentando le strutture dedicate e potenziando l’attività di ricerca e recupero di chi abbandona le comunità e sceglie la vita di strada. Segnali di preoccupazione arrivano anche da Genova: il procuratore generale Mario Pinelli ha evidenziato una crescita del 30% dei processi a carico di ragazzi di età compresa tra i 14 e i 18 anni, aggiungendo che il numero dei minori stranieri (per lo più non accompagnati) in un anno è passato da 777 a 1.110 (+43%). Secondo Pinelli “si registra una diffusa estrinsecazione di violenza, resa palese anche dalla crescita di reati quali le rapine. E l’inclinazione criminale dei minori, spesso manifestata contestualmente al loro arrivo in Italia, lascia anche realisticamente ritenere, oltre alla loro aggregazione in pericolose baby gang, anche un concertato instradamento in canali di illegalità gestiti da organizzazioni criminali”. I delinquenti abituali sfruttano la giovane manovalanza a basso costo per espandere i loro affari sporchi. Gli esempi non mancano. L’estate scorsa, a Modena, un gruppo di pusher tunisini ha riportato condanne fra gli 8 mesi e i 5 anni di carcere: su segnalazione del Comune, la polizia aveva iniziato a monitorare un anomalo flusso di minori tunisini in città, che sparivano subito dopo la loro collocazione nelle comunità. La banda di connazionali li reclutava per l’attività di spaccio, anche fuori dalle scuole. Stesso copione a Padova, dove a metà marzo gli agenti hanno sorpreso un 16enne nordafricano mentre vendeva droga in una via di periferia: hanno iniziato a seguirlo finché ha incontrato un 36enne pregiudicato tunisino. Era lui a consegnargli le dosi e a ritirare l’incasso. Sono storie di sfruttamento che allungano una lista sempre più inquietante: i ragazzini stranieri cedono alla tentazione dei soldi facili e finiscono in una spirale da cui poi è difficile uscire. Si innescano così situazioni di microcriminalità e degrado sempre più complicate da gestire, anche a livello di ordine pubblico. Perché in questo quadro razzisti e intolleranti non vedono l’ora di scendere in campo, ad aumentare problemi e confusione. Pochi giorni fa a Piacenza alcuni skinheads locali hanno srotolato striscioni e distribuito volantini minacciosi di fronte a un hotel affittato da una cooperativa per ospitare minori non accompagnati. La giunta ha segnalato l’episodio ai carabinieri, definendolo “preoccupante”. “Certi termini scaldano gli animi e alzano la tensione” ha ammonito Nicoletta Corvi, assessora ai servizi sociali. I minori stranieri che arrivano soli in Italia e in Europa sono soprattutto vittime. Tre anni fa Avvenire denunciò ciò che avveniva a Mondragone, dove tre adulti italiani sfruttavano sessualmente i giovani ospiti di un centro di accoglienza. Li adescavano sul lungomare offrendo 5 o 10 euro, qualche birra, ricariche telefoniche o pacchetti di sigarette, poi davano sfogo alle loro perversioni. Finché i “predatori” sono stati arrestati e condannati a 6 anni di carcere. A rendere se possibile ancora più odioso il loro crimine le frasi intercettate, in cui se la prendevano con i migranti e le ong che li assistono. I minori non accompagnati partono dalle loro terre in cerca di un futuro migliore, invece spesso si trovano risucchiati in un incubo peggiore di quello che hanno lasciato. Save The Children monitora il fenomeno e mette in guardia sui dati “in forte crescita”. Nel 2021 i minori stranieri scomparsi erano stati 8.700, l’anno scorso ne sono spariti 17.500 (11.800 non sono ancora stati rintracciati). Sotto la lente c’è un sistema di accoglienza che secondo l’organizzazione “non è ancora pronto e strutturato”: si stima infatti che nell’88% dei casi la scomparsa sia determinata da allontanamento volontario dalle comunità assegnatarie. Una emergenza che, secondo Save the Children “lascia degli spazi in chiaroscuro” e che si verifica non solo in Italia. L’altro fronte, infatti, è la Spagna: nel 2023 si è registrato “un preoccupante aumento degli arrivi di bambini e bambine stranieri” negli sbarchi alle Canarie, che poi raggiungono la Francia e il centro Europa. Che fine fanno? Una domanda inquietante, cui si fatica ancora a dare risposte convincenti. Ecco i truffatori di migranti, come si aggira il Decreto Flussi di Gaetano De Monte Il Domani, 31 marzo 2024 Un’indagine della procura di Lecce ha svelato il meccanismo per frodare stato e aspiranti lavoratori stranieri. Se non paga uno o più intermediari è quasi impossibile per un migrante entrare in Italia in maniera regolare. “Il decreto flussi è l’unica maniera sicura e regolare per chi vuole entrare in Italia per lavorare, ma, nei fatti, per come questo strumento è concepito e funziona, si presta bene a chi vuole truffare e sfruttare le persone straniere”, ragiona uno degli investigatori che hanno condotto le Coulibaly Samba è nato in Senegal, ha poco meno di cinquant’anni e ha pagato 2600 euro per far entrare in Italia in maniera regolare altri otto suoi connazionali. Allo stesso modo, Diop Chaiko, ha versato poco meno di 2000 euro per far arrivare in Puglia i suoi tre figli. Così, un altro uomo di origine senegalese, Seck Lahat, ha dovuto invece consegnare 11mila euro per presentare 37 richieste di ingresso attraverso il decreto Flussi, il quale è attualmente l’unico strumento in possesso di un cittadino straniero nato in un paese fuori dalla Comunità europea per lavorare e vivere più o meno stabilmente nel nostro paese. E, tuttavia, i soldi versati da questi uomini non sono andati allo stato italiano, ma a rispettabili imprenditori italiani, di Monteroni precisamente, un piccolo comune alle porte di Lecce. Il meccanismo fraudolento è stato scoperto il 26 marzo scorso da un’operazione congiunta della Guardia di Finanza e dei Carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro, che hanno posto agli arresti domiciliari tre persone: Antonio Romano, Paola Tarantino, Gabriele Madaro; tutti accusati, in concorso tra loro, di aver prodotto in maniera fittizia: atti, documenti, attestazioni, impegni all’assunzione di queste persone, “a garanzia di un fittizio rapporto di lavoro subordinato presso imprese agricole a loro riconducibili”, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Lecce, Anna Paola Capano, su richiesta della locale procura. La procedura - In sostanza, gli imprenditori Romano, Tarantino e Madaro, titolari rispettivamente delle imprese Agrisalento, Terra Noscia, e Madaro Gabriele, avrebbero - secondo l’accusa a loro rivolta - avrebbero “consentito ai cittadini stranieri di ottenere il rilascio dalla prefettura di Lecce del nulla osta che permettesse agli stessi lo svolgimento di attività lavorativa, propedeutica al rilascio del permesso di soggiorno”. È quanto previsto dal decreto Flussi, che è lo strumento di programmazione transitoria dei flussi di ingresso dei lavoratori non comunitari nel territorio dello stato. È l’atto amministrativo con cui il governo stabilisce ogni anno quanti cittadini possono entrare in Italia per motivi di lavoro. È una procedura che dovrebbe essere quasi gratuita per il cittadino straniero, ma che nei fatti, però, si ritrova a dover pagare diverse migliaia di euro a intermediari, sia di nazionalità italiana, che dei paesi di origine. È il meccanismo per aggirare la legge sui Flussi, che, come vedremo, è molto più semplice e ramificato di quello che si pensi. Ma andiamo con ordine. La truffa al ministero - A Lecce, come è emerso dall’informativa allegata agli atti, gli imprenditori coinvolti nella frode hanno presentato mediante il portale del ministero dell’interno numerosi modelli di assunzione al fine di ottenere il nulla osta per l’impiego lavorativo, per un totale di 909 persone. Peccato che queste imprese, di lavoratori non ne avrebbero avuto bisogno, trattandosi di aziende con una “inconsistente e marginale operatività”, si legge negli atti. Addirittura Terra Noscia, l’impresa di Paola Tarantino, alla camera di commercio di Lecce risulta essere stata registrata come una pizzeria senza dipendenti, eppure ha presentato 142 domande al ministero. La stessa imprenditrice risultava percettrice del reddito di cittadinanza. “Il decreto flussi è l’unica maniera sicura e regolare per chi vuole entrare in Italia per lavorare, ma, nei fatti, per come questo strumento è concepito e funziona, si presta bene a chi vuole truffare e sfruttare le persone straniere”, ragiona uno degli investigatori che hanno condotto le indagini. Ma non c’è solo Lecce. Anche in altri casi, da nord a sud, le inchieste giudiziarie hanno puntato il faro sulle truffe commesse da “rispettabilissimi” imprenditori italiani e intermediari - tra consulenti, commercialisti, professionisti - per aggirare il decreto Flussi. Due volte vittime - Non si tratta però soltanto di un sistema di sfruttamento dell’immigrazione clandestina, come dicono i reati contestati agli indagati e le leggi italiane. Si tratta di una disfunzione istituzionale. Lo spiega bene il lavoro di Papia Aktar, operatrice legale e mediatrice negli Sportelli sociali di Arci Roma frequentati ogni giorno da decine di cittadini stranieri che sono due volte vittime: ingannati dagli intermediari, e non riconosciuti come meritevoli di permesso di soggiorno, nonostante siano entrati in maniera regolare. “Questo accade anche perché le nostre autorità rilasciano il nulla osta, e tutti i documenti relativi al decreto Flussi, solo in italiano così da risultare incomprensibili alla stragrande maggioranza dei nuovi arrivati. È questo il punto”. Spiega Aktar a Domani: “C’è una domanda da cui partire per affermare che il meccanismo produce queste distorsioni. La maggior parte delle persone che arrivano dall’Asia con i flussi, si trovano nei paesi di origine. E io mi chiedo: chi mette in contatto per primo un imprenditore anonimo di una provincia italiana con un ragazzo della comunità del Bangladesh o dell’India, per esempio? Come fa ad avere il suo passaporto per presentare la domanda?”. Secondo Aktar, “è ovvio che c’è di mezzo un’intermediazione, che sia anche familiare, in qualche modo anche filantropica, però, la procedura prevede alla base sempre una mediazione. Serve qualcuno che dica al datore di lavoro: chiama mio cugino, mio fratello, oppure chiama questa persona, a volte a fronte di un corrispettivo in denaro, le casistiche sono tantissime”. Continua l’operatrice: “il problema è a monte, perché non esiste una lista pubblica di lavoratori che si possono iscrivere nei paesi di origine sulla base delle loro competenze e formazione. Il datore di lavoro chiama una persona a discrezione che, in alcuni casi, può essere già presente nel nostro paese da irregolare, per esempio. In questo modo, la persona deve prima partire, per poi ritornare con la speranza certificata di un permesso di soggiorno e un lavoro regolare, ottenuta con un doppio nulla osta dal ministero dell’interno italiano e dall’ambasciata del suo paese di origine. Arrivando a pagare anche 15.000 euro, a diversi intermediatori, per questo”, conclude la donna. Finta sanatoria - Domani ha incontrato in diverse città italiane persone di varie nazionalità che sono entrate regolarmente in Italia ma che non vengono riconosciute come tali dalle questure, perché una volta entrate, il loro datore di lavoro è sparito e non rintracciabile, perché le domande venivano presentate per truffare l’Inps o soltanto per far entrare lavoratori e lavoratrici dietro compenso, come nel caso di Lecce. Sono persone straniere doppiamente vittime, oggi costrette a trovare così impiego per qualche euro l’ora nelle fabbriche tessili della Campania, nelle campagne pugliesi, o in quelle del basso Lazio, per ripagare così il debito contratto con i loro villaggi e città di origine. “Sia i datori di lavoro onesti che vogliono agire rispettando la legge, che i cittadini stranieri che vogliono far entrare in sicurezza i loro familiari in Italia, risultano i più danneggiati dal decreto Flussi”, racconta Giorgia Giordani, operatrice legale in un centro di assistenza fiscale in provincia di Roma. Giordani segue da circa dieci anni questo tipo di pratiche, e spiega a Domani: “si tratta da una parte di una finta sanatoria, cioè di una regolarizzazione mascherata, dall’altra, di un meccanismo che permette di assumere persone con un salario basso, per sfruttarle. Questo è particolarmente evidente da quando hanno aperto le quote per il lavoro domestico, settore dove è ancora più semplice certificare i requisiti del datore di lavoro. Per il resto, in questa zona, riscontriamo, in particolare, aziende edili che hanno in pancia lavoratori in nero di nazionalità albanese e macedone, che usano il decreto Flussi per regolarizzarli. Nella migliore delle ipotesi”, conclude Giordani. Ungheria. La fretta del Colle nel rimettere le cose al loro posto di Kaspar Hauser Il Manifesto, 31 marzo 2024 La tempestività con cui il presidente della Repubblica ha voluto rispondere all’appello di Roberto Salis, addirittura meno di 24 ore, dice molto su diversi aspetti della vicenda di Ilaria, la concittadina detenuta in Ungheria in attesa di giudizio in condizioni al di fuori degli standard europei. Ma induce anche una riflessione su tema più generale dei rapporti tra il governo e il Capo dello Stato e sulla riforma del premierato che stravolgerebbe gli attuali assetti. Venerdì pomeriggio, dopo la provocatoria udienza a Budapest, il padre aveva annunciato l’invio di un appello a Sergio Mattarella chiedendogli di “smuovere il governo italiano perché non aveva fatto quello che doveva fare”. La telefonata del presidente della Repubblica è arrivata ieri mattina, praticamente subito, e già questo è un modo per condividere l’affermazione di Roberto Salis che il governo Meloni “non ha fatto quello che doveva fare”. A corroborare tale interpretazione c’è il fatto che lo stesso Mattarella ha autorizzato il suo interlocutore a diffondere la notizia della sua telefonata. Come qualche giorno fa, il 26 marzo, aveva autorizzato la vicepreside del liceo di Pioltello, professoressa Maria Rendani, a rendere pubblica la sua lettera di “apprezzamento” per il lavoro svolto dai docenti di quell’istituto scolastico, finito nel mirino del ministro Valditara. Evidentemente il presidente della Repubblica ritiene importante controbilanciare con i propri interventi gli atti del governo quando risultano essere divisivi dell’opinione pubblica del Paese, come appunto l’attacco ai docenti di Pioltello per una scelta inclusiva verso le famiglie con una fede diversa da quella della maggioranza dei cittadini, o come l’inazione dell’esecutivo nei confronti di Ilaria Salis. La divisività di questa inazione è stata esplicitata da Mattarella nella telefonata, allorché ha parlato di una “disparità di trattamento tra due cittadini italiani, disparità che colpisce l’opinione pubblica”. La prima disparità a cui si sono riferiti Roberto Salis e Mattarella è quella tra Ilaria e Gabriele Marchesi (non estradato in Ungheria della magistratura italiana, proprio per le condizioni detentive a cui andrebbe incontro se fosse trasferito a Budapest). Ma ve ne è una seconda implicita, vale a dire quella tra Ilaria e Chico Forti, l’italiano condannato negli Usa e in carcere da 24 anni, per il quale l’attivismo di Giorgia Meloni è stato teatrale. Volutamente teatrale, al punto da rendere macroscopica l’inerzia per Ilaria. E sapere che un cittadino italiano è protetto dal governo pro-tempore a seconda delle proprie idee politiche è senz’altro una “disparità che colpisce l’opinione pubblica”. Mattarella nella telefonata di ieri mattina a Roberto Salis ha detto che “farà quanto è nelle sue possibilità, che non sono ampie sul piano operativo e passano attraverso il governo”. Un modo non tanto per mettere le mani avanti rispetto ad un eventuale fallimento dei propri interventi, bensì per sottolineare che invece il governo “le possibilità operative” in favore di Ilaria le ha, ma non vi è ricorso. La telefonata di ieri e la lettera alla vicepreside di Pioltello, evoca una celebre frase con cui il 22 dicembre 1947, in Assemblea Costituente, Meuccio Ruini - illustrando il lavoro della Commissione dei 75 - definì la figura e il ruolo del presidente della Repubblica nell’architettura della Costituzione: “Il grande moderatore e regolatore dei poteri dello Stato, il capo spirituale più che materiale della vita comune”. Parole che il giurista Mattarella bene conosce e interpreta dal Quirinale. La domanda dunque è: atti divisivi del governo fanno avanzare o arretrare una società già divisa? La telefonata di Mattarella serve dunque non solo a sollecitare il governo ad attivarsi, ma anche a tenere unita una società almeno sui fondamentali della nostra Carta, come appunto la parità di diritti, l’inclusività. E la seconda domanda è: ci vuole molto a capire che è un azzardo approvare la riforma del premierato che introduce un ulteriore elemento divisivo - appunto l’elezione diretta di un Capo che sarà di una sola parte - e che la nostra Repubblica non avrà più un “grande moderatore” e “un capo spirituale” in grado di tenere unito il Paese? Più che un azzardo è una follia. “Su Salis l’Italia non può dare lezioni all’Ungheria”, dice il segretario del Partito Radicale di Ermes Antonucci Il Foglio, 31 marzo 2024 “Il caso Salis? Considerate le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia c’è poco da fare i maestrini nei confronti dell’Ungheria, sia per quanto riguarda l’esibizione degli imputati in tribunale, sia sul trattamento in carcere”. Lo dichiara al Foglio Maurizio Turco, segretario del Partito radicale. “Ovviamente non posso che unirmi alla condanna unanime del modo con cui Ilaria Salis è stata esibita al tribunale di Budapest, con le manette e la catena alla cintura - dice Turco -. Ma i detenuti italiani potrebbero raccontarne tante, per esempio su come vengono tenuti nei gabbiotti nei tribunali o su come avvengono le traduzioni da un carcere all’altro: con furgoncini dove all’interno ci sono delle gabbie in cui i detenuti vengono tenuti in manette per ore di viaggio”. “È peraltro noto che in Ungheria il detenuto viene solitamente portato in aula in quelle condizioni, tant’è che questo trattamento è stato già segnalato dal Comitato prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa”, aggiunge. “Il problema - spiega Turco - è che noi come stato non siamo in grado di andare alla Cedu a condannare questo trattamento, perché ci verrebbe rinfacciato il trattamento che noi stessi riserviamo a chi è recluso”. Anche per quanto riguarda le condizioni delle carceri, purtroppo, l’Italia non è nella posizione di dare lezioni. Come evidenziato ieri su queste pagine, le condanne della Cedu e le statistiche del Consiglio d’Europa dimostrano come le carceri italiane siano più incivili di quelle ungheresi in termini di sovraffollamento, tasso di suicidi e condizioni di detenzione. “Tra il sistema penitenziario italiano e quello ungherese ci sono poche differenze, le definirei inezie”, dice Turco. “Non a caso entrambi i sistemi sono stati condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ciò che contestiamo all’Ungheria sulle carceri, quindi, è ciò che la Cedu contesta anche a noi”. Cosa diversa, invece, spiega il segretario del Partito radicale, è il processo a carico di Salis, accusata di aver aggredito due militanti di destra. “Messa da parte la giusta condanna dell’esibizione di Salis in tribunale, dal punto di vista processuale abbiamo qualcosa da contestare all’Ungheria? Non mi sembra”, dice Turco. “Lei si è proclamata innocente, ma nessuno conosce le carte dell’inchiesta, salvo forse il suo avvocato difensore”, prosegue. “Il governo ora viene criticato per non aver raggiunto l’obiettivo. Ma l’obiettivo quale dovrebbe essere? Lo stato italiano dovrebbe semplicemente chiedere che sul piano processuale vengano rispettate le regole dello stato di diritto”. Che poi, a dirla tutta, “anche sul funzionamento della giustizia abbiamo ben poco di cui vantarci rispetto all’Ungheria. Il caso di Beniamino Zuncheddu ce lo dimostra: 32 anni in carcere da innocente. Se avessimo avuto la pena di morte ora lui non sarebbe qui”, afferma Turco. Intanto, dopo aver ignorato per anni la situazione delle carceri italiane, una nutrita delegazione di rappresentanti dei partiti di opposizione si è recata giovedì al tribunale di Budapest per esprimere vicinanza a Salis. Non solo, la segretaria del Pd Elly Schlein starebbe valutando l’idea di candidare Salis alle elezioni europee, un po’ come fecero proprio i radicali con Enzo Tortora. “Sono situazioni imparagonabili. Comunque il Pd facesse quello che vuole. Ma nel caso in cui Salis venisse eletta, come farebbe a raggiungere Bruxelles? Si rischia di indurire ancora di più la posizione del governo ungherese”, dice Turco. Che poi lancia una provocazione a Schlein, che in passato ha ricordato la figura di suo nonno materno (Agostino Viviani, senatore per il Partito socialista negli anni settanta): “Il nonno di Schlein fu il primo parlamentare italiano a depositare una proposta di legge per la responsabilità civile dei magistrati e il Partito socialista non lo candidò più. Se lei vuole portare avanti le battaglie di suo nonno noi ci siamo”, conclude il segretario del Partito radicale. Ungheria. La sinistra tratta i giudici di Budapest come mai si sognerebbe di fare in Italia di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 31 marzo 2024 Mentre discutiamo della situazione di Ilaria Salis, militante italiana di sinistra arrestata a Budapest in possesso di un manganello e sospettata di averlo usato in due occasioni contro avversari politici, proviamo per un attimo a rovesciare la situazione. Immaginiamo che una militante ungherese di destra, con precedenti penali nel suo paese soprattutto per manifestazioni violente e resistenza a pubblico ufficiale, sia venuta in Italia. E che qui sia stata arrestata per aver partecipato a una sorta di spedizione punitiva per randellare militanti politici di sinistra, alcuni dei quali saranno feriti. E che nella sua borsa sia stato trovato un bastone del tipo di quelli usati per le aggressioni. La ragazza ungherese sconta tredici mesi di custodia cautelare in una prigione italiana. Cioè in uno di quei luoghi il cui sovraffollamento è oggi valutato al 119 per cento e per il quale, con percentuali simili, l’Italia è stata condannata in passato dalla Cedu, la Commissione europea per i diritti dell’uomo. Quando inizia il processo la ragazza ungherese lamenta le difficili condizioni della propria detenzione. E ha pienamente ragione, dal momento che l’Italia, in misura maggiore rispetto al suo Paese, l’Ungheria, detiene umilianti primati di condanne in Europa non solo per le condizioni delle proprie carceri, ma anche per l’amministrazione della giustizia in genere. Inoltre, l’imputata viene portata nell’aula del tribunale italiano in ceppi e catene, e giustamente nel paese del presidente Orban sale un movimento di protesta. Tanto che all’udienza successiva nell’aula dove si celebra il processo, arrivano diversi parlamentari ungheresi, i quali dichiarano che l’Italia non è un Paese democratico. E fino a qui ci siamo. Ma immaginate che cosa sarebbe successo in Italia se la protesta si fosse spinta oltre. E cioè se avesse coinvolto anche il giudice, che è indipendente e terzo rispetto alle parti, e soprattutto rispetto al governo, nel momento in cui ha respinto la richiesta di trasformare la detenzione in carcere in arresto domiciliare. E ha motivato il provvedimento sulla base dei precedenti penali dell’imputata e sul suo comportamento che, secondo il magistrato, la rende pericolosa e propensa, una volta fuori dal carcere, a rendersi latitante, cioè a scappare. Immaginiamo che a quel punto la delegazione dei parlamentari ungheresi, guidata da un famoso vignettista, avesse alzato il tono della protesta. Fino a scagliarsi contro il proprio presidente Orban, reo di non aver fatto sufficiente pressione sul governo Meloni perché costringa quel giudice indipendente a concedere l’arresto domiciliare per la ragazza ungherese. E immaginiamo l’effetto in Europa se la leader di un partito di destra ungherese avesse deciso di portare a Bruxelles e Strasburgo come propria rappresentante politica quella ragazza presunta randellatrice di avversari politici di sinistra. Sottraendola in questo modo al giudizio di un tribunale. Che cosa penserebbero di tutto ciò Elly Schlein e soprattutto il sindacato delle toghe che tanto ha a cuore l’autonomia e l’indipendenza della magistratura? Penserebbero che in Ungheria c’è un regime totalitario che vuol sottoporre la magistratura ai diktat del governo. E anche che gli ungheresi sono una banda di fascisti e che trattano questioni serie come il processo e la detenzione, ma anche le elezioni europee, con grande superficialità. Resta la tristezza di veder mettere in ombra, alla fine, la vera, unica questione su cui non si può transigere, cioè il rispetto della persona. Nessuno deve comparire in un’aula di tribunale con manette, catene e guinzaglio. Né in Italia, come è stato in passato e in qualche caso anche oggi, né in nessun altro Paese dell’occidente democratico. Questo è il vero problema politico, su cui è giusto interrogare i governi e le loro strutture amministrative, lasciando perdere le velleità di candidature elettorali di soggetti improbabili. Convivere in Medio Oriente: la lezione di David Grossman di Maurizio Molinari La Repubblica, 31 marzo 2024 Includere i palestinesi negli Accordi di Abramo è un’idea tanto semplice quanto rivoluzionaria. Incontrare David Grossman a quasi sei mesi dall’attacco del 7 ottobre significa ascoltare una voce di Israele che guarda oltre la feroce guerra in corso contro Hamas per tentare di esplorare un nuovo, coraggioso, percorso di pace con i palestinesi. Lo scrittore israeliano, in Italia per l’uscita del suo ultimo libro La pace è l’unica strada (Mondadori), è uno dei volti di spicco del “campo della pace” nel suo Paese, ed è stato uno degli intellettuali più in vista nel movimento di protesta popolare contro la riforma della Giustizia proposta dal premier Benjamin Netanyahu ed ora, davanti ad una guerra che mette in pericolo l’esistenza dello Stato ebraico e ad un bilancio di vittime civili palestinesi così alto nella Striscia di Gaza, vede per Israele il bisogno di unirsi dietro una mossa, un’iniziativa, una decisione capace di rilanciare la sfida della convivenza in Medio Oriente. “Se fossi un consigliere del premier Netanyahu - mi dice, durante un incontro in redazione - gli suggerirei di includere i palestinesi negli Accordi di Abramo”. È un’idea tanto semplice quanto rivoluzionaria. Semplice perché gli Accordi di Abramo - siglati nel 2020 da Israele con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan - sono potenzialmente aperti ad ogni Stato e popolo arabo, hanno come base il riconoscimento reciproco e la volontà di costruire un Medio Oriente in pace, prosperità e sicurezza. Dunque, costituiscono l’estensione regionale delle intese di pace siglate da Israele con Egitto (1979) e Giordania (1994), ed è naturale identificarvi la cornice possibile di una soluzione permanente del conflitto israelo-palestinese, come naturale proseguimento degli accordi di Oslo del 1993 fra Yitzhak Rabin, Shimon Peres e Yasser Arafat che portarono alla creazione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Ma c’è anche un elemento rivoluzionario nell’idea di Grossman: tornare ad offrire in maniera drammatica e immediata l’orizzonte della convivenza fra due popoli e due Stati che il pogrom di Hamas del 7 ottobre ha voluto annientare e che la guerra in corso nella Striscia di Gaza sembra allontanare indefinitamente nel tempo. È la stessa impronta rivoluzionaria che distingueva le origini del movimento sionista quando, a fine Ottocento, si propose di rispondere all’antisemitismo dominante in Europa con la creazione di un focolaio ebraico nell’antica Terra di Israele al fine di coesistere con le popolazioni arabe, musulmani e cristiani, che vi si erano insediate durante i duemila anni di Diaspora. Ed è lo stesso motivo per cui David Ben Gurion, primo premier di Israele, accettò senza esitazioni la risoluzione dell’Onu che il 29 novembre del 1947 decretò la nascita di Israele a fianco di uno Stato arabo nell’ex Palestina mandataria britannica. Tentando poi di convincere gli arabi che vivevano nei territori assegnati ad Israele di restare nelle loro case, rigettando gli appelli degli Stati arabi dell’epoca che invece gli chiedevano di andare via per facilitare la liquidazione degli ebrei. L’idea di Grossman ha le radici nella convinzione del sionismo delle origini sulla necessità di convivere con gli arabi, punta a rivitalizzare gli accordi di Oslo sul riconoscimento reciproco e coglie l’occasione degli Accordi di Abramo che restano la cornice più solida per una convivenza regionale. E ancora: quando Grossman suggerisce l’adesione dei palestinesi agli Accordi di Abramo si riferisce all’Anp ovvero all’importanza che il percorso verso lo Stato nazionale resti nelle mani di Fatah e Olp, eredi della scelta fatta ad Oslo da Arafat, senza cadere preda dei jihadisti di Hamas, il cui obiettivo è realizzare uno Stato islamico cancellando dalla carta geografica tanto Israele quanto la società palestinese laica e moderna che ognuno può toccare con mano passeggiando per Ramallah. A prima vista le parole di Grossman sembrano distanti anni luce dalle brutali cronache di guerra quotidiana del Medio Oriente ma la Storia ci insegna che è una regione dove l’impossibile può diventare improvvisamente realtà. Nessuno avrebbe mai immaginato la sigla della pace di Camp David fra Egitto ed Israele appena quattro anni dopo la guerra del Kippur come nessuno avrebbe ipotizzato la firma degli accordi di Oslo fra Israele e Olp solo sei anni dopo la prima Intifada. In un angolo del Pianeta dove i nemici feroci sono abituati a convivere porta a porta, il confine fra pace e guerra è talmente impercettibile da poter essere non solo distrutto ma anche costruito nello spazio di un mattino. In ultima istanza, ciò che fa la differenza è il principio con cui Shimon Peres giustificò l’intesa con Yasser Arafat, che fino al 1993 era stato il più feroce avversario di Israele: la pace si fa con i nemici. Tutto parte, dunque, dal riconoscimento reciproco del diritto all’esistenza, in pace e sicurezza. Un percorso che israeliani e palestinesi hanno iniziato ad Oslo, che Hamas vuole azzerare ma che gli Accordi di Abramo possono trasformare - con il sostegno di Usa e Ue - nella cornice della ricostruzione, anche a Gaza. Il fatto che i Paesi arabi in pace con Israele non abbiano interrotto le relazioni e che l’Arabia Saudita continui a ritenere possibile l’entrata negli Accordi di Abramo, sono due timidi segnali che consentono di pensare che Grossman possa essere ascoltato. A patto che i leader israeliani, arabi e palestinesi dimostrino di avere quello che Shimon Peres chiamava “il coraggio di osare”.